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« Risposta #75 inserito:: Settembre 08, 2010, 09:14:19 am » |
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8/9/2010 Inamovibile per liberarlo dai ricatti MICHELE AINIS L’ennesima zuffa tra i poteri dello Stato ha un antefatto più remoto del discorso pronunziato da Gianfranco Fini a Mirabello. Trae origine dalla voracità dei partiti politici italiani, il cui appetito - in questa seconda Repubblica, ancor più che nella prima - ormai supera quello di Pantagruel. E allora facciamo un esercizio storico, dato che la memoria non è precisamente la nostra qualità migliore. Ai tempi della Democrazia Cristiana, Montecitorio veniva offerto in appannaggio a un esponente dell’opposizione: vi si avvicendarono Ingrao, la Iotti (rimasta in sella 13 anni di fila, un record), Napolitano. Nel 1994, con il successo elettorale di Silvio Berlusconi, la seconda Repubblica riceve il suo battesimo, e a quel punto la nuova maggioranza occupa tutti i posti in tavola, compresa la poltrona di Montecitorio. La sinistra strepita, ma nel 1996 - quando arriva il suo momento - s’adegua volentieri: così Violante subentra alla Pivetti. E però non basta, il cibo sul piatto non è mai abbastanza. Dal 2001 in poi la presidenza della Camera entra negli accordi elettorali, tant’è che regolarmente vi s’insedia - in cambio d’uno o due ministri in meno - il leader del secondo partito della coalizione vittoriosa: Casini, poi Bertinotti e adesso Fini. Una nuova convenzione, accettata (o meglio digerita) sia a destra che a sinistra. Dice: ma Fini fa politica, si comporta da capopartito. E che, non lo sapevi quando l’hai votato? Ri-dice: ma la politica di Fini è una requisitoria contro l’operato del governo. E quale mai sarebbe la notizia? Nel dicembre 2007 Bertinotti paragonò il gabinetto Prodi a Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente»; e per sovrapprezzo aggiunse che quell’esperienza di governo era stata un fallimento. Eppure nessuno chiese la sua testa, nessuno pensò di scomodare addirittura il Quirinale, come s’accingono a fare Bossi e Berlusconi. E Napolitano? Secondo loro è il nuovo Erode, deve saziarne l’appetito offrendogli la testa di san Gianfranco decollato. Siccome non può farlo (il Capo dello Stato non gestisce le assemblee parlamentari, altrimenti andrebbe a farsi friggere la separazione dei poteri), c’è il rischio che domani qualche Salomè delusa pretenda pure la sua testa. Ecco infatti dove ci ha condotto la bulimia dei partiti: a una rissa permanente fra i vari commensali. Sarebbe stato meglio lasciare in piedi la vecchia regola non scritta, consegnando Montecitorio all’opposizione; non è andata così, e allora per venirne fuori dobbiamo chiedere soccorso alla regola scritta. È giusta la pretesa che il presidente della Camera sia allineato come un soldatino al presidente del Consiglio? No, è un fossile giuridico. Andava così nell’Ottocento, quando il primo si dimetteva contemporaneamente alla caduta del governo (Biancheri nel 1876, Farini nel 1879, e via elencando), o quando si dimetteva il presidente del Consiglio se la Camera bocciava il suo candidato (Menabrea nel 1869, De Pretis nel 1878, Zanardelli nel 1902). Ma già da Crispi in poi il presidente della Camera non vota, per marcare la propria distanza dal governo. Diventa un organo imparziale, nel quale si rispecchia l’intera assemblea. E siccome il Parlamento ha una funzione di controllo sull’esecutivo, il suo presidente finisce giocoforza per esercitarsi in un ruolo dialettico, anche a costo d’alzare un po’ la voce. Da qui le rampogne di Ingrao contro il governo Andreotti (gennaio 1977), quelle di Nilde Iotti contro il governo De Mita (marzo 1989), giù giù fino all’altro ieri. A questo punto tuttavia s’affaccia la seconda imputazione a carico del presidente Fini: non rappresenti il governo (e va bene), ma neppure più la Camera. È il capo d’accusa più insidioso, perché ne revoca in dubbio l’autorità, la legittimazione. Sennonché questo processo non si può celebrare, dato che i regolamenti parlamentari escludono la mozione di sfiducia verso il presidente d’assemblea. Lo fanno per liberarlo dai ricatti della maggioranza, per renderlo appunto indipendente, e perciò imparziale. Magari non sarà una buona regola, ma intanto abbiamo questa. Domanda: e se invece Fini fosse messo ai voti? Con l’aria che tira, per Berlusconi c’è il concreto rischio che un’altra maggioranza gli rinnovi la fiducia. Autogol. michele.ainis@uniroma3.ithttp://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7797&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #76 inserito:: Settembre 15, 2010, 08:57:36 am » |
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15/9/2010 Un compromesso per la legge elettorale MICHELE AINIS Doveva risuonare la voce d'un inglese, per raccontarci come siamo fatti noi italiani. Nell'editoriale pubblicato ieri dalla Stampa, Bill Emmott ce l'ha cantata chiara: lasciate perdere il maggioritario, dalle vostre parti non funziona. Ha generato coalizioni artificiali, governi instabili, e in conclusione zero riforme. Meglio per voi il proporzionale, anzi un proporzionale perfetto, all'irlandese. Così ogni idea, ogni opinione, ogni cultura potrà specchiarsi in Parlamento. Senza nessuna camicia di gesso, che tanto va poi regolarmente in pezzi al primo starnuto. La diagnosi di Emmott riecheggia una lezione che fu di Montesquieu: sono le leggi che devono adattarsi agli uomini, non gli uomini alle leggi. Sicché nessun vestito normativo è buono in assoluto, dipende dalla taglia del popolo che dovrà indossarlo. Anzi: secondo Montesquieu dipende anche dal clima, dal territorio, e naturalmente dalla storia. La nostra storia racconta un'Italia dei Comuni mai del tutto tramontata, tant'è che ne sopravvivono 8 mila, ciascuno rivale dell'altro. Ma se è per questo, sopravvive inoltre una congerie di corporazioni, lobby, sindacati, ordini professionali. E naturalmente di partiti, dentro e fuori il Parlamento. Noi italiani siamo così, 60 milioni di commissari tecnici, ciascuno con la sua formazione in testa per la nazionale di pallone. Potremmo mai intonare un'unica canzone quando discutiamo di politica? Potremmo mai filare d'accordo, sia pure per lo spazio d'una legislatura? No, e infatti Bobbio disse una volta che la nostra storia costituzionale si è snodata attraverso un'altalena di crisi di governo (spesso molto lunghe) e di governi in crisi (spesso molto brevi). La sola novità che la seconda Repubblica ci ha recato in dote è la sostituzione della crisi con un eterno stato di pre-crisi, ma il rantolo è lo stesso. Però se la premessa è esatta, sulla conseguenza che ne trae Bill Emmott va depositata un'opinione dissenziente. Non perché il bipolarismo sia diventato la nostra legge di natura; questo vincolo funziona esclusivamente nella geografia terrestre, dove un polo di centro non esiste, esistono soltanto il Polo Nord e il Polo Sud. Viceversa nella politica italiana il terzo polo prese forma già in Assemblea costituente (dove oltre ai cattolici e ai marxisti operò una pattuglia quanto mai agguerrita d'orientamento liberale), e in seguito ha sempre continuato a manifestarsi in varia guisa. Evidentemente la scelta binaria ci sta stretta, di fidanzate ne vogliamo almeno tre. Quanto al bipartitismo, poi, non ne parliamo; o meglio ne parlano soltanto i Radicali, che tuttavia non hanno mai accettato di diluire la propria identità in una formazione politica più vasta. Ma davvero tutto ciò significa che per salvarci dovremmo scimmiottare le istituzioni dell'Irlanda? A parte le difficoltà di comprensione (lì il presidente si chiama Uachtarán na hÉireann), a parte il fatto che da quelle parti il capo del governo nomina 11 senatori su 60 (vabbè, tutto sommato funziona così pure in Italia), a parte che fin qui eravamo stati noi a offrire sangue italiano agli irlandesi (quello di Trapattoni), sta di fatto che il loro sistema elettorale rischia d'aumentare i nostri guai, anziché diminuirli. Tranquilli, non entro in tecnicismi: metodo Hare (peraltro non troppo diverso dal metodo d'Hondt con cui nella prima Repubblica venivano assegnati i seggi del Senato), formula a voto singolo trasferibile (tu voti per me, dopo di che se io ho già fatto il pieno elettorale il tuo voto lo acchiappa il mio rivale), e via elencando. Ma il punto è che un proporzionale esasperato - sia pure con una soglia minima per far scattare il seggio - finirebbe per frazionarci ulteriormente, mettendo a nudo tutti i nostri vizi. No, non è questa la terapia di cui abbiamo bisogno. Non cresceremo d'una spanna passando dal bipolarismo coatto alla disgregazione forzata. Meglio per noi i sistemi misti, com'era il Mattarellum: tre quarti di maggioritario, un quarto di proporzionale. E se il Porcellum, con il suo premio di maggioranza esorbitante, ha alimentato un bipolarismo falso e muscolare, formulo a mia volta una proposta: correggiamo il maggioritario con un premio di minoranza. Per com’è messa l'opposizione di sinistra, sarebbe un'opera di carità. michele.ainis@uniroma3.ithttp://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7834&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #77 inserito:: Settembre 29, 2010, 11:22:10 am » |
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Ma l'onorevole favella ancora? di Michele Ainis Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2010 alle ore 09:27. L'ultima modifica è del 29 settembre 2010 alle ore 09:30. Oggi il Parlamento torna sotto i riflettori. È infatti a quelle aule, al doppio emiciclo di Montecitorio e di palazzo Madama, che Berlusconi chiederà un'iniezione di fiducia, dopo un'estate di coltelli e di veleni. Dovremmo esserne lieti, non foss'altro perché alla maldicenza può sostituirsi finalmente la politica. E perché inoltre s'apre l'occasione per un dibattito ad alta voce fra i vari congiurati. Di sussurri ne abbiamo ascoltati già abbastanza. Ora servono impegni, decisioni. Servono scelte liberamente dichiarate da ciascun partito, da ciascun parlamentare, e dunque con un'assunzione di responsabilità diretta verso il governo e gli elettori. Sarà così? È giusto dubitarne. Se il tuo scranno nel Palazzo è frutto d'una nomina anziché di un voto, se la cooptazione ha rimpiazzato l'elezione, se insomma il tuo destino dipende per intero dalla sovrana volontà del Capo, di libertà in tasca te ne rimane poca. Puoi solo scegliere fra l'obbedienza e il tradimento, fra il Capo vecchio e quello nuovo. E i cittadini rimarranno al buio, anche se per un giorno le due Camere accendono le luci. Eppure il Parlamento dovrebbe somigliare a un teatro in cui gli attori recitano a soggetto. Dovrebbe essere inoltre il nostro specchio collettivo, se resta ancora attuale la lezione di Walter Bagehot, direttore dell'Economist ai tempi della regina Vittoria. La prima funzione delle assemblee legislative, lui diceva, non è affatto la confezione delle leggi. Quantomeno nei regimi parlamentari (e vi rientra anche l'Italia, benché i più l'abbiano dimenticato) è ancora più importante mettere in sella o sbalzare dal cavallo gli esecutivi, che altrimenti sarebbero totalmente irresponsabili fra un'elezione e l'altra. E sono poi fondamentali la funzione "espressiva" e quella "informativa", un tempo esercitate nei riguardi del sovrano, successivamente dinanzi agli elettori, per rendere esplicita ogni opinione, ogni interesse, ogni strategia politica. Ma quale espressione batte e ribatte sulle nostre teste come un chiodo, quale parola sa pronunziare la politica? Una soltanto: "complotto". Quello ordito contro il presidente Fini per l'appartamento a Montecarlo - denunziato dagli uni, negato dagli altri - ne è certo l'esempio più vistoso e altisonante, ma niente affatto l'unico. Anzi: a quanto pare il caso Fini ha fatto scuola, giacché i complotti (veri o presunti) si moltiplicano, contagiano ogni ganglio della società italiana. Nelle banche: non è forse a causa d'un complotto che Alessandro Profumo è stato cacciato da UniCredit? In magistratura, dato che ai primi del mese la procura di Salerno ha ribadito l'esistenza d'un complotto per sottrarre all'allora pubblico ministero de Magistris le sue inchieste. Nelle amministrazioni locali, dove magari nessuno tira in ballo i servizi segreti, però un complotto degli avversari o dei compagni di partito sì: il coordinatore Pdl ad Altamura (Bari), il sindaco di Malnate (Varese) nei riguardi della Lega, la Destra alla provincia di Agrigento, e via elencando. C'è da meravigliarsi allora se il complotto è diventato un gioco online ( www.ilcomplottoforum.com)? Se ne rimane vittima il pontefice (nella vicenda del presunto complotto londinese) al pari del vicino di casa? No, l'aria che tira è questa: un'aria torbida, un clima di congiure e di sospetti. E la politica ne è la prima artefice, non foss'altro perché ogni esempio scivola dall'alto, perché le oligarchie politiche sono la prima classe dirigente, e perché loro malgrado esercitano una funzione pedagogica sul popolo votante. O meglio diseducativa, dovremmo dire in base alla nostra esperienza collettiva. Tanto più quando in parallelo, dietro le quinte di Montecitorio, i deputati vanno all'asta come orologi da collezione: un pezzo di Udc a rinforzo del governo, forse anche una costola dell'Mpa, Catone dal Pdl a Fli, Sbai da Fli al Pdl. La democrazia - diceva Bobbio - è il potere del pubblico in pubblico. Siccome il potere s'esercita viceversa nelle più segrete stanze, siccome in Italia il pubblico è costretto a osservare lo spettacolo sbirciando dal buco della serratura, siccome la trama viene regolarmente oscurata dalle trame, la conclusione parrebbe a rime obbligate: il sistema democratico è ormai quasi del tutto evaporato, è un ricordo del bel tempo andato. Anche se di quel sistema sopravvive l'epicentro, il luogo della rappresentanza popolare. Ma oggi sapremo se il Parlamento sa ancora parlare. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-09-29/onorevole-favella-ancora-080717.shtml?uuid=AY7n3jUC
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« Risposta #78 inserito:: Ottobre 04, 2010, 12:16:15 pm » |
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Tassa occulta sui cittadini e sulle imprese di Michele Ainis Questo articolo è stato pubblicato il 04 ottobre 2010 alle ore 09:44. Che la giustizia italiana sia un grosso lumacone lo sapevamo già. Però la fotografia scattata dal ministero di via Arenula, che il Sole 24 Ore offre in anteprima, ci aiuta a entrare meglio in confidenza con la bestia. Perché i dati sono progressivi, nel senso che registrano l'andamento dei processi durante il biennio 2006-2008. Perché sono altresì parcellizzati, enumerando le singole materie sulle quali verte il contenzioso. Perché misurano la durata effettiva, anziché quella presunta, dei giudizi definiti con sentenza. E perché infine si riferiscono alle cause civili, che più direttamente toccano la generalità degli italiani. Da questi dati emerge innanzitutto una pessima notizia: salvo i procedimenti decisi in tribunale, in tutti gli altri casi il tempo del giudizio si dilata, cresce di anno in anno. Del 13,4% in corte d'appello, del 15,1% dinanzi ai giudici di pace, mentre in Cassazione la stima s'attesta al 3,7%, 41 giorni in più. Insomma la lentezza dei processi si autoalimenta, come una valanga rotolando a valle. Tempi più lunghi, arretrato più cospicuo, e l'arretrato genera ulteriori allungamenti temporali. Un po' come succede riguardo all'inflazione normativa, di cui d'altronde è figlio il lumacone. Tu cerchi una legge per risolvere il problema di giornata, come cercheresti una cravatta in un armadio stipato alla rinfusa; ma ovviamente non la trovi, e allora corri ad acquistarne un'altra, facendo crescere il disordine anziché diminuirlo. In secondo luogo, piove sul bagnato. E a bagnarsi fino al midollo sono i più deboli, chi non ha un ombrello per ripararsi il capo. I distretti giudiziari più virtuosi stanno tutti al nord, l'inefficienza ha le sue capitali al sud. Dai 2 anni che impiega il tribunale di Torino ai 4 anni che ci mette quello di Messina c'è una misura doppia, così come è doppio il reddito dei torinesi rispetto ai messinesi. Significa che la questione meridionale si rispecchia nella questione giudiziaria. Ma significa altresì che la promessa d'eguaglianza custodita nella Costituzione è diventata carta straccia. Come la promessa dei diritti, dal momento che se un diritto esiste, dev'essere azionabile in giudizio; altrimenti è una chiacchiera, un imbroglio. D'altra parte anche la ragionevole durata del processo – sancita da un emendamento costituzionale nel 1999 – è un'illusione ottica, giacché dal 2000 in poi i tempi processuali sono lievitati ulteriormente. Una tripla ferita alla legalità costituzionale, anzi alla legalità tout court: come potremmo prendere sul serio il codice stradale, quando la legge più alta è una favola cui non credono più neanche i bambini? In terzo luogo, il lumacone frena l'economia italiana. Ne è prova il dato relativo ai fallimenti: 9 anni, con una performance peggiorativa fra il 2006 e il 2008. È il tempo più lungo che si trascorre in tribunale, il quintuplo rispetto a un divorzio o a una separazione giudiziale. Chi ci rimette? Tutti, ma ancora una volta specie i più deboli fra i consumatori, perché le nostre imprese devono sopportare un costo aggiuntivo, e perché quest'ultimo si scarica sulle merci che acquistiamo. Un'Iva giudiziaria, chiamiamola così. Misurare la temperatura del malato è indispensabile per procedere alla diagnosi. Poi, però, bisogna interrogarsi sulle cause da cui deriva l'infezione. La più grave muove da un eccesso, non da un difetto di risorse (secondo il rapporto Cepej spendiamo 4,08 miliardi di euro per la giustizia, contro i 3,35 della Francia e i 2,98 della Spagna). E infatti abbiamo in circolo troppi uffici, dato che le 1.292 sedi giudiziarie sono il doppio di quelle inglesi. Troppi avvocati (236mila), con la conseguenza che a Roma lavorano più studi legali dell'intera Francia. Troppe leggi (nel 2009 la commissione Pajno ne ha contate 21.691, che raddoppiano sommandovi quelle regionali, senza dire dei 70mila regolamenti). E in conclusione troppe liti, giacché i soli bisticci giudiziari fra condomini sono 800mila l'anno. Tuttavia se non riusciamo a far dimagrire il lumacone, possiamo almeno liberare dagli intralci il suo cammino. Anzi: abbiamo già cominciato a farlo attraverso l'Adr (Alternative dispute resolution), in uso ormai da lungo tempo negli Stati Uniti, dove il patteggiamento è la regola e il processo l'eccezione. Quanto all'Italia, meglio tardi che mai. Con la legge 69/2009 e il decreto 28/2010 la mediazione civile ha trovato spazio nel nostro ordinamento. Significa che dal marzo 2011 le cause nate fra le mura condominiali, al pari di quelle fra automobilisti, eredi, locatari e via elencando, passano attraverso la conciliazione obbligatoria. Funzionerà? Il rischio è che la litigiosità degli italiani intasi gli stessi organismi di conciliazione. Ma almeno in questo caso, non servirà troppo tempo per scoprirlo. michele.ainis@uniroma3.it©RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-10-04/tassa-occulta-cittadini-imprese-094409.shtml?uuid=AYALoZWC
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« Risposta #79 inserito:: Ottobre 05, 2010, 12:35:56 pm » |
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5/10/2010 Senza libertà di insegnare non c'è scuola MICHELE AINIS Oggi cade la Giornata mondiale dell'insegnante, istituita dall’Unesco nel 1994. Una buona occasione per riflettere sul destino della scuola, tanto più alla vigilia del federalismo scolastico, annunciato dalla Bozza di Accordo fra governo, regioni e enti locali del 29 luglio scorso. Ma sta di fatto che i mali della scuola sono gli stessi della società italiana. Uno su tutti: l'eccesso di diritto. E infatti consultando la banca dati del Parlamento s'incrociano 112 provvedimenti legislativi in materia d'istruzione, con una media di 8 nuove leggi l'anno. Questo fiume normativo non scorre senza conseguenze sul nostro vissuto collettivo: genera un effetto di disorientamento, se non di smarrimento, che ha preso alla gola la comunità scolastica al pari di tutta la comunità italiana. Siamo talmente immersi nell'ansia di governare l'ultima riforma, che non sappiamo più nemmeno cosa abbiamo riformato. E allora, prima d'interrogarci sul federalismo prossimo venturo, è bene partire dalle categorie fondamentali, per mettere un po' d'ordine, per aggrapparci a qualche punto saldo. O il federalismo scolastico saprà valorizzare i fondamenti della nostra convivenza, oppure sarà come un palazzo costruito su una strada ingombra di macerie. Macerie civili, non solo macerie normative. Queste categorie fondamentali si conservano nella Carta del 1947, che a sua volta esprime una doppia istanza di libertà nei riguardi del sistema scolastico: libertà nella scuola, libertà della scuola. La prima significa libertà d'insegnamento, le cui radici affondano nella libertà di parola garantita a tutti i cittadini. Con una doppia differenza, tuttavia, che a sua volta deriva dalla funzione pubblica che accompagna questa libertà. In primo luogo, la libertà d'insegnare non può contemplare la libertà di non insegnare: siamo sempre liberi di parlare o di tacere, ma il docente muto sarebbe una contraddizione in carne ed ossa. In secondo luogo, quando la libertà di parola si pone al servizio d'una funzione pedagogica, va sempre preservata l'auctoritas del parlante, ovvero del docente. Se il suo ruolo viene svilito, neppure uno studente crederà alle sue parole. E allora qui viene in campo la specifica dignità degli insegnanti. Questo significa una procedura di selezione ispirata a criteri d'imparzialità tecnica; e significa inoltre uno stato giuridico e un trattamento retributivo che gli permettano un'esistenza libera e dignitosa. Quanto alla libertà della scuola, entra in gioco l'autonomia delle istituzioni scolastiche, e dunque la norma costituzionale che affida alla Repubblica il compito di dettare le norme generali sull'istruzione, fissando regole sia per le scuole pubbliche che per quelle private. In questa omogeneità di trattamento si riflette il principio d'eguaglianza, che d'altronde la nostra Carta ribadisce affermando che «la scuola è aperta a tutti». In altre parole, la libertà delle istituzioni scolastiche s'arresta quando può tradursi in un fattore di diseguaglianza: è una libertà eguale, se così possiamo dire. Eccolo allora il metro di misura del federalismo scolastico, di cui stiamo ricevendo le prime avvisaglie in questi mesi. O il federalismo saprà rispettare la libertà degli insegnanti, insieme all'eguaglianza dei discenti, o altrimenti entrerà in rotta di collisione con la Costituzione. E non soltanto con la sua Prima parte, giacché la riforma del Titolo V non ha alterato affatto il quadro dei principi che reggono le libertà scolastiche. Difatti la legge statale, e dunque l'unica fonte normativa cogente in ogni luogo del nostro territorio, da un lato ha il compito d'enunciare i principi fondamentali in materia d'istruzione, vincolando la legislazione degli enti regionali; dall'altro lato fissa le norme generali, che a differenza dei principi sono autoapplicative. Sempre allo Stato spetta infine definire i livelli essenziali del servizio scolastico, controllandone il rispetto. Che cosa implica questo riparto di funzioni? Implica l'uniformità di trattamento, implica la generalità della legge che a propria volta è ancella del principio d'eguaglianza, come si disse durante il secolo dei Lumi. Tutto l'opposto del federalismo sgangherato che ci propina a piene mani la politica. michele.ainis@uniroma3.ithttp://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7915&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #80 inserito:: Ottobre 12, 2010, 10:30:47 am » |
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12/10/2010 Ordigni di pace e di guerra MICHELE AINIS C’è un che di surreale nel modo in cui la politica italiana ha reso omaggio ai quattro alpini uccisi nel lontano Afghanistan. Il ministro della Difesa ha detto che a questo punto bisogna armare i nostri aerei con le bombe. Il suo predecessore gli ha risposto che non si può fare, è vietato dalla Costituzione. Il successore del predecessore ha controrisposto che tutto dipende dal bersaglio delle bombe. Insomma i nostri arsenali ospiterebbero bombe costituzionali e bombe incostituzionali, bombe di pace e bombe di guerra. In realtà a venire bombardata ormai da tempo è proprio la nostra vecchia Carta. Che non è affatto una Costituzione pacifista, e dunque imbelle, come costantemente si ripete; tant’è che in quel testo la parola «guerra» risuona per 6 volte (erano 7 nel documento licenziato dai costituenti), innervando altrettante disposizioni costituzionali. Per quale ragione? Perché tutta la civiltà giuridica moderna nutre l’ambizione di porre l’emergenza sotto il prisma del diritto, d’imporle procedure e regole, anche nella condizione più estrema, quando l’emergenza incendia i cannoni. E perché i nostri padri fondatori le bombe in testa le avevano sperimentate per davvero, avevano vissuto una guerra di conquista e una di resistenza all’esercito invasore, senza che il popolo italiano fosse mai stato convocato dal fascismo per esprimere la sua libera opinione. Sicché dissero: mai più. Però non adottarono la scelta pacifista della Costituzione tedesca, o quella neutralista della Costituzione giapponese, le altre due nazioni sconfitte dalle truppe alleate. Dissero mai più alle guerre d’aggressione, e così scrissero l’art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Fu approvato con due soli voti contrari in Assemblea costituente, dai cattolici e dai marxisti insieme, saldando una lezione illuminista (quella consegnata alla Costituzione francese del 1791) all’etica professata da don Sturzo (che nel febbraio 1947 definì la guerra «atto immorale, illegittimo e proibito»). E fu scritto distillando ogni parola, a partire dal «ripudio» della guerra. Non «rinuncia», come qualcuno aveva suggerito, perché possiamo rinunciare all’esercizio di un diritto, e perché la guerra non è affatto un diritto. Non «condanna», termine che esprime una valenza etica piuttosto che giuridica. Loro scelsero di ripudiare la guerra per sconfessare ogni intervento armato fuori dai nostri confini. Ma che è accaduto negli anni successivi? Nel 1949 l’Italia ha aderito al patto Nato, dal quale è scaturito un obbligo di mutua assistenza militare fra gli Stati contraenti, sul presupposto che ogni attacco armato contro uno di essi «sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti». Da qui una prima incrinatura nell’edificio costituzionale, benché lo stesso art. 11 menzioni limitazioni di sovranità in favore d’organizzazioni sovrannazionali. Ma soprattutto dagli Anni Ottanta in poi si sono moltiplicate le occasioni d’intervento militare all’estero, con o senza Nato, con o senza l’egida dell’Onu: il Libano, la Somalia, l’Iraq, la Bosnia, il Kosovo, o per l’appunto l’Afghanistan. E l’art. 11? Desaparecido. O meglio apparve come un Ufo sui cieli di Montecitorio nella primavera del 1999, durante il dibattito parlamentare che accompagnò i bombardamenti in Kosovo. Per un istante la Lega Nord e la sinistra estrema ne scoprirono difatti l’esistenza, nonché la manifesta violazione; al punto che un esponente della maggioranza - Clemente Mastella - consigliò di riformularlo per riallineare i principi costituzionali alle nuove circostanze. Ma è stato un attimo, un battito di ciglia. Prima, durante e dopo quel dibattito tutto è continuato come sempre: le guerre ormai non si dichiarano (come vorrebbe l’art. 87 della Costituzione), si fanno e basta; non si deliberano (come vorrebbe l’art. 78); e naturalmente non servono mai a difendere il nostro territorio, a prescindere dalle bombe sugli aerei. L’unico effetto dell’art. 11 è un’ipocrisia verbale, come tante altre cui ci ha abituato la politica. Niente più guerre, solo conflitti armati, o meglio ancora operazioni di polizia internazionale. D’altronde in Italia non ci sono più spazzini, solo operatori ecologici. Ma si tratta pur sempre di monnezza. michele.ainis@uniroma3.ithttp://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7945&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #81 inserito:: Ottobre 19, 2010, 11:54:47 am » |
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19/10/2010 La censura goccia a goccia MICHELE AINIS La libertà d’informazione è un bene fragile, come un’antica porcellana. Va in mille pezzi se la butti giù dal tavolo, e non c’è mastice che ti restituisca poi l’originale. Ecco perché abbiamo bisogno di tenere gli occhi aperti perfino sui dettagli. Specie quando sul dettaglio può inciampare un giornalista d’inchiesta, uno di quelli che vanno in prima linea, sotto il tiro delle artiglierie nemiche. Come Milena Gabanelli, come ahimè ben pochi altri suoi colleghi. È una forma di censura togliere alla Gabanelli la tutela legale della Rai? A prima vista no: nessuno minaccia di spegnere Report, né d’amputarne le parti più urticanti. D’altronde in Italia non c’è più il Minculpop, non c’è una propaganda di Stato come quella che il nazismo aveva affidato a Goebbels. La censura, quella tutt’oggi praticata dai regimi autoritari, è un’altra cosa; e il giornalista che la sfida sa che può rimetterci la vita. La Gabanelli, al massimo, ci rimetterà qualche quattrino. Tuttavia non esiste soltanto questa forma brutale di censura. Ce n’è una più obliqua e più indiretta, ma non meno efficace. Cade sulla propria vittima goccia a goccia, con un insieme d’azioni preordinate che hanno lo scopo di sfiancarla, oltre che d’intimidirla. Pressioni, ostacoli, ritardi burocratici, e ovviamente la leva finanziaria. L’arma perfetta, per i giornalisti non meno che per gli artisti. Due secoli più tardi, rimane infatti più che mai eloquente il verso del poeta Béranger: «Io non vivo, che per scrivere dei canti; ma se voi, Monsignore, mi togliete il posto, scriverò dei canti per vivere». Del resto nelle democrazie contemporanee l’ostracismo apertamente dichiarato può risolversi in un cattivo affare per i suoi mandanti. Finiscono per rimediarci una figura truce, mentre il censurato di turno si trasforma in martire, in eroe popolare. Guadagna tifosi, e magari trova un contratto più ricco altrove. Non è forse già successo dopo l’editto bulgaro di Silvio Berlusconi? Correva il 2002, e da Sofia il presidente del Consiglio pronunziò un diktat contro Biagi, Santoro e Luttazzi. Vennero immediatamente cancellati dai palinsesti Rai, ma dopo qualche anno (e qualche sentenza giudiziaria) i primi due ci hanno fatto ritorno passando sotto l’Arco di trionfo. Sarà per questo che nel frattempo i metodi si sono raffinati, sono diventati un po’ meno plateali. Come dimostra, per l’appunto, un rosario di episodi. La Gabanelli, cui comunque già l’anno scorso il direttore generale Masi voleva togliere il patrocinio legale della Rai, senza riuscirci per l’opposizione di Zavoli, presidente della Vigilanza. Michele Santoro: programma a lungo in bilico, poi apre ma senza i contratti di Travaglio e Vauro, che da tre puntate lavorano a titolo gratuito; e per sovrapprezzo un provvedimento disciplinare. Serena Dandini: anche lei tenuta sulla corda, tanto che fino all’ultimo l’interessata non sapeva quante puntate le toccassero. Saviano e Fazio: altro programma ballerino, benché a novembre (salvo nuove giravolte) lo vedremo in onda. Senza dire di Paolo Ruffini, il direttore di Raitre cacciato e successivamente reintegrato per mano giudiziaria. È insomma il metodo della goccia cinese, che alla fine ti lascia un buco in fronte. Ma le torture, almeno quelle, sarebbero vietate. michele.ainis@uniroma3.ithttp://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7971&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #82 inserito:: Ottobre 23, 2010, 08:47:00 am » |
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23/10/2010 Riforme a rischio ricatto MICHELE AINIS C’è una virtù che cercheremmo invano nelle parole dei politici: la franchezza. Volete uno scudo processuale per Silvio Berlusconi? E allora ditelo. Volete estenderlo alle accuse che lo inseguono per i fatti più remoti, quando il presidente del Consiglio usciva ancora con i calzoni corti? Ditelo di nuovo, ditelo guardando in faccia gli elettori. Qualcuno non sarà d’accordo, qualcun altro potrà osservare che dopotutto la serenità dei governanti è un bene costituzionale, l’ha stabilito pure la Consulta. Ma invece no, la politica preferisce strade più tortuose. Il processo breve, col rischio d’ammazzarne cento per salvarne uno, dato che alla fine della giostra le 170 mila prescrizioni che si consumano ogni anno nei nostri tribunali diventeranno il doppio. Oppure il lodo Alfano redivivo, tirando in mezzo il Capo dello Stato per non lasciare troppo solo il presidente del Consiglio. Anzi: in questo caso con una fava si possono catturare due piccioni. Domani, perché no?, Berlusconi potrebbe trasferirsi al Quirinale, e dunque non è male costruirsi un salvacondotto preventivo, non si sa mai, queste procure comuniste non hanno rispetto per nessuna istituzione. C’è un problema, però, su queste colonne ne avevamo già parlato. Ieri lo ha segnalato il presidente Napolitano in una lettera ufficiale, sicché il problema è diventato alto come un grattacielo. Si dà il caso infatti che la Carta del 1947 ospiti una sola norma sulla responsabilità penale del Capo dello Stato: l’art. 90, per i delitti di alto tradimento e d’attentato alla Costituzione. In tali fattispecie può metterlo in stato d’accusa il Parlamento, ma a maggioranza assoluta dei suoi membri, la stessa maggioranza con cui si può riscrivere la Carta costituzionale. Invece il lodo Alfano copre i reati comuni, e s’accontenta della maggioranza semplice, ossia la maggioranza di governo. Per intenderci: nel primo caso servono i finiani, nel secondo probabilmente no. Significa che Napolitano sarà più tutelato se organizza un golpe o se vende la Patria allo straniero, piuttosto che se testimonia il falso o ruba la spesa alla vecchietta. Ma significa altresì che finisce sotto lo schiaffo del governo: facile ricattarlo con l’arma dell’autorizzazione a procedere, tanto un giudice anticomunista che gli si scagli addosso prima o poi si trova. Ecco perché il Presidente ha evocato l’indipendenza che dovrebbe accompagnarsi alla sua carica, e ha puntato l’indice contro l’irragionevolezza di questa disciplina. Oltretutto nel suo caso non serve affatto la sospensione dei processi penali, dato che l’improcedibilità viene già sancita dalla prassi. Quando s’incide sui poteri dello Stato, sul loro reciproco equilibrio, bisognerebbe affrancarsi dal tornaconto di giornata. Bisognerebbe farsi carico delle conseguenze, delle reazioni, dei danni a lungo termine. Ma la lungimiranza, da queste parti, è una virtù smarrita, come la franchezza, come la buona creanza. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7991&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #83 inserito:: Novembre 16, 2010, 11:56:20 pm » |
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16/11/2010 Mezza fiducia non fa un governo MICHELE AINIS Senza i ministri di Futuro e libertà, il governo Berlusconi ormai somiglia al visconte dimezzato di Italo Calvino. Sarà per questo che cerca di tagliare il problema in due come una mela: mezza fiducia (quella del Senato), mezza crisi (magari un rimpasto può bastare), e in ultimo mezze elezioni (facendo rivotare gli italiani solo per la Camera). C’è una logica in queste mezze trovate? Ce n’è metà, e dunque non ce n’è nessuna. Primo: la mezza fiducia. Se il Senato la concede, mezzo governo è salvo. E l’altro mezzo? Affonda nel pozzo della crisi, se e quando la Camera gli vota la sfiducia. Ma c’è spazio nel nostro ordinamento per un governo dimezzato? Solo a patto di scambiare il due con l’uno. Il bicameralismo, l’esistenza di due Camere gemelle, è un po’ come il matrimonio: per sposarsi bisogna essere d’accordo in due, per divorziare basta che lo decida uno. Ecco perché se una Camera respinge un progetto di legge posto in votazione, a quel punto il procedimento s’interrompe, anche se l’altra Camera l’avrebbe approvato a spron battuto. Ed ecco perché basta un solo voto di sfiducia per far cadere la compagine ministeriale: nessun governo è mai stato sfiduciato da ambedue le assemblee parlamentari. La gara a chi voterà per prima la fiducia (o la sfiducia) al gabinetto Berlusconi cozza con la logica, o meglio con la matematica: se ho bisogno di due sì ma prevedo d’incassare un no, non ha alcun rilievo l’ordine dei voti. E comunque i precedenti (10 su 11) danno la priorità alla Camera. Secondo: il «rimpastino» come tampone della crisi, come espediente per evitare che divampi. In astratto è praticabile, e d’altronde nei suoi cinque semestri di governo Berlusconi ha già sostituito una folla di ministri, viceministri, sottosegretari. In concreto la via è tutta in salita, perché senza Fli non c’è più maggioranza. Anche se quel partito aveva un solo generale (Andrea Ronchi) tra i banchi dell’esecutivo, anche se la sua forza elettorale rimane tutta da verificare. Nel novembre 1987, per esempio, a dimettersi fu l’unico ministro (Zanone) del partito liberale, che a sua volta rappresentava appena il 2% dell’elettorato, benché a guidarlo fosse un segretario che si chiamava Altissimo; e il Premier dell’epoca (Goria) un minuto dopo rassegnò le dimissioni del governo. Terzo: le mezze elezioni. Se Berlusconi ci tiene così tanto a mettersi anzitutto in tasca l’appoggio del Senato, è per porre i deputati dinanzi a un altolà: volete sciogliere il governo? E allora il governo scioglierà la Camera. Un’eventualità - di nuovo - praticabile in astratto, irragionevole in concreto. Intanto, se poi uscisse dalle urne una maggioranza ostile al gabinetto Berlusconi, per coerenza dovremmo sciogliere anche quest’altra Camera, o in alternativa sciogliere il corpo elettorale. In secondo luogo, perché mai non potremmo viceversa mandare a casa i senatori? Il (mezzo) ragionamento del presidente del Consiglio è infatti perfettamente rovesciabile: se la Camera dei Deputati gli voterà contro è perché da quelle parti si sarà formata una diversa coalizione, e non c’è ragione di privilegiare l’una o l’altra maggioranza. In ultimo, lo scioglimento anticipato d’un solo ramo del Parlamento implica per il futuro uno sfasamento temporale delle due assemblee legislative, dunque elezioni ogni due anni, e ogni due anni una crisi di governo. E allora per quale motivo la nostra Carta lo consente? Per casi - davvero - eccezionali. Per esempio di fronte a un’assemblea dominata da partiti antisistema, oppure infarcita di briganti, o altrimenti secessionista, golpista, piduista. Ma non è questo lo scenario d’oggi (sul domani, non ci giureremmo). E c’è infine un presupposto indispensabile, per mandare a squadro questa mezza strategia: un mezzo presidente. Spetta infatti al Capo dello Stato officiare le crisi di governo, e sempre a lui spetta la decisione estrema, quella di sciogliere le Camere o al limite una sola. Se il governo pretende di dettargli le proprie decisioni, significa che ha letto mezza Costituzione. L’altra metà deve ancora studiarla. michele.ainis@uniroma3.ithttp://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8092&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #84 inserito:: Novembre 26, 2010, 11:58:07 pm » |
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26/11/2010 Il gioco dell'oca dei partiti MICHELE AINIS A riascoltarla adesso, la Grande promessa di semplificazione che ha inaugurato la legislatura suona come un Grande imbroglio. Sono trascorsi due anni, sembrano due secoli. Nel 2008 s’unirono in matrimonio antiche tradizioni politiche, giurandosi fedeltà in eterno. A sinistra gli eredi della Democrazia cristiana e del Partito comunista battezzarono il Partito democratico, a destra Forza Italia e Alleanza nazionale si sciolsero nel Popolo della libertà. La soglia di sbarramento completò il lavoro, cacciando dal Parlamento la destra estrema e la sinistra radicale. Uscì di scena la carovana delle microliste personali, quelle di Dini o di Mastella, e poi i verdi, i gialli, gli arcobaleni. Dagli 11 partiti che cingevano d’assedio il governo Prodi siamo passati a un esecutivo bicolore (Pdl-Lega), mentre a Montecitorio prendevano posto 6 gruppi parlamentari in tutto, compreso il gruppo misto. Ma la politica italiana ha un debole per il gioco dell’oca: ritorna sempre alla stazione di partenza. I co-fondatori dei due partiti principali (Fini di qua, Rutelli di là) hanno divorziato già durante il viaggio di nozze, e nel frattempo si sono affacciate alla ribalta nuove formazioni, partito del Sud contro il partito del Nord, l’antipolitica di Grillo contro la politica ufficiale, polo di centro contro i poli terrestri. C’è un’esigenza, c’è una domanda sociale che alleva la scomposizione del quadro politico? Può anche darsi, giacché ormai l’Italia è frastagliata in lobby, sindacati, categorie professionali dove trionfano soltanto gli egoismi collettivi. Ma sta di fatto che in quest’agonia della seconda Repubblica la classe politica si sta rivelando ben peggiore della società civile, come ha osservato Montezemolo e come osservano in coro gli italiani. Le scissioni, le riaggregazioni, le nuove creature non puntano a riflettere una geografia sociale in movimento; servono piuttosto a procurare un posto in prima fila agli oligarchi di partito che stavano un po' stretti nei loro vecchi condomini. Da qui l’inflazione delle sigle; ma le facce no, quelle sono sempre uguali. Queste facce ci hanno regalato un tasso di crescita dello 0,2%, il più basso fra i Paesi Ocse. Ci hanno regalato inoltre lo sfascio della nostra cittadella pubblica, dalla giustizia alla sanità, dal fisco alla scuola. Siccome non gli basta, stanno per regalarci il terzo scioglimento delle Camere nell’arco d’un quinquennio. Come reagirà l’elettorato? Per una volta, tutti i sondaggi sono convergenti: il partito del non voto (che alle scorse regionali ha toccato il 40%, sommando all’astensione le schede bianche e nulle) continua a gonfiarsi come un panettone. Viceversa il Pdl perde da 7 a 11 punti percentuali, il Pd frana a sua volta (da 8 a 10 punti in meno). Guadagna qualcosa la Lega, guadagnano Casini, Vendola, Di Pietro. Ma il menu che assaggeremo molto presto avrà il sapore d’una marmellata elettorale, dove il pezzo più grosso è soltanto il meno piccolo. E tuttavia, attenzione: la marmellata contiene un paio di frutti velenosi. Colpa dello chef che ha cucinato le regole del voto, definendole lui stesso una «porcata». Del primo frutto abbiamo già fatto indigestione: è la regola che converte gli eletti in nominati, e che ha immediatamente intossicato la nostra vita pubblica, svilendo il prestigio delle assemblee legislative. Quanto al secondo, fin qui non ce ne siamo troppo accorti. Però a certe condizioni diventa l’ingrediente più letale, non basta una lavanda gastrica per venirne fuori indenni. Quest’altro frutto si chiama premio di maggioranza; le condizioni che lo rendono mortale dipendono per l’appunto dalla marmellata elettorale; i suoi effetti possono stroncare l’esile corpo della democrazia italiana. Come mai potrebbe sopravvivere, se la trasformazione del nostro voto in seggi diventa una rapina a mano armata? Se un partito del 25% s’accaparra il 55% delle poltrone in Parlamento? Se a quel punto nessun governo ha più l’autorità per governare? Da qui l’urgenza di sbarazzarci di questa legge elettorale, prima che la legge si sbarazzi della nostra democrazia. Ma la politica, di nuovo, fa il gioco dell’oca. Il Pd è d’accordo sull’urgenza, e infatti chiede un governo tecnico per cambiare sistema elettorale; così offrendo al Pdl una buona ragione per opporsi al cambiamento, perché il governo tecnico rovescerebbe il risultato delle urne. Ma dopotutto è sempre la stessa tiritera, i nostri mandarini non stanno litigando sulle regole, bisticciano sui posti di governo, su una sistemazione per le loro auguste chiappe. C’è allora un lodo da proporre a questi carissimi nemici: Berlusconi continui a governare, il Parlamento modifichi la legge elettorale. Servirà una maggioranza diversa da quella che sostiene l’esecutivo in carica? Non è un delitto, è la normalità costituzionale. Il delitto è quello che altrimenti ci verrà servito in tavola alle prossime elezioni. michele.ainis@uniroma3.ithttp://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8136&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #85 inserito:: Dicembre 02, 2010, 06:42:07 pm » |
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2/12/2010 Anche la lingua ha fatto la storia d'Italia MICHELE AINIS Lo Stato italiano ha 150 anni, la lingua italiana 7 secoli. Ma la Repubblica italiana ha mai saputo imbastire una politica linguistica? A parte qualche legge che prescrive l'italiano nell'etichettatura del cacao o nei fogli informativi dei giocattoli, la risposta è no. O meglio, una legge ci sarebbe: la n. 4 del 1974, che ha vietato a tutti gli uffici pubblici di usare le parole lebbra, lebbroso, lebbrosario. Qui però non s’affaccia l’esigenza di proteggere la lingua italiana, ma casomai l’opposto, perché vi si prescrive che questi termini vengano sostituiti da «Morbo di Hansen» o da «hanseniano». Dunque una legge all'insegna del politicamente corretto, anche a costo di suonare incomprensibile per chi non abbia in tasca un paio di lauree in medicina: difatti negli usi collettivi sentirsi dare del lebbroso significa ricevere un insulto, mentre se apostrofi qualcuno chiamandolo hanseniano otterrai in cambio uno sguardo stralunato. In compenso c’è un fiume normativo che si riversa sulle minoranze linguistiche, dividendole però in figli e figliastri (il gruppo tirolese di lingua tedesca è fra le minoranze più protette al mondo). C'è anche una legge generale su tali minoranze (la n. 482 del 1999), che le elenca una per una: quelle albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate, nonché le popolazioni che parlano il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano, il sardo. Tuttavia da quest’elenco mancano gli zingari, mancano varie parlate regionali al di là del sardo e del friulano, mancano le nuove minoranze forgiate dall’immigrazione. Insomma la politica linguistica dell'Italia repubblicana è un po’ come un ascensore: viziata da una sorta d’imperialismo normativo nei confronti delle etnie più deboli, arrendevole con le minoranze più ricche e più coese, pressoché silente rispetto alla tutela della nostra lingua nazionale. Un solo esempio: gli immigrati. Qui le preoccupazioni linguistiche si limitano a un unico episodio, perché non ve n’era quasi traccia né nella legge Martelli del 1990, né nella Turco-Napolitano del 1998, né nella Bossi-Fini del 2002. Ma il punto di svolta sta nel primo «pacchetto sicurezza» incartato dal ministro Maroni, e più precisamente nella legge n. 94 del 2009, quella che ha introdotto il reato d'immigrazione clandestina. Anche se in realtà è clandestina questa stessa novità legislativa, dato che si nasconde nell'art. 1, comma 22, lettera i), che a sua volta modifica l'art. 9 del d.lgs. 286/1998, aggiungendovi un comma 2-bis. Un insulto alla matematica, se non proprio all'italiano. Eppure questo comma al cubo esige dagli immigrati una prova che molti cittadini non supererebbero: un test di conoscenza della lingua italiana, per ottenere il permesso di soggiorno. No, non è questa l’idea che ci avevano consegnato i nostri padri fondatori. Se c'è uno spazio per la politica linguistica nella Carta del 1947, questo spazio va colmato rispettando la libertà di lingua, che a sua volta è figlia della libertà di parola. E avendo cura inoltre della nostra lingua nazionale, ma senza il bastone usato dal fascismo, non foss’altro perché in ogni manifestazione della vita culturale c’è una scintilla che non può essere pianificata, o che altrimenti muore. Come diceva Adorno, quando le feste di paese vengono messe in calendario una dopo l’altra per agevolare i viaggi culturali, finiscono per perdere la loro qualità di festa, che si regge sull'unicità del rito, sulla sua irripetibilità. Le feste vanno celebrate come cadono, la lingua va accettata per com’è, per come spontaneamente evolve, anche quando assume sonorità estranee alla nostra giovinezza. Ma la lingua è al tempo stesso un bene culturale, è insieme la memoria dei padri e l’orizzonte dei figli, ed è disgraziata la Repubblica che non abbia cura del proprio patrimonio culturale. michele.ainis@uniroma3.itQuesto testo è una sintesi dell’intervento del professor Michele Ainis al nono convegno dell’Asli (Associazione per la storia della lingua italiana) «Storia della lingua italiana e storia dell’Italia unita» in programma da oggi a sabato a Firenze organizzato con l’Accademia della Crusca in concomitanza con le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8158&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #86 inserito:: Dicembre 05, 2010, 10:53:00 pm » |
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Silvio e l'asse del controribaltone. Quattro scenari possibili per il dopo 14 dicembre di Michele Ainis Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2010 alle ore 14:06. L'ultima modifica è del 05 dicembre 2010 alle ore 14:39. Camera chiusa, bocche fin troppo spalancate. E mentre i contendenti sparano l'uno contro l'altro raffiche verbali d'improperi, avvertimenti, ingiurie, mentre gli altolà rimbalzano perfino verso il Quirinale, in questa lunga attesa non ci resta che misurare i due scenari della crisi: il Parlamento vota la sfiducia, e dunque il governo di Silvio Berlusconi si dimette; il Parlamento conferma la fiducia, sicché l'esecutivo rimane ancora in sella. Ma davvero non c'è spazio per altre soluzioni? A ragionarci sopra, le subordinate sono un altro paio. Per metterle in fila, dobbiamo anzitutto interrogarci sui fatti e gli antefatti della crisi. Sappiamo qual è la posta in gioco: un governo tecnico per il dopo Berlusconi, temuto dai primi come la peste nera, invocato dai secondi come una Madonna pellegrina. Ma perché il Pdl vuole a tutti i costi che il Senato s'esprima un minuto prima della Camera? E perché Berlusconi ripete a giorni alterni che non gli basta vincere per un voto di scarto, che lui punta viceversa a un sostegno più largo e più convinto delle assemblee legislative? Da qui il terzo scenario: il governo incassa la fiducia del Senato, poi Berlusconi si dimette senza aspettare il voto della Camera, reclamando immediatamente un nuovo incarico, che a quel punto sarebbe pressoché impossibile negargli. E se poi non gli riesce di quadrare i numeri, se non coagula gli appoggi necessari al Berlusconi-bis, allora invoca lo scioglimento della Camera, tanto lui in Senato una maggioranza ce l'ha già. Oppure dopo la fiducia del Senato si sottopone alla sfiducia di Montecitorio, ma a quel punto sale al Quirinale chiedendo - di nuovo - la rielezione della Camera dei deputati, e soltanto di quella. Insomma un espediente per disinnescare la sfiducia trasformandola in mezza fiducia, per disarmare lo spauracchio del governo tecnico, per trasformare in suicidio collettivo il voto contrario dei deputati. Riuscirebbe? In Bulgaria sì, in Italia no. Lì c'è un Parlamento monocamerale, da noi la mezza fiducia è sempre una sfiducia tutta intera. Per governare devi procurarti l'avallo di ambedue le Camere, altrimenti crisi, consultazioni e via: avanti un altro. Semmai il vero colpo che Berlusconi potrebbe avere in canna è il quarto scenario della crisi, quello che non t'aspetti, quello che spiazzerebbe l'opposizione e il Quirinale. Funziona così: l'esecutivo strappa la fiducia sia al Senato sia alla Camera, magari sul filo del rasoio. Dopo di che il presidente del Consiglio, anziché cantare vittoria a squarciagola, va da Napolitano con le dimissioni in mano. Per quale ragione? Perché non vuol finire come il governo Prodi, vivacchiando su un gruzzolo di voti ballerini. Ma soprattutto perché s'infilerebbe in tasca l'attestato che il Parlamento non sa esprimere maggioranze alternative. Dunque niente governi tecnici, anzi niente consultazioni, dato che le Camere sono state appena consultate attraverso il voto di fiducia. Dunque subito elezioni, ovviamente col porcellum, e perciò con il premio di maggioranza all'orizzonte per la coppia Bossi-Berlusconi. La fine di Fini, un controribaltone che a sua volta rovescia tutti gli altri ribaltoni. E Napolitano? A un primo sguardo, parrebbe di vederlo con le mani legate, anzi con le manette ai polsi. Che senso avrebbero le consultazioni in questa prospettiva? E come potrebbe chiedere al dimissionario di ripresentarsi in Parlamento, quando ne è appena uscito prima di salire al Quirinale? Con che pretesto potrebbe negare a Berlusconi il lavacro elettorale, quello che monda ogni peccato? Tuttavia bisogna sempre diffidare delle prime impressioni. Se fosse vero che un governo sostenuto dalla fiducia delle assemblee parlamentari può indire le elezioni semplicemente dimettendosi nelle mani del capo dello Stato, allora quest'ultima figura non sarebbe che un orpello, un soprammobile nella casa delle nostre istituzioni. Se fosse vero che la fiducia manifestata nei riguardi d'un governo non possa convertirsi il giorno dopo nella fiducia verso altri governi, allora ogni esecutivo durerebbe per tutti i secoli a venire. Se fosse vero che la fiducia espressa a voto palese da deputati e senatori significa un appoggio sincero, allora non avremmo assistito allo spettacolo che si è consumato dal 30 settembre in poi, quando Berlusconi aveva già ottenuto la fiducia. No, neanche il quarto scenario della crisi può decapitare il ruolo del capo dello Stato, né quello dei partiti. Le dimissioni del presidente del Consiglio - spontanee o forzate, con o senza un voto di fiducia - in ogni caso riaprono le danze, e a quel punto dipenderà dai ballerini. L'unica cosa certa è che avremo tutti da ballare. michele.ainis@uniroma3.it©RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-12-04/silvio-asse-controribaltone-scenari-202639.shtml?uuid=AYI9vHpC
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« Risposta #87 inserito:: Dicembre 12, 2010, 04:21:08 pm » |
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12/12/2010 Corrotti e corruttori MICHELE AINIS Il voto di fiducia è come una messa solenne nel tempio delle istituzioni. Celebra la sacralità del Parlamento, che attraverso questo rito sceglie un nuovo papa, o riconsegna al vecchio le chiavi pontificie. Ma al contempo celebra i governi, innalzandoli alla gloria dell’altare. Invece la politica italiana ha trasformato la messa in messinscena, la liturgia in commedia. Se i santini sono questi, per noi fedeli sarà dura raccoglierci in preghiera. È il caso, innanzitutto, del governo Berlusconi. Davvero c’è da attendere il 14 dicembre per decretarne i funerali? Davvero lo stesso giorno potremmo viceversa assistere al miracolo della sua resurrezione? È insomma un voto in meno o in più che può restituirci un esecutivo autorevole e longevo? Evidentemente no, non è così. Se anche Berlusconi la spuntasse per il rotto della cuffia, il giorno dopo si ritroverebbe come Prodi, appeso agli umori del trotzkista Turigliatto o della moglie di Mastella. L’Italia ha urgenza d’una stagione di riforme, ma nessuna compagine ministeriale potrà mai inaugurarla senza una forte base in Parlamento. Servirebbe dunque guadagnare nuovi soci, allargare la coalizione di governo con un programma condiviso. Servirebbe, in breve, la politica; invece a Montecitorio va in onda il calciomercato. Signori di mezza età corteggiati come fanciulle in fiore, adescati uno per uno. Oppure comprati con qualche lingotto d’oro, se è autentico il sospetto della procura di Roma. Ecco, il sospetto. Sta corrodendo la residua credibilità del Parlamento, proprio nel giorno che avrebbe dovuto sancirne il primato. In Italia nessun governo è mai caduto in seguito a una mozione di sfiducia (Prodi si dimise dopo una «questione» di sfiducia, che è cosa diversa): sempre crisi extraparlamentari, consumate scavalcando le assemblee legislative. Adesso no, le Camere sono tornate al centro della scena. Ma la crisi in Parlamento via via si è tramutata in una crisi del Parlamento, e quest’ultima ha infine messo in crisi le garanzie costituzionali che proteggono la dignità delle due Camere. Qual è infatti la trincea giuridica su cui si è asserragliato il centrodestra? L’art. 67 della Costituzione, che pone il divieto di mandato imperativo. Se ogni deputato è libero di votare un po’ come gli pare, sarà anche libero d’accettare incenso e mirra per ogni voto espresso. Ma libero rispetto a chi? Rispetto alla mamma, alla sorella, al Popolo della libertà? No, libero rispetto ai suoi elettori. Peccato tuttavia che i nostri parlamentari, grazie al porcellum, siano stati scelti dai partiti, non dagli elettori. Peccato quindi che la garanzia del libero mandato si sia svuotata come un uovo per assenza del mandato. C’è però un’altra garanzia costituzionale, sta appena un rigo sotto. Si conserva nell’art. 68, che proclama i membri del Parlamento insindacabili per le opinioni e i voti in aula. Da qui un’irresponsabilità giuridica, che a sua volta è di tre tipi. Civile (se rivelo un segreto industriale, nessuno potrà chiedermi i danni). Penale (se ti diffamo durante un discorso in Parlamento, non hai il diritto di sporgere querela). Disciplinare (se critico il ministro di cui sono dipendente, lui non potrà applicarmi una sanzione). E se invece voto la fiducia in cambio della cassaforte di Zio Paperone? Alla lettera, l’art. 68 vale pure in questo caso. Ma fu concepito per proteggere la libertà intellettuale dei parlamentari, non la libertà di mettersi all’asta. La loro indipendenza, non la dipendenza dal denaro. C’è allora una lezione che ci impartisce questo tempo di briganti. La malattia etica che ha fiaccato la politica reclama una nuova etica politica, non le medicine del diritto, non il soccorso della Costituzione. Anche perché la nostra Carta è la prima vittima di questa malattia. Ma riesce ancora a vendicarsi, sia pure mentre esala l’ultimo respiro. Se infatti il voto del parlamentare corrotto è insindacabile, l’offerta del parlamentare corruttore no: quell’offerta non è un voto, non è un’opinione, non è protetta dal divieto di mandato imperativo. Sicché alla fine della giostra la procura di Roma potrebbe fare un’esperienza inversa rispetto alla procura di Milano. Nel caso Mills c’era un corrotto senza corruttore (improcessabile); qui avremmo un corruttore senza corrotti (improcessabili). Mezzo reato per un Parlamento dimezzato. michele.ainis@uniroma3.ithttp://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8190&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #88 inserito:: Febbraio 28, 2011, 03:20:48 pm » |
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Sul crocifisso un muro divide le aule d'Italia -
Ma una civiltà senza segni è priva di vita
di Michele Ainis
Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2011 alle ore 15:16.
Poverocristo o povero Cristo? Dobbiamo prendere partito per Marcello Montagnana (l'insegnante di Cuneo che andò sotto processo per aver rifiutato l'ufficio di scrutatore alle politiche del 1994, protestando contro l'esposizione del crocifisso nei seggi elettorali) o è giusto schierarsi per il simbolo dolente che campeggia in tutti i nostri edifici pubblici? Sergio Luzzatto sceglie decisamente il primo, ma senza mancare di rispetto nei confronti del secondo. Il rispetto del quale in Italia siamo orfani è piuttosto un altro: quello che andrebbe tributato al principio di laicità del nostro stato. Lo professiamo a chiacchiere, però nei fatti ce lo mettiamo sotto i piedi. E a tale riguardo la vicenda del crocifisso è la più dibattuta, ma non la più eloquente. Ne è prova per esempio il finanziamento pubblico alle scuole private, che al 90 per cento sono scuole cattoliche: la Costituzione lo vieta espressamente, una legge del 2000 lo permette allegramente.
Sarà per questo, per la cifra di disperazione che ormai accompagna i laici nel paese in cui torreggia il Cupolone, che Luzzatto ha scritto un libro acre come zolfo, dove risuonano gli accenti del pamphlet. E dove riecheggia la storia di Montagnana insieme a quella dei coniugi Lautsi, che hanno ingaggiato una lunga battaglia giuridica e civile contro l'esposizione del crocifisso nelle scuole. Potremmo aggiungervi pure il giudice Tosti, che ha fatto altrettanto per espellere questo simbolo ingombrante dai muri delle aule giudiziarie, guadagnandone in cambio una sfilza di processi e di castighi. L'elenco è lungo. Ma è lungo anche l'elenco dei paladini del crocifisso, dove figurano intellettuali insospettabili come Natalia Ginzburg, donna laica e di sinistra. Nonché nomi importanti dell'intellighenzia cattolica italiana, quali Massimo Cacciari e Franco Cardini. Luzzatto ricorda – con qualche grammo di perfidia – che il primo viene dall'operaismo sessantottesco, il secondo dal neofascismo degli anni Cinquanta, però l'approdo è identico.
E quale arma dialettica viene brandita in questi casi?
Un coltello a doppia lama, benché le due lame siano poi tutt'altro che affilate. In primo luogo – s'osserva – quella croce di legno non fa male a nessuno, è un dettaglio dell'arredamento pubblico sul quale i più passano via senza degnarlo d'uno sguardo. Curiosa questa difesa della rilevanza pubblica del crocifisso in nome della sua irrilevanza pubblica. Ma a sprezzo della logica, gli indomiti crociati ci rovesciano addosso una domanda: se è questione dappoco, allora perché tanto accanimento? Risposta: perché quand'anche fosse un solo uomo a sentirsene ferito, a venire sopraffatto da una religione dominante che lo esclude, uno stato democratico avrebbe l'obbligo d'aprire un ombrello in sua difesa. I diritti valgono per i deboli, non per i forti. Servono ai meno, non ai più. Specialmente quando entra in gioco la libertà di religione, che storicamente ha preceduto la stessa libertà di manifestazione del pensiero. Se fossero libere soltanto le parole di chi canta nel coro, sarebbe come stabilire in una legge che hanno diritto al vino esclusivamente gli ubriachi.
D'altronde lo ha dichiarato pure la Consulta, attraverso un nutrito gruppo di pronunzie che s'affaccia sul volgere degli anni Settanta: il principio di maggioranza non si applica alla sfera religiosa, e dunque è "inaccettabile" ogni discriminazione basata sul numero degli appartenenti ai vari culti. Non fu minoranza la stessa Chiesa cattolica? Venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli, anche se adesso qualcuno lo ha un po' dimenticato. Ma si può ben essere cattolici senza pretendere d'imporre al prossimo le insegne del papato. Ne è testimonianza don Milani, che tolse il crocifisso dalle pareti della scuola di Calenzano per cancellare ogni sospetto di pedagogia confessionale. Ne è testimonianza il gesto di Cesare Ruperto, ex presidente della Corte costituzionale: benché cattolico, all'atto del suo insediamento fece eliminare il crocifisso dall'aula delle udienze alla Consulta. Perché quello spazio è pubblico, di tutti. E perché la nostra carta afferma l'eguaglianza delle confessioni religiose.
Qui però s'affaccia l'altro argomento inalberato dai crociati: non è per le nostre idee particolari che sosteniamo il crocifisso obbligatorio, lo facciamo per il vostro bene, per difendere la storia della quale anche voi atei o miscredenti siete figli, e dunque per difendere l'identità che vi appartiene. Non è forse vero che riposate di domenica ("il giorno del Signore"), che contate gli anni a partire dalla nascita di Cristo? E allora il crocifisso è un simbolo civile, allora la laicità si nutre di valori religiosi: nel 2006 lo ha scritto anche il Consiglio di stato.
Dev'essere per questo, per la santificazione dell'ossimoro operata dai nostri tribunali, che Luzzatto dichiara in ultimo tutta la sua sfiducia nel diritto. Dice: a breve arriverà un verdetto dalla corte di Strasburgo, ma tanto per noi non cambierà mai nulla. Sbaglia, perché la querelle si vince o si perde sull'altare della legge. Ma non è detto che la laicità reclami un muro nudo. Non è detto che la difenderà un divieto, come nella Francia che nel 2004 ha proibito il velo in classe, nel 2010 il burqa. Possiamo aggiungere, anziché togliere. Possiamo allestire un muro colorato, dove campeggiano i simboli d'ogni religione, e anche lo stemma di chi non ha religione. Quanto a noi laici, ci basterebbe il faccione corrugato di Voltaire.
©RIPRODUZIONE RISERVATA da - ilsole24ore.com/art/cultura
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« Risposta #89 inserito:: Aprile 01, 2011, 10:26:12 pm » |
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Deriva pericolosa
Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D'altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell'Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un'inversione dell'ordine del giorno in Parlamento. Dall'altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell'opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione.
Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73% dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia. Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini.
Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c'è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo. Guardateli, non c'è bisogno d'elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l'urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari.
Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato. D'altronde non sarà affatto un caso se l'istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l'appunto l'unità nazionale, così c'è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un'iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.
Michele Ainis
01 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_01/
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