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« Risposta #180 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:08:39 pm » |
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Il mal di teste dei partiti Di Michele Ainis I partiti agonizzano, i sindacati rantolano e neanche gli italiani stanno troppo bene. Ci attende un futuro orfano di queste grandi organizzazioni? A leggere i numeri, il futuro è già iniziato. Il Pd in un anno ha perso l’80% dei suoi iscritti: ora sono 100 mila, quando il partito di Alfano ne dichiara 120 mila. Ammesso che sia vero, dato che alle Europee l’Ncd in Campania ha ottenuto meno voti che iscritti. Ma pure la metà basterebbe a rendere felice Forza Italia, che fin qui ha racimolato la miseria di 8 mila iscrizioni. Sulla carta, va meglio ai sindacati: 12 milioni e 300 mila tessere. Non senza dubbi, anche in questo caso: nel 2012 la Confsal ha denunziato almeno 3 milioni d’iscritti fantasma. E in ogni caso con un’emorragia nel settore privato (un milione d’associati in meno fra il 1986 e il 2008) e una flessione anche fra i dipendenti pubblici (dal 10% al 16% nella sanità, nelle Regioni, nei ministeri). A turare la falla, soccorrono immigrati e pensionati. Non i giovani, che se ne tengono a distanza. Sicché pure in Italia sta per risuonare l’annuncio della Thatcher: nel 1987 disse che il numero degli azionisti aveva superato quello degli iscritti al sindacato. Del resto è un’onda che viene da lontano. Nel 1990 la Dc sommava 2.109.670 iscritti; otto anni dopo il Ppi ne aveva 197 mila. E l’onda bagna tutto il globo. Dagli anni Ottanta la militanza nei partiti è calata del 64% in Francia, del 50% negli Usa, del 47% in Norvegia. Insomma il problema non è Renzi, non è lui che ha ucciso il Novecento. Il problema è che in Italia mancano soluzioni di ricambio, rispetto alla crisi dei Parlamenti che s’accompagna alla crisi dei partiti. Obama non ha dietro di sé un partito strutturato; però gli americani hanno a disposizione i referendum (174 durante le ultime presidenziali), le esperienze di democrazia deliberativa, il recall (che consente la revoca degli eletti). E noi, come ci attrezziamo per questa nuova democrazia senza sindacati né partiti? Quanto ai sindacati, difettano di strumenti alternativi. Lo Statuto dei lavoratori sarà vecchio, ma si discute dell’articolo 18, non di coinvolgere i lavoratori nella gestione delle imprese. Quanto alle segreterie politiche, fanno un po’ come gli pare, dato che manca una legge sui partiti. Come manca sulle consultazioni pubbliche, di cui gli ultimi governi abusano fingendo d’ascoltare i cittadini. In compenso la riforma costituzionale menziona il referendum propositivo, accanto a quello abrogativo. Quest’ultimo fu attuato con 22 anni di ritardo; speriamo di non rinnovare l’esperienza. Perché una cosa è certa, nel nostro incerto quotidiano: la crisi dei partiti ha aperto un vuoto. Per non farci risucchiare, dobbiamo restituire lo scettro ai cittadini. 9 ottobre 2014 | 09:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_09/mal-teste-partiti-0a81ae42-4f76-11e4-8d47-25ae81880896.shtml
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« Risposta #181 inserito:: Ottobre 22, 2014, 06:00:49 pm » |
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Capitale umano, degrado etico La parabola dell’inefficienza Di Michele Ainis L’ inefficienza. Declino economico, degrado etico. C’è un nesso? Certo: la corruzione drena risorse, come l’evasione fiscale. Non a caso per Transparency International siamo terzultimi in Europa, quanto al tasso di legalità. Ma la questione non coinvolge solo il codice penale, travolge pure il codice morale. Quello scolpito dai rivoluzionari francesi, due secoli fa, nell’articolo 6 della Déclaration: «I cittadini sono ugualmente ammissibili a tutti gli incarichi e impieghi pubblici, senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti». Ecco, i talenti. Quanto contano in Italia le qualità professionali, le competenze, le esperienze? Ben poco, a giudicare dall’ultima vicenda: un dirigente genovese rinviato a giudizio per inondazione colposa, e al contempo premiato dal Comune. O la penultima: una signora eletta al Csm senza averne i titoli. Ma i titoli vanno a rotoli, quando succede che il bando per la direzione del Museo egizio di Torino non menzioni l’egittologia fra le conoscenze richieste ai candidati, o quando la gestione di Pompei venga sottratta agli archeologi, come ha denunziato Salvatore Settis. D’altronde chi decide è la politica, ed è l’unica decisione tempestiva: una nomina ogni 4 giorni per il governatore siciliano Crocetta, nei primi due anni di mandato. Mentre il suo collega Maroni ha designato un esperto d’antifurti alla presidenza di Lombardia Informatica. Tuttavia la nomina prediletta dai politici è l’autonomina, e anche qui conta l’appartenenza, non la competenza. Così, il Garante della privacy è un dermatologo. Al governo c’è una farmacista a guidare gli Affari regionali, un’imprenditrice della moda sottosegretario all’Istruzione, un laureato in lettere viceministro dell’Agricoltura. Ma la stessa laurea è un optional: alla Camera non è laureato il presidente della commissione Trasporti, al Senato quelli delle commissioni Finanze e Sanità. E la commissione Ambiente è presieduta da un odontoiatra. Dice: ma in politica vige il principio della rappresentanza, non della competenza. Fino a un certo punto. Alla Costituente i dottori superavano il 74% del totale, e a quel tempo la laurea era merce rara. Inoltre la politica dovrebbe essere d’esempio, ma se promuovi la persona sbagliata sbagli anche l’esempio. E alla fine della giostra si rompe poi la giostra. Nel 2006 un’indagine Ederer, condotta su 13 Paesi europei, ci collocò all’ultima casella per la capacità d’utilizzare il nostro capitale umano. La crisi italiana era già iniziata, benché non lo sapessimo. Tuttavia adesso lo sappiamo: l’incompetenza produce inefficienza. E l’inefficienza costa, costa cara. 22 ottobre 2014 | 08:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_22/parabola-dell-inefficienza-capitale-umano-degrado-etico-michele-ainis-598a57bc-59aa-11e4-b202-0db625c2538c.shtml
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« Risposta #182 inserito:: Ottobre 23, 2014, 11:35:29 am » |
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La parabola dell’inefficienza Di Michele Ainis L’ inefficienza. Declino economico, degrado etico. C’è un nesso? Certo: la corruzione drena risorse, come l’evasione fiscale. Non a caso per Transparency International siamo terzultimi in Europa, quanto al tasso di legalità. Ma la questione non coinvolge solo il codice penale, travolge pure il codice morale. Quello scolpito dai rivoluzionari francesi, due secoli fa, nell’articolo 6 della Déclaration: «I cittadini sono ugualmente ammissibili a tutti gli incarichi e impieghi pubblici, senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti». Ecco, i talenti. Quanto contano in Italia le qualità professionali, le competenze, le esperienze? Ben poco, a giudicare dall’ultima vicenda: un dirigente genovese rinviato a giudizio per inondazione colposa, e al contempo premiato dal Comune. O la penultima: una signora eletta al Csm senza averne i titoli. Ma i titoli vanno a rotoli, quando succede che il bando per la direzione del Museo egizio di Torino non menzioni l’egittologia fra le conoscenze richieste ai candidati, o quando la gestione di Pompei venga sottratta agli archeologi, come ha denunziato Salvatore Settis. D’altronde chi decide è la politica, ed è l’unica decisione tempestiva: una nomina ogni 4 giorni per il governatore siciliano Crocetta, nei primi due anni di mandato. Mentre il suo collega Maroni ha designato un esperto d’antifurti alla presidenza di Lombardia Informatica. Tuttavia la nomina prediletta dai politici è l’autonomina, e anche qui conta l’appartenenza, non la competenza. Così, il Garante della privacy è un dermatologo. Al governo c’è una farmacista a guidare gli Affari regionali, un’imprenditrice della moda sottosegretario all’Istruzione, un laureato in lettere viceministro dell’Agricoltura. Ma la stessa laurea è un optional: alla Camera non è laureato il presidente della commissione Trasporti, al Senato quelli delle commissioni Finanze e Sanità. E la commissione Ambiente è presieduta da un odontoiatra. Dice: ma in politica vige il principio della rappresentanza, non della competenza. Fino a un certo punto. Alla Costituente i dottori superavano il 74% del totale, e a quel tempo la laurea era merce rara. Inoltre la politica dovrebbe essere d’esempio, ma se promuovi la persona sbagliata sbagli anche l’esempio. E alla fine della giostra si rompe poi la giostra. Nel 2006 un’indagine Ederer, condotta su 13 Paesi europei, ci collocò all’ultima casella per la capacità d’utilizzare il nostro capitale umano. La crisi italiana era già iniziata, benché non lo sapessimo. Tuttavia adesso lo sappiamo: l’incompetenza produce inefficienza. E l’inefficienza costa, costa cara. 22 ottobre 2014 | 08:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_22/parabola-dell-inefficienza-capitale-umano-degrado-etico-michele-ainis-598a57bc-59aa-11e4-b202-0db625c2538c.shtml
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« Risposta #183 inserito:: Ottobre 29, 2014, 06:51:48 pm » |
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Editoriale Un precedente assai spiacevole Di Michele Ainis Ieri è entrato in scena il Precedente. Ossia un fatto istituzionale mai avvenuto prima, che però da qui in avanti potrà replicarsi all’infinito. È la grammatica delle democrazie, intessute di regole scritte e d’interpretazioni iscritte nella storia. E il Quirinale non fa certo eccezione. Anzi: ogni presidente è un precedente per chi viene dopo, ciascuno consegna al successore un capitale d’esperienze diverso da quello che lui stesso aveva ricevuto. Nel luglio 2012 Napolitano sollevò un conflitto contro i magistrati di Palermo, dinanzi ai quali ora ha accettato di deporre. In quell’occasione citò Luigi Einaudi, per ribadire l’esigenza che nessun precedente alteri il lascito del Colle. Esigenza giusta, ma al contempo errata. Per soddisfarla a pieno, dovremmo fermare l’orologio. Da qui la lezione che ci impartisce la vicenda. Napolitano avrebbe potuto rifiutarsi di testimoniare, come ha ammesso la stessa Corte di Palermo. Poteva farlo perché l’articolo 205 del codice di rito configura la sua testimonianza su base volontaria, escludendo qualsiasi mezzo coercitivo. Bastava dire no, e anche il diniego avrebbe offerto un precedente. Invece ha detto sì. E ha fatto bene: chi non ha nulla da nascondere non deve mai nascondersi. Ecco perché lascia un retrogusto amaro la decisione di tenere l’udienza a porte chiuse. Forse la diretta tv avrebbe compromesso il prestigio delle nostre istituzioni. O forse no: dopotutto nel 1998 la testimonianza di Bill Clinton sul caso Lewinsky si consumò a reti unificate. In ogni caso era possibile esplorare una via di mezzo, magari una trasmissione radiofonica, magari un resoconto dalla stampa accreditata. Perché la qualità del precedente si misura dalla sua ragionevolezza. Dipende perciò dall’attitudine a comporre istanze contrapposte, forgiando un modello cui potrà attingersi in futuro. Specie quando ogni istanza rifletta un valore costituzionale, come succede in questo caso: l’autonomia della magistratura; il diritto di difesa, che vale pure per Riina; il riserbo sulle attività informali del capo dello Stato. Ma c’è ragionevolezza nel processo di Palermo? A osservare l’aggressività dei pm, parrebbe di no; non a caso quel processo ha già innescato un conflitto fra poteri. A valutare talune decisioni del collegio giudicante, parrebbe di sì: per esempio la scelta di non ammettere in videoconferenza i boss mafiosi nel palazzo che rappresenta la Repubblica, bensì soltanto i loro difensori. E quanto è stato ragionevole l’esame testimoniale? Non lo sappiamo, bisogna attendere la diffusione del verbale. Nel frattempo girano versioni contrastanti, i presenti rilasciano interviste, le interviste inondano i tg. Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci. 29 ottobre 2014 | 07:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_29/precedente-assai-spiacevole-e1fa925a-5f32-11e4-a7a8-ad6fbfe5e57a.shtml
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« Risposta #184 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:48:15 pm » |
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Senato, Italicum, regolamenti Vedi alla voce riforme smarrite Di Michele Ainis Sarà che siamo tutti un po’ nevrotici, volubili, distratti. Sarà che la memoria non è la prima qualità degli italiani. Ma non ci avevano raccontato che le riforme istituzionali devono precedere quelle economiche e sociali? Non si erano impegnati a liquidarle in un baleno? Certo, ammesso che la certezza trovi spazio fra le categorie della politica. E allora perché nessuno più se ne rammenta? Perché giacciono sepolte in una bara? Proviamo a salire sulla macchina del tempo. Legge elettorale: timbrata il 12 marzo dalla Camera, al culmine d’una maratona notturna e di molte polemiche diurne. Ma da 7 mesi chiusa nei cassetti del Senato, che non l’ha mai discussa. Riforma costituzionale: promessa da Renzi entro maggio, poi per giugno, infine approvata l’8 agosto dal Senato, con la minaccia di confiscare le ferie ai senatori. Nel frattempo sono andati in vacanza i deputati, perché alla Camera la riforma è ferma al palo. Regolamento della Camera: un anno di lavoro per generare un testo, poi sommerso da oltre 300 emendamenti. La prossima seduta cadrà dopo il 15 novembre, ma i 5 Stelle e Forza Italia non ci stanno. Vogliono attendere il nuovo bicameralismo, per non rischiare incoerenze. Da qui il dubbio che tormenta la politica: nasce prima l’uovo o la gallina? Da qui la nostra unica certezza: anche per oggi, non mangeremo l’uovo e non vedremo razzolare la gallina. Non è affatto vero, però, che nel dubbio la politica stia con le mani in mano. No, su ogni riforma rimugina, riflette, ripensa. E cambia idea come san Paolo sulla via di Damasco. L’ Italicum? Premio di maggioranza alla coalizione, anzi alla lista. La riforma costituzionale? Licenziata con l’impegno del governo di modificarla su aspetti per nulla secondari, come l’elezione del capo dello Stato. Significa che i mezzi risultati fin qui raggiunti sono in realtà falsi risultati. La revisione della Costituzione richiede 4 letture; ma se la seconda correggerà la prima, ne serviranno 5. Quanto alla legge elettorale, se cambia il suo principio fondativo toccherà riscriverla. «Ci vorrebbero degli dei per dare leggi agli uomini», diceva Rousseau. Se ci fosse, questo dio legislatore scriverebbe prima le norme costituzionali, poi i regolamenti parlamentari, poi la legge elettorale. E magari con l’ultima riga d’inchiostro detterebbe pure una legge sui partiti. Invece quaggiù c’è al lavoro un diavoletto, che forse ha deciso d’anteporre la legge elettorale a tutto il resto. E forse il resto è un’elezione in primavera, con un sistema che presume l’abolizione del Senato, perché l’Italicum vale solo per la Camera. Dal paradiso all’inferno, ma dopotutto ci siamo abituati. 2 novembre 2014 | 09:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_02/vedi-voce-riforme-smarrite-9ceeea96-625f-11e4-9f8e-083eb8ae3651.shtml
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« Risposta #185 inserito:: Novembre 09, 2014, 12:05:39 pm » |
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Lo scontro sulla riforma Le nascoste imperfezioni dell’Italicum di Michele Ainis Dopo otto mesi, torna in scena la legge elettorale: il risveglio della Bella addormentata. Adesso Renzi ha fretta, Berlusconi ha flemma. Sicché la querelle è tutta sui tempi, sul calendario che dovrà celebrare il lieto evento. Anche l’idea di trasferire il premio di maggioranza (dalla coalizione al partito più votato) non ha acceso troppe baruffe tra i due commensali. L’essenziale, per il primo, è d’agguantare un altro trofeo, sventolandolo dinanzi agli elettori. L’essenziale, per il secondo, è che continui a sventolare la legislatura, dato che lui non riesce più ad agguantare gli elettori. Domanda: ma non potremmo fare presto e bene? Perché l’Italicum è un male, anzi un maleficio costituzionale. Ci è capitata già una volta (col Porcellum ) l’esperienza di una legge elettorale stracciata poi dalla Consulta. Due volte no, sarebbe un imbroglio al quadrato. Sennonché l’ Italicum imbroglia i principi iscritti nella Carta. Quali? Primo: la parità di genere. Promossa dall’articolo 51 della Costituzione, bocciata nel testo uscito il 12 marzo dalla Camera. Secondo: le pluricandidature. Per effetto di quel testo, capi e caporali di partito possono candidarsi in 8 collegi, diventando plurieletti; dopo di che dovranno scegliere, giacché nessuno può sedersi contemporaneamente su 8 poltrone. E i loro votanti negli altri 7 collegi? Buggerati. Terzo: le liste bloccate. Dunque parlamentari nominati dai partiti, anziché scelti dai cittadini. Per la Consulta (sentenza n. 1 del 2014) questo sistema «ferisce la logica della rappresentanza». Ma con l’ Italicum i nominati restano, la ferita pure. Tuttavia il colpo mortale - al buon senso, oltre che alla Costituzione - è ancora un altro. Perché l’Italicum s’applica alla Camera, non anche al Senato. Lì resta un proporzionale puro, il Consultellum. Ma è ragionevole votare con due marchingegni opposti? Risponde, di nuovo, la Consulta: questa scelta schizofrenica «favorisce la formazione di maggioranze non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea». E dunque offende «i principi di proporzionalità e ragionevolezza». Insomma, non è in questione la legittimità di qualche differenza tra Camera e Senato. Dopotutto, le nostre assemblee legislative hanno già numeri diversi (630 deputati, 315 senatori), una diversa anagrafe (25 e 40 anni per occuparvi un seggio), un diverso corpo elettorale (alla Camera si vota a 18 anni, al Senato a 25). Non è un problema neppure la scelta fra maggioritario e proporzionale. L’uno sacrifica la rappresentatività del Parlamento in nome della governabilità, l’altro procede in direzione opposta. E infatti abbiamo fin qui sperimentato sia il primo che il secondo: votando con un proporzionale nella prima Repubblica, con un maggioritario durante la seconda. L’importante è non elidere del tutto il valore di volta in volta recessivo, privandoci d’un minimo di democrazia o privando la democrazia della stessa possibilità di funzionare. Ma è altrettanto importante che la scelta - quale che sia la scelta - esponga una motivazione razionale, ed è qui che casca l’asino, anzi l’ Italicum. Perché il supermaggioritario della Camera viene annullato dal superproporzionale del Senato, lasciandoci infine con le tasche vuote: senza democrazia, senza governo. Domanda bis: ma i nostri legislatori non lo sanno che la loro creatura è figlia illegittima della Costituzione legittima? Lo sanno, lo sanno. Anche se hanno cercato d’appellarsi alla riforma del Senato, per giustificare la trovata. Balle: ammesso che la riforma veda mai la luce, ammesso che il Senato elettivo finisca nel cassetto dei ricordi, la nuova legge elettorale sopravvivrebbe in ogni caso. Ne cadrebbe una parte, tutto qui. Abrogata per estinzione del suo oggetto, come succede quando la legge tutela una specie animale che in seguito s’estingue. E allora perché hanno cucito un vestito su misura per la Camera, lasciando il Senato a pelle nuda? E perché adesso non ci mettono una toppa? Risposta: perché è tutta una finta, un barbatrucco. Fingono di risolvere i problemi, e intanto ne creano di maggiori. 8 novembre 2014 | 07:57 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_08/nascoste-imperfezioni-dell-italicum-3e65b932-670f-11e4-afa4-2e9916723e38.shtml
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« Risposta #186 inserito:: Novembre 15, 2014, 05:48:30 pm » |
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Riforme e partite personali Retroscritto di un’intesa Di Michele Ainis C’ è sempre un non detto, un sottinteso. Renzi: eleggo un giudice costituzionale insieme ai 5 Stelle per dimostrare a Berlusconi che ho un’altra maggioranza pronta a cresimare le riforme. Berlusconi: accetto il nuovo Italicum perché così potrò concorrere alla scelta del nuovo presidente. Napolitano: anticipo le dimissioni per accelerare l’iter della legge elettorale, che infatti è uscita dal letargo. Sicché le due partite rimbalzano l’una addosso all’altra. Ma per vie oblique, e con accordi opachi. D’altronde anche il patto del Nazareno viene oscurato ormai da un sottopatto, quello fra Renzi e i suoi nanetti. Il primo alza l’asticella all’8% per guadagnare seggi: 4 milioni d’elettori. Il secondo l’abbassa al 3% e voilà! 2 milioni e mezzo di italiani svaniscono nell’aria come fumo. Assieme a loro svanisce pure la promessa d’eliminare i partitini, che trasformano i loro voti in veti. E il premio di maggioranza? 327 seggi, no, 340. Alla coalizione, no, alla lista. Ma sempre con un retropensiero, giacché la lista sarà una coalizione mascherata. Nel 2008 il Pd di Veltroni imbarcò 9 radicali, che ovviamente dopo le elezioni fecero a cazzotti col Pd. Se il matrimonio è falso, la baruffa poi è sincera. E quanto è sincero il coro delle vedove che implora Napolitano di restare? Chi vuole le elezioni in primavera non può che desiderare le sue dimissioni, perché lui non scioglierà mai questo Parlamento. Però è un desiderio inconfessabile, e infatti non viene confessato. Si professa viceversa l’urgenza della legge elettorale, anche se magari ai professori urge conquistare il Quirinale. E il varo dell’Italicum è un buon cavallo di Troia: convincerebbe il presidente a lasciare con animo sereno, avendo salutato almeno una riforma. Nel frattempo si consuma un paradosso. Con l’avvento di Renzi, Napolitano era finito in un cono d’ombra; ora è sotto i riflettori. I poteri presidenziali affievoliscono quando s’avvicina il giorno dell’addio; i suoi poteri invece si rafforzano. Dal semestre bianco al bimestre nero. E il nuovo presidente? Magari ringrazierà il Parlamento che l’ha eletto licenziandolo su due piedi. Ma a sua volta il Parlamento può spedirlo in cassa integrazione, se approverà per tempo anche la riforma della Carta. Perché quella riforma gonfia il premier, e perciò fa dimagrire il presidente. Curiosa, questa tenzone sotterranea per occupare una poltrona, proprio mentre la politica sega le gambe alla poltrona. Curioso, quest’affaccendarsi attorno alla legge elettorale con la mente rivolta a ben altre faccende. Ma la mente dei politici mente, non è una novità. 14 novembre 2014 | 07:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_14/retroscritto-un-intesa-06ac7b7e-6bc5-11e4-ab58-281778515f3d.shtml
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« Risposta #187 inserito:: Novembre 24, 2014, 03:06:57 pm » |
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Riforma elettorale Il rompicapo perfetto disorienta i cittadini Di Michele Ainis Buone intenzioni, cattive applicazioni. È giusto sbarazzarsi del bicameralismo paritario? Sì, però cambiando la Costituzione, non la legge elettorale. Quest’ultima non può semplificare l’ iter legis , né sottrarre ai senatori il voto di fiducia sul governo. E non è altrettanto giusto correggere la legge elettorale? Di più: è urgente. Altrimenti voteremmo coi rimasugli del Porcellum, ossia con un proporzionale puro. Difatti i nostri geni si sono messi all’opera, regalandoci l’Italicum. In sintesi: premio di maggioranza e governo chiavi in mano, con o senza ballottaggio. Peccato che il marchingegno s’applichi alla Camera, non anche al Senato. Tanto laggiù non serve, dicono; aboliremo l’elettività dei senatori. E se la riforma del Senato fa cilecca? Rimarrà in circolo un sistema schizofrenico, come il Corriere segnalò a suo tempo («Il buon senso nel cestino», 4 marzo). Supermaggioritario di qua, superproporzionale di là. Una follia. Denunziata, adesso, anche dagli ultimi due presidenti della Consulta (Silvestri e Tesauro). Secondo Roberto D’Alimonte ( Il Sole 24 Ore , 22 novembre), la denunzia «non sta in piedi». Ma è la sua difesa che ha problemi d’equilibrio. D’Alimonte osserva che la doppia elezione di Camera e Senato può sempre offrire risultati contrastanti, quale che sia la legge elettorale. Altro però è subirli, altro auspicarli, incentivarli, programmarli. Altro è decidere per un maggioritario usando ingredienti diversi (al Senato con l’unino-minale, alla Camera con il premio), altro è decidere per un maggiorzionale. Inoltre il premio di maggioranza sacrifica la rappresentatività del Parlamento, dunque si giustifica solo in cambio di maggiore governabilità. L’Italicum, viceversa, battezza un Senato ingovernabile, una Camera non rappresentativa. Con un solo sparo, uccide entrambi i valori costituzionali in gioco. E infine uccide pure il Parlamento, allevando due Dracula che si vampirizzano a vicenda. C’è un esorcismo contro questo vampiro? In teoria, basterebbe estendere l’Italicum al Senato. Dove però non votano i più giovani, che magari alla Camera voteranno in massa per i 5 Stelle. Rischiando, così, d’andare al ballottaggio con due coppie di ballerine differenti. Esempio: da un lato Grillo contro Renzi, dall’altro Renzi contro Berlusconi. Una follia al quadrato. Per scongiurarla, si può riesumare l’emendamento Lauricella: la legge elettorale entra in vigore dopo la riforma (ipotetica e futura) del Senato. Ma allora l’urgenza della legge verrebbe contraddetta dalla stessa legge. Una follia al cubo. Da qui l’unico effetto certo dell’Italicum: riapriremo i manicomi. 24 novembre 2014 | 08:26 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_24/rompicapo-perfetto-disorienta-cittadini-028a20ee-73ab-11e4-a443-fc65482eed13.shtml
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« Risposta #188 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:10:15 pm » |
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Efficacia cercasi La fretta e i dubbi In Italia siamo giustizialisti o garantisti a giorni alterni Di Michele Ainis A ogni azione corrisponde una reazione. È la terza legge della dinamica, ma è anche la prima legge della politica. Che infatti s’emoziona solo quando un’onda emotiva turba l’opinione pubblica. Troppi detenuti nelle carceri? Depenalizziamo. Troppi corrotti nella municipalità capitolina? Penalizziamo. Sicché in Italia siamo giustizialisti o garantisti a giorni alterni. Basta consultare Google: 141 mila risultati per «aggravamento delle pene», 143 mila per «diminuzione delle pene». Ma oggi è il giorno dell’inasprimento, del giro di vite e di manette. Il Consiglio dei ministri ha appena licenziato un testo urgente, benché non tanto urgente da confezionarlo in un decreto. E quel testo stabilisce la confisca dei beni del corrotto (meglio tardi che mai). Innalza i termini di prescrizione che altre leggi avevano abbassato. E per l’appunto aggrava la pena detentiva di due anni. Succede sempre, quando c’è un allarme sociale da placare. È già successo con le norme approvate dopo l’ultimo caso di pedofilia (settembre 2012) o dopo il penultimo disastro ambientale (febbraio 2014). Funzionerà? Come dice il poeta, «un dubbio il cor m’assale». Perché chi ruba e chi intrallazza non pensa al codice penale, pensa di farla franca. E se ci pensa, non saranno dieci anni di galera anziché otto ad arrestare i suoi progetti. Perché inoltre il deterrente non risiede nella durezza della pena bensì nella sua certezza; ma alle nostre latitudini è sempre incerta la condanna non meno della pena. Perché l’ordinamento giuridico italiano ospita già 35 mila fattispecie di reato, che chiunque può commettere senza nemmeno sospettarne l’esistenza. Rendendo così insicuro il cammino degli onesti, mentre rimane lesto il passo dei disonesti. E perché infine quell’ordinamento è volubile e sbilenco come i politici che l’hanno generato. Per dirne una, la legge di depenalizzazione del 1981 inasprisce le sanzioni per chi divulghi le delibere segrete delle Camere. Eppure una via d’uscita ci sarebbe: passare dalla (finta) repressione alla (vera) prevenzione. Come? Per esempio sforbiciando le 8 mila società partecipate dagli enti locali. O con misure efficaci contro il conflitto d’interessi, che tuttavia alla Camera rimbalzano dalla commissione all’Aula senza che i nostri deputati cavino mai un ragno dal buco. Con una legge sulle lobby: gli americani se ne dotarono nel 1946, gli italiani hanno visto 55 progetti di legge andare in fumo l’uno dopo l’altro. Con l’anagrafe pubblica degli eletti, che i Radicali propongono (invano) dal 2008. O quantomeno potremmo uscirne fuori rendendo obbligatorio per legge il provvedimento deciso dal sindaco Marino dopo la scoperta dei misfatti: rotazione dei dirigenti, degli incarichi, dei ruoli di comando. Una misura anticorruzione già emulata in lungo e in largo, dal Comune di Canicattì al Policlinico di Bologna. E già benedetta da Cantone il mese scorso, quando sempre Marino avviò la rotazione territoriale dei vigili urbani, dopo l’arresto per tangenti del loro comandante. Dopotutto, è l’uovo di Colombo. Se non resti per secoli inchiodato alla poltrona, ti sarà più difficile poltrire, ti sarà impossibile ordire. E il corruttore avrà i suoi grattacapi, se il corruttibile cambierà faccia a ogni stagione come una maschera di Fregoli. Dice: ma così diminuirà la competenza, che cresce in virtù dell’esperienza. Vallo a raccontare agli italiani, alle vittime di un’amministrazione incompetente e per giunta inamovibile. Vallo a raccontare a chi ha dovuto specchiarsi per vent’anni nelle facce immarcescibili degli stessi politici, degli stessi alti burocrati. Qui e oggi, una ministra fresca di stampa come Boschi sta facendo meglio di tanti suoi stagionati predecessori. E comunque l’uovo non lo inventò Colombo: fu deposto nell’antica Grecia. In democrazia si governa e si viene governati a turno, diceva Aristotele. Sarebbe bello se l’Italia sapesse riparare la sua democrazia. Di più: sarebbe onesto. michele.ainis@uniroma3.it13 dicembre 2014 | 09:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_13/fretta-dubbi-89174238-8295-11e4-a0e7-0a3afe152a95.shtml
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« Risposta #189 inserito:: Gennaio 05, 2015, 04:51:58 pm » |
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Le leggi dell’urgenza L’eclissi della regola Di Michele Ainis L’ eccezione è sempre eccezionale, direbbe monsieur de La Palice. Invece alle nostre latitudini è normale. Nel senso che la misura straordinaria costituisce ormai la norma, la regola, la prassi. Il caso più eloquente investe l’abuso dei decreti: 20 in 10 mesi, per il governo Renzi. Una media in linea con quella dei suoi predecessori, dato che Letta ne aveva sparati 22, Monti 25. Sicché questo strumento normativo, che i costituenti brevettarono per fronteggiare i terremoti, è diventato il veicolo ordinario della legislazione. Significa che in Italia i terremoti sono quotidiani, peggio che in Giappone. Come d’altronde i voti di fiducia, che hanno l’effetto di terremotare il Parlamento. Quello ottenuto dal governo sulla legge di Stabilità era il trentesimo della serie: dunque una fiducia ogni 10 giorni, record planetario. E oltre la metà delle leggi approvate sotto il ricatto del voto di fiducia. C’è sempre un argomento che giustifica la misura eccezionale: forza maggiore. Se non intervengo per decreto, chissà quando si decideranno a intervenire le due Camere. Se non pongo la fiducia, magari mi voteranno contro. E così via, fra un maxi emendamento e una seduta notturna sulla manovra finanziaria, per scongiurare l’esercizio provvisorio. Del resto la XVII legislatura s’aprì con la rielezione del presidente uscente. Non era mai avvenuto, ma quella scelta fu possibile - come disse lo stesso Napolitano - perché la Costituzione aveva lasciato «schiusa una finestra per tempi eccezionali». Dalla forza maggiore deriva l’eccezione, dall’eccezione l’eclissi della regola. Dovrebbe trattarsi di un’eclissi temporanea; invece è divenuta permanente. Così, in ogni democrazia i governati conferiscono un mandato ai loro governanti; ma gli ultimi tre esecutivi (Monti, Letta, Renzi) non hanno ricevuto alcun mandato. La loro investitura deriva dalla necessità, dallo stato d’eccezione. L’urgenza permanente inocula un elemento ansiogeno nella nostra vita pubblica. E anche in quella privata, come no. Tu scopri che l’ultimo Consiglio dei ministri si è tenuto alle 4.40 del mattino, t’accorgi che il prossimo è stato convocato alla vigilia del Natale, e allora ti ficchi un elmetto sulla testa: dev’esserci una guerra, benché nessuno l’abbia dichiarata. In secondo luogo, l’urgenza impedisce programmi a lungo termine, però in compenso alleva misure frettolose, strafalcioni, commi invisibili come quelli votati (si fa per dire) dai senatori sulla legge di Stabilità. In terzo luogo e infine, chi decide sull’urgenza? Per dirne una, quest’autunno il Parlamento si è riunito a raffica per eleggere due giudici costituzionali. Ne ha eletto uno, dell’altro non si sa più nulla. Il primo era urgente, il secondo no. Da qui il frutto avvelenato che ci reca in dono il nostro tempo. Perché la dottrina del male minore - cara a Spinoza come a Sant’Agostino - ci abitua a stare in confidenza con il male, sia pure allo scopo d’evitarne uno peggiore. E perché, laddove sussista una causa di forza maggiore, dovrà pur esserci una forza minore, una vittima sacrificale. Ma quella vittima è la legalità. 23 dicembre 2014 | 07:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_23/eclissi-regola-f1e9d650-8a69-11e4-9b75-4bce2f4b3eb9.shtml
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« Risposta #190 inserito:: Gennaio 05, 2015, 05:06:43 pm » |
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Il declino delle istituzioni - Vent’anni di solitudine Guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. Ma è un errore. Vale anche per l’Italia che, pare, non imparare mai dagli errori commessi Di Michele Ainis Rovesciare lo sguardo sul passato è come sporgersi da un pozzo: ti fa venire le vertigini. E t’impaurisce, perché il passato è un fondo d’acque limacciose. Sarà per questo che guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. È un errore: il futuro dipende dal passato. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. E vale per l’Italia, da tempo immersa in una stagione di «eccezionalità costituzionale». L’ha definita così Napolitano, auspicando il restauro della norma, della regola. Quale normalità? E dov’è stata, fin qui, l’eccezione? A girarsi indietro sui vent’anni della seconda Repubblica, due fenomeni si stagliano sopra tutti gli altri: la verticalizzazione del potere; la sua concentrazione personale. Entrano in crisi gli organismi collegiali, dal Parlamento che la Costituzione situa a fulcro del sistema, ma che ormai appare come una folla d’anime perdute; ai Consigli regionali, le cui imprese allietano la cronaca giudiziaria, non più quella politica. Lo stesso Consiglio dei ministri - che ai tempi della prima Repubblica costituiva il crocevia nel quale s’intessevano gli accordi fra i partiti di governo - viene offuscato e sormontato dal faccione del leader, del Gran Capo di turno. Perché è questo il nuovo verbo, tanto da praticare un lifting sulle parole stesse della Carta. Così, il presidente del Consiglio si trasforma in Premier, confondendo Tevere e Tamigi. I presidenti regionali sono altrettanti Governatori, come s’usa negli Usa. Il capo dello Stato diventa un monarca («re Giorgio»), manco fossimo a Madrid. Vent’anni di solitudine, direbbe García Márquez. E la solitudine al potere. Ma nel frattempo questi poteri solitari s’intralciano, si sfidano, tendono sgambetti. Anzi: tutta l’avventura della seconda Repubblica può leggersi come un duello, fra le istituzioni, se non fra le persone. E i maggiori duellanti hanno casa rispettivamente a Palazzo Chigi e al Quirinale. Chi ha vinto? Napolitano, nella penultima stagione. Quando i partiti gli chiesero a mani giunte di rieleggerlo, in nome dello stato d’eccezione. O quando lui fu levatrice e nume tutelare dei governi, surrogando il Parlamento. Ma ha vinto Renzi, nell’ultima stagione. Ossia un presidente del Consiglio superpopolare, mentre cadeva di 27 punti la popolarità del Colle (Demos 2014), mentre il suo inquilino lasciava il campo pur restandogli 5 anni di mandato. Sarà forse questa, la normalità costituzionale che ci attende. E dopotutto è questa - ahimè - la norma cui tende il progetto di riforma. Molte truppe, un solo generale. 4 gennaio 2015 | 10:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_04/vent-anni-solitudine-69376d42-93e0-11e4-8745-dbfbe9a3a0e4.shtml
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« Risposta #191 inserito:: Gennaio 19, 2015, 07:00:30 am » |
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Giochi aperti La figura che non vorremmo L’eredità di Napolitano al Quirinale Di Michele Ainis Ogni presidente della Repubblica scrive la storia, però è vero anche il contrario: è la storia che scrive i presidenti. Ciascuno di loro è figlio d’una particolare stagione politica, civile, culturale, e la influenza, ma soprattutto ne viene influenzato. Rammentiamocene, quando potremo vergare un giudizio a mente fredda sull’esperienza di Giorgio Napolitano al Quirinale. Rammentiamocene, mentre ci sospinge l’urgenza d’individuare il nome del suo sostituto. Perché una cosa è certa, nell’incertezza in cui nuotiamo giorno dopo giorno: l’uomo che uscirà dal Colle, al termine del settennato, sarà un uomo diverso da quello che v’era entrato. I precedenti, d’altronde, sono inconfutabili. Il caso più vistoso fu Cossiga: per cinque anni silente ed ossequiente, dal 1990 si trasforma in «picconatore» del sistema, insulta questo o quel capopartito, monta sul ring contro i magistrati, blocca sistematicamente le leggi approvate dalle Camere (con la media d’un rinvio a bimestre). Anche il suo successore, tuttavia, ospitava un mister Hyde sotto l’abito del dottor Jekyll. Scalfaro aveva criticato a muso duro l’interventismo di Cossiga, e infatti nel 1992 - quando giurò da capo dello Stato - promise di ripristinare la centralità del Parlamento, garantendo il self-restraint (l’autocontrollo) nell’esercizio delle proprie funzioni. Risultato: divenne il più interventista fra i nostri presidenti. Ben più di Napolitano, messo in croce per il battesimo dell’esecutivo Monti. S calfaro nominò sei presidenti del Consiglio, fra i quali almeno tre (Amato, Ciampi, Dini) posti sotto l’esplicita tutela presidenziale. E decise due interruzioni anticipate della legislatura, compresa quella davvero eccezionale del 1994, benché il Parlamento fosse capace d’esprimere una maggioranza in sostegno del governo. Potremmo continuare ancora a lungo in quest’esercizio di memoria. Potremmo evocare il nome di Pertini, eletto nel 1978 - durante i nostri anni di piombo - per garantire la tenuta delle istituzioni, poi perennemente scavalcate dal nuovo presidente attraverso il colloquio diretto con la pubblica opinione. Potremmo ricordare la traiettoria di Segni: nel 1962 esordisce anch’egli criticando l’attivismo del predecessore Gronchi, ma sta di fatto che nel biennio della sua presidenza usa per otto volte il potere di rinvio, quando in tutte le legislature precedenti le leggi rispedite alle Camere erano state appena sette. Senza dire dei fatti del 1964, su cui permane ancora un’ombra: nel bel mezzo d’una crisi di governo, Segni riceve ufficialmente al Quirinale il comandante dell’arma dei carabinieri, artefice del «piano Solo». Quale lezione possiamo allora trarre da questi remoti avvenimenti? Una doppia lezione, un corso universitario in due puntate. Primo: contano gli accidents of personality , come dicono gli inglesi. Conta il carattere, la tempra individuale. Perché al Quirinale risiede un potere monocratico, che ogni presidente usa in solitudine. E quel potere - scriveva nel 1960 il costituzionalista Carlo Esposito - non viene affidato alla Dea Ragione, bensì a un uomo in carne e ossa, con i suoi vizi e con le sue virtù. L’esperienza solitaria di ciascun presidente può acuire i vizi, o altrimenti può esaltare le virtù. Dipende. Ma lo sapremo solo a cose fatte, a bilancio chiuso. Secondo: contano altresì gli accidents of history, se così possiamo dire. Conta la storia, con i suoi imprevedibili tornanti. Dopotutto è questa la ragione che rese un primattore Scalfaro, al pari di Napolitano. A differenza di Ciampi - che visse gli anni più stabili della Seconda Repubblica - l’uno e l’altro si sono trovati a navigare il fiume lungo le sue anse terminali. Scalfaro alla sorgente, Napolitano alla foce. Anche se l’epilogo di quest’esperienza ventennale è ben lungi dall’essersi concluso. Ma in entrambi i casi si conferma un’altra profezia di Esposito, che dipingeva il presidente come «reggitore» dello Stato durante le crisi di sistema. Poi, certo, ogni crisi può abbordarsi in varia guisa. Ancora una volta, dipende: dagli uomini, così come dalle circostanze. Scalfaro distingueva fra governi amici e nemici, sicché nel maggio 1994 salutò il primo gabinetto Berlusconi con un altolà, esigendo per iscritto la sua «personale garanzia» circa il rispetto della Costituzione. Per Napolitano tutti i governi erano amici, e infatti nel novembre 2010 salvò lo stesso Berlusconi dalla mozione di sfiducia, ottenendone il rinvio al mese successivo. La sua bussola, insomma, si chiamava stabilità. Anche se nel frattempo l’edificio diventava sempre più instabile e sbilenco, anche se talvolta uno scossone può riuscire salutare. O almeno era quest’ultima la ricetta di Cossiga, una ricetta opposta a quella offerta da Napolitano. In conclusione, non c’è una conclusione univoca dettata dalla storia. O forse sì, c’è almeno un monito. Attenzione a scegliere una figura dimessa e scolorita: sarebbe un errore. In primo luogo perché il soggiorno al Colle accende colori insospettabili nei suoi vari inquilini. In secondo luogo perché la tormenta non si è affatto placata, ci siamo dentro mani e piedi. La Seconda Repubblica rantola, la Terza non ha ancora emesso i suoi vagiti. E in questo tempo di passaggio serve un capo dello Stato, non un capo degli statali. michele.ainis@uniroma3.it14 gennaio 2015 | 08:20 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_14/quirinale-chi-non-vorremmo-presidente-7bc6f18a-9bb5-11e4-96e6-24b467c58d7f.shtml
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« Risposta #192 inserito:: Gennaio 31, 2015, 04:48:27 pm » |
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Legge elettorale I padroni del voto di tutti Di Michele Ainis I compromessi, come i funghi, si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi. È commestibile il compromesso raggiunto sulla legge elettorale? Perché di questo, in ultimo, si tratta: l’ Italicum che sta per varcare l’uscio del Senato non è la legge di Renzi, né di Berlusconi. Il primo avrebbe preferito i collegi uninominali (intervista al Messaggero, 25 aprile 2012). Il secondo ha ingoiato il doppio turno, e ha pure dovuto digerire il premio alla lista, anziché alla coalizione. Ma non è generosità, è realismo. Perfino Lenin, nel settembre 1917, scrisse che in politica non si può rinunziare ai compromessi. E a noi popolo votante, quanto ci compromette il compromesso? Per saperlo, bisogna innanzitutto togliersi un Grillo dalla testa: che da qualche parte esista un sistema perfetto, dove l’elettore sia davvero sovrano. No, non c’è. I candidati li decidono i partiti, mica noi. Anche con l’uninominale, la nostra scelta è sempre di secondo grado. Rousseau diceva che il cittadino è libero soltanto quando vota, dopo di che per 5 anni torna schiavo. Sbagliava: non siamo del tutto liberi nemmeno in quell’unica giornata. Però c’è prigione e prigione. La più buia era il Porcellum: premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto. Di quanto si sono poi allargate le sbarre della cella? Di un bel po’, diciamolo; specie se mettiamo a confronto l’ultima versione dell’Italicum con il suo primo stampo. Per farlo, basta puntare gli occhi su una lettera dell’alfabeto: la «P». Premio, pluricandidature, preferenze, parità di genere, primarie, percentuali per l’accesso ai seggi: è su questi campi che si gioca la partita dei partiti. E dunque, il premio di maggioranza. In origine scattava con il 35% dei consensi, poi al 37%, ora al 40%. Meglio così, la forzatura suona meno forzata. Quanto alla soglia di sbarramento per i piccoli partiti, l’8% è diventato il 3%; ma dopotutto, se la governabilità discende dal premio, non aveva senso negare l’accesso in Parlamento alle forze politiche minori. Progressi pure sulle quote rosa: la Camera aveva detto no, il Senato dice sì. Però regressi sulle pluricandidature: da 8 a 10, come se Buffon giocasse in tutti i ruoli. E niente da fare sulle primarie obbligatorie, che avrebbero restituito un po’ di peso agli elettori. Infine le preferenze: subentrano alle liste bloccate, anche se restano bloccati i capilista. E clausola di salvaguardia rispetto all’abolizione del Senato elettivo, un altro punto che mancava nell’accordo originario. Si poteva fare meglio? Certo, ma anche peggio. Tuttavia c’è un’altra «P» da scrivere a margine di questa legge elettorale: il nuovo presidente. Toccherà a lui compensare la «P» del premier, che ne esce più forte che mai. Se viceversa al Colle entrerà una sua controfigura, in futuro i compromessi Renzi potrà farli con se stesso. 24 gennaio 2015 | 08:05 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_24/i-padroni-voto-tutti-37ed19c4-a391-11e4-808e-442fa7f91611.shtml
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« Risposta #193 inserito:: Febbraio 07, 2015, 10:03:53 am » |
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Il Quirinale I paradossi di una buona scelta Il voto su Mattarella è espressione della politica migliore. Ma il metodo seguito dal Pd per l’elezione rischia di complicare il cammino delle riforme, necessarie per chiudere una stagione di eccezionalità di Michele Ainis Con l’elezione di Mattarella, Matteo (Renzi) ha dato scacco matto. Ma il suo successo galleggia su cinque paradossi. Primo: i numeri. Inizialmente servivano i due terzi, ma la politica li ha (quasi) raggiunti quando non servivano, alla quarta votazione. Perché da subito c’era un candidato, ma c’era pure l’ordine di votare scheda bianca. Un trucco per eludere la maggioranza qualificata prescritta dalla Costituzione, che invece s’è presa una rivincita postuma sui posteri. Secondo: le facce. Nel 1981, quando la Democrazia cristiana regnava con il 38% dei consensi, a Palazzo Chigi c’era un repubblicano (Spadolini), al Quirinale un socialista (Pertini). Nel 2015 la Dc risulta morta da un bel pezzo, ma in quei due palazzi ha lasciato un figlio e un nipotino. Terzo: la legge. Quella elettorale è stata annullata l’anno scorso da Mattarella e dagli altri suoi colleghi alla Consulta, eppure il Parlamento nullo ha eletto il proprio annullatore. Significa che è nulla pure l’elezione? No, è nulla l’obiezione: anche Napolitano (nel 2006 e nel 2013) fu scelto da un Parlamento formato con il medesimo sistema, mica possiamo salire sulla macchina del tempo. Ma il paradosso più paradossale è il quarto, perché ha a che fare con il segno complessivo di quest’elezione presidenziale. Quale? Il riscatto della politica, del suo primato, della sua capacità decisionale. Due anni dopo, quel migliaio d’anime in pena precipitate nell’inferno dei franchi tiratori si sono svegliate in paradiso. Il voto su Mattarella esprime la scelta migliore per la successione al Colle, ed esprime al tempo stesso la politica migliore. Sennonché questa pienezza in realtà maschera un vuoto. Per riabilitarsi, la politica ha dovuto infatti uscire da se stessa, smentendo prassi fin qui sempre rispettate. Ne è prova il curriculum del nuovo presidente. Fra i suoi 11 predecessori, il solo Einaudi non era mai stato a capo del governo o di un’assemblea parlamentare; come Mattarella, lui fu soltanto vicepresidente del Consiglio, e magari l’analogia preannunzia una filosofia comune nell’interpretazione dei propri poteri. Ne è prova altresì l’incarico attualmente ricoperto da Sergio Mattarella: giudice costituzionale, come Giuliano Amato, l’altro principale candidato. Non era mai accaduto, giacché la politica non era mai stata costretta a chiedere soccorso a un’istituzione terza, per ritrovare la sua verginità perduta. Da qui l’ultimo slalom fra logica e politica. Con Mattarella ci lasciamo alle spalle la stagione dell’eccezionalità costituzionale, aperta dalla rielezione del vecchio presidente. Un evento inedito, che la Carta del 1947 sconsiglia ma non vieta, disegnando per l’appunto una finestra per le situazioni d’emergenza. Ora la finestra è stata chiusa, l’eccezione si è conclusa. Tuttavia la regola non c’è, o meglio non c’è ancora. Dipenderà dalle riforme, che però questo voto per il Colle ha reso ben più impervie, come mostrano i segnali sinistri che s’odono da destra. Dove il merito (Mattarella) piace, il metodo (Renzi) dispiace. E senza Forza Italia sarà dura incassare la riforma del Senato, del Titolo V, del nuovo assetto dei poteri. Dunque la scelta del nuovo presidente favorisce il restauro della regola, ma al contempo l’allontana. Mentre noi restiamo immersi in un tempo di passaggio, senza una bussola per orientare il nostro passo. michele.ainis@uniroma3.it2 febbraio 2015 | 10:04 © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/opinioni/15_febbraio_02/i-paradossi-una-buona-scelta-2e2dc630-aaae-11e4-87bf-b41fb662438c.shtml
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« Risposta #194 inserito:: Febbraio 25, 2015, 12:06:08 pm » |
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Lo stile Mattarella I silenzi e le parole del Colle Di Michele Ainis Magari dura poco. Magari fra qualche tempo sfoggerà un eloquio torrenziale, costringendoci ai tappi nelle orecchie. Ma intanto la cifra di Sergio Mattarella, in queste sue prime settimane al Quirinale, si riassume in una parola muta: il silenzio. Un unico intervento ufficiale (al Csm) registrato sul sito web del Colle, dopo il discorso d’insediamento. E nel frattempo partecipa silente alla celebrazione dei Patti lateranensi; annunzia l’apertura quotidiana del Palazzo in cui dimora, dettando cinque frasi secche come telegrammi; s’affaccia a una cerimonia in ricordo di Bachelet, ma resta ancora una volta silenzioso; commemora le foibe, parlando per meno d’un minuto; riceve le opposizioni irate dopo il voto sulla riforma costituzionale, senza concedere nessuna dichiarazione alle agenzie. Tutto qui. Peraltro in sintonia con lo stile di un uomo che dal 2008 aveva rilasciato un’unica intervista. O che salutò gli italiani, nel giorno dell’elezione, evocandone difficoltà e speranze con un soffio di voce: 15 parole, su cui si riversarono 15 quintali di commenti. Sarà che i siciliani sono di poche parole. Tuttavia quel silenzio, lassù dal Colle, rimbomba come un tuono. E a suo modo t’inquieta, mentre attorno la gente non smette di vociare. Infine t’interroga, ti rivolge una domanda che rimane poi senza risposta. Che cos’è, infatti, il silenzio? La più perfetta espressione del disprezzo, come diceva Bernard Shaw? O l’albero da cui pende la pace, secondo l’aforisma di Schopenhauer? Sennonché la domanda è ancora un’altra. E investe le istituzioni, più che le persone. Giacché incrocia una facoltà di cui i predecessori di Mattarella hanno fatto uso e abuso: il potere d’esternazione. Una pioggerella d’interviste, note di stampa, discorsi ufficiali, comunicati, conferenze, messaggi televisivi, allocuzioni. Cossiga ne inanellò 120 nel 1990, 170 nel 1991, 200 nel 1992. Ma il pioniere fu Pertini, da allora in poi emulato in lungo e in largo. Non era così, in origine. Nel suo Scrittoio del Presidente , Luigi Einaudi teorizzò il carattere privato, anziché pubblico, del pensiero presidenziale. Un’attività di consulenza informale verso il governo e il Parlamento, sottratta allo sguardo degli astanti. E i costituzionalisti, per una volta, cantavano all’unisono. Nel 1951 Guarino sosteneva che il presidente non potesse appellarsi all’opinione pubblica, salvo i messaggi di circostanza, ma sempre per iscritto e con la controfirma del governo. Nel 1958 Crisafulli reputava la controfirma doverosa anche per gli interventi orali. Mentre Barile ragionava sulla controfirma tacita: quando il presidente s’accosta a un microfono senza chiedere permesso, o il governo lo bacchetta, oppure vuol dire che è d’accordo. Insomma, chi tace acconsente, ma è molto meglio se tace il presidente. Che cosa resta, adesso, di quelle antiche tesi? La Costituzione è sempre uguale, ma da trent’anni vige la regola contraria. Il potere d’esternazione è diventato l’arma più visibile e potente di cui dispone il Quirinale, il megafono d’istanze collettive, la frusta con cui l’uomo del Colle richiama le altre istituzioni ai propri adempimenti. Qui c’entra, senza dubbio, la funzione che la nostra Carta assegna al capo dello Stato. Se lui rappresenta l’unità nazionale - scriveva Paladin nel 1986 - dovrà giocoforza collegarsi all’opinione pubblica, perché altrimenti rappresenterebbe il nulla. Ma c’entra soprattutto un elemento di rottura fra il prima e il dopo della nostra storia costituzionale: la crisi dei partiti. È questa crisi che ha allevato l’esigenza di un’autorità morale, in grado di colmare il vuoto lasciato dai partiti. E non a caso la logorrea presidenziale erompe durante gli anni Ottanta, quando si manifestano le prime avvisaglie della crisi. Che tuttavia non è affatto conclusa; semmai, si è incrudelita. Da qui l’ennesima domanda. Forse gli ultimi presidenti hanno parlato troppo, e troppo spesso si sono esercitati in una recita dell’ovvio; le parole andrebbero spese con misura, soppesandole una ad una. Ma quanto può essere utile un presidente taciturno? Se quest’ultimo incarna - come diceva Piero Calamandrei - la viva vox Constitutionis, dovrà comunque far risuonare la sua voce. Magari applicando la ricetta di un filosofo, anziché di un costituzionalista. Wittgenstein: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». Ma sul resto no, parliamone. 23 febbraio 2015 | 08:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_23/i-silenzi-parole-colle-33c0d6b6-bb23-11e4-aa19-1dc436785f83.shtml
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