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« Risposta #435 inserito:: Aprile 23, 2015, 05:24:30 pm » |
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Dobbiamo avere pietà di noi Di ILVO DIAMANTI 20 aprile 2015 Oltre novecento persone morte in un barcone, in viaggio dalla Libia verso la Sicilia. Sparite in fondo al mare. Insieme ad altre migliaia, vittime di molti altri naufragi. Accomunate e travolte dalla stessa disperazione. Che spinge ad affrontare il mare "nemico" per sfuggire alla fame, alla miseria, alla violenza. Oggi: alla guerra. Più che di "migrazione", si tratta di "fuga". Anche se noi percepiamo la "misura" della tragedia solo quando i numeri sono "smisurati". Salvo assuefarci anche ad essi. Ed è questo, come ho già scritto, che mi fa più paura. L'abitudine. La distanza da una tragedia che, invece, è a due passi da noi. La tentazione di "piegarla" e di "spiegarla" in chiave politica. Per guadagnare voti. Eppure le migrazioni sono un fenomeno ricorrente. Tanto più e soprattutto in fasi di cambiamento e di trasformazione violenta (in ogni senso), come questa. Allora, le popolazioni si "mobilitano", alla ricerca di nuove e diverse condizioni di vita. È capitato a noi italiani, lo sappiamo bene. In passato, ma anche oggi. Soprattutto ai più giovani. D'altronde, due italiani su tre pensano che i loro figli, per fare carriera, se ne debbano andare all'estero (Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis). Come, puntualmente, avviene. Infatti, l'Italia è al quinto posto in Europa, come Paese di immigrazione. Dopo Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia. Ma - il fenomeno è meno noto - è al quarto posto come Paese di "emigrazione". Gli stranieri che vivono - e lavorano - in un Paese dell'Ue sono infatti soprattutto turchi, marocchini, rumeni e, appunto, italiani. In Germania, Svizzera e Francia, dunque, noi siamo come i marocchini e i turchi. Proprio per questo, peraltro, le paure sono, al proposito, comprensibili. La xenofobia, letteralmente: paura dello straniero, riflette l'impatto con un fenomeno nuovo. Che si è sviluppato in modo rapido e violento. Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, gli stranieri in posizione regolare, alla fine del 2013, erano circa 5 milioni e 440 mila. Cioè, l'8% della popolazione. Con un aumento rispetto all'anno precedente di circa il 4%. In confronto al 2004, quando gli immigrati erano meno di 2 milioni, significa un aumento di quasi tre volte. E di 4, rispetto al 2001. Il nostro paesaggio sociale e demografico, dunque, è cambiato profondamente e molto in fretta. Difficile che questo avvenga senza fratture, senza reazioni. Tuttavia, nonostante tutto, la società italiana si è adattata. Per necessità, ovviamente, visto che gli occupati stranieri sono 2,4 milioni, oltre il 10% del totale, mentre nel 2001 erano solo il 3,2%. Ma anche perché ha cominciato ad abituarsi alle diversità, alle differenze etniche e culturali. Come altrove si sono abituati a noi, in passato. Anche se la recente Indagine dell'Osservatorio sulla sicurezza in Europa (febbraio 2015), condotta da Demos (insieme all'Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis), rileva un deterioramento degli atteggiamenti verso i migranti, in Italia. Più di un italiano su tre percepisce, infatti, gli immigrati come un "pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone" (33%). Tuttavia, occorre rammentare che, fra il 2007 e il 2009, questo indice aveva proporzioni ben diverse: fra il 45 e il 50%. Da allora l'immigrazione non ha smesso di crescere. Ma è cambiato l'approccio. Da parte della società, anzitutto. Perché, come si è detto, ci siamo abituati agli "altri intorno a noi". E abbiamo cominciato, per questo, a percepirli come "altri noi". Così, la diffidenza ha cominciato a declinare. Per altro verso, è cambiata la narrazione del fenomeno da parte dei media. Come ha sottolineato l'Osservatorio di Pavia, negli ultimi anni le notizie sull'immigrazione, sui notiziari di prima serata delle principali reti nazionali, continuano ad essere numerose: 1007 notizie nel 2013 e 901 nel 2014. Ma, soprattutto dopo la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013, i sopravvissuti al mare diventano "migranti" e non più "clandestini". E le ordinarie storie di intolleranza, raccontate in precedenza, lasciano il passo a storie di solidarietà, altrettanto ordinarie. Dai luoghi dei naufragi. Lo stesso avverrà, sicuramente, anche questa volta. Vale la pena di aggiungere, ancora, che l'immigrazione è vissuta come un problema anche altrove. In Europa. L'immigrazione è, infatti, considerata una delle due principali emergenze dal 13% degli italiani (Pragma per l'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza in Europa), ma da quasi il 50% in Gran Bretagna e in Germania. D'altronde, da noi l'immigrazione è sempre più di "passaggio". Verso altri Paesi che offrono prospettive di lavoro migliori. Perché l'immigrazione, non dobbiamo dimenticarlo, può essere fonte di preoccupazione, ma è, comunque, un indice di sviluppo. Quando gli immigrati cominciano ad andarsene, come effettivamente avviene da qualche tempo, è perché il nostro mercato del lavoro non è più in grado di attrarli e di assorbirli. Tuttavia, ieri come oggi, in Italia come altrove, gli immigrati possono essere una risorsa politica. Soprattutto in tempo di campagna elettorale. Un argomento agitato da imprenditori politici della paura, per tradurre l'insicurezza - e le vittime degli scafisti - in voti. Il Front National, in Francia. Ukip di Farage, in Gran Bretagna. La Lega di Salvini, in Italia. Così diversi eppure così vicini. Nel segno dell'Anti-europeismo e della paura degli altri. Ma invocare blocchi navali e respingimenti, di fronte a tragedie immense, come quella avvenuta ieri nel mare di Sicilia, non è in-umano. È semplicemente ir-reale. Come se fosse possibile - oltre che giusto - fermare la fuga dalla guerra e dal terrore che ci assediano. A pochi chilometri da noi. Ma l'unico modo per fermare i disperati che, a migliaia, si dirigono verso le nostre coste - e, a migliaia, muoiono nel viaggio. Ostaggi di mercanti di morte. L'unico modo possibile per respingerli, per tenerli lontani da noi: è chiudere gli occhi. Fingere che non esistano. Rinunciare alla compassione verso gli altri. Non avere pietà di noi stessi. © Riproduzione riservata 20 aprile 2015 Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/04/20/news/dobbiamo_avere_pieta_di_noi-112376687/?ref=HRER2-1
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« Risposta #436 inserito:: Maggio 01, 2015, 12:02:48 pm » |
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E intanto avanza il premier Italicum MAPPE. Matteo Renzi sta cambiando non solo la legge elettorale, ma anche il modello di democrazia che contrassegna il nostro Paese Di ILVO DIAMANTI 27 aprile 2015 MATTEO Renzi sta cambiando non solo la legge elettorale, ma anche il modello di democrazia che contrassegna il nostro Paese. Si tratta, in fondo, di un'osservazione scontata, perché il sistema elettorale è il "primo principio" della democrazia rappresentativa. Attraverso cui i cittadini partecipano alla scelta delle assemblee parlamentari e, quindi, del governo. L’Italicum, però, delinea, al tempo stesso, una modifica della "forma di governo", perché conduce e induce all'elezione diretta del Presidente del Consiglio. E, insieme, al rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a spese del legislativo. Di fatto, anche se non formalmente. Lo ha chiarito, in Commissione Affari costituzionali, alla Camera, Roberto D'Alimonte. Autore della versione originaria dell'Italicum. E l'ha ribadito ieri, sul Sole 24 ore: capo del governo e maggioranza parlamentare saranno decisi direttamente dai cittadini. D'altronde, se, con le nuove regole, le elezioni garantiranno la maggioranza assoluta non a una coalizione ma a un partito, risulta evidente come il leader del partito vincitore diverrebbe automaticamente "premier". E disporrebbe di una maggioranza "fedele", visto che i capilista di circoscrizione, come prevede l'Italicum, sono pre-definiti. Bloccati. E, dunque, scelmente, ti dal "centro". Non si tratta, peraltro, di una novità, perché, da quasi 15 anni, i candidati premier vengono indicati nelle stesse schede elettorali. Insieme e accanto al nome del partito. O della lista. Giovanni Sartori, non per caso, ne ha sempre denunciato l'in-costituzionalità. Perché si tratta di un metodo attraverso il quale si modifica la base "parlamentare" della nostra democrazia. Naturalmente, come hanno chiarito alcuni autorevoli giuristi (Barbera, Ceccanti, Clementi), l'Italicum non prevede cambiamenti sul piano "costituzionale". Ma ne produrrà, sicuramente, sul piano "istituzionale" e politico. Perché il potere legislativo, la fiducia al governo e al premier spetterebbero ancora al Parlamento. Tuttavia, a differenza del passato, anche recente, il leader del partito vincitore non solo diverrebbe, automatica- premier. Ma non dovrebbe più sottostare ai vincoli e ai condizionamenti di coalizioni instabili e frammentate. Di leader di piccoli partiti, ma con un grande potere di "ricatto". Si tratti di Mastella, Bertinotti. Di Rifondazione, dell'Udeur oppure della Lega. È, dunque, lecito parlare di "premierizzazione". Una tendenza che, nel caso dell'Italia del nostro tempo, verrebbe accentuata dalla marcata personalizzazione dei partiti. Divenuti, ormai da tempo, "personali" (per citare la nota formula coniata da Mauro Calise). Tanto più nel caso del Partito democratico di Renzi, sempre più identificato e accentrato nella persona del Capo. Almeno quanto Forza Italia lo è nei confronti di Silvio Berlusconi. Con una differenza sostanziale, sul piano politico e parlamentare. Che, come si è detto, se il Pd vincesse le prossime elezioni, Renzi potrebbe governare senza il condizionamento degli alleati, con i quali, invece, Berlusconi ha sempre dovuto fare i conti. Naturalmente, il Pd non è Forza Italia. Non è stato "creato" e modellato da "un" solo leader - da solo. Il Pd viene da lontano. Incrocio e confluenza dei partiti di massa che hanno segnato la storia e la politica della nostra Repubblica, per cinquant'anni e oltre. Tuttavia, il Pd, in questa fase, è cambiato profondamente, in tempi molto rapidi. E oggi coincide sempre più con la figura del leader. Dunque, del premier. È divenuto PdR (come ho scritto altre volte). Il Partito democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In quanto il leader si sovrappone - in senso letterale: si "pone sopra" - al Pd. In modo aperto. In Parlamento e fuori. Come sottolinea la sostituzione, in Commissione Affari Costituzionali della Camera, di tutti gli esponenti della minoranza interna al Pd. Un orientamento confermato in occasione della festa nazionale dell'Unità di Bologna, capitale storica dell'Italia Rossa. Dove non sono stati invitati, fra gli altri, Gianni Cuperlo (poi, sembra, "recuperato") e, soprattutto, Pier Luigi Bersani. Una biografia politica trascorsa nella famiglia del Pci e dei partiti post-comunisti. In Emilia Romagna. Dov'è stato governatore (fra il 1993 e il 1996). Un segno esplicito e perfino sfrontato di sopravvento sul passato. Tanto più perché l'Unità, il giornale a cui si ispira la Festa, è la testata storica del Pci. Bandiera della tradizione e della militanza comunista. Oggi "sottomessa" simbolicamente, e non solo, dal (e al) PdR. Matteo Renzi, peraltro, accompagna questo percorso accentuando lo stile e il linguaggio del "leader che fa e decide". E viceversa: "decide e fa". Così, nei giorni scorsi, ha dichiarato che "se l'Italicum non passa, il governo cade". Detto senza enfasi. Non una minaccia, ma, piuttosto, un annuncio. Quasi una constatazione. Perché "se il governo, nato per fare le cose, viene messo sotto, allora vuol dire che i parlamentari dicono: andate a casa". E, dunque, suggerisce Renzi, implicitamente: "vi manderò a casa". Tutti. Se si guarda "oltre" l'Italicum, dunque, dentro alla riforma elettorale si scorge l'elezione diretta del premier. Il quale riassumerebbe e concentrerebbe ruolo e poteri del leader del partito. A conferma di una tendenza in atto da tempo, ma che ora verrebbe istituzionalizzata. Per Matteo Renzi si tratterebbe della conclusione - coerente e conseguente - del percorso condotto nell'ultimo anno e mezzo. Durante il quale ha governato in "solitudine". Il PdR e l'Italia. Renzi, dunque, si appresta a diventare il Premier Italicum. © Riproduzione riservata 27 aprile 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/27/news/e_intanto_avanza_il_premier_italicum-112929514/?ref=HRER2-1
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« Risposta #437 inserito:: Maggio 01, 2015, 12:41:15 pm » |
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Con l'emergenza lavoro 6 su 10 ora sono precari. I disoccupati bocciano la ricetta del Jobs Act Mappe. Per metà del campione la riforma chiave di Renzi non avrà effetti. Cresce la quota dei senza-impiego. La ricorrenza del Primo Maggio segnata dall’inquietudine per il diritto all’occupazione negato. E dalla diffidenza verso i sindacati. Il primo scudo anti-crisi resta la famiglia Di ILVO DIAMANTI 01 maggio 2015 OGGI, Primo Maggio, è la Festa del Lavoro e dei lavoratori. Un rito di passaggio, con un mese d'anticipo, verso la Festa della "nostra" Repubblica. Fondata sul lavoro - come recita l'articolo 1 della Costituzione. Per questo è difficile vivere questo giorno di festa senza inquietudine. Secondo le stime dell'Istat, infatti, in Italia il tasso di disoccupazione è risalito oltre il 13%. In valori assoluti: 3 milioni e 300mila persone senza lavoro. Ma fra i giovani, la disoccupazione è del 43%. Coinvolge, cioè, quasi un giovane su due. Se il lavoro rende liberi, dunque, in Italia il senso di libertà (dal bisogno, ma non solo) appare molto relativo. Nonostante le riforme approvate dal Governo. Infatti, secondo il sondaggio realizzato nei giorni scorsi dall'Osservatorio Demos-Coop, sia il Jobs Act, sia la revisione dell'art. 18 sono guardati con diffidenza dai cittadini. Non tanto perché vengano ritenuti negativi, ma perché, semplicemente, sono considerati inutili e improduttivi. Metà della popolazione pensa, cioè, che questi provvedimenti non produrranno "nessun effetto". E che, di conseguenza, non cambierà praticamente nulla. I più convinti, al proposito, appaiono proprio i "senza lavoro". I disoccupati. Quelli che più degli altri sono interessati da iniziative che favoriscano la crescita e il dinamismo del mercato del lavoro. … Peraltro, gli italiani non sembrano avere ancora percepito la ripresa, annunciata da tempo. Comunque, non sembrano crederci davvero. Con qualche ragionevole ragione, se - come emerge dal sondaggio - in metà delle famiglie c'è qualcuno che, nell'ultimo anno, ha perso il lavoro oppure l'ha cercato inutilmente o, ancora, è stato messo in cassa integrazione. Poco più di quanto avevamo rilevato nell'indagine di due anni fa. Ma, appunto, poco-più, non poco- meno. Nello stesso periodo, inoltre, è cresciuta di 4 punti la quota di persone (intervistate da Demos-Coop) che affermano di non aver mai lavorato, nell'ultimo anno. Ora sono il 47%. Quasi metà del campione. Anche se occorre tener conto che nella popolazione intervistata sono compresi i pensionati e gli anziani, non considerati dalle statistiche ufficiali. Ma il distacco dal lavoro - come attività e come pratica "regolare" - risulta, comunque, largo. E crescente. Così, non sorprende che quasi 6 italiani su 10 non mostrino alcuna fiducia nel futuro. E che questo atteggiamento divenga particolarmente esteso - e quasi "doloroso" - tra coloro che hanno familiari "senza lavoro". Il lavoro degli italiani, comunque, appare a tutti, anche agli occupati, "spezzato". Una condizione tradotta e narrata con termini diversi. Il 18% degli intervistati definisce il proprio lavoro: "flessibile". Il 12%: "temporaneo". Il 27%: "precario". Di conseguenza, solo il 41% si sente (al) "sicuro". E, tra i più giovani (15-34 anni), questa componente è ancor più ristretta. Si riduce a meno di un terzo (32%). Non si tratta di una grande scoperta, mi rendo conto. Da tempo sappiamo bene di vivere in una società "insicura". Dove il primo elemento di in-sicurezza è il "fondamento della nostra Repubblica". Il lavoro. Lo sappiamo bene e lo sanno bene, soprattutto, i più giovani. Eppure non ne sembrano particolarmente contenti. Semmai: rassegnati. Come la maggioranza degli italiani. Non per caso, si assiste a una rivalutazione delle professioni "stabili", alle dipendenze di grandi imprese oppure nell'impiego pubblico. Insieme, oggi raccolgono la preferenza di metà degli italiani (con un incremento di 10 punti, rispetto al 2009). Mentre, nello stesso arco di tempo, hanno perduto appeal il lavoro autonomo e le professioni libere. A differenza di pochi anni fa, dunque, l'Italia, dunque, non sembra più un Paese dove tutti, per sé e i propri figli, ambiscono a un futuro da imprenditori, artigiani o da liberi professionisti. Cercano, piuttosto, un lavoro, toutcourt. Un lavoro che duri. Parallelamente, sono cambiati, in modo profondo, i requisiti del lavoro "desiderato". Poco più di dieci anni fa, prima della crisi, la maggioranza degli italiani cercava nel lavoro la "soddisfazione" e un buon clima di relazioni. Considerava, cioè, il lavoro come fonte di auto-realizzazione e di affermazione. Oggi, invece, contano soprattutto la "sicurezza", la "continuità". E poi il reddito, lo stipendio. Il lavoro è, anzitutto, necessità e stabilità. D'altronde, l'ho già detto e non certo per primo, viviamo nell'età dell'incertezza. E nei tempi incerti, di fronte alle difficoltà economiche e del lavoro, di fronte ai problemi e all'inquietudine che annebbiano il futuro, le persone limitano e accorciano il loro orizzonte. Non solo nel tempo. Anche nel contesto - sociale e territoriale. Così, oggi gli italiani cercano ancore e appigli intorno a sé. E per sopportare i rischi del "lavoro spezzato", per tutelare i lavoratori, non si affidano né allo Stato né agli enti locali. Neppure ai partiti - di destra, centro, sinistra: non fa differenza. Qualcuno, semmai, guarda ai sindacati. Ma sono pochi: meno di 2 su 10. Il primo guscio, il primo rifugio, per oltre un terzo degli italiani, resta - non occorre neppure dirlo - la famiglia. Per questo oggi, Primo Maggio, si celebra il valore del Lavoro e dei Lavoratori. Ma, nel nostro Paese, anche della Famiglia. Per un legame stretto e, quasi, meccanico. Perché l'Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro. E sulla Famiglia. © Riproduzione riservata 01 maggio 2015 Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/05/01/news/con_l_emergenza_lavoro_6_su_10_ora_sono_precari_i_disoccupati_bocciano_la_ricetta_del_jobs_act-113277097/?ref=HREC1-3
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« Risposta #438 inserito:: Maggio 07, 2015, 11:56:37 pm » |
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Scuola, la rivincita dei Buoni Maestri adesso insegnare dà prestigio Sei italiani su dieci riconoscono un crescente valore sociale ai docenti, ritenuti di questi tempi un autentico punto di riferimento. Anche per questo il governo non può non dialogare con loro Di ILVO DIAMANTI QUESTA volta Matteo Renzi è stato meno perentorio che in altre occasioni. Di fronte alle manifestazioni contro la riforma della scuola, presentata dal governo, ha preferito mantenere distinto il giudizio sugli attori della protesta dei giorni scorsi. Gli insegnanti, gli studenti. E i sindacati. Per dividerli. Per confermare la sua distanza dal sindacato. Con il quale non intende cambiare registro. Era e resta "l'altra parte". Il passato. Come i "vecchi" partiti, come le "vecchie" istituzioni. Ma gli studenti e gli insegnanti: no. Perché la scuola è un riferimento centrale. Per i giovani. Per le famiglie. Per la società. Oltre metà dei cittadini, il 53%, continua, infatti, a esprimere fiducia nella scuola (Demos, Gli Italiani e lo Stato, Dicembre 2014). LE TABELLE Mentre circa il 60% si dice soddisfatto del funzionamento delle scuole, di diverso tipo e livello. In primo luogo di quelle elementari, quindi dell'università e, in misura più limitata, delle medie. Più di 6 persone su 10, inoltre, manifestano fiducia nei confronti degli insegnanti. Pubblici (Osservatorio Demos Coop per la Repubblica delle Idee, ottobre 2014). Perché la differenza tra istruzione pubblica e privata, negli orientamenti dei cittadini, appare elevata. A vantaggio del pubblico. Così il premier si dice disposto a negoziare. "Perché la scuola non è dei sindacati ma degli studenti e del loro futuro". E, ovviamente, dei docenti, che, quotidianamente, sono a contatto con gli studenti e con le loro famiglie. Anche per questo Renzi ha mostrato maggiore apertura al dialogo, che in altre occasioni. Dopo aver promosso una consultazione online molto frequentata. Mentre con altre categorie, con i magistrati in particolare, i rapporti appaiono meno distesi. Anzi molto più tesi. E polemici. Il fatto è che il divario tra "investimento pubblico" e "rendimento sociale", nel caso della scuola, è particolarmente elevato. E Renzi sa bene che per costruire una "buona scuola" occorrono risorse. Molto più ampie di quelle attuali. E di quelle previste dalla riforma. L'Italia, infatti, impiega il 4,2% del proprio Pil nell'istruzione pubblica. In Europa è 23esima. E investe nella ricerca l'1% del Pil. Metà rispetto all'Unione Europea. Tuttavia, questa è già una Buona Scuola. Nonostante tutto. Un caso esemplare di "investimento dissipativo". Perché ha buoni insegnanti. Coltiva buoni studenti, che diventano buoni diplomati, laureati. Buoni ricercatori - "ricercati" dovunque. E, infatti, li trovi dovunque. Nelle università, nelle imprese, nei centri studi di tutto il mondo. Se ne vanno dall'Italia e spesso non rientrano. D'altronde, oltre due terzi degli italiani (Demos-Coop, aprile 2015) ritengono che i giovani, in futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai loro genitori. Di conseguenza, il 70% si dice convinto che per fare carriera sia necessario andare all'estero. Si spiega così la frustrazione degli insegnanti. Che si sentono s-valutati, nonostante la loro valutazione, sul piano sociale, sia molto positiva. Oggi, infatti, circa 6 persone su 10 considerano elevato il prestigio professionale dei maestri elementari e dei professori delle scuole medie e superiori. E oltre 7 italiani su 10 esprimono la stessa opinione riguardo ai professori universitari. Occorre aggiungere che la crisi, negli ultimi anni, ha incrementato il valore sociale di tutte le professioni. In altri termini: del lavoro in sé. Ma non nella misura registrata dai docenti: 15-20 punti in più, rispetto al 2007. Mentre, nello stesso periodo, il prestigio dei medici è cresciuto di 8 punti, quello degli imprenditori di 5. E quello dei magistrati di 2. Questa tendenza è stata, probabilmente, alimentata dal dibattito sulla riforma della scuola. Ma anche, vorrei dire: soprattutto, dal forte deficit di riferimenti. Nell'ambito delle istituzioni, nella società. Nel lavoro e nella vita quotidiana. La considerazione nei confronti degli insegnanti - e della scuola - si è allargata, più che in passato, perché oggi si percepisce un diffuso disorientamento sociale. Un senso di "vuoto" che, più ancora di prima, spinge a cercare "chiodi" a cui attaccarsi. Il prestigio sociale degli insegnanti, la soddisfazione nei confronti della scuola - pubblica - riflettono, dunque, un sentimento di fiducia che - per usare un sinonimo - è anche "confidenza". Si rafforza, cioè, attraverso i legami e le relazioni sociali. Un giorno dopo l'altro. Come la (e insieme alla) "famiglia". Così si spiega la disponibilità al dialogo con gli insegnanti. (Peraltro, particolare non trascurabile, elettori tradizionalmente vicini al centro-sinistra.) Tuttavia, non è detto che, alla fine, non prevalga, anche stavolta, la figura del Premier ipercinetico, che fa-quel-che-dice. Ma questa volta entrerebbe in contraddizione con lo Storytelling dell'innovazione, narrato fino ad oggi. Perché la nostra scuola è l'emblema di un Paese che esporta le sue competenze e i suoi giovani. L'Italia: è un Paese sempre più vecchio, dal quale i giovani più preparati, appena possono, fuggono. E non ritornano. Per questo, una "buona scuola" è importante. Ma perché costruirla "contro" i suoi protagonisti? Contro gli studenti? E contro gli insegnanti? © Riproduzione riservata 07 maggio 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/07/news/scuola_la_rivincita_dei_buoni_maestri_adesso_insegnare_da_prestigio-113724611/?ref=HRER2-2
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« Risposta #439 inserito:: Maggio 19, 2015, 09:36:38 am » |
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Mappe: Salvini-Le Pen, relazioni pericolose di ILVO DIAMANTI 18 maggio 2015 MATTEO Salvini continua il suo viaggio attraverso le province d'Italia. Da Nord verso Sud. Inseguito, dovunque, dalle proteste dei Centri sociali. Così rafforza la costruzione della nuova identità leghista. Nazionale e di Destra. Nello stesso periodo, si è consumata la frattura nella "famiglia reale dell'estrema destra francese ", come l'ha definita Bernardo Valli. Marine Le Pen, attuale leader del Front National, ha sospeso dal partito il padre - e fondatore - Jean-Marie. Il quale l'ha ripudiata come figlia. Un conflitto politico, e familiare, che riflette il tentativo di "normalizzare" l'immagine del FN. È il tracciato dei percorsi incrociati di Marine Le Pen e Matteo Salvini. Partiti da posizioni - politiche, simboliche e strategiche - distanti, per alcuni versi opposte, tendono ad avvicinarsi. Nell'intento di conquistare nuovi spazi politici. Con esiti ancora difficili da verificare. Marine Le Pen ha ereditato la leadership del FN dal padre. Non è raro, nei partiti populisti, che il "comando" si trasmetta per via familiare. Ma, rispetto al padre, ha riposizionato il partito. Il conflitto "familiare" in atto non sembra, infatti, un semplice gioco delle parti, per allargare i consensi. Al di là degli indubbi elementi di continuità con la tradizione, Marine Le Pen ha "nazionalizzato" l'immagine del partito in senso "popolare" (e populista). E, dunque, anti-europeo. Prima, invece, la "nazione" era utilizzata come simbolo di un'identità "sostanziale" ed esclusiva. Perché il FN è sempre stato "solo". Inavvicinabile per ogni altra forza politica di destra. Oltre che di sinistra. Non per caso, alle presidenziali del 2002, quando Le Pen (padre) andò al ballottaggio (per la frammentazione del voto di sinistra), Jacques Chirac, candidato neo-gollista, venne eletto con oltre l'82% dei voti. Grazie al sostegno massiccio degli elettori di sinistra e di centro, oltre che dei propri. Con una partecipazione elettorale superiore al primo turno. Marine Le Pen ha cercato di ridimensionare l'isolamento del partito, contraddicendo, in particolare, il tradizionale discorso antisemita - principale motivo di rottura con il padre. Ha, invece, accentuato il discorso securitario della proposta politica. In particolare, ha amplificato le paure degli stranieri - e dell'Islam. Drammatizzati dal sanguinoso attacco a Charlie Hebdo. Infine, ha riassunto i temi sociali e il nazionalismo nell'opposizione all'Europa dell'Euro. Una recente indagine, condotta da Ipsos e Sciences Po per Le Monde (e diretta da Pascal Perrineau), osserva il radicamento di queste idee nella società francese, sottolineato dalla crescita elettorale del FN. La Lega, invece, nella fase di maggiore crescita (1995-2010), si è proposta come un partito "estremista di centro" (vista la posizione politica dichiarata dalla maggioranza dei suoi elettori). Federalista. E governativo. Perché Berlusconi l'ha coinvolta, nei suoi governi, dal 1994 e fino al 2011. Inoltre, si è imposta come partito di governo a livello locale. E regionale. Nelle regioni del Nord ma anche nel Centro. È divenuto il sindacato del (Centro) Nord a Roma. In questo modo ha avvicinato e, talora, superato il 10% dei voti (alle politiche del 1996 e alle europee del 2009). Fino agli scandali "familiari" (anche nella Lega i parenti contano...) che, nel 2012, hanno coinvolto il leader-fondatore, Umberto Bossi. Matteo Salvini, eletto segretario nel dicembre 2013, ha rilanciato il partito in tempi relativamente brevi. Da un lato, ha sfruttato la crisi del Pdl - "logorato" dal "logoramento" di Silvio Berlusconi. Dall'altro, ha riproposto, con successo, il ruolo dell'Imprenditore politico della Paura. Ha, dunque, ripreso, con violenza, la campagna contro gli immigrati. E, al tempo stesso, contro l'Unione europea. E contro l'euro. Salvini ha, quindi, "lepenizzato" la Lega, proiettandola oltre il Nord Ha, così, delineato una Ligue Nationale, nel solco della nuova Destra (anti) europea. Una scelta marcata dall’alleanza - esplicita - con Casa Pound. I dati dei sondaggi, fino ad oggi, gli hanno dato ragione, spingendola oltre il 13%. In attesa delle prossime elezioni regionali che, almeno in Veneto, dovrebbero premiare il suo candidato. Il governatore uscente, Luca Zaia. Tuttavia, per entrambi i partiti ed entrambi i leader, le prospettive di questa via nazional - (anti) europea della Destra restano incerte. Per ragioni, in parte, opposte. Il FN di Marine Le Pen (come ha osservato Jean-Yves Camus su Le Monde) mira a guidare lo Stato. Il padre non ci aveva mai pensato. E ha sempre agito per massimizzare la sua rendita di op-posizione. Ora, però, le idee del FN (di Marine Le Pen) hanno attecchito. Ma quasi l'80% dei francesi continua a considerare il FN di estrema destra, mentre il 60% lo ritiene "pericoloso per la democrazia", come mostra il sondaggio Ipsos-Sciences Po. Così, al momento del voto, il FN ha ottenuto un buon risultato, ma è stato largamente superato dal Centro-destra repubblicano, trainato dal ritorno di Sarkozy. Perché, fra gli elettori francesi, le paure e i valori promossi dal FN sono largamente condivisi. Ma riesce ancora difficile accettarlo come forza di governo. In Italia, invece, la Lega di Salvini deve affrontare un problema molto diverso, ma dagli esiti simili. La sua marcia decisa verso destra e centrosud, infatti, ha sollevato da una catena di proteste, che danno ulteriore enfasi alla svolta di Salvini. Un "provocatore di talento", come l'ha definito ieri Francesco Merlo. Tuttavia, resta difficile immaginare che la Lega Padana possa sfondare nel Sud. E la Ligue Nationale nel Nord. Mentre non si comprende come la nuova Destra di Salvini possa tornare al governo, senza il sostegno di Berlusconi, ora marginale. E come possa, dopo il sostegno di Casa Pound, essere "sopportata" a lungo dal FN di Marine Le Pen, impegnata a uscire dal ghetto dell'estrema destra. L'unione tra FN e LN (nationale), dunque, potrebbe delineare una "relazione pericolosa", anche per i due partiti coinvolti. Con l'esito, contraddittorio, di rafforzarli sul piano elettorale ma, al tempo stesso, di allontanarli dal governo. Costringendoli a interpretare la protesta. Contro i governi nazionali e contro l'Europa dell'euro. Considerata "necessaria", nonostante tutto, dalla maggioranza dei francesi e degli italiani. Così, l'Unione di Front et Ligue Nationale rischia di apparire, agli elettori, uno strumento di "lotta", ma non "di governo". Una prospettiva, forse, accettabile per la Ligue di Salvini, intento a occupare lo spazio di destra. A ogni costo. Ma intollerabile per il FN di Marine Le Pen, che conta di ottenere un risultato importante alle prossime presidenziali. © Riproduzione riservata 18 maggio 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/18/news/salvini-le_pen_relazioni_pericolose-114611950/?ref=HRER2-2
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« Risposta #440 inserito:: Giugno 02, 2015, 12:00:55 pm » |
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Il Lega-forzismo che soffia a destra Mappe. Rovesciati per la prima volta i rapporti di forza tra Salvini e Berlusconi. Ma per imporsi davvero al leader padano manca un traguardo ancora lontano: fare breccia nel Sud Di ILVO DIAMANTI 02 giugno 2015 Non è semplice e neppure scontato leggere in chiave politica nazionale quest'elezione regionale. Anche perché si è svolta in sette Regioni. Meno di metà di quelle a statuto ordinario. Eppure è inevitabile. In Italia ogni elezione diventa un test sulla salute del governo e dell'opposizione. Tanto più in questa occasione, un anno dopo le elezioni europee che avevano sancito il successo di Renzi e del suo partito. Il Pd di Renzi. Il PdR. Difficile, dunque, non usare questo voto per misurare, appunto, il consenso verso Renzi e il PdR. Ma anche e anzitutto per capire cosa sia avvenuto, cosa stia capitando: dopo Berlusconi. Non solo a Renzi. Ma soprattutto al Centro-Destra. Dove, dalla fine del 2013, il declino di Silvio Berlusconi è stato accompagnato, in parte compensato, dalla "nuova" Lega di Matteo Salvini. Il leader che ha sicuramente innovato l'immagine e l'identità del partito. Rilanciandolo. Sui media. Lo ha chiarito bene anche il voto regionale di domenica. In modo particolarmente chiaro. La Lega di Salvini. Unico partito ad aver davvero guadagnato consensi, negli ultimi 2 anni. Come ha rilevato una puntuale analisi dell'Istituto Cattaneo di Bologna (condotta da Gianluca Passarelli e Filippo Tronconi). Lo stesso M5s ha, infatti, perduto oltre metà dei voti, rispetto alle elezioni politiche del 2013 (in valori assoluti: quasi 2 milioni). E 4 su 10 rispetto alle elezioni europee del 2014. Al contrario, la Lega di Salvini ha più che raddoppiato i voti ottenuti nel 2013 e li ha aumentati del 50% rispetto alle europee di un anno fa. Se consideriamo le sette Regioni al voto, la Lega è, infatti, salita dal 2,9% nel 2013 al 5% nel 2014, per sfiorare il 15% alle elezioni regionali di domenica scorsa. Che, tuttavia, diventa il 18%, se si esclude la Campania, dove non era presente. … Va chiarito che queste stime considerano anche il risultato ottenuto dalle liste personali. In questo caso e soprattutto, dalla Lista Zaia. Il governatore del Veneto, rieletto con una sorta di plebiscito. Questa evoluzione, meglio, questa risalita improvvisa, ha prodotto conseguenze politiche difficili da prevedere. Ma destinate, anzitutto, a modificare le strategie e le relazioni nel Centrodestra. Come si è già detto: la Lega di Salvini è già "oltre" Berlusconi. L'ha superato decisamente, in termini di voti assoluti e in percentuale. Oggi, infatti, nelle Regioni dove si è votato, Forza Italia è indietro, di un punto, rispetto alla Lega. Un anno fa i rapporti di forza erano nettamente diversi. Visto che FI superava il 17%. Tre volte più della Lega, quindi. Naturalmente, il crollo di FI è stato, almeno in parte, rallentato e compensato dall'elezione di Giovanni Toti in Liguria. Dove, però, FI ha ottenuto circa il 13%. E dunque poco più della metà dei voti della Lega (20%). Nonostante il ruolo trainante del governatore eletto. Ma la Lega ha superato FI quasi dovunque. Nel Centro-Nord. Nelle Marche, in Toscana, in Umbria. Oltre che, ovviamente, in Veneto. Dove ha superato il 40%, insieme alla Lista Zaia. Che da sola ha intercettato il 23%. Mentre FI si è "fermata" (letteralmente) al 6%. Da ciò la tentazione di ri-definire questo bacino elettorale, particolarmente ampio nel Lombardo-Veneto. "Padano" e, al tempo stesso, anticentralista. Meglio: antistatalista. In coabitazione e transizione continua fra Lega e Forza Italia. Edmondo Berselli l'aveva denominato, con il suo linguaggio suggestivo, "forza-leghismo". Ma oggi, visti i diversi rapporti di forza tra i due elementi semantici e politici, è, forse, più utile rovesciare il binomio. Meglio chiamarlo, cioè, "Lega-forzismo". Matteo Salvini, non per caso, ha chiarito subito che si candida come "alternativa di governo". Come dimostra questo voto, è lui "il leader del Centrodestra". Un messaggio rivolto, anzitutto, a Berlusconi, che "sa leggere i numeri". Da ciò la sfida finale a Berlusconi e a Renzi. Perché Salvini si considera "oltre" Berlusconi. L'unico, vero avversario, l'unica vera alternativa a Renzi. E se si guardano i risultati delle elezioni di domenica, si tratta di una sfida fondata. Perché il bacino elettorale dei diversi candidati di Centro-destra supera il 40% dei voti validi. E risulterebbe, dunque, competitivo. Anche in ambito nazionale. Per questa ragione, d'altronde, Salvini ha innovato profondamente l'identità e l'offerta del suo partito. Ha spostato, apertamente e decisamente, il partito oltre la Padania. Ha, cioè, messo fra parentesi il linguaggio autonomista e, tanto più, secessionista. Per contro, ha accentuato i messaggi e le rivendicazioni (non solo verbali) contro la "minaccia" globale. Contro gli stranieri, che sbarcano sulle nostre coste. Contro l'Unione e la moneta europea. Salvini, come si è già detto in altre, precedenti occasioni, ha "lepenizzato" la Lega. L'ha spinta sulla via della Destra (anti) europea. E lo ha ribadito, attraverso l'alleanza (esclusiva) con i Fratelli d'Italia. In Toscana e nelle Marche. Questo percorso ha pagato, fino ad oggi. Ma lascia aperte alcune incognite. Alcuni problemi. Il primo riguarda la capacità effettiva di conquistare anche il Sud. Comunque, di radicarsi oltre la Padania - e le regioni rosse. Dove è penetrata da tempo. D'altronde, la Lega ha una parentela stretta con i partiti della Sinistra storica. Per modello organizzativo, radicamento locale, nelle classi popolari e nei ceti medi autonomi. Tuttavia, la "marcia nel Sud" sembra ancora difficile e lunga. Oltre che in Campania, dove ha rinunciato a presentarsi, la Lega ha ottenuto consensi limitati anche in Puglia (poco più del 2%). E nei comuni dove si è votato domenica (in attesa di conoscere i risultati del voto in Sicilia) è andato anche peggio. Per esempio, ad Andria: 2,6%, a Chieti: 2%. A Matera: 0,6%. Peraltro, il Centrodestra, come hanno sottolineato alcuni leader, diventa competitivo quando è "unito". Ma la proposta politica, insieme al linguaggio e allo stile comunicativo di Salvini, appare molto "esclusiva". E, dunque, difficilmente in grado di raccogliere e coalizzare soggetti ed elettori diversi. E moderati. Così il vento del Lega-forzismo soffia forte, verso destra. Ma non è detto che, così, possa raggiungere - e conquistare - Roma. © Riproduzione riservata 02 giugno 2015 Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-regionali-edizione2015/2015/06/02/news/il_lega-forzismo_che_soffia_a_destra-115848653/?ref=HRER2-1
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« Risposta #441 inserito:: Luglio 05, 2015, 10:17:30 am » |
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Marino onesto ma troppo debole, il 73 per cento oggi non lo voterebbe Il caso Roma. Città delusa dopo l'inchiesta su Mafia Capitale Il sindaco paga anche il fatto che gli scandali sono avvenuti "a sua insaputa". Il giudizio dei cittadini è negativo su disoccupazione, viabilità, immigrazione, buche, criminalità, gestione dei campi rom. Positivo il voto su servizi sociali e cultura Un romano su due è contrario a sciogliere per mafia il Campidoglio, anche se 9 su 10 ritengono che la criminalità organizzata sia molto diffusa per colpa di tutti i partiti di ILVO DIAMANTI 03 luglio 2015 Roma è una città delusa. Forse, disillusa. Perché le indagini del Ros e della Procura rivelano un grado di collusione fra malavita e politica ampio e desolante. Ma, in fondo, largamente pre-supposto dai cittadini. Così Marino e la sua giunta appaiono delegittimati. Difficilmente, oggi, verrebbero rieletti. Anche se il Sindaco, personalmente, viene ritenuto pulito. Irresponsabile. Ma ciò, in fondo, rischia di diventare una colpa. Guidare una nave che affonda nella palude. A sua insaputa. Non è una giustificazione, tanto meno un merito. Per il Capitano. Anche se, sulla piazza, non si vedono nocchieri capaci di emozionare. Sono alcune, prime, immagini proposte da un sondaggio condotto negli scorsi giorni da Demos per "la Repubblica", presso un campione rappresentativo della popolazione romana. Per tracciare una mappa dell'opinione pubblica nella Capitale in questo momento particolare. Drammatizzata da scandali e rivelazioni continue, circa il peso delle organizzazioni e delle pratiche illegali. E del loro intreccio con le attività della politica e dell'amministrazione. Quasi 9 romani su 10, secondo il sondaggio di Demos, ritengono la "mafia" - e il suo sistema - molto oppure abbastanza diffusi a Roma. Per colpa di (quasi) tutte le forze politiche (secondo l'80%). Mentre per il 15% il principale responsabile sarebbe il Centro-destra e per il 4% il Centro-sinistra. Il Sindaco, Ignazio Marino, è ritenuto direttamente responsabile da poco più di un quarto dei cittadini. Una componente delimitata, quindi. Ma una quota di elettori analoga pensa che, anche se è estraneo al contesto mafioso, si dovrebbe dimettere. Quasi 4 romani su 10, infine, ritengono che Marino dovrebbe restare al suo posto. Perché " irresponsabile" della melma malavitosa che invade la città. Questo, però, sembra il vero problema dell'amministrazione e del Sindaco. L'irresponsabilità. Il fatto che questo sistema di corruzione e di illeciti sia cresciuto "a sua insaputa". Così, anche se la maggioranza lo ritiene "innocente", Marino appare "colpevole". Di "omesso governo" e controllo. D'altronde, quasi 7 elettori su 10 danno una valutazione negativa sul lavoro svolto dall'amministrazione. E il 73% dei romani oggi non lo voterebbe, in caso di nuove elezioni amministrative. La metà dei suoi stessi elettori del 2013 non gli confermerebbe il sostegno. Il giudizio specifico sulle principali "politiche", peraltro, risulta negativo. In modo pesante, in alcuni casi: disoccupazione, manutenzione delle strade, viabilità, immigrazione, gestione campi Rom, criminalità. Mentre appare più positiva la valutazione sulla qualità dei servizi sociali e, soprattutto, culturali. Tuttavia, i romani valutano con diffidenza l'ipotesi di sciogliere per mafia e di commissariare il Comune. (Circa il 50% è contrario, il 43% favorevole.) Le ragioni, al proposito, sono diverse. La prima: Marino appare, come si è detto, un sindaco debole, ma non complice del sistema criminale emerso dalle inchieste dei magistrati. Anche per questo una componente minoritaria, ma estesa, di cittadini, lo considera in grado di affrontare alcune delle prossime scadenze, particolarmente importanti per la Capitale. Il Giubileo e la candidatura come sede olimpica, nel 2024. In secondo luogo: non si vedono, per ora, alternative autorevoli e consolidate. Solo Giorgia Meloni dispone di un grado di fiducia superiore a Marino. Ma non di molto: 35% a 30%. Le altre figure testate nel sondaggio di Demos, invece, stanno "sotto" all'attuale sindaco. Alessandro Di Battista, ma anche Alfio Marchini. Gianni Alemanno, infine, è lontano. Il passato. Compromesso con il Mondo di Mezzo... Il discorso non cambia - terza ragione - se si sposta l'attenzione dai candidati ai partiti. O, ancora, alle "parti" politiche. Perché la frammentazione, in questo caso, risulta particolarmente accentuata. Il M5s, intorno al 30%, è davanti a tutti. In vantaggio di poco rispetto al PD. Il Centro-destra è molto indietro. Come una possibile lista civica "indipendente". Ovviamente, è poco plausibile fare stime di voto se non si sa quando si andrà al voto. Con quali candidati, coalizioni... Al di fuori della campagna elettorale. Ma i dati del sondaggio di Demos sono, comunque, utili a comprendere come oggi, almeno, non vi siano ancora alternative chiare rispetto a questo sindaco e alla sua attuale maggioranza. Perché Marino non sta sicuramente bene, ma il PD non sta meglio. E, in fondo, non sta bene neppure la città. Ro- ma Capitale. Che accetta di sentirsi "nominare", anche se in un'inchiesta giudiziaria, "Mafia Capitale". Peggio, molto peggio, di Roma Ladrona. Sopporta, cioè, una definizione che trasforma la criminalità e la corruzione da un male metropolitano profondo in una patologia. Peggio: in un sistema di "regolazione" della società, oltre che dei rapporti fra la politica e gli affari. Magari mi sbaglierò, ma non credo che questa sia la verità. Comunque "tutta" la verità. Anche se rischia di diventarlo. Perché l'immagine pubblica e mediale, quando, per interessi faziosi o per pigrizia culturale, non viene messa in discussione, si confonde con la realtà. E, alla fine, si sostituisce ad essa. Così Roma, per non diventare, irrimediabilmente e intimamente, "mafiosa", deve dissolvere il "mondo di mezzo". Anzitutto dal punto di vista "narrativo". Distinguendo, senza indulgenza e senza generalizzare. Tra i mafiosi e il "mondo per bene". © Riproduzione riservata 03 luglio 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/03/news/marino_onesto_ma_troppo_debole_il_73_per_cento_oggi_non_lo_voterebbe-118207904/?ref=HRER2-1
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« Risposta #442 inserito:: Luglio 20, 2015, 11:53:20 pm » |
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Trasversale come la Dc, mai al governo: ecco chi vota M5S La mappa. Il movimento di Grillo è il secondo partito, stabile al 27 per cento, ma solo meno di un terzo dei suoi elettori vuole che vada al potere. Spicca per interclassismo e trasversalità, è il primo partito fra i ceti medi pubblici e quelli privati, ma anche tra gli autonomi, i giovani e i disoccupati. Il sondaggio Demos Di ILVO DIAMANTI 13 luglio 2015 Il M5s continua a ottenere consensi molto larghi. Secondo i principali istituti demoscopici è il secondo partito, in Italia. Intorno al 26-27%. Molto vicino al PD. Tuttavia, insieme al successo crescono anche le difficoltà. Interne. Soprattutto di fronte alla prospettiva di governare. In Puglia, ad esempio, alla proposta di entrare in giunta, tre donne, elette nelle liste del M5s, hanno risposto, senza mezzi termini: "Mai con Emiliano il satanasso. Faremo una opposizione durissima". Ma vi sono altri motivi che scuotono il MoVimento. In particolare, il dibattito sull'immigrazione e sugli sbarchi. Contrappuntato da posizioni diverse e divise. Fra intransigenza e tolleranza. Il problema del M5s, d'altronde, coincide con la sua principale risorsa. La trasversalità. L'assenza di fratture "unificanti", interne ed esterne. Come l'anticomunismo, nella prima Repubblica. E l'antiberlusconismo, nella seconda. Nella post-democrazia dei nostri tempi, i muri ideologici sono crollati. E Renzi, oggi, divide. Ma anch'egli in modo trasversale. All'interno del suo partito, quasi più che verso l'esterno. Così, la principale frattura politica del nostro tempo è l'antipolitica. Che riflette la sfiducia degli elettori verso i partiti e gli uomini politici. Il principale canale di questo orientamento, oggi, è il M5s. Che, più di altri, interpreta lo spirito (in francese: l'esprit) della contro-democrazia. Concetto elaborato dallo storico Pierre Rosanvallon per definire la "democrazia della sorveglianza". Contro gli eccessi e contro la corruzione. Del potere, meglio, dei poteri e su chi li esercita. Non per caso il M5s, secondo il 31% degli elettori intervistati nel recente sondaggio dell'Atlante Politico di Demos (giugno 2015), è l'unico partito credibile nella lotta alla corruzione. Mentre, per esempio, il credito del PD, al proposito, si ferma all'11%, quello della Lega scende all'8%. E la fiducia verso FI, al proposito, scivola al 6%. LE TABELLE Più che di un partito, lo statuto, ispirato da Grillo e Casaleggio, parla, d'altronde, di un "non-partito". Ma forse sarebbe meglio definirlo un contro-partito. Attore protagonista della contro-democrazia. Senza ironia e senza intento denigratorio: è la Contro-Democrazia Cristiana dei nostri tempi. La CDC. Anche se, va chiarito subito, il M5s non può dirsi "cristiano". Perché è laico, privo di connotazioni confessionali. E, come preciseremo più avanti, è molto diverso dalla DC. Che, tuttavia, evoca. Per alcuni tratti specifici. Ben chiariti da una interessante analisi presentata da Fabio Bordignon e Luigi Ceccarini, a Firenze, al recente Convegno della SISE dedicato al voto regionale di maggio. L'interclassismo, anzitutto. Il M5s, infatti, è il primo partito fra i ceti medi pubblici e privati, fra i lavoratori autonomi e gli imprenditori. Come la DC. A differenza della quale, però, esprime maggiore capacità di attrazione fra i giovani e gli studenti. Fra i disoccupati. Minore, invece, fra gli elettori anziani e le donne. Dunque, fra le casalinghe. Poi la trasversalità politica. Un terzo dei suoi elettori si definisce, infatti, di centro-sinistra o di sinistra, oltre il 20% di centro-destra o di destra. Mentre una quota più ridotta (10%) si pone al "centro". Ma i "centristi puri", in Italia, hanno sempre costituito una componente limitata. Oltre un terzo degli elettori del M5s, invece, rifiuta lo spazio politico sinistra-destra. E si pone al di "fuori" e, quindi, "contro" di esso. La base elettorale del M5s, di conseguenza, si sente contigua a partiti molto diversi (e dunque a nessuno, in particolare). Alla Lega di Salvini – antipolitica e di Destra – anzitutto (20%). Poi, all'opposto, alla sinistra radicale e a Sel (15%). Quindi, ma in minor misura, al PD (12%). Il cui elettorato, peraltro, risulta politicamente meno "trasversale". Il M5s, quindi, appare un vero "partito pigliatutti" (per citare la nota formula di Otto Kircheimer, nella versione di Arturo Parisi). Per questa ragione, è costantemente in bilico fra diverse scelte, diverse opzioni. Politiche e di valore. Populista e popolare, a seconda dei casi – e delle convenienze. Intransigente e tollerante, al tempo stesso, verso gli immigrati. Ma anche verso i diritti dei gay. Ostile verso la UE e l'euro. Comunque, contrario ai privilegi dell'impiego pubblico. Deciso a "spianare" i campi Rom. E, invece, favorevole al reddito di cittadinanza. Quindi, ad allargare il Welfare. Insomma, la proposta politica del M5s presenta una miscela di elementi diversi. E contrastanti. Come gli elettori che rappresenta. E che lo "usano" con diversi fini e per diverse ragioni. Per questo, in passato, l'ho paragonato a un autobus, sul quale salgono con diversi obiettivi e diverse destinazioni. Passeggeri che pagano un biglietto e dopo un percorso, più o meno lungo, scendono. Mentre, nel frattempo, altri salgono. Così il M5s è "condannato" a cambiare continuamente strada. A fermarsi solo per un attimo. E poi ripartire. D'altronde, meno di un terzo dei suoi elettori vorrebbe che il M5s partecipasse a coalizioni di governo. In ambito locale e tanto più nazionale. La maggioranza di essi accetterebbe di allearsi solo in poche, specifiche occasioni. In funzione di alcuni obiettivi, particolarmente importanti. Mentre quasi un terzo della base del M5s rifiuta qualsiasi intesa. A priori. Da soli o all'opposizione. Per controllare e sorvegliare il potere, tendenzialmente corrotto e corruttore. Per questo il M5s è condannato a cambiare direzione di continuo. E a correre. Senza fermarsi mai. Speculare alla Democrazia Cristiana, che, era dovunque, sempre in movimento, eppure sempre ferma. Distesa sul territorio, nei luoghi del potere. Nazionale e locale. Dove, invece, il M5s agisce da contro-potere. È la contro-democrazia (cristiana). La CDC - senza la C. impegnata a sorvegliare assai più che a governare. Contrassegna la nostra democrazia ibrida. Affollata di post-partiti, guidati da post-leader post-ideologici. Faticosamente intenti a personalizzare una politica senza personalità. In questo tempo senza politica. © Riproduzione riservata 13 luglio 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/13/news/trasversale_come_la_dc_mai_al_governo_ecco_chi_vota_m5s-118948987/?ref=HREC1-1
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« Risposta #443 inserito:: Agosto 06, 2015, 12:05:59 pm » |
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La post-democrazia fondata sul premier Le mappe. Contro il sindacato, contro i sindaci. Matteo Renzi prosegue la sua corsa solitaria. Un intento non solo politico ma di strategia istituzionale Di ILVO DIAMANTI 03 agosto 2015 Il Premier Matteo Renzi prosegue nella sua marcia solitaria. Un giorno dopo l'altro, una parola dopo l'altra, disegna una democrazia personale e immediata. Centrata sulla sua persona. Refrattaria alle "mediazioni". Diffidente verso i "mediatori". Si tratti di organizzazioni, associazioni o di soggetti istituzionali. Così, in pochi giorni, è intervenuto "direttamente" contro i sindaci e, prima ancora, contro il sindacato. Colpevoli, entrambi, di ostacolare, in modo diverso, il turismo e, quindi, l'economia italiana. Il sindacato. Con le iniziative che hanno reso difficile l'ingresso agli scavi di Pompei. E con lo sciopero dei piloti Alitalia, che ha generato disagio ai passeggeri. A Pompei come negli aeroporti le iniziative sono state condotte da sigle autonome e singoli comitati. D'altronde, nei servizi, poche persone, collocate in posizione strategica, possono generare grandi disagi pubblici. Tuttavia, il premier ha polemizzato, esplicitamente, contro il sindacato. Senza specificazioni. D'altronde, Renzi, da tempo, conduce la sua polemica contro il sindacato. Che ha il volto di Landini, leader della Fiom e di "Coesione Sociale", che nello scorso autunno ha promosso manifestazioni e scioperi contro il Jobs act e le politiche del lavoro del governo. Il sindacato evocato da Renzi. Chiama in causa Susanna Camusso, che, non per caso, ieri, su Repubblica, ha replicato che la "la Cgil non ci sta a essere usata in modo strumentale dal premier per recuperare il voto moderato". Ma l'intento di Renzi non sembra semplicemente "politico" ma "di strategia istituzionale". Anche se le preoccupazioni di "marketing politico" sono sempre presenti negli interventi del premier. Che, per questo, agisce e inter-agisce in rapporto diretto con gli elettori. E dialoga di continuo con l'Opinione Pubblica. Che contribuisce, a sua volta, a modellare e a orientare. Intervenendo sui temi sensibili. Per esempio, in questa stagione, sui servizi e i disservizi pubblici, appunto. In un periodo nel quale i flussi turistici sono il principale antidoto contro gli altri flussi che affollano e attraversano l'Italia. Ad opera dei migranti. Il turismo, attratto dall'immensa risorsa artistica e ambientale offerta dal nostro Bel Paese. Non sempre valorizzato adeguatamente. Come ha rammentato, di nuovo, il premier, in visita a Tokio. Da dove ha auspicato che "nei prossimi mesi i nostri sindaci lavorino di più". Per rendere le nostre città più attraenti. Per restituire appeal a un territorio troppo spesso degradato. Più che un invito: un rimprovero. Un messaggio e un ammonimento esplicito. Rivolto ai primi cittadini. Fra i principali protagonisti della democrazia rappresentativa. Eletti direttamente su base territoriale. Renzi stesso, d'altra parte, è stato sindaco. Di Firenze. Anzi, il sindaco è la più importante carica elettiva che abbia ricoperto. Visto che la sua ascesa alla guida del governo è avvenuta attraverso le primarie del Pd. Una consultazione di partito - per quanto aperta. E ciò ribadisce la singolare fase che attraversa la nostra democrazia rappresentativa. Ribadita, polemicamente, dalla minoranza del Pd, che ha minacciato di contrastare le riforme costituzionali in Senato, nel prossimo settembre, scatenando una sorta di "Vietnam parlamentare". Una formula che è stata apertamente condannata dal presidente del Pd, Matteo Orfini. Tuttavia, si tratta di una sfida significativa. Sul piano del linguaggio, oltre che della pratica e dell'azione. Perché sposta, decisamente, in ambito "parlamentare" un confronto che, nel frattempo, si è trasferito altrove. All'esterno. Nelle piazze e sui media - vecchi e nuovi. D'altronde, il capo del governo - e del partito di maggioranza - è un leader "non eletto" in Parlamento. Come i suoi principali oppositori. Beppe Grillo, leader - pardon: portavoce e megafono - del M5s. E Matteo Salvini, segretario della Lega: parlamentare europeo. Insomma, Renzi è, per ora, il premier di una Repubblica extra-parlamentare. Impegnato a costruire uno specifico modello di democrazia. Maggioritaria e personalizzata. Come prevedono le riforme istituzionali (in particolare, il monocameralismo) e la stessa riforma elettorale. L'Italicum. Che non delineano un "presidenzialismo di fatto" (come ha sottolineato il costituzionalista Stefano Ceccanti sull'Huffington Post ). Piuttosto, una Repubblica ancora "indistinta" (per citare Edmondo Berselli). Ma fondata sul premier. Renzi, d'altronde, nel frattempo agisce "come se" fosse già premier-presidente. Agisce e decide - o meglio: promette di agire - in fretta. Veloce. Così, dal Giappone annuncia l'approvazione della riforma della pubblica Amministrazione. "Entro giovedì". E si rivolge ai cittadini e agli elettori. Saltando mediazioni e mediatori. Sindacati e sindacalisti. Sindaci e governatori. Scavalca perfino il Parlamento e, soprattutto, i partiti. Compreso il "proprio". Che, d'altronde, costituisce il principale luogo, il principale soggetto-oggetto del suo esperimento. Il Pd. Tradotto e trasformato nel PDR. Il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, nel PdR. Il Partito di Renzi. Un post-partito, veicolo e portabandiera della PDR. La Post-Democrazia di Renzi. Fondata sul premier. © Riproduzione riservata 03 agosto 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/03/news/la_post-democrazia_fondata_sul_premier-120321952/?ref=HRER2-1
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« Risposta #444 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:52:51 pm » |
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La saga estiva della gioventù consumata 14 agosto 2015 Questa gioventù consumata. Esaurisce la vitalità e la vita stessa in discoteca e nei dintorni. Questi giovani: che si avvelenano con pasticche e droghe. Stupefacenti. Sono loro i protagonisti di questa estate torrida. D’altronde, i giovani suscitano sempre – e da sempre - l’attenzione sociale. Perché sono l’icona del futuro. Il luogo della speranza. Ma quando interpretano, da protagonisti, episodi di morte, generano un’angoscia che va oltre il fatto specifico. D’altronde, le tragedie si ripetono, da qualche settimana. In diverse parti d’Italia. Nella riviera romagnola, ma anche in Salento e, ancora, nel messinese. Dove alcuni giovani sono morti. Stroncati, pare, da “ecstasy killer”. Pasticche di ultima generazione “consumate” da chi insegue grandi emozioni. Oltre ogni limite. Non solo dai giovani. Ma i giovani, si sa, affollano maggiormente gli ipermarket delle droghe. Che, spesso, affiancano i locali da ballo. E da sballo. Bacini di mercato ampi. Tuttavia, le principali “cause di morte giovanile” sono diverse. Secondo l’Istat, in primo luogo, gli incidenti stradali. In auto e in moto. Accentuati, anch’essi, dalle droghe, ma, soprattutto, dall’abuso di alcol. Che spingono alla ricerca e al piacere del rischio, alimentato dalla velocità. Non da oggi. Come dimenticare “Il Sorpasso”, capolavoro di Dino Risi, girato nei primi anni Sessanta e interpretato da Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant? Anche oggi la cronaca degli incidenti mortali che coinvolgono giovani e giovanissimi scandisce le giornate. Con cupa regolarità. Ma la narrazione mediale che accompagna la nostra estate si sofferma soprattutto sui giovani consumati, anzi, fulminati dalle droghe. Fuori dalle discoteche. In riva al mare. Giovani consumati. Come Ismaele. Ammazzato perché colpevole di aver mostrato simpatia verso una ragazza. Impegnata con un altro giovane dello stesso paese. Intorno a Urbino. Eppure le morti dei giovani associate agli sballi alcolici e tossici in discoteca ci sono sempre state. Soprattutto in estate. Ma non hanno sempre sollevato la stessa attenzione mediale. Non hanno sempre fatto “notizia”. Negli anni precedenti abbiamo assistito ad altri serial ansiogeni. Anch’essi drammatici, anche se impostati su episodi meno frequenti. Come registra, da tempo, l’Osservatorio sulla Sicurezza, curato da Demos, Oss. di Pavia e Fondazione Unipolis. I “cani killer”, ad esempio, che, all’improvviso, aggrediscono e sbranano i “padroni”, dopo aver vissuto a lungo, fedeli, accanto a loro. Una follia che esplode soprattutto in estate. Quando la politica fa meno notizia. E non vi sono altri drammi “mediatici”, su cui soffermarsi. Quest’anno, però, la politica non si è mai fermata. Renzi non va in ferie. E Salvini, Grillo, insieme alla Sinistra Dem: lo (in)seguono. Poi, c’è il dramma degli sbarchi. Che proseguono, un giorno dopo l’altro. Come le morti dei disperati in fuga, che affondano nel mare. Ma non fanno notizia. Perché sono morti e non hanno volto. Mentre i sopravvissuti suscitano polemiche infinite. Dovunque ne sia prevista l’accoglienza. In Italia e nel resto d’Europa. Così la “saga della gioventù consumata”, fra pasticche e sballi alcolici, orienta la nostra angoscia estiva in direzione a noi più familiare. Perché i giovani riflettono sempre e da sempre le nostre paure. Ma oggi, più di ieri, ci preoccupa la “triste gioventù” (come la definisce Elisa Lello in un saggio di prossima pubblicazione per Maggioli). “Triste”, perché la attende – e si attende - un futuro precario. Da precari. In una società certamente incerta. Dove il tempo è ridotto a un eterno presente. “Triste”, perché l’immagine dei giovani riprodotta sui media riflette il sentimento degli adulti. Le loro paure: sono anzitutto le nostre. La tristezza di questa “gioventù consumata”, in effetti, è la nostra. Noi, schiacciati sull’immediato, proiettiamo sui giovani la nostra in-capacità di progettare. Di immaginare il domani. “Un” domani. E questa cronaca estiva di tragici sballi giovanili rispecchia la nostra paura di perderci. Nel presente infinito. © Riproduzione riservata 14 agosto 2015 Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2015/08/14/news/la_saga_estiva_della_gioventu_consumata-120947844/?ref=HRER2-1
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« Risposta #445 inserito:: Agosto 22, 2015, 04:56:07 pm » |
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Gli amplificatori della paura Di ILVO DIAMANTI 17 agosto 2015 VULNERABILI. Assediati dal mondo che incombe. Sopra di (e intorno a) noi. È il nostro ritratto, delineato, un giorno dopo l'altro, dalla Lega. E, anzitutto, dal leader, Matteo Salvini. Che, a Ponte di Legno, nel tradizionale raduno estivo dei militanti padani, ha "promesso" di bloccare l'Italia per alcuni giorni, il prossimo novembre. In segno di protesta. Contro l'invasione dei migranti. Una questione evocata anche dal M5s. In particolare, dal portavoce e megafono, Beppe Grillo. Si cerca, in questo modo, di amplificare la "paura degli altri" che ci invadono da Sud. Magrebini e nord-africani: scavalcano i muri, pardon: i mari. A bordo di navicelle e barconi, guidati da pirati e briganti. E arrivano da noi, lasciando dietro di sé un numero innumerevole di morti. Annegati e abbandonati, senza sepoltura e con pochi rimpianti. Perché non possiamo e non dobbiamo rimpiangere chi se l'è cercata. Chi ha perfino pagato per intraprendere questa crociera dell'orrore. In fuga dalle guerre e dalla fame. E non possiamo rimpiangere chi non ha volto. Chi è senza biografia. E senza patria. (Altrimenti, perché lasciarla?). Se gran parte di questi disperati parte dalla Libia, comunque, noi che c'entriamo? La Libia oggi è libera. Non c'è più il Tiranno. Anzi non c'è più nessun potere. Nessuna autorità. Non per nulla vi si è installato l'Is... Se i poveri ci invadono, noi ci dobbiamo difendere. Abbiamo impiegato decenni e decenni a conquistare il benessere. Dopo che i nostri avi - anche i miei - se ne sono andati altrove. Lontano. Oltre oceano. Dove ci trattavano con diffidenza. Per questo oggi è giusto contrastare l'invasione. I nuovi barbari. Ed è giusto difenderci dal mondo. Non solo dall'Africa. Anche dall'Europa. Che ci impone le sue regole, le sue politiche. Ma non è disposta a condividere i costi delle scelte "comunitarie". L'Euro(pa). Una moneta senza Stato. Un Marco mascherato. Sul quale incombe il profilo minaccioso di Schäuble. Accanto a quello, non meno inquietante, della Merkel. Viviamo tempi difficili. E indecifrabili. Dove si fatica a individuare il pericolo. A dargli un nome e un volto. Per questo la sfiducia cresce e si diffonde in modo rapido e profondo. Lo abbiamo già segnalato. Da gennaio ad oggi, il timore dell'immigrazione, in tema di sicurezza, è salito dal 33% al 42%, fra i cittadini (Sondaggio Demos, giugno 2015). Contemporaneamente, nella percezione sociale, si assiste al declino di ogni istituzione e di ogni potere. La fiducia nell'Unione Europea, in particolare, è ormai ridotta al 27%. Mentre la convinzione che "stare nell'Euro", per noi, sia vantaggioso è condivisa dall'11%. In meno di dieci anni, dunque, ci siamo trasformati nel popolo più euroscettico, mentre prima eravamo i più euro-entusiasti. Il problema è che ci sentiamo indifesi. Senza autorità che ci proteggano. Senza ideologie che ci offrano certezze. Ma soprattutto, senza frontiere. Perché senza confini perdiamo identità. E l'identità serve a distinguere (ciascuno di) noi dagli altri. Serve a capire di chi ci possiamo fidare. A separare gli amici dai nemici. Senza confini: non riusciamo più a riconoscere gli altri e noi stessi. E la globalizzazione ha complicato tutto. Perché - per citare Giddens - ha "stressato" il rapporto spazio-temporale. La comunicazione globale, in particolare, ci fa sentire ancora più esposti, fragili. Interdipendenti dalle mille crisi - economiche, politiche, sociali - che, in ogni attimo, avvengono dovunque. Noi le percepiamo immediatamente. (Subito e senza mediazioni). E il nostro senso di impotenza si moltiplica. Figurarsi il flusso, quotidiano dei migranti. Seguito e amplificato, sui media, minuto per minuto, sbarco dopo sbarco, un morto dopo l'altro. La pietà? Quando non sfinisce nell'indifferenza (non ci possiamo far carico di tutti i problemi del mondo...), sconfina nell'ostilità. È un sentimento irrazionale. Materia di fede. Se ne occupino Papa Francesco e Monsignor Galantino. "Pietosi" di professione. Basta che poi non pretendano di rovesciare su di noi la loro Caritas irresponsabile. Per questo - ci esortano Salvini, ma anche Grillo e altre grida di "all'armi" - dobbiamo reagire: contro ogni invasione. Che provenga dal Nord Africa, da Bruxelles o da Berlino. Prendiamo esempio dalla Gran Bretagna, disposta a bloccare il tunnel della Manica. Pur di arrestare l'invasione e difendere i propri "confini". La propria identità. Anche noi, sostiene Salvini, per tornare "padroni a casa nostra": presidiamo le frontiere. I mari del Sud. Allarghiamo le distinzioni e le distanze dall'Europa. Ma, seguendo questo percorso logico e politico (non, per carità, politologico), potremmo spingerci perfino oltre. Oltre lo stesso Salvini, che vorrebbe conquistare il Sud e Roma, con la sua Lega Nazionale. Meglio, invece, rilanciare la Questione Meridionale. Per rammentare che l'Italia non esiste. È un'invenzione. Esistono, semmai, le Italie. La più affluente e sviluppata: il Nord. Pardon: la Padania. Perché dovrebbe pagare i costi "dei" Sud? Noi, orfani di frontiere e confini, di bandiere e ideologie. Oggi non sappiamo più chi siamo. Molto meglio, allora, seguire l'esempio di Viktor Orbán. Un faro. Il premier dell'Ungheria, per fermare i profughi, ha avviato la costruzione di un muro. Lungo i confini con la Serbia. Per difenderci dal Mondo, allora, erigiamo anche noi - non uno, ma - molti muri. Lungo le coste del Sud. Anche in Italia. Per difenderci dal "nostro" Sud. E visto che tutto è cominciato nel 1989, ricostruiamo il muro di Berlino. Neutralizzerà la Germania. E ci restituirà un mondo "finito". Diviso. Un mondo più sicuro. Prima di allora, però, avvertitemi. Preferisco emigrare. © Riproduzione riservata 17 agosto 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/17/news/gli_amplificatori_della_paura-121096309/?ref=fbpr
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« Risposta #446 inserito:: Agosto 26, 2015, 11:56:09 am » |
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La sfida di Salvini a Papa Francesco Le mappe. I conflitti tra Chiesa e Carroccio durano da molti anni, ma si sono moltiplicati negli ultimi tempi sul rapporto con "gli altri". E con le "altre" religioni. Con il leader leghista che si erge a unico difensore degli interessi territoriali. Contro la vocazione universale del cattolicesimo Di ILVO DIAMANTI 24 agosto 2015 FRA la Lega di Salvini e la Chiesa di Papa Francesco il clima dei rapporti non è propriamente evangelico. Al contrario: volano parole grosse se non proprio insulti. Mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, ha liquidato le critiche leghiste a papa Francesco come "affermazioni insulse di piazzisti da quattro soldi". Il Pontefice, lo rammentiamo, aveva equiparato la scelta di respingere gli immigrati a un "atto di guerra". Di più: "violenza omicida". E, per questo, in precedenza, aveva chiesto "perdono". Per le persone e le istituzioni che "chiudono la porta ai disperati che fuggono dalla morte e cercano la vita". Parole gravi, riferite a una platea ampia. Perché è ampio il fronte degli "amplificatori della paura". Che raccolgono - e alimentano - l'inquietudine sollevata dal flusso dei migranti. Ma Salvini si è affrettato a reagire. Perché si è sentito chiamato in causa, in prima persona. Ma anche perché, così, ha inteso "farsi carico", in prima persona, di rappresentare le paure. Contro la minaccia dell'invasione. Così, da un lato, ha chiesto: "Quanti rifugiati ci sono in Vaticano?". Per sottolineare l'atteggiamento "irresponsabile" della Chiesa. Mentre, dall'altro, ha sostenuto che chi difende l'invasione - ancora la Chiesa - "o non capisce o ci guadagna". Puntando il dito sugli interessi dell'associazionismo cattolico. Sostenuto e finanziato con i fondi pubblici. Il conflitto fra Lega e Chiesa (tematizzato da Roberto Cartocci in un bel libro di alcuni anni fa) è acceso. Proseguirà a lungo. Non solo perché gli sbarchi continueranno per molto tempo ancora. Ma perché le polemiche fra Lega e Chiesa durano da molto tempo. A partire dalle invettive di Bossi contro "il Papa polacco" e contro "i vescovoni". I conflitti, però, si sono moltiplicati negli ultimi anni, proprio intorno a questo tema. Il rapporto con gli "altri". Con le religioni degli "altri". Con le "altre" religioni. Come nel 2009, quando la Lega di Bossi polemizzò aspramente contro il Cardinale Dionigi Tettamanzi. Arcivescovo di Milano. "Colpevole" di aver sostenuto il diritto di culto e di fede religiosa per tutti. Anche per gli islamici. E, quindi, in contraddizione con le "guerre di religione" contro i minareti e le moschee dichiarate dalla destra. Per prima, dalla Lega. Un tempo separatista, comunque padana e nordista, nel 2009 aveva proposto di inserire la croce nel tricolore. La Lega. Già allora si era "evoluta" in Lega nazionale. A difesa dell'identità cristiana del Paese. Per questo la polemica sollevata da Salvini non costituisce una rottura nella storia leghista. Ma si presenta, al contrario, in continuità con il passato, non solo recente. Soprattutto oggi che la "questione religiosa" incrocia la "questione politica" posta dai rifugiati e dai migranti. Salvini, traduce i messaggi e gli ammonimenti del Papa e di mons. Galantino non in accuse ma in titoli di merito. Che esibisce con orgoglio. La Lega: sta con Bagnasco come ha detto ieri Maroni. E Salvini si erge a difensore della sicurezza e, al tempo stesso, dell'identità nazionale. Lui, unico, italiano vero. Unico, vero interprete degli interessi, dei timori e della cultura territoriale. Contro tutti i nemici. Mentre la Chiesa è, per vocazione e missione: "universale". Al di là delle accuse mediocri, che riconducono le posizioni del Papa e dei vescovi agli "interessi locali": come sottovalutare l'importanza della presenza della Chiesa in Africa? Nelle zone maggiormente coinvolte da conflitti etnici e povertà? Da cui partono i disperati verso le nostre coste? Papa Bergoglio, d'altronde, viene dal Sud America. Dove queste tragedie - e queste "mobilitazioni" dolorose - sono ben più evidenti che da noi. Dove l'azione e la presenza della Chiesa, anche per queste ragioni, sono ben più estese che in Italia. E in Europa. Così la Lega di Salvini rivendica, in continuità con il passato recente, il proprio primato sulla stessa Chiesa. Almeno in Italia, è lei, la Lega, la vera religione. La vera rappresentante dei valori e delle tradizioni in ambito territoriale. A livello locale. La vera difesa della Croce contro gli infedeli e contro i nuovi barbari. Dal mondo che ci invade. Dalla globalizzazione che produce e riproduce solo insicurezza. Dalla perdita di ogni confine. La Lega di Salvini: è l'unica la vera, interprete dell'"Italia dei campanili". I campanili. Prima di evocare luoghi di culto, richiamano il sentimento locale e localista dell'Italia. Un "popolo di compaesani", per citare Paolo Segatti. Oggi il campanilismo, la religione del paese e dei paesi con l'iniziale minuscola, ha scavalcato i confini padani. La Lega di Salvini l'ha imposto anche nell'Italia rossa, dei municipi. D'altronde, la Chiesa ha smesso da tempo di orientare le scelte politiche degli italiani. Non solo perché in Italia quasi tutti si dicono cattolici, ma a messa ci va, regolarmente, circa un italiano su quattro. Non 8 su 10, come negli anni Cinquanta. Ma perché gli stessi cattolici praticanti si distribuiscono, senza grandi differenze, fra schieramenti e partiti. Presso gli elettori della Lega, la pratica religiosa è coerente e quasi aderente a quella della popolazione. Mentre in origine la Lega era la Chiesa dei "cattolici non praticanti". Quelli che andavano a messa solo in poche occasioni. Pasqua, Natale. Matrimoni e funerali. Oggi però non c'è più il partito "dei" cattolici. Ma neppure un partito "di" (soli) cattolici. Come Arturo Parisi definiva la Dc degli anni Ottanta. I cattolici, praticanti, tiepidi e indifferenti, non hanno più appartenenze. Semmai, si distinguono per un maggior grado di incertezza e distacco. Dai partiti e dal voto. La Chiesa, anche per questo, oggi - e da tempo - agisce autonomamente, a tutela dei propri valori e - ovviamente - dei propri interessi. Così la Lega la incalza, la contesta. Le fa concorrenza. In ambito nazionale e locale. La Lega di Salvini. La "vera" Chiesa dei "veri" italiani. Che si illudono di fermare il tempo e di chiudersi entro i propri confini. Perché tutto il mondo è paese. Se riusciamo a presidiare i muri che difendono il "nostro" paese dal mondo. © Riproduzione riservata 24 agosto 2015 DA - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/24/news/la_sfida_di_salvini_a_papa_francesco-121508468/?ref=HRER2-1
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« Risposta #447 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:50:34 pm » |
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Mappe. La solitudine del sindacato Di ILVO DIAMANTI MA a cosa, e a chi, serve ancora il sindacato? Il dubbio si giustifica leggendo le cronache degli ultimi mesi. Delle ultime settimane. Degli ultimi giorni. Dove i sindacati (confederali) ricorrono, con frequenza, come bersaglio polemico. Da ultimo, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi alla festa del Pd, a Milano. Dove ha sostenuto: "Il sindacato in Italia è stato mediamente un fattore di ritardo" che ha ostacolato "l'efficienza e la competitività complessiva del Paese". Motivo della critica: la vicenda dell'Electrolux, dove i dipendenti hanno lavorato a Ferragosto, accogliendo la richiesta dell'azienda, nonostante il rifiuto dei rappresentanti di categoria. Squinzi è il capo degli industriali. La sua polemica con il sindacato è nella logica del gioco (delle parti. La sua, in particolare). Ma arriva dopo altri leader, più "rappresentativi" di lui. Per primo, Matteo Renzi. Il quale, lo scorso autunno, in conflitto con la Fiom, ha dichiarato che "il posto fisso non esiste più". E, implicitamente, hanno poco senso anche le organizzazioni sindacali. Ma le occasioni di polemica hanno, spesso, origine tutta interna al sindacato. Come dimenticare le perplessità (per non dir di peggio) sollevate dalla pensione percepita dal precedente segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni? Oltre 8 mila euro lordi al mese. Conseguenti a uno stipendio salito, negli ultimi anni (non per caso), da 118mila a 336mila euro. Ma anche le retribuzioni di altri dirigenti nazionali della Cisl sembrano (un poco...) "esagerate". Il segretario nazionale dei pensionati, per esempio, incassa più di 200mila euro lordi l'anno. Tutto regolare, sicuramente. Ma parecchio, se pensiamo a questi tempi "magri" per i lavoratori. E i pensionati. Unico a pagare, in questa vicenda penosa: Fausto Scandola, il sindacalista veronese "colpevole" di aver denunciato i (mis)fatti. Espulso per aver leso - lui, non i dirigenti ultra pagati - la reputazione della Cisl. Così si spiega la reazione di Gigi Manza, vicentino, dirigente della Cisl Scuola, oggi in pensione. Il quale, dopo oltre 50 anni di militanza, comunica, pubblicamente: "Ho deciso con amarezza di ritirare la mia adesione alla Cisl, sperando di ritornarvi quando rinascerà il sindacato dei lavoratori che ho conosciuto, perché ce n'è bisogno". Non credo, peraltro, che si tratti di un caso isolato. Il clima nella Cgil appare meno teso. Ma le tensioni non mancano. La segretaria nazionale, Susanna Camusso, di recente, ha preso apertamente le distanze dalla Coalizione Sociale promossa da Landini, ove divenisse un nuovo soggetto politico. Anche se, almeno per ora, Maurizio Landini appare piuttosto un soggetto "mediatico". Di successo. Tuttavia, la questione del sindacato va oltre le polemiche e le divisioni che scuotono il gruppo dirigente e i suoi rapporti con gli iscritti. Riflette e riproduce, anzitutto, il declino di credibilità e fiducia che coinvolge tutte le sigle maggiori. Dal 2009 al 2015, infatti, la quota di popolazione che esprime (molta o moltissima) fiducia nella Cgil è scesa di circa 13 punti. (Da qui in poi: dati di sondaggi Demos-Coop). Dal 37% al 24%. Mentre la Cisl è passata dal 28% al 20%. È interessante osservare, inoltre come il clima d'opinione peggiori proprio nella base naturale del sindacato. Gli operai. Fra i quali il grado di fiducia verso la Cgil è ridotto al 21,3%. Verso la Cisl e Uil: al 18,7%. D'altra parte è da anni che il sindacato sta perdendo adesioni. Soprattutto nell'impiego privato. Per contro, "rappresenta", sempre di più, i pensionati: circa metà degli iscritti. Mentre è cresciuto nel pubblico impiego. D'altronde, le adesioni sindacali nell'impiego privato non sono facilmente verificabili. Tuttavia, ciò non dipende solo dall'incapacità del sindacato e del suo gruppo dirigente. Rispecchia, invece, il cambiamento della società. Sempre più vecchia. Dove i posti di lavoro sono sempre meno e sempre più frammentati. Circa il 60% della popolazione definisce il proprio lavoro: precario, temporaneo, flessibile. Insomma, non c'è più "un" tipo di lavoro a cui fare riferimento. Semmai, lavori e lavoratori "atipici". E "atopici". Senza un "posto" fisso. Presso i quali il sindacato "attecchisce" a fatica. Per difficoltà ambientali. Ma anche culturali. Proprie. Perché sembra aver perduto il ruolo sociale che, ancora pochi anni fa, occupava. Nel 2004, il 30% della popolazione lo indicava come il primo elemento di difesa dei lavoratori. Oggi appena più della metà: il 16%. Mentre, parallelamente, è cresciuto, anche su questo piano, il ruolo della famiglia: dal 10% al 36%. Il fatto è che tra i cittadini e i lavoratori si è fatta largo la convinzione che il sindacato serva soprattutto a chi ci opera. Ai sindacalisti. In primo luogo: ai gruppi dirigenti. Tuttavia, non credo vi sia di che rallegrarsi. Perché il sindacato è "servito" a tutelare gli ultimi e i penultimi. Quelli che da soli non ce la possono fare. E, per difendersi, hanno bisogno di unirsi agli altri, che condividono la loro condizione. Ormai non è più così. Il sindacato rappresenta i garantiti. Mentre la questione dei "diritti", posta da un grande leader sindacale come Bruno Trentin, - ha osservato Bruno Manghi - è "brandita per la difesa della rivendicazione specifica, mai per quelle altrui". Ma a quel punto "i diritti" perdono valore. E ciò costituisce un problema. Per i lavoratori, per gli "esclusi", ma anche per il sindacato. Tuttavia, non hanno di che rallegrarsi nemmeno Squinzi e Confindustria. Il "sindacato degli imprenditori" ha perduto a sua volta credito. Dal 32,9% nel 2009 al 25,2% registrato alcuni mesi fa. (E quando si utilizza esplicitamente la denominazione "Confindustria" i valori scendono ulteriormente.) Le polemiche e le tensioni, comunque, si sono allargate anche all'interno. Molte imprese - soprattutto le più grandi - si "tutelano" e si rappresentano sempre più da sole. A partire dalla Fiat di Sergio Marchionne. "Il tempo è scaduto anche per Confindustria", ha affermato Alessandro Barilla due anni fa. Neppure questa, però, è una buona notizia. Per nessuno. Perché, nell'epoca dei partiti personali e personalizzati, al tempo dei partiti senza società, dove avanzano leader "soli" e da "soli": la burocratizzazione del sindacato e delle organizzazioni imprenditoriali, lascia i cittadini ancora più "soli". Più lontani dalla politica e dalle istituzioni. Così, senza mediazione e mediatori, la democrazia rappresentativa diventa sempre più incolore. Una parola insignificante. © Riproduzione riservata 31 agosto 2015 Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/08/31/news/mappe_diamanti-121920695/?ref=HRER2-1
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« Risposta #448 inserito:: Settembre 15, 2015, 04:36:21 pm » |
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In salita Pd e Renzi, M5s al 27%, massimo storico. Crolla Forza Italia Atlante politico. Stabile al 14% la Lega di Salvini. Il partito di Berlusconi è al minimo da quando è nato: 11%. Nel centrodestra in ascesa Giorgia Meloni. Immigrati, cala la paura Di ILVO DIAMANTI 12 settembre 2015 LA MARCIA di Matteo Renzi al governo procede senza scosse e senza accelerazioni particolari. Da tempo non riesce più a sollevare entusiasmo. Le speranze, attorno a lui, si sono raffreddate. Ma, per ora, non sembra in pericolo. Le vicende politiche interne e le emergenze esterne - per prima: la vicenda drammatica dei profughi - non hanno indebolito il sostegno al governo. Questa, almeno, è l'idea che si ricava dal sondaggio dell'Atlante Politico condotto nei giorni scorsi da Demos per Repubblica. Oggi, infatti, Renzi appare un leader senza alternativa, anche se è incalzato da opposizioni che hanno basi ampie e radicate. Il PD resta, comunque, il primo partito, fra gli elettori. Conserva il livello di consensi rilevato prima dell'estate. Anzi, lo migliora, seppure di poco. Supera, infatti, il 33%. Seguito, a distanza, dal M5s. Che si avvicina al 27%, il dato più elevato, da quando è sorto (secondo l'Atlante Politico). Dietro di loro, la Lega di Salvini staziona, intorno al 14%. Ma supera, per la prima volta, in modo netto, Forza Italia. Più che per meriti propri, per demerito del partito di Berlusconi, che scivola all'11%. Il minimo da quando, oltre vent'anni fa, è "sceso in campo", trainato dal suo leader e padrone. Tra le altre forze politiche, si osserva il declino dei centristi NCD e Udc. Ormai ridotti ai minimi termini (meno del 3%). Anche il PD di Renzi, in caso di elezioni con il nuovo sistema elettorale, l'Italicum, appare comunque lontano dal 40%. La soglia prevista per conquistare la maggioranza dei seggi al primo turno. Dovrebbe, dunque, affrontare un ballottaggio, nel quale, secondo le stime del sondaggio di Demos, nessuno dei possibili sfidanti sembra in grado di batterlo. Tuttavia, solo nei confronti della Lega il distacco del PD appare largo. Quasi 30 punti. Di fronte al M5s oppure contro un "cartello" di destra, che riunisse Lega e FI, il PD si affermerebbe, ma non di larga misura. Sfiorando il 54%. Nell'insieme, non si colgono segni di svolta né di grande cambiamento, in questo sondaggio. Semmai, la conferma di una fase di fragile stabilità. Ribadita dagli orientamenti verso i principali leader. Anche in questo caso, Matteo Renzi primeggia. Ma si attesta sugli stessi livelli degli ultimi mesi. Il 42%. È, dunque, il "preferito" fra gli elettori. Davanti a Matteo Salvini, in sensibile calo di gradimento personale. E a Giorgia Meloni. Che dispone di un consenso assai maggiore del proprio partito. È, invece, interessante osservare come Luigi Di Maio ottenga un indice di fiducia superiore a Beppe Grillo, fra gli elettori nell'insieme. Nella base del M5s, il fondatore - e "amplificatore” - risulta, però, ancora il più apprezzato (da circa il 70%). Ma Di Maio, il successore più accreditato, dispone anche qui di un livello di gradimento, comunque, ampio, prossimo al 60%. Segno che il M5s si è, in parte, autonomizzato da Grillo. Comunque, non è più identificato solo con la sua figura. E, probabilmente, anche per questo mantiene una base di consensi molto ampia. Così, Renzi e il suo governo procedono in mezzo a molte difficoltà, ma non ne sembrano penalizzati in misura eccessiva. Il gradimento del governo, come quello personale del premier, è sceso di oltre 10 punti rispetto a un anno fa. Ma dall'inizio dell'anno appare stabile. E, negli ultimi mesi, perfino in lieve crescita. Sopra il 40%. La valutazione sulle principali politiche del governo, peraltro, non è peggiorata. In alcuni casi, anzi, è perfino migliorata. In tema di lavoro, di fisco. Ma, soprattutto, in tema di immigrazione. Argomento della lettera inviata dal premier a Repubblica. L'ondata degli sbarchi, l'emergenza dei profughi, negli ultimi mesi, non sembrano aver danneggiato l'immagine del governo e di Renzi. Al contrario. Infatti, la quota di cittadini che vede negli immigrati un "pericolo per la sicurezza" oggi è poco più di un terzo della popolazione. Il 35%. In giugno era il 42%. Le immagini del grande esodo dall'Africa e dalla Siria verso l'Europa hanno modificato il sentimento popolare, oltre che l'atteggiamento di molti leader di governo (per prima: Angela Merkel). Così, alla paura e all'ostilità si sono sostituite l'apertura e la pietà. E se, fino a pochi mesi fa, tra gli italiani gli sbarchi erano considerati un'invasione, da respingere, erigendo muri e barriere, oggi prevale il sentimento - e l’orientamento - di "accoglienza". Sostenuto da oltre il 60% degli intervistati: ben 20 punti in più rispetto a giugno. Una vera "svolta d'opinione". Nella politica italiana, dunque, si annuncia un autunno tiepido. Con un leader solo al comando, circondato da opposizioni che faticano a presentarsi come vere alternative di governo. Il M5s: è canale dell'insoddisfazione popolare. Ma anche soggetto di controllo democratico a livello centrale e locale. La Lega di Salvini: appare sempre più Ligue Nationale. Versione italiana del Front National di Marine Le Pen. Che, tuttavia, si è affermata interpretando le paure degli elettori moderati. Forza Italia, infine, declina, in modo inevitabile e inesorabile, insieme al leader che l'ha inventata. E da cui non può prescindere. Matteo Renzi, dunque, prosegue la sua marcia. Aiutato dalla ripresa positiva del mercato e dell'economia. Dalla timidezza degli avversari. Visto che l'opposizione più insidiosa, oggi, appare quella "interna" al PD. Così, il 46% degli elettori, ormai, ritiene che governerà fino alla scadenza naturale della legislatura. Il dato più elevato da quando è in carica. A differenza del passato, paradossalmente, ciò avviene proprio quando sembra avere smesso i panni del velocista. Del leader ipercinetico, sempre in movimento, una riforma dopo l'altra, un "fatto" dopo l'altro. Mentre, al contrario, ha rallentato la corsa, ridimensionato le pretese. Il linguaggio. Renzi. Un premier (più) lento, che riflette il sentimento di un Paese stanco. Di miracoli e di promesse. © Riproduzione riservata 12 settembre 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/12/news/in_salita_pd_e_renzi_m5s_al_27_massimo_storico_crolla_forza_italia-122705989/?ref=HREA-1
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« Risposta #449 inserito:: Ottobre 08, 2015, 11:41:26 am » |
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Gli euroscettici nel Mediterraneo 26 anni dopo la caduta del muro di Berlino, in Europa ne sorgono altri. Non solo simbolici. Marcano il cammino di una costruzione che si è sviluppata senza un disegno politico e culturale Di ILVO DIAMANTI 29 settembre 2015 IL RISULTATO delle elezioni in Catalogna conferma l'ampiezza del sentimento separatista che anima la Comunidad autónoma. Il fronte a favore dell'indipendenza (Junts pel Sì + Cup) ha ottenuto il 47,8% dei voti. Ha, così, conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti. Si fosse trattato di un referendum, questo esito non sarebbe sufficiente a sancire la secessione da Madrid. Ma oggi appare adeguato ad amplificare lo spirito indipendentista che spira, forte, in altre aree della Spagna. Anzitutto nei Paesi Baschi. Questo voto, inoltre, rischia di produrre "una rivoluzione geopolitica su scala europea", come ha osservato Lucio Caracciolo, ieri, su Repubblica. Una Catalogna indipendente, infatti, non troverebbe posto nella Ue. Tuttavia, il voto catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene, da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea. Dove si allarga il contagio dell'Ues: l'Unione Euro-Scettica. Trasmesso da una catena di attori politici, impolitici e anti-politici. Uniti da un comune bersaglio. L'Europa dell'euro. Dunque, l'Europa, tout court. Visto che l'Unione è stata prevalentemente costruita, appunto, sul terreno economico e monetario. Mentre i soggetti politici di maggiore successo, negli ultimi anni, sono quelli che hanno esercitato una critica aperta all'Euro-zona. E, spesso, alla stessa Unione Europea, in quanto tale. In Italia: la Lega di Salvini. Esplicitamente contraria all'Euro, ma anche alla Ue. Appunto. Inoltre: il M5s. Anch'esso esplicitamente ostile all'Euro-zona. Tanto che, nei mesi scorsi, Alessandro Di Battista, deputato del M5s, fra i più autorevoli, ha proposto un "cartello tra i Paesi del Sud Europa" per "uscire dall'euro" e "sconfiggere la Troika che ha distrutto l'Ue". Un aperto invito, dunque, a costruire la Ues. Rivolto, anzitutto, alla Grecia, governata da Alexis Tsipras e dal suo partito, Syriza. Che, come ha confermato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze, aveva pianificato un programma per trasformare l'euro in dracma. E per liberarsi del controllo della Troika. Prima, ovviamente, della recente crisi. Che ha condotto la Grecia a scontrarsi con la Germania della Merkel. E con il "governo" della Ue. Anche se ora, ovviamente, questo progetto è divenuto impraticabile. Dopo il prestito- ponte erogato dalla Ue, per fare fronte all'enorme debito che opprime la Grecia. Mentre Tsipras ha estromesso dal governo Varoufakis e gli altri esponenti del partito, reticenti e indisponibili ad accogliere le pesanti condizioni poste dalla Ue. Nonostante tutto, pochi giorni fa, Tsipras ha ri-vinto le elezioni. Si è confermato alla guida del governo e del Paese. E la Grecia è rimasta nella Ue e nell'euro. Non certo per passione, ma per necessità. E per costrizione. Ma l'Ues ha messo radici anche in Francia. A sua volta, Paese mediterraneo. Soggetto protagonista della scena europea, insieme alla Germania. Ebbene, com'è noto, in Francia, negli ultimi anni, si è assistito all'ascesa di Marine Le Pen, che ha spinto il Front National ben oltre il 25%. Al di là delle zone di forza tradizionali, nelle regioni "mediterranee". Per affermarsi, Marine Le Pen ha moderato i toni - più che i contenuti - del messaggio politico tradizionale. E ha preso le distanze dal padre, Jean-Marie. Fondatore e "padrone" del Fn. Fino alla rottura. Sancita dall'espulsione del padre, avvenuta a fine agosto, per decisione del comitato esecutivo del partito. Il Fn di Marine e Bleu Marine, la coalizione costruita intorno al partito, hanno, tuttavia, mantenuto i due orientamenti tradizionali forse più importanti. La xeno-fobia. Letteralmente: paura dello straniero. E l'opposizione all'Europa dell'euro. Così, i confini mediterranei della Ue oggi sono occupati dalla Ues. Che tende ad allargarsi rapidamente altrove. Nei Paesi della Nuova Europa. A Est: in Polonia, Ungheria. E a Nord. In Belgio, Olanda, Danimarca, Scandinavia. Per non parlare della Gran Bretagna. Dove l'euroscetticismo è radicato da tempo. La Germania, il centro dell'Europa dell'euro, intanto, si è indebolita. Messa a dura prova, da ultimo, dallo scandalo che ha coinvolto e travolto la Volkswagen. Un grande gruppo automobilistico. Ma, soprattutto, un marchio dell'identità (non solo) economica tedesca nel mondo. Intanto, la xeno-fobia si è propagata ovunque. Alimentata dall'esodo dei profughi degli ultimi mesi. Dall'Africa e dal Medio Oriente, attraverso l'Italia, la Grecia, i Balcani. Così, 26 anni dopo la caduta del muro di Berlino, in Europa sorgono nuovi muri. Non solo simbolici. Marcano il difficile cammino di una costruzione che si è sviluppata senza un disegno. Politico. Culturale. Perché l'Europa "immaginata", fra gli altri, da Adenauer, De Gasperi, Churchill, Schuman, l'Europa di Jean Monnet e Altiero Spinelli: è rimasta, appunto, "un'immagine". Un orizzonte. Lontano. D'altra parte, (come dimostra l'Osservatorio europeo curato da Demos-Oss. di Pavia- Fond. Unipolis, gennaio 2015), l'Europa dell'euro non suscita passione. Tanto meno entusiasmo. La maggioranza dei cittadini - in Italia e negli altri Paesi europei - la accetta, per prudenza. Teme che, al di fuori, potrebbe andare peggio. Così, il progetto europeo non cammina. Perché ha gambe molli e non ha un destino. Mentre il sentimento scettico si fa strada. In Spagna. In Italia. In Francia. In Europa. A Destra (e al Centro), ma anche a Sinistra. E alla Ue si sovrappone la Ues. L'Unione Euro-Scettica. Più che un soggetto e un progetto organizzato: una sindrome. Densa e grigia. Diffusa nell'area mediterranea. Oggi si sta propagando rapidamente altrove. Conviene prenderla sul serio, prima che sia troppo tardi. Prima che contagi anche noi. © Riproduzione riservata 29 settembre 2015 Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/29/news/gli_euroscettici_nel_mediterraneo-123894525/?ref=HRER2-2
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