LA-U dell'OLIVO
Novembre 26, 2024, 06:08:49 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 30 31 [32] 33 34 35
  Stampa  
Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278292 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #465 inserito:: Febbraio 01, 2016, 09:03:03 pm »

L'Italia, un passante verso altrove
27 gennaio 2016
   
Le immagini e le parole sono importanti. Raffigurano e rappresentano un fenomeno sociale. Anzi, lo costruiscono. Oppure lo de-costruiscono. Come sta avvenendo in questi tempi di grandi movimenti demografici. Difficili da definire e da concepire, anche a causa della pluralità di parole e immagini che usiamo per "dirli". Immigrati, profughi, rifugiati, clandestini. Migranti. Non è la stessa cosa. Questi termini non hanno lo stesso significato. Anche se, insieme, evocano un fiume impetuoso, che non riusciamo a frenare, tanto meno, a incanalare. Così emerge e si afferma l'immagine dell'invasione.

Anche se non è facile comprendere come si possa essere invasi e occupati da una massa di uomini in fuga. Spinti da povertà e paura. Oppure "deportati" da mercanti di disperazione. Ma ci mancano le parole per dire quel che sta capitando intorno a noi. A stento, riusciamo a manifestare il nostro sconcerto, la nostra difficoltà di comunicare - e di capire - le grandi trasformazioni che ci attraversano. Letteralmente. Perché siamo un Paese a metà. Una terra di mezzo. E abbiamo il problema di collocarci. Di capire dove e, quindi, cosa siamo. Quale posto occupiamo in Europa. E in questa parte del mondo. Perché intorno a noi, a Est, si erigono muri. Steccati. Barriere di filo spinato. Per contrastare e per frenare, magari: per deviare, l'esodo che arriva dalla Grecia e dalla Turchia.  Mentre Nord e a Ovest si ripristinano le frontiere. O meglio: i controlli al confine. Per scrutare se, in mezzo ai flussi dei migranti (emigranti, immigrati, profughi...), vi siano dei possibili terroristi infiltrati.

Visto dall'alto, questo spostamento da Sud verso Nord appare evidente. Rispecchia la storica tensione, anzi, la fuga, dalla povertà al benessere. Dal sottosviluppo allo sviluppo. In questo grande movimento, in questo grande esodo che segna il nostro tempo, l'Italia appare soprattutto, se non solo, un luogo di passaggio. Di transizione. Verso altri Paesi, altre destinazioni. Si fermano in Italia il tempo necessario per proseguire la fuga. Così, noi ci difendiamo dagli altri che percepiamo come una minaccia. Ma dovremmo difendere noi stessi. Dalla nostra perifericità crescente. Che rischia di ridurci a custodi di un non-luogo. Attraversato da popoli che guardano "oltre". Impegnati in un grande esodo. Verso una terra promessa che sta al-di-là, più a Nord. Mentre noi diventiamo una sorta di svincolo. Un passante per l'Europa. Cioè: verso "altrove".

© Riproduzione riservata
27 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/01/27/news/l_italia_un_passante_verso_altrove-132119086/?ref=HRER2-1
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #466 inserito:: Febbraio 01, 2016, 09:04:09 pm »

Il popolo senza età del Paese vuoto

Di ILVO DIAMANTI
01 febbraio 2016
   
È il tempo della demografia. Argomento importante e discusso almeno quanto la democrazia. È sufficiente, a questo proposito, osservare le manifestazioni e gli avvenimenti che hanno mobilitato il Paese, in questa fase.

In nome della famiglia e delle unioni civili. Delle adozioni e della maternità surrogata. Questioni di grande rilievo etico e politico. Ma, indubbiamente, anche "demografico".

Come, a maggior ragione, le migrazioni che, da mesi, proseguono, dall'Africa e dal Medio Oriente. E premono alle nostre frontiere. È il tempo della demografia. Un tempo inquieto, pervaso di paure e tensioni. E grandi discussioni. In ambito politico, mediatico. E sociale. Perché la demografia è importante quanto la democrazia. I due piani: si incrociano e si condizionano reciprocamente. Basti pensare a come democrazie considerate all'avanguardia dei diritti reagiscano alle sfide demografiche. Ai movimenti migratori che "risalgono" da Sud verso il Nord. La Svezia: ha deciso di espellere 80mila immigrati. Di rimpatriarli, con voli speciali. Mentre la Finlandia intende seguirne l'esempio. Promette di rimandarne a casa almeno 20mila. In Danimarca, invece, il governo liberale, con il sostegno dell'opposizione socialdemocratica, ha deciso effettuare prelievi forzosi sui beni personali dei richiedenti asilo, per sostenere le spese di accoglienza. In Italia non sono state ancora prese decisioni di questo genere. Ma le tensioni e le discussioni politiche sono accese. Da anni. D'altronde, Lampedusa è stata, fino a poco tempo fa, la prima "porta verso l'Europa" dell'immigrazione in fuga dalla Libia. Prima che i flussi si spostassero verso la Grecia e la Turchia. Spinti dai conflitti con l'Is nell'area fra Siria e Iraq. Ma la "questione migratoria" ha continuato a essere agitata dagli "imprenditori della paura". Che alimentano la minaccia dell'invasione. Gli stranieri alle porte, che minacciano il nostro benessere. Il nostro futuro. Un argomento inquietante - e dunque attraente - in questi tempi inquieti.

Noi, d'altronde, siamo un Paese in "transizione", sotto il profilo democratico (anche se la transizione, suggerisce Stefano Ceccanti, in un saggio in uscita per Giappichelli, sarebbe "quasi finita"). Ma in via di "estinzione" sotto il profilo demografico (come suggerisce il dossier del Foglio di lunedì scorso). I dati, al proposito, sono noti da tempo. Ma, di recente, appaiono perfino drammatizzati. Per la prima volta, dopo il biennio 1917-18, cioè dall'epoca della Grande Guerra, la popolazione residente in Italia, nel 2015, è diminuita. Di circa 150 mila unità, segnala il demografo Gian Carlo Blangiardo (sul portale neodemos.info). Perché sono aumentati i decessi, mentre le nascite hanno continuato a calare. E il contributo demografico degli immigrati si è molto ridimensionato, rispetto ad alcuni anni prima. La paura dell'invasione, dunque, contrasta con la

realtà dei fatti. Ma anche con la posizione (e la percezione) dell'Italia, presso gli stranieri. Il nostro Paese, infatti, agli immigrati che arrivano appare prevalentemente un "luogo di passaggio". Una stazione provvisoria. Verso altre destinazioni, più ambite. D'altronde, i flussi migratori sono strettamente legati agli indici di crescita economica e dell'occupazione. Ma anche all'estensione del welfare. Condizioni favorevoli all'accoglienza, che, tuttavia, si stanno deteriorando ovunque, in Europa. E da noi in modo particolare.

La nostra "demografia", dunque, soffre. Come la nostra economia e la nostra occupazione, che difficilmente avrebbero potuto svilupparsi, negli ultimi vent'anni, senza il "soccorso" degli immigrati. Noi, tuttavia, non ce ne accorgiamo. E soffriamo l'arrivo degli "altri". Il nostro declino demografico riflette, inoltre, l'invecchiamento. La popolazione anziana (da convenzione: oltre 65 anni), in Italia, costituisce, infatti, il 21,4% della popolazione. Il dato più alto in Europa, dove la media è del 18,5%. Accanto a noi, solo la Germania. Per avere un'idea della crescita, si pensi che, nel 1983, la quota di popolazione anziana, da noi, era intorno al 13%. Sul piano globale, l'Italia è già oggi il terzo paese per livello di invecchiamento, anche perché appena il 14% dei residenti è al di sotto dei 15 anni. D'altronde, noi invecchiamo in misura maggiore che altrove non solo per la caduta dei tassi di natalità e per l'aumento della mortalità, ma perché l'emigrazione colpisce anche noi. Sono partiti dall'Italia quasi 95mila italiani nel 2013 (secondo il Rapporto della Fondazione Migrantes), poco meno di 80mila nell'anno precedente. Molti più degli stranieri arrivati in questi anni. Si tratta, soprattutto, di giovani (fra 18 e 34 anni). In possesso di titolo di studio elevato. I nostri giovani, i nostri figli. Soprattutto se dispongono di un grado di istruzione elevato. E ambiscono a occupazioni adeguate. Se ne vanno. Praticamente tutti. Perché l'Italia non riesce a trattenerli. A offrire loro opportunità qualificanti. Così invecchiamo sempre di più. E ci sentiamo sempre più soli. Anche se ci illudiamo di restare giovani sempre più a lungo. Per sempre giovani. Basti pensare che (secondo un sondaggio dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos-Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, di prossima pubblicazione) il 19% degli italiani pensa che la giovinezza possa durare anche oltre i 60 anni. Il 45% che finisca tra 50 e 60 anni.

Io, che, a 63 anni compiuti, mi considero (almeno) anziano, senza rimpianti e, anzi, con una certa soddisfazione, per aver conquistato il "privilegio" di una maturità avanzata, mi devo rassegnare. Alla condanna di non invecchiare. O meglio (peggio...), di non diventare adulto. Una minaccia che, come hanno rammentato di recente Ezio Mauro (su Repubblica) e Gustavo Zagrebelsky (in un saggio pubblicato da Einaudi), incombe su di noi. In particolare, sugli italiani. Abitanti di un Paese che non c'è. In un tempo che non c'è. Per questo dovremmo fare appello alla demografia. Leggerne le indicazioni e gli ammonimenti. Ma per non estinguerci, per non finire ai margini, dovremmo davvero chiudere le frontiere. Verso Nord. Per impedire agli immigrati - come ai nostri giovani - di andarsene altrove. E di lasciarci "a casa nostra". Sempre più vecchi. Sempre più soli. Sempre più incazzati. Con gli altri. Ma, in realtà: con noi stessi.

© Riproduzione riservata
01 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/01/news/il_popolo_senza_eta_del_paese_vuoto-132455930/?ref=HRER2-2
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #467 inserito:: Febbraio 18, 2016, 11:59:25 am »

Quei sindaci senza territorio

Di ILVO DIAMANTI
15 febbraio 2016

Siamo in tempo di primarie e di scelta dei candidati sindaci, in vista delle amministrative della prossima primavera. Quando si voterà per rinnovare sindaci e amministrazioni di oltre 1300 comuni. Tra questi, alcuni importanti capoluoghi di Regione: Bologna, Cagliari, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste. Poco più di vent'anni da quando entrò in vigore l'elezione diretta del sindaco. Ma pare passato un secolo, un millennio, da allora. L'unico partito che contasse, in quegli anni, era il "partito dei sindaci". Delle grandi città. Fra gli altri: Cacciari a Venezia, Illy a Trieste, Castellani a Torino, Bassolino a Napoli, Rutelli a Roma.

L'avvento del "partito dei sindaci" sanciva il superamento della "democrazia dei partiti" tradizionali. I partiti di massa, sepolti, insieme alla Prima Repubblica, sotto le macerie del muro di Berlino. E di Tangentopoli. Il rapporto dei cittadini con la politica, da quel momento, si trasferì: dalle organizzazioni alle persone. Mentre la ricerca del consenso venne affidata alla comunicazione e ai media, invece che all'ideologia e alla partecipazione. Questo cambiamento, in ambito nazionale, venne interpretato e imposto, soprattutto, da Silvio Berlusconi, l'anno seguente. Quando, inventò un partito mediale e personale, Forza Italia, che si affermò alle elezioni politiche del 1994. Quel modello ha trasformato la politica e i modelli di partito. Fino ad oggi.

L'elezione diretta dei sindaci, nel 1993, segnò, inoltre, lo spostamento degli equilibri di potere dal centro alla periferia. I sindaci, infatti, imposero il territorio come principio di legittimazione politica e di governo. Proseguirono, così, il cammino lungo la strada aperta dalla Lega, che fece del territorio una bandiera. Ma lo identificò con il Nord e con la Padania. I sindaci, eletti direttamente dai cittadini, invece, promossero e "rappresentarono" il trasferimento istituzionale dei poteri dal Centro dello Stato ai contesti locali. In altri termini, il "federalismo". Rafforzato, negli anni seguenti, dall'elezione diretta dei Presidenti di Regione. Ri-nominati, per questo, "governatori". Si realizzò, così, lo "Stato delle autonomie". Imposto, anzitutto e soprattutto, dal Nord e dal Nordest. Dal Lombardo-Veneto. Protagonisti: Berlusconi, la Lega. E (alcuni) sindaci. Vent'anni dopo, è difficile riconoscere il filo di quella storia. Soprattutto se facciamo riferimento ai candidati emersi dalle primarie che si sono svolte - a Milano. E a quelli che verranno espressi fra qualche settimana. Non tanto perché me ne sfuggano i nomi, in alcuni casi. (Non è possibile sapere tutto quel che avviene dovunque...) Ma perché, nel frattempo, è cambiato il fondamento e, dunque, il significato, della loro investitura. Certo, saranno sempre i cittadini a votare, direttamente, per il sindaco. Tuttavia, appare sicuramente difficile ricondurre la loro scelta alla società civile, ai comitati e alle forze locali. Dunque: al "territorio". Nelle città più importanti - per fare due esempi: a Milano e a Roma - i candidati sindaci del Pd sono stati scelti in primo luogo - e talora in prima persona - dal Sindaco d'Italia. Già sindaco di Firenze. In altri termini: da Matteo Renzi. Leader del Pd e del governo. Principale esempio dell'attuale "democrazia del leader" (come l'ha definita Mauro Calise, in un libro appena uscito per Laterza) che regola e governa l'Italia. D'altra parte, e dall'altra parte, le scelte - a Roma e a Milano, ancora per esempio - sono orientate personalmente da Silvio Berlusconi. Mentre la selezione dei candidati del M5s avviene attraverso il blog di Beppe Grillo, con la supervisione e le regole dettate da Gianroberto Casaleggio. Vent'anni dopo, dunque, l'elezione dei sindaci avverrà in un clima e in contesto - politico - ben diverso. Governato da leader senza partiti. O meglio, da leader che sovrastano i partiti. Da partiti "personali" o "personalizzati", al servizio dei leader. Mentre il territorio ha perduto colore e potere. Le stesse Regioni: sono ridotte a grandi Asl, che gestiscono la sanità (circa l'80% dei loro bilanci) con risorse sempre più ridotte. Il loro compito maggiore, nel prossimo futuro, sembra ridotto a fornire il "personale" a un Senato senza più poteri. Infine, i Sindaci. Insieme ai comuni che governano, sono costretti a far fronte a domande e aspettative crescenti, ma con fondi e trasferimenti in continuo declino. Erano "attori" di governo e delle istituzioni. Oggi sono ridotti a "esattori". Per conto dello Stato.

La Lega, d'altra parte, ha scolorito la sua identità padana, la sua vocazione nordista. Matteo Salvini ha rilanciato il partito, spingendolo al Centro e al Sud. Ne ha spostato l'asse politico - e l'identità - a Destra. Oggi, è Ligue Nationale. Anch'essa, partito "personalizzato", al servizio del Capo (per dirla con Fabio Bordignon).

Così, vent'anni dopo, ne sembrano passati mille. È un'altra era, un altro mondo. Perché, se ci guardiamo intorno, scopriamo un panorama politico e istituzionale senza territorio. Senza partiti. Ma con molti piccoli capi, i sindaci. Sparsi e dispersi nel Paese. A governare su tutti: un solo Leader. Circondato da pochi consiglieri fidati. Sfidato solo da alcuni anti-leader.

© Riproduzione riservata
15 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/15/news/quei_sindaci_senza_territorio-133450155/?ref=HRER2-1
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #468 inserito:: Febbraio 28, 2016, 11:57:06 pm »

Sì alle unioni civili, no alla stepchild: gli italiani approvano la nuova legge
L'intesa tra il Pd e Alfano rispecchia gli orientamenti degli elettori, non solo tra i moderati.

Renzi e M5s pagano gli scontri dei giorni scorsi

Di ILVO DIAMANTI
27 febbraio 2016

ALLA FINE, il maxiemendamento sulle "Unioni civili" è stato approvato dal Senato. Con lo stralcio delle norme sulla stepchild adoption e dei riferimenti diretti al matrimonio. Ha ottenuto il sostegno dell'Ncd di Angelino Alfano e del gruppo guidato da Denis Verdini. Così Matteo Renzi è riuscito a sbloccare una legge-bandiera. Facendo, però, attenzione agli orientamenti degli elettori. Come emerge dal sondaggio di Demos, realizzato nei giorni scorsi e pubblicato oggi da Repubblica. L'Atlante Politico di Demos, infatti, mostra come le Unioni civili fra coppie omosessuali siano approvate da oltre due elettori su tre. Al contrario della stepchild adoption. Accettata da poco più di un elettore su tre. E, soprattutto, da una quota minoritaria, seppure di poco (46%), di elettori del Pd. Ma anche del M5S (41%). Così si spiega il percorso contorto seguito da Renzi - e dai leader del M5S – in questa vicenda. Renzi e il M5S rivolgono, infatti, grande attenzione agli elettori "moderati". Decisivi per affermarsi e governare, nel Paese.

LE TABELLE

Naturalmente, la geometria variabile delle alleanze scelta da Renzi, in Parlamento, apre nuove divisioni. Anzitutto, nel suo partito, nel Pd, dove la sinistra appare, ormai, ostile. Un'opposizione al PdR dentro al PD. Ma il dissenso si sta allargando anche in altri ambienti. D'altronde, intorno a questa legge, nelle scorse settimane, si sono mobilitate piazze animate da sentimenti opposti. Da un lato, il "popolo arcobaleno", a sostegno del ddl Cirinnà. Dall'altro, il "Family day", ovviamente contrario.

Si spiega anche così il relativo calo della fiducia nei confronti del governo e di Matteo Renzi rilevato dall'Atlante di Demos. La fiducia nel governo, anzitutto, è scesa al 41%: 5 punti in meno rispetto a novembre 2015, quando è stato condotto l'ultimo sondaggio. Ma ancor più significativa appare l'evoluzione del gradimento personale nei riguardi del premier. Oggi è espresso dal 41% degli elettori. Come il governo. Cioè, 7 punti percentuali in meno rispetto allo scorso novembre. Ma, soprattutto, poco più del consenso ottenuto da Pier Luigi Bersani (39%). Era dai tempi in cui vinse le primarie, nel 2012, che Bersani non risultava così apprezzato dagli elettori. A conferma delle divisioni interne al Pd e, in particolare, nella sinistra.

Certo, Renzi è ancora il primo, nella graduatoria dei leader. Ma le distanze dagli altri esponenti politici sono molto strette. Dopo Renzi e Bersani, in una decina di punti incontriamo: Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Luigi di Maio, Diego Della Valle e Maurizio Landini. A un'incollatura: Beppe Grillo (peraltro, in sensibile calo). Solo Giorgia Meloni, leader dei FdI, e Di Maio, (candidato) leader del M5S, fanno osservare una crescita del loro consenso personale. Comunque, limitata. Non paragonabile alla progressione di Bersani (7 punti in più). Tuttavia, è interessante osservare come il Pd - sul piano elettorale, almeno - non paghi queste crescenti tensioni intorno al segretario-premier (e viceversa). Le stime di voto – proporzionale – elaborate da Demos riportano, infatti, il Pd oltre il 32%. Poco più rispetto allo scorso novembre. Ma era dall'estate scorsa che non raggiungeva questo livello. Peraltro, il M5S – unica vera opposizione, fino ad oggi - è danneggiato dalle polemiche di questi giorni sulle Unioni civili. Ma, soprattutto, dai conflitti – interni oltre che con gli altri partiti - a Bologna, a Livorno, a Parma... E, prima ancora, a Quarto, dov'è accusato di essere stato "infiltrato" dalla camorra.

Certo, il M5S resta la forza politica più accreditata nella lotta alla corruzione. Ma la quota di elettori che lo ritiene il soggetto più credibile, su questo piano, scende di qualche punto: dal 31% al 27%. Mentre, al contempo, si allarga l'area di quelli che non credono a nessuno. Secondo quasi metà del campione (il 46%), di fronte alla corruzione, tutte le forze politiche sono in-credibili. Nonostante questi problemi, il M5S paga un prezzo, tutto sommato, relativo. Si attesta poco sotto il 26%. Un punto e mezzo in meno, negli ultimi tre mesi. Ma oltre 6 punti sotto al Pd. La distanza più elevata dalla scorsa estate. Tra le altre forze politiche, si osserva il riallineamento di Forza Italia, in crescita lieve, alla Lega Nord, in calo di quasi un punto. È significativo, infine, il risultato attribuito ai FdI, che raggiungono il 5,5%. Favoriti dalla visibilità di Giorgia Meloni.

Dunque, il Pd oggi mantiene le sue posizioni, anche se il suo leader ha perduto qualche punto, negli ultimi mesi. O, forse, proprio per questo. In passato ho scritto che nel PD coabitano due identità. Quella "storica" e quella "personalizzata". Il Pd e il PdR. Riuniscono coloro che votano Pd nonostante Renzi. E quelli che votano per Renzi nonostante il Pd. Quando le due identità coabitano, allora il successo è grande. Come alle elezioni europee del 2014. Ma la coesistenza non è sempre facile. Anzi lo è sempre meno. Anche se Renzi è abile e agile. Persegue e realizza iniziative ad alta visibilità e, comunque, gradite. Le sue polemiche con L'Unione Europea: contro i vincoli di spesa che costringono all'austerità. Contro coloro che non condividono la ripartizione delle quote di migranti. Sono largamente apprezzate dagli elettori. Non solo nel Pd, ma ben oltre.

Tuttavia, Matteo Renzi appare, sempre più, un leader "solo". Che si affida soprattutto – anzitutto - a collaboratori fidati. Nel partito, nel governo: al centro c'è lui. Il Capo. Il Premier. Tutto il resto gli ruota intorno. Così, se, in termini proporzionali, il Pd si conferma primo partito, in caso di ballottaggio, il suo successo risulta più incerto.

Secondo le stime di Demos, due punti soli lo dividono dal M5S, ma anche da un soggetto politico di destra, che riunisse FI, Lega e FdI. Naturalmente, nel ballottaggio, il Pd potrebbe contare sull'immagine – ancora forte - del Capo. Mentre non è chiaro chi sarebbe alla testa degli altri partiti. Però, anche per questo, la coabitazione fra i due Pd potrebbe diventare un problema. Trasformando il Pd-R – cioè, il Pd di Renzi - in un faro. Che indica il porto verso cui dirigersi. O da cui fuggire. Una specie di nuovo muro. Come Berlusconi, fino a ieri.

© Riproduzione riservata
27 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/27/news/si_alle_unioni_civili_no_alla_stepchild_gli_italiani_approvano_la_nuova_legge-134331362/?ref=HRER3-1
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #469 inserito:: Aprile 08, 2016, 08:56:08 pm »

A qualcuno piace Brexit
Nel Regno Unito l'atteggiamento euroscettico si è tradotto in voglia di distacco.
L'emergenza sollevata dalla grande migrazione degli ultimi mesi ha accentuato le tensioni

Di ILVO DIAMANTI
04 aprile 2016

Si è aperta, in Italia, una stagione di democrazia diretta. Segnata da due referendum con diverso contenuto e diverso significato. Fra due settimane: la trivellazione dei pozzi petroliferi. In autunno: le riforme costituzionali. Ma il ricorso alla consultazione referendaria va ben oltre i nostri confini e le nostre questioni interne, per quanto importanti. Nel Regno Unito, nei prossimi mesi, si voterà per restare nell'Unione Europea. O meglio: per uscirne. D'altronde, i cittadini del Regno Unito non hanno mai amato l'Europa.

LE TABELLE

Come comunità economica. Tanto meno come soggetto politico. E questo sentimento si è complicato e accentuato negli anni della crisi economica. Quando il debito comunitario e degli Stati membri è cresciuto. Minacciando anche coloro che ne erano e ne sono meno responsabili. Come, appunto, l'Uk. Così lo spirito euroscettico si è diffuso ulteriormente. Solo un terzo dei cittadini del Regno Unito, infatti, esprime fiducia nei confronti della Ue. Come in Italia, peraltro. Dove, però, prevale un atteggiamento tattico e disincantato. Visto che la maggioranza della popolazione non "ama" la Ue - e tanto meno l'euro. Ma teme di uscirne. Per prudenza. Gli italiani: si dicono europei "malgrado". Nonostante tutto. I cittadini del Regno Unito: molto meno. Il loro legame con le istituzioni europee è più precario. Perché confidano maggiormente nel loro sistema di governo. E, tanto più, nella loro moneta. In politica internazionale, peraltro, si sentono "atlantici". Guardano, cioè, agli Usa piuttosto che all'Europa. Piuttosto che alla Ue.

Così, l'atteggiamento euroscettico si è tradotto in voglia di distacco. Tanto che Ukip, il partito guidato da Nigel Farage che predica apertamente l'uscita dalla Ue, alle elezioni europee del 2014 ha superato il 27%. L'emergenza sollevata dalla grande migrazione degli ultimi mesi ha accentuato le tensioni. All'interno del Regno Unito. E fra il Regno Unito e i Paesi europei. Per prima: la Francia.

Oggi, dunque, ci stiamo avvicinando a questo passaggio. Senza ritorno. Perché un voto favorevole all'uscita dalla Ue aprirebbe una crisi probabilmente fatale in una costruzione fragile e instabile come la Ue. Con il rischio di riprodurre le fratture anche nel continente. Dove i legami con l'istituzione europea risultano poco solidi. Ad eccezione che in Germania e nei Paesi dell'Est che ambiscono a farne parte. I sondaggi, al proposito, confermano dubbi e incertezze. Visto che disegnano uno scenario aperto. Dove i sì e i no all'uscita dall'Unione Europea si equivalgono (intorno al 35-40%). Mentre gli indecisi sono ancora molti. Circa un quarto. E risulteranno, per questo, decisivi. Così, la campagna in vista della scadenza referendaria si fa sempre più accesa. E l'argomento che sta assumendo importanza crescente è il costo della Brexit. Per gli europei, ma ancor più nel Regno Unito. La cui economia, si sostiene, soffrirebbe molto, in caso di "defezione". Tuttavia, questa minaccia non sembra scoraggiare chi, in fondo, ne tiene già conto. E, nonostante tutto, sceglie la strada della "secessione".

Diverso, semmai, è il discorso per i cittadini europei che non vivono nel Regno Unito. I quali verrebbero, inevitabilmente, coinvolti da questa scelta. Tuttavia, gli atteggiamenti, in proposito, appaiono differenziati e incerti. Almeno in Italia. Perché, probabilmente, molte persone non ci hanno ancora pensato. D'altronde, se per i cittadini del Regno Unito, è difficile decidere, figurarsi per gli altri...

In Italia, comunque, metà della popolazione (intervistata da Demos) teme l'uscita del Regno Unito dalla Ue. Ritiene, infatti, che produrrebbe effetti negativi non solo nel Regno Unito. Anche da noi. Ma ciò significa che l'altra metà la pensa diversamente. In particolare, due italiani su dieci non percepiscono il rischio di conseguenze particolari. Si tratta, soprattutto, degli elettori più disincantati e indifferenti. Gli "astenuti". Non solo dalla politica, anche dall'Europa. Quelli che tracciano i confini del proprio orizzonte pubblico a poca distanza da loro. Una frazione molto limitata vede questa scelta pericolosa per il Regno Unito ma non per l'Europa. Mentre è molto più elevata (15% circa) la quota di coloro che ritengono l'uscita dell'Uk un problema per gli europei, ma, al contrario, un beneficio per i cittadini britannici. Poco inferiore è il consenso alla Brexit "senza se e senza ma". Considerata un beneficio per tutti. Senza eccezione.

I tifosi della defezione sono, in tutti i casi, ben definiti e identificabili. Hanno, cioè, un profilo politico coerente. Partecipano, infatti, alla corrente euroscettica. Sono, per questo, particolarmente numerosi fra gli elettori della Lega e di Forza Italia. In misura relativamente più limitata, nella base del M5s. Tra coloro che esprimono sfiducia nei confronti della Ue, in particolare, sono tre volte di più che tra gli euro-convinti. Rispecchiano, in qualche misura, le preferenze politiche di coloro che vedono nella Brexit un beneficio esclusivo per chi vive nel Regno Unito.

È facile comprendere la ragione di questo orientamento. Non si tratta solo di empatia. È di più: identità. Sostegno convinto. Segno che anche in Italia c'è chi tifa per la Brexit. In modo aperto. Esplicito. Perché favorisce un progetto sostenuto da altri movimenti e soggetti politici, di altri Paesi. In altri termini: chi tifa per la Brexit, in Italia, tifa per la fine della Ue. Immagina e spera che la costruzione europea, in seguito alla defezione del Regno Unito, non solo subirebbe una battuta di arresto, ma potrebbe intraprendere un percorso inverso. Verso la disgregazione invece che verso l'unità.

Per questo il referendum che si svolgerà nell'Uk ci riguarda direttamente. Quanto, almeno, quello sulle trivelle. E persino il referendum costituzionale. Perché nel Regno Unito, in quell'occasione, si voterà anche per noi. Visto che si scrive Brexit, ma si può leggere Itexit.

© Riproduzione riservata
04 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/04/news/a_qualcuno_piace_brexit-136860650/?ref=HRER2-1
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #470 inserito:: Aprile 11, 2016, 05:38:30 pm »

Grillo e il M5S ora tallonano il Pd e vincerebbero al ballottaggio: è l'effetto delle inchieste
Atlante politico. Sondaggio Demos, svolta di opinione.
Il 45% giudica peggiore la corruzione di oggi rispetto alla Prima Repubblica.
E le intenzioni di voto fanno tremare Renzi

Di ILVO DIAMANTI
10 aprile 2016
   
TIRA una cattiva aria sull'opinione pubblica. Avvelenata dagli scandali che hanno coinvolto leader politici e di governo. In particolare: la ministra Federica Guidi. Ma hanno investito anche personaggi noti dell'impresa, dello sport e dello spettacolo, non solo italiani. Risucchiati nella vicenda dei patrimoni offshore. Il sondaggio condotto, nei giorni scorsi, da Demos per l'Atlante Politico e pubblicato oggi su Repubblica mostra come questi avvenimenti abbiano prodotto effetti significativi sugli orientamenti politici ed elettorali degli italiani.

D'altronde, le dimissioni della ministra Guidi vengono considerate doverose, meglio: obbligate, da quasi tutti gli italiani (intervistati): 85%. Ma quasi 3 elettori su 4 ritengono questa vicenda grave e problematica anche per il governo. Il 45% di essi, quasi metà, dunque, pensa che il governo dovrebbe dimettersi. Perché troppo invischiato in conflitti di interessi. Anche se la maggioranza degli italiani (quasi il 50%) ritiene, al contrario, che, il governo debba "andare avanti". L'Atlante Politico di Demos, dunque, propone l'immagine di un Paese diviso. Dove metà dei cittadini vorrebbe voltare pagina. Affidarsi a una guida diversa. Il problema, però, è che mancano alternative credibili. "Più" credibili, almeno. La fiducia nel governo, infatti, scende poco sotto il 40%. Cioè: il punto più basso dalla scorsa estate. Ma, comunque, vicino ai livelli osservati negli ultimi mesi.

LE TABELLE

Peraltro, il 20% (degli intervistati) pensa che il governo Renzi durerà, al massimo, qualche mese. Ma il 44% è convinto, al contrario, che riuscirà a concludere la legislatura. Parallelamente, la fiducia "personale" nel premier si attesta sul 40%. Lontano dai fasti del 2014, quando, dopo le elezioni europee, volava verso il 70%. Tuttavia, negli ultimi mesi, non ha subìto cali significativi. Nonostante i problemi economici e politici. Nonostante vicende sgradevoli, come quella che ha coinvolto la ministra Guidi. Peraltro, Renzi si conferma ancora il leader politico più apprezzato dagli italiani. Avvicinato da Giorgia Meloni, candidata dei FdI e della Lega (Nord?) nella corsa al Campidoglio. Molto competitiva, secondo i sondaggi. E da Matteo Salvini, segretario della Lega. Non lontano da loro – e dunque da Renzi – incontriamo anche Luigi Di Maio, vice-presidente della Camera. Fra gli esponenti più autorevoli del M5s. Silvio Berlusconi, invece, conferma il proprio declino politico. "Stimato" da poco più del 20% degli elettori. La metà rispetto a Renzi. E 4 punti in meno di due mesi fa.

Si assiste, dunque, a un raffreddamento del clima d'opinione. Lo ripeto, perché, questa volta e in questa fase, il cambiamento risulta evidente. Quasi una svolta. Dettata dal cumularsi di sfiducia e delusione sociale. Un po' come 25 anni fa. Ai tempi di Tangentopoli. Non per caso il 45% degli italiani ritiene che la corruzione politica, oggi, sia più diffusa di allora. Mentre una parte altrettanto ampia di cittadini pensa che sia altrettanto estesa.

Nove italiani su dieci, praticamente tutti, ritengono, dunque, che Tangentopoli non sia mai finita. Ma sia, se possibile, più opprimente. Fra i protagonisti, manca solo la magistratura. Differenza di non piccolo rilievo. Oggi, semmai, gli elettori hanno sostituito i magistrati con alcuni soggetti politici. A cui hanno affidato il compito di "vendicarli". Comunque, di gridare forte il disprezzo e la sfiducia popolare. Per primo e soprattutto: il M5s. Non per caso, il partito ritenuto più credibile (dal 31%) nel contrasto alla corruzione. Anche per questo i suoi esponenti ottengono un favore crescente. Luigi Di Maio, in particolare. Il consenso popolare nei suoi riguardi è salito di 7 punti nell'ultimo anno. Ormai, molto vicino a Renzi. Come Salvini, d'altronde. Che si presenta, a sua volta, come "giustiziere" della politica e dei politici corrotti.

Gli effetti di questo clima (anti)politico sul piano delle stime elettorali sono evidenti. La distanza fra i primi due partiti, PD e M5s, infatti, si è sensibilmente ridotta. In seguito al calo del PD (circa 2 punti) e alla concomitante crescita del M5s, la distanza fra i due soggetti si riduce a poco meno di 3 punti. A destra, invece, si muove poco. La Lega di Salvini si avvicina al 14% e scavalca FI. Mentre, più indietro, i FdI si attestano intorno al 5,5%. Come, sul versante opposto, SEL, SI e le altre formazioni a sinistra del PD.

Ma gli scenari cambiano sensibilmente quando si prende in considerazione il ballottaggio, previsto dalla nuova legge elettorale. L'Italicum, nel "linguaggio politico" corrente. Allora la partita appare incerta. Anche se i meccanismi del nuovo sistema elettorale non sono ancora chiari. Nel caso che gli sfidanti fossero la Lega e FI (federate, insieme ai FdI, in una lista-cartello, per istinto di sopravvivenza), il PD si affermerebbe di appena 1 punto. Troppo poco per fare previsioni. Lo stesso avverrebbe se al ballottaggio arrivasse il M5s. In questo caso, però, il sondaggio di Demos disegna uno scenario inedito. Che prevede il sorpasso del M5s sul Pd. Anche in questo caso, occorre prudenza, vista la distanza, ridotta, fra i due partiti (che non supera il margine di "errore statistico").

Naturalmente, il PD, nel ballottaggio, potrebbe contare sul voto "personale" al premier. Molto più conosciuto e visibile rispetto ai candidati del M5s. Tuttavia, è anche vero il contrario. La capacità del M5s di intercettare il voto "contro" potrebbe trasformare il confronto elettorale in una sorta di referendum. "Contro" Renzi. Replicando, all'inverso, l'operazione concepita dal premier in occasione del referendum costituzionale del prossimo autunno. Secondo alcuni (fra gli altri, Gianfranco Pasquino), un "plebiscito".

Così, se il clima d'opinione e l'insoddisfazione degli elettori continuassero a scaricarsi sul PD, Renzi potrebbe cambiare strategia. Investire sul governo più che sul partito. Presentarsi come "uomo di Stato" più che da "leader politico". Così, il soggetto politico centrale, in Italia, non sarebbe più il PDR. Ma il GdR: il Governo (personale) di Renzi.

© Riproduzione riservata
10 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/10/news/grillo_ora_tallona_il_pd_e_vincerebbe_al_ballottaggio_e_l_effetto_delle_inchieste-137293611/?ref=HREA-1
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #471 inserito:: Aprile 16, 2016, 05:45:54 pm »

Sei anni senza Berselli: siamo ancora post italiani

15 aprile 2016
Ilvo Diamanti
   
SEI anni senza Edmondo Berselli: sono tanti. Anche se io lo "consulto" con frequenza assidua, attraverso i suoi testi. Per trovare parole che diano significato ai cambiamenti e alle persistenze della politica, della società, della cultura. Dello sport. Perché Eddy è stato anzitutto - anche se non solo - un virtuoso del linguaggio.

Usato e modellato per spiegare quel che è successo - e succede - in questi anni inquieti. Di grande mutamento. Nel corso dei quali siamo divenuti "Post italiani", come recita un catalogo dei "tipi italiani" tratteggiati da Berselli. Abitanti spaesati di un "Paese provvisorio", dove scarseggiano i "Venerati maestri". Perché, come rammentava icasticamente Eddy, riprendendo le categorie di Alberto Arbasino, in Italia ci sono molte giovani brillanti promesse, che, tuttavia, raramente diventano, appunto, "venerati maestri". Ma, a un certo punto, all'improvviso, si trasformano, perlopiù, in "emeriti stronzi". Incapaci di vedersi e riconoscersi per quel che sono veramente. E, dunque, di correggersi. Berselli, nell'autunno del 2008, poco tempo dopo la pesante sconfitta del (neo) Pd, guidato da Veltroni, travolto da Berlusconi e dal suo cartello di Destra, scrisse un altro saggio ironico, quanto puntuale e puntuto. Dedicato ai "Sinistrati". Affetti e afflitti dal "gene altruista". Che li predispone alla sconfitta. Perché "quando la sinistra attraversa la strada, c'è sempre di mezzo un tram".

Chissà cosa scriverebbe ora, nell'epoca di Renzi, che, ormai da anni, governa alla guida di un (post) partito di (centro)sinistra. Anche se molti, a sinistra, dicono che Renzi non è di sinistra. Ma un post-berlusconiano. Di certo, non un "venerato maestro".

Mi manca, Eddy. Ci manca il suo sguardo (dis)incantato - ma non distaccato - sulle vicende e sui protagonisti del nostro mondo. Della nostra vita. Ci mancano le sue "Canzoni", attraverso cui rivisitava i fasti e i nefasti della nostra storia. Mi mancano le discussioni sul calcio. Sul più "mancino" dei tiri. Inventato da Mariolino Corso. Un genio e un artista. Anche se nerazzurro… Io e lui, bianconeri per vizio (e pre-giudizio) genetico. Parlavamo di calcio, politica e canzoni, senza soluzione di continuità, nei lunghi dialoghi - in viva voce - durante i miei - perenni - viaggi in auto. Oppure durante le passeggiate, ciascuno con il proprio cane. La sua esuberante labrador, Liù, il mio feroce Mambo. Uno schnauzer (che non sapeva di essere) nano.

Edmondo Berselli, filosofo, politologo, analista, saggista. Senza mai prendersi sul serio. In grado di non prendere troppo sul serio le cose serie. Costringeva, proprio per questo, a prendere sul serio i suoi saggi, le sue note, i suoi appunti. Scritti sul Mulino, di cui è stato direttore. Ma anche sulla Stampa, sul Sole 24 ore. Infine, sul Carlino, sull’Espresso e sulla Repubblica. Berselli, come ha osservato Aldo Grasso, è sempre stato un "adulto con riserva". Coinvolto e distaccato, impegnato e riflessivo. E, per questo, in grado di vedere lontano. Come nel caso di Beppe Grillo, di cui Berselli aveva colto per tempo la capacità di intercettare il clima anti-politico. Ne aveva scritto nel 2009, quando Grillo manifestò l’'intenzione di presentarsi alle primarie per eleggere il segretario del Partito democratico. Una provocazione, sicuramente. Che, però, Berselli, sull'Espresso, nella sua rubrica ("Porte girevoli"), aveva invitato a "prendere sul serio".  Perché "non ci si può permettere di esorcizzare Grillo, come ha fatto Piero Fassino, segnalando il rischio 'Helzapoppin'. La politica è la politica, chiunque entri in campo. (…) E Grillo non vincerà le primarie, ma se è appena capace mostrerà la nudità del re".

Ho il sospetto che questo suggerimento, se ascoltato, avrebbe reso più complicata la discesa in campo di Grillo. Sicuramente, gli avrebbe reso più difficile, in seguito, recitare la parte del non-politico alla guida di un non-partito. Figurarsi: dal V-Day al PD-Day…

Confesso che oggi non vedo altri in grado di "provocarmi" allo stesso modo. Con la stessa efficacia. E lungimiranza. Anche per questo, ma non solo per questo, sento la mancanza di Eddy. E penso di non essere il solo. Per questo continuo ad attingere ai suoi testi, ai suoi contesti. Al suo linguaggio. Perché mi offrono suggerimenti e spiegazioni. Le parole di Eddy: servono a spiegare e a rammentare. E, dunque, a farlo sentire ancora tra noi.

Per citare di nuovo Berselli: solo quel che si ricorda conta. Per questo, sei anni dopo, siamo in molti a ricordarlo.

© Riproduzione riservata
15 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/04/15/news/sei_anni_senza_berselli_siamo_ancora_post_italiani-137669042/?ref=HRER2-3
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #472 inserito:: Aprile 16, 2016, 06:05:04 pm »

Quattro presidenti per un referendum
Mappe. Per il quesito sulle trivelle sono scesi in campo Renzi, Napolitano, Grossi e Boldrini. Com'è possibile garantire il funzionamento delle istituzioni quando le consultazioni referendarie diventano forme di lotta politica?
Dal nostro inviato ILVO DIAMANTI
16 aprile 2016

Domani gli italiani sono chiamati a esprimersi su un argomento specifico e definito. Riguarda le concessioni degli impianti di trivellazione attivi entro le 12 miglia dalla costa italiana "fino all'esaurimento dei giacimenti". Anche se, in effetti, la questione ha assunto, progressivamente, un significato diverso. Molto più "politico". Che chiama in causa il governo e, in particolare, il premier. I sostenitori del referendum, infatti, puntano a "trivellare" direttamente Renzi. Anzitempo. A delegittimarlo. La riuscita della consultazione, nelle loro intenzioni, si tradurrebbe in un giudizio immediato - cioè: senza mediazioni - sul presidente del Consiglio. Il quale, d'altronde, pare d'accordo con questa impostazione "strumentale" della campagna referendaria. Visto che, a sua volta, ha definito il referendum una "bufala". Esprimendo il suo sostegno alla scelta di non scegliere. Schierandosi, cioè, a favore del "voto di chi non vota". L'astensione. Definita, d'altronde, legittima dal presidente della Repubblica emerito, Giorgio Napolitano. Intervenuto in aperta polemica con il presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, che nei giorni scorsi aveva, invece, stigmatizzato gli inviti all'astensione. E, in fondo, gli astensionisti dichiarati.

Così, chi pensa che sia in gioco la qualità dell'ambiente e delle nostre coste, in effetti, si sbaglia. Perché la posta in gioco è diversa. Nell'ultimo periodo, almeno, è cambiata radicalmente. Votare sì oppure no, ma, soprattutto, votare oppure "non" votare, si tradurrà in voto "per" oppure "contro" la stabilità di governo. "Per" oppure "contro" questo governo. In filosofia si parlerebbe di "eterogenesi dei fini". Per sottolineare la trasformazione del significato e dei risultati di un'azione rispetto agli obiettivi originari. O, almeno, rispetto ai fini e agli obiettivi espliciti e dichiarati. Renzi, d'altronde, ha avviato, a sua volta, un'operazione simile. Su una questione di contenuto molto diverso. Il presidente del Consiglio ha, infatti, dichiarato che il referendum sulla riforma costituzionale, che si svolgerà il prossimo autunno, avrà, come posta in palio, la sorte stessa del suo governo. Visto che, se gli elettori bocciassero la sua riforma, Renzi si dimetterebbe. Considerando la scelta degli elettori, in questo caso, come una scelta sul suo operato. E, dunque, come un voto di sfiducia popolare.

Naturalmente, c'è un'evidente asimmetria tra le due sfide. Non solo per il contenuto: da un lato le trivelle, dall'altro il superamento del bicameralismo paritario e il ridimensionamento del Senato. Ma anche per le regole della consultazione. Perché, nel caso del referendum sulla riforma costituzionale, non è richiesto il quorum. Non c'è bisogno che voti la maggioranza degli elettori aventi diritto. L'esito dipenderà dal confronto fra voti a favore e contrari alla riforma. Al contrario di quanto avverrà nella consultazione sulle trivelle, che avrà luogo domani. Che dipenderà non solo dal sostegno al quesito proposto, ma, anzitutto, dalla partecipazione al voto. E, quindi, dall'astensione. Non votare, in questo caso, assumerà lo stesso significato di un voto contrario. Visto che per "validare" la consultazione occorre un'affluenza superiore alla maggioranza assoluta degli elettori "aventi diritto". Così, il non voto diventa un voto a tutti gli effetti. È "il voto di chi non vota", come recita il titolo di una nota ricerca dell'Istituto Cattaneo pubblicata nel 1983 (a cura di Pasquale Scaramozzino e Mario Caciagli). È, infatti, questa la principale spiegazione del "fallimento" di gran parte dei referendum degli ultimi 20 anni. Solo uno su sette, infatti, ha superato il quorum (come ha segnalato ieri Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore). Quello sul nucleare e sull'acqua pubblica, che si è svolto nel 2011. Nessun altro. Lo stesso referendum del 1999, che mirava ad abolire la quota proporzionale dagli eletti con il Mattarellum, fallì, anche se per pochi voti. Visto che superò, allora, il 49% dell'affluenza. D'altra parte, l'astensione cumula componenti diverse. Oltre alla scelta "strategica", di chi non vota consapevolmente, per tecnica di opposizione al referendum, c'è la componente "fisiologica", di chi non vota per inerzia, dis-interesse. Svalutazione e indifferenza. Due orientamenti opposti e quasi alternativi, che, tuttavia, convergono nella stessa direzione. Verso il medesimo risultato.

Il problema di questa impostazione è l'evidente dissonanza cognitiva tra finalità dichiarate e reali. Latenti ed evidenti. Domani, per esempio, chi parteciperà al voto perché è sinceramente convinto del danno ambientale prodotto dalle trivelle voterà, comunque, anche contro Renzi. Mentre, al contrario, chi scegliesse di non votare, perché si sente del tutto estraneo e indifferente rispetto al quesito referendario, esprimerebbe il proprio sostegno - non solo implicito - al governo. In attesa della prossima contesa, intorno alla riforma costituzionale. Destinata a diventare, anch'essa, un referendum su Renzi.

Non so davvero come sia possibile garantire il funzionamento delle nostre istituzioni e - mi si perdoni l'ardire - della nostra stessa democrazia, quando le consultazioni referendarie diventano forme di lotta politica con altri mezzi. E quando diventa difficile capire per chi e per cosa si vota. Così può capitare che, sulla questione delle trivelle - importante, ma specifica - scendano in campo, in modo polemico, il presidente del Consiglio, ma anche il presidente della Repubblica emerito, il presidente della Corte Costituzionale e la stessa presidente della Camera. Insomma, quattro presidenti.

Non oso pensare cosa avverrà nei prossimi mesi, quando partirà la campagna del referendum su Renzi, pardon, sulla riforma costituzionale. Per rispettare le proporzioni fra il Senato e le trivelle, potrebbero scendere in campo anche Hollande, la Merkel. Mentre Obama si asterrebbe solo perché è a fine mandato. E perché avrebbe problemi ad arrivare dagli Usa in tempo per votare. Certo, i fatti nostri non li riguardano. Ma quando mettono in discussione la stabilità del sistema di alleanze a livello europeo e internazionale, perché stupirsi?

© Riproduzione riservata
16 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/16/news/referendum_trivelle-137740417/?ref=HRER3-1
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #473 inserito:: Aprile 26, 2016, 12:21:52 am »

Dall'Ulivo al PdR, il volto e le radici
Mappe. Le prossime elezioni locali e il referendum d'autunno ci diranno cos'è oggi il Pd

Di ILVO DIAMANTI
25 aprile 2016
   
SONO passati vent'anni dal 21 aprile 1996. Quando l'Ulivo, guidato da Romano Prodi, vinse le elezioni. Di fronte alla coalizione di Centro-destra costruita da - e intorno a - Silvio Berlusconi. Il Polo per le Libertà. Anche l'Ulivo, d'altronde, era una coalizione. Aggregava i post-comunisti del Pds, i post-democristiani (di sinistra) del Ppi, insieme alle forze della sinistra socialista, riformista. Cattolico-sociale ed ecologista.

Dopo la vittoria elettorale, l'Ulivo di Prodi governò poco più di due anni. Nell'ottobre del 1998, infatti, il governo venne sfiduciato da alcuni parlamentari della sinistra neo-comunista. Ma proseguì, sotto la guida di Massimo D'Alema. Fin dalle origini, dunque, emergono i limiti di questo nuovo soggetto politico, che riunisce le tradizioni e le componenti del centrosinistra. Anzitutto: la difficile coesistenza fra tradizioni politiche e sociali diverse. Tra centro e sinistra. In particolare: fra post-democristiani e post- comunisti. In secondo luogo: il conflitto fra leader. Meglio, l'assenza di una leadership condivisa. O, comunque, dominante. Così, dal 1996, il Centro-sinistra inizia un faticoso cammino. Alla ricerca del Centrosinistra- senza-trattino. I suoi soci fondatori, a loro volta, hanno cambiato nome e ragione sociale. Per limitarci a soggetti principali: da Pds a Ds, da Ppi alla Margherita, passando per i Democratici. Mentre, fra il 2005 e il 2007, l'Ulivo si è trasferito sotto le bandiere dell'Unione. Dunque, "coalizione". E questa resta la discriminante nel concepire il Centrosinistra. Con o senza trattino. Cioè: come coalizione oppure soggetto unitario. Una novità importante, anzi, essenziale, sotto questo profilo, è l'introduzione delle Primarie. Come metodo di scelta dei candidati. E dei dirigenti. Ciò avviene nel 2005, in occasione delle elezioni regionali. Quindi, in vista delle elezioni politiche del 2006. Che riporteranno Romano Prodi alla guida del Centrosinistra e del governo.

Ispiratore del progetto, accanto a Romano Prodi, è Arturo Parisi. Che vede nelle primarie non solo un metodo di selezione del gruppo dirigente e dei leader. Ma un marchio, un elemento di distinzione politica. Per usare le sue stesse parole: il "mito fondativo" del Partito dell'Ulivo, in alternativa all'Ulivo dei partiti. Un progetto che, nel 2007, sfocia nel Partito Democratico. Echeggia, non per caso, l'esperienza americana, di una democrazia maggioritaria, bipolare e tendenzialmente bipartitica. Personalizzata. In fondo: presidenziale. Tuttavia, il Partito Democratico non dissolve le divisioni da cui sorge. E a cui vorrebbe - dovrebbe - dare risposta. La distanza, nel Centrosinistra, fra tradizione comunista e democristiana, in particolare, rimane evidente. E si riproduce nella geografia elettorale del Paese. Come emerge chiaramente alle elezioni del 2008, quando il Centrosinistra si presenta unito nel Pd, guidato da Walter Veltroni. E viene sconfitto nettamente da Silvio Berlusconi. Anche perché non riesce a liberarsi dei vincoli territoriali del passato. Il Pd, infatti, risulta tanto più forte dove, nei primi anni Cinquanta, lo era già la Sinistra comunista. E, dunque, appare tanto più debole dove, invece, era più forte, sul piano elettorale, la Democrazia Cristiana. Così, quasi sessant'anni dopo, il Pd fatica ad affermarsi nel Nord e, in particolare, nel Lombardo-Veneto, presidiato dal Forza-Leghismo.

D'altro canto, dentro al Pd si riproducono tensioni "personali" che complicano l'affermarsi di "un" leader. Il passaggio dall'Ulivo all'Unione, fino al Partito Democratico, non risolve le difficoltà del Centrosinistra-senza-trattino. E il Pd resta un progetto e un soggetto incompiuto. Almeno, fino all'"irruzione" di Matteo Renzi. Il quale è favorito, anzitutto, dal declino di Berlusconi. Che apre un vuoto in-colmabile in un Centrodestra creato a sua immagine. Renzi è, per storia personale, un post-democristiano. Cresciuto nell'Ulivo di Prodi. Nella Toscana Rossa. Si afferma attraverso le Primarie. Dopo aver perduto, dapprima, "contro" Bersani. Cioè: contro l'eredità post-comunista. Nel Pd diventa, così, segretario "contro" il passato. Contro D'Alema e Rosy Bindi. Cioè: contro la tradizione post-comunista e post-democristiana. Così, alle elezioni europee del 2014, per la prima volta, il "suo" Pd supera e scavalca gli antichi confini. E vince dovunque. Ben oltre le regioni rosse. Espugna, infatti, le province del Nordest e della Lombardia. Bianche e anticomuniste. Da sempre. D'altronde, l'antica frattura ideologica è stata rimpiazzata, negli ultimi anni, da una nuova frattura. All'anti-comunismo si è sostituita l'antipolitica. Interpretata da Grillo e dal M5s. Che, per questo, non hanno una geografia specifica. Perché l'antipolitica, l'opposizione alla politica e ai politici "tradizionali" sono trasversali. Da destra a sinistra, da Nord a Sud, passando per il Centro. Renzi è abile a interpretare entrambe le fratture. Quella ideologica ma anche quella anti-politica. Lui, il "rottamatore", non ha vincoli né appartenenze. Inoltre - e soprattutto - fa del Pd un "partito del leader". Centralizzato e personalizzato. Il PdR. Il Partito Democratico di Renzi. Che tende ad evolvere nel PdR, il Partito di Renzi. Soprattutto se il referendum costituzionale di ottobre, trasformato in un referendum personale pro o contro di lui, si traducesse una investitura personale.

Così, vent'anni dopo l'avvento dell'Ulivo, il Centrosinistra sembra approdato a un Partito del Leader, a-ideologico e a-territoriale. Maggioritario, referendario e, tendenzialmente, presidenziale. Resta da vedere quanto sia stabile, questo approdo. Quanto possa resistere al ritorno dei personalismi e delle tradizioni - ben espresse dall'opposizione della Sinistra interna. Quanto possa proseguire senza il sostegno della storia e del territorio. Dell'organizzazione e della società. Quanto e se il PdR si possa affermare, senza il contributo del Pd, com'è avvenuto alle Europee. Non ci vorrà molto a verificarlo. Basterà attendere qualche mese. Le prossime amministrative e il referendum d'autunno ci diranno se davvero l'Ulivo sia divenuto un albero senza radici. Un volto senza storia. O se la sua storia possa continuare, con volti e nomi diversi.

© Riproduzione riservata
25 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/25/news/dall_ulivo_al_pdr_il_volto_e_le_radici-138394413/?ref=HRER2-3
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #474 inserito:: Aprile 26, 2016, 12:26:56 am »



Il Partito della Nazione sarebbe un pretendere troppo, inoltre potrebbe essere aperto a infiltrazioni da destra.

Il Partito di Renzi è una speculazione antirenzi voluta da elementi della conservazione per affossare di nuovo il centrosinistra.

L'Ulivo ripiantato e ben potato può invece essere vitale e produttivo se lo si "concima", con progetti sul futuro dell'Italia ricchi di contenuti socio-politici di buon spessore e soprattutto credibili.

Il Partito dell'Ulivo, quindi, potrà vincere se non continuerà ad essere soggetto ad un involutivo "eleatismo" (eleatico = eternamente immobile e sottratto a ogni mutazione) ma diverrà con una forma di cambiamento "eracliteo", trasversale all'interno dei partiti democratici di Centro e della Sinistra non massimalista.

ciaooo



Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #475 inserito:: Maggio 02, 2016, 04:30:35 pm »

Lavoro e ripresa, il 70% non ci crede. E senza posto fisso il futuro è un rebus
Per gli italiani è ancora giusto ricordare il Primo maggio, ma per la stragrande maggioranza è in aumento solo il precariato.
Per il 40% è presto per vedere i risultati del Jobs Act, solo l’8% crede abbia funzionato

Di ILVO DIAMANTI
01 maggio 2016
   
OGGI si celebra la Festa del lavoro. E dei lavoratori. Ma i lavoratori - e, in generale, gli italiani - non sembrano trovare grandi motivi per festeggiare. O meglio, vorrebbero. Secondo il sondaggio condotto dall'Osservatorio di Demos-Coop negli ultimi giorni, quasi 7 persone su 10 (nel campione intervistato) ritengono che abbia senso celebrare questa giornata. Ma, in effetti, questo sentimento sembra suggerito da nostalgia più che da speranza.

Contrariamente alle indicazioni fornite dalle statistiche dell'Istat e rilanciate dal premier Renzi, una larga maggioranza della popolazione (intervistata) non crede alla ripresa. Oltre 7 persone su 10 pensano che non sia vero. Che l'occupazione non sia ripartita. Solo l'8%, invece, ritiene che il Jobs Act abbia funzionato. Mentre, secondo la maggioranza (40%), è ancora presto per vederne i risultati. Ma oltre 3 persone su 10 sono convinte che abbia perfino "peggiorato la situazione". Le uniche "forme" di impiego effettivamente aumentate sarebbero, infatti, quelle "informali". Il lavoro nero e quello precario. Così, infatti, la pensa circa il 70% degli italiani (intervistati da Demos-Coop). I quali non vedono grandi cambiamenti nel futuro. Poco più di 2 persone su 10 (per la precisione: il 23%), infatti, contano che la loro situazione lavorativa possa migliorare, nei prossimi anni. Solo cinque anni fa questa sorta di "speranza di vita" - lavorativa - era coltivata da una componente molto più estesa: il 36%.

LE TABELLE

È un segno evidente dell'incertezza che agita la nostra società, il nostro tempo. Non solo nel lavoro. Due italiani su tre, infatti, ritengono inutile, oggi, affrontare progetti impegnativi, perché il futuro è troppo incerto e rischioso. Così, meglio concentrarsi sul presente. Cercando stabilità. Radicamento. Per questo, il lavoro preferito è il "posto pubblico". Celebrato, con ironia e realismo, da Checco Zalone, nel suo ultimo film (di grande successo) intitolato "Quo vado?". "Posto pubblico", infatti, nel linguaggio e nel discorso corrente, coincide con "posto fisso". Solo alcuni anni fa, invece, l'occupazione preferita era il lavoro autonomo, da libero professionista. Oggi non più. O meglio, non si vede "un" lavoro preferito. Impiego pubblico, lavoro autonomo e da libero professionista, nel sondaggio di Demos-Coop sono guardati con interesse, ciascuno, da circa il 20% degli intervistati. Con una preferenza per l'attività professionale fra i giovanissimi (15-24 anni) e per l'impiego pubblico fra le persone adulte, ma anche fra i "giovani adulti" (25-34 anni).

C'è, dunque, un'evidente tensione fra domanda di stabilità e di autorealizzazione professionale. La domanda di stabilità appare chiara nel riferimento alla famiglia, come principale istituto di tutela. La famiglia. Assai più del sindacato e delle associazioni di categoria. Ma anche dello Stato e degli enti locali. La famiglia. È vista come difesa e sostegno: per chi ha un lavoro, stabile oppure atipico. Ma anche come un faro, per chi naviga nel mercato del lavoro, senza aver trovato una direzione definita e definitiva. In particolare, per i giovani e i giovanissimi. Le componenti maggiormente interessate - e penalizzate - dall'occupazione precaria. E, soprattutto, dalla disoccupazione. I giovani e i giovanissimi, infatti, sembrano destinati, a una posizione sociale peggiore rispetto ai loro genitori. Così la pensano, almeno, i due terzi degli italiani (intervistati da Demos-Coop). E il 73% della popolazione ritiene che i giovani, per fare carriera se ne debbano andare all'estero. Un'opinione diffusa da tempo, ma mai come oggi, se cinque anni fa, nel 2011, era condivisa dal 56%. Dunque, la maggioranza degli italiani, Eppure: 17 punti meno di oggi. I giovani e i giovanissimi: una "generazione altrove". Segno (e minaccia) di una società - la nostra - senza futuro. Che non ha pensato e organizzato un futuro. Per i propri giovani e, dunque, per se stessa. D'altronde, circa l'85% degli italiani, cioè quasi tutti, condividono l'avvertimento - o meglio: la minaccia - dell'INPS. La generazione del 1980 andrà in pensione a 75 anni. Se non più tardi.

Così i dati di questo sondaggio trovano un senso, comunque, una convergenza. Intorno all'incertezza generata dall'eclissi, se non dalla scomparsa, del futuro. Un futuro senza sicurezza (sociale), senza pensione, peraltro, rende più im- portante, anzi, necessaria, la famiglia. Polo di solidarietà intergenerazionale. Che tiene uniti genitori, figli. E nonni. Offre ai giovani, soprattutto, un sostegno nel percorso precario fra studio e lavoro. Che si sviluppa senza più confini. L'idea che i giovani, per realizzarsi a livello professionale, e prima ancora negli studi, debbano trasferirsi all'estero, si è, infatti, tradotta, da tempo, in un'esperienza di massa. E viene guardata con preoccupazione dagli adulti e ancor più dagli anziani. Dai genitori e dai nonni. Non certo dai figli e dai nipoti. Dai giovani e dai giovanissimi. I quali sono biograficamente una generazione "nomade". Migranti, anch'essi. Non per fuggire dalle guerre e dalla povertà. Non per costrizione e per necessità. Ma, ormai, per "vocazione".

E ciò spiega perché i giovani mostrino minore preoccupazione verso i flussi migratori. (Come ha dimostrato il recente Sondaggio 2015 di Demos-Fondazione Unipolis per l'Osservatorio sulla Sicurezza in Europa.) Sono globalizzati, di fatto. Mentre i genitori e la famiglia, garantiscono loro un riferimento sicuro. Un posto dove tornare. Per poi partire di nuovo. Anche per questo, i giovani hanno meno paura della disoccupazione e della precarietà, rispetto alle generazioni più anziane. Anche se ne sono particolarmente colpiti.
E appaiono meno preoccupati dei tempi dell'età pensionabile, che si allungano.

I giovani. Non hanno "nostalgia" del futuro. Perché il futuro è davanti a loro. Mentre gli adulti e gli anziani il futuro ce l'hanno alle spalle.

© Riproduzione riservata
01 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/economia/2016/05/01/news/lavoro_e_ripresa_il_70_non_ci_crede_e_senza_posto_fisso_il_futuro_e_un_rebus-138824537/?ref=HRER3-1
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #476 inserito:: Giugno 09, 2016, 11:13:54 am »

Comunali 2016, schemi saltati e confronti incerti: ecco il tripolarismo imperfetto
La mappa del voto. L'esito delle elezioni è ancora aperto


Di ILVO DIAMANTI
07 giugno 2016

IL DATO più chiaro del primo turno della consultazione amministrativa di domenica scorsa è che, ormai, non c'è più nulla di chiaro. E di prevedibile. Nel rapporto fra cittadini e politica. Fra elettori e partiti. Così, l'esito delle elezioni è ancora aperto. Tra i 143 comuni maggiori (oltre 15 mila abitanti) al voto domenica scorsa, infatti, 121 andranno al ballottaggio. Cioè, non tutti, ma quasi. Alle precedenti elezioni erano molti di meno: 92. Questa tendenza appare evidente soprattutto nelle regioni dell'Italia centrale. Un tempo definite "rosse", perché politicamente di sinistra. Ebbene, fra i 19 comuni maggiori al voto, in questa zona, quasi tutti (17) andranno al ballottaggio. In primo luogo, Bologna. Dove il sindaco in carica, Merola, si è avvicinato al 40% dei voti. E fra due settimane dovrà, quindi, affrontare Lucia Borgonzoni, candidata leghista del Centro-destra. Una prova sulla quale incombe, minaccioso, il precedente del 1999, quando Giorgio Guazzaloca, del Centro-destra, prevalse su Silvia Bartolini, di Centro-sinistra. Al ballottaggio.

LE TABELLE

Nel complesso, i candidati del Centro-sinistra vanno al ballottaggio in 88 comuni (sono primi in 47), quelli di Centro-destra, della Lega o dei FdI in 69 (primi in 38 Comuni). Infine, il M5s raggiunge il ballottaggio in 20 comuni (è primo in 6). Questo rapido profilo quantitativo serve a chiarire una ragione importante - se non la più importante - dell'incertezza che pervade questa competizione amministrativa: la pluralità degli attori in gioco. In altri termini, se per molti anni abbiamo inseguito un bipolarismo senza preclusioni, senza fratture, Oltre l'anticomunismo e il berlusconismo (o il suo contrario), oggi dobbiamo fare i conti con un modello diverso. Sicuramente più aperto. Anzi: fin troppo. Siamo entrati, infatti, in un sistema a "tripolarismo imperfetto". Dove il centrosinistra, imperniato sul PD(R), si oppone non solo al Centro-destra, impostato sull'asse FI-Lega - allargato, in alcuni contesti, ai FdI. Ma anche al M5s che ha ottenuto risultati importanti a Roma, con Virginia Raggi e a Torino, con Chiara Appendino a Torino. Mentre in alcuni casi, è sfidato da soggetti diversi ma, comunque, alternativi ai due poli tradizionali. Come Luigi De Magistris, a Napoli. Ciò rende il confronto complicato. Non solo nel primo turno, ma anche e tanto più nei ballottaggi. Perché non è chiaro se e per chi voteranno gli elettori dei partiti esclusi. Nello specifico: chi sceglieranno gli elettori di Centrosinistra fra un candidato leghista, forzista o dei 5s? Oppure, reciprocamente, chi sceglieranno gli elettori leghisti, forzisti o del M5s nel caso il loro candidato di riferimento fosse, a sua volta, escluso dal ballottaggio? In linea teorica, ove fosse rimasto in gioco, sarebbe favorito il candidato del M5s. Perché a-ideologico. Esterno alle fratture tradizionali. Visto che gli elettori del M5s sono, politicamente, trasversali. Riassumono il disagio verso i partiti ma anche la mobilitazione su temi "civici" e territoriali. Così, i loro candidati possono venire utilizzati dagli altri elettori, “contro" gli avversari storici. Post-berlusconiani, leghisti oppure renziani. A seconda dei casi e delle esigenze.

È probabile, allora, che molti elettori, nel dubbio, ricorrano al non-voto. Si astengano. Non per scelta, ma per non-scelta. D'altronde, si tratta di un orientamento diffuso, anche in questo caso. La partecipazione al voto, infatti, ha superato il 60%. Cinque punti in meno rispetto alla precedente scadenza elettorale. Tuttavia, non si è verificato il crollo temuto. Piuttosto, è interessante osservare che l'affluenza - e parallelamente l'astensione - elettorale ha colpito il Nord e le regioni rosse, più del Mezzogiorno. Certo, il voto amministrativo, nel Sud, è condizionato - e incentivato - da logiche particolaristiche. Ma è singolare che oggi, nel Centro-Nord, la partecipazione elettorale sia calata molto più che nel Sud.

Ciò sottolinea un'altra tendenza, emersa dopo le elezioni del 2013. La perdita delle specificità territoriali. Meglio: la "nazionalizzazione" del voto. E dei partiti. Fino allo scorso decennio, infatti, gli orientamenti politici ed elettorali riproducevano legami sociali e territoriali di lungo periodo. Veicolati da partiti di massa, che esprimevano ideologie di lunga durata e disponevano di organizzazioni diffuse. I partiti di sinistra, in particolare, si imponevano nelle regioni rosse del centro. Mentre al Nord erano più forti i partiti di centrodestra e la Lega. Ma alle elezioni del 2013, per la prima volta, si afferma un partito senza una specifica "vocazione" territoriale. Il Movimento 5 Stelle, appunto. Primo oppure secondo in quasi tutte le province italiane. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Alle elezioni europee del 2014, il PD di Renzi, il PdR ne riproduce la traccia. Primo oppure secondo partito, dovunque. Inseguito dal M5s. E da un centrodestra spaesato e diviso, dopo il declino di Berlusconi. Nume tutelare e identitario. Così le diverse Italie politiche, oggi, si sono omogeneizzate. La stessa Lega si è "nazionalizzata". È la Ligue Nationale di Salvini, alleata con i FdI di Giorgia Meloni. Guarda a Roma e al Sud. Così, non c'è più religione. E non c'è più fedeltà. Non solo a Bologna. Neppure a Torino. Dove le tradizioni operaie e industriali hanno perduto rilievo. E la crisi economica incombe (come ha osservato Piero Fassino). Mentre a Milano Sala e Parisi appaiono due candidati allo specchio. Roma è, dunque, la capitale esemplare di questa Italia - senza colori e con poche passioni. Dove ogni voto - politico, europeo, amministrativo - diventa un'occasione im-prevedibile. E ogni elezione, come ho già scritto, è "un salto nel voto".

© Riproduzione riservata
07 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-edizione2016/2016/06/07/news/comunali_2016_schemi_saltati_e_confronti_incerti_ecco_il_tripolarismo_imperfetto-141458639/?ref=HREA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #477 inserito:: Giugno 09, 2016, 11:31:44 am »

Le parole del futuro: vincono ambiente e Internet, giù la politica
Il sondaggio. Sicurezza, sviluppo sostenibile, social media. Perdono peso i partiti. Tra le istituzioni: famiglia e papa Francesco. L'Osservatorio Demos-Coop per la Repubblica delle Idee

Di ILVO DIAMANTI
03 giugno 2016

Proponiamo anche quest'anno una Mappa delle parole del nostro tempo. Raffigura l'atteggiamento degli italiani (intervistati da Demos-Coop) di fronte a una serie di termini che ricorrono frequenti nei discorsi pubblici e nella vita quotidiana. Raccolti e selezionati dalla comunicazione mediale e dal linguaggio comune. Le parole, d'altronde, non sono solamente un modo per dire e comunicare la realtà. Ma contribuiscono a definirla. A costruirla. Senza parole, la realtà non esiste perché le parole la rivelano. Così, attraverso questo sondaggio, abbiamo cercato di "rivelare" la realtà "rilevando" le parole che utilizziamo per dirla. Abbiamo, dunque, sollecitato gli italiani (intervistati) a esprimere il grado di approvazione/dissociazione, che suscitano le parole selezionate. Ma anche la loro capacità di suggerire il futuro. Oppure di re-spingerlo verso il passato.

Ne esce una rappresentazione, a nostro avviso, interessante. Certamente non scontata. Per alcuni versi non prevedibile. Utile a presentare l'edizione della Repubblica delle Idee, che si apre oggi a Roma. Con il titolo, programmatico: "Rep2056, idee per i prossimi 40 anni". Ma anche per capire quale e come sia il futuro prossimo - magari non dei prossimi 40 anni - immaginato dagli italiani. Quali valori, quali istituzioni e quali attori - politici, sociali, religiosi - possano offrire - e offrirci - un orientamento. E quali, invece, siano destinati a perdersi. Se non ad essere dimenticati.

Il sondaggio delinea una mappa articolata in regioni di significato chiare e distinte. Alcune, in modo particolare. Soprattutto due, opposte e lontane. Nello spazio ma anche nel tempo.

LE TABELLE …

In basso a sinistra, si delinea la Regione del tempo perduto. Dove incontriamo le parole della politica e della rappresentanza degli interessi. I partiti, i politici, i sindacati. I leader. Tutti. Grillo, Salvini, ma anche Renzi. In due anni è scivolato anch'esso, dalle Regioni che indicano il cambiamento, comunque, la transizione, via via più in basso. Verso il passato. O meglio, verso un presente senza futuro. È interessante e significativo osservare la posizione in cui è collocato - sospinto - Silvio Berlusconi. In fondo a tutti. Ai confini estremi della Mappa. Una parola quasi in-significante. Eppure assolutamente significativa, per capire cosa stia succedendo. Perché Berlusconi fino a pochi anni fa ha marcato il nostro linguaggio. Non solo nel campo della politica. In bene e in male: il berlusconismo ha costituito un sistema di valori, uno stile di vita e di comportamento. Un riferimento (a)morale. Oggi non più. Così diventa più difficile dare significato al lessico degli italiani. Perché mancano indicazioni e chiavi di lettura chiare. Soprattutto, ma non solo, in campo politico.

Osservando la regione del futuro possibile e auspicato, collocata nel settore in alto a destra della mappa, si osservano, infatti, parole che associano due diversi campi semantici. La domanda di bene comune. Di economia e di azione condivisa. Di sicurezza sociale e alimentare. Le energie rinnovabili e il bio. La cooperazione. Accanto a loro: i valori e gli obiettivi senza tempo. L'egualitarismo, l'equità fiscale, la legalità. Unici riferimenti istituzionali nominati: la famiglia e Papa Francesco. Peraltro, meno "santificato" rispetto a un anno fa.

Proiettati nella stessa direzione, verso il futuro, alcune parole che indicano obiettivi e metodi di crescita economica e sviluppo responsabile. La sobrietà dei consumi. La cooperazione. Ma anche istituzioni che garantiscono promozione sociale e conoscenza. Per prima, la scuola. Sempre negletta, nel dibattito pubblico. Ma sempre apprezzata, nella percezione sociale. Nella stessa direzione - cioè, verso il futuro auspicabile - sono proiettate le nuove forme di comunicazione. I social media e internet.

Scendendo, incontriamo il territorio della transizione. Affollato di luoghi e parole della vita pubblica. Della partecipazione. Dallo Stato alla democrazia. Dai media tradizionali - la radio, la televisione, i giornali - alla Chiesa. Dall'Unione europea all'euro, agli imprenditori. Alla magistratura. Una rete complessa, che riproduce la difficoltà di leggere il cambiamento attraverso il presente. Nel paesaggio sociale e istituzionale che ci circonda. Perché le istituzioni e i processi della vita quotidiana e dello spazio pubblico disegnano una selva complessa. Oscurata dalla routine. Che rende difficile identificare la via verso il cambiamento. I percorsi verso il futuro.

Anche perché, in fondo alla mappa del nostro lessico, restano le parole della rappresentanza e della mediazione. Lontane dagli obiettivi e dai valori che gli italiani vorrebbero soddisfare. Perseguire. Una regione distante dalla terra promessa. Costellata dalle bandiere che marcano il confine del futuro atteso, e auspicato. Non è una novità. Lo stesso distacco era emerso già un anno fa. Ma anche negli anni precedenti. Quest'anno, però, la distanza appare, se possibile, più netta. E più chiara. Da un lato, obiettivi e valori - cioè, le domande della società - sono proiettati all'orizzonte. Mentre, dall'altro lato, gli attori di governo e della rappresentanza, che li dovrebbero realizzare, comunque, promuovere, dar loro voce: sono all'ombra del passato. Non è chiaro come avvicinare queste due dimensioni, queste due regioni. Certamente non sarà facile. Neppure a Renzi. Tallonato da Grillo. E da Salvini. Allineati uno accanto all'altro. Impegnati a sfuggire alla sorte di Berlusconi. Quasi scomparso all'orizzonte. Al confine estremo della mappa - e della terra - conosciuta. A cui proprio la sua presenza ha fornito una bussola. Mentre oggi l'unico riferimento disponibile per orientarsi è l'antipolitica. Il distacco e la distanza da ogni soggetto, attore, leader. Politico.

© Riproduzione riservata
03 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/roma2016/2016/06/03/news/parole-141177818/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_03-06-2016
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #478 inserito:: Giugno 13, 2016, 12:59:32 pm »

Grillo e Salvini. Antipolitici e contro il governo, nasce il Carroccio a 5 Stelle
Le Mappe. Ciò che unisce lepenisti e grillini è l’avversione a Renzi. Ma anche profondi risentimenti nei confronti delle istituzioni e dell’Europa

Di ILVO DIAMANTI
09 giugno 2016

IN VISTA dei ballottaggi che si svolgeranno nelle principali città, si delinea una convergenza fra i principali soggetti politici anti-renziani. Questa, almeno, sembra la principale logica che ispira le scelte della Lega e del M5S. Remare contro i candidati del PdR. Votare per l'avversario del Capo e del partito di governo, chiunque esso sia. Di qualunque partito. In questo modo, ha osservato Ezio Mauro, nei giorni scorsi, M5S e Lega, gli antagonisti più determinati di Renzi, si apprestano a celebrare le "nozze del caos". Che stabiliscono un rapporto stretto fra gli opposti populismi.

LE TABELLE

A Roma e a Torino, in particolare, l'indicazione di Salvini a sostegno di Virginia Raggi e Chiara Appendino è netta. Ed esplicita. Così come a Milano Lega e M5S si sono espressi, entrambi, per Parisi e, soprattutto, contro Sala. Il candidato di Renzi. Cioè: il comune nemico. Il "tripolarismo imperfetto", di cui avevo parlato nei giorni scorsi, commentando i risultati del primo turno, in questa occasione, si ricompone e si bipolarizza. Spinto, in questa direzione, dalle regole del gioco elettorale. Ma anche dai reali orientamenti degli elettorati. Infatti, se guardiamo le indagini condotte da Demos (ma non solo) negli scorsi mesi, le affinità elettive fra gli elettori di questi partiti, peraltro molto diversi, appaiono evidenti. Palesi. In particolare, quasi 3 elettori della Lega su 10 si dicono (molto o abbastanza) vicini al M5S. Un legame, dunque, più stretto che con ogni altro partito. In particolare, rispetto al Pd (16%). Si tratta, peraltro, di una relazione reciproca, visto che fra gli elettori del M5S viene espressa una preferenza particolarmente intensa per la Lega, oltre che per i FdI. Vale la pena di osservare che questa attrazione Lega-stellata era già emersa in passato. In occasione delle elezioni politiche del 2013. Allora, nei comuni a forte radicamento leghista, si erano verificati rilevanti flussi elettorali a favore del M5S. "Restituiti", in gran parte, l'anno seguente, in occasione delle elezioni europee.

Cosa spinge gli elettori dei due partiti gli uni verso gli altri, appassionatamente? Anzitutto, la comune insofferenza verso le istituzioni dello Stato e verso i partiti. In quanto tali. Si tratta, cioè, di attori politici dell'antipolitica. Poi, i comuni bersagli polemici. Per prima, l'immigrazione. Quindi, l'Unione Europea. In altri termini, le due facce della globalizzazione. La perdita di sovranità politica ed economica a favore di entità sovranazionali, perlopiù controllate da burocrati. E condizionate dagli interessi dei mercati e dell'economia globale. In secondo luogo, le migrazioni che provengono dal Sud del mondo. E aumentano il nostro senso di vulnerabilità. E di spaesamento. Lega e M5S, per quanto abbiano una sociologia e una geografia diverse, condividono questi sentimenti. E ciò spiega le tendenze al reciproco soccorso, in occasione dei prossimi ballottaggi.

Dalle indagini condotte nelle scorse settimane da Demos, in particolare, a Roma oltre metà degli elettori di Giorgia Meloni, sostenuta dalla Lega di Salvini, sembra orientata a favore di Virginia Raggi. Mentre un altro terzo potrebbe astenersi. Pressoché identici i movimenti possibili - e probabili - a Torino. Dove, nel ballottaggio, oltre metà della base elettorale del "leghista" Morano sembra intenzionata a votare per la candidata dei 5 Stelle. Un terzo ad astenersi. A Bologna, dove, a sfidare il sindaco in carica, Merola, del PD, sarà la leghista Lucia Borgonzoni, invece, queste tendenze appaiono meno marcate, ma, comunque, coerenti. Circa il 40% degli elettori di Bugani, del M5S, propendono, infatti, per la candidata della Lega. Gli altri si dividono, in egual misura, fra Merola e l'astensione.

Così, nelle città al voto, sta prendendo forma un'opposizione lega-stellata, che, in alcune zone, si allarga ad altri soggetti politici, di destra più estrema. Questa sorta di "terra di mezzo" canalizza e coagula sentimenti inquieti e risentimenti anti-istituzionali. Antieuropei, antigovernativi. Che riflettono e amplificano l'insicurezza. Si tratta di alleanze e intese ispirate e dettate dagli specifici contesti e confronti in cui avvengono. Elezioni amministrative, che presentano confini locali e territoriali definiti. Eppure è difficile non immaginare - e prevedere - che si tratti di esperienze e di esperimenti che potrebbero riprodursi e proiettarsi altrove. Su scala più ampia. Soprattutto, in ambito nazionale. Dove l'opposizione populista lega-stellata minaccia di divenire la principale opposizione a Renzi e al suo PdR.

© Riproduzione riservata
09 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/09/news/antipolitici_e_contro_il_governo_nasce_il_carroccio_a_5_stelle-141606952/?ref=HREC1-6
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #479 inserito:: Giugno 26, 2016, 12:05:45 pm »

Nelle periferie dove nasce il grande scontento: gli esclusi in rivolta contro il centro
La geografia del potere va ridisegnata.


Di ILVO DIAMANTI
26 giugno 2016

La frattura fra centro e periferia costituisce una delle più importanti spiegazioni del comportamento politico. Definita, con chiarezza, da Stein Rokkan, insieme a Seymour Lipset (fra gli anni Sessanta e Settanta). I quali, però, facevano riferimento, principalmente, alla dimensione territoriale. Alle tensioni delle periferie, nella ricerca di difendere la loro autonomia e la loro identità di fronte all'egemonia del centro. Tuttavia, ai nostri giorni, il segno della periferia va oltre. Evoca la dimensione sociale, insieme a quella territoriale. D'altronde, periferie sociali e territoriali, inevitabilmente, si incrociano e si influenzano reciprocamente. Ma con effetti diversi. La periferia può delineare i luoghi lontani ed esclusi dalla geografia del potere e della cultura. Oppure, in alternativa, le sedi dove i cambiamenti avvengono senza strappi, in modo meno vistoso, le "province" dove si riesce a produrre, a lavorare, a crescere economicamente senza traumi, senza rinunciare a vivere bene. Restando nell'ombra. In periferia, appunto. Dov'è più semplice agire e reagire, limitando le interferenze esterne.

Tuttavia, ciò che sta succedendo in questi tempi non riflette dipendenza, né distacco ma, per certi versi, una rivolta delle periferie territoriali, economiche, sociali. Le quali rinunciano alla strategia dell'attesa per emergere in modo appariscente. Servendosi di media e attori ad alta visibilità. Leader, partiti, movimenti. Agitati e attivi. Si tratta di una tendenza globale che spiega alcuni dei fenomeni politici più rilevanti di questo periodo.

Negli Stati Uniti, Donald Trump ha intercettato la paura delle classi agiate bianche contro la minaccia delle altre componenti dell'universo multietnico americano. Inoltre alimenta la paura di nuove migrazioni, che spingano ancor più in basso, ancor più in periferia, la classe media.

Così, in Gran Bretagna, il motore della Brexit è certamente il sentimento di declino delle aree extraurbane inglesi, dei settori sociali colpiti dalla crisi, dei più anziani. Che imputano all'Europa — "centrata" sulla Germania — la propria crescente perifericità. E vorrebbero isolarsi di più. Se non possono più essere centro, meglio non diventare periferia. Europea. Scozia e Irlanda del Nord, invece, hanno votato no alla Brexit. Perché si sentono periferia di Londra.

D'altronde, almeno in Europa, ormai da molto tempo classe operaia e ceti esclusi — dal mercato del lavoro — non votano più per la sinistra ma per i partiti di destra. E per le forze politiche definite populiste. In Francia per il Front National di Marine Le Pen, primo partito della classe operaia, tradizionalmente forte nelle aree periferiche — di confine — a sud e nel nord est. In Italia la classe operaia (ciò che ne resta) fino a ieri si era avvicinata alla Lega. Ma oggi vota, in misura crescente, per il Movimento Cinque Stelle. In Italia, d'altronde, la maggioranza della popolazione — il 53 per cento — si sente e si definisce di classe sociale bassa e medio-bassa. Fra gli elettori del M5S la percentuale sale al 60 per cento. Insomma la periferia della società preferisce le scelte antipolitiche e impolitiche.

Peraltro, se poniamo attenzione sulle recenti elezioni amministrative, la crescente centralità della periferia diventa evidente. A Torino la neo-sindaca, Chiara Appendino, si è imposta — soprattutto — nei quartieri periferici. Fra i giovani. Mentre Fassino resiste al centro e in collina. Fra i più anziani. La frattura generazionale è, dunque, divenuta importante. Anche se con effetti diversi. Privati di futuro, i giovani se ne vanno. Oppure votano contro. Com'è avvenuto in Spagna, dove si vota proprio oggi. Là, i più giovani si sono rivolti a Podemos (oggi alleato di Izquierda Unida). Perché, rispetto alle politiche dei partiti maggiori (Partito socialista e Partito Popolare), si sentono periferici.

Per tornare in Italia, a Roma, nelle amministrative, Virginia Raggi ha dominato a Ostia e nei quartieri periferici più popolosi. Mentre Roberto Giachetti resiste solo nel centro storico e nei quartieri borghesi, Parioli e Nomentano. A Napoli, infine, Luigi De Magistris, portabandiera della periferia alla conquista dei centri, ha vinto in tutti i quartieri, a partire dal Vomero. Spingendo i concorrenti, per prima la candidata del Partito democratico, Valeria Valente, non in periferia, ma fuori dalla città. Nel complesso, queste elezioni amministrative disegnano un'Italia senza radici, come abbiamo scritto in sede di analisi del risultato. Un paese dove le specificità (politiche) territoriali si stanno scolorendo. D'altronde, il M5S, dichiarato vincitore, non ha radici. Al di là delle due metropoli dove ha vinto, si è affermato in altre diciassette città maggiori distribuite in tutto il territorio. Mentre il Pd si è perduto. Non solo perché ha perduto in metà delle città maggiori dove prima governava: 45 su 90. Ma perché è arretrato soprattutto nel suo territorio. Nelle regioni rosse del Centro. La Lega "nazionale" di Salvini, a sua volta, ha perduto a Varese. La sua patria. E non è riuscita a proseguire la propria marcia oltre il nord. Da parte loro, i Forza-leghisti non sono riusciti a riprendersi Milano. La loro capitale storica. E mitica.

Così si delinea la mappa di un paese incerto e instabile. Senza colori. Che non ha più capitali. Oppure ne ha troppe. Perché la periferia si è allargata dovunque. Da nord a sud. Ovunque, in Italia, è periferia. Dovunque cresce la voglia di cambiare. Di diventare centro. Oppure, di ribellarsi al centro. Per sfuggire al declino. Il vento del cambiamento, in fondo, ha questo significato. Evoca il rifiuto di rassegnarsi: a scivolare verso la periferia. E a rimanere lì. Senza speranza.

© Riproduzione riservata
26 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/26/news/diamanti_periferie_scontento-142828410/?ref=HREC1-3
Registrato
Pagine: 1 ... 30 31 [32] 33 34 35
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!