LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => AUTORI. Altre firme. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 01, 2007, 12:14:11 pm



Titolo: ILVO DIAMANTI -
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2007, 12:14:11 pm
POLITICA

MAPPE

Veltroni e l'urgenza di voltare pagina
di ILVO DIAMANTI


 SE fossimo in Francia e si votasse per le presidenziali, Walter Veltroni avrebbe buone probabilità di farcela. In un ipotetico ballottaggio, secondo il sondaggio Demos-Eurisko per l'Atlante politico, batterebbe di misura Silvio Berlusconi e Pier Ferdinando Casini. Prevarrebbe largamente su Letizia Brichetto Moratti. Ma perderebbe, in modo dignitoso, con Gianfranco Fini. Il quale, tuttavia, difficilmente sarà chiamato a sfidarlo, visto che, a destra, non c'è alternativa a Berlusconi.

Come, d'altronde, a Veltroni nel centrosinistra. L'unico, oggi, a poter competere con i leader della Cdl. Bersani, la Finocchiaro, lo stesso Prodi: contro il Cavaliere perderebbero alla grande. Purtroppo per Veltroni, per il nascente Partito Democratico (PD) e per il centrosinistra, non siamo in Francia. Siamo in Italia. Dove si vota per i partiti e per le coalizioni, non per le persone. Dove il clima d'opinione, per quanto abbia reagito positivamente alla sua candidatura, è gravemente pregiudicato: dall'impopolarità del governo e dalle divisioni dell'Unione (su tutto). Dalla marcia lenta e tortuosa del PD.

Il governo, anzitutto, gode ormai di una sfiducia ampia e trasversale. Solo il 26,3% degli italiani gli attribuisce un voto sufficiente. 14 punti in meno rispetto a due mesi fa. Mai, da cinque anni a questa parte, il consenso per il governo era sceso tanto in basso.
Oltre il 60% degli elettori, di conseguenza, si dice convinto che, se oggi si votasse, vincerebbe la CdL. E le stime elettorali confermano questa previsione. La distanza tra le due coalizioni, infatti, è molto ampia: 55% a 44% per il centrodestra. Tre punti in più di due mesi fa. Mentre il PD è calato di quattro punti. Si è ridotto al 24%. Penalizzato, perlopiù, dai transfughi della SD. Non si può chiedere, d'altronde, a Veltroni di fare i miracoli, con una sola apparizione (non è mica il Cavaliere...). Soprattutto dopo mesi punteggiati di cattive notizie, per il governo e per il centrosinistra.

Prima: il cattivo risultato alle elezioni amministrative, in particolare nel Nord (complice, soprattutto, il calo della lista unitaria dell'Ulivo). Poi: i veleni esalati dal ritorno dell'affare Unipol-Bnl e dalle intercettazioni dei dialoghi fra esponenti DS e Consorte. A seguire: le polemiche sulla sostituzione del comandante della Guardia di Finanza. Ancora: la densa cappa di sfiducia antipolitica, che ha alimentato, soprattutto, il distacco da chi governa. Infine: il malessere delle categorie. La protesta antifiscale dei piccoli imprenditori e il negoziato inconcludente con i sindacati sulle pensioni.
Da ciò, l'incapacità del governo di capitalizzare il miglioramento degli indici economici. Oggi 6 italiani su 10 sono soddisfatti della loro condizione economica familiare (+2% rispetto ad aprile). Ma solo il 28% dell'economia italiana (-9% rispetto ad aprile), mentre l'87% delle persone si dice insoddisfatto di come vanno le cose in Italia (+2% rispetto ad aprile). Insomma, l'economia marcia, la disoccupazione è ai minimi storici, i conti pubblici sono migliorati. Ma gli italiani non se ne accorgono. Anzi pensano il contrario: che tutto vada male, per colpa del governo e della maggioranza che lo sostiene. Un fatto davvero incredibile.

In questo scenario, risulta difficile, a Veltroni, "voltare pagina" subito, come ha proclamato a Torino. Dichiarare, con la sua presenza, che il Partito Democratico è davvero (un) partito. Perché la delusione è cresciuta. Tanto più dopo le attese suscitate dai congressi dei DS e della Margherita di fine aprile. Perché la speranza è una cattiva consigliera. Quando è frustrata, suscita rigetto, fra gli elettori. I quali si attendevano un'accelerazione del progetto unitario. E invece hanno assistito alle solite schermaglie tra Prodi, i leader dei partiti e gli ulivisti. Certamente fondate, certamente incomprensibili ai più. Si attendevano, i sostenitori del PD, che qualcuno prendesse l'iniziativa, con decisione. Che Veltroni, per primo, sfidasse l'oligarchia del centrosinistra. Mentre ha rotto gli indugi solo ora, spinto dai leader DS e Margherita, preoccupati del collasso del sistema.

Certo, il suo esordio, a Torino, ha riscosso successo di pubblico e di critica. Questo stesso sondaggio, condotto, per una parte, "dopo" il discorso programmatico di mercoledì, ha registrato una ripresa sensibile dell'interesse presso gli elettori di centrosinistra. Che hanno concentrato ulteriormente la loro preferenza a favore di Veltroni. Indicato come leader del PD dal 61% (23% in più di due mesi fa). Avrebbe potuto, dunque (e gli sarebbe convenuto), affrontare le primarie aperte, senza alcun timore. Visto che tutti gli altri leader, da Fassino a D'Alema, dalla Finocchiaro, da Bersani allo stesso Prodi, volano basso, quasi rasoterra. Fra il 3% e l'8%.

Il sindaco di Roma, dunque, oggi è un uomo solo al comando, nel PD. Ma diventare sindaco d'Italia è un'impresa ardua. Visto che, personalmente, fra gli italiani gode di un sostegno elettorale pari al Cavaliere. Ma l'Unione resta lontana dalla CdL. Per alcuni versi, il suo problema è analogo a quello di Berlusconi, nei mesi precedenti alle elezioni del 2006, quando tutti, a partire dai suoi alleati, lo davano per finito, insieme a FI e alla CdL. Anche Veltroni deve convincere gli elettori e i leader del centrosinistra che la partita non è chiusa. Che c'è ancora margine per riprendersi. Tanto più perché, contrariamente a quando governava il centrodestra, l'economia va bene, le famiglie hanno recuperato un po' di ottimismo. Però, Berlusconi era e resta padrone di FI e leader indiscusso della CdL, come emerge dal sondaggio dell'Atlante politico. Al punto da permettersi di indicare, alla successione, una ragazza, a cui solo l'1% degli elettori della CdL affiderebbe la leadership. Come dire: dopo di me il nulla. Veltroni, invece, non ha ancora la guida del PD. Anche perché il PD per ora non c'è. I sondaggi che attribuiscono all'effetto-Veltroni una crescita elettorale del PD fino al 10%, per questo, non misurano il presente, ma ipotecano il futuro. Un po' come il sondaggio americano esibito da Berlusconi due mesi prima del voto. Che prevedeva uno scenario divenuto, poi, molto vicino al vero. Ma, per ora, tutto da costruire. Veltroni, per ora, può contare su un ampio consenso personale. E sulla voglia di cambiare, che, nonostante tutto, è ancora estesa, nel centrosinistra. Tra gli elettori del PD, infatti, 7 su 10 parteciperebbero alle primarie per eleggere l'assemblea costituente, 8 su 10 per eleggere il leader del partito. In entrambi i casi, quasi il 10% in più rispetto allo scorso aprile. Disposti, 6 su 10, ad accettare, come due anni fa, di trasformare le primarie nel rito che sancisce il consenso al candidato predestinato. In nome dell'unità. Per paura di ulteriori lacerazioni. Tuttavia, l'intenzione di iscriversi al PD è scesa, anche se di poco: dal 31% al 27%. Segno, probabilmente, di un crescente distacco dal partito tradizionale, fondato sull'appartenenza e sull'apparato.

A favore di un rapporto meno istituzionale, più diretto e personalizzato, con il leader. Ma, al tempo stesso, questa minore adesione "formale" al PD suggerisce un pregiudizio scettico nei confronti dei partiti che sopravvivono. Gruppi dirigenti chiusi, che non riescono a spezzare il legame con il passato. Veltroni, se davvero vuole avere e dare speranza, a sé, al PD e al centrosinistra: deve davvero "voltare pagina". Abbandonare questo gruppo dirigente. Da cui, egli stesso, proviene. Di cui egli stesso ha fatto parte. Perché è difficile costruire il nuovo senza "sopprimere" il vecchio. Che è in noi.

(1 luglio 2007)  

darepubblica.it


Titolo: Il referendum e l'incubo del '91
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2007, 11:58:28 pm
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Il referendum e l'incubo del '91
 

IL referendum abrogativo della legge elettorale sembra cosa fatta. Le firme raccolte superano, ormai, largamente la soglia di sicurezza. Il che ha prodotto un'intensa fibrillazione politica. In entrambe le coalizioni. Nell'Unione: Rifondazione e i partiti più piccoli, centristi o di sinistra non importa. Ad eccezione di Di Pietro. Nella CdL (o ciò che è ora): la Lega e l'UdC. Non ci stanno. Non vogliono modifiche per via referendaria. Solo per via parlamentare. Berlusconi, poi, oscilla, a seconda del momento. Ma, in cuor suo, teme il referendum. L'attuale legge non gli dispiace. Anzi. La considera "il meno peggio dei mondi possibili". Perché nessun altro, quanto lui, è in grado di tenere insieme le diverse componenti della "coalizione". E, con questa legge, la "coalizione" è l'unico metodo possibile per vincere le elezioni.

Ci sono diverse ragioni dietro a questa ostilità. Motivi specifici ed evidenti, nel caso dei partiti più piccoli. Perché, qualunque cosa avvenga, dopo il referendum sarà impossibile una condizione altrettanto favorevole, per loro. Oggi, qualsiasi formazione politica, dotata di una base elettorale di qualche decina di migliaia di voti, diventa determinante ai fini del risultato finale. Per questo, può chiedere e ottenere molto, in cambio del proprio appoggio. Se, poi, riesce ad approdare in Senato, allora, il suo peso cresce a dismisura. Assume un potere di veto e di ricatto infinito.

Vengono, poi, ragioni di strategia politica. Chi persegue una prospettiva "neocentrista" non può accettare un sistema elettorale che spezza in due lo schieramento. E "costringe" gli elettori moderati, di centro e dintorni, a scegliere. Qui, là oppure fuori. E' il problema che inquieta i Popolari della Margherita, una parte di Forza Italia. Oltre - di nuovo - a Udc e Udeur.

Però, le ragioni che inducono il titolare della Giustizia (e non un ministro qualsiasi) a minacciare la crisi di governo, nel caso si arrivasse al referendum - previsto, pare, dal Diritto e dalla Costituzione - non si possono riassumere in termini di "interessi particolari". Dietro alla "paura" del referendum elettorale c'è la memoria dei primi anni Novanta. Il referendum del 1991, promosso da Mariotto Segni. Ridotto, dalla Corte Costituzionale, a un quesito che riduceva le preferenze di voto a una sola. Poca cosa, sembrò allora, ma fu un terremoto. Uno tsunami. Perché venne usato dagli elettori come un grimaldello per forzare le porte del Palazzo. Per espugnare la fortezza della Partitocrazia. Identificata allora - al contrario di oggi, paradossalmente - con la preferenza, che oggi si vorrebbe ripristinare. Perché ieri veniva usata dalle "lobbies di partito", per accordarsi tra loro. E per "negoziare" con le "lobbies sociali" lo scambio fra benefici e consenso. Mentre oggi è considerata un metodo per affermare la responsabilità personale degli eletti nei confronti degli elettori.

Quello, comunque, venne inteso come un referendum "contro" i partiti e la classe politica della prima Repubblica. Che, non a caso, lo contrastarono. Craxi in testa. Il quale invitò i cittadini ad "andare al mare". I cittadini, invece, andarono a votare. Imprimendo una spinta violenta e determinante all'assetto della prima Repubblica. Il successivo referendum, che si svolse nel 1993, sancì il definitivo passaggio dal proporzionale al maggioritario misto, per il Senato. Un modello riprodotto, in larga misura, anche per la Camera, con la discussa legge che, deformando il nome del relatore, Giovanni Sartori ha definito, causticamente, "Mattarellum".

Il referendum elettorale, quindi, nella nostra storia recente, costituisce un cleavage; una "frattura". Marca la discontinuità nei rapporti fra società e politica. Anche il referendum fallito del 1999, che non raggiunse il quorum per poche migliaia di elettori, conferma questa regola. Mirava a ridurre il peso della quota proporzionale del Mattarellum. La sua bocciatura sottolinea la delusione degli elettori, per una transizione perenne. Che non si chiude mai. Riflette la reazione verso la tendenza a caricare sui cittadini il compito di sostenere le riforme che i "nuovi" politici non sono in grado di realizzare. Prepara e annuncia, quindi, il rilancio di Berlusconi. Sancito dal successo elettorale del 2001. Oggi, però, il referendum cade in un clima politico che rammenta molto il periodo 1990-93. Il sentimento antipolitico, infatti, è diffuso, solido, palpabile. Come allora. E' una nebbia pesante, che opprime la vista e i polmoni. La classe politica appare delegittimata. Il sistema partitico, peraltro, è più frammentato di prima. E non sembra in grado di varare una nuova legge elettorale. Troppo divisi e polverizzati gli interessi di parte. Ora si riparla di "sistema alla tedesca", con una soglia di sbarramento. Non superiore all'1%, sospettiamo. Nessuna sorpresa, dunque, che il referendum susciti tensioni tanto forti. D'altra parte, il referendum è di per sé "bipartitico". Non dà possibilità di mediazione, in campagna elettorale. E si infiltra dentro le coalizioni. Oppone, uno contro l'altro, i partiti alleati. Ma anche i leader, i militanti, gli elettori dello stesso partito.

Per questo preoccupa, anche al di là degli effetti che potrebbe produrre sulla legge elettorale. A generare nervosismo e reazioni, talora un po' isteriche, è la memoria del 1991. Il timore che il referendum si trasformi in un voto pro o contro "la casta", il "sistema dei partiti", il "ceto politico". Non c'è bisogno di sondaggi per capire quale sarebbe il risultato.

(20 luglio 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI -
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2007, 07:42:23 pm
POLITICA MAPPE

Centrosinistra, ultima chiamata

di ILVO DIAMANTI


La pausa estiva non sembra aver alleggerito il clima d'opinione del Paese. Otto italiani su dieci, infatti, pensano che le cose, nel Paese, vadano male. Il dato emerge dal sondaggio condotto da Demos-Eurisko per la Repubblica nei giorni scorsi. Nel pessimismo diffuso, tuttavia, si coglie qualche segno di ripresa, rispetto allo scorso giugno, quando la polemica contro i privilegi della "casta" era appena esplosa. Quando si era riaperto "l'affaire Unipol", che ha coinvolto i leader dei Ds. Allora la fiducia nel governo era caduta al livello minimo da tanti anni a questa parte: 27%. Oggi è risalita al 30%.

Ancora molto bassa, dunque. Il bicchiere, infatti, per oltre i due terzi è vuoto. Anche le stime elettorali, per il centrosinistra, migliorano. Ma, nuovamente, di poco. Un punto e mezzo appena. Il distacco dell'Unione dal Centrodestra, quindi, resta molto ampio: circa il 10%. La metà, se si considera separatamente l'UDC, che da qualche tempo tende a marcare la propria autonomia e la propria vocazione "centrista". Il leggero recupero del centrosinistra dipende, quasi per intero, dalla crescita del PD. Vi hanno contribuito la campagna in vista delle primarie, la candidatura alla segreteria di Veltroni, cui ha attribuito maggiore significato la sfida lanciata da leader autorevoli, come Rosy Bindi ed Enrico Letta. Negli ultimi due mesi e mezzo, dunque, è risalito di due punti. Si è attestato un po' sopra al 26%. Un dato, comunque, sensibilmente inferiore al risultato ottenuto dall'Ulivo alle elezioni politiche del 2006 e in quelle europee del 2004, quando superò il 30%. Un esito considerato, allora, deludente. Oggi verrebbe celebrato come un successo.

A differenza del recente passato, inoltre, anche la sinistra cosiddetta "radicale" - e in particolare RC - flette. Il che conferma la difficoltà di "fare l'opposizione nel governo". Per il resto, solo il "Di Pietro party" recupera qualcosa. Favorito dal "vento del 1992". La SD, uscita dai DS per non "morire Democratica", è una frazione. Così, il centrosinistra continua ad apparire debole, sul piano elettorale. Riflesso dello scarso livello di fiducia del governo tra i cittadini, in generale, e della delusione degli elettori di centrosinistra, in particolare. D'altronde, la gerarchia dei problemi che preoccupano l'opinione pubblica favorisce sicuramente la destra. La paura della criminalità, la xenofobia (letteralmente: paura degli stranieri - e quindi degli immigrati); e ancora: le tasse. Occupano da mesi e mesi il centro del dibattito politico e mediatico. Mentre, rispetto a qualche anno fa, hanno perso rilievo i temi "sociali", coerenti con i progetti e i valori della sinistra: il lavoro, l'ambiente, il costo della vita, i servizi sociali.

L'attenzione verso temi etici "sensibili", come la revisione della legge sull'aborto, rafforza l'impressione che sulla società soffi un impetuoso vento di destra. Spinto anche dalla domanda di una nuova stagione di processi alla politica, considerata corrotta e inefficiente. Mentre il progetto di riformare le pensioni, per quanto risponda a un'esigenza largamente condivisa, continua ad essere avversato dalla maggioranza degli elettori. Soprattutto di centrosinistra.

Da ciò il problema della maggioranza e del governo, oggi. Tra due fuochi. Perché il centrosinistra continua ad essere avversato dai lavoratori autonomi e indipendenti, che lo considerano il "partito statalista delle tasse"; e lo giudicano "troppo buono" per difendere dalla criminalità e dagli immigrati (considerati quasi "sinonimi"). Ma sconta anche la frustrazione del "proprio" elettorato tradizionale: i lavoratori dipendenti pubblici, gli operai delle grandi imprese, insoddisfatti dei propositi di riforma in tema di pensioni e di flessibilità del lavoro.

Questi indici evocano una stagione instabile, incerta. Non una tendenza irreversibile. C'è, invece, molta - fluida - attesa. Soprattutto - ma non solo - nel centrosinistra. Dettata dalle primarie, che avranno luogo fra un mese, il prossimo 14 ottobre. Il rito che sancisce il passaggio del Partito Democratico da progetto a soggetto. Una scadenza che suscita, però, sentimenti contrastanti. Una grande domanda di cambiamento insieme al timore, altrettanto grande, che prevalgano la conservazione e il trasformismo.

Vediamo i "segni" dell'attesa.

a) La candidatura di Walter Veltroni ha smosso le acque stagnati in cui rischiava di affondare il PD. Il sondaggio di Demos-Eurisko gli attribuisce un successo molto netto alle prossime primarie, con oltre il 70% dei voti. Nonostante oggi sia un "leader di parte", però, continua a mantenere un elevato consenso nella società. Infatti, insieme a Fini, egli appare ancora il leader politico "più amato dagli italiani".

b) L'elettorato potenziale del PD è molto più ampio di quello attuale. Le stime, oggi, gli attribuiscono poco più del 26% dei voti validi, ma la quota di coloro che ritengono possibile votarlo è molto più ampia. Intorno al 44%. Quasi il doppio. La componente dei "democratici indecisi" è costituita, in larga misura (40%), da elettori incerti "se" e "per chi" votare. In attesa; sulla soglia che separa speranza e delusione.

In altri termini, il progetto del PD è accompagnato, nel centrosinistra, da grandi aspettative, ma anche da un grande scetticismo, determinato dalle contrastanti vicende che ne hanno contrassegnato il cammino fino ad oggi. Un sentimento conteso e diviso, che emerge da alcuni dati dell'Atlante politico di Demos-Eurisko.

1. Il primo, segnalato nei giorni scorsi, riguarda il V-people. La base dei sostenitori delle manifestazioni promosse da Beppe Grillo. La cui incidenza è del 43% fra gli elettori in generale, ma sale al 58% fra quelli dell'Unione e supera il 60% fra i Democratici. I più determinati, quindi, nella critica radicale alla politica e ai politici espressa da Grillo.

2. L'altro segno è fornito dalla richiesta che la magistratura, per combattere la corruzione politica, intervenga, oggi, "come ai tempi di tangentopoli". Opinione condivisa da una maggioranza massiccia, nella popolazione: l'80%. Un dato che, però, sale all'84%, fra gli elettori dell'Unione, e aumenta ancora, seppur di poco, fra i Democratici.

Il che sottolinea, anzitutto, la distanza dell'attuale "sentimento antipolitico" rispetto all'esempio dell'Uomo Qualunque di Giannini, continuamente evocato, in questa fase. Ma l'UQ raccoglieva il voto di componenti politicamente e socialmente "marginali". Mentre la "protesta antipolitica", oggi, proviene in gran parte da componenti sociali "politicizzati", che appartengono a settori professionali "intellettuali", residenti in aree "urbane". Esprime, dunque, non solo una generica protesta "contro" la politica. Ma anche la domanda di "cambiarla". Di realizzare le promesse di rinnovamento, efficienza, moralizzazione troppe volte avanzate e sempre eluse e deluse, negli ultimi 15 anni. Questo sentimento appare particolarmente diffuso e ampio nella base del nascente PD e nel centrosinistra.

Da ciò il rischio, costituito dalle primarie e dalla nascita del PD. Vissute non come una semplice opportunità, ma come l'ultima chance. L'ultima chiamata.

Se la costruzione del PD, fin dalle primarie, venisse viziata da giochi di potere, pilotati dall'alto, dai soliti noti; se si rivelasse una finzione, un'operazione guidata dagli apparati dei vecchi partiti, al centro come in periferia; se, per questo, risultasse incapace di sviluppare la comunicazione con la società; se, contro le attese, rinunciasse a cambiare "davvero" la classe dirigente, i metodi e il linguaggio della politica: allora, non sarebbe retorico parlare di "un nuovo 1992".

Quindici anni dopo: potrebbe liquefare ciò che resta della sinistra.

(16 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il paese degli impotenti
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2007, 11:17:06 pm
POLITICA

MAPPE

Il paese degli impotenti

di ILVO DIAMANTI


Si dice che l'ondata di sfiducia popolare sia stata sollevata dall'indignazione contro i partiti, ridotti a oligarchie. E contro la classe politica. Una "casta", come recita il titolo del fortunatissimo libro-inchiesta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Che gode di benefici esorbitanti. Inaccettabili per la "gente comune".

Non ne siamo sicuri. Crediamo, invece, che la delegittimazione non origini dal distacco della classe politica dalla società, ma dall'esatto contrario. La perdita di ogni differenza rispetto alla "gente comune". Di cui i politici riflettono e riproducono, amplificati, i vizi più delle virtù. Come pretendere che i cittadini possano provare rispetto o timore nei loro confronti?
Per la stessa ragione, dubitiamo che sia giusto definire la classe politica una "casta". Termine usato per indicare un gruppo sociale distinto e diverso dagli altri, in base a motivi (religiosi, come in India) socialmente condivisi. I cui membri, se occupano posizioni più elevate, possono accedere a privilegi specifici. Se la classe politica fosse davvero una "casta", dunque, i riconoscimenti e i vantaggi di cui gode non provocherebbero scandalo.

Sarebbero considerati "benefici di status" legittimi, legati al loro ruolo di rappresentanza e di governo. D'altronde, è quanto avviene altrove ed è avvenuto in passato anche in Italia, senza il "rigetto" popolare di questa fase. Gli innumerevoli scandali, denunciati da tutti i media, a nostro avviso, c'entrano solo in parte con questa ondata di sdegno. Conta di più, semmai, l'insoddisfazione per le "prestazioni" dei politici. La convinzione diffusa che siano poco competenti e poco efficaci. Che, per questo, i privilegi loro accordati siano un "costo" sociale improduttivo. Senza benefici per la società. D'altronde il Presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, oggi tanto ammirato, in Italia, da destra a sinistra, ha dichiarato esplicitamente: "se un uomo politico è capace ed efficiente, non vedo perché dovrebbe, in aggiunta, vivere modestamente". Appunto: se è "capace ed efficiente". Altrimenti, come in Italia, esplode il risentimento popolare.

Tuttavia, neppure questa spiegazione, da sola, ci pare sufficiente. Quando la sfiducia si trasforma in dileggio generalizzato e sfocia nello "sputo di massa", non si tratta solo di dissenso. E' qualcosa di peggio: "banalizzazione". Perdita delle distinzioni fra i cittadini e chi li rappresenta e governa. La classe politica, in altri termini, è al centro delle polemiche non perché sia una "casta", lontana da noi. Ma, al contrario, perché ci somiglia troppo. Difetti, debolezze ed egoismi quotidiani compresi. Ma se i politici sono come noi, perché dovrebbero godere di tanti privilegi e favori?
Il problema è che, da molti anni, i politici fanno di tutto per mostrarsi e per apparire "persone come noi". Anzi: fanno di tutto per "mostrarsi" e "apparire". Hanno accettato la logica e le regole della "berlusconizzazione". Senza considerare che solo Berlusconi è "padrone delle televisioni".

Tutti gli altri, perlopiù copie modeste, si sono tuffati nei "media" senza mai un ripensamento. Hanno inflazionato le televisioni con la loro presenza. Convinti che fra "immagine" e "potere", fra "popolarità" e "autorità" vi sia un legame di reciprocità. Più immagine = più potere. Più popolarità = più autorità. E viceversa.

I politici. Hanno creduto che divenire personaggi televisivi familiari li avrebbe resi simpatici e, al tempo stesso, credibili. Ne avrebbe fatto crescere il consenso e la legittimità. Così, eccoli, all'assalto delle tivù, nazionali o locali non importa. A cucinare, cantare, danzare, giocare a biliardo, simulare orgasmi. Insieme a veline, cuochi, ballerini, tronisti, psicologi, sociologi, criminologi, criminali, enologi, attori, attrici, missitalia, calciatori, allenatori, motociclisti. Leader politici e di governo che nei cabaret televisivi duettano con i loro imitatori. Fino a rendere difficile individuare l'originale. Li abbiamo visti ricevere torte in faccia, lanciate da soubrettes dalle grandi forme, generosamente esibite. Hanno riempito le riviste di informazione gossip. Soprattutto quelle dove, scorrendo nomi e fotografie, non riconosci quasi nessuno. I soliti ignoti. La "Penisola dei famosi", descritta con quotidiana e chirurgica ferocia dai reportage di Dagospia. Un sito di riferimento per capire se uno esiste. Se "conta".

Gli uomini politici. Tutti impegnati a conquistare un posto al sole. Nei salotti tivù più esposti, più visibili. Porta a porta, ma anche Ballarò, Anno Zero, Matrix. Pronti alla mischia. Accettando (spesso cercando) la rissa, l'insulto, la frase a effetto. Pronti a darsi sulla voce, perché non è importante convincere e spiegare, ma gridare più degli altri. Avere l'ultima parola. Non importa quale.

Per cui ha fatto bene il Presidente Giorgio Napolitano, a diffidare gli uomini che hanno cariche pubbliche da questa bulimia televisiva. Il suo ammonimento, però, arriva tardi. Assai prima che Grillo invadesse la rete e - di recente - le piazze, la classe politica si era già squalificata da sola. Come ha commentato Altan, con disarmante ferocia, sulla prima pagina della Repubblica di qualche giorno fa. Quando fa dire alla caricatura del "politico" medio: "Basta con la demagogia. Siamo perfettamente in grado di mandarci a fanculo da soli".
Il fatto è che il potere suscita prestigio e timore.

Quando è "legittimo", riconosciuto, evoca rispetto. "Deferenza". E i riti, gli stessi privilegi che lo accompagnano, contribuiscono ad alimentarlo e a riprodurlo. Per questo, gli uomini che dispongono davvero di "potere" non hanno bisogno di esibirlo. Non hanno bisogno di parole. Bastano il ruolo e i "segni" che lo distinguono. Il timore che possa esercitarlo. Basta la fama che lo circonda. Ciampi non ha mai messo piede in uno studio televisivo. E Cuccia: mai una parola, un'immagine. Lo ricordate? Staffelli, il mastino di "Striscia la notizia" che lo tallona, lo interroga, microfono e telecamera addosso. E lui: non una frase. Neppure una parola. Una piega del viso. E De Gaulle? Parlava il meno possibile.

Certo: altri tempi. L'era del marketing e dell'immagine ha cambiato tutto. E' la democrazia del pubblico. La comunicazione diventa una risorsa. Perfino una necessità. Però, Blair (ieri) e Sarkozy (oggi) i media non solo li conoscono, ma li "usano". Nel senso che non si fanno "usare". Invece, in Italia, avviene il contrario. Ma ve lo immaginate Sarkozy interpellato dal Trio Medusa, delle Iene, sull'ultimo provvedimento in tema di immigrazione. E poi, immancabilmente, irriso a ogni risposta? Oppure incalzato dalla "Iena" Enrico Lucci, che, come normalmente fa con "grandi" politici e imprenditori italiani, scherza con lui come fosse un amicone. Un compagno di notti brave. Riuscite a immaginarlo?

Per questo è inutile prendersela con Grillo. Il quale ha guadagnato popolarità, in passato, andando in tivù. E si è conquistato credito e potere, in seguito, quando ha smesso di andarci. Sulle piazze egli si limita a replicare uno spettacolo che va in onda quotidianamente sugli schermi. Sui media. Stessi protagonisti, stesse comparse. Così le sue prediche corrosive, magari divertono, poi indignano. Ma alla fine lasciano un senso di vuoto. Perché evocano la storia di un Paese minore: il nostro. Dove privilegi grandi e piccoli vengono esibiti senza vergogna da tanti piccoli potenti. Pardon: tanti piccoli impotenti. Che non suscitano più né rispetto, né deferenza. E neppure paura. Perché li abbiamo sempre sotto gli occhi. Seguiti ovunque dalle telecamere. Più che una "casta", il "cast" di una politica ridotta ad avanspettacolo. A un reality show. Se la democrazia esige che le stanze del potere abbiano pareti di cristallo, per noi è come guardare la casa del "Grande Fratello".

(23 settembre 2007)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Un prodotto mediatico di successo: l'antipolitica
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2007, 10:52:16 pm
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Un prodotto mediatico di successo: l'antipolitica
 
Mastella e Diliberto a Ballarò


L'antipolitica è un "prodotto" mediatico. Almeno in parte. Certo: ha radici sociali profonde e attori politici che la alimentano di continuo. Da molti anni. Però, la sua "visibilità" è cresciuta troppo, negli ultimi mesi, nelle ultime settimane, per essere spiegata solamente su base sociale e politica. Anche il successo del V-Day non può essere attribuito solo alla capacità di Beppe Grillo e della sua "rete" di MeetUp.

Naturalmente, Grillo ha costruito un sistema organizzativo e comunicativo molto rilevante. I "suoi" militanti internautici sono molti e competenti. Attivi. Egli stesso è costantemente in movimento, e "mobilita" con i suoi spettacoli-comizi, ogni volta migliaia di persone. Però il boom del V-Day è "successivo". E' la "visione" della piazza gremita rilanciata da Sky e dalle prime pagine dei quotidiani on-line (su tutti, "la Repubblica") ad aver fatto tracimare l'iniziativa, che ha invaso, a cascata, i principali media. Anche quelli che l'avevano occultato, a bella posta. L'invettiva di Grillo, rilanciata dovunque; le repliche accese e risentite dei suoi "bersagli", hanno fatto il resto. Però, il V-Day e Grillo - trasferiti sui media - sono solo l'ultimo, clamoroso caso di "spettacolo dell'antipolitica". Il "genere" di maggior successo, in questa fase. Più dei reality. Più della fiction. Di Miss Italia e dei telecabaret.

Lo certificano i dati, in modo inequivocabile. La serata di Ballarò di martedì scorso, dedicata ai privilegi e ai privilegiati della politica: 4 milioni e mezzo di audience. Ospiti di primo piano: Gian Antonio Stella, l'autore, insieme a Sergio Rizzo, della "Casta". La "Bibbia dei cultori del genere. E soprattutto Mastella. Il bersaglio immobile, su cui sparare a colpo sicuro. Una settimana fa: "Anno Zero", il programma di Michele Santoro, dedicato a Grillo, al Vaffa-day e all'antipolitica: è andato oltre ai 5 milioni. Clou della serata: la requisitoria di Marco Travaglio. Contro Clemente Mastella. Sempre lui.

Ancora, pochi giorni fa, lo stesso menu su Matrix. D'altronde, Mentana è stato fra i primi a "scoprire" la forza di attrazione dell'argomento. E ogni volta che ha ospitato Stella e Rizzo, a presentare i fatti e i misfatti della "Casta", ha conseguito risultati di ascolto straordinari. Il V-Day di Grillo, peraltro, ha fatto crescere gli ascolti di tutti i programmi di approfondimento. Primo Piano, TV 7. Lo stesso Tg2 ha avuto il suo momento di gloria quando il direttore Mauro Mazza ha evocato il rischio che la "colonna infame" recitata da Grillo, sulle piazze, possa trasformare i politici privilegiati (gli "untori" del male che indetta la nazione) in potenziali bersagli di azioni violente. Come negli anni di piombo. D'altronde, "La Casta", il libro di Stella e Rizzo ha raggiunto livelli di vendita strabilianti. E' divenuto un best-seller cosmico. Come "Il nome della rosa", "Va dove ti porta il cuore" o "Harry Potter.

Da ciò il dubbio rivelato all'inizio. L'onda antipolitica, o ciò che si intende con questo termine abusato, oggi procede impetuosa. Ma non solo perché esistono seri e fondati motivi per indignarsi. Non solo perché il sistema politico non pare in grado di autoriformarsi. Di dare segni di ravvedimento. Ma anche perché, anche se ciò avvenisse, i media non glielo permetterebbero. Non lo riconoscerebbero. Almeno fino a quando il "format" funziona, insieme ai suoi personaggi. Perché l'Antipolitica raddoppia gli ascolti televisivi, moltiplica le vendite dei libri e sostiene le tirature dei giornali. Paradossalmente, rende popolari anche le "vittime". Mastella, ormai, è linciato dovunque. Una vittima sacrificale. Dato in pasto all'indignazione pubblica. Presente o assente che sia, non importa. E' diventato un simulacro. Un'icona. Come Di Pietro, il grande Accusatore. Sembra aver ritrovato la verve dei bei tempi di Mani Pulite.

E immaginiamo che i programmi di satira, informazione e denuncia ("Striscia la Notizia" e "le Iene", in primo luogo), tornati dopo la pausa estiva, inseguiranno i protagonisti politici delle mille malefatte quotidiane, dei mille privilegi, dei centomila sprechi, del milione e passa di interessi privati in pubblico ufficio. Per deriderli, irriderli, sputtanarli, denunciarli.

Senza pietà. Perché questo chiede "la gente". Disgustata, per giustificati motivi. Ma anche perché attratta dalla gogna e dalla ghigliottina su cui vengono immolati i potenti e gli impotenti. Perché questo piace al pubblico: vedere scorrere il sangue blu, rosso e rossoblu. Il grandguignol. Fa audience. Quindi continuerà. Almeno fino a quando la fame di vendetta non verrà soffocata dalla bulimia antipolitica. Fino a che tanto sangue non renderà il pubblico sempre meno sensibile - e infine insensibile. Fino a che lo spettacolo della corruzione dei politici, replicato senza sosta, non "finirà per sfinirci". Rendendoci tutti indifferenti. Mitridatizzati. In grado di assumere ogni veleno.

Fino a che gli ascolti non cominceranno a calare. E le piazze, convocate a fanculare i politici, smetteranno di riempirsi. Fino a che il pubblico non si sarà convinto (e rassegnato) che, "se così fan tutti", "se la politica fa schifo", meglio girare canale. Cercare qualcosa di diverso. Più attraente, inquietante. Un'altra madre che ammazza il figlio; un altro figlio che ammazza la madre (e magari anche il padre); un ragazzo che ammazza l'amica; un branco di studenti che violenta una compagna di classe; oppure palpeggia e filma la professoressa; una maestra che insidia i bimbi dell'asilo; un prete pedofilo che circuisce i ragazzini. Episodi che "vanno" sempre. E sempre di più. Successi evergreen.

Mentre l'avanspettacolo dell'antipolitica funziona alla grande: ma solo una volta ogni quindici anni.

(27 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La grande occasione del Pd
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2007, 12:31:25 pm
POLITICA

La partecipazione al voto sarà la prima prova del successo della nuova formazione

Nella gara tra i candidati sono mancati i faccia a faccia, limitati agli scontri

Nascere libero dal passato La grande occasione del Pd

di ILVO DIAMANTI

 
OGGI il Partito Democratico finisce di essere un progetto. Diventa un soggetto politico. Dopo un cammino lungo dodici anni. Perché il PD è certamente figlio, forse fratello, dell'Ulivo. L'atto di "fondazione" coincide con le "primarie": l'elezione dei segretari regionali e dell'assemblea costituente.

Ma soprattutto del segretario nazionale. Vincerà Walter Veltroni, il sindaco di Roma. Il più amato dagli elettori, come mostrano tutti i sondaggi. Tuttavia, il "successo" di questo rito di passaggio dipenderà soprattutto dalla "partecipazione". La cui valutazione sarà condizionata dal confronto con le primarie dell'Unione di due anni fa. Quando milioni di elettori garantirono l'investitura di Romano Prodi. In un contesto molto diverso. Perché in quell'occasione votarono gli elettori dell'intera coalizione, per eleggere il candidato premier in vista delle consultazioni politiche. In un clima di rivincita contro Berlusconi.

Cosa sarà il Pd? Certamente non un "partito personale", come FI. Ma, comunque, "personalizzato". Come sottolinea l'elezione diretta e la competizione fra i candidati. La campagna elettorale, per questo, avrebbe dovuto permettere di associare l'identità personale dei candidati a uno specifico profilo programmatico. Il che è avvenuto solo in parte. Il confronto fra i candidati, infatti, si è svolto a distanza.

Nessun faccia a faccia. Poche polemiche. Per paura di aprire divisioni in una fase così critica. Il forum offerto da Repubblica.it ha costituito una rara - forse l'unica - occasione di confronto fra i candidati. I quali hanno reagito a una serie di quesiti su diversi temi: modello di partito, alleanze, regole e riforme istituzionali, questioni etiche e sociali. I frequentatori del quotidiano on-line hanno votato, di volta in volta, la risposta che appariva loro più convincente.

Naturalmente, non si tratta di un "sondaggio". I "votanti", infatti, non costituiscono un "campione rappresentativo" dell'elettorato nazionale. E neppure dei Democratici. Tuttavia, "la Repubblica" rappresenta da sempre un riferimento condiviso dagli elettori di centrosinistra. In particolare, quelli attenti alla proposta dell'Ulivo e del Pd. Questa iniziativa va, dunque, considerata un'esperienza di "e-democracy". Nella quale i candidati hanno messo le proprie idee a confronto. Per sottoporle al giudizio di una cerchia molto estesa di "elettori" simpatetici e informati.

Quali indicazioni ne possiamo trarre?
1. Un primo aspetto riguarda la "partecipazione". Altissima, all'inizio: hanno votato circa 60mila e-lettori, in occasione del primo "confronto". Poi la partecipazione è scesa, per risalire in occasione del "messaggio finale" dei candidati. Nel complesso, 250mila risposte. Decine di migliaia di "cittadini" hanno, comunque, "partecipato" a questa campagna. Che ha rivelato una certa disabitudine dei principali candidati a "usare" il mezzo. E alla discussione aperta.

2. Dal confronto, ricostruito dalla tavola sinottica proposta in questa sede, emergono alcuni profili programmatici, più o meno definiti.
Rosy Bindi ha ribadito la sua impronta "solidarista". Ha usato un linguaggio diretto. Esplicita sui temi sociali, anzitutto il lavoro; impegnata a marcare la frattura con il passato. Enrico Letta si è preoccupato di interpretare il rinnovamento come "ricambio generazionale". L'apertura ai "giovani". Inoltre: ha posto l'accento sulla riforma fiscale, sulla questione settentrionale. Walter Veltroni ha recitato la parte del leader designato. Ha cercato di evitare posizioni troppo nette. Ha cercato di impersonare "l'identità democratica". Esprimendo la sua preferenza per un Pd che, alle elezioni, corra da solo. Gli altri candidati, Mario Adinolfi e Piergiorgio Gawronski, hanno usato la loro estraneità alla classe dirigente di partito come argomento politico e polemico.

3. Il voto degli e-lettori non ha seguito logiche di appartenenza. Ha, per questo, delineato esiti diversi, di volta in volta. D'altronde, gli "e-lettori" di questa "consultazione elettronica", non rappresentano gli "elettori" di centrosinistra e del Pd. Tanto meno la base militante e organizzata. Ne delimitano, invece, una componente informata, tecnologicamente competente, politicamente interessata. Una "minoranza attiva". Che ha reagito in base all'efficacia delle risposte dei candidati. Walter Veltroni, il leader "pre-destinato alla vittoria", ha riscosso il massimo consenso (40%) sul tema delle alleanze: rivendicando "l'autonomia del Pd", l'ambizione di "correre da solo".

Che riflette una domanda diffusa nel centrosinistra. Ha, inoltre, ottenuto un gradimento elevato quando ha espresso posizioni chiare. Sul Nord e sui temi etici, in particolare. Non ha, invece, convinto gli e-lettori su tre questioni: il modello di partito, il lavoro e nell'appello conclusivo. Probabilmente, per eccesso di prudenza. In questi casi è stato superato da Rosy Bindi. Quasi sempre oltre il 20% dei consensi, ha raggiunto il 35% di voti in occasione dell'appello conclusivo. Favorita, presumibilmente, dal linguaggio diretto.

Lo stesso Enrico Letta, pur navigando su livelli più bassi, ha conseguito un consenso significativo quando ha espresso in modo argomentato la sua attenzione al "territorio". Sulle questioni relative al Nord, le tasse, il rinnovamento del partito. Fra gli altri candidati, va ricordato il grado elevato di consensi ottenuto da Adinolfi. La cui popolarità è certamente più ampia nella rete che sul territorio. Tuttavia, quando ha affrontato la questione del lavoro e del precariato ha superato perfino Veltroni.

4. Comune ai candidati, "vecchi" e "nuovi" è l'incertezza dei riferimenti. Per cui il Pd appare un partito senza padri né maestri. Senza santi e senza dei. I cui numi ispiratori sono, per Veltroni, il pannello solare e il computer. Per Adinolfi, gli inventori di Google. Per Schettini (che ha abbandonato la competizione nelle ultime settimane) il mitico capitano Kirk dell'Enterprise. Per Bindi e Letta: nessuno. Un partito che, peraltro, ha estromesso dai suoi riferimenti la tradizione socialista. Un partito tanto "nuovo" da aver rimosso il passato e oscurato l'orizzonte.

Ora, conclusa questa campagna, un po' tiepida, è il momento del voto reale. Finalmente. Il cui esito sarà, certamente, diverso da quello espresso nel forum di Repubblica. it. Perché diversa è la cerchia degli elettori. Diversi i canali del consenso e di mobilitazione. L'auspicio è che la "fondazione" del "nuovo" partito non venga condizionata troppo da "vecchie" logiche e "vecchi" attori politici. Il Pd "può essere un modo originale di rilanciare la sinistra in Europa", ha sostenuto Marc Lazar (intervistato da Gigi Riva sull'Espresso). Ma se, invece, apparisse la riedizione, aggiornata, di una storia già scritta, rischierebbe l'insuccesso. Questa volta, riteniamo, senza appello.

(14 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Dall'antipolitica all'iperpolitica
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2007, 11:37:19 pm
POLITICA IL COMMENTO

Dall'antipolitica all'iperpolitica
di ILVO DIAMANTI


LE PRIMARIE continuano a sorprendere gran parte degli osservatori, degli analisti, dei commentatori. E degli stessi attori politici coinvolti. Come era avvenuto due anni fa. Quando "travolsero" ogni previsione. Questa volta anche più di allora. Perché nell'aria si percepivano rumori poco rassicuranti. Il lamento del "popolo di sinistra", insoddisfatto del comportamento del governo e del ceto politico che lo rappresenta. Le grida di protesta, contro i privilegi della casta. Il rumore sordo e sgradevole dell'antipolitica. E come poteva mobilitare le persone e le passioni, in questa glaciazione della politica, l'atto di nascita di un "partito nuovo"? O, peggio, di un "nuovo" partito?

Promosso e guidato da uomini politici "vecchi" o, comunque, sicuramente non "inediti"? Invece, un'altra volta, si è assistito a una risposta di massa. Inattesa dagli stessi promotori. Il che getta più di un'ombra sull'antipolitica: il distacco dalla politica; il rifiuto delle sue pratiche e dei suoi attori. Esiste davvero? A questo punto, si rischia di non capire. Visto che, mettendo in fila le iniziative "politiche" degli ultimi giorni, delle ultime settimane, si rischia la vertigine. Il mal di capo.

Più di tre milioni di cittadini hanno partecipato alle primarie di due giorni fa. Una partecipazione enorme. Inattesa. Il giorno prima, An aveva mobilitato almeno 300mila militanti a protestare contro il governo. Nei giorni precedenti milioni di lavoratori avevano partecipato al referendum del sindacato. Un mese fa, centinaia di migliaia di persone avevano sottoscritto le proposte di Grillo per la "moralizzazione politica". E se mettiamo in fila le mobilitazioni organizzate da un anno a questa parte dalla destra, dalla sinistra cosiddetta radicale, da comitati e movimenti si raggiungono cifre superiori agli anni Settanta. Al mitico Sessantotto. Non solo.

Il livello di attenzione sui fatti e sui temi della politica, in questa fase, è salito rapidamente. Come testimoniano gli ascolti delle trasmissioni tivù che affrontano i temi politici, nella "versione antipolitica". E la tiratura dei libri che ne fanno oggetto di inchiesta e di denuncia. Il fatto è che tra politica e antipolitica il confine non sempre è chiaro. A separarle, talora, è una linea sottile. Visibile solo agli occhi di chi guarda. Da ciò l'esigenza di distinguere, almeno, due diverse facce dell'antipolitica. Da un lato, come "argomento", usato da leader, movimenti, partiti, ma anche dai media. Dall'altro, come "sentimento sociale".

Considerata da questo punto di vista, l'antipolitica rivela non rifiuto, ma una diffusa domanda di politica. Una estesa disponibilità a partecipare e a mobilitarsi, da parte di milioni di cittadini. Per questo, esibire e agitare la partecipazione alle primarie come una risposta al "vaffa-day", uno schiaffo a Grillo e ai suoi adepti, ci sembra un po' fuori luogo. Almeno, se si fa riferimento alla base sociale, ai partecipanti delle due manifestazioni. Che, in parte, si sovrappongono. Perché molti sostenitori del V-Day sono elettori del Pd che, nonostante gli anatemi di Grillo, hanno "votato" alle primarie. Hanno contribuito alla "fondazione" del "partito nuovo", all'elezione degli organismi e all'investitura di Walter Veltroni.

Il che, restando al tema delle primarie, ne sottolinea il significato. Il sentimento che ha animato una partecipazione tanto ampia, infatti, più che fiducia rivela sofferenza e un po' di insofferenza. E' richiesta di cambiare. Ma davvero. Di costruire un "partito" capace di ri-generare: la classe dirigente, il linguaggio, il rapporto con la società. Una grande occasione, per i leader del Pd. E soprattutto, anzitutto, per Walter Veltroni. Ma forse, anche, l'ultima.

Il sentimento antipolitico della società italiana, d'altronde, non appare particolarmente più esteso rispetto agli altri paesi europei. Dove si coglie un analogo sentimento di sfiducia nelle istituzioni rappresentative e nel ceto politico. (Basta consultare la ricerca europea condotta da laPolis-Demos-FNE, presentata sul volume della Rassegna Italiana di Sociologia attualmente in uscita). Peraltro, non si tratta di un fenomeno nuovo. Visto nel lungo periodo, anzi, sembra perfino essersi ridotto. Come mostrano alcuni studi recenti (ad esempio, una ricerca sulla "Immagine della politica e del buon governo", curata da Paolo Bellucci e dal Laboratorio di Analisi Politica dell'Università di Siena).

Se oggi, in Italia, risulta esplosivo è soprattutto perché la classe politica, per prima, predica l'antipolitica. E si presenta come uno specchio rotto (per riprendere la suggestiva metafora di Eugenio Scalfari), che, invece di riassumere la società, la frantuma ulteriormente. Ne restituisce una immagine deforme, invece che dignitosa. Perché, inoltre, ai media piace seguire, da vicino, il peggio della politica. Amplificare "l'indignazione popolare". Che "fa notizia". Alza gli ascolti. In questo Paese: c'è una parte della società, probabilmente maggioritaria, sicuramente molto ampia, che è migliore di chi la rappresenta e raffigura. Di chi la interpreta e la racconta. Così, noi che la interpretiamo e raccontiamo siamo destinati a sorprenderci. Sempre più spesso.

Perché la osserviamo attraverso la lente dei nostri pre-giudizi. In base ai quali distinguiamo l'antipolitica dalla politica. Separando, quasi, il bene dal male. Converrebbe, al proposito, usare un po' più di prudenza e di umiltà. Stiamo attraversando una fase di cambiamento delle democrazie rappresentative. La sfiducia, la protesta, gli stessi populismi. Lo sbriciolarsi della partecipazione politica in mille esperienze: collettive ma anche individuali. Le grandi mobilitazioni polemiche. Non sanciscono il rifiuto della democrazia.

Segnalano, invece, un insieme di pratiche attraverso le quali la società esercita poteri di correzione, controllo, pressione. I partiti, se vogliono continuare a esistere, se vogliono essere "utili", debbono tenerne conto. Aprirsi. "Rappresentarli". Al contrario di quanto è avvenuto negli ultimi anni, durante i quali si sono trasformati in oligarchie, rifugiandosi nelle istituzioni, per "difendersi" dalla società. La grande partecipazione alle primarie, per questo, costituisce un segnale molto importante.

Ma anche un allarme, che deve essere raccolto. Non possiamo immaginare, altrimenti, che la "rivoluzione di ottobre", come è stata definita da qualcuno, prosegua anche in novembre. E via di seguito. All'infinito. E non possiamo pensare a una società in "mobilitazione permanente", come avviene da troppo tempo.

Questo "surplus di politica", questa "iperpolitica" ci appare, infatti, l'altra faccia dell'antipolitica. Segni, entrambi, di una "domanda politica" frustrata. Se non dovesse trovare risposta, dopo tanti tentativi, allora è lecito attendersi l'esplosione. O l'implosione. Sicuramente la "delusione" e il distacco vero.
Per questo, dopo la bella "domenica delle primarie", ci sorprendiamo a sognare una democrazia diversa. Dove i cittadini non abbiano bisogno di scendere in piazza - né di votare - ogni mese, talora ogni fine settimana. Per contare. Dove ogni risultato elettorale non sia "sospettato" dall'avversario politico. "A prescindere", per citare Totò. Dove non sia necessario alzare la voce oppure urlare per farsi ascoltare. Dove si possa manifestare senza "fanculare" la classe politica. Dove la classe politica non debba essere "fanculata" per comportarsi in modo virtuoso ed equilibrato. Dove la politica costituisca "un" aspetto importante della vita. Uno, non il solo e neppure il più importante. Una democrazia normale. Magari po' più tiepida. Non soffocata dall'antipolitica. Ma neppure dalla "troppa politica".

(17 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Partito democratico fra nuova e vecchia politica
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2007, 11:59:12 am
POLITICA BUSSOLE

Il Partito democratico fra nuova e vecchia politica

di ILVO DIAMANTI

 
La straordinaria partecipazione alle primarie del PD, domenica scorsa, riflette una domanda di partecipazione molto ampia, nella società. E soprattutto fra gli elettori di centrosinistra. Lo abbiamo scritto, nei giorni scorsi: più che di "antipolitica" dovremmo parlare di "iperpolitica". Visto che le mobilitazioni, negli ultimi mesi, si sono moltiplicate. Coinvolgendo masse imponenti di persone. Spinte, come si è detto, da una grande richiesta di cambiamento e di novità. Però, vale la pena di aggiungere: non solo.

Come ha suggerito Alfio Mastropaolo, dietro alla partecipazione di massa che ha "premiato" le primarie del PD, non c'è solo il "nuovo", ma anche il "vecchio". Il contributo della tradizione; dell'organizzazione dei partiti; delle cerchie personali. Logiche di appartenenza "ideologica", ma anche personale e particolaristica. Basta scorrere i dati della partecipazione su base regionale. A livello nazionale hanno votato 3 milioni e mezzo di elettori. Tra cui, va chiarito, anche giovani con meno di 18 anni (ma più di 16) e immigrati. Per cui si tratta di una base più ampia dell'elettorato chiamato a votare alle consultazioni politiche. Tuttavia, calcolato sul voto alla lista "Uniti nell'Ulivo" nel 2006, il peso degli elettori alle primarie risulta egualmente molto rilevante: il 29%. Ciò significa che ha votato alle primarie quasi un elettore su tre.
La distribuzione per regione, però, fa emergere una geografia particolare. Molto diversa dal passato. Non tanto per l'affluenza nelle regioni del Nord: significativa ma, comunque, al di sotto della media nazionale. Né per il buon grado di partecipazione registrato nelle "regioni rosse". Soprattutto in Emilia Romagna e in Umbria (oltre il 30%). Ma per la clamorosa mobilitazione che ha caratterizzato le regioni del Mezzogiorno. In Abruzzo l'affluenza alle primarie copre il 40% dei voti ottenuti nel 2006 (alla Camera) dalla lista "Uniti nell'Ulivo". In Puglia il 34%. In Sardegna il 32%. Ma vette insuperabili vengono toccate in Campania: 44%. E ancor di più in Basilicata: 53%. Fino al record della Calabria, dove i voti validi alle primarie costituiscono il 70% di quelli ottenuti dall'Ulivo un anno e mezzo fa. Certo, vale la pena di ripeterlo: c'è una quota di minorenni e di immigrati. Ma si tratta, comunque, di un dato cosmico.

Peraltro, la struttura del voto, su base territoriale, in questa occasione non riflette quella di due anni fa, che legittimò Prodi in vista delle elezioni del 2006. Rispetto ad allora, in tutte le regioni del Centronord si osserva un calo di voti (validi) più o meno sensibile. In particolare in Lombardia (-232.000), Emilia Romagna (-204.000), Toscana (-168.000) e in Veneto (-89.000). Anche nel Lazio, dove Veltroni ha trascinato la partecipazione al voto, si assiste a un ripiegamento sensibile rispetto alle primarie del 2005 (- 86.000 voti validi). D'altra parte era prevedibile, visto che due anni fa alle primarie avevano partecipato gli elettori di tutta la coalizione, per eleggere non il segretario di un partito, ma il candidato premier. Invece, contrariamente alle aspettative, in larga parte del Mezzogiorno, domenica scorsa si verifica una crescita dei voti, in alcuni casi molto consistente. Soprattutto in Puglia (+54.000), Abruzzo (+13.000), Basilicata (+17.000), Campania (+106.000) e, appunto, Calabria (+ 87.000).

Ciò permette di precisare l'osservazione da cui siamo partiti. La grande partecipazione alle elezioni primarie di domenica scorsa sottolinea una stagione "iperpolitica" piuttosto che "antipolitica". In cui, però, convergono e si cumulano spinte diverse. Domande di "cambiamento", ma anche "continuità". La grande partecipazione alle primarie, infatti, ha raccolto e aggregato movimenti ed elettori d'opinione, alla ricerca di nuovi modelli di rappresentanza politica. Insieme ad ampie componenti ancora "fedeli" ai partiti tradizionali (e auto-dissolti: DS e Margherita); a settori, estesi, di voto "personale" e particolarista; e a solide clientele locali. E' un grande calderone, questo PD. Nel quale confluiscono componenti nuove, ma anche vecchie. (E, vogliamo precisare, il "vecchio" non è necessariamente peggio; talora, anzi, è anche meglio del "nuovo").

Ci vorranno molto coraggio e grande determinazione per costruire un "partito nuovo", capace di assorbire e coagulare l'eredità dei "partiti vecchi". Così pesante e localizzata. Ma, soprattutto, per costruire un partito che sia davvero "nazionale", in grado di superare i limiti territoriali del passato, anche recente. Il centrosinistra, infatti, nella seconda Repubblica, ha mantenuto la geografia elettorale del Pci. Tanto che Marc Lazar, facendo riferimento ai Ds, aveva parlato di una "Lega di centro". Mentre nel Nord non è mai riuscito a imporsi. Anzi, alle elezioni del 2006 si è ridotto a una "minoranza assediata". Oggi, le primarie descrivono un PD fin troppo "meridionalizzato".

Non sarà facile, con questa geografia e con questa base elettorale costruire un soggetto politico riformista e innovatore. Walter Veltroni, il sindaco di Roma: dovrà governare i localismi del suo partito. Dovrà, inoltre, "unire" la Basilicata al Veneto; la Calabria alla Lombardia. Come dire: ri-unire l'Italia.

(18 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La paura di nascere vecchi
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2007, 03:56:07 pm
POLITICA MAPPE

La paura di nascere vecchi

ILVO DIAMANTI


L'assemblea costituente del Partito Democratico, ieri, è stata attraversata dalla voglia, diffusa e palpabile, di comunicare - a se stessa in primo luogo - il senso della discontinuità. Dall'ansia di rinnovamento. E dal timore, speculare, di finire impigliati nei fili del passato. Lo ha chiarito, da subito, Walter Veltroni, confessando che il vero problema, oggi, è "come evitare di versare il vino nuovo in otri vecchi". Per scongiurare un pericolo percepito, nel Pd: nascere vecchio.

Nel padiglione della fiera, a Rho, sede della manifestazione, i giovani delegati, peraltro, erano molti. Intervistati, ripresi, coccolati. In contrasto, però, con l'immagine lasciata dalle primarie. Caratterizzate da una partecipazione massiccia, superiore a ogni attesa. E da un profilo generazionale piuttosto maturo e, anzi, un po' vecchiotto. Come hanno visto quanti si sono fermati ai seggi; anzitutto gli scrutatori. Come ha sottolineato il sondaggio Demos-Eurisko presentato domenica scorsa su Repubblica. Il quale rileva che solo il 12% degli elettori alle primarie ha meno di 30 anni, mentre il 40% ne ha più di 64.

Ciò delinea uno squilibrio piuttosto rilevante rispetto alla società. Visto che la componente compresa fra 18 e 29 anni costituisce il 19% dell'elettorato, quella con oltre 64 anni il 22%. Dunque, anche se neonato, il Pd rivela un volto un po' attempato.

Naturalmente, questo aspetto è determinato, almeno in parte, dal "metodo" scelto per generare il Pd. Le primarie. Un rito collettivo. Ma, pur sempre, "individuale" e "istituzionale". Una "elezione", molto "impegnativa", condizionata da una scelta di valore e dal pagamento di una quota. Alla quale, però, ci si reca "da soli", oppure con i familiari. Mentre i giovani prediligono le "mobilitazioni comunitarie". Scosse da forti onde emotive. Centrate su fini e, spesso, nemici precisi. Dove si sta e/o si marcia insieme.

Le primarie, invece, rispecchiano il rito del voto come "norma". Come "abitudine democratica". Stentiamo a rinunciarvi io e mio padre, ma non emozionano i nostri figli. Tuttavia, (come ha sottolineato Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera) la bassa partecipazione giovanile non significa, automaticamente, che i più giovani non voteranno per il Pd. (Spesso si vota senza passione: "contro" invece che "per").

Ma i sondaggi suggeriscono qualche difficoltà anche sul piano elettorale. Tra i giovani con meno di trent'anni (sondaggio Demos-Eurisko, 16-18 ottobre), infatti, il Pd è stimato circa 4 punti percentuali sotto la media generale. Fra coloro che hanno più di 64 anni, invece, è quasi 10 punti sopra la media. Dunque, il "nuovo" Pd stenta, per ora, ad attirare i giovani.

C'è, tuttavia, da osservare che il problema non riguarda solo il Pd, ma il centrosinistra nell'insieme. Infatti, negli ultimi mesi, i giovani sembrano avere smarrito la strada che conduce a sinistra. Contrariamente a quanto è avvenuto dalla fine degli anni Novanta e fino alle elezioni del 2006 (come emerge dalla ricerca di Itanes: Dov'è la vittoria?, Il Mulino, 2006). Allora i giovani si erano spostati a sinistra, soprattutto gli studenti. Per motivi che abbiamo indicato altre volte. Li possiamo riassumere nella ripresa di grandi movimenti di protesta su temi di rilevanza universale, ma con un impatto particolarmente forte sulle generazioni più giovani. La guerra e l'insicurezza globale, l'occupazione, la scuola.

Da qualche mese, però, il voto giovanile non si orienta più a sinistra, nella stessa misura degli ultimi anni. Neanche fra gli studenti. A stento, pareggia con quello di destra. La stessa Rifondazione Comunista, fra i più giovani, è poco sopra la media generale. Nell'insieme, fra gli elettori con meno di 25 anni che un anno fa avevano votato per l'Unione, meno di 6 su 10, oggi riconfermerebbero la loro scelta (Demos-Eurisko, ottobre 2007).

Un cambiamento tanto rapido e profondo richiede, comunque, due precisazioni.
a) Non sono cambiati i giovani. Come mostrano numerose indagini, anche molto recenti, essi esprimono un livello di impegno nelle attività politiche, nel volontariato, nelle iniziative sui temi del territorio e dell'ambiente; e, inoltre, un grado di partecipazione a manifestazioni collettive (di protesta e di solidarietà) assai più elevati rispetto al resto della popolazione.

b) Gli orientamenti di voto dei giovani restano, comunque, instabili. E, piuttosto che defluire a destra, prendono la strada del "non voto" e del distacco.
Dunque: i giovani non hanno imboccato il "riflusso" individualista. Non si sono spostati a destra, dopo aver votato, per un decennio, a sinistra. Ma sono sicuramente più incerti e disincantati di prima.

Su questo cambiamento di umore influiscono, a nostro avviso, soprattutto tre ragioni.
1. La critica contro la classe politica e i partiti. "Antipolitica", si direbbe oggi. Anche se è vero il contrario, visti i tassi di interesse e di partecipazione politica che esprimono. È, però, vero che l'insofferenza verso i partiti e le istituzioni ha raggiunto l'intensità più elevata proprio fra i più giovani. I quali, non a caso, dimostrano l'adesione più ampia e convinta per le iniziative promosse, sulla rete e nelle piazze, da Beppe Grillo (ancora: Demos-Eurisko, settembre 2007; ma indicazioni analoghe vengono fornite da sondaggi condotti da Ipsos e Ispo). Un'insofferenza espressa soprattutto dalla base di centrosinistra, che ha colpito, in primo luogo, il governo dell'Unione (e alcune figure, come Mastella, in particolare).

2. Il senso di incertezza, alimentato dalle politiche del governo ma soprattutto dalle polemiche nel centrosinistra. L'enfasi sulla flessibilità del lavoro e, al tempo stesso, la difficoltà di riformare le pensioni hanno comunicato l'idea di un welfare costruito senza cura per i giovani. Certi che il loro lavoro sarà incerto. Almeno quanto il futuro.

3. La distanza dal linguaggio e dai temi della vita quotidiana che anima la comunicazione politica, soprattutto del centrosinistra. Anche la campagna delle primarie, ingessata dai "vecchi" partiti. Al centro ma soprattutto in periferia. Come poteva emozionare i giovani? Se lo stesso Enrico Letta, "giovane" democratico per definizione, più che ai giovani invisibili, che si sentono "precari" più che "flessibili", sembrava rivolgersi alla platea dei "giovani" imprenditori riuniti a Capri?

Da ciò due considerazioni finali, del tutto provvisorie.
La prima riguarda i giovani. Non sono "bamboccioni". Al contrario: sono perlopiù "autonomi", anche quando risiedono con i genitori e si appoggiano alla famiglia. Costretti a vivere in un mondo incerto e instabile, sfruttano tutte le risorse disponibili. In un rapporto di reciproca utilità e dipendenza, con gli adulti.

D'altronde, sono al centro delle strategie di consumo e di marketing; ma anche delle attenzioni e delle preoccupazioni dei genitori. Che non li lasciano crescere. Ed essi accettano (o fingono) di non crescere. Se fa loro comodo. Questa condizione di "centralità" comunicativa e affettiva li rende più reattivi verso quanti li ignorano. Oppure non parlano la loro lingua. La politica li ignora. Il centrosinistra, oggi, non parla la loro lingua. La seconda - e conclusiva - considerazione riguarda il Pd. Veltroni ha ragione quando sostiene che non è possibile "tenere il vino nuovo dentro botti vecchie". Ma solo in parte. La verità è che botti troppo vecchie impediscono al vino nuovo di entrare. E corrompono il poco che entra. Per cui, la questione vera non è costruire otri nuovi. Ma eliminarli.

Fuor di metafora: costruire un partito senza militanti, senza iscritti e senza sezioni. A differenza di quanto ha sostenuto ieri Michele Salvati, riteniamo che non ce ne sia bisogno. La militanza, la partecipazione, le associazioni: in questa società iperpolitica, sono fin troppo diffuse. Il partito deve solo intercettarle. Non può essere un "otre", un recipiente chiuso. Ma un "luogo" aperto, dai confini mobili. Non un partito "personale", ma un partito "personalizzato". Affollato di persone. Che selezioni "persone" capaci di governare. Persone. Che non abbiano il futuro dietro alle spalle. Solo così potrà parlare ai giovani ed essere ascoltato. Solo così potrà liberarsi del passato.


(28 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Paese sperduto nell'Assoluto relativo
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2007, 06:23:25 pm
Il Paese sperduto nell'Assoluto relativo

di ILVO DIAMANTI

 
GLI italiani marciano, con passo sicuro, verso la secessione. Però non mirano a dividere il Paese, il Nord dal Sud, come volevano (e ancora vorrebbero) i leghisti. Gli italiani, invece, sembrano pronti a realizzare la secessione da se stessi. Inseguendo, con pari intensità e determinazione, obiettivi opposti.
Senza provare disagio, senza sentirsi dissociati. In particolare, appaiono impauriti dalle minacce alla sicurezza della comunità. E al tempo stesso indulgenti, verso chi li commette. Soprattutto quando il responsabile "appartiene" alla comunità stessa. Quando è "uno di noi".

Gli italiani. Temono gli stranieri. Considerano gli immigrati un pericolo per l'ordine pubblico (quasi il 50%, sondaggio Demos per UniPolis). Guardano con sospetto i romeni, i rom, gli slavi, i maghrebini e i cinesi. Ne valutano in modo severo le componenti e i comportamenti devianti. Invocano per essi "tolleranza zero". Espulsioni immediate, anche dentro i confini dell'Unione Europea. Eppure "tollerano", ben al di là dello zero, gli "ultrà". Da molto tempo. Vi si sono assuefatti. Trovano inaccettabili (giustamente) gli episodi di violenza e di illegalità quotidiana commessi dagli immigrati. Ma sono indulgenti verso gli squadristi che, ogni domenica, saccheggiano gli autogrill, danneggiano i vagoni dei treni su cui viaggiano (senza biglietto), lasciano macerie al loro passaggio nelle città in cui si recano. E poi si fronteggiano, negli stadi ma soprattutto fuori; esibendo cartelli su cui campeggiano slogan infami; che fanno provare vergogna solo a leggerli.

Gli ultrà. Che, domenica scorsa, hanno interrotto partite (com'era già avvenuto a Roma, tre anni fa), assalito posti di polizia, aggredito giornalisti, ridotto in stato di assedio interi quartieri della capitale. Verso di loro la maggioranza degli italiani chiede comprensione. E indulgenza. Come mostra un sondaggio condotto da Demos, nei giorni scorsi, su un campione rappresentativo della popolazione. Di fronte alle proteste e alle violenze dei tifosi, avvenute dopo la morte di Gabriele Sandri, il 38% degli italiani afferma che "sono sbagliate e vanno fermate con l'uso della forza". Una frazione minima, prossima al 2%, le considera "giuste". Mentre una larga maggioranza (56%) pensa che le violenze, per quanto "sbagliate", vadano comunque "comprese".

Qui non interessa sollevare altra indignazione, verso comportamenti che, evidentemente, non indignano. Neppure esprimere indignazione verso la mancanza di indignazione verso atti che invece la meritano. È nota, d'altronde, la crescente difficoltà di indignarsi, che attraversa la nostra società. La continua ascesa della soglia di tolleranza. Quando il "colpevole" è uno di noi. Vogliamo sottolineare, invece, l'incoerenza, di questo atteggiamento. La "morale ambigua" che anima i sentimenti degli italiani verso gli "altri", ma anche verso se stessi.

Nonostante le polemiche seguite ai tragici fatti di domenica scorsa, la polizia risulta l'istituzione di gran lunga più stimata dagli italiani. Nei loro confronti esprime, infatti, fiducia il 73% degli intervistati. Più di quanta ne riceva ogni altro riferimento associativo e istituzionale. Compresi i più "considerati". Dal Presidente della Repubblica, alla Chiesa, al volontariato. La polizia, "nonostante" le polemiche e le critiche cui è stata sottoposta negli ultimi tempi, continua a godere di grande credito sociale. Perché rispecchia la "domanda di sicurezza" dei cittadini. Ne riflette le paure e le inquietudini. Da ciò il paradosso, l'ossimoro. Impauriti e indulgenti verso i violenti. Dalla parte dei poliziotti ma comprensivi con gli ultrà che li attaccano. Inflessibili contro le illegalità, ma disponibili a "dialogare" con coloro che le commettono. Dentro e fuori gli stadi.

Questa "dissociazione" appare particolarmente acuta tra i più giovani. Il 75% di coloro che hanno meno di 25 anni, infatti, esprime condanna e, al contempo, comprensione verso le violenze degli ultrà. Il 5% le condivide. Ma oltre la metà dei giovani (il 54%, per la precisione) dichiara grande fiducia nelle forze dell'ordine.

Nei sentimenti umani, tuttavia, l'incoerenza, più che un'eccezione, è una regola. Provare, al tempo stesso, paura e attrazione, desiderio e repulsione, odio e amore, disprezzo e ammirazione: non è raro. Il problema sorge quando queste antinomie vengono "ammesse" ed espresse in modo così aperto. Quando l'incoerenza viene riconosciuta e accettata senza disagio. Quando, anzi, appare quasi "normale".

L'incoerenza come diritto. Regola. Adottata in molte altre occasioni. Che ci "legittima" a considerare l'allungamento dell'età pensionabile una necessità ineludibile. Salvo schierarsi, senza se e senza ma, contro ogni riforma che vada in questa direzione.
Che ci spinge ad approvare ogni legge che liberalizzi le professioni, riduca le barriere al mercato dei servizi e del lavoro. Salvo, poi, opporsi, quando tocca la "nostra" professione, la "nostra" lobby, il "nostro" gruppo di interesse. In pratica: sempre, comunque e dovunque. Visto che quasi tutti gli italiani hanno in famiglia qualcuno che appartiene a un ordine, una professione, una corporazione, un club.

Allo stesso modo, quasi tutti fra noi hanno in famiglia un "tifoso". Magari non "ultrà". Ma, comunque, contagiato da sentimenti ultrà, contro amici, familiari, conoscenti e non. Tifosi di altre squadre. Nella vita quotidiana. Perché siamo un popolo di tifosi. Sempre pronti a issare la nostra bandiera. A cantare il nostro inno. Per rivendicare il nostro "frammento" di identità e di interesse.

Noi italiani. Un popolo di tassisti, farmacisti, notai, commercialisti, autotrasportatori, avvocati, veneti, romani, siciliani, interisti, bianconeri, milanisti, laziali, romanisti. Disposti a mettere da parte le nostre divisioni faziose quando di fronte c'è il "nemico Pubblico". Lo Stato. A cui chiediamo, tuttavia, di difenderci. Da noi stessi. Dalle nostre reciproche minacce.

Noi italiani. Invochiamo l'ordine e pratichiamo l'anomia. Rivendichiamo sicurezza ma siamo comprensivi con chi la minaccia. Siamo inflessibili con gli "altri" e con gli "stranieri", ma indulgenti con noi stessi. Abbiamo pochi valori e poche regole comuni. In rapido degrado. Ogni casta, ogni tribù, ogni clan, ogni contrada, ogni famiglia usa la propria bussola etica. Di cui modifica i punti cardinali, in modo disinvolto. A seconda del momento e della necessità. Siamo il Paese dell'Assoluto Relativo. Dalla parte dei poliziotti ma non contro gli ultrà. Inflessibili e indulgenti al tempo stesso. Vogliamo la tolleranza zero. Virgola cinque.
Per questo, a volte, anzi: sempre più spesso, ci capita di provare malessere. Difficile non sentirsi confusi - e un po' infelici - se i confini del paesaggio etico si perdono.

(18 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - In quel teatrino si decide il voto
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2007, 10:40:54 am
POLITICA MAPPE

In quel teatrino si decide il voto

di ILVO DIAMANTI


DA QUANDO Silvio Berlusconi ha annunciato la sua "discesa in campo", quattordici anni fa, la televisione è divenuta una "arena politica". Anzi: la principale.

Luogo di confronto e soprattutto di scontro. Surrogato della partecipazione. Specchio di una società in cui le ideologie sono scivolate via, trasparenti come l'acqua. Quattordici anni, ma sembra essere cambiato poco. Come confermano le polemiche sollevate dalle intercettazioni pubblicate su Repubblica nei giorni scorsi. Hanno rivelato l'esistenza di un fitto dialogo fra dirigenti e giornalisti Rai e Mediaset, negli anni del governo Berlusconi. Allo scopo, esplicito, di proporre una "visione" uniforme della politica. E della realtà.

Anche i dati dell'Osservatorio di Demos-coop, dedicato al rapporto fra cittadini, media e politica, confermano l'importanza della televisione. Certo, negli ultimi anni, altri "canali" hanno assunto una importanza crescente, come fonti di informazione. Le reti satellitari e internet. A cui si rivolge, con regolarità, una quota molto ampia di persone (fra 30% e 40%). Tuttavia, il rilievo dei media "tradizionali" resta dominante. Visto che il 61% degli italiani, per informarsi, ascolta regolarmente la radio, il 63% legge i giornali e addirittura il 94% si rivolge alla televisione. La totalità, quindi.

C'è poi un aspetto ulteriore che rende centrale "l'arena televisiva". La composizione del suo "pubblico". Perché i lettori abituali dei giornali, ma soprattutto gli utenti delle reti satellitari e di Internet, sono più competenti e istruiti rispetto alla media. Mentre la televisione raggiunge tutti. Compresi i settori più disincantati. Gli elettori apatici, mobili, incerti. Quelli che decidono se e per chi votare solo alla fine. Le ultime settimane, gli ultimi giorni prima del voto. Talora: il giorno stesso. E' per questo che la tivù è "ancora" così importante, politicamente. Non solamente in periodo elettorale. Sempre. Perché, ormai, viviamo in tempi di campagna elettorale permanente.

I governi e i leader politici sono sottoposti a valutazione continua. I sondaggi incombono. E valgono quasi quanto le elezioni. Anche perché, dall'aprile del 2006, il voto è sempre lì, alla porta. Il centrosinistra, diviso. Fragile, al Senato. Berlusconi, a cercare la "spallata", per far cadere il governo e andare a nuove elezioni. Così, la tivù ha non solo mantenuto, ma perfino accentuato il suo ruolo. Resta, infatti, di gran lunga, il mezzo di informazione più utilizzato. E se gran parte dei cittadini "diffida" della televisione, tuttavia, "si fida" dei programmi e dei notiziari televisivi.

Il 72% degli italiani ha fiducia nei TGR, il 69% nel Tg1; quindi, in ordine, vengono Tg3, Tg2 e Tg5: tutti intorno al 60%. Gli altri Tg ottengono un gradimento più limitato per effetto - talora determinante - del minor grado di "copertura" delle reti da cui vengono trasmessi. Come La7 e i canali satellitari. Grande consenso, infine, è attribuito ai programmi che incrociano informazione, denuncia e satira (anti) politica. I contro-Tg, come "Striscia la notizia" e "Le Iene".

Gli italiani, quindi, diffidano della televisione, ma hanno fiducia dei Tg (e nei "contro-Tg"). Anche perché vengono usati, anch'essi, come riferimenti politici. Etichette, marchi, in base a cui confermare e rafforzare la propria posizione, i propri orientamenti. D'altronde, l'identificazione con Berlusconi fa di Mediaset una sorta di "bandiera" dell'appartenenza a Fi e, per estensione, al centrodestra. Destra e sinistra, più che la distinzione fra mercato e Stato, richiamano, da tempo, in Italia, l'alternativa fra Mediaset e tivù di Stato.

Nonostante le "relazioni pericolose" fra giornalisti e dirigenti dei due gruppi, rivelate dalle intercettazioni pubblicate da Repubblica. Per cui, come mostra l'indagine Demos-coop, tutti i Tg di Mediaset raccolgono maggior fiducia fra gli elettori di centrodestra. Più di tutti il Tg5. Perché il più autorevole del gruppo. Tutti gli altri notiziari, non solo quelli della Rai, riscuotono, invece, maggior credito fra gli elettori di centrosinistra. Anzitutto il Tg3, effettivamente guidato, per tradizione, da un direttore di sinistra.

Ma lo stesso Tg1, per definizione il più istituzionale, gode di maggiori consensi a centrosinistra. Non solo oggi, che ne è direttore Gianni Riotta. Avveniva anche quando a dirigerlo era Clemente Mimun. Di certo non ostile al precedente governo di centrodestra. Perfino il Tg2, la cui direzione, nella seconda Repubblica, spetta alla destra, viene considerato di "centro", dagli italiani. E, dunque, a sinistra dei notiziari Mediaset.

Lo stesso avviene per i programmi di approfondimento e dibattito. In modo più esplicito. Da Porta a Porta a Ballarò; da Otto e mezzo ad Anno Zero; da Report all'Infedele. Ogni trasmissione è "frequentata", dagli italiani, in base alle proprie preferenze politiche. Salotti animati da padroni di casa "amici". Che conducono la serata in modo da renderla interessante. Stimolano discussione. Suscitano la curiosità degli spettatori. E, talora, li coinvolgono, in modo complice.

A volte predicatori, altre ancora "vendicatori", perfino "giustizieri". Così le trasmissioni di Gad Lerner, Michele Santoro, Giovanni Floris, Milena Gabanelli sono seguite con fiducia soprattutto dagli elettori di sinistra. Mentre a destra apprezzano Enrico Mentana e soprattutto Bruno Vespa. Se Rai1 piace maggiormente agli elettori di (centro) sinistra, Vespa riscuote la stima soprattutto degli elettori di (centro) destra. Più di quanto avvenisse qualche anno fa. Per contro, "Otto e mezzo" viene posizionata, dagli italiani, intorno al "centro". Malgrado il conduttore, Giuliano Ferrara, sia apertamente simpatetico con il Cavaliere. Un po' perché bilanciato da Ritanna Armeni. Un po' perché sta su "La7", rete esterna al bipolarismo mediatico. Soprattutto perché è autocentrico, ma altrettanto "autonomo". Per quel che può valere il mio giudizio: "il meglio" sul mercato.

C'è, dunque, un "mondo mediatico", largamente riassunto dalla televisione, che "rappresenta" la politica e le sue divisioni. Se gran parte degli italiani (il 61%) ritiene che la tivù faccia male alla politica e i politici facciano male a rincorrerla, in effetti avviene esattamente il contrario. Perché i "politici" - grandi, medi, piccoli e piccolissimi - concorrono ad avverare la "superstizione" che vede nella televisione la scena principale, se non l'unica, della "politica come spettacolo". E dello "spettacolo della politica". Per cui cercano, in ogni modo, di divenirne attori. Protagonisti, se possibile; ma anche comprimari o, almeno, comparse. E ciò allarga il solco fra la politica - imprigionata nella "realtà mediale" - e la società - che, invece, vive nella "realtà reale".

Naturalmente, se la politica è racchiusa dentro i media; se il bipolarismo politico e quello mediatico coincidono, allora la questione del conflitto di interessi diviene topica. E la posizione dominante di Berlusconi critica. Come pensa gran parte degli italiani. Ma soprattutto quelli a cui non piacciono né il Cavaliere né le sue reti. Il consumo televisivo, invece, abbassa la sensibilità al conflitto di interessi. A coloro che trascorrono più di 4 ore al giorno davanti alla tivù, la proprietà della televisione, il controllo sull'informazione e sui palinsesti risultano meno preoccupanti. Perché la televisione tende a diventare, per loro, la normalità. La verità. Il paesaggio nel quale ci si muove.

Pensare di modificarlo, intervenendo sulle origini, diviene una questione teologica, più che politica. Perché la "superstizione mediatica" coincide con la realtà. Anche se (in parte) è una "finzione". In cui tutti fingono di riconoscersi. Voi (noi) davanti allo schermo. Non più cittadini, ma spettatori. Pronti a tifare. Ora coinvolti, ora incazzati. Galvanizzati dal giornalista preferito. Informati dal Tg "di riferimento". Sorridete: siete su "Scherzi a parte".

(26 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Partiti e partenti
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2007, 06:20:25 pm
Rubriche » Bussole

Ilvo Diamanti

Partiti e partenti
 

Le cronache politiche di questi ultimi giorni rafforzano il nostro sconcerto. La nostra inquietudine. Il paesaggio politico ci pare affollato eppure un po' spoglio. Assembrato, ma con alcuni vuoti evidenti. Ricostruiamo.

Il dibattito e il voto sul welfare, alla Camera, ha riproposto una varietà di posizioni, tra i "partiti" della medesima coalizione. Rifondazione ha votato a malincuore. I comunisti italiani anche. La sinistra pure. I "diniani" (ma chi sono? Quanti? Che programma hanno? Come si chiamano? Forse, anch'essi PD) hanno preso atto, con soddisfazione, della sconfitta della sinistra radicale e hanno confermato.
Manterranno le "mani libere". Come loro, lo SDI (entrati in Parlamento insieme ai radicali. Ma nel pugno ora sono rimasti solo petali appassiti).

Mastella, stavolta, non ha aperto vertenze. Ma si sa che è "moderato". Per cui, fa proprie le riserva dei diniani, dei socialisti italiani. E le critiche dell'Udc. Tutti, nella maggioranza, si sono dati appuntamento a gennaio. Per una "verifica". A cui parteciperà, immaginiamo, un numero imprecisato di interlocutori. Che corrispondono ai "partiti" presenti nei rami del Parlamento. Compreso il Senato. Dove sono determinanti anche i voti dei "comunisti dissidenti", di De Gregorio, dell'Svp, oltre che dei diniani. E, ovviamente, dei senatori a vita (i quali potrebbero, a loro volta, fondare un "partito", che risulterebbe potentissimo, nonché autorevole e "maturo"). Se si incontreranno tutti, i rappresentanti dei partiti del centrosinistra, insieme ai 105 membri del governo, Prodi dovrà prenotare una sala convegni capiente, con un impianto acustico efficiente.

D'altra parte, il centrodestra non è che in questa fase abbia dato una immagine così compatta e "organizzata". Anche nell'opposizione: tutti con le mani libere. Tutti a recitare, in ordine sparso, le stesse cose. In modo un poco monotono, per la verità. Berlusconi. E' da un anno e mezzo che promette la caduta del governo illegittimo. Echeggiato da tutti i leader del centrodestra, che, nelle dichiarazioni di voto alla Camera, hanno sottolineato, marcato, ribadito: "il governo è al capolinea, la maggioranza non c'è più". Patetico. Perché magari è anche vero... Però l'abbiamo sentito dire, una settimana sì e l'altra pure, da quando Prodi ha ricevuto l'incarico. Se dovesse cadere davvero, a questo punto, non ci crederebbe nessuno. Come al lupo di Pierino. E poi, oggi, la stessa cosa vale per l'opposizione. Per il centrodestra. La Casa delle Libertà non c'è più. L'ha dichiarato, tempo fa, Casini, qualche settimana fa, Fini. La settimana scorsa, Berlusconi. Dove prima c'era la Casa delle Libertà oggi tutti hanno le mani libere. Berlusconi: ha deciso di andare "oltre" Forza Italia. L'ha deciso da solo, come da solo ha fatto e guidato il partito (e, in verità, anche la CdL). Il partito che verrà: si chiamerà Partito della Libertà. O forse del Popolo. Deciderà la gente. Mediante un referendum, le primarie. O, meglio, un sondaggio. Però andare "oltre" FI, non significa scioglierla. Resterà FI e confluirà nel PdL o nel PdP, insieme ad altri che lo vorranno. I circoli della Brambilla, gli amici di Giovanardi. Tutti gli elettori di buona volontà. Mentre Casini e Fini, a loro volta, pensano come "reagire". Come evolvere. Che fare, fuori dalla Casa delle Libertà, con le mani libere.

Ciascuno di loro pensa di "ri-formare" il partito. Lo storico Alessandro Campi, sul Foglio, ha suggerito di sciogliere An. Mentre si parla (lo ha fatto apertamente anche Bruno Tabacci) di una nuova formazione politica, che riunisca An e Udc, nella casa del Partito Popolare Europeo. Ma da tempo, sappiamo, si parla del progetto di aggregare vari soggetti politici che navigano "al centro del mondo politico". Cioè: Udc, Udeur, PDiniano, Di Pietro. Insieme ad altre figure autorevoli. Fra tutte: Montezemolo e Pezzotta. Così al centro diverrebbe, temiamo, una sorta di "terra di mezzo". Dove lo scontro per la leadership potrebbe determinare guerre "personali" e di gruppo laceranti.

Infine, il PD. Con il leader, Walter Veltroni, impegnato a trattare, trattare, trattare. Con gli alleati (si fa per dire) e con i leader dell'opposizione. Fini, Casini, Berlusconi. Maroni. Intorno a una legge elettorale, i cui contorni e contenuti, ormai, sono così fantasiosi da apparire onirici. Il sistema tedesco, spagnolo, francese, il modello comunale con l'elezione diretta dei sindaci; il mattarellum rivalutato e il porcellum corretto.

Veltroni discute e tratta con pazienza, Perché il dialogo, in sé, è un valore in questo Paese spezzato e sbriciolato. Però, oggi, tutti parlano linguaggi un po' incoerenti. E avanza il progetto di un proporzionale con effetti maggioritari e bipolari. Nel frattempo cerca di costruire il PD. Di decidere cosa sarà. Come sarà. Gli organismi, i sistemi di decisione, di reclutamento, di consultazione. Con o senza iscritti? Federale o centrale? Giovane oppure adulto? Femminile oppure no?

Queste alcuni fotogrammi, alcune parole, alcune tracce, che noi abbiamo tratto, raccolto, assemblato, da osservatori interessati e partecipi del paesaggio politico. Affastellati. Alla rinfusa. D'altronde non possiamo che confessare la nostra confusione. Il nostro spaesamento. La difficoltà di tracciare mappe e di impostare bussole. Ci sentiamo scombussolati. Di una cosa, però, siamo certi. Occorrerà tenerne conto.

I partiti oggi sono un participio passato. Partiti. Senza che, per ora, siano arrivati i loro sostituti. C'è molta gente in marcia. Non si capisce bene verso dove. Chiamiamoli partenti.

(29 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'infinita periferia dell'Italia
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2007, 06:56:00 pm
CRONACA InviaStampaMAPPE

L'infinita periferia dell'Italia

di ILVO DIAMANTI


UNA VAMPATA di violenza, per alcuni giorni, ha investito la banlieue parigina. In modo più delimitato, rispetto a due anni fa, quando si era rapidamente propagata intorno a Parigi e in altre città francesi. Per molte settimane. Questa volta, invece, si è concentrata a Villiers-le-Bel. A Nord della capitale.

Contagiando solo la vicina Saint-Denis, teatro di battaglia nel 2005. Inoltre, gli incidenti sembrano essere finiti abbastanza in fretta. Tuttavia, due notti di violenze hanno provocato, tra le forze di polizia, oltre 120 feriti, alcuni gravi. Ovvero: più o meno quanti in tre settimane di scontri due anni fa. Secondo il governo francese, si tratta di delinquenza giovanile organizzata, che ha "sfruttato" un episodio tragico (la morte di due ragazzi in moto, in seguito allo scontro con un'auto della polizia) per scatenare la guerriglia. Insomma: racaille. Teppaglia, feccia... La definizione usata da Sarkozy, all'epoca degli scontri di due anni fa. Quand'era ministro degli Interni. Tuttavia, se si trattasse "solo" di delinquenza comune, un sistema di polizia efficiente, come quello francese, un Presidente determinato, come Sarkozy, avrebbero contrastato il ripetersi di esplosioni violente, in tempi tanto ravvicinati, negli stessi luoghi. A Villiers-le-Ville, Saint Denis e nella banlieue parigina. Dove comportamenti violenti si ripetono con disarmante e straordinaria regolarità. Se ciò non è avvenuto, probabilmente, è perché questa violenza non nasce nel vuoto. Rischiando la banalizzazione sociologica di alcune letture sociologiche (o sedicenti tali) degli anni Settanta: questa violenza è "anche" figlia del contesto in cui esplode. Banlieues degradate, ad alta concentrazione etnica. Strade e piazze difficili da attraversare, per chi non vive nella zona. (E anche per chi ci vive). Tassi di disoccupazione giovanile elevati. Relazioni intergenerazionali difficili. Genitori che non riescono più a esercitare l'antica autorità sui figli. Un'architettura che denuncia "estraneità". Dello Stato, delle istituzioni. Questi quartieri, queste città periferiche "producono" tipi sociali violenti e marginali. Un Paese, come la Francia, ostile alla sola idea di "comunitarismo", intesa come modello di integrazione fondato sulla comune appartenenza religiosa, nazionale, etnica, oggi affronta una situazione peggiore. Alla periferia delle città e nelle città periferiche, emerge, infatti, un "comunitarismo" senza "comunità". Favorito da "aggregati etnici" (non previsti) che hanno perduto i legami (e le capacità di controllo) di una comunità.

Se pensiamo a noi, è forte la tentazione di chiamarsi fuori. Non siamo la Francia. L'Italia è una terra di città piccole e medie. Con rare eccezioni. Un "Paese di compaesani", come l'ha definito il sociologo Paolo Segatti. Che ancora non si è rassegnato al flusso, massiccio, degli "stranieri". E vorrebbe lasciarli fuori. Alle porte della città. Come a Cittadella e in altri comuni veneti, dove, per scoraggiare il flusso dei poveracci, i sindaci hanno emesso un'ordinanza che vincola la concessione agli stranieri della residenza ad alcuni requisiti. Fra cui un reddito minimo intorno ai 500 euro mensili. (Se applicato ai residenti, produrrebbe l'espulsione di numerosi pensionati).

L'Italia non è la Francia. Ma si sta avviando lungo un cammino altrettanto rischioso. Perché si sta trasformando, in modo inconsapevole, in una periferia infinita. Che produce sradicamento, indebolisce il controllo sociale, non contrasta la diffusione di comportamenti violenti.

Nelle nostre metropoli, d'altronde, emergono, da tempo, lacerazioni visibili. A Milano. La "rivolta" del quartiere cinese. Il moltiplicarsi di episodi di ordinaria violenza, nelle periferie, che hanno indotto la sindaca Moratti a promuovere una marcia popolare, per rivendicare maggiore attenzione dal governo. (Come se, durante gli anni precedenti, quando essa stessa sedeva al governo, il problema non esistesse).

A Roma. Dove alcuni eventi drammatici (ultimo: la tragica aggressione di una donna, a opera di un rom) hanno fatto esplodere il malessere delle zone suburbane. Ulteriormente degradate a causa del flusso costante di nuovi immigrati dall'est europeo. Ammassati in baracche provvisorie.

A Napoli. Dove la lunga scia di violenza è, riduttivamente, ricondotta alla "camorra". Mentre riassume i percorsi di "normale devianza", che attraversano alcuni quartieri marginali. Come Scampia: raccontata, con rara efficacia, da Roberto Saviano insieme ad altri autori, in un libro antecedente al fortunatissimo "Gomorra" ("Napoli comincia a Scampia", L'Ancora del Mediterraneo, 2005).

Ma segnali di decomposizione si avvertono anche - soprattutto - nell'Italia minore. Nella provincia "dove si vive bene". Non è un caso che la "crescita della criminalità" sia avvertita soprattutto nelle regioni del Centro (62%; media nazionale 51%: indagine Demos per UniPolis, novembre 2007) e nei comuni medio-piccoli (56%). Indipendentemente dall'effettivo andamento del fenomeno (che le statistiche considerano in calo). Il fatto è che molti, troppi borghi, molte, troppe piccole città si stanno svuotando. Ridotte a grandi supermarket. Parchi giochi. Musei. Oppure, come abbiamo osservato qualche settimana fa, in "cittadelle universitarie". Abitate da - anzi, affittate a - studenti. Mentre gli abitanti si sono trasferiti all'esterno. Creando periferie ricche. Ma pur sempre periferie. Aggregati senza centro. Con scarse relazioni. Cariche di edifici affollati. Oppure costellate da villette pregevoli e cascinali ristrutturati. Una umanità che perde l'abitudine alle relazioni; e il "controllo" sul territorio. Il Nord "padano" e "pedemontano", da parte sua, questa strada l'ha già intrapresa da tempo. E' divenuto una metropoli inconsapevole. Che incorpora una miriade di piccoli comuni. Perduti in un viluppo di strade, punteggiato di rotonde impossibili da attraversare a piedi; mentre chi passa in bici corre un rischio mortale. Anche perché, in Italia, il tasso di automobili è il più alto d'Europa: quasi 6 ogni 10 abitanti. La provincia tranquilla e quieta del Nord. Una galassia puntiforme. Una specie di Los Angeles involontaria. Dove maturano piccoli omicidi, inattesi e feroci. Dove la "comunità" ha perso ogni controllo sulla società e sulle persone. Perché si è decomposta. Né possono surrogarla pallide caricature, come le "ronde" padane. Riescono solamente ad accrescerne la nostalgia.

Difficile riconoscere il paesaggio intorno a noi. E' cambiato troppo in troppo poco tempo. Edificato, impersonale e desocializzato. Dove, per rispondere al malessere che si respira, le persone si chiudono dentro casa. E gli amministratori erigono nuove mura, visibili e invisibili, intorno alle città. Ma anche dentro alle città.

Incapaci di "riconoscere" i problemi, ma anche i propri meriti. Preferendo negarli, per opportunismo. Pensiamo, ad esempio, alle città del Nordest. Le aree che, come dimostrano le statistiche della Caritas e del Cnel, garantiscono livelli di integrazione degli immigrati fra i più elevati in Italia. Ebbene, preferiscono negarlo. Si presentano per quel che "non" sono: inospitali. E rifiutano, anzitutto, di proporsi come un "buon modello" di accoglienza. Fondato sul lavoro, sull'offerta di servizi, espressa dalle associazioni del mondo economico e dal volontariato.

Meglio immaginare il Nord Est come il Far West degli sceriffi. Pronti a spingere la racaille fuori dalle mura della "cittadella" assediata.

E vero, non siamo la Francia, dove le banlieues critiche si concentrano intorno ad alcune metropoli. Nell'Italia del nostro tempo, invece, la periferia dilaga ovunque. Come una metastasi. Alimentata da logiche immobiliari e immobiliariste; da mille paure. Che la politica si limita a inseguire e ad assecondare. La nostra banlieue infinita non ha un aspetto cupo. Piuttosto: "grigio". Un reticolo di quartieri residenziali. Cresciuti, in modo disordinato, intorno a un "centro storico", bello e inabitato. La nostra periferia infinita. Non trasmette identità. Non promuove relazioni. Non comunica regole. Non plasma uno spirito "estetico", tanto meno "etico". Al più: un individuo "mimetico". E insicuro.

(2 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Seconda Repubblica, il lungo tramonto
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2007, 05:00:29 pm
Seconda Repubblica, il lungo tramonto

di ILVO DIAMANTI


Suona un poco strano il ritorno di parole da tempo in disuso. Per esempio: "proporzionale". Echeggia un passato che sembrava davvero passato. Un lemma estratto dal dizionario della "prima Repubblica".

Mentre la transizione verso la "seconda" è fondata sul binomio: maggioritario e bipolarismo. Invece, da qualche tempo, il proporzionale è ritornato alla grande. Sdoganato, negli incontri fra Veltroni e i leader di centrodestra. Soprattutto con Berlusconi. Associato al "modello tedesco" (evocato, fino a ieri, solo nel dibattito sul federalismo). Se ne parla ad alta voce apertamente. A destra e a sinistra. Leader nostalgici (come Tabacci) oppure critici (come Parisi) evocano, con toni opposti, il ritorno al passato. Alla "prima Repubblica".

Sbagliano.

È la fine della "transizione". Oppure, se si preferisce, il "tramonto della seconda Repubblica". Ci si volge indietro per incapacità di andare e, ancor prima, di guardare avanti. Un po' per paura e soprattutto per debolezza. "Rompere" con il passato, dichiarare chiusa un'esperienza, non è facile. Tanto più perché, ora, non ci sono scialuppe e si teme il naufragio. Non è un caso che questo governo continui a marciare sull'orlo dell'abisso. Non precipita solo perché non si trova chi abbia il coraggio di dargli la spinta decisiva. Nella maggioranza, ma anche nell'opposizione. E quando il danno pare irreparabile, interviene il "fato".

Interpretato, giovedì scorso, al Senato, da Francesco Cossiga. Anch'egli rammenta l'improvvisa attualità del passato. Il governo è, quindi, privo di fiducia, ma anche di sfiducia. Solo per questo resiste. La "seconda Repubblica" maggioritaria e bipolare è finita. Nei due poli sono venuti meno i baricentri. Anzitutto, i leader: perché è stata fondata da Berlusconi e consolidata da Prodi. Che hanno trasformato, progressivamente, il bipolarismo in "bipersonalismo".

Berlusconi: ha costruito un partito personale, mediatico, fondato sulla comunicazione, il marketing. Ha "reclutato" gli esclusi della prima Repubblica: post-fascisti, indipendentisti e neodemocristiani. In nome del "nuovo" e dell'anticomunismo. Uniti, per forza e per necessità, da lui. Il Cavaliere. Unico riferimento in grado di "legittimarli", dopo averli sdoganati. L'unica "colla" capace di tenere insieme pezzi così sgranati. Prodi: la reazione degli "altri" all'affermazione di Berlusconi. L'unico ad aver reso possibile la coabitazione (sempre complessa) fra partiti e soggetti politici distanti: per cultura, identità, tradizione. Post e neo-comunisti, ex e neo-democristiani, socialisti, laici, ecologisti, ultra-garantisti e giustizialisti. Non un "padrone di casa", come Berlusconi. Ma un "mediatore". A volte, "amministratore di condominio", altre volte "manager decisionista". Deve la sua forza alla debolezza dei partiti di centrosinistra. Nessuno dei quali in grado di esprimere una leadership condivisa. "Costretti" a stare insieme dalla sfida di Berlusconi.

Un bipolarismo nato e cresciuto attorno a due persone e a due modelli complementari. Da un lato un "partito personale" e dall'altro il progetto di un "partito americano". Nuovo. Capace di rimpiazzare i precedenti. Forza Italia e l'Ulivo (divenuto poi Pd).
Oggi questo percorso è finito, ma stenta a trovare sbocchi.

La "fondazione" del Pd ha sbloccato l'intero sistema dei partiti, sottolineandone (e accentuandone) i limiti. Prodi, l'ispiratore del "nuovo soggetto politico", oggi non ne è più il leader. È, invece, il premier di un governo, sostenuto da una maggioranza eterogenea e frammentata, che esprime valori e interessi diversi e, quasi, inconciliabili. Anche perché vi partecipano, in posizione determinante, liste locali, personali e individuali. Sorte, talora, in Parlamento, meglio: in Senato. Prodi: è il leader dell'Unione. Ma l'Unione, oggi, è un ossimoro. Visto che lo stesso Pd ha determinato, nel centrosinistra, spinte aggregative (la "Cosa rossa") e "disgreganti". Nel complesso: conflittualità e concorrenza.

Nel centrodestra, Berlusconi non è più il "padrone di casa". Perché si è aperta, fragorosa, la "guerra di successione" (come l'ha felicemente definita Adriano Sofri). Fini e Casini, dopo 13 anni di apprendistato e di attesa, hanno scelto di "non morire berlusconiani". Spezzando l'immagine di "giovani promesse", a cui sembravano rassegnati. D'altronde, la giovinezza è passata da un pezzo, anche per loro. Mentre l'ascesa di Walter Veltroni, sull'altro versante, (fino a ieri, anch'egli una giovane promessa) rischia di farli invecchiare definitivamente. Non torneranno indietro.

La Lega, infine, teme a sua volta di ridursi a una piccola corrente autonomista, sperduta in mezzo al Popolo della Libertà. Berlusconi, d'altronde, ha già smontato la vecchia Casa. Perché, appunto, "vecchia". Abitata da inquilini riottosi. Così, senza pensarci su troppo, si è avviato a ri-fondare il partito, convinto di occupare, da solo, lo spazio elettorale degli (ex) alleati. Un partito ancor più "personale".

Tendenzialmente "dinastico". La leadership: ereditaria.
Il gruppo dirigente: figure "cooptate" da lui e selezionate dai suoi consulenti di marketing. Per trasmettere l'idea del nuovo.

La "seconda Repubblica", quindi, è finita. Insieme ai poli, di cui i due leader costituivano i baricentri. Il problema è che nessuno pare in grado di superarne il tramonto. Ci vorrebbero istituzioni nuove, norme condivise. Tanto più se si insiste a battere la strada del maggioritario, che più delle altre esige un ampio consenso di fondo tra i principali attori politici (come ha annotato Leonardo Morlino). Ma non è facile abbattere insieme a Berlusconi una Repubblica inventata da Berlusconi, fondata sul berlusconismo e sull'anti-berlusconismo.

Per cui si torna a guardare indietro. E, come in passato, il dibattito pubblico si concentra sulle riforme istituzionali. Anzi: su quella elettorale. Che ha segnato la fine della "prima Repubblica" e la transizione. Dal 1991 fino ad oggi. Ricorrendo, di volta in volta, al referendum. Nel nome del "popolo sovrano", che supplisce all'incapacità della classe politica e alla crisi del sistema. Il referendum. Come "rito di massa" per "abbattere" la prima Repubblica (nel 1991 e nel 1993). Oppure, quest'anno, come rivolta popolare contro la "casta" dei partiti.

Il tema della riforma elettorale, all'origine della rappresentanza politica, paradossalmente, ha alimentato l'antipolitica. E ne è stato, a sua volta, contagiato. Come pensare, altrimenti, che i cittadini si possano appassionare a un dibattito che verte, in modo ossessivo ed esclusivo, sull'alternativa fra modello tedesco, francese e spagnolo? Fra "mattarellum", "porcellum" e "vassallum"?

Un sondaggio condotto nei giorni scorsi da Demos per "la Repubblica" (campione nazionale rappresentativo, 1.300 casi) sottolinea che circa un elettore su due, fra quelli che guardano con favore il proporzionale, valuta in modo altrettanto positivo il maggioritario. In altri termini: "confondono" il significato dei sistemi elettorali. Una materia da specialisti: non si può chiedere loro di essere competenti come Giovanni Sartori. Per cui la affrontano con un misto di rifiuto e distacco.

Da ciò il rischio, che corre la nostra democrazia in questa fase. Gli artefici della "transizione", del maggioritario bipersonale non sono in grado di chiuderla. Prodi, come ha ammesso, "non può fare miracoli". Berlusconi invece sì. Ma non ha ancora deciso quali. I (non troppo) nuovi protagonisti (Veltroni, Fini e Casini) faticano a liberarsi dei vecchi. Ad aprire una nuova stagione.

Per cui non deve sorprendere che oggi gli italiani esprimano un atteggiamento positivo per Beppe Grillo (57%), in misura molto superiore che per Prodi (29%) e Berlusconi (39%). Ma anche Veltroni (49%) e Fini (50% - sondaggio Demos per "la Repubblica", di prossima pubblicazione).

Un ulteriore segno della "sindrome antipolitica" che attanaglia la società? Forse. Ma se il "tramonto" di questa seconda Repubblica dura così a lungo, la notte comincia a far paura. E, in attesa del "nuovo giorno", si accontentano del V-Day.

(9 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: Ilvo Diamanti - Una generazione in libertà vigilata
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2007, 05:13:42 pm
Rubriche » Bussole

Ilvo Diamanti

Una generazione in libertà vigilata

 
Alcune settimane fa ho dedicato una "mappa" alle "città universitarie". Prendendo spunto - ma solamente lo spunto - dall'omicidio di Perugia. Sottolineavo come tendano a diventare delle "società artificiali" Abbandonate dai residenti, "affittate" agli studenti, i quali vivono fuori "controllo" per le famiglie e le istituzioni. Perché la città "diventa" loro, anche se non "è" loro. E non lo sarà mai, del tutto. Visto che costituiscono una "popolazione in affitto". Di passaggio. Vi trascorreranno alcuni anni, poi andranno altrove. Da ciò l'insicurezza che pervade un luogo dove l'autorità e le istituzioni sono deboli; o meglio: latitano. Restano sullo sfondo. Dove gli studenti, alla fine, rischiano di diventare quasi degli "apolidi". "Non-cittadini" di una "non-città".

Alcuni hanno inteso queste mie annotazioni come un atto di accusa contro i giovani. In particolare: contro gli studenti. Infine, contro il "programma Erasmus", che promuove l'esperienza degli "scambi" internazionali fra università, permettendo agli studenti di svolgere una parte del loro itinerario di studi in altri Paesi.

Chiaramente, non è così.

In primo luogo, ritengo gli anni dell'università fra i più importanti nella formazione non solo culturale e professionale, ma anche personale, dei giovani. E penso, inoltre, che si debbano trascorrere "lontano da casa". Ormai, i giovani vivono in una condizione quasi simbiotica con la loro famiglia. Il che ne allunga la dipendenza e, quindi, i tempi della "maturità". Intesa come "autonomia" e "responsabilità". A trent'anni, mostrano le inchieste dello Iard, circa i due terzi dei giovani risiedono ancora con i genitori. A trentacinque, circa un terzo. Studiare "lontano" da casa, dalla famiglia, diventa, quindi, una delle poche possibilità di "sperimentare" l'autonomia. Non solo per le donne, sottoposte, da sempre, a maggiori "controlli" da parte dei genitori. Anche per gli uomini, dopo l'abolizione del servizio di leva obbligatorio. A prescindere da specifiche valutazioni di merito: occasione di vita comune con altri giovani, di altre regioni, lontano dagli occhi dei genitori. Per questo ho assistito con fastidio alla proliferazione di sedi universitarie in tutta Italia.

Non solo perché ha prodotto dequalificazione. Ma anche perché ha indotto molti giovani e molte famiglie a scegliere l'Ateneo in base alla "comodità". Il corso di laurea prêt-à-porter, nell'Università fuori-porta. Accentuando ulteriormente il vizio italiano del familismo. Oltre a scoraggiare la ricerca di opportunità ed esperienze formative in base alla "qualità". Che non sempre si trova dietro casa. E raramente si incontra in piccole sedi, prive di storia e tradizione.

In secondo luogo, considero, a maggior ragione, l'Erasmus un'esperienza innovativa e importante, per l'Università e per gli studenti.

Dal punto di vista della formazione: favorisce il contatto con atenei di altri Paesi. In alcuni casi, prestigiosi. Impone l'uso - e quindi favorisce l'apprendimento - di una lingua straniera. Che non dovrebbe essere più tale. Nel senso che dovrebbe risultare "normale", per tutti, ma soprattutto per i giovani.

Dal punto di vista della crescita personale: abitua i giovani a vivere con altri giovani, di altri Paesi; ad "arrangiarsi". Sottraendosi, per qualche tempo, ai controlli esercitati - ma anche ai servizi offerti - dai genitori. Di più: credo che, al di là dell'opportunità offerta dall'Erasmus, i giovani dovrebbero progettare una parte, almeno, del percorso universitario fuori dal proprio Paese. Affrontare una laurea specialistica, un corso di perfezionamento, un master nella sede di un altro stato europeo, negli Usa o altrove.

Tutto ciò, però, nulla ha a che vedere con il fenomeno (la deriva) di cui mi ero occupato tempo addietro. La tendenza a "cedere" quartieri e, talora, intere città agli studenti. I quali vengono trattati, i questo modo, da consumatori. Essi stessi, anzi, diventano un "consumo", un'attrazione. La "città dei giovani", abitata da "giovani", abbandonata ai "giovani". Punteggiata di paninoteche, pub, fast-food, club, pizzerie. Dove si celebrano feste e meeting ludici, la notte. Non sono città. Non sono campus. Perché nelle città, come nei campus, la presenza dell'autorità è visibile. Scandite da norme, regole, controlli. Limiti. Che si possono o meno rispettare: ma esistono. Nelle città, in particolare, i residenti sono in larga misura "cittadini". Titolari di diritti e di doveri. Coinvolti nel "governo" del territorio e della società. Ciò che non avviene nelle "città universitarie". Dove gli studenti sono quasi esclusivamente - ripetiamo - consumatori. "Irresponsabili". Tuttavia, non intendo neppure "demonizzare", in modo generico, questi luoghi. Spesso, nelle città universitarie (io insegno e vivo parte della mia vita in una di queste, peraltro bellissima) gli studenti riescono a "vivere e studiare bene". Soprattutto se i residenti non la svuotano e non la riducono a un centro residenziale. In affitto. Si tratta, comunque, di contesti nei quali è più facile il contatto e il rapporto con i docenti. Dove, infine, si formano amicizie importanti e forti. Che durano una vita.

Tuttavia, queste realtà mi sembrano significative ed esemplari del modo in cui è "concepita" e "trattata" la gioventù, oggi. Cioè: come una "minoranza protetta". Una specie in via di estinzione. Accudita, ma, al tempo stesso, "isolata" dalla società adulta. I giovani, vivono in una condizione di "dipendenza dorata" sempre più a lungo. In apparenza liberi, nella realtà molto meno. Perché la loro residenza, il loro progetto formativo, il loro lavoro (precario) e, in definitiva, la loro "sopravvivenza", dipendono dal sostegno dei genitori.

Né li rende "liberi" il fatto che gli ambiti e le figure accanto a cui crescono abbiano perso gran parte della loro autorità: la famiglia, la scuola, le istituzioni locali e nazionali. Al contrario: è, per essi, motivo di ulteriore condizionamento. Perché non si può apprendere il valore della libertà se non ci sono "autorità" con cui relazionarsi, misurarsi; a cui opporsi. Da cui "liberarsi".

Non sono i giovani, né gli studenti, il problema. Il problema siamo noi: genitori, professori, adulti, che abbiamo trasformato la giovinezza in un recinto. Un perimetro chiuso. Da cui i giovani usciranno solo quando saranno talmente vecchi da non mettere in discussione il nostro "potere".

(10 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli italiani prigionieri della sfiducia
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2007, 04:07:47 pm
POLITICA IL RAPPORTO

Gli italiani prigionieri della sfiducia

di ILVO DIAMANTI


A un primo sguardo, la chiave di lettura di questo decimo "Rapporto sull'atteggiamento degli italiani verso lo Stato", condotto da Demos per la Repubblica, è la stessa degli ultimi anni. La sfiducia. Ha sfondato ogni limite. Nei confronti delle istituzioni, soprattutto, ha raggiunto un livello mai raggiunto dal 2000 ad oggi.

Questo sentimento colpisce, in particolare, la magistratura, la scuola, oltre, ovviamente, allo Stato. Anche il consenso verso l'Unione Europea, fra i cittadini, cala al di sotto del 50%. Per la prima volta. Mentre la fiducia nella Chiesa diminuisce sensibilmente. Perdono ulteriormente "credito" le banche. Per non parlare delle istituzioni rappresentative: parlamento e partiti.

Pubblico e privato. Giustizia e interessi. Enti locali e nazionali. Poteri civili e religiosi. Nessun riferimento sembra in grado di conservare credibilità e legittimità fra i cittadini. Nulla di nuovo, potremmo dire, per questo Paese. Dove lo Stato, tradizionalmente, non gode di grande consenso. Tanto più da qualche tempo.

Tuttavia, questa volta, nell'aria si coglie qualcosa di nuovo. Basta considerare con attenzione la "sfiducia", la quale può assumere significati molto diversi.
C'è, ad esempio, una sfiducia "costruttiva", che si esprime quando esiste un'alternativa all'ordine esistente. Ma esiste anche l'inverso: una fiducia "distruttiva", che spazza via un sistema privo di legittimità e consenso. Ancora: c'è la sfiducia "critica", che sfida e sanziona le istituzioni, per costringerle a correggersi. Oppure: la sfiducia "democratica", contrappeso alle tentazioni del potere. Garanzia di libertà. Per citare Benjamin Constant: "Ogni buona costituzione è un atto di sfiducia". Ma c'è anche una sfiducia "cinica", espressa da individui "apoti" o "estranei".

Che intendono "chiamarsi fuori": per ragioni tattiche, opportunistiche; oppure, al contrario, per dissenso radicale. In ognuno di questi casi, però, la sfiducia rivela un orientamento "strategico" dei cittadini nei confronti dello Stato e delle istituzioni. Questa fase, invece, ci sembra caratterizzata da un diverso tipo di sfiducia, che definiremmo "apatica". Senza passione.

Quasi indifferente. Di certo non finalizzata: né al confronto né allo scontro. Ma, soprattutto, non proiettata nel futuro. E' l'aspetto che distingue maggiormente questo Rapporto. Anche nei precedenti emergeva un diffuso sentimento di insoddisfazione retrospettiva e preventiva. Convinti, i cittadini, che "se ieri le cose sono andate male, domani andranno anche peggio".

La "sfiducia apatica", però, va oltre. Non evoca pessimismo, ma eclissi del futuro. Incapacità di guardare e di pensarsi oltre il presente. Anche perché, oggi, il linguaggio della politica e delle istituzioni risulta largamente incomprensibile. Due italiani su tre, d'altronde, ritengono che, ormai, non vi siano più grandi differenze tra i partiti. Certo: metà di essi pensa che "senza partiti non vi sia democrazia"; ma l'altra metà, di riflesso, la pensa in modo diverso. Anzi, circa il 40% sostiene che, anche senza partiti, la democrazia possa funzionare egualmente bene.

Ancora: il 54% degli italiani crede che i partiti debbano disporre di una "base di iscritti". Quindi: di un'organizzazione. Ma il 60% preferirebbe che la scelta del leader scavalcasse ogni vincolo associativo e avvenisse "attraverso elezioni aperte a tutti gli elettori interessati". La stessa indecisione si coglie di fronte alla distinzione fra destra e sinistra.

Insomma, la società italiana oggi appare "confusa". Priva di appigli a cui afferrarsi, per trovare stabilità e sicurezza. Ma anche di punti di riferimento, in base a cui orientarsi e aggregarsi. (Non a caso il Censis, nell'ultimo rapporto, per descrivere la società italiana ha parlato di "mucillagine": un'entità spappolata, senza coesione e senza spessore). Perché gli appigli e i riferimenti mancano. O sfuggono, cambiano di continuo. Oppure ancora: sono incomprensibili. Dal 1991, d'altronde, si susseguono progetti istituzionali, elettorali e politici sempre diversi, sempre provvisori.

Espressi in un linguaggio sempre criptico. Partiti che cambiano nome e cognome; coalizioni a "geometria occasionale". Modelli istituzionali e leggi elettorali in continua evoluzione. Delineano una geografia confusa, dai confini imprecisi. Tra Spagna, Germania, Inghilterra e Francia. Un'ardita opera di sincretismo europeo. Dal sondaggio su cui si basa questo Rapporto, d'altronde, emerge che circa un elettore su due, fra quelli che guardano con favore il proporzionale, valuta in modo altrettanto positivo anche il maggioritario. Non ha in mente un modello diverso e specifico, ma si è, semplicemente, è perduto nel contorto dibattito sui sistemi elettorali. E non si raccapezza più.

E', inoltre, difficile immaginare il "futuro" delle istituzioni in un clima così instabile. Quando il leader dell'opposizione assicura che questo governo è destinato a cadere. Domani. La settimana prossima. Al massimo fra un mese o due. Quando i leader della maggioranza e gli stessi ministri chiedono continue verifiche, minacciano la sfiducia. Senza soluzione di continuità. Difficile non provare sconcerto e senso di precarietà quando idee, valori, norme, istituzioni - i riferimenti della vita pubblica e dell'identità personale - appaiono tanto confusi.

Così, le stesse fondamenta del sistema rivelano qualche scricchiolio un po' sinistro. Il consenso nei confronti della "democrazia" rimane alto. Espresso dal 68% dei cittadini. Ma è in calo sensibile, rispetto agli ultimi anni. Visto che quasi una persona su tre pensa che, almeno per qualche tempo, se ne possa fare a meno. Questa "larga minoranza" cresce ulteriormente nella popolazione giovanile, fino a raggiungere il 40% fra coloro che hanno meno di vent'anni.

I giovani, peraltro, riflettono e riproducono, accentuati, tutti i principali sintomi della sindrome da "presente infinito", che oggi affligge la società italiana. Stressata da orientamenti ambigui e stridenti. Essi, infatti, sono coinvolti in ogni forma di partecipazione. Impegnati a percorrere le vie della protesta. Convinti, più degli altri, che non ci sia bisogno dei partiti. Che destra e sinistra siano distinzioni indistinte. I giovani: esprimono nei confronti di Beppe Grillo il maggior grado di simpatia. Molto superiore a quella attribuita ai principali leader di destra e sinistra. Prodi e Berlusconi. Veltroni e Fini.

Qui è il paradosso italiano del nostro tempo. Questa miscela di sfiducia "apatica", mobilitazione sociale permanente, immaginazione istituzionale e politica senza freni. Questa scena affollata di figure, sigle, bandiere, parole. Non evocano l'antipolitica, ma l'iperpolitica. Troppa politica: sui media, nelle piazze, nei gazebo. Genera instabilità, alimenta distacco, soffoca il futuro.


(13 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Che fine ha fatto il Belpaese?
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2007, 03:24:14 pm
ECONOMIA

Un'inchiesta del New York Times parla di un Paese più povero e infelice. E' vero?

Una lunga e faticosa trasformazione è in atto. Ecco dove ci porterà

Declino, l'Italia ha sempre più paura

Che fine ha fatto il Belpaese?

di ILVO DIAMANTI

 
ABBIAMO discusso fin troppo di "declino", negli ultimi anni. Per questo, probabilmente, il ritorno prepotente di questa "parola" nel dibattito sul destino dell'Italia ha suscitato qualche reazione stizzita e, in generale, una certa prudenza.

Perché il declino è stato usato in altre, precedenti occasioni come una profezia, perlopiù irrealizzata (per nostra fortuna). Oppure come un argomento polemico, volto a indebolire le leadership di governo. Una discussione tutta "interna" al condominio italiano.

Come quella che, alcuni anni fa, ha coinvolto economisti, analisti, giornalisti, attori politici. Divisi in due fazioni: declinisti e antideclinisti. I primi sostenevano che l'economia del Paese perdeva velocità e competitività rispetto agli altri Paesi. Perché l'impresa era ammalata di nanismo, gli investimenti latitavano, le esportazioni calavano. Gli antideclinisti affermavano il contrario. Che si trattava di un ristagno prodotto da fattori e fatti internazionali. A partire dalla crisi provocata dall'11 settembre.

Poi, la discussione si era sopita. Anche perché, nel 2006, molti indicatori avevano cambiato segno. Si era parlato, allora, di ripresa. Il che, ovviamente, mal si combina con il concetto di "declino". Il quale delinea una parabola che ha avviato - irreversibilmente - la fase discendente. Non ammette "riprese". Al massimo, qualche sussulto.

Le date, peraltro, contribuiscono a chiarire i motivi sottesi ai sospetti suscitati da questo dibattito. Acceso negli anni di Berlusconi, si spegne quando al governo torna il centrosinistra, guidato da Prodi. Il quale non possiede poteri taumaturgici tali da invertire la parabola dello sviluppo. All'improvviso. In coincidenza (immediata) con il ritorno a Palazzo Chigi.

"Declino", per questo, è divenuto un concetto ambiguo. Una parola dal significato dubbio. Da usare con cautela. Un lemma del linguaggio polemico della politica. A cui si ricorre per stigmatizzare un governo "nemico".

Così, durante l'esperienza del governo Prodi, si assiste al "declino del declino". Anche se gli indici economici mostrano un andamento contraddittorio, inferiore alle attese dell'avvio. Per prudenza. Per timore di venire nuovamente smentiti dai fatti. E dagli "spiriti animali" (richiamati dal presidente Napolitano, a New York, qualche giorno fa) che attraversano la società e l'impresa italiana. Capaci, altre volte, di tirarsi fuori dalla palude afferrandosi per i propri capelli. Come il barone di Münchhausen.

Sentir parlare ancora di "declino", in modo brutale, sul New York Times, ha suscitato sconcerto. Ha, inoltre, indispettito e "insospettito" un poco. Visto che raramente il Nyt dedica tanto spazio al nostro piccolo Paese di periferia.

Tuttavia, l'autore, Ian Fisher, non è italiano. Non è frenato dalle nostre reticenze e resistenze "locali". Né ha timori nel riproporre stereotipi e luoghi comuni. Ma, soprattutto, non ha puntato sugli argomenti del passato, più o meno recente. L'andamento claudicante dell'economia c'entra poco nella sua ricostruzione.

Che, invece, ha allineato una sequenza di elementi a noi tutti molto noti. L'invecchiamento della popolazione, il calo demografico, i cervelli costretti a emigrare, il sistema politico bloccato, la fatica di fare riforme, il peso del debito pubblico, il distacco dei cittadini dalla classe politica, simbolizzato da Beppe Grillo.

Un ritratto divenuto, infine, di "senso comune". Documentato, per ultimo, dal "Decimo rapporto sull'atteggiamento degli italiani verso lo Stato", condotto da Demos-laPolis e pubblicato sul Venerdì di Repubblica nei giorni scorsi. Con una differenza significativa. L'uso di quella parola. "Declino". Suona come una condanna senza appello. Perché sancisce un destino. Tuttavia, se ci guardiamo dentro, se interroghiamo i nostri sentimenti e i nostri atteggiamenti, i primi a evocare il "declino", anche senza ammetterlo, senza pronunciarne la parola, siamo proprio noi.

Gli italiani, infatti, immaginano il prossimo futuro in modo pessimista. Sotto il profilo economico nazionale e familiare. Per quel che riguarda sicurezza, ambiente, servizi. Per non parlare della politica e delle istituzioni.
Dal punto di vista delle generazioni, ormai, i giovani sono sempre più rari e periferici, nelle gerarchie sociali e professionali. Ma, soprattutto, non si percepisce come il loro destino possa cambiare.

Circa due italiani su tre sono convinti che i giovani, nel corso della vita, non riusciranno a migliorare la posizione sociale raggiunta dai loro genitori (Demos per la Fondazione UniPolis, ottobre 2007). Ancora: una componente rilevante della popolazione ritiene di essere "scivolata" più in basso, nella stratificazione sociale, negli ultimi anni. Un terzo di coloro che si definiscono "ceto medio" denunciano un peggioramento della propria condizione e posizione. La stessa sindrome da "declino" è avvertita da quasi la metà di quanti si sentono "classe operaia", oppure ceto popolare (nel complesso, ancora la maggioranza: 40% della popolazione).

Non stiamo parlando di "dati di realtà", ma di percezioni, atteggiamenti, sentimenti. Cioè, lo stesso. Perché noi siamo ciò che ci sentiamo. E oggi ci sentiamo insicuri e "sfiduciati". Soprattutto quando alziamo gli occhi e ci guardiamo intorno. Quando osserviamo il sistema politico, le istituzioni. La nave in cui siamo imbarcati, tutti insieme. Gli italiani non riescono più a coglierne la direzione, la rotta, la destinazione. Perché la vedono "ferma".

Sentono i timonieri discutere fra di loro senza accordarsi su un itinerario specifico. Peggio, dopo aver navigato "a vista" per anni, colgono parole già udite. (Ricordate il proporzionale?). Per cui li assale il sospetto che si stia tornando indietro. E, in fondo, ne provano quasi sollievo. Perché rientrare al porto da cui si è partiti tanti anni prima è meglio che zigzagare all'infinito intorno allo stesso punto.

Ecco: se il "declino" indica questa attesa di qualcosa che non arriva perché neppure sappiamo più di che si tratta; ce ne siamo dimenticati. Come i soldati asserragliati nel fortino in mezzo al "deserto dei tartari", raccontato da Dino Buzzati. Con la differenza che, in questo caso, il destino (e il nemico) è senza nome. Se tutto questo è vero, allora la definizione funziona. Siamo in declino. Non riusciamo più a spingere sull'acceleratore. A navigare verso un orizzonte, magari lontano e indefinito. Come ogni orizzonte. Tanto meno riusciamo a stabilire una mèta vicina. Un porto nel quale fermarsi per un po', nell'attesa che la nebbia si sollevi. Per questo, respiriamo sfiducia a pieni polmoni.

Tuttavia, non è vero che siamo "infelici", come afferma il Nyt. Nove italiani su dieci si dicono, al contrario, personalmente "felici" (Osservatorio su Capitale sociale di Demos-coop: aprile 2007). Appunto: "personalmente". Felici "nel loro piccolo". Nel chiuso delle relazioni familiari, della cerchia dei rapporti tra amici. Nelle loro case. E, per questo, un poco claustrofobici.

Gli italiani: sprigionano i loro "animal spirits" soprattutto quando agiscono da soli. Oppure in piccoli gruppi, piccole imprese, piccole lobbies, piccole bande. Capaci di scatenare piccoli conflitti dal grande impatto. Gli italiani. Felici a casa propria, ma intimoriti dagli "altri". Dagli stranieri. Una società sterile che ha paura di farsi "contaminare". E medita di rinchiudersi.
La parola "declino", forse, non è del tutto adatta a raffigurare lo stagno in cui siamo immersi. Da cui stentiamo ad uscire, perché ci manca una mappa, una guida, un navigatore.
Però, se ci irrita, se ci scuote, se fa reagire: allora va benissimo.

(18 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'eclissi della bontà
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2007, 11:06:20 pm
CRONACA MAPPE

L'eclissi della bontà

di ILVO DIAMANTI


ALLA VIGILIA del Santo Natale dobbiamo denunciare la scomparsa di un ospite atteso, soprattutto in questi giorni. La Bontà. Da anni, ormai, le sue visite erano divenute saltuarie. Sporadiche. Ma quest'anno non l'abbiamo proprio vista. Forse si è nascosta. Inibita da qualche cartello, che, alle porte della città, la invitava a girare al largo. Su Google, nonostante la stagione propizia, digitando "bontà", la ricerca propone 1.200.000 risultati (link). Poco più di "egoismo". Mentre la parola "inganno" ne restituisce 100.000 in più. Essere o apparire "buoni", d'altronde, non è più considerato un fattore di successo. Ammesso che lo sia mai stato. Oggi, semmai, è un segno di debolezza. In politica, al governo, nell'amministrazione e nella società.

Prodi: ha dovuto contraddire il suo aspetto pacifico e morbido. E se non gli riesce di sembrare cattivo, oggi, almeno, tutti gli riconoscono il merito della "caparbietà". Della testardaggine. Deciso a resistere resistere e resistere. A ogni costo. Veltroni. Ha rinnegato l'invenzione del "buonismo". Dottrina, linguaggio e, al tempo stesso, fisiognomica. Oggi, Walter Veltroni prosegue nella via del "dialogo", che riconosce l'esistenza e la legittimità dell'altro - avversario e non più nemico. Ma è ben deciso a decidere. A spingere il Pd oltre l'Unione. Oltre la mediazione. Perché, in politica e nella vita, oggi non si è credibili senza fare i "duri".

Come Gianfranco Fini. Agevolato dalla biografia politica personale. Oggi è in "guerra": non solo con gli avversari, ma anche con gli alleati. Sopra tutti: Silvio Berlusconi. Il Cavaliere. L'eterno sorriso dell'uomo a cui piace piacere. Protagonista del romanzo popolare della Seconda Repubblica. Una fiction trasmessa senza soluzione di continuità e a reti unificate. Da qualche tempo si sposta da una piazza all'altra agghindato come un esistenzialista degli anni Cinquanta. Un personaggio di Beckett. O, meglio, un rivoluzionario, come l'ha definito, con affetto e ironia, il fedele Confalonieri: "Le immagini di piazza San Babila stracolma di gente che lo circonda, e lui che sale sul predellino dell'auto per salutare, mi ricordano l'arrivo di Lenin in Russia a bordo del treno piombato".

Ma più dei politici nazionali, di governo e di opposizione, a stigmatizzare la "bontà" - come un vizio più che una virtù - sono i sindaci. Definiti, talora, "sceriffi". Formula coniata, anni fa, da Giancarlo Gentilini, sindaco di Treviso per dieci anni (e oggi "sindaco aggiunto"). Nemico giurato di mendicanti, zingari e immigrati. Al cui indirizzo ha lanciato iniziative e invettive dal forte impatto simbolico. Anche se, nei fatti, ha fatto molte cose "buone" (guai a dirglielo, però; la prenderebbe come un'offesa), visto che il grado di integrazione della sua città, certificato dalla Caritas (meritoria organizzazione dal nome fuori moda), è tra i più elevati d'Italia.

Il suo esempio, però, è stato seguito dai sindaci di altre città. Di destra e di sinistra. Da Verona a Bologna, passando per Cittadella e Firenze. Perfino a Roma. Tutti impegnati ad assumere iniziative "emblematiche" contro accattoni, lavavetri, rom, romeni, immigrati-con-meno-di-500-euro-di-reddito-al-mese. I sindaci, d'altronde, più delle altre autorità pubbliche, sono incalzati ogni giorno dalle pressioni dirette ed esplicite dei cittadini. Tuttavia, alcune loro scelte (le più clamorose), più che alla soluzione del problema, sembrano finalizzate a "rassicurare". Esibendo la "tolleranza zero". Insomma: meglio sceriffi che missionari.

L'eclissi della bontà, d'altronde, oggi si riflette in tutte le parole della stessa "famiglia" semantica. Lo dimostra l'impopolarità delle formule che evocano dialogo, mediazione, condivisione. Per esempio: la "concertazione". Per non parlare della "cooperazione". Offuscata da dispute che intrecciano politica e finanza. Per la stessa ragione, è cambiato perfino il significato della "sicurezza". Fino a vent'anni fa era, per definizione, "sociale". E riguardava la salute, la previdenza, il lavoro. Il futuro delle persone e delle famiglie. Oggi, invece, (come mostra una recente ricerca di Demos per la Fondazione UniPolis, ottobre 2007) evoca, per riflesso pavloviano, paura dell'altro. La criminalità comune, ma anche gli immigrati. Le minacce all'incolumità e al domicilio personale. Di conseguenza, alimenta la richiesta di militarizzare il territorio. Di sindaci sceriffi. Appunto.

La bontà si è eclissata anche nelle relazioni di vita quotidiana. D'altronde, 7 persone su 10, in Italia, ritengono che "gli altri, se ne avessero l'occasione, approfitterebbero della mia buona fede" (Demos, novembre 2007). Per questo, anche se si è buoni, conviene dissimularsi. Non rivelarsi come tali. Ma dimostrarsi ostici, spigolosi, furbi. Quantomeno a fini preventivi.

Il linguaggio "pubblico" si è evoluto (si fa per dire...) di conseguenza. Il turpiloquio non è più tale da tempo. Non per caso, la manifestazione, forse, più clamorosa contro la classe politica è stata promossa da Beppe Grillo al grido "Vaffa...". D'altronde, la rissa e l'aggressione (non solo) verbale fanno parte del repertorio di ogni programma tivù, in onda su ogni rete, a qualsiasi ora.

La bontà, invece, è neutralizzata nello "spettacolo". Disciolta nelle diverse varianti del format di Telethon (iniziativa, in sé, meritoria), che scivola da una trasmissione all'altra, da una rete all'altra. Così vediamo le stesse figure che, fino al giorno (e a un'ora) prima, si occupavano dei delitti più efferati e morbosi del momento, cambiare improvvisamente personaggio. Indossare una sciarpa, un nastro, un distintivo. Raccogliere fondi per una "buona" causa. Per tornare, subito dopo, allo stile e al linguaggio di sempre. Così lo stimolo sociale della bontà viene risvegliato, ma a distanza. Ciascuno reagisce individualmente, da solo. Un sms e via. Lo spettacolo continua.

Naturalmente, la "bontà" non è scomparsa. Anzi si sviluppa. È un bisogno biologico. Una pratica diffusa, che si traduce in mille attività solidali e volontarie. Cui partecipa una quota estesa, e crescente, di popolazione. In modo nascosto. Io buono? Per carità! Buono sarà lei!

Tuttavia, la pretesa contraria resta, appunto, una pretesa. L'ascesa di una classe politica inflessibile e muscolare è una leggenda. Un artifizio retorico. In questo Paese dove i governi non riescono a decidere. Prima Berlusconi, abile a deliberare soprattutto sulle questioni che lo riguardavano direttamente. Oggi Prodi, in difficoltà nel contrastare la sfida di categorie professionali piccole ma agguerrite: camionisti, tassisti, controllori di volo. Mentre i sindaci dichiarano guerre che poi non combattono. (Perché non ne hanno i mezzi). Contro pericoli il cui peso emotivo è molto superiore a quello reale. I furti in appartamento, ad esempio, percepiti come una minaccia concreta dal 23% degli italiani (Demos per UniPolis). Mentre l'effettiva incidenza del reato è lo 0,2%.

Insomma, la "cattiveria", più che un volto, è una maschera. Così si spiega il bagno di folla riservato a Sarkozy, a Roma. Lui sì capace di decidere, anche a costo di scatenare conflitti e fratture sociali. In aperto contrasto con tutti. Lavoratori dei trasporti, studenti, operai, bande delle banlieues e intellettuali "da caffè". Senza arretrare. Incrociando, semmai, la spada e il glamour: gli scioperi, Cecilia e Carla Bruni.

In Italia, invece, la fermezza appare, principalmente, uno stile esibito in pubblico. Cui non corrispondono comportamenti coerenti. L'eclissi della bontà, per questo, non è il prodotto di un diverso e opposto codice etico. Né, tanto meno, di un diverso e opposto modello di azione. È, invece, la maschera di un Paese impotente e indeciso. Un Paese in penombra, dove non si intravedono valori e uomini "forti". E, se anche emergessero, sarebbe difficile riconoscerli. Perché il Bambino, se oggi nascesse in Italia, non troverebbe ad attenderlo i tre re Magi. Ma Vespa, Mentana e Cucuzza. La vita in diretta. L'eterno presente. Dove non c'è spazio per la "buona" novella. Ma neppure per quella cattiva.

(23 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Una generazione difficile (da comunicare)
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2007, 07:21:59 pm
Rubriche » Bussole

Una generazione difficile (da comunicare)

Ilvo Diamanti

 
Confesso che non avrei immaginato di ricevere tanti messaggi, di essere oggetto di tanti commenti "postati" sui blog, dopo le Mappe e le Bussole dedicate, nelle scorse settimane, ai giovani, agli studenti e alle città universitarie. Invece, continuano a giungere. Quasi tutti polemici nei miei confronti. A volte (soprattutto nei blog) acidi.

Gli studenti Erasmus dell'Università di Torino ne hanno fatto oggetto di una esercitazione: lettura dei miei testi e successivo commento. Puntualmente critico. Naturalmente, tante reazioni sono segno di interesse. Per questo, le ho lette con soddisfazione. Tutte. Anche quelle "politicamente scorrette" (non poche). Magari mi hanno irritato un poco, all'inizio. Ma solo all'inizio.

Tutta questa attenzione, però, mi ha sorpreso. In particolare, mi hanno spiazzato le critiche rivolte (in larga misura) ad aspetti che, nei miei testi, stanno sullo sfondo; occupano un posto minore. Ancor più le contestazioni a valutazioni ricavate dai miei articoli, ma che non mi appartengono. E sono di segno opposto rispetto a ciò che intendevo sostenere. Evidentemente, il messaggio lanciato sui media, spesso, viene recepito e interpretato in modo molto lontano dalle intenzioni originarie. Per colpa di chi "comunica", soprattutto. (Mia, in questo caso). Ma anche perché viene percepito e decifrato in base ad aspettative specifiche. Così, per quanto io abbia dedicato due distinti e successivi articoli alle medesime questioni, alcuni contenuti hanno suscitato, in molti lettori, opinioni in netto contrasto con quanto intendevo esprimere.

1. Il riferimento al delitto di Perugia, che ha sollevato tanta morbosa attenzione. Per me era solo uno spunto. L'occasione per entrare nella realtà delle città e della "socialità" universitaria. Molti lettori, invece, l'hanno considerato la chiave di lettura dei miei testi. Ritenuti, per questo, un esercizio di voyeurismo perbenista. Ispirato - viziato - dall'intento di stigmatizzare l'intera categoria degli "studenti fuori sede", come si trattasse di una popolazione dedita a pratiche dissolute e goderecce.

2. Da qui la seconda "accusa": generalizzare episodi isolati ed eccezionali all'intera realtà studentesca (peggio: giovanile). Un problema denunciato soprattutto dagli studenti stranieri dell'Erasmus; che svolgono una parte degli studi universitari in atenei di altri Paesi.

3. Dietro a queste "critiche" c'è l'irritazione suscitata da alcuni passaggi dei miei articoli. In particolare, aver definito gli studenti delle città universitarie "non-cittadini" che vivono in "non-città" (echeggiando un concetto di Marc Augé, molto noto: i "non-luoghi"). Quasi degli "apolidi", insomma.

Tornare un'altra volta sullo stesso luogo, nelle stesse città, sullo stesso argomento, a questo punto, può risultare noioso e ridondante. Ma è proprio ciò che, in effetti, sto facendo. D'altronde, può essere utile chiarire alcuni concetti, evidentemente equivoci, viste le reazioni. Assumendomi il rischio - a questo punto calcolato - di sollevare nuovi dubbi, senza risolvere quelli emersi.

Tuttavia, mi pare importante precisare, soprattutto, perché io abbia parlato - consapevolmente - degli studenti come "non-cittadini" che popolano "non-città".
Le "città", per definizione, sono luoghi abitati da "cittadini". Cioè: persone "residenti", titolari di diritti e di doveri. In modo attivo. In quanto sono soggetti alle leggi, pagano le tasse. Partecipano alla formazione del governo locale scegliendo, con il voto, gli amministratori; oppure attraverso l'associazionismo di rappresentanza sociale ed economica (quello studentesco opera solo dentro all'università).

Gli studenti "fuori sede" hanno il domicilio nelle città in cui studiano, ma non vi risiedono. (Gli studenti Erasmus, poi, risiedono in altri Paesi). Certo, sono soggetti alle medesime regole e alle medesime leggi dei residenti, ma non hanno rappresentanza né poteri. Per questo sono "non-cittadini". La "città" in cui risiedono è quella dove vive la loro famiglia. Sono "irresponsabili": perché non sono chiamati a "rispondere" di ciò che riguarda la loro vita. Il loro luogo di vita. Mentre, parallelamente, le autorità locali non si sentono "responsabili" verso di loro. Perché gli studenti non votano.

Tuttavia, nelle città universitarie gli studenti costituiscono una componente rilevante, talora dominante. Non solo dal punto di vista demografico, ma anche economico. Sono una fonte di reddito, per chi affitta stanze e camere, per il commercio e l'artigianato locale. Ma sono anche un fattore di spesa: perché è l'amministrazione locale che gestisce servizi e infrastrutture. Bisogna tener conto, ancora, che gli stili di vita della popolazione dei residenti e degli studenti, per alcuni versi, contrastano. Per cui si assiste, non di rado, a conflitti fra i due mondi sociali. Gli studenti e i residenti: vivono separati. Vicini e al tempo stesso lontani. Le scelte delle amministrazioni locali, tuttavia, sono condizionate dai sentimenti e dalle reazioni dei residenti che li hanno eletti, da cui dipende la loro legittimazione, la loro futura rielezione. Per questa ragione ho parlato di non-città. Per indicare quei contesti abitati perlopiù da non-residenti. In questo caso, dagli studenti. Che sono non-cittadini, perché estranei ai diritti-doveri della rappresentanza. (Non) città che si riducono a contenitori per attività di consumo. E riducono la popolazione (studentesca) in consumatori.

In contesti di questo tipo, d'altronde, si indeboliscono i legami sociali e la presenza dell'autorità. Certo, la realtà giovanile è densa di reti interpersonali, di rapporti di amicizia. Però, per ragioni generazionali, comprensibili, è riluttante ai vincoli e ai controlli. Anzi: per definizione, li contraddice e li contesta. E' ambiente espressivo, emotivo, ricreativo. Inoltre, gli studenti stringono legami (anche affettivi) con l'ambiente locale talora saldi. Ma perlopiù sono di passaggio. Ho usato, per questi motivi, la formula "comunità artificiale".

Le città universitarie, per le stesse ragioni, costituiscono un caso esemplare della condizione dei giovani. Che vengono parcheggiati dagli adulti in luoghi separati, dove vivono fra loro. Una zona (relativamente) franca da regole e autorità. Dove agiscono con limitate responsabilità, pochi poteri e, in fondo, diritti.

Non si tratta di un invito a tenerli di più in famiglia, insieme ai genitori. Al contrario: penso che i giovani debbano uscire di casa presto. Non solo per studiare. Ma per lavorare e per vivere. Non solo da studenti. Ma da cittadini. Oggi, invece, sette su dieci, a ventinove anni, risiedono ancora con i genitori. Perché non hanno ancora un lavoro stabile, una casa propria (costerebbe troppo). Inoltre (come ha osservato Guido Maggioni), è finito il tempo in cui la famiglia, per educare i figli, usava "mezzi autoritari e coercitivi".

Quando (fino agli anni Sessanta) ci si sposava "anche" per fuggire da casa, per liberarsi all'autorità autoritaria dei genitori. Per vivere la propria vita. Per diventare cittadini. Oggi, non ce n'è più bisogno. I giovani possono sperimentare la loro autonomia (relativa) presto. Fin dall'adolescenza si allontanano dalla famiglia, per studiare le lingue, fare corsi di perfezionamento, stages. L'Erasmus. Sono più liberi. Ma al tempo stesso più dipendenti. Figli insicuri di genitori insicuri. I giovani. Condannati a una lunga transizione verso una maturità che non arriva. Purtroppo per loro. E per noi.


(P.S. Fra i motivi polemici nei confronti dei miei articoli, ritorna, frequente, un fastidio stilistico. Verso la mia prosa, che presenta poche virgole e troppe virgolette, oltre a uno sterminato numero di punti - in libertà. Ma, a questo proposito, ho poco da spiegare. Se non che i miei testi si possono trasmettere facilmente per sms)


(24 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - LD leader della LdC
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2007, 10:09:25 pm
Rubriche » Bussole
 
LD leader della LdC

di Ilvo Diamanti


Lamberto Dini, leader dei Liberaldemocratici, ha dichiarato che il suo partito ha levato la fiducia al governo. Che Prodi, quindi, non ha più la maggioranza. Al Senato.

Liberaldemocratici. O forse Liberal Democratici: LD. Una sigla che non ricordiamo di aver visto alle elezioni del 2006. Anche se tante erano le liste, in quell'occasione, che qualcuna, sicuramente, ci è sfuggita. Peraltro, liberaldemocratico è un attributo cultural-politico diffuso. Forse solo gli esponenti della sinistra radicale lo rifiutano. Ma non tutti, probabilmente. Tuttavia, non crediamo che Lamberto Dini parli a nome loro. Dei liberaldemocratici di tutto il Paese. Anche perché dubitiamo che i liberaldemocratici si riconoscano - tutti quanti - nella sua figura. Con tutto rispetto: Ciampi è un'altra cosa. Riteniamo, invece, che si riferisca davvero a un partito. Che, riassunto in sigla, d'altronde, coincide con le sue iniziali. LD come Lamberto Dini.

Già in passato aveva usato lo stesso acronimo. Ma allora si chiamava Lista Dini. O meglio: Rinnovamento Italiano. Presente alle elezioni europee del 1999. Dove ottenne l'1,1%. In cifre: 350mila voti. Immaginiamo che Lamberto Dini, leader di LD, parli a nome loro, quando sostiene che il governo non ha più la maggioranza dei consensi. Non ha più la fiducia del Paese. Ridotta al 25% degli elettori. Per la defezione dell'1,1% degli elettori che egli rappresenta. Forse, però, quando LD parla di un partito, non fa riferimento a "elettori". Ma a singoli senatori. Dini, in primo luogo. Un partito senatoriale, dunque. Da non confondersi con gli altri "nanetti", su cui ironizza, regolarmente, Giovanni Sartori. Perché l'Udeur di Mastella, i socialisti di diversa collocazione, perfino i pensionati si sono presentati alle elezioni. I loro voti - magari pochi - li hanno presi. LD, invece, dopo il 1999 si è embedded in altri contenitori.

L'ultima traccia della sua base elettorale risale a quei 300mila voti o poco più ottenuti alle europee di otto anni fa. Chissà: nel frattempo potrebbero essere cresciuti. Per cui immaginiamo che LD vorrà presentarsi con la propria lista, da solo, alle prossime elezioni. Meglio se con una nuova legge elettorale, in cui la coalizione non sia "premiata" e non divenga, quindi, una soluzione obbligata. In cui ogni lista sia costretta a correre con le proprie gambe. Oggi, però, abbiamo il sospetto che LD indichi un PID: Partito individuale Dini. O, meglio, un PdI. Partito di individui, che si associano per esercitare il loro potere di "ricatto" in Senato. Per il bene del Paese. Ma soprattutto il proprio. Chiamiamolo, allora, più correttamente LdC: Lista della Casta.

(27 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: L'uomo anfibio tra pubblico e privato
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2007, 12:30:32 pm
POLITICA MAPPE

L'uomo anfibio tra pubblico e privato


ROMANO Prodi, negli ultimi giorni, ha polemizzato contro la "sfiducia artificiale". Quel malessere diffuso, fra gli italiani, cui hanno dedicato pagine intere autorevoli testate straniere. Il presidente del Consiglio non contesta queste analisi. D'altronde, tutti i sondaggi le confermano. Ma sostiene, in modo esplicito, che si tratta di sentimenti amplificati.

Costruiti, in qualche misura, "ad arte". Da un'opposizione irresponsabile. Ma anche dai media, pronti a trasformare sussurri in grida. Offrendo ai cittadini una rappresentazione pessimista; in contrasto con la realtà e con ciò che il governo, concretamente, "fa". Anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha contraddetto, con puntiglio, il "declinismo". Le letture che - in Italia e fuori - definiscono il nostro Paese depresso e stagnante. Dal punto di vista economico, demografico e del sentimento. C'è da scommettere che dedicherà una parte, almeno, del suo discorso di fine anno alla questione della fiducia. O del suo complemento: la sfiducia. Per presentare il 2008 come una svolta verso il futuro. Non come la pallida replica dell'anno che se ne va.

Si tratta di polemiche, in parte, giustificate. È vero: la sfiducia è ormai un argomento (forse il principale) di lotta politica agitato contro l'avversario. Da molto tempo. Da quando, cioè, con l'avvento di Berlusconi, si è affermata la "democrazia del pubblico", fondata sulla crescente importanza della personalizzazione, dei media e dei sondaggi.

È altrettanto vero che i media contribuiscono ad alimentare la sfiducia e l'insicurezza. D'altronde, i "buoni sentimenti" non fanno notizia. Non alzano l'audience. Vuoi mettere l'angoscia, la paura, l'odio? La bontà e la carità funzionano solo nelle fiction dedicate ai santi del passato, anche recente. Si tratti di Wojtyla o di San Francesco.

Queste "colpe", tuttavia, non assolvono la politica dalle sue responsabilità. Il senso di precarietà prodotto dall'azione di governo, i conflitti che agitano la maggioranza e l'opposizione. Ma non possono neppure svalutare le radici sociali e soggettive di questo sentimento. Che, invece, sono largamente rimosse. La sfiducia, l'incertezza e la delusione non costituiscono vizi dell'Italia d'oggi. Attraversano i principali Paesi occidentali da almeno vent'anni. Con poche pause. La sfiducia, peraltro, ha una "meccanica" particolare, come abbiamo sottolineato altre volte. Si concentra soprattutto sul "pubblico", ma anche sugli "altri".

D'altronde, il compito della tutela sociale, sanitaria, previdenziale dallo Stato si è spostato progressivamente sui privati. E sul "privato". Il lavoro è sempre più frantumato e temporaneo. Mentre i riferimenti che offrivano ideologia, identità e aggregazione si sono indeboliti. Fatti noti a tutti. Riassunti dal sociologo Richard Sennett nel "declino dell'uomo pubblico". Flessibile perché indebolito dalla "corruzione del carattere". Un fenomeno che si è affermato insieme alla "privatizzazione". Non solo in ambito economico, anche nella vita quotidiana. Dove ciascuno insegue "soluzioni private a problemi privati" (come osserva il filosofo Gilles Lipovetsky). Numerosi segni, d'altronde, rivelano il contemporaneo diffondersi di felicità individuale e infelicità pubblica.

A differenza di quanto sostiene il Nyt, gli italiani sono felici. Ma nel loro piccolo, nella loro vita personale, nella cerchia stretta della famiglia e degli amici. Nonostante le preoccupazioni economiche (il lavoro, il reddito, il costo della vita) stiano spargendo inquietudine anche in quest'ambito. Gli italiani, invece, si sentono insoddisfatti quando si guardano intorno. Quando si rivolgono ai servizi e alle istituzioni. Al sistema pubblico locale e soprattutto statale. Ma anche quando si rivolgono agli altri. Alle persone con cui non hanno consuetudine. (Soprattutto gli immigrati, perché cumulano le paure dell'altro che non ri/conosciamo; e della globalizzazione, che incombe su di noi, facendoci sentire vulnerabili). Per questo crescono le forme di aggregazione "diffidenti" e particolariste. Fondate sull'interesse professionale, locale. Oltre a una pluralità di appartenenze faziose, ideologiche e settarie. Nessuna in grado di marcare linee di confine nette; o di attrarre e mobilitare le "masse". Tutte in grado, però, di opporre veti. Di fare esplodere, insieme alla protesta, la sfiducia generale. Minoranze dominanti.

È difficile, indubbiamente, "governare" ma anche fare politica, mentre affonda l'uomo pubblico. Tanto più se, nel frattempo, l'uomo privato stenta ad emergere. A frasi largo. Perché la rivendicazione di uno "stato minimo" contrasta con la difficoltà (forse: la velleità) evidente di asserragliarsi dentro a un "io minimo" (la definizione è di Cristopher Lasch).

Non per niente il garante Francesco Pizzetti ripete da tempo che stiamo perdendo la "privacy". Mentre Stefano Rodotà sostiene che l'abbiamo già perduta. I nostri dati personali, ormai, vengono raccolti e schedati: a ogni transazione bancaria, a ogni passaggio autostradale con il telepass, a ogni acquisto fatto con carta di credito o bancomat. Per non parlare dei cellulari. Che tutti possiedono. E usano dovunque: a casa, per strada, sul lavoro, a scuola, a pranzo, al cinema, in autobus, in auto. Perfino in Chiesa. Forse per comunicare meglio con Dio. Ciascuno di noi può essere rintracciato e "tracciato", un passo dopo l'altro, attraverso i cellulari. Sempre: il giorno e la notte. E che dire della rete? Google registra e archivia i nostri tracciati su Internet. Attraverso "Google maps", fra non molto, sarà possibile scrutare la nostra vita e i nostri movimenti. Cellulari e rete, insieme: permettono incursioni senza limite nella nostra vita quotidiana. I maggiori scandali degli ultimi anni/mesi, d'altronde, nascono da "intercettazioni". Da Calciopoli all'Unipol a Bancopoli, a Vallettopoli. Fino a quelle pubblicate qualche settimana fa fra dirigenti Rai e Mediaset. Ma, soprattutto: Berlusconi e Saccà. Certo: non si tratta di "gente comune". Però, grandi scandali e grandi intercettazioni rammentano che, a maggior ragione, i più piccoli potrebbero essere ascoltati e osservati. Senza troppi scrupoli.

Tutto ciò avviene senza destare eccessive preoccupazioni. Ci stiamo abituando alla riduzione dello spazio privato. Infatti (indagine Demos per Fondazione UniPolis, ottobre 2007), 1 italiano su 5 si dice disposto a farsi controllare la posta e le e-mail; circa 1 su 3 a permettere il monitoraggio sul proprio conto bancario. In nome della sicurezza. Ma, soprattutto, quasi 9 italiani su 10 chiedono che "venga aumentata la sorveglianza con telecamere di strade e luoghi pubblici". Siamo giunti alla "banalizzazione" della videosorveglianza (come ha scritto il sociologo Eric Heilmann). Le telecamere spuntano dovunque, evidenti. Ma non ci preoccupano. Elettrodomestici a cui affidiamo la soddisfazione del bisogno di sicurezza. Elementi "naturali" del nostro paesaggio quotidiano. Li accettiamo senza negoziarne le condizioni d'uso. Anche se gli obiettivi sorvegliati siamo "noi". Infine, sempre nel nome della sicurezza, si stanno preparando norme e controlli che permettano la schedatura del Dna. (Altrove, come in Francia, è già avvenuto). Degli immigrati, delle categorie "pericolose". Insomma, si mira a legalizzare la raccolta delle informazioni genetiche. La chiave per accedere alla nostra specifica "struttura individuale".
Un'ipotesi largamente condivisa. In nome della paura dell'altro. La banalizzazione e la diffusione delle tecnologie di controllo. L'abitudine a essere spiati senza saperlo. E a spiare gli altri a loro insaputa. La cessione di ogni estremo sistema immunitario della nostra individualità. Tutto ciò suggerisce un paradosso. Mentre celebriamo il declino del pubblico, in realtà, il nostro privato tramonta. Perché siamo sempre "in" pubblico. Siamo sempre pubblico. Spioni e spiati. Allo stesso tempo. Come non essere inquieti? Come non provare sfiducia e paura? La personalizzazione, la mediatizzazione, i nuovi partiti, le riforme istituzionali, lo stesso sistema elettorale. Risposte utili, talora importanti e perfino necessarie per restituire governabilità al Paese e rappresentanza alla società. Ma non bastano. Sono scorciatoie. Se la politica non dà risposte a questo "uomo anfibio", perso nella battigia tra pubblico e privato.

(30 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'auspicio che i giovani salgano a posti-guida
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2008, 05:27:20 pm
CRONACA

Oggi i sentimenti più cupi "abitano" a destra, proprio come due-tre anni fa erano a sinistra

Il privato unico rifugio di speranza.

L'auspicio che i giovani salgano a posti-guida

Il Paese del disincanto invoca il ritorno al futuro

di ILVO DIAMANTI


Il clima d'opinione di un'epoca è segnato dalle "parole". Formule, frasi, slogan, modi di dire, che scandiscono i nostri discorsi. Li ripetiamo all'infinito. Senza accorgercene. Influenzano la nostra visione delle cose, disegnano la realtà intorno a noi. Perché le parole non sono neutrali. Possono cambiare significato, in base all'uso che ne facciamo. Ma, al tempo stesso, il loro uso ripetuto cambia significato alle cose.

Oggi, ad esempio, noi siamo colmi di "sfiducia". E dei suoi derivati: delusione, insoddisfazione, risentimento, disagio, malessere. È il linguaggio del tempo. Ci induce ad essere aggressivi, per autodifesa. Dirsi "buoni" suscita sospetto; oppure sorrisi di comprensione. Perché è sinonimo di "ingenui". Persone perbene ma poco furbe. Mentre a dirsi soddisfatti e ottimisti, a predicare fiducia e benessere, si rischiano commenti e giudizi "storti". Come è capitato a Prodi e Napolitano. I quali, nei loro discorsi di fine anno, hanno parlato, in modo premeditato, di serenità, fiducia.

Elencando altre "virtù" indicibili. Non contenti, hanno ribadito, entrambi, che l'economia e la società italiana non sono in "declino". ("La Spagna", ha ribadito il premier, "non ci ha superato").

Prevedibili le ironie di testate e commentatori che della dissacrazione hanno fatto un brand. D'altronde, la sfiducia e il declino sono meccanismi di delegittimazione istituzionale efficaci. Erodono il consenso di chi governa, da quando l'Opinione Pubblica sovrana non vota più per "atto di fede". E neppure per soddisfazione. Ma, al contrario, per insoddisfazione. E, visto che è insoddisfatta e sfiduciata da una quindicina d'anni, a ogni elezione punisce, puntualmente, chi governa.

Per questo, il sondaggio Demos-Eurisko - dedicato a rilevare gli atteggiamenti degli italiani nel passaggio tra vecchio e nuovo anno - registra una gran dose di pessimismo. Distribuito e tarato, però, su basi rigorosamente "politiche". Il pessimismo, infatti, cresce esponenzialmente scivolando da sinistra a destra.

Dalla maggioranza all'opposizione. Su tutti i temi: dall'economia nazionale al reddito personale; dalla sicurezza alle tasse. Fino alla Politica: la Madre di Ogni Malessere. Certo, qualcuno potrebbe osservare che motivi per essere ottimisti e per "pensare positivo" non ve ne siano molti. Citando, a ragione, le difficoltà crescenti che condizionano la vita di una parte della società ben definita. I lavoratori dipendenti del privato a reddito fisso. Oltre agli intermittenti e agli atipici (in gran numero fra i giovani).

Ma è anche vero che il pessimismo più elevato affligge i lavoratori autonomi e i liberi professionisti più degli operai. Non "gli ultimi", dunque; ma almeno i "quartultimi". Inoltre, qualche sospetto può emergere di fronte a un'impronta politica così marcata. E così variabile. Se oggi il pessimismo abita prevalentemente a destra, due o tre anni fa gravitava esattamente sull'altro versante. A sinistra. Che, allora, stava all'opposizione. Se nuove elezioni rovesciassero l'attuale assetto, è, dunque, probabile che le parti si invertirebbero di nuovo. E la nuvola del pessimismo tornerebbe a oscurare il cielo del centrosinistra.

Tuttavia, al di là del pregiudizio politico che vizia il giudizio sulle cose che ci riguardano, resta l'ipoteca delle parole. Gli italiani, conferma il sondaggio Demos-Eurisko, continuano a dirsi "felici". Anche se in misura minore degli anni scorsi. Dal 90% di due anni fa si è scesi all'80% delle ultime settimane. Però, accettano di dirsi felici solo in "privato". Ma anche rispetto al loro "privato". Sono, dunque, disposti a scommettere che la loro vita "personale", perfino il loro "reddito familiare" possano migliorare, nel corso del 2008. Però, all'esterno, di fronte agli altri, non lo ammetteranno mai.

Invece, la definizione più adatta a descrivere gli italiani - secondo gli italiani - è, coerentemente: "arrabbiati". Seguita, a distanza, da "opportunisti". È probabile, a questo proposito, che gli intervistati ritengano se stessi "arrabbiati" e gli altri "opportunisti". Certo: riusciamo ancora a definirci "ingegnosi", "creativi" e perfino "generosi". Ma usiamo queste etichette con minore convinzione di un tempo. Mentre cresce la tentazione di dirsi "depressi" ed "egoisti".

Il mito degli "italiani brava gente", in altri termini, sembra definitivamente tramontato. Dissolto. Appartiene a un passato che è passato per sempre. Anche se si trattava, appunto, di un mito. Una leggenda, che non reggeva alla prova dei fatti. Un luogo comune; magari poco fondato, ma, appunto, "comune". Condiviso. Orientava la nostra immagine pubblica. Ma anche la nostra auto-immagine. E, di conseguenza, la nostra condotta. Ma oggi pochi italiani accetterebbero di venir chiamati "brava gente". Soprattutto all'estero. Si sentirebbero squalificati.

Imprigionati nell'antica iconografia: sole-pizza-mandolino. (E, tra parentesi, mafia). Oggi la "brava gente" sembra, invece, seriamente e sinceramente incazzata. Perché la criminalità ci insidia, le retribuzioni sono troppo basse, i prezzi continuano a crescere. Mentre i politici si interrogano e discutono a tempo pieno sulla "legge elettorale", che interessa al 4,5% dei cittadini. Nessuno, insomma.
Per questi motivi crediamo che ci si debba (pre) occupare maggiormente delle parole. Del linguaggio con cui esprimiamo la nostra vita quotidiana e il nostro mondo.

Non possiamo che essere "arrabbiati" se le parole di pace e dialogo sono bandite, inutilizzate, inutilizzabili e inutili. Se, quando vengono usate in tivù e nei giornali, noi giriamo pagina e cambiamo canale. Se, quando sono pronunciate da una figura pubblica, diamo per scontato che siano false. Menzogne pronunziate ad arte. Se, quando le sentiamo esprimere nella vita quotidiana, guardiamo chi le ha pronunciate come fosse un nane (dalle mie parti: un tonto). Se, infine, quando le diciamo noi, sentiamo il dovere di scusarci subito.

Il 2008 si inscrive a pieno titolo nell'Era degli Apoti, in cui siamo entrati da tanti anni. Apoti, per citare Giuseppe Prezzolini: quelli che non la bevono. I disincantati. Non i "delusi": ma i "disillusi". Quelli che sono "delusi" per cautela metodica. Per difesa preventiva. Quelli che, negli ultimi vent'anni, hanno visto cadere muri, sistemi politici, regimi, partiti e leader. E li hanno visti riemergere e risorgere. Magari con altri nomi. Per cui non la bevono più. Pronunciano ogni parola con sospetto. Quest'anno sono in allarme di fronte alle incombenti celebrazioni di un quarantennale pericoloso.

Il Sessantotto. Un altro mito rivoluzionario, che evoca sogni, movimenti e mutamenti. Invecchiati e contestati. Come molti dei suoi profeti. Figurarsi: nell'Anno degli Apoti. Meglio neppure pronunciarlo. Un'altra parola-da-non-dire.

Gli italiani, oggi, sono naturaliter arrabbiati. Tuttavia, stimolate, due persone su tre ammettono di pensare al futuro con "speranza". Speranza: una parola sopravvissuta a stento allo spirito (cinico) del tempo. Si associa all'auspicio maggiormente condiviso dalla popolazione, per il nuovo anno: "più giovani ai posti di comando". Immediatamente seguito da: "migliorare la scuola e l'università". E' il "futuro" che avanza.

Sopravvissuto alla revisione del nostro vocabolario. Impoverito dal senso cinico dominante. Non sappiamo per quanto tempo ancora. Perché, di questo passo, molto presto anche il futuro non avrà più un nome. Una parola per dirlo. Così, fra un anno, festeggeremo ancora il 2008.

(3 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Criminalità, quando la percezione diventa reale
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2008, 12:28:51 am
CRONACA MAPPE

Criminalità, quando la percezione diventa reale

di ILVO DIAMANTI


LA COMMISSIONE affari istituzionali, presieduta da Luciano Violante, nei giorni scorsi ha invitato i direttori delle testate giornalistiche e delle reti televisive nazionali a spiegare perché la paura della criminalità continui a crescere mentre il fenomeno tende a ridimensionarsi.

Implicita - e neanche troppo - l'idea che la principale responsabile sia l'informazione televisiva. L'iniziativa ha provocato, da parte dei direttori e dei dirigenti radiotelevisivi, reazioni irritate. Largamente comprensibili e, a nostro avviso, giustificate. Tuttavia, la questione è sicuramente importante. E merita di essere affrontata, una volta di più.

Partendo dal problema di base: il divario fra i dati e le percezioni. Esiste davvero? A nostro avviso sì. L'abbiamo sostenuto altre volte e lo ribadiamo in questa sede. Anche se le statistiche variano, in base alla fonte e al dato rilevato. Si tratti del ministero dell'Interno, dell'Istat, di Eures-Ansa, delle autorità giudiziarie oppure, direttamente, delle Forze dell'ordine.

Comunque, negli ultimi quindici anni il numero dei reati, nell'insieme, non è cambiato. Semmai, in alcuni casi, particolarmente significativi, è calato. Dal 1991 al 2006, gli omicidi volontari si sono ridotti a un terzo (ministero dell'Interno): da 3,3 a 1,1 per 100mila abitanti. I furti in abitazione sono passati dallo 3,6 a 2,4 per mille abitanti. Gli scippi da 1,3 a 0,4 per mille abitanti. Sono cresciute, invece, le rapine: da 0,7 a 0,9 per 1000 abitanti. La percezione della minaccia criminale, invece, negli ultimi dieci anni è cresciuta in modo prepotente.

Nel 1997, l'Osservatorio Ispo (curato da Renato Mannheimer) faceva emergere come il 16% degli italiani indicasse la "criminalità" fra i due problemi più urgenti da affrontare. Due anni dopo, la quota di persone che riteneva urgente lo stesso problema raddoppiava: 35%. Più o meno la stessa percentuale rilevata nel 2002 (in una lista di temi un po' diversa) da Demos. La cui indagine più recente (novembre 2007) pone la "criminalità" al primo posto fra le preoccupazioni degli italiani (40%).

Aggiungiamo che questa tendenza non è specificamente italiana, ma da noi risulta più acuta che altrove. Nell'indagine di Eurobarometro, condotta nello scorso autunno, la criminalità è considerata un problema prioritario dal 24% della popolazione, nell'insieme dei 27 Paesi della Ue; un dato stabile rispetto alla rilevazione primaverile. In Italia la stessa preoccupazione è, invece, denunciata dal 33% dei cittadini. Cinque punti percentuali in più rispetto al precedente sondaggio.

Il divario fra la misura e la percezione della criminalità, a nostro avviso, esiste. Ma spiegare l'insicurezza come un prodotto dell'informazione televisiva è sicuramente sbagliato.

1. In primo luogo, si tratta di una lettura riduttiva, fondata su termini e concetti che, negli ultimi anni, hanno cambiato significato, in modo profondo. Per quel che riguarda il fenomeno della "criminalità", le comparazioni con il passato sono improprie (lo ha notato, di recente, Nando Pagnoncelli). Trascurano il peso, dominante, dei reati che minacciano l'intimità, il domicilio, l'incolumità delle persone. Riassunti nelle definizioni di "microcriminalità" o di criminalità "comune". Ma per la gente "comune" questi reati, commessi negli ambienti di vita quotidiana, costituiscono, la vera "macro-criminalità". Gli stessi omicidi volontari (dimezzati dal 1990 al 2005: da 1695 a 601: Rapporto Eures-Ansa, 2006), d'altronde, avvengono soprattutto nella cerchia familiare e amicale (40%). Il senso di insicurezza è, quindi, cresciuto perché i reati di gran lunga più diffusi ci insidiano direttamente, da vicino. Personalmente. Noi, la nostra casa, i nostri cari.

2. Anche per quel che riguarda le responsabilità dell'informazione televisiva, occorre precisare. Di certo, la televisione è, oggi, il primo e principale mezzo di informazione. L'87% degli italiani afferma di seguire, ogni giorno, le notizie in tivù (Demos-coop, novembre 2007). Tuttavia, lo spazio dedicato dai telegiornali alla "nera" è limitato. Si va dal 2-3% del tempo complessivo, nel 2007, su Tg1, Tg3 e Tg4, fino al 4-5% sul Tg2 e su Studio Aperto (dati Geca Italia). Una frazione troppo piccola per incolparli di aver distorto la percezione degli italiani. E', semmai, utile allargare il campo all'intero sistema della comunicazione. Per quel che riguarda la televisione: ai rotocalchi di approfondimento, ai programmi che miscelano informazione e intrattenimento, alle trasmissioni popolari del pomeriggio e del mattino. E' qui che i delitti di vita quotidiana occupano maggiore spazio. Al punto da divenire sequel di successo.

Inoltre, non dobbiamo trascurare gli altri media. I quotidiani e i settimanali. Non solo perché si rivolgono a un settore particolarmente informato. Ma perché, da quando si è affermata l'informazione su Internet, intervengono sui fatti, in tempo reale. Perché, inoltre, i giornalisti televisivi impostano i notiziari incalzati (e influenzati) dalle edizioni on-line dei quotidiani e dai tg delle reti satellitari (Sky e Rai-News 24, in primo luogo).

3. Tuttavia, ricondurre lo scarto fra realtà ed emozione al ruolo (e alle responsabilità) dell'informazione significa ignorare almeno altri due "colpevoli". Altrettanto significativi. Il primo è il cambiamento del paesaggio urbano e sociale. Il rarefarsi delle reti di solidarietà, dei contatti personali, della fiducia. Le risorse che rendevano più "sicuro" il mondo intorno a noi. Ne abbiamo parlato altre volte: quando non conosciamo chi abita intorno a noi, viviamo chiusi in casa, blindati (porte, finestre, mura), armati, difesi da cani da guardia che ci separano dagli altri; quando il territorio circostante diventa inguardabile e inospitale.

Allora, è difficile non sentirsi inquieti, impauriti. Sperduti. Allora i media diventano sempre più importanti, perché costituiscono il principale, spesso unico canale di relazione con il mondo. E trasferiscono in casa nostra il mondo, con i suoi molteplici motivi di tensione e di paura.

Il secondo "colpevole" è l'ambiente che, nei giorni scorsi, ha "chiamato a rapporto" l'informazione radiotelevisiva: la classe politica. Perché, da un lato, usa la sicurezza e l'insicurezza come armi improprie, per catturare consensi. Alimentando e usando le paure come bandiere e, spesso, come clave. Mentre, dall'altro, non è estranea al sistema mediatico. Al contrario. I politici: sui media, li incontri ovunque.

Soprattutto in tivù. Quando si discute di immigrazione e del costo della vita. Quando irrompono i rifiuti di Napoli. Ma anche nella saga infinita dei delitti "di fuori porta". A Cogne, Garlasco, Erba, Perugia. I politici: pronti a tutto pur di conquistare qualche minuto sugli schermi. Basterebbe chiedere ai direttori delle testate radiotelevisive (giornalistiche e non) quante telefonate ricevano, ogni giorno, da politici (destra o sinistra, non c'è differenza) bramosi di esternare i loro sentimenti e le loro opinioni sui fatti del giorno. In altri termini: di apparire.

Dietro allo scarto fra le misure e la percezione dell'insicurezza, quindi, non ci sono i tg o la tivù in sé. Ma il diverso rapporto fra comunicazione, informazione e vita quotidiana. Che è divenuto diretto e immediato. Le informazioni fluiscono in tempo reale e raggiungono le persone in ogni momento. Per cui, viviamo in un eterno presente. Gli eventi fluiscono, senza soluzione di continuità. Qualcuno sovrasta gli altri. Per una settimana, un giorno, magari un solo minuto.

Il ruolo di chi fa informazione, nel mondo dell'iperinformazione, per questo, è determinante. Nella babele di notizie, che fluiscono senza sosta, i media fissano il punto su cui si concentra l'attenzione di tutti. Come una torcia nella notte - ha suggerito Zygmunt Bauman - illuminano un fatto, un evento, una persona. Assecondati, anzi, sollecitati dal sistema politico, che da tempo ha sostituito la partecipazione con la comunicazione. E ha bisogno di dare un volto, un'identità, un nome all'incertezza incerta che alita nell'aria. E inquieta tutti. Certo, la realtà conta, ci mancherebbe. Ma, per "imporsi", deve bucare la notte.

Incendiare il buio. Altrimenti la notte, dopo un po', cala di nuovo e inghiotte tutto e tutti. E' questo il pericolo da evitare: che la "percezione" sia l'unico "fatto" significativo. Come ha rammentato Ezio Mauro, nel suo viaggio a Torino, intorno alla Thyssen. Dove ha incontrato gli operai. Invisibili, da tempo. Per diventare visibili hanno dovuto bruciare. In sette. Come torce. Ora che si sono "spenti", c'è il rischio che il buio li inghiotta di nuovo.

(13 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Democrazia minima
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2008, 11:44:43 pm
Rubriche  Bussole

Democrazia minima

Ilvo Diamanti


Si odono ancora, distintamente, gli echi delle polemiche sollevate dalla rinuncia di Papa Benedetto XVI a proporre la sua lezione magistrale all'Università "la Sapienza" di Roma. Preoccupato dalla lettera dei 67 professori che avevano espresso il loro dissenso verso la sua visita. E dalle manifestazioni annunciate da alcuni circoli di studenti, anch'essi apertamente contrari all'arrivo del Papa. Anche se, probabilmente, oltre alla preoccupazione è subentrata l'irritazione per il mancato senso di ospitalità (non si invita qualcuno a casa propria per poi comunicargli che i figli lo accoglieranno, all'ingresso, per fischiarlo). Senza trascurare la volontà del Vaticano di far passare la religione civile che coltiva la centralità della "ragione" dalla parte del "torto". Rovesciando sui "militanti laici" la critica di intolleranza che, da qualche tempo, accompagna il rinnovato protagonismo della Chiesa sulla scena pubblica.

Le polemiche dei giorni seguenti (che proseguono ancora) si sono concentrate, soprattutto, sul concetto di laicità, di libertà, pluralismo. In particolare, è stata criticata - giustamente, a nostro avviso - l'azione volta a impedire la lezione di Joseph Ratzinger. Pontefice, ma anche eminente filosofo e teologo: sarebbe stato di casa all'Università. Per contro, altre voci, più circoscritte, hanno insistito sull'inopportunità che l'autorità più rappresentativa della Chiesa aprisse le lezioni di un centro di cultura pubblica e "laica", qual è la più grande università italiana.

Noi, tuttavia, vorremmo spostare l'attenzione dalla luna al dito che la indica. In altri termini, intendiamo soffermarci su un aspetto laterale, rispetto a questa discussione. E, tuttavia, sintomatico del male che affligge il nostro (povero) Paese; e indebolisce la nostra democrazia. Ci riferiamo alla sproporzione delle forze in campo.

Sessantassette professori esprimono il loro dissenso verso una iniziativa dell'Università in cui insegnano. Insieme ad altri 2000 docenti. Affiancati da circa 300 studenti, che manifestano la loro protesta. E la rilanciano giovedì scorso, quando avviene l'inaugurazione. Senza il Papa, ma di fronte al sindaco Veltroni e al ministro Mussi. Studenti molto diversi da quelli del mitico '68. Definiti e auto-definiti "autonomi", non perché si ispirino ai collettivi e ai movimenti "rivoluzionari" degli anni Settanta, ma perché dichiaratamente estranei e antagonisti rispetto ai soggetti politici attuali. "Antipolitici", per usare le categorie del nostro tempo. Ripetiamo un'altra volta: 300 studenti. Trecento: in una Università dove gli iscritti sono circa 140 mila.

Il nostro appunto (e disappunto) è riassunto da questi numeri. Una iniziativa di grande rilievo pubblico e di grande importanza simbolica si è, infatti, incagliata sul dissenso espresso dal 2,8% dei professori e dallo 0,2% degli studenti. Tanta sproporzione suggerisce una considerazione inquietante. La nostra democrazia non è più in grado di sopportare neppure una frazione di conflitto e di opposizione così ridotta. L'opposizione di alcuni professori di Università. Ambiente dove è, quantomeno, normale che vengano espresse distinzioni, differenze; talora "eresie" culturali. La sfida irrequieta e "maleducata" di un drappello di giovani studenti. Ai quali, per età e condizione, va concessa la possibilità anche di sbagliare in proprio. Hanno di fronte una vita per sbagliare con la testa degli altri.

Una democrazia incapace di "tollerare" un dissenso così minuscolo - anche se esprime posizioni "poco tolleranti" - è seriamente malata. Tanto più se, poi, cede. Non è in grado, comunque, di garantire il rispetto delle scelte assunte dagli organi di governo legittimi; condivise dalla stragrande maggioranza della società.

La colpa non è del 2% degli intellettuali che si oppone, né dello 0,2% della popolazione che manifesta. E' delle istituzioni, delle autorità che si arrendono loro.

Una democrazia che, come in troppe, altre, precedenti occasioni, si piega di fronte a pressioni minime. E non sopporta il minimo dissenso. E' una democrazia minima.

(18 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La notte della Repubblica
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2008, 04:44:08 pm
POLITICA IL COMMENTO

La notte della Repubblica

di ILVO DIAMANTI


SETTIMANE come questa lasciano un sentimento di sconcerto di rara intensità. Un giorno dopo l'altro, una cattiva notizia. Un'emergenza.
Senza soluzione di continuità. I rifiuti di Napoli e le polemiche sulla lezione di Benedetto XVI alla Sapienza, annunziata e successivamente annullata. Le accuse dei magistrati a Sandra Lonardo e al marito, Clemente Mastella; e le dimissioni del ministro Guardasigilli. L'appoggio esterno dell'Udeur al governo (un paradosso) e la possibile crisi.

L'inchiesta sulle segnalazioni di Berlusconi a Saccà e la condanna del governatore siciliano Cuffaro per favoreggiamento. E ancora: i contrasti fra Confindustria e sindacato, le proteste dei metalmeccanici. Fino alla nuova tragedia sul lavoro, a Marghera. Non manca proprio nulla al catalogo dei mali italiani - antichi e nuovi. Per cui cresce la tentazione popolare (non di rado praticata) di star lontani dai giornali e dai telegiornali. Oppure, di girare pagina e canale ogni volta che incontriamo la politica, ma anche la cronaca.

L'inverno civile che stiamo attraversando non accenna a chiudersi, tanto meno a intiepidirsi.
Non deve sorprende, allora, se, da molte parti, si evocano i primi anni Novanta. La fine della prima Repubblica. L'avvio di una transizione patologica che non transita mai, ma diventa sempre più indecifrabile.

Molti segni, d'altronde, suggeriscono questo accostamento. Gli (esorbitanti) indici di sfiducia nelle istituzioni e negli attori politici; il ricorso al referendum sulla legge elettorale; gli scontri fra magistrati e politici. Il copione di questa stagione rammenta da vicino quello di quindici anni fa. C'è, per questo, chi invoca il '92; una nuova frattura. Per ritentare l'impresa avviata allora, senza fortuna. Voltare pagina, andare oltre "l'anomalia italiana".

Come la chiamavano gli osservatori stranieri. Come la percepivano, con fastidio, gli stessi italiani. I quali, però, oggi assistono spaesati alla catena senza fine delle cattive notizie. Quasi rassegnati. Perché molto è cambiato dal '92. A differenza di allora, non hanno ganci a cui attaccarsi, né reti che li tengano insieme. Ma, soprattutto, non riescono a guardare avanti. A sperare.

1. Agli inizi degli anni Novanta, gli italiani, di fronte alla dissoluzione dei partiti e alla delegittimazione della classe politica, potevano aggrapparsi ad alcuni appigli. I magistrati, considerati i "giustizieri". I tribuni del popolo indignato, che "non ne poteva più". I nuovi soggetti politici, emersi nel vuoto prodotto dallo sbriciolarsi della prima Repubblica. Partiti: la Lega, la Rete. In seguito, Berlusconi e Forza Italia. An, cresciuta sulle radici del Msi. Mariotto Segni e i referendari. L'Ulivo nascente. Inoltre, i sindaci, che colmavano la distanza fra istituzioni e società "personalizzando" il rapporto con i cittadini su base locale.

La "questione settentrionale", agitata dalle piccole imprese e dai movimenti autonomisti, non marcava solo distacco, ma anche domanda di riforme profonde. E alimentava il disordinato dinamismo del Mezzogiorno. Sotto il profilo economico, dell'associazionismo, delle città.

Poi, ci rassicurava il vincolo esterno imposto dall'Unione Europea. Che ci costringeva a comportamenti finanziari ed economici virtuosi. In fondo, la grande fiducia riscossa dall'Unione Europea in quegli anni rifletteva la grande sfiducia nello Stato e nella classe politica del nostro Paese.

2. Il Paese, per quanto diviso e attraversato da tensioni profonde, nei primi anni Novanta era tenuto insieme da alcune grandi organizzazioni di rappresentanza economica, dalle associazioni volontarie. La "concertazione", promossa da Ciampi (al tempo presidente del Consiglio) insieme a sindacati, Confindustria e, in seguito, ad altre organizzazioni di categoria, costituì un metodo per affrontare la crisi economica del Paese. Ma anche per ridurre il deficit di consenso e di fiducia nelle istituzioni. D'altronde, insieme al "muro" erano crollate anche le ideologie.

Mentre, dopo la fine della Dc, i cattolici si erano "sparsi" in tutte le direzioni, in tutti i principali partiti.
L'Italia, quindici anni fa, nonostante le tensioni e le fratture, appariva un Paese accomunato dalle particolarità; per questo flessibile, capace di adattarsi, di "arrangiarsi" nelle occasioni più difficili. Di reagire alle emergenze. Anzi: di reggere alle fratture (come quella Nord/Sud) e di trasformare le emergenze in motivo di unità e rilancio. Oggi, invece, i colpi e i contraccolpi che scuotono il sistema non suscitano speranza. Solo spaesamento.

3. I ganci si sono sganciati. Rispetto ai primi anni Novanta è cresciuta ulteriormente la sfiducia nei confronti dei "partiti" e dei "politici". La "casta" dei privilegiati (per riprendere il titolo del fortunato libro di Stella e Rizzo). Contro cui si è mobilitata una protesta "antipolitica" molto ampia. Il cui esponente più significativo è Beppe Grillo.

I sindaci, soprattutto al Sud, non fanno più miracoli. Anzi. I cittadini li sentono lontani, quanto e più degli altri politici. Il Paese si è spezzato. Il Mezzogiorno: rientrato nella spirale del sottosviluppo, ricacciato negli stereotipi del passato. Il Nord - e il Nordest, in particolare - impegnato a marcare le distanze da Roma e dal Sud. L'Unione Europea non è percepita più come un'ancora, ma, da una quota crescente di cittadini, come un vincolo, un freno. Il Paese più eurottimista d'Europa, infine, è divenuto euroscettico. Insofferente verso l'euro, considerato responsabile dell'inflazione crescente. Per alcuni attori politici, come la Lega, Bruxelles è, da tempo, come Roma. Entrambe capitali di Stati nemici.

I magistrati non godono più del consenso popolare. La fiducia nei loro confronti si è quasi dimezzata, rispetto a quindici anni fa. Ma è calata anche rispetto a pochi anni addietro. Sono percepiti non più come "garanti" della democrazia, ma come "un" potere in conflitto con gli altri.

4. Non c'è più colla a tenere insieme i pezzi della società e del Paese. Le organizzazioni economiche e sociali - Confindustria e sindacati in primo luogo - appaiono anch'esse largamente "sfiduciate" dai cittadini. Non "concertano" più. Confliggono, si dividono e dividono. La stessa presenza di grandi associazioni oggi appare un po' sbiadita. Le Onlus si stanno trasformando in grandi imprese, per quanto dedite a finalità benefiche. Parte del volontariato si è, anch'esso, aziendalizzato. La compassione e la solidarietà si sono mediatizzate. Praticate a distanza. Un Sms, un'offerta sul proprio conto. Un clic e via. Siamo più buoni.

Cattolici e laici: non definiscono più identità compatibili. Ma sempre più alternative. Solchi di una comunità che non è più tale. Divisa dall'etica e nella politica.

5. Così, anche i rimedi e le terapie non hanno più la stessa presa di un tempo. Lo stesso referendum è accolto dai più (che lo sostengono) come il male minore. Una pistola puntata alla tempia, per costringere il legislatore a legiferare. Ma dopo vent'anni di referendum elettorali, affidare loro una missione salvifica pare davvero troppo. Anche la minaccia di nuove elezioni.

Magari, anzi, probabilmente si avvia a diventare un destino ineluttabile. Ma è difficile immaginare che un nuovo terremoto, uno strappo violento, possa sottrarci a questa condizione miserevole. Perché, quindici anni dopo, è svanita la speranza che aveva accompagnato il "crollo" del sistema. Quasi come un evento liberatorio. Una palingenesi che avrebbe fatto sorgere un ordine nuovo. Uomini nuovi. Per questo, ora che è quasi buio, affrontare la notte di una lunga campagna elettorale fa correre un brivido.

Senza ganci, senza colla, senza cornici. Ma con queste regole, queste divisioni, questi partiti e questi leader, in gran parte responsabili della lunga e improduttiva transizione italiana. Qualcuno è disposto a sperare ancora in un big-bang che riunisca i pezzi di questo Paese a pezzi? E che, per caso (o per caos), ricomponga il complesso mosaico italiano?


(20 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Democrazia minima (1 e 2)
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2008, 09:47:59 am
Ilvo Diamanti

Democrazia minima
 

Si odono ancora, distintamente, gli echi delle polemiche sollevate dalla rinuncia di Papa Benedetto XVI a proporre la sua lezione magistrale all'Università "la Sapienza" di Roma. Preoccupato dalla lettera dei 67 professori che avevano espresso, a tale proposito, il loro dissenso. E dalle manifestazioni annunciate da alcuni circoli di studenti, anch'essi apertamente contrari all'arrivo del Papa. Anche se, probabilmente, oltre alla preoccupazione è subentrata l'irritazione per il mancato senso di ospitalità (non si invita qualcuno a casa propria, come ha fatto il Rettore, per poi comunicargli che i figli lo accoglieranno, all'ingresso, per fischiarlo). Senza trascurare la volontà del Vaticano di far passare la religione civile fondata sulla "ragione" dalla parte del "torto". Rovesciando sui "militanti laici" la critica di intolleranza che, da qualche tempo, accompagna il rinnovato protagonismo della Chiesa sulla scena pubblica.

Le polemiche dei giorni seguenti (che proseguono ancora) si sono concentrate, soprattutto, sul concetto di laicità, di libertà, pluralismo. In particolare, è stata criticata - giustamente, a nostro avviso - l'azione volta a impedire la lezione di Joseph Ratzinger. Pontefice, ma anche eminente filosofo e teologo: sarebbe stato di casa all'Università. Per contro, altre voci, più circoscritte, hanno insistito sull'inopportunità che l'autorità più rappresentativa della Chiesa aprisse le lezioni di un centro di cultura pubblica e "laica", qual è la più grande università italiana.

Noi, tuttavia, vorremmo spostare l'attenzione dalla luna al dito che la indica. In altri termini, intendiamo soffermarci su un aspetto laterale, rispetto a questa discussione. E, tuttavia, sintomatico del male che affligge il nostro (povero) Paese; e indebolisce la nostra democrazia. Ci riferiamo alla sproporzione delle forze in campo.

67 professori esprimono il loro dissenso verso una iniziativa dell'Università in cui insegnano. Insieme ad altri 2000 docenti. Affiancati da circa 300 studenti, che manifestano la loro protesta. E la rilanciano giovedì scorso, quando avviene l'inaugurazione. Senza il Papa, ma di fronte al sindaco Veltroni e al ministro Mussi. Studenti molto diversi da quelli del mitico '68. Definiti e auto-definiti "autonomi", non perché si ispirino ai collettivi e ai movimenti "rivoluzionari" degli anni Settanta, ma perché dichiaratamente estranei e antagonisti rispetto ai soggetti politici attuali. "Antipolitici", per usare le categorie del nostro tempo. Ripetiamo un'altra volta: 300 studenti. Trecento: in una Università dove gli iscritti sono circa 140 mila.

Il nostro appunto (e disappunto) è riassunto da questi numeri. Una iniziativa di grande rilievo pubblico e di grande importanza simbolica si è, infatti, incagliata sul dissenso espresso dal 2,8 % dei professori e dallo 0,2 % degli studenti. Tanta sproporzione suggerisce una considerazione inquietante. La nostra democrazia non è più in grado di sopportare neppure una frazione di conflitto e di opposizione così ridotta. L'opposizione di alcuni professori di Università. Ambiente dove è, quantomeno, normale che vengano espresse distinzioni, differenze; talora "eresie" culturali. La sfida irrequieta e "maleducata" di un drappello di giovani studenti. Ai quali, per età e condizione, va comunque concessa la possibilità anche di sbagliare in proprio. Hanno di fronte una vita per sbagliare con la testa degli altri.

Una democrazia incapace di "tollerare" il dissenso (anche quando esprime posizioni "poco tolleranti"), neppure se è così minuscolo, ci appare seriamente malata. Tanto più se, poi, cede. Se non è in grado, comunque, di garantire il rispetto delle scelte assunte dagli organi di governo legittimi; condivise dalla stragrande maggioranza della società.

La colpa non è del 2 % degli intellettuali che si oppone, né dello 0,2 % della popolazione che manifesta. E' delle istituzioni, delle autorità che si arrendono loro. Una democrazia che, come in troppe, altre, precedenti occasioni, si piega di fronte a pressioni minime. E non sopporta il minimo dissenso. E' una democrazia minima.


(18 gennaio 2008)


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Democrazia minima / 2

Microfisiologia partigiana della crisi


L'analista cinico e disilluso, abituato a trattare in modo cinico e disilluso la nostra democrazia cinica e disillusa potrebbe riassumere in modo cinico e disilluso l'esito di questa legislatura - ansiogena e convulsa. Usando, come approccio la "fisiologia partigiana". La patologia partitica, dettata dalla dipendenza del nostro sistema da una pletora di formazioni piccole e piccolissime. Partiti minuscoli, senza ideologia e senza programma. Perlopiù, riconducibili al solo leader. Alimentati e riprodotti da un sistema elettorale che impone le coalizioni preventive. E da una distribuzione del voto che divide gli italiani in due. Antiberlusconiani contro anticomunisti. Partiti che valgono poche centinaia di migliaia di voti. Per riferirsi all'ultimo punto di crisi: l'Udeur ha raccolto circa mezzo milione di voti, nel 2006. L'1,4% dei voti validi, ottenuti perlopiù in Campania. Determinanti, dato l'equilibrio delle forze in campo. Non solo fra gli elettori, ma anche in Parlamento. E soprattutto in Senato. Dove, infatti, numerosi "soggetti politici" sono in grado di condizionare le scelte della "maggioranza". Partiti individuali - o quasi - e individui senza partito. Pallaro, Di Gregorio, i Liberal-Democratici (LD: come Lamberto Dini), Turigliatto. E altri ancora, la cui visibilità dipende dal momento. Ovvio che ogni partito con basi elettorali limitate e tanto più i partiti individuali, presenti solo in Senato, temano ogni legge che ne metta a rischio l'esistenza. Ma anche l'influenza. Leggi maggioritarie veramente maggioritarie? No grazie. Proporzionali? A condizione che non pongano vincoli troppo esigenti. L'ideale: un proporzionale con soglia di sbarramento allo 0,5%. Oppure, in alternativa: una legge elettorale che "costringa" tutti a indicare le alleanze "prima" del voto. Così che, in un clima di incertezza tanto elevata, nessuno possa rinunciare a nessuno, se vuol vincere le elezioni. Leghe locali, pensionati, casalinghe, consumatori; e domani, immaginiamo, tassisti, professionisti e nimby di ogni genere, tipo e latitudine.

Nessun Vassallum e nessuna bozza Bianco; ma neppure il sistema tedesco (5% di sbarramento? Entrerebbero solo 5-6 partiti). Unica soluzione? Il "nanarellum". Un sistema elettorale che garantisca esistenza e influenza ai "nanetti", come li chiama Giovanni Sartori. Per questo, l'analista cinico e disilluso vede nel collasso di questi giorni un esito annunciato da tempo. A prescindere dalle inchieste dei magistrati. Qualcuno l'aveva pure detto, nei mesi scorsi. Ci pare Mastella, ma non vorremmo sbagliarci. (Anche perché non è il solo ad aver detto cose simili). Recitiamo a memoria: "Se si va al referendum, se questa maggioranza pensa di sostenerlo o di permetterlo; se accetterà "derive" maggioritarie, si sappia che il governo non durerà un minuto di più". Sarà un caso, ma la defezione di Mastella e dell'Udeur è venuta all'indomani della decisione della Corte Costituzionale, che ha decretato la legittimità del referendum elettorale; dopo il sostanziale stallo (fallimento) del negoziato (fra interessi impossibili da comporre) sulla legge elettorale, promosso da Veltroni e sostenuto, a parole, da Berlusconi; dopo la volontà, dichiarata da Veltroni, di far procedere il PD "da solo". Oggi, in sede negoziale. Ma anche domani, alle elezioni.

Sembra la cronaca di una fine annunciata. Colpisce una legislatura che, superato questo cupo gennaio, scivolerebbe, inevitabilmente, verso la prova del referendum.
Una questione di "fisiologia politica": è l'istinto di sopravvivenza dei partiti minimi (e non solo il loro) che sembra spingere alle elezioni, al più presto possibile. Per votare con il vituperato "porcellum". Meglio "porcelli" ma vivi, insomma.

E' una lettura cinica e disillusa, da analista cinico e disilluso. Banale e qualunquista: ce ne rendiamo conto. Utilizza argomenti mediocri. Fa riferimento agli istinti politici più elementari invece che agli accesi dibattiti dei giorni scorsi. Svaluta le polemiche aspre riguardo al rapporto fra magistratura e politica, Chiesa e Stato, cattolici e laici, Nord e Sud. I temi, gravi, della politica economica, finanziaria, internazionale, la sicurezza, l'occupazione, le morti sul lavoro. Trascura perfino la contrapposizione - a suo modo passionale - fra antiberlusconiani e anticomunisti. Dedica attenzione massima a cose minime, insomma. Lo stesso approccio, cinico e disilluso, tuttavia, suggerisce pensieri diversi e quasi opposti. Che sollevano qualche dubbio sulla fine anticipata - anzi: immediata - della legislatura. Sulle elezioni subito: ad aprile. Contro queste prospettive congiura l'istinto di conservazione dei parlamentari. Molti dei quali, se legislatura non arrivasse a metà percorso - se finisse prima di ottobre, insomma - perderebbero il diritto alla pensione. Rinuncerebbero ai numerosi benefit offerti loro dall'attuale carica. Senza alcuna garanzia di venire ricandidati e rieletti. Perché ogni seggio lasciato rischia di essere perso. Perché la concorrenza cresce sempre di più (se Mastella e l'Udeur, putacaso, confluissero nel centrodestra, a chi leverebbero posto? Posti?). Osservazioni venali e veniali di fronte alla gravità del momento e alla serietà dei motivi gridati dagli attori politici che interpretano la crisi attuale. Temi etici, estetici, programmatici, economici, deontologici, istituzionali, costituzionali e altro ancora.
Sbaglia sicuramente l'analista cinico e disilluso, quando descrive una "democrazia minima", i cui destini si decidono a Ceppaloni. Quando racconta farse che finiscono in tragedia.

(24 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Più che una casa, un collegio (la Casa delle Libertà).
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2008, 05:57:56 pm
Ilvo Diamanti

Rubriche  Bussole

Più che una casa, un collegio
 

Molti si sono sorpresi del rapido e disciplinato ritorno a casa di Fini e Casini.

O meglio: nella Casa delle Libertà. Dopo le ripetute polemiche dei mesi scorsi. Quando avevano certificato, a più riprese, la fine della coalizione, a causa dell'ultima invenzione del Cavaliere: un nuovo partito. Deciso in pochi giorni, da un uomo solo. Lui. Silvio Berlusconi. Artefice di Forza Italia, del Polo e della CdL. Deciso a cambiare ancora. Un nuovo soggetto politico. La scelta del nome affidata alla "gente comune", chiamata a esprimersi nei gazebo sparsi nelle strade e nelle piazze. Popolo della Libertà o Partito della Libertà? Barrare la casella corrispondente. Un luogo politico in cui far confluire tutti gli elettori - ma anche tutti i partiti - di centrodestra. L'ultima provocazione. Quasi una minaccia. Quasi che Fini e Casini potessero venire espropriati del loro partito e dei loro elettori da un giorno all'altro.

Da ciò le tensioni. Sottolineate da affermazioni perentorie, sulla stessa lunghezza d'onda: "Il Cavaliere pensi a Casa sua, tanto la Casa delle Libertà non c'è più". Non era vero, evidentemente. Poche settimane e tutto come prima. Gli stessi uomini nella stessa Casa. Il proprietario, Berlusconi, e gli inquilini: Fini e Casini. Oltre a Bossi. D'altronde, in questa situazione, ogni diversa possibilità appare impossibile. Il collasso improvviso del governo, la prospettiva - inevitabile - delle elezioni anticipate, con il Porcellum, che nessuno è riuscito a riformare, nonostante molti incontri, molti progetti e molte parole (vane). Lascia pochi margini di manovra ai partiti del centrodestra. L'unico modo per rivincere, sfruttando l'onda della sfiducia nei confronti del governo e del centrosinistra, è ripresentarsi uniti. Tutti. Intorno all'inventore di questa alleanza considerata impossibile, prima. Post-fascisti, nazionalisti e indipendentisti, nuovisti e neodemocristiani, nordisti e sudisti: tutti insieme. Solo Berlusconi poteva provarci e, prima ancora, pensarlo.

In seguito, questa Casa divenne una specie di Collegio. Difficile da abbandonare. Ogni volta che qualcuno aveva cercato di uscirne, si era perduto. Fini e, prima ancora, Bossi e la Lega. Erano rientrati, uno alla volta, nella Casa del Cavaliere. Perdonati e premiati.

D'altronde, senza di loro, il Cavaliere non era in grado di vincere (lo aveva sperimentato nel 1996). Ma senza Berlusconi, il destino degli altri è la marginalità. Prigionieri uno dell'altro. Ma con ruoli definiti e stabiliti. In particolare: il leader. Il sovrano. Sempre lo stesso. Anche questo spiega le insofferenze e le intemperanze dei due leader alleati. Fini e Casini.

Costretti a giocare da anni, e per chissà per quanto ancora, la parte delle "giovani promesse", dei candidati al "dopoberlusconi". Una "guerra di successione", come aveva riassunto, argutamente, Adriano Sofri i conflitti degli ultimi mesi in seno alla CdL. Rinviata, ancora una volta. Fino a quando, almeno, resterà in vigore questa legge. Che obbliga le forze politiche a coalizzarsi. Pena la sconfitta. E, infatti, Veltroni, quando promette che il Partito Democratico correrà da solo, non si illude. Ma pensa che sia necessario perdere oggi per vincere domani.

A destra, invece, Fini e Casini non ci sperano. Fini: conta ancora di succedere al Cavaliere. Il suo è il secondo partito della coalizione. Lui è il leader più stimato dagli italiani, insieme a Veltroni. Chissà. Se Berlusconi decidesse di fare altro. Magari, di salire al Colle non solo per consultazioni. Chissà. Dovrebbe toccare proprio a lui. (Ammesso che, alla fine, non prevalga una dinamica di tipo dinastico a favore di un erede della famiglia regnante...). Casini, invece, ormai dispera. Berlusconi non si fida più di lui. E viceversa.

Lui sa che non potrà succedergli. Inoltre, ha manifestato altre volte intolleranza per la condizione di "giovane di belle promesse", a cui è condannato da trent'anni. Ormai ha i capelli bianchi, è stato Presidente della Camera. Viene da un'altra Repubblica. Ad assistere Berlusconi, vent'anni dopo Forlani: proprio non ci sta. Però: il suo gruppo dirigente e i suoi elettori non lo seguirebbero. Lo ha verificato a proprie spese Follini, quando, meno di tre anni fa, sfidò Berlusconi. Sostenne che non era il candidato-premier giusto per il centrodestra. Che, comunque, bisognava superare lo statuto monarchico del centrodestra. Con l'esito di trovarsi solo, nel suo partito. E, quindi, fuori. Poi: il suo elettorato, soprattutto nel Mezzogiorno (la maggioranza), non accetterebbe di cambiare schieramento. A sinistra: mai. E, forse, neppure al centro. Meglio insieme a Berlusconi, soprattutto se promette il ritorno al governo.

Così, Tabacci, democristiano e proporzionalista irriducibile e senza pentimento, convinto; da sempre, che la via giusta è quella di mezzo, privo di ambizioni leaderiste, se n'è uscito, a sua volta. Tenterà di aprire uno spazio "autonomo", al centro, insieme all'ex leader della Cisl, Savino Pezzotta. Contando sul peso della tradizione moderata, ma anche sul disgusto di molti elettori, frustrati dagli esiti del bipolarismo di questi anni. Casini, invece, è rimasto a Casa. Con Fini e Bossi.

La foto di gruppo, in vista delle prossime elezioni, li vedrà tutti insieme, accanto al Cavaliere. Come nel 1994, nel 2001 e nel 2006. A conferma di una verità nota. Nel centrodestra il partito unico c'è sempre stato, anche se continua a proporre sigle diverse. Unito - e magari talora disunito - intorno a un leader. L'unico fattore capace di tenerli insieme. Ieri, oggi. Forse domani. Di certo, non c'è bisogno di primarie per indicarlo. Né di concorsi per indovinarlo.

(31 gennaio 2008)

DA repubblica.it


Titolo: Passioni apatiche nel Paese del mah
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2008, 03:56:25 pm
POLITICA MAPPE

Passioni apatiche nel Paese del mah

di ILVO DIAMANTI


MANCHERANNO due mesi e mezzo alle elezioni. Giorno più, giorno meno. L'incarico esplorativo affidato a Marini dal presidente Napolitano, allo scopo di formare un governo tecnico che riformi il sistema elettorale, risponde a un fine giusto quanto impraticabile. Scrivere una legge elettorale peggiore di quella attuale è, certamente, una missione impossibile. Ma l'idea di comporre, in qualche mese, orientamenti e interessi apertamente divergenti, anche fra partiti dello stesso schieramento, lo è altrettanto.

Se non al prezzo di compromessi improbabili. Col rischio di passare dal "porcellum" al "pasticcium". Per questo conviene essere realisti. La campagna elettorale è già cominciata (anche se non è mai finita). Difficile credere a governi di "pacificazione". Visto il clima politico di questa breve legislatura, la stessa formula appare sarcastica. Una presa in giro. Neppure le associazioni economiche, che pure hanno sostenuto questa esigenza, ci credono davvero. Al più, auspicano, come ha fatto ieri Montezemolo, una fase costituente. Ma "dopo" le elezioni.

Tuttavia, sbaglia chi vede nel voto una svolta, in grado di scuotere l'opinione pubblica. Un colpo di cancellino e via: il passato è passato. Si ricomincia daccapo. In effetti, dubitiamo che ciò possa avvenire. E, a nostro avviso, ne dubitano gli stessi italiani. I quali guardano al prossimo voto senza troppe illusioni. D'altronde, voltar pagina potrebbe significare il ritorno, due anni dopo, della stessa coalizione che ha governato il Paese dal 2001 al 2006. Un uomo solo al comando: Silvio Berlusconi. E intorno Fini, Casini, Bossi. Magari insieme ad alcune "new entries": Mastella e Dini.

Insomma: il nuovo che avanza. Difficile che questa prospettiva possa restituire speranza ai cittadini. Come era avvenuto nel 2001, quando, davvero, molti italiani si affidarono al Cavaliere perché, dopo tanti sacrifici, volevano finalmente essere felici. Pochi anni e la speranza finì sepolta sotto una valanga di delusione. Da cui Prodi e il governo di centrosinistra non sono riusciti a liberarli. Al contrario. Tuttavia, pensare che gli italiani possano affrontare con entusiasmo la prossima scadenza elettorale. Che ritengano sul serio la CdL (divisa da ambizioni personali e di partito, ma unita dal "porcellum" e dal Cavaliere) capace di cambiare l'Italia, rilanciare l'economia, ricucire gli strappi della società, ricostruire un clima di fiducia.

Sembra sinceramente troppo. Diciamo, allora, che gli italiani si sono adattati a vivere questa "vita in diretta". On-line. Come su Internet. Dove navighi a vista, visiti siti e incontri persone, comunichi e giochi. Poi, quando sei stanco, spegni e riaccendi. Se il computer non funziona, resetti. E ricominci. Tutto come prima.

Siamo un Paese attraversato da "passioni apatiche". Scosso da emozioni sterili. Arrabbiato per default. Si va al voto, si reclamano elezioni subito, senza illudersi che serva veramente. Che le cose possano cambiare sostanzialmente. Un po' come i processi infiniti, che vanno in onda a tempo pieno e si svolgono sotto gli occhi di tutti. Un tempo erano confinati in uno spazio dedicato: "un giorno in pretura". Poi si sono trasferiti "tutti i giorni da Vespa, Mentana e Cucuzza".

Con i protagonisti presenti, al gran completo: avvocati, imputati, testimoni, magistrati, psicologi, preti, criminologi, criminali, giornalisti, esperti. Affiancati da politici, veline e cuochi. I processi e le indagini si svolgono in diretta, sui media, perché non importa giungere a una soluzione. Scoprire i colpevoli. Anzi: è vero il contrario. Infatti, spesso, raggiunto il successo mediatico, i casi certi diventano incerti. I colpevoli predestinati diventano presunti e poi neppure quello. Cogne, Garlasco, Perugia. Oggi perfino Erba. Il che, da un certo punto di vista, è bene. Perché è giusto che la giustizia sia giusta. Ma il problema è un altro. Le persone si sono abituate al caso insoluto. O meglio ancora: il caso - personaggi e interpreti - per loro diventa più interessante della soluzione. "Passioni apatiche". Appunto.

Questo Paese dei casi insoluti, dei governi incompiuti, delle transizioni eterne. (Dopo 16 anni è lecito definire l'Italia una "Repubblica transitoria"). Ormai assiste all'esplosione di emergenze che diventano normali. Guarda Napoli, sepolta dai rifiuti. Da settimane, mesi. E immagina che lo sarà ancora: fra settimane e mesi. (Tanto più, visto che il disgusto e la protesta costituiranno importanti temi di campagna elettorale, determinanti ai fini del risultato).

Così gli scandali, sollevati a colpi di intercettazioni pubblicate e riprodotte sui media. Interpretate in tv, come fiction. Ormai ritornano, a ritmo regolare. E investono, in modo bipolare, destra e sinistra. Per cui nessuno, ormai, crede che verranno davvero risolti. Che si giungerà a una soluzione definita e definitiva. Che qualcuno pagherà. Un po' come la grande enfasi sulla Casta. Che infuria da mesi e mesi. Contro i privilegi della politica e della sottopolitica. Dei politici e dei sottopolitici. Che abitano le stanze del Palazzo e delle palazzine di provincia.

Fin qui, è servita a produrre best-seller editoriali, a elevare gli indici di ascolto delle trasmissioni televisive, a generare una miriade di blog e di meet-up di denuncia e protesta. E a promuovere manifestazioni partecipate e indignate. Con il risultato che alle prossime elezioni voteremo con la stessa legge elettorale, per liste decise dalle segreterie nazionali, senza possibilità di scelta per i cittadini. In altri termini: passeremo dalla Casta alla Casta.

Questa rabbia sterile e diffusa: invade la vita quotidiana e contamina il linguaggio. Fino a divenire un genere, uno stile di comunicazione. Fa vendere giornali e alza l'audience delle trasmissioni. La denuncia gridata, personalizzata, senza soluzione di continuità, a lungo andare, mitridatizza tutti. Perché ci si assuefa, in fondo. A questo mondo di ladri e malviventi. Veri e presunti. Inseguiti dagli inviati di Striscia e delle Iene. Intercettati da servizi segreti e agenzie private. Denunciati sui media, da cui ottengono spazio e visibilità. Fino a divenire, a loro volta, protagonisti. Eroi. Negativi: ma pur sempre eroi. Al centro della scena.

Questa protesta che dilaga ovunque, senza trovare soluzione. Sbocco. Quasi un fenomeno espressivo: si protesta per liberare il risentimento che sentiamo dentro di noi. Ma non per "ottenere". Al massimo per "impedire". Per porre e imporre veti. Rassegnandosi, però, a non cambiare.

Queste "passioni apatiche": generano una società impassibile. Che accetta le divisioni, perfino le contrapposizioni più radicali, senza reazioni forti. Pensiamo alle tensioni territoriali, alla frattura tra Nord e Sud. Aveva suscitato mobilitazioni violente, quindici anni fa, sulla spinta della Lega. Oggi sono date per scontate. A Nord: i cittadini vivono e gli imprenditori producono "come se" Roma non ci fosse. Votano Lega o Forza Italia. Per inerzia. Mentre in gran parte del Mezzogiorno prevale la rassegnazione ad essere tornati "Sud". Periferia economica e sociale. Che usa la politica come una risorsa particolarista e localista.

Più della legge elettorale, delle elezioni anticipate, del "porcellum" e del governo tecnico, è questo cielo grigio, è l'atmosfera uggiosa di questi giorni, che ci preoccupa maggiormente. Questo scenario in cui ciascuno è indotto ad arrangiarsi (l'arte in cui gli italiani riescono meglio - secondo gli italiani stessi). Questo Paese del mah... ("Come ti va?". "Mah...").
E ci preoccupa, personalmente, l'impressione di scrivere, da tempo, lo stesso articolo. Con parole neppure troppo diverse. Di tratteggiare la stessa mappa, una settimana dopo l'altra. Probabilmente, la "passione apatica", dopo un'osservazione prolungata e ravvicinata, ha contagiato anche noi.

Dopo aver trascorso troppo tempo a fare diagnosi, promettiamo, da domani, di interrogarci anche sulle terapie. Sapendo, però, che accettare e riconoscere la malattia è la prima condizione per guarire. L'altra, più difficile, è voler guarire davvero.


(3 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Presidenzialismo all'italiana
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2008, 09:14:18 pm
POLITICA

MAPPE

Presidenzialismo all'italiana

di ILVO DIAMANTI


Ci stiamo avviando a un'elezione di svolta. Sancisce l'avvio di una democrazia dell'opinione, personalizzata e mediatica. Caratterizzata dalla competizione diretta fra i leader. Due fra tutti: Silvio Berlusconi, appunto, e Walter Veltroni. Come in Francia oppure negli Usa. Anche se in Italia non vige un sistema presidenziale, i principali candidati e i principali partiti agiscono "come se" fosse così.

E' questa la novità. Non solo Berlusconi, anche Veltroni si comporta da candidato presidenziale. Non solo il Popolo della libertà, l'ultima invenzione del Cavaliere: anche il Partito democratico agisce da partito "presidenzialista". Il ruolo assunto dai media appare dominante, per scelta consapevole e condivisa. Veltroni e Berlusconi hanno presentato la propria candidatura, una settimana fa, con un discorso puntualmente teletrasmesso. Scegliendo due scenari diversi ed egualmente significativi. Berlusconi è tornato al teatro di San Babila, dove, accanto a Michela Brambilla, ha arringato i militanti dei Circoli della Libertà; il seme del Pdl. Veltroni ha parlato a Spello. Di fronte una folla di giovani. Alle spalle: l'immagine suggestiva del borgo medievale, la cui storia riassume la tradizione rossa e quella cattolica.
Insomma: il manifesto del "suo" Pd. Nei giorni seguenti, entrambi sono stati ospiti nel salotto televisivo di Bruno Vespa. Per definizione, la "terza Camera" del Parlamento; diciamo pure la "Cameretta". Quindi, altre apparizioni, in trasmissioni e reti diverse. Uno Mattina, Tg1, Matrix, TV7. Ed è solo l'inizio, immaginiamo. Veltroni, peraltro, oggi partirà con un pullman "democratico" per un viaggio attraverso le province italiane. Per mantenere il contatto con il territorio. E con i media.

Va detto che anche i precedenti candidati premier del centrosinistra avevano frequentato i media. Per necessità, Prodi, che non ha mai amato la tivù. Non solo Mediaset: neppure la Rai. Facendo della sua allergia all'immagine un marchio personale. Mentre Rutelli, nel 2001, aveva cercato di sfruttare al meglio la propria competenza e presenza mediatica. Si era scontrato, però, con la "resistenza" dei leader dell'Ulivo, che lo avevano candidato perché convinti di perdere. E con l'indisponibilità di Berlusconi, vincitore annunciato, a confrontarsi con lui.

Oggi, invece, tutto è cambiato. Due leader, due partiti al loro servizio, il reciproco riconoscimento, la comunicazione come terreno di confronto condiviso. Anche per imporsi e, al tempo stesso, difendersi, di fronte a un'offerta politica che si è pluralizzata.
Per polarizzare la competizione e mettere fuori gioco i concorrenti. In un versante, la Sinistra Arcobaleno, guidata da Bertinotti. Nell'altro, la Destra, di Storace e Santanché. Al centro: l'Udc di Casini (alfine "spinto" a correre in proprio), la Rosa Bianca di Tabacci e Pezzotta. Perfino l'Udeur di Mastella. I quali accusano i soggetti politici maggiori di voler trasformare il bipolarismo in bipartitismo. Ma la tendenza, come abbiamo detto, sembra annunciare una competizione bipersonale, piuttosto che bipartitica. Un modello presidenziale "di fatto". Fra leader e partiti personalizzati che si confrontano senza insultarsi. Con una agenda che, fin qui, appare quasi speculare. Con differenze di tono. Ma sul lavoro, sulle tasse, sulla sicurezza, sulla politica estera. Non si colgono abissi. Fratture irreparabili. Mentre sulle questioni sensibili e discriminanti, come sui temi etici (famiglia e aborto), prevale la prudenza. Non è un caso che Berlusconi non abbia "accolto" la lista di Giuliano Ferrara. Né che il Pd si dimostri freddo verso i radicali; o meglio: verso il loro "marchio".

I temi polemici dominanti degli ultimi quindici anni sembrano, per ora, messi da parte. L'anticomunismo, anzitutto. Anche perché i "comunisti" sono usciti dal centrosinistra; hanno dato vita alla Sinistra Arcobaleno. Rinunciando perfino al loro simbolo storico: la falce e il martello. Parallelamente, si è affievolita la polemica antiberlusconiana.

Insomma: il modello imposto da Berlusconi, 15 anni fa, oggi è condiviso anche da Veltroni. Che lo interpreta con disinvoltura e abilità. Il leader del Pd è, infatti, apparso convincente e rassicurante quanto il Cavaliere. Più "berlusconiano" di lui, oseremmo dire. I sondaggi suggeriscono, infatti, che Veltroni sia riuscito, sin qui, a intercettare un gradimento superiore a Berlusconi, in occasione dei discorsi inaugurali, a Spello e a San Babila (entrambi trasmessi in tivù). Ma anche a Porta a Porta. La roccaforte da cui, nel 2001, il Cavaliere aveva lanciato il suo "programma per l'Italia". La sua marcia trionfale alla conquista del governo del Paese. Anche stavolta Berlusconi ha tenuto la scena, da consumato attore della politica qual è. Ma è apparso più "vecchio". Non tanto per un problema di età (anche se la sua maschera senza tempo inquieta un poco). E' che, ormai, è oberato dalla sua storia politica. Che coincide con la cosiddetta seconda Repubblica.

Conclusa (per ora) l'esperienza politica di Prodi (suo compagno di strada per oltre dieci anni), Berlusconi è rimasto solo. Unico testimone di un'era che ha annunciato il "nuovo" quindici anni fa. Ma ora suscita frustrazione. E' un monumento a se stesso, il Cavaliere. Un'istituzione. Fatica a "dare la scossa" agli spettatori (pardon: agli elettori). Veltroni, in questa fase, sembra in grado di rispondere meglio alla domanda di cambiamento diffusa nella società. Anche se, come recita di continuo Berlusconi, neppure lui è "nuovo". Fa politica da oltre trent'anni. Però, nel nuovo decennio (secolo, millennio) - ha cambiato mestiere e immagine. Ha fatto il sindaco della capitale.
Veltroni, quindi, sembra aver fatto breccia nella società media che si specchia nei media.

I sondaggi (per ultimo: Ipsos) indicano che, in un ipotetico "faccia a faccia" presidenziale, terrebbe testa a Berlusconi. Mentre dal punto di vista "partitico" il Pdl mantiene un vantaggio ancora rilevante nei confronti del Pd (che, pure, sta crescendo). Da ciò la strategia di Veltroni: "personalizzare" la competizione. Dimenticando, per quanto possibile, le appartenenze e gli orientamenti di partito. Per cui è possibile che Veltroni continui a presentarsi da solo, sui media. In attesa di misurarsi con Berlusconi. Una questione diretta e personale, fra lui e Silvio. Come fra Sarko e Ségolène, in Francia. Oppure, negli Usa, fra Obama e la Clinton. Per ridurre il distacco tra Pd e Pdl. Sfruttando la concorrenza accesa (da Udc, Udeur, Rb e Destra) che si è aperta nel mercato elettorale a cui si rivolge il Pdl.

Così, il gioco delle parti sembra essersi quasi rovesciato, rispetto al passato. Quando Berlusconi era la comunicazione e il centrosinistra l'organizzazione. Oggi, al contrario, Veltroni cerca il confronto diretto con Berlusconi. Mentre Berlusconi sfrutta il peso del retroterra politico. Il Pd punta sulla personalizzazione, il Pdl sulle appartenenze. Il Pd evoca e indica il "nuovo", mentre il Pdl lo insegue.

Non sappiamo, però, cosa avverrebbe se i sondaggi indicassero un'effettiva e significativa riduzione della distanza fra Pd e Pdl. Se Veltroni minacciasse davvero la leadership del Cavaliere. Allora, forse, la "politica delle buone maniere" e del reciproco riconoscimento potrebbe interrompersi bruscamente. Berlusconi potrebbe decidere di cambiare registro, come avvenne due anni fa, al convegno degli industriali a Vicenza. I toni della campagna cambierebbero. Veltroni tornerebbe un comunista. L'erede di Prodi. Il Signore delle tasse. Berlusconi, a sua volta, diverrebbe, di nuovo, non l'avversario, ma il Nemico. Da sconfiggere ed emarginare.

Insomma, il destino della nostra democrazia sembra legato all'esito delle prossime elezioni. Molto dipende da chi saranno i candidati alla vittoria finale. Berluskozy e Obama Veltroni. Oppure, come sempre, il Caimano e il Comunista.

(17 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Passioni e ri/sentimenti in un tempo di cambiamento
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2008, 02:41:00 pm
Rubriche

di Ilvo Diamanti

Bussole

Passioni e ri/sentimenti in un tempo di cambiamento


Il caso di Casini è utile per capire ciò che sta capitando in questi tempi di cambiamento politico. Non peraltro gli abbiamo dedicato particolare attenzione, negli ultimi mesi. Al proposito, la questione che suscita maggiore curiosità (e discussione), è la seguente. Quanto pesano, sulle scelte di Casini, le ragioni "personali"? Quanto, invece, le ragioni "politiche"? Casini giura che il suo unico (o perlomeno: principale) interesse è di salvaguardare l'identità. Il marchio del partito. Che riassume una storia democristiana. Per cui: l'eredità della DC. Di garantire lo spazio e i valori del Centro, contro il "nuovismo" della logica maggioritaria, espresso da PD e PDL. Grandi contenitori anonimi senza tradizione. Per cui ha chiesto, invano, di mantenere la sua bandiera. In altri termini: di potersi apparentare senza sciogliersi nel nuovo partito di Berlusconi. Seguendo l'esempio della Lega, piuttosto che quello di Fini e di AN. Divenuti PdL e Popolari europei dalla sera alla mattina. O viceversa: dalla mattina alla sera. Senza esitazioni. D'altro canto, Berlusconi e Fini, echeggiati dai megafoni che li circondano, hanno liquidato la scelta di Casini come un fatto personale. Indotto - secondo loro - dall'insofferenza nei confronti del Cavaliere. Il Padrone, che tratta gli alleati da beneficiati. Ragazzi fortunati, che, se non lo avessero incontrato, sarebbero rimasti a fare la gavetta a vita. Uno a destra l'altro al centro. Entrambi "fuori" (gioco). Invece hanno ricevuto poteri e onori. Onori e poteri. Occupando perfino cariche politiche e istituzionali importanti. Casini: la Presidenza della Camera. Dopo essere stato allievo e assistente di Forlani, interpretare la parte dell'attor giovane e belloccio nella rappresentazione politica e mediatica allestita da Berlusconi: insopportabile.

Un'altra lettura "personale", suggerisce che Casini non riuscisse ad accettare di vedersi ridotto al quinto-sesto posto nella gerarchia del nuovo partito. D'altronde, come interpretare altrimenti il modo in cui si era materializzato il PdL: nuovo prodotto politico del centrodestra? Inventato da Berlusconi in autunno. Per non lasciare la bandiera del "nuovo" al Pd di Walter Veltroni. E per smuovere le acque nella CdL. In FI: congelata e frammentata da mille interessi e mille particolarismi. E, a maggior ragione, per addomesticare gli alleati, AN e UdC. Che tanto l'avevano fatto penare ai tempi del suo governo. Ma anche dopo. Sempre pronti a sfidarlo, a marcare le distanze, a mettere in discussione il suo primato. Era ora di finirla. Per cui, anno nuovo, partito nuovo. Chi ci sta ci sta. Gli altri: a casa loro. D'altronde, aveva sdoganato lui Fini e il suo partito, quando non era neppure considerato post, ma neo-fascista. E i Dc di Casini. Pochi voti e molte pretese. Senza di lui sarebbero scomparsi. Anche perché, in maggioranza, i loro elettori non li avrebbero seguiti. Sarebbero rimasti con il Cavaliere. Bossi e la Lega, invece: alleati fedeli. Non hanno mai creato problemi, dopo il "ritorno a casa", nel 2000. Basta assecondare il loro chiodo fisso: il Nord, il federalismo. Tollerarne le intemperanze. Il PdL, nelle intenzioni di Berlusconi, serviva, anzi: serve a spazzare via tutte queste resistenze. Come foglie secche. Anche Fini aveva polemizzato violentemente con Berlusconi, nei mesi scorsi. Però, le elezioni alle porte, ha dovuto decidere in corsa. Prendere o lasciare. Ha preso. Anche perché Berlusconi lo ha coinvolto "prima" di Casini. Ciò che ha il significato di una investitura. Come avesse vinto lui la "guerra di successione" (formula di Sofri), che lo ha opposto a Casini, negli anni e nei mesi scorsi. Non importa che i tempi del ricambio al vertice del nuovo partito siano tutt'altro che precisi e definiti. Berlusconi, d'altronde, è - e, comunque, ritiene di essere - eterno. Il problema è di "gerarchia". Chi ambisce alla fascia di capitano, se finisce in panchina, ha chiuso. Da ciò la reazione di Casini. Se non è possibile ambire alla successione del "grande partito di centrodestra", allora meglio restare il leader di un "piccolo partito di centro" alleato con la destra. Meglio n. 1 dell'UdC che il 5 del PdL. Richiesta inaccettabile, soprattutto per Fini (che ha rinunciato a tutto, per fare il n. 2 alla PdL). Poi si sa: una parola tira l'altra. Ciascuno chiede all'altro di fare un passo indietro, e pianta la propria bandiera un passo in avanti. Fino a che la discussione degenera e non c'è più spazio per le mediazioni. Fino a che nessuno può fare altro che andare per la propria strada. Con un certo timore. Perché i voti dell'UdC, anche se smagrita, servirebbero a Berlusconi, per vincere sicuro. E la Grande Casa di Berlusconi è sempre stata accogliente, per Casini. Per quanto vi abbia vissuto da inquilino. E come tale sia stato trattato.

Va detto che, nella narrazione dei media, ma anche nei discorsi pubblici, l'interpretazione personalistica ha preso il sopravvento su quella politica. I conflitti privati hanno convinto più dei discorsi sulla missione del Centro. Questa micropolitica della vita quotidiana, che valuta le stanze del potere come fossero luoghi di relazioni private. Posta in questi termini, tuttavia, la questione risulta incomprensibile. Perché oppone "personale" e "politico". Come se la dimensione "biografica" fosse alternativa a quella "partitica". Non è così. Non è mai stato così. Ma oggi meno di sempre. Perché la differenza fra i partiti e i leader è sfumata. La distanza: sottile. La scena politica è affollata da partiti personali e personalizzati. Leader senza partiti. Oppure, con intorno partiti "à la carte". Usa e getta. Creati su misura. Inutile tornare sull'argomento. Per un catalogo aggiornato (dal PiDG al PLD) preferisco rinviare alle altre, precedenti Bussole.

Resta l'impressione che per interpretare la politica italiana (e non solo) occorra andare oltre la scienza e la sociologia politica. Oltre gli studi e le discipline istituzionali. Oltre le analisi elettorali e geopolitiche. E dedicare più tempo al gossip, alle confidenze, ai sussurri, al pissi pissi. Consultando, sui giornali, le cronache del Palazzo. Ascoltando le voci di corridoio. Attenti a Dagospia oltre (più) che alle riviste del Mulino. Più della classica coppia amico/nemico, in politica contano la gelosia, l'ambizione, l'irritazione, l'invidia. Sentimenti e risentimenti piccoli, capaci di suscitare grandi passioni.

(21 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Tra marchi nuovi e antipolitica elettori confusi al supermarket
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2008, 11:01:54 am
POLITICA

LE MAPPE.

Per orientare le scelte i temi "etici" contano molto meno di questioni come tutela dei salari e sicurezza

Tra marchi nuovi e antipolitica elettori confusi al supermarket

Risultato scontato? Anche nel 2006 sembrava così ma Berlusconi mancò la vittoria per un soffio

 di ILVO DIAMANTI


Le elezioni del prossimo 13-14 aprile hanno un favorito, ma non un vincitore predestinato. Lo suggeriscono i dati del sondaggio condotto da Demos-Eurisko per Repubblica nei giorni scorsi, a cui fa riferimento questo Atlante politico. Il Pdl è davanti al Pd: 41% a 35%. Sei punti. Un distacco chiaro, che si conferma se si considerano le liste apparentate. La Lega e Mpa, da un lato. Dall'altro, Di Pietro e i Radicali (che confluiranno nel Pd, senza marchio).

Su queste basi l'esito della prossima consultazione non può ritenersi scontato. Impossibile dimenticare la lezione di Silvio Berlusconi. Esattamente due anni fa, i sondaggi dei principali istituti demoscopici attribuivano alla Cdl lo stesso svantaggio. Valutavano, per questo, impossibile la rimonta. Berlusconi ha smentito tutti. Le previsioni dei sondaggi e i suoi stessi alleati, che non credevano possibile risalire. In poco più di un mese ha annullato il distacco. Ha perso alla Camera per una manciata di voti, mentre al Senato è stato "tradito" dai collegi esteri.

Oggi, peraltro, la situazione è più incerta e fluida, rispetto a due anni fa. Gli elettori si muovono un po' confusi. Come consumatori in un mercato che propone prodotti nuovi e diversi. Perché le principali etichette di partito sono pressoché scomparse. Sostituite da altri marchi. In tempi troppo rapidi per non generare disorientamento. Non è facile neppure capire come reagiranno, molti elettori, di fronte all'eclissi - o alla definitiva rimozione - del proprio simbolo di riferimento.

1. Si assiste, comunque, a una forte polarizzazione, che, fin qui, ha premiato i due principali soggetti politici, sorti negli ultimi mesi. Pdl e Pd: insieme aggregano circa tre elettori su quattro. Più della Dc e del Pci, ai tempi della prima Repubblica. Sembra, cioè, che gli elettori si siano abituati a votare in modo "maggioritario", nonostante la logica proporzionale dell'attuale legge elettorale. Simmetricamente, gli altri partiti, ancora numerosi, si contendono un settore di mercato elettorale molto limitato. E' interessante, tuttavia, osservare la capacità d'attrazione espressa dai partiti di centro. L'Udc è stimata intorno al 6%. La Rosa bianca all'1%. Riuniti sotto una sola bandiera potrebbero superare la soglia di sbarramento sia alla Camera che al Senato.

Invece, la Sinistra Arcobaleno rivela, per ora, un basso grado di attrazione. D'altronde, l'analisi dei flussi di voto rispetto al 2006, suggerisce che solo il 40% degli elettori dei partiti che hanno dato vita alla "cosa rossa" oggi voterebbero per la Sinistra Arcobaleno. Mentre un terzo di loro si sarebbero già spostati sul Pd. Anche il Pdl, d'altronde, dimostra una notevole capacità di attrazione, che gli permette di guadagnare circa il 4% rispetto al risultato dei partiti fondatori nel 2006. Tutte le altre formazioni raccolgono frazioni di elettori molto esigue. Nessuna pare in grado di arrivare in Parlamento, in assenza di apparentamenti dell'ultimo minuto. Fra le novità, la Lista per la vita, promossa da Giuliano Ferrara, raccoglie pochi decimali.

Il peso assunto dall'Udc, in queste stime elettorali, spinge a destra gli elettori del Pdl. Tanto che il Pd, sull'altro versante, appare più vicino al Centro, e quindi all'Udc. I cui sostenitori, d'altronde, dividono le loro simpatie in modo equilibrato fra i due "oligopolisti" del mercato elettorale. Ciò potrebbe costituire un rischio per l'Udc se, com'è probabile, la campagna elettorale si polarizzasse ulteriormente. Allora, la logica del "voto utile" potrebbe spingere una parte dei suoi elettori verso i partiti più forti. Per questo, la possibilità dell'Udc di consolidare il suo peso elettorale dipende dalla capacità di esprimere "protesta" più che "moderazione". Intercettando la delusione nei confronti del maggioritario bipolare della seconda Repubblica.

2. L'incertezza di questa fase è confermata dal sostanziale equilibrio dei consensi nei confronti dei due principali leader. Se dovessero scegliere il premier, per elezione diretta, fra Berlusconi e Veltroni, gli elettori si dividerebbero in modo pressoché uguale. Anche così si spiega la convergenza di strategie fra i due "avversari". All'insegna della personalizzazione e del reciproco riconoscimento. Da un lato, Veltroni conta di sfruttare il proprio appeal personale per bilanciare lo svantaggio prodotto dall'orientamento politico. Dall'altro, Berlusconi è convinto che il vantaggio del Pdl sia sufficiente a garantirgli il successo, mentre sfrutta la propria immagine per coagulare un elettorato, comunque, fluido e composito. Dubitiamo, tuttavia, che il clima della campagna elettorale rimarrà disteso e civile fino al voto. Soprattutto se l'incertezza dell'esito dovesse crescere ulteriormente. Come, d'altronde suggeriscono altri segnali, particolarmente importanti per decifrare l'orientamento degli elettori italiani.

3. Il voto dei cattolici, anzitutto, che negli ultimi anni si era spostato decisamente a centrodestra, oggi appare più equilibrato. Fra i cattolici praticanti, in particolare, si osserva una distribuzione proporzionata al peso dei partiti. Con un sovrappiù per l'Udc. La cui presenza autonoma sul mercato elettorale pare aver "secolarizzato" il Pdl. Mentre le polemiche accese nel Pd, sul tema, fin qui non sembrano aver prodotto particolari effetti. (Anche se, al momento del sondaggio, l'accordo con i Radicali non era ancora stato siglato).

4. D'altronde, i temi "etici" che hanno agitato il dibattito pubblico negli ultimi mesi (in particolare modo l'aborto), comparativamente, in questa campagna elettorale contano molto poco, nella percezione degli elettori. Mentre, tra i cittadini, è massima l'importanza assunta dai problemi economici legati alla vita quotidiana: reddito familiare e costo della vita. Insieme alla sicurezza.

5. C'è, infine, la questione dell'antipolitica. Quel vento ostile verso i partiti e le istituzioni, che ha soffiato impetuoso, negli ultimi mesi. Chi immagina che il clima elettorale abbia inibito quel sentimento si sbaglia. Ne è prova il consenso di cui gode Beppe Grillo, verso il quale esprime fiducia il 55% degli elettori. Lo testimonia, ancora, l'atteggiamento verso i partiti: tutti uguali, secondo tre elettori su quattro. Si tratta di sentimenti trasversali. Diffusi in tutti gli elettorati. In particolare nella base di due partiti: la Lega Nord e l'IdV di Di Pietro. Tuttavia, la sfiducia nei partiti e la simpatia per l'alfiere del V-Day non sembrano alimentare "astensione": dalla politica e dal voto. Infatti, anche se lamenta che tutti i partiti sono uguali, gran parte degli elettori si schiera: sceglie un partito. Ciò conferma che l'antipolitica costituisce, per molti versi, un sentimento "politico". E' un modo per incalzare i partiti. Per spingerli a rinnovarsi. A moralizzare i comportamenti.

Questo Atlante politico, dunque, tratteggia un'Italia fluida e instabile. Alla ricerca di una nuova geografia elettorale. Ancora incerta e un po' disorientata, perché il paesaggio politico è cambiato e sta ancora cambiando. L'esito del prossimo 13 aprile non è ancora scritto. A chi lo profetizza, rammentiamo che dal 1994 ad oggi tutte elezioni - tutte - hanno spiazzato, a volte sovvertito le previsioni. E che, dal 1996 fino al 2006, tutte le elezioni - tutte - si sono risolte per pochi punti. Talora: frazioni di punto.

C'è da dubitare che questa volta le cose andranno diversamente.

(25 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Stampa Sondaggi faziosi, comunisti e casinisti
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2008, 12:19:49 am
Rubriche »

Stampa Sondaggi faziosi, comunisti e casinisti
 

Berlusconi si è molto risentito, nei giorni scorsi, contro il PD e i giornali di sinistra. I quali farebbero, a suo avviso, informazione scorretta perché presentano sondaggi diversi da quelli di cui lui, personalmente, dispone. Che lui personalmente commissiona, visiona e divulga. E i sondaggi che Berlusconi personalmente commissiona, visiona e divulga danno il PdL sopra il PD di 10 punti percentuali. Non 6, come invece indicano i sondaggi artefatti commissionati dal PD e dai giornali di sinistra. (Sospettiamo che in questo giudizio c'entri, in qualche misura, l'Atlante Politico che abbiamo pubblicato su "la Repubblica" lunedì scorso).

In effetti, tutti sanno che Berlusconi non ha mai bluffato, con i sondaggi. Non li ha mai usati come strumenti di campagna elettorale, come profezie che si autoavverano. In fondo, due anni fa, ha avuto ragione lui. I suoi sondaggi "personali", commissionati a una nota agenzia americana, davano la CdL in parità già a metà febbraio. Quando tutti gli altri, invece, la stimavano in svantaggio di 5-6 punti. Come oggi il PD.

Effettivamente, due mesi dopo, fu sostanziale pareggio. Aveva ragione lui, quindi. Ne siamo davvero certi? Aveva ragione lui? Oppure quel sondaggio "profetizzava" ciò che sarebbe avvenuto due mesi dopo? Anche grazie all'incertezza che avrebbe suscitato, riaprendo una competizione considerata, dagli elettori, già chiusa? Chissà... Certo che, dopo il voto, il Cavaliere continuò a polemizzare duramente con gli alleati. Che non gli avevano creduto e non l'avevano sostenuto. (Magari per scelta consapevole). Aveva rimontato da solo, sostenne. Bastava una settimana di campagna elettorale, qualche trasmissione ancora: avrebbe completato la rimonta e realizzato il sorpasso.

Curiosa recriminazione, visto che i "suoi" sondaggi avevano registrato il pareggio due mesi prima del voto. Evidentemente il suo attivismo feroce nelle ultime settimane di marzo, compresa la grande performance all'assemblea degli industriali di Vicenza, l'ultimo faccia-a-faccia televisivo con Prodi, a pochi giorni dal voto (quando aveva scandito: "E infine toglieremo l'ICI. E forse anche la tassa dei rifiuti"). Non gli avevano fatto recuperare nulla. Ma, perfino, perdere qualcosa. In fondo era sul pari già due mesi prima...

Così, nei giorni scorsi, si è indignato. Perché i "suoi" sondaggi lo danno in vantaggio di dieci punti, non di 6 e mezzo. Il che genera, comunque, qualche dubbio. Visto che sabato scorso, al convegno degli amici di Giovanardi, usciti dall'Udc per confluire del PdL, Berlusconi aveva sostenuto che il vantaggio del PdL era di "12 punti". Due punti persi in due giorni. Il rischio è che, fra un paio di settimane, le stime del Cavaliere decretino il pareggio...

Il problema è che il Cavaliere interpreta sempre in modo creativo i "suoi" sondaggi. Che nel 1994 stimavano FI al 30%. Ottenne il 20%, ma pazienza: vinse egualmente. Nel 1996 assicuravano il successo del Polo delle Libertà. Si affermò l'Ulivo. Ma, sappiamo, a volte sbagliano gli elettori, non i (suoi) sondaggi. Nel 2001, invece, prevedevano il trionfo della CdL sull'Ulivo. Con oltre 10 punti percentuali di vantaggio.

Vinse sul serio. Ma con un punto in più, alla Camera.
Non importa. Perché il "senno di poi", nei sondaggi, non conta. Importa il "senno di prima". Le stime in tempi di campagna elettorale. Perché, effettivamente, entrano in campagna elettorale. Condizionano i sentimenti e gli atteggiamenti. Così oggi il Cavaliere si irrita se i sondaggi lasciano intendere che la partita è ancora aperta. Se fanno dubitare agli elettori che "la festa appena cominciata è già finita". Meglio discutere subito dei ministeri e degli incarichi istituzionali, così non perdiamo tempo... Per cui impone la verità dei "suoi" sondaggi. Contro tutti gli altri. Tutti. Non solo quelli del PD e dei giornali della sinistra. Perché Ipsos attribuisce al PD (e ai suoi alleati) 7 punti in più del PD (e liste collegate). Lo stesso, SWG. Peraltro, il Corriere della Sera aveva proposto, nei giorni scorsi, stime elettorali di Demoskopea che davano ragione al Cavaliere: 9 punti di vantaggio per il PdL. Ma la nuova rilevazione di Demoskopea per Sky Tg 24, di oggi, si allinea a sua volta: 7 punti di distacco.

Infine, vediamo il sondaggio di "fiducia" a cui fa riferimento il Cavaliere. La direttrice di Euromedia Research rivela in esclusiva al quotidiano on-line "Affari Italiani" che il distacco fra i due maggiori competitors è "compreso tra gli 8 e i 10 punti percentuali, in quanto è tra il 44 e il 46% la coalizione che indica Berlusconi premier e tra il 36 e il 38% quella che indica Veltroni" ("Affari Italiani", Martedì 26.02.2008, 14:32). Insomma: fra 10 e "8 punti". A metà: tra i sondaggi del Pd e quelli "personali" - nell'interpretazione "personale" - di Berlusconi.

Il problema è che i sondaggi non pre-vedono: vedono e misurano il presente. O, almeno, ci provano. Chi meglio, chi peggio. Possono servire a rilevare la distribuzione dei consensi in un determinato momento. Indicare quanti e chi sono gli incerti. Cosa pensano, cosa potrebbero decidere in seguito. Ma poi, alla fine, contano le elezioni. E, da qui alle elezioni, contano i comportamenti degli attori politici. La campagna elettorale. I media. Naturalmente, gli attori politici e la campagna elettorale occupano principalmente i media. Inoltre, i sondaggi contribuiscono allo spettacolo della campagna elettorale. Quindi, a definire e a modificare l'opinione pubblica. Per cui, quando sono resi pubblici, diventano - anzi, sono - strumenti di campagna elettorale. Indipendentemente dalla volontà e dalla qualità. Per questo suscitano tanta attenzione e tanta reazione. Rischiano di apparire profezie che si auto-avverano.

Berlusconi lo sa bene. Ne è stato, dal 1994, l'interprete più creativo. I sondaggi come forma di "pre-visione". Un modo per orientare "preventivamente" la "visione" e quindi le scelte degli elettori. Per questo è insofferente verso i dilettanti che pretendono di sfidarlo sullo stesso terreno. Verso gli analisti e gli istituti demoscopici che pensano, poverini, che i sondaggi servano solo a "vedere". No. Servono a "pre-vedere". Per cui vanno contrastati, se offrono "pre-visioni" moleste. Sgradevoli e sgradite. Se insinuano il dubbio che la partita non sia ancora chiusa. Se mobilitano gli elettori delusi e scoraggiati. Incerti se votare. Perché, al contrario di due anni fa, sono perlopiù di centrosinistra. Ma lo irritano, soprattutto, se ipotizzano che l'UdC (e la Rosa Bianca) non siano ancora scomparsi. Che abbiano ancora uno spazio elettorale. Anche il 6-7% - stimato dai sondaggi di sinistra e dai complici - è troppo. Perché si tratta di voti sottratti al PdL. L'unico bacino da cui il PdL possa ancora attingere. (A destra è rimasto poco). I suoi sondaggi non lo pre-vedono. In altri termini: alle elezioni "dovrà" ridursi a metà. E Casini sparire del tutto. Per cui, chi oggi vede e pre-vede diversamente: o è in malafede o è un comunista. Pardon: un "casinista".

(27 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il voto all'ombra del muro di Arcore
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2008, 11:21:34 pm
POLITICA MAPPE

Il voto all'ombra del muro di Arcore

ILVO DIAMANTI


Colpisce la dimensione dell'incertezza fra gli elettori, in questa fase. Non perché si tratti di un fenomeno nuovo. Anzi. Ma le proporzioni, questa volta, sono inusuali. Superiori al passato recente e, a maggior ragione, di quello più lontano.

Colpisce. Visto che il paradosso dell'elettore incerto, in Italia, è che alla fine vota come sempre. Un elettore fedele che, nel profondo dell'animo, vorrebbe tradire. In Italia, infatti, a dispetto delle apparenze, il grado di stabilità elettorale è molto, molto elevato. Dal punto di vista territoriale ciò è evidente e sorprendente, se confrontiamo le ventisette province in cui i partiti hanno conseguito le performance più elevate nel 2006 e nel 1996.

A dieci anni di distanza: due su tre coincidono, per An, FI e Rifondazione; tre su quattro per la Lega e l'Ulivo. Quattro su cinque, se consideriamo le liste riunite nelle due coalizioni: Unione e Cdl. In altri termini: l'elettorato italiano continua ad essere "congelato" da appartenenze e fratture di lungo periodo. A cui altre, di nuove, si sono aggiunte. L'antiberlusconismo accanto all'anticomunismo. Le stesse indicazioni, peraltro, si ricavano se si valutano i comportamenti degli individui a livello elettorale. La ricerca condotta da Itanes ("Dov'è la vittoria?", Il Mulino, 2006) sottolinea come, alle elezioni del 2006, il tasso di "fedeltà" degli elettori delle due coalizioni sia molto elevato: il 92% nella Cdl e il 94% nell'Ulivo. I limitati spostamenti fra le due coalizioni, peraltro, si compensano.

Il mercato elettorale in Italia, quindi, continua ad essere stabile, diviso in due grandi bacini, largamente indipendenti. E il movimento elettorale avviene, in larghissima misura, tra formazioni politiche della stessa coalizione. Ma soprattutto fra voto e non voto. Si spiega così il risultato di due anni fa. Fino a poche settimane dal voto i sondaggi attribuivano al centrosinistra 5-6 punti percentuali di vantaggio. Dietro a cui si celavano, perlopiù, elettori di centrodestra, delusi dal governo Berlusconi. Incerti. Ma, in cuor loro, disposti a votare. Come prima. Come sempre. Contro i comunisti e per Berlusconi. Attendevano una "spinta". Berlusconi li assecondò. Indossando, nelle ultime settimane di campagna elettorale, i panni del Caimano.

Dunque, l'incertezza non è una novità, ma una costante dell'orientamento elettorale in Italia. A cui corrisponde un comportamento prevalentemente stabile. Il confronto con le precedenti elezioni, però, suggerisce alcune importanti novità, che vanno oltre l'ampiezza degli incerti. Peraltro, molto rilevante: oltre il 40% degli elettori.

1. L'incertezza, anzitutto, in questa occasione è alimentata dal mutamento dell'offerta politica. Come nel 1994. Sono cambiati i partiti. Le etichette. I nomi. Al tempo stesso, è cambiata la meccanica della competizione. Non è più bipolare. Oppone, invece, partiti. Nelle intenzioni dei due soggetti politici maggiori, è bipartitica. E bi-personale. Fra Pd e Pdl. Fra Veltroni e Berlusconi. Il grado di incertezza maggiore, per questo, si rileva fra gli elettori di centro e di sinistra. Fra quanti, nel 2006, avevano votato per l'Udc e per le formazioni che hanno dato vita alla Sinistra Arcobaleno. "Disorientati" perché il loro partito ha cambiato orizzonte. Uscito dall'orbita di Berlusconi, l'Udc. Dall'intesa con l'Ulivo e con Prodi, i partiti di sinistra. I quali, peraltro, hanno un problema ulteriore. La riconoscibilità, visto che hanno rinunciato alla loro specifica etichetta "partigiana" (Rc, Pdci, Verdi), per costruire, insieme, un soggetto politico con un nuovo marchio (Sa). Non ancora noto (né, forse, gradito) a tutti. Elettori incerti perché incerta è divenuta la posizione del loro riferimento politico.

2. Gli elettori sono "incerti" anche perché turbati e disturbati dal dubbio: votare in base all'identità o all'utilità. Scegliere il partito più vicino oppure quello che può vincere le elezioni, conquistando il premio di maggioranza previsto dalla legge.

3. L'incertezza è accentuata dall'eclissi della frattura fra antiberlusconismo e anticomunismo. I "postcomunisti" oggi sono entrati in una aggregazione nuova, che ha perfino rinunciato all'iconografia e ai richiami del comunismo. Liberando il Pd da una eredità ormai sgradita. Berlusconi, in questa fase, ha rinunciato al berlusconismo. Pd e Pdl, Veltroni e Berlusconi, peraltro, hanno evitato, fin qui, lo scontro, preferendo il confronto. Mimano una competizione di tipo presidenzialista. Rigorosamente a due. Per rafforzarsi reciprocamente ed escludere gli altri concorrenti.

4. L'incertezza, infine, è alimentata, come nel recente passato, dalla "delusione" nei confronti del governo. E colpisce, quindi, soprattutto gli elettori che nel 2006 avevano votato per l'Unione. In modo simmetrico e inverso rispetto a quanto era avvenuto due anni fa.
Questi aspetti spiegano non solo l'ampiezza, anomala, dell'incertezza, in questa fase. Ma anche le differenze che segnano le strategie degli attori politici in questa campagna elettorale, rispetto alla precedente.

a) Berlusconi è contrastato. Non può fare il "caimano". Prendersela con i comunisti e con la sinistra. Non solo perché oggi di fronte ha i democratici. Mentre i comunisti e la sinistra stanno "più in là". Ma, soprattutto, perché non ha interesse ad accendere troppo la campagna elettorale. Per timore di "mobilitare" gli elettori delusi, che oggi stanno, in larga parte, a centrosinistra. Fatica, inoltre, a sfruttare il principale argomento che gli fornisce consenso: la sfiducia nel governo Prodi. Perché di fronte, oggi, c'è un leader diverso: Veltroni. Il quale ha fatto del "nuovo" un marchio personale. Per questo il Cavaliere e il Pdl parlano, con insistenza, del "Pd di Prodi". Tuttavia, non è un'operazione facile. Perché il Pd, oggi, è un partito personalizzato, al servizio di Veltroni. Perché Berlusconi stesso evita lo scontro diretto con Veltroni. Lo accusa, semmai, di copiargli i programmi. E invita, anzi, gli elettori a scegliere fra loro due. Berlusconi o Veltroni. Perché oggi il vero nemico per Berlusconi non è il comunismo, ma il "casinismo". La sfida vera, per lui, è contro Casini e l'Udc. I principali freni alla sua crescita elettorale. Per questo insiste nel definire "inutile" il voto a questi "piccoli partiti". Anzi: un sostegno alla sinistra.

b) Veltroni, parallelamente, ha il problema di evitare una campagna retrospettiva. Sfuggire al passato. (In qualche modo: a Prodi). I suoi messaggi, per questo, evocano il "nuovo". Il "futuro". Incitano a non camminare con la testa "voltata indietro". A "guardare avanti". In sintesi: a scivolare da sinistra per avvicinarsi al centro. Il vero terreno di battaglia, oggi. Per entrambi i partiti "nuovi". Per i due candidati Presidenti.

Il problema per Veltroni è di fondare una proposta credibile, un'identità convincente: sfuggendo al passato. Perché le idee senza tradizioni sono volatili. Navi senza ancore.

I problemi per Berlusconi, tuttavia, sembrano più complicati. Oggi è il favorito. Dispone di un vantaggio significativo. Per cui agisce con prudenza. Per non scuotere i delusi e gli incerti. I quali, se abbandonassero l'inerzia, voterebbero per gli altri. Allo stesso tempo, una campagna sottotraccia, moderata come quella che sta conducendo, rischia di regalare spazio al detestato Casini, a Tabacci e alle formazioni di centro.

L'incertezza elettorale di questa fase, però, solleva una questione sostanziale, di grande rilievo non solo per il risultato delle prossime elezioni, ma per il futuro della nostra democrazia.

Se Berlusconi rinunciasse al berlusconismo - e Veltroni all'antiberlusconismo. Si sfalderebbero le fedeltà e le paure che impediscono all'incertezza di produrre cambiamento di voto. Cadesse il muro di Arcore, dopo quello di Berlino: assisteremmo a un grande disgelo.

(2 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Nell'ex Ulivo e nell'Udc, gli incerti che decideranno la partita
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2008, 10:00:35 am
POLITICA

SONDAGGIO DEMOS

Nell'ex Ulivo e nell'Udc, gli incerti che decideranno la partita

di ILVO DIAMANTI


IL SONDAGGIO proposto dall'Atlante politico di Demos per la Repubblica delinea un orientamento elettorale coerente, ma, al tempo stesso, più fluido rispetto alle scorse settimane. La distanza fra il Pdl e il Pd è immutata. Circa 5 punti percentuali, a favore del Pdl.
Si allarga a 6,7 punti considerando i partiti "apparentati" (grazie al contributo della Lega).

Tuttavia, i due partiti maggiori arretrano un poco. Insieme, il loro peso sul totale degli elettori passa dal 76% al 73%. Se ne avvantaggiano, in parte, le liste che, fino a poche settimane fa, erano alleate mentre ora sono concorrenti. La Sinistra Arcobaleno, da un lato. L'Udc e la Destra, dall'altro. In parte, però, il calo subito dai due partiti principali favorisce gli alleati: l'Italia dei valori e la Lega.

Le ragioni di questa ripresa, per quanto limitata, della "concorrenza" sul mercato elettorale sono diverse.
1. Anzitutto, la presentazione delle liste e il conseguente avvio ufficiale della campagna hanno reso visibile la presenza di altri partiti, oltre ai due principali. Ciò ha allargato la "dispersione" delle scelte, rendendo la competizione un po' più "proporzionale". E'come se i consumatori del (super) mercato elettorale cominciassero a prendere confidenza con i nuovi prodotti.

2. Il calo dei partiti maggiori è, inoltre, dettato dalle difficoltà incontrate nella costruzione delle liste, nel tentativo di attrarre i settori di mercato elettorale più diversi. E, in particolare, i più critici. Così, il Pd ha candidato Massimo Calearo, imprenditore del Nordest, orientato a destra: per intercettare i voti degli imprenditori del Nordest, (largamente) orientati a destra. Mentre il Pdl ha "reclutato" Giuseppe Ciarrapico, noto imprenditore romano, nostalgico e un po' fascista: per drenare i voti romani e nostalgici attratti dalla Destra di Storace. Per conquistare al Senato una regione determinante come il Lazio, dove Ciarrapico pubblica numerose testate locali.
Ha, inoltre, sollevato malumori la collezione di candidati come etichette simboliche. I giovani e le giovani: di varia cultura e professione.
Possibilmente, di bell'aspetto. Per non parlar degli operai. Veri.
Sopravvissuti alle stragi nei luoghi di lavoro.
Ma, soprattutto, all'estinzione della specie.
Quanto al Pd, l'accordo con i radicali ne ha allargato i confini identitari. Ha, inoltre, "incluso" una base di elettori limitata, ma coerente e fedele. Creando, tuttavia, disagio e disaffezione presso l'elettorato cattolico.

3. Il minor grado di polarizzazione, peraltro, è favorito dalla ridotta intensità del confronto fra Pdl e Pd. Almeno, fino a una settimana fa. Il Pdl, in particolare, ha concentrato la polemica sull'Udc. Offrendole visibilità e identità. Anche per questo, sabato scorso, a Milano, Berlusconi ha effettuato uno "strappo" rispetto al profilo basso tenuto fino ad allora. Stracciando - letteralmente - il programma del Pd. Non solo perché sopraffatto dal suo "spirito caimano". Anche per indicare apertamente l'avversario. L'unico, vero "antagonista". Il Pd di Prodi, che Veltroni - l'illusionista - vorrebbe occultare. D'altronde, una campagna così soft, questo dibattito "politicamente corretto", rischiano di indurre gli elettori a votare in libertà, sfuggendo alla logica (secondo alcuni, al "ricatto") del "voto utile". Ma, nella fattispecie, danneggiano principalmente il Pdl. Il cui vantaggio dal Pd resta ampio. Ma non incolmabile.

Veltroni, infatti, continua a tenere testa a Berlusconi, nel confronto diretto. Fra i candidati premier, è quello che riscuote maggior fiducia fra gli elettori. La campagna elettorale, fino ad oggi, pare non averne usurato l'immagine.
Inoltre, il peso degli incerti resta molto alto. Oltre un terzo degli elettori. Tra essi, la quota maggiore è costituita da elettori che due anni fa avevano votato per l'Ulivo. Tentati, in larga misura, dall'astensione.
Incerto, peraltro, è il 30% di quanti nel 2006 avevano scelto l'Udc.

Questi dati suggeriscono che, prima del voto, molto può ancora succedere.
Ma indica anche i due diversi problemi, a cui i partiti maggiori dedicheranno la loro campagna.
Per il Pd: l'area della disaffezione e dell'astensione, in cui staziona un settore molto ampio di elettori di centrosinistra.

Per il Pdl: l'elettorato orientato verso l'Udc (ampio, ma anche molto incerto) e quello attratto dalla Destra (delimitato, ma territorialmente concentrato e in sensibile crescita, nelle ultime settimane).
Per questo riteniamo che la campagna elettorale, nelle prossime settimane, sia destinata ad accendersi, assumendo toni più aspri.
Soprattutto per iniziativa di Berlusconi, che, quando si muove in modo educato e felpato, come in questa fase, appare un po' legato.

Sicuramente più a disagio di Veltroni. Uno specialista nel recitare la parte del "buono". Mentre il Cavaliere dà il meglio di sé quando può liberare il suo "animal spirit". Guardare dritto negli occhi l'elettore. Il "suo" elettore. Dargli del tu.
Parlargli in modo diretto. Da imprenditore a imprenditore, da operaio a operaio, da ottimista a ottimista, da casalinga a casalinga. Da anticomunista ad anticomunista. D'altronde, il Cavaliere, ha già "strappato" rispetto allo stile ovattato delle settimane scorse. Non vuole sorprese. E sembra disposto a risvegliare l'antiberlusconismo. Che potrebbe convincere gli incerti di centrosinistra a "votare". In modo "utile": per il Pd.

Erigendo di nuovo il muro di Arcore, però, Berlusconi rivolgerebbe agli elettori orientati a votare per l'Udc e per la Destra un messaggio esplicito.
Non c'è alternativa possibile, fra il Pdl e la sinistra.
Naturalmente, potremmo sbagliare. La campagna potrebbe riprendere come prima - noiosa e politicamente corretta. Soprattutto se, come dicono i sondaggi commissionati da Berlusconi, la partita fosse davvero chiusa e senza speranza per gli avversari. In questo caso, non ci sarebbe motivo di alzare la voce, spaventare i moderati, gridare al lupo e al comunista. Né di tuonare - ogni giorno - contro i sondaggi taroccati (quelli degli altri).

Per quel che ci riguarda, per rispondere alle polemiche sull'argomento (sollevate non solo da Berlusconi), preferiamo ricorrere alle parole dell'Uomo Comune disegnato da Altan, qualche giorno fa, sulla prima della Repubblica.
Alla richiesta di un sondaggista, intenzionato a intervistarlo, reagisce: "Sì. Ma l'avverto che alla mia risposta non ci credo". Perché i sondaggi non prevedono il futuro. Al massimo il presente. Non anticipano le decisioni degli elettori. Ma solo le intenzioni.


(13 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Alla destra del padre
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2008, 12:20:28 am
POLITICA MAPPE

Alla destra del padre

di ILVO DIAMANTI


FRA Chiesa e politica il rapporto, da qualche anno, è più complesso e conflittuale. Soprattutto da quando è divenuto Papa Joseph Ratzinger. Attento a marcare i confini dell'identità cattolica, in modo costante.

Nella difesa della famiglia, della vita, nel rapporto fra scienza e morale. Per questo è interessante capire in che misura la "questione cattolica" si rifletta sull'orientamento degli elettori, in vista del voto del 13-14 aprile. Il sondaggio condotto da Demos per "la Repubblica" suggerisce che le polemiche degli ultimi mesi non abbiano provocato fratture evidenti negli atteggiamenti dei cittadini.

La fiducia nei confronti di Papa Benedetto XVI è sullo stesso livello di un anno fa. Anzi: è salita un poco. (Oggi è espressa da oltre il 55% degli italiani. Giovanni Paolo II era 20 punti sopra. Ma è difficile mettere a confronto un Papa-teologo con un Papa-pastore, icona della sofferenza).

Il credito attribuito alla Chiesa: è calato lievemente, negli ultimi due anni (anch'esso si è attestato intorno al 55%), ma è risalito rispetto allo scorso novembre.
L'insegnamento della Chiesa, inoltre, continua ad essere considerato importante, per la morale e per la vita delle persone. Ma si tratta di un riferimento. Che gli individui interpretano e praticano in modo autonomo, in base alla propria coscienza. Ciò conferma la religiosità flessibile degli italiani. Che trattano Dio in modo "relativo". Attribuendogli, però, uno spazio centrale nella loro vita. Nel loro orizzonte di valori. Lo vediamo anche nel rapporto con la politica. Da cui, secondo la maggioranza degli intervistati, la Chiesa dovrebbe tenersi fuori. Limitandosi a intervenire sulle questioni che riguardano da vicino la religione. Gran parte degli italiani ritiene, inoltre, che gli uomini politici si facciano influenzare troppo dalla Chiesa.

Tuttavia, è diffusa anche la convinzione che, oggi, l'intervento ecclesiastico non sia eccessivo. Nell'ambito politico e legislativo. Nell'ambito scientifico e medico. Sui temi stessi che riguardano la vita e la morte. Tutte le materie che tante polemiche hanno sollevato, negli ultimi mesi. Insomma, la Chiesa non dovrebbe "fare politica". Però, secondo gran parte degli italiani, oggi ciò non avviene. L'intervento del Pontefice e dei vescovi su temi di rilievo sociale e morale non è considerato uno "sconfinamento". Se non presso un settore rilevante, ma, comunque, minoritario della società (fra il 26% e il 37%).

Nella realtà, però, gli effetti delle posizioni assunte della gerarchia cattolica si colgono, evidenti, sugli orientamenti dei cittadini. Il 45% degli italiani si dice contrario al riconoscimento delle coppie di fatto, oggetto di due diversi progetti del governo dell'Unione, mai tradotti in legge (ma era il 34% nel 2006 e il 41% un anno fa). Una minoranza, ma molto ampia.
Cresciuta, nel corso degli ultimi anni. Così come è ampia anche la "minoranza" contraria all'eutanasia (anche in questo caso, 45%: un anno fa era il 41%).

Molto più ridotta è, invece, la componente degli italiani (30%) che ritengono giusto modificare l'attuale legge sull'aborto in senso più restrittivo. Le ragioni che hanno imposto questi temi all'attenzione dell'opinione pubblica, contribuendo a modificarne gli atteggiamenti, però, non vanno ridotti alla sola azione della Chiesa. Altri soggetti hanno contribuito a imporli all'agenda politica e dei partiti. (Lo ha ben chiarito Sandro Magister, sull'"Espresso"). Comitati, media, leader d'opinione. In molti casi laici. Come "Il Foglio" e Giuliano Ferrara. Inoltre, gli stessi partiti. Il centrodestra, ad esempio, ne ha fatto un argomento per marcare le distanze dal centrosinistra; e per allargarne le divisioni interne.

Anche per questi motivi il voto dei cattolici si distribuisce in modo diseguale, fra i partiti. Certo, è finita l'epoca della Dc, che ne attraeva una larghissima maggioranza (lo ha rammentato ieri anche Piero Ignazi, sul Sole 24 Ore). Ma è finita anche la fase (1994-2001) in cui i cattolici votavano in modo proporzionale, tra gli schieramenti. Alle elezioni del 2006, infatti, la maggioranza dei cattolici (praticanti) ha votato per il centrodestra. Circa sei su dieci. Oggi, alla vigilia delle elezioni, la tendenza sembra confermata e, in qualche misura, accentuata. Anche se l'offerta politica è cambiata, con la formazione di due nuovi, grandi partiti. Infatti, meno di un terzo dei cattolici praticanti vota per i partiti che sostengono Veltroni (Pd e Idv), oltre metà per i partiti che candidano Berlusconi (Pdl, Lega e Mpa). Allo svantaggio del Pd e degli alleati contribuisce, come abbiamo detto, l'eredità dei conflitti "etici" degli ultimi anni. Ma conta, in qualche misura, anche l'ingresso, nelle liste del Pd, dei radicali. Ritenuti - dagli elettori - "i più lontani dai valori cattolici". Per quanto abbiano rinunciato al simbolo di partito: la loro identità culturale è troppo marcata. Non hanno bisogno di etichette per ribadirla.

Tuttavia, anche questa "risacca" del voto cattolico, scivolato dal Pd, avviene in modo inerziale. Senza fratture. D'altronde, in questa campagna elettorale, il rapporto con la Chiesa, gli stessi temi etici sono rimasti sullo sfondo. Affidati alla rappresentanza di soggetti politici caratterizzati. Come la "Lista per la vita" di Giuliano Ferrara. Il fatto è che i cattolici (praticanti) oggi - nella società italiana, ma anche nei maggiori partiti - sono una minoranza. Influente, ma comunque una minoranza. Per questo i partiti preferiscono evocarne le domande. Ma senza enfatizzarle. Per evitare divisioni, che si riprodurrebbero anche al loro interno. La Chiesa stessa non ha interesse a fare campagna elettorale a sostegno di una specifica forza politica. Vista la presenza trasversale dei cattolici, nei principali partiti. Preferisce attendere. Per esercitare la sua influenza sul dibattito politico e sul processo legislativo. Dopo il voto.

D'altronde, altri sono i problemi che attirano l'attenzione degli elettori, in questa fase. Le retribuzioni, la disoccupazione, le tasse. La sicurezza. In una lista di dieci tematiche da affrontare, gli italiani pongono "la tutela della vita, contro l'aborto" al nono posto (2,8%). La "difesa dell'identità religiosa" al decimo (2,7%). Fra i cattolici praticanti, questi due obiettivi di valore ottengono maggiore attenzione (li segnala circa il 3,5% degli intervistati). Ma restano, comunque, gli ultimi della lista. Il che, ovviamente, non ne svaluta il significato. Ma la rilevanza "congiunturale", in quanto temi da spendere in questa campagna elettorale. Che non sembra attraversata da una nuova, lacerante "questione cattolica". Ma, sin qui, da questioni e divinità minori. D'altra parte, in tempi come questi, bisogna accontentarsi.

(17 marzo 2008)
 
da repubblica.it


Titolo: Nella "periferia sociale" allargata nuovi ostacoli alla sfida riformista
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2008, 07:29:03 pm
POLITICA MAPPE

Nella "periferia sociale" allargata nuovi ostacoli alla sfida riformista

di ILVO DIAMANTI


IL DECLINO incombe, sul nostro Paese, da molti anni. Al di là delle misure e delle statistiche economiche (peraltro, poco confortanti). E' un sentimento condiviso. Il "senso del declino": accorcia il futuro, annebbia l'orizzonte. Influenza gli atteggiamenti verso la politica e le istituzioni.

E' emerso all'inizio del decennio. Negli anni del governo Berlusconi è cresciuto, impetuoso. Trasferendosi, violento, nella breve esperienza del governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi. Pregiudicandone il consenso e l'azione. Anche per questo Veltroni ha preferito proiettare la campagna sul futuro. Puntare sul "nuovo". Presentando il Pd e se stesso come elementi di discontinuità. L'Osservatorio sul Capitale sociale curato da Demos-Coop, tuttavia, mostra quanto sia difficile rimuovere il passato. Che lascia tracce indelebili negli orientamenti sociali.

Oltre metà degli italiani, infatti, considera peggiorata la propria situazione economica personale, nell'ultima fase. Nel 2006 questa sensazione veniva ammessa da (circa) una persona su tre. Per contro, oggi solo il 13% ritiene che la propria situazione sia migliorata. Dieci punti percentuali in meno rispetto a due anni fa.

Il declino si riflette, visibilmente, sulla mobilità sociale percepita. Che appare tutta in discesa. Una smobilitazione di classe. Di conseguenza, la componente di quanti si collocano nella "classe operaia" e fra i "ceti popolari" cresce sensibilmente. Fino a raggiungere il 46%. Quasi la metà della popolazione. Sei punti in più rispetto a due anni fa. Coincidono con il parallelo calo dei "ceti medi". Mentre lo strato di coloro che si definiscono classe superiore, oppure borghesia, resta sostanzialmente stabile. Circoscritto al 5% circa. Così, svanisce l'idea di una società in cui le classi "periferiche" si stessero riducendo. A solo vantaggio del corpo intermedio della società. Sempre più gonfio.

Oggi, invece, si assiste a una crescita rilevante dei ceti popolari. Nei quali scivola gran parte degli operai comuni, ma anche qualificati. Inoltre, una parte estesa di pensionati e casalinghe (circa la metà). Infine, settori ampi di artigiani e commercianti. A conferma che il lavoro autonomo nasconde situazioni e condizioni molto diverse. Segnate, in molti casi, da un senso di precarietà reale.

Oltre metà degli italiani guarda il futuro con inquietudine. Lo vede carico di rischi. Non si sente di "investire". Ragionevolmente, visto che le risorse sono scarse. Il potere d'acquisto dei redditi (soprattutto da lavoro dipendente) è stato eroso da un'inflazione crescente.

Di conseguenza, la relazione fra posizione sociale soggettiva, da un lato, e senso del declino, dall'altro, appare stretta. La quota di persone che ritengono peggiorata la condizione economica personale è massima fra quanti si collocano nella classe operaia e fra i ceti popolari (oltre il 60%). Quindi, tra i lavoratori dipendenti del privato, fra i pensionati e le casalinghe. Ma è alta anche fra quanti si definiscono "ceto medio". Mentre, al contrario, quasi un terzo di coloro che si posizionano nella borghesia e nella classe dirigente ritiene di aver migliorato la propria condizione.

Facciamo riferimento, vale la pena rammentarlo, a "percezioni". Che, tuttavia, appaiono coerenti con le indicazioni fornite dalle statistiche sui redditi e sui consumi. Insieme, confermano come in Italia la distanza fra le classi e i ceti sociali sia aumentata. A tutto svantaggio dei lavoratori dipendenti a reddito fisso e del lavoro autonomo più marginale (spesso lavoro dipendente mascherato).

Gli orientamenti di voto riflettono questi sentimenti. Il "senso di declino" deprime il consenso per chi ha governato, negli ultimi anni. Di conseguenza, penalizza il centrosinistra. Soprattutto il Pd. Mentre il Pdl (insieme alla Lega) ne trae slancio. L'analisi del voto in base alla posizione sociale effettiva (attività professionale) conferma con chiarezza questa idea.

Il Pd raccoglie i maggiori consensi nel ceto medio "dipendente". In particolare, nelle professioni intellettuali (gli insegnanti) e tra gli occupati del settore pubblico, dove supera il Pdl di oltre 20 punti. Inoltre, prevale fra gli studenti (di 6 punti). Infine, tra i pensionati (+ 8 punti), come era emerso nel 2006 (lo ha messo in luce Roberto Biorcio, nel volume di Itanes, "Dov'è la vittoria?", Il Mulino, 2006). Sulla spinta dell'insoddisfazione provocata dalla riforma previdenziale varata dal governo di centrodestra. (Rilanciata e, poi, smentita da Berlusconi anche nei giorni scorsi).

Il Pdl, invece, sovrasta il Pd fra i liberi professionisti (di 25 punti), fra i lavoratori autonomi e gli imprenditori (addirittura 35). Ma lo supera anche fra gli impiegati privati (di poco) e perfino (in misura più rilevante: 14 punti in più) tra gli operai. In quest'ultimo caso, si tratta di un ritorno alla normalità, dopo la parentesi del 2006, quando il voto dei lavoratori dipendenti si era distribuito equamente tra Cdl e Unione. Che, anche per questo motivo, era riuscita a vincere le elezioni. Oggi tendono a spostarsi di nuovo a destra (com'era avvenuto in precedenza, fino al 2001), spinti dal senso di declino che li affligge. Infine, il Pdl risulta forte fra le casalinghe (23 punti più del Pd, insieme a Di Pietro). Da sempre "fedeli" a Berlusconi.

Questi dati mostrano come nella base sociale del voto, oggi, coesistano elementi di continuità e di cambiamento, altrettanto evidenti.

1. Le "costanti" del comportamento elettorale riguardano la doppia frattura che, da tempo, attraversa gli elettori in Italia: tra lavoro indipendente e dipendente; fra pubblico e privato. I lavoratori indipendenti (imprenditori, autonomi, liberi professionisti) e quelli del privato (compresi gli operai) sono maggiormente orientati a destra. Mentre votano prevalentemente a sinistra i dipendenti pubblici - soprattutto gli impiegati e le figure "intellettuali". Oltre agli studenti e, da qualche anno, i pensionati.

2. I cambiamenti si collegano, invece, all'offerta politica. Il Pd, infatti, in questa occasione si presenta da solo. Il che ne riduce il consenso nei ceti popolari. A causa della concorrenza della Sinistra Arcobaleno, che esprime un buon grado di attrazione fra gli operai, ma anche fra gli impiegati. Per contro, fra gli operai e i lavoratori autonomi del Nord, è forte l'incidenza elettorale della Lega, stimata fra il 10 e il 14%. L'Udc, infine, appare competitiva soprattutto fra i pensionati.

Osservate con gli occhiali della struttura e della dinamica sociale, queste elezioni delineano un passaggio ancora incompiuto. Il passato non è ancora passato. E il futuro non appare chiaro, agli elettori. Che guardano le novità con interesse e curiosità. Ma, poi, seguono la scia delle continuità. Per cui la base sociale del Pdl riproduce, fedelmente, il calco impresso da Berlusconi, da sempre. Mentre il Pd di Veltroni, che più degli altri ha innovato, fa emergere un profilo sociale ancora incerto. A metà strada, fra passato e futuro. Il Pd. Sconta l'antica diffidenza della borghesia privata - grande e soprattutto piccola e media. Ma subisce lo sconcerto dei ceti popolari: colpiti dal declino, preoccupati dal verbo riformista recitato da Veltroni. D'altronde, le sfide del cambiamento non sono mai facili. Soprattutto quando il tempo a disposizione, davanti, è poco. Mentre il passato di cui ci si vuole liberare: è eterno. Non è ancora finito.

(21 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Voto, giovani tentati dalla destra
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2008, 12:14:00 pm
POLITICA

Il sondaggio Demos&Pi. Trend invertito rispetto alle ultime due elezioni politiche

Per il futuro previsioni "nere". Il 63% dice: staranno peggio dei genitori

Voto, giovani tentati dalla destra

Pdl e Lega avanti di 5 punti

di ILVO DIAMANTI


 Raramente, nel corso delle campagne elettorali, abbiamo sentito parlare, tanto spesso, di "giovani". E di giovinezza, gioventù. Raramente, in precedenza, i "giovani" sono stati esibiti, in modo altrettanto vistoso.

Come vessilli, feticci, bandiere. Testimonial della volontà dei partiti di cambiare. Se stessi. E, più in generale, la società. Incapace di rinnovarsi. Monca del futuro.

I giovani, da parte loro, seguono con attenzione la campagna elettorale sui media. Ne discutono in famiglia e con gli amici. Quasi metà di essi (fra 18 e 29 anni) afferma di interessarsi (molto o abbastanza) di politica, in questa fase. Dieci punti in più rispetto alla media generale degli elettori (indagine Demos, condotta nei giorni scorsi). Non è un caso che il tasso di incertezza elettorale, fra i giovani, sia il più basso, nella popolazione (lo conferma Renato Mannheimer, sul Corriere della Sera).

D'altronde, nell'ultimo decennio, hanno espresso grande capacità di mobilitarsi, su tematiche diverse: la scuola, il lavoro, la pace, la solidarietà. Un'abitudine che sembrano non aver perduto. Visto che, per migliorare la società, considerano utile (sondaggio Demos) partecipare a manifestazioni, impegnarsi nel mondo associativo e, perfino, nei partiti.
Tuttavia, negli ultimi anni il loro orientamento politico pare cambiato. Non rovesciato, intendiamoci. Piuttosto, modificato. Negli anni Novanta, infatti, il voto giovanile si era spostato decisamente a sinistra. In particolar modo (come hanno mostrato, in modo esplicito, le indagini di Itanes), alle elezioni del 2001 e, in misura più limitata, nel 2006.

Oggi, alla vigilia delle elezioni, si assiste a un sostanziale riallineamento tra le diverse posizioni. Fra i giovani (18-29 anni), infatti, prevale - di poco - l'alleanza guidata dal Pdl. Che supera di circa 5 punti quella guidata dal Pd (indicazioni coerenti provengono da sondaggi di Ipsos ed Eurisko). I due partiti maggiori, in effetti, si equivalgono. Per cui la distanza è determinata dagli apparentamenti. La base giovanile della Lega, infatti, è molto più consistente rispetto a quella dell'Italia dei valori. Non va trascurato, inoltre, che, fra i giovani, la Sinistra Arcobaleno - due anni fa alleata dell'Ulivo - dispone di un consenso rilevante: intorno all'8%.

L'esperienza del lavoro, secondo tradizione, sposta l'orientamento elettorale dei giovani verso destra. La condizione di studenti e un titolo di studio elevato spingono, invece, il voto più a sinistra. Ma in misura meno rilevante, rispetto al passato recente (rilevato dalle indagini di Itanes).

Fra coloro che votano per la prima volta, infine, il Pd e la Sinistra risalgono. Le distanze tra Berlusconi e Veltroni si annullano. Ciò suggerisce come lo slittamento a destra riguardi i giovani "più vecchi".
Per alcune ragioni, che proviamo a elencare.
1. Insieme all'età, matura l'esperienza di lavoro. E lavorare (per quanto possa apparire singolare), soprattutto nel privato, induce a votare (maggiormente) a destra. D'altronde, il lavoro nel privato si svolge, ormai, prevalentemente in aziende di piccola dimensione. Inoltre, i giovani passano attraverso esperienze informali, individuali e intermittenti. Lontano dal sindacato. Peraltro, nel lavoro si sono affermati significati, valori e attori esterni alla sinistra: la flessibilità, l'imprenditorialità; Berlusconi.

2. Negli ultimi anni, soprattutto dopo le elezioni del 2006, la società italiana è stata scossa da un vero "collasso del futuro", che ha visto i giovani protagonisti - involontari e controvoglia. Oggi, infatti, quasi due italiani su tre ritengono che i giovani, nel prossimo futuro, avranno una posizione sociale ed economica "peggiore" rispetto ai loro genitori. Quindici punti più di due anni fa. Parallelamente, si è diffusa la (ragionevole) convinzione che la società impedisca ai giovani di occupare uno spazio adeguato alle loro aspettative e alle loro capacità. D'altronde, 7 italiani (e altrettanti giovani) su 10 non ritengono necessario conseguire una laurea per accedere a un'attività professionale remunerativa. La maggioranza delle persone (60%), invece, pensa che per trovare lavoro e fare carriera occorra ricorrere a raccomandazioni. Fra i più giovani questa convinzione è ancor più condivisa (66%). Il senso del declino, che ha investito gli italiani, dunque, opprime i più giovani in modo particolare. Perché hanno il futuro davanti. Ma a loro appare un muro, difficile da valicare. Ciò li ha resi diffidenti verso i partiti. Soprattutto verso il governo di centrosinistra che li ha definiti "bamboccioni". (Anche se per denunciare le colpe degli adulti).

3. L'antipolitica ha investito la politica e i partiti. Tutti. Ma in particolare quelli di centrosinistra, la cui base si è dimostrata, da subito, sensibile alla protesta del V-day. Il cui leader, Beppe Grillo, ottiene il consenso più ampio fra i giovani (soprattutto sopra i 25 anni). Anche per questo il peso degli elettori incerti oppure intenzionati ad astenersi, fra i giovani che nel 2006 avevano votato per l'Ulivo, è molto superiore alla media.
Nel complesso, i giovani, oggi, non stanno a destra e neppure a sinistra. Il loro "spirito radicale" si esprime nell'antipolitica piuttosto che nel voto a partiti antagonisti. Non hanno scelto il riflusso nel privato, ma dimostrano un interesse politico elevato. Non rivelano, come nel passato, più o meno recente, orientamenti di voto distinti. Semmai, indistinti. Magari un po' sperduti, in questa società che rifiuta di diventare adulta. Visto che la giovinezza, secondo gli italiani, finisce a 36 anni. Ma, secondo i più anziani (65 anni e oltre), a 40.
La gioventù diventa, così, una condizione "eterna", che si dilata nel tempo e nella società. E se tutti sono giovani, per sempre, alla fine i giovani diventano un mito. Una leggenda. Una generazione invisibile. Evocata, proprio per questo, in modo incessante. Una razza protetta, a rischio di estinzione. Controllata a vista. Esibita, talvolta (nelle liste). Come i panda.

(23 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quanto conta il voto del partito di chi non vota
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2008, 10:45:50 am
POLITICA Mappe

Quanto conta il voto del partito di chi non vota

ILVO DIAMANTI


Alle legislative del 2006, oltre il 15% degli elettori dichiararono di aver deciso per quale partito votare nell'ultima settimana. Il 6% il giorno stesso (indagine postelettorale di LaPolis, Università di Urbino). In pratica, nel tragitto fra casa e il seggio. Magari: in cabina, aprendo la scheda. Perché la scelta di voto non è un atto scontato. Le radicate fedeltà di un tempo, nel tempo, si sono sfaldate. Insieme ai partiti intorno a cui si erano formate. Poi, non bisogna credere che tutte le persone siano egualmente interessate alla politica. Al contrario: è vista dai più con indifferenza e, talora, con fastidio. Per cui, non si deve pretendere che fin dal primo giorno di campagna elettorale tutti gli elettori si chiedano - e sappiano - per chi votare.

In numerosi casi, peraltro, le convinzioni cambiano. Anche quando sembrano solide. L'elettore deciso a cambiare, al momento del voto, spesso ritorna sui suoi passi. Oppure, viceversa: l'elettore privo di dubbi, al momento del voto, di fronte alla scheda decide di svoltare. Un segno e via.

Naturalmente, ogni elezione fa storia a sé. Le politiche del 2006 si tradussero in una sorta di scontro bellico-mediatico, che infiammò la campagna. Così, Berlusconi mobilitò molti elettori di centrodestra, affetti dalla delusione e dall'apatia. Questa volta il discorso è diverso. La campagna elettorale appare più apatica degli elettori. I due principali candidati alla vittoria finale intenzionati a confrontarsi solo a distanza. Degli scontri di due anni fa, oggi, risuonano solo echi lontani. In tivù, ormai, passano perlopiù i candidati degli altri partiti, alla caccia di visibilità. E del quorum.

Per cui è probabile che la quota di coloro che ancora non hanno deciso oppure, più semplicemente, non si sono ancora posti il problema, sia più ampia di due anni fa. Molto più ampia, diremmo. Anche perché, rispetto al passato, è cambiata l'offerta politica. I partiti, le sigle, le coalizioni. Molti elettori non hanno ancora compreso le novità e i cambiamenti di questa fase. Altri, invece, non le hanno metabolizzate; stentano ad accettarle. Per cui, la quota degli incerti, a una settimana dal voto, è alta. Crediamo che si estenda a poco meno di tre elettori su dieci. Non abbiamo dati precisi; ma, soprattutto, non li possiamo dare. Per par condicio. Per cui, ragioniamo a spanne.

Un terzo di questi "elettori in bilico" sono distaccati, estranei alla politica. Non è improbabile che, alla fine, se la giornata è bella - e forse anche se il tempo è brutto - si scordino di votare. I rimanenti "elettori in bilico" si dividono a metà, tra indecisi e (potenziali) astensionisti. In altri termini: fra elettori che non hanno deciso "per chi" oppure "se" votare. In entrambi i casi, prevalgono coloro che, nel 2006, avevano votato per il centro-sinistra. Soprattutto per la lista dell'Ulivo. Ma è significativo anche il peso degli elettori di centro.

Gli elettori incerti, perlopiù, sono orientati da una "certezza inconsapevole". Al momento del voto, in altri termini, esprimeranno la scelta di sempre (lo hanno sottolineato, fra gli altri, Pagnoncelli, Vannucci e Natale). Basta offrire loro una buona ragione. Diverso è il discorso degli astensionisti. I quali, in questa occasione, si presentano in modo parzialmente nuovo e diverso rispetto alle elezioni precedenti. In quanto non si esauriscono nei tipi tradizionali.

Nell'astensionista marginale: estraneo alla politica anche perché socialmente periferico. Oppure nell'elettore indifferente, che, se risvegliato, si colloca perlopiù a destra.

In questa fase, invece, appare particolarmente esteso un atteggiamento di "astensione attiva". Spesso dichiarata. Proclamata. Espressa, ripetiamo, soprattutto da elettori di centrosinistra. Informati, spesso politicamente coinvolti. Facendo riferimento ad alcune indagini condotte in questa fase (da Demos, Ipsos e SWG), possiamo individuare tre tipi principali.

a) I "vaffa". Considerano il Pd uguale agli altri partiti. Perché non ha rinunciato ai privilegi della Casta. Ha mantenuto in lista troppi esponenti della nomenclatura, qualche indagato e molti volti nuovi di cui non si sentiva il bisogno.

b) I "tradizionalisti". Fedeli alle tradizioni politiche più radicate. Ex-comunisti ed ex-democristiani. Oppure: ex-diessini e popolari. Non si capacitano, di fronte a un soggetto politico nuovo, come il Pd. Che, per scelta, ha reciso i legami con il passato. E guarda altrove: all'America, all'Inghilterra di Blair. O, peggio, all'Italia di Berlusconi. A maggior ragione, stentano a riconoscersi nel "melting pot" della Sinistra Arcobaleno.

c) I "radical". Sofisticati, considerano l'approccio del Pd di Veltroni troppo frivolo e mite. Troppo dissociato. Troppo incline alla filosofia del "ma anche". Troppo pop. Meglio: nazionalpopolare. Scarsamente laico. Troppo lib e poco lab. Stressato fra la Binetti e Calearo.
Per gran parte di questi elettori, l'astensione è una scelta. Il "voto di chi non vota" (efficace titolo di un volume curato da Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino, pubblicato anni fa dal Mulino).

Questi tre tipi di astensionisti risultano, tutti, attraversati da un sentimento comune e condiviso. La frustrazione prodotta dall'assenza del Nemico. Dalla scomparsa di Berlusconi dal discorso politico di Veltroni. Che ha rinunciato perfino a nominarlo. Usa perifrasi, come: "il principale esponente dello schieramento a noi avverso". E lo fa in modo aperto e provocatorio. Per marcare la distanza dal centrosinistra passato (più o meno prossimo). Che aveva costruito vittorie e sconfitte sulla figura del Cavaliere. Sull'Antiberlusconismo. Fino a divenirne gregario.

Per cui Veltroni prosegue, senza esitazioni, questa campagna elettorale "irenica", come l'ha definita, con un po' d'ironia, Giovanni Sartori (sul Corriere della Sera). Toni bassi, rinuncia a temi dominanti e laceranti, pluralità tematica. Berlusconi trasformato nel "Cavaliere inesistente". L'Innominato. In questo modo, il leader del Pd, dopo aver eroso (secondo i sondaggi) la base della Sinistra, si rivolge agli elettori moderati. In altri termini: approfittando degli attacchi lanciati da Berlusconi contro l'UdC, in nome del "voto utile", cerca di spingere gli elettori di centro verso il Pd.

In questo modo, però, alimenta la tentazione astensionista, nella sua base. Delusa dall'esperienza di governo, ma anche da una campagna elettorale sottotraccia.

L'esito delle elezioni, domenica prossima, dipenderà, in misura significativa, dal "voto di chi non vota". Il risultato del Pd, in particolare, pare destinato a migliorare quanto più il livello di partecipazione elettorale crescerà, avvicinandosi all'84% raggiunto due anni fa.

Da ciò, un duplice quesito.
1) A Walter Veltroni: se sia possibile dissipare l'incertezza e la voglia di astensione, diffuse nella sua base, senza deviare, nemmeno per sbaglio, il suo viaggio su Arcore. Senza sfidare apertamente il Cavaliere. Come in ogni battaglia - o, se si preferisce, competizione - elettorale che si rispetti.

2) Agli elettori tentati dall'astensione attiva. Ai "vaffa", ai "tradizionalisti" e ai "radical". Se sia davvero inattuale il paradigma montanelliano, che invita a turarsi il naso e a votare il "meno peggio". Per non contribuire, con il loro (non) voto consapevole, a consegnare il governo del Paese nelle mani dell'Innominato.

(6 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Siamo stanchi di miracoli
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2008, 02:44:13 pm
POLITICA MAPPE

Siamo stanchi di miracoli

di ILVO DIAMANTI


Riflettere sul voto il giorno in cui si vota rischia di essere frustrante. Per chi scrive e per chi legge. Nel giorno del voto si attende solo l'esito del voto. Il dopo. Sul "prima" è stato detto tutto quel che c'era da dire. Semmai, qualcosa di più. Ma questa volta la frustrazione dell'analista, se possibile, supera le occasioni precedenti. Per due ragioni, almeno.
La prima: si ha l'impressione di assistere al secondo turno delle elezioni del 2006. Che si svolge non due settimane, ma due anni dopo. L'equilibrio sostanziale del voto, alla Camera; la mancanza di una maggioranza reale al Senato: hanno costretto Prodi quasi a "fingere" di governare.

Un tentativo generoso quanto improbabile. Assediato dall'esterno e dall'interno. Dall'opposizione di Berlusconi, che ha continuato a "disconoscere" la legittimità del risultato. E dai sedicenti alleati, mossi da fini particolari e particolaristici, alla ricerca continua di visibilità e distinzione.

La seconda ragione che rende difficile presentare questa consultazione riguarda l'incertezza. (a) Quella degli elettori, che continua ad essere alta. D'altronde, due anni fa il 9% dichiarò di aver deciso per chi votare nelle ultime 24 ore. Il 6% il giorno stesso. E questa volta l'indecisione è accentuata, in parte, dalle novità dell'offerta politica. Partiti nuovi, sigle nuove, alleanze nuove. (b) L'incertezza degli analisti, degli esperti di opinione pubblica, dei pollster (sondaggisti). Mai come in questa occasione i sondaggi sono stati citati, presentati e pubblicati un po' dovunque. Da sigle e figure note e da altre meno note. Alcune perfino ignote. Usati dai candidati in campagna elettorale, come strumenti di persuasione. Branditi come armi di propaganda. O ancora: ripudiati. Sondaggi e sondaggisti. A seconda dell'interesse e dell'opportunità. Anche a prescindere dagli abusi che hanno contrassegnato il ricorso ai sondaggi, è diffusa, fra gli esperti, l'impressione che al fondo della decisione di voto vi sia un fondo difficile da esplorare. Irraggiungibile a ogni tentativo di scavo. Non solo per imperfezioni e imprecisioni metodologiche. Perché, più semplicemente, molti elettori, alla fine, decidono diversamente da come pensavano solo pochi giorni prima. Perché, inoltre, in molti casi oppongono un atteggiamento reticente a chi si propone di sondare la loro scelta. Talora - non di rado - mentono.
D'altronde, diversamente da altrove, in Italia il voto continua a marcare l'identità personale. Un segno di riconoscimento. E di stigmatizzazione.

Per cui, incerti gli elettori, gli analisti e i sondaggisti: l'esercizio di pre-vedere diventa frustrante. Molto meglio, allora, vedere. Dopo che l'esito sarà più chiaro.

Più che riproporre bilanci oppure lanciare appelli (non ne saremmo capaci), dunque, di questa elezione sembra utile sottolineare i numerosi, rilevanti elementi di novità proposti. Insieme alla continuità di fondo che li lega.

1) In queste elezioni si sperimenta la capacità di attrazione di due nuovi partiti "larghi": Pd e Pdl. Due contenitori, in cui convergono identità, componenti sociali, interessi e culture differenti. Due partiti maggioritari e personalizzati. Presidenziali, diremmo. Un modello imposto dal Pd, alle primarie dello scorso ottobre. Dopo un cammino lungo 12 anni. E riprodotto, in fretta, da Berlusconi, un mese dopo, con il Pdl. Non solo per il timore di recitare la parte del "vecchio avanzato"; lui, che, dopo il crollo della prima Repubblica, ha interpretato "il nuovo che avanza". Anche perché, in questo modo, ha potuto allargare il suo "partito personale", facendo confluire, nel medesimo alveo, An accanto a Fi. Senza congressi, dibattiti, confronti. Senza consultazioni né primarie. Così: con un colpo d'ala. Secondo lo stile - e il temperamento - del Cavaliere.

2) Nuovo appare anche l'orientamento della campagna elettorale. Per la prima volta, dal 1994 a oggi, non ha riprodotto i toni e l'andamento di una campagna militare. Anzi, semmai, è apparsa un po' pallida. Sottovoce. Rutilante solo per quel che riguarda le promesse promesse. Tante, troppe. Spesso poco credibili. Comunque, poco fondate. Una campagna sottotraccia. Fino alla vigilia. A una settimana dal voto. Quando il Cavaliere ha ceduto alla sua indole. È tornato il Caimano. In pochi giorni, ha attaccato Di Pietro e i magistrati. Le istituzioni ostili. Ha suggerito (come "ipotesi di scuola", ovviamente) le dimissioni di Napolitano. Si è, finalmente, liberato dell'atteggiamento "educato" verso Veltroni e il Pd. Ultimi eredi - mascherati - della tradizione comunista. Ha permesso, in questo modo, a Walter di smettere, per un momento, il volto sorridente di Obama. E di usare, come un'arma, lo stile politicamente corretto. Marcando la distanza fra Obama e il Caimano.

3) Decisamente nuovi, infine, gli attori. Il confronto personale, infatti, non ha opposto Berlusconi a Prodi. Per la prima volta, dal 1994. Perché, anche nel 2001, quando il centrosinistra candidò Rutelli, si percepiva l'ombra lunga di Prodi. Il leader dell'Ulivo. Ma oggi il professore è fuori gioco. Il leader del Pd è Veltroni. Il che costituisce una novità. Come è nuova la presenza autonoma di altri leader. Casini: fino ad oggi fedele a Berlusconi. Lo stesso Bertinotti. Il cui avversario da battere è la logica del voto utile. Impersonata da Veltroni.

4) Tante novità, tuttavia, avvengono dentro strutture politiche e normative largamente tradizionali, per non dire vecchie. È il paradosso italiano. L'ossimoro nazionale. Per cui partiti maggioritari, partiti personalizzati e quasi personali si sviluppano dentro una legge elettorale proporzionale e "partitocratica". Si assiste a una campagna di tipo presidenzialista, fra due candidati presidenziali: senza presidenzialismo. Alla sfida diretta, quasi "privata", fra Berlusconi e Veltroni: senza neppure un faccia a faccia in televisione. Si mira, esplicitamente, a superare l'antiberlusconismo, ad abbattere il muro di Arcore. Con la presenza e il contributo di Silvio Berlusconi. Inventore della seconda Repubblica; dal 1993, al centro della scena politica e di ogni competizione elettorale.

È proprio vero: noi italiani siamo "strani", come ha rammentato ieri Marc Lazar, sulle colonne di questo giornale. Confidiamo sempre della nostra proverbiale "arte di arrangiarci". Contiamo di cambiare tutto lasciando tutto uguale a prima. Bravi a reagire alle emergenze, noi italiani. A inventare qualcosa di nuovo, quando tutti ci danno per finiti. A sorprendere e a sorprenderci. In attesa di uomini della provvidenza, inviati (e, magari, unti) dal Signore.
Personalmente, però, saremmo stanchi di miracoli.

(13 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sette punti persi dal centrosinistra
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 11:55:46 am
POLITICA MAPPE

Sette punti persi dal centrosinistra

di ILVO DIAMANTI


 A leggere i titoli dei giornali di oggi c'è da stropicciarsi gli occhi. Pare di essere tornati indietro di 10-15 anni. Ai trionfi di Forza Italia e della Lega. Una marcia rapida verso il passato. Con la differenza che, allora, Lega e FI erano concorrenti. Alle elezioni del 1994: vinsero insieme, nel Polo delle Libertà. Ma FI cannibalizzò la Lega. Nel 1996 avvenne il contrario. La Lega corse da sola, contro il Polo. E sfondò, nel Nord, realizzando il maggiore risultato della sua storia. A spese di FI.
In queste elezioni, invece, la Lega si è affermata, anzi, ha trionfato alleandosi con FI e AN, confluiti nel Popolo della Libertà. L'ultima invenzione di Silvio Berlusconi. Non un leader, ma, come ha sottolineato Mauro Calise sul Mattino, "il capo". Un accordo vantaggioso per tutti. Il Pdl, nel Centrosud, ha, infatti, ampiamente recuperato i voti "ceduti", nel Nord, alla Lega. Che, peraltro, ha conquistato alla causa comune consensi che vanno molto al di là dei confini di centrodestra. Quanto alle forze politiche di centrosinistra, si tratta di una pesante sconfitta. Al di là delle attese. Disastrosa per la Sinistra Arcobaleno. Per capire perché e come sia avvenuto tutto ciò, conviene precisarne meglio le misure, le dinamiche, la geografia, la sociologia del risultato. In modo sommario e, necessariamente, approssimativo.

1. Il successo di Berlusconi è stato netto. La sua coalizione ha ottenuto oltre 17 milioni di voti alla Camera. Circa 3 milioni e mezzo in più dell'alleanza Pd e IdV, che sosteneva Veltroni. La quale prevale solo nelle regioni rosse (+14 punti percentuali). Inoltre, c'è equilibrio nelle regioni del Centrosud (Lazio, Abruzzo e Molise: +2 punti per il Cavaliere). Mentre nelle altre zone il successo di Berlusconi appare schiacciante: +17 punti nel Nordovest, +19 nel Nordest, +15 nel Mezzogiorno e nelle Isole. Difficile, per il centrosinistra, agitare la "questione settentrionale", questa volta. Perché altrettanto grave, per questa parte politica, risulta la "questione meridionale". D'altronde, nel Sud, la coalizione di Veltroni, rispetto al 2006, è cresciuta di un solo punto, grazie all'IdV.

2. Dal punto di vista territoriale, il Pdl è il primo partito in 67 province, il Pd in 35, la Lega in 6. Il Pd prevale nelle tradizionali regioni rosse (Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche). Inoltre, nelle nuove regioni "rosa" del Centrosud: Molise e Basilicata. Mentre crolla in alcune regioni dove, negli ultimi dieci anni, si era consolidato. Fra tutte: la Campania.

3. La Lega si impone ovunque, nel Nord padano. Ma soprattutto nelle sue zone di origine. Nelle zone pedemontane, che hanno conosciuto negli ultimi vent'anni una grande crescita dell'economia di piccola impresa. Supera il 30% in 5 province: Sondrio, Verona, Bergamo, Vicenza e Treviso. Ma in altre 20 va oltre il 15. Da Belluno a Cuneo, passando per Brescia, Como e Varese. La stessa mappa del '92. Che, a sua volta, riassume la propagazione del voto leghista dal 1983 in poi. La sorpresa di chi continua a sorprendersi dei successi della Lega, a intervalli regolari, è, quindi, fuori luogo. Oggi è il partito che ha più storia tra quelli presenti in Italia. Viene da lontano. Ha quasi 30 anni. È radicato. Governa città e province. Nel 1993 (qualcuno lo dimentica) conquistò Milano.

4. Il Pdl è partito più forte in quasi tutto il Mezzogiorno, isole comprese. Soprattutto in Sicilia, dove raggiunge livelli elevatissimi. Ma è forte anche nel Nordovest. Ripercorre e riproduce la geografia e la biografia dei soci fondatori. FI, che, fin dall'origine, ha ottenuto le migliori performance nel Nordovest, lungo l'asse che collega Milano alla Liguria Occidentale; nelle isole, soprattutto in Sicilia; nella fascia tirrenica del Mezzogiorno. An: che ha ereditato e rafforzato il bacino elettorale del Msi, nel Centrosud, lungo l'asse che unisce il Lazio alla Puglia.

5. Malgrado il profondo rinnovamento dell'offerta politica degli ultimi mesi, quindi, la geografia del voto non è cambiata. Le fedeltà politiche territoriali degli italiani appaiono più forti di ogni influenza mediatica. Più vischiose di ogni personalizzazione.
La novità, semmai, è che la Lega, per la prima volta, ottiene un risultato travolgente insieme al centrodestra. Non "sola contro tutti". Probabilmente perché, in questi anni, ha potuto operare all'opposizione. La posizione che sa sfruttare meglio.

6. Infine, l'Udc ha tenuto il suo segmento di voti. Limitato, ma comunque stabile. Le forze politiche della Sinistra Arcobaleno, invece, hanno subito un vero tracollo. Hanno perduto il 7% su base nazionale. Nel 2006, avevano ottenuto oltre il 10% dei voti validi. Alle elezioni dei giorni scorsi, insieme, poco più del 3%. Oltre due milioni e mezzo di voti in meno.

7. Una voragine aperta nel centrosinistra. Che la coalizione guidata da Veltroni ha colmato in minima parte. IdV ha sicuramente ottenuto un buon risultato. Il 4,4%. Quasi il doppio rispetto a due anni fa. Quanto al Pd, se consideriamo insieme i partiti che ne fanno parte (oltre a Ds e Margherita, anche i Radicali e la lista dei Consumatori), rispetto al 2006 si osserva una crescita molto ridotta: meno di 1 punto percentuale. Che si realizza soprattutto nelle zone rosse e nel Centrosud. Mentre nel Nord e nel Mezzogiorno è sostanzialmente fermo. Oppure perde qualcosa. In altri termini: il Pd ha intercettato i voti delle forze politiche che lo hanno promosso. Ma non è riuscito ad attrarre flussi aggiuntivi. Dal centro e soprattutto da sinistra.

8. Così, se consideriamo il bacino elettorale di destra e sinistra delineato dalla Cdl e dall'Unione nel 2006, oggi, il piatto della bilancia pende decisamente a destra. In particolare, i voti delle forze politiche di centrosinistra (l'Unione), rispetto a due anni fa, sono calati di quasi 7 punti percentuali. Esattamente quelli perduti dalla Sa. Finiti, evidentemente, altrove. Insieme a molti socialisti. Se osserviamo i primi flussi elettorali (elaborati da Ipsos su dati aggregati, utilizzando il modello di Goodman), ne abbiamo conferma. Su 10 elettori dei partiti di sinistra radicale, infatti, sembra che meno di 3 siano rimasti fedeli, altri 2 abbiano votato per il Pd e IdV, seguendo il richiamo del voto utile. La metà di essi, invece, si è divisa equamente, fra l'astensione e altre formazioni politiche. In minima parte di estrema sinistra, soprattutto di centrodestra. Per il Pdl, nel Mezzogiorno. Per la Lega, in molte zone del Nord.
Non ci soffermiamo sulle ragioni politiche di questa diaspora. Ci limitiamo, invece, a sottolineare come contribuisca a enfatizzare un problema di rappresentanza e di prospettiva, già evidente in passato. Come hanno mostrato le indagini di Demos, pubblicate su Repubblica nelle ultime settimane, il Pd prevale, sotto il profilo elettorale, fra gli impiegati pubblici e i pensionati. Mentre il Pdl supera, nettamente, il Pd fra gli imprenditori, i lavoratori autonomi e i dipendenti del privato. Infine, tra i giovani (soprattutto se lavorano).

Da ciò l'interrogativo. Quale futuro può attendere una forza politica riformista di centrosinistra asserragliata nelle tradizionali regioni rosse? Straniera nel Nord e spaesata nel Mezzogiorno? Se non riesce a parlare ai più giovani, alle classi produttive? Ai ricchi e neppure ai più poveri?

(16 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Successo della Lega e futuro d'Italia
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2008, 12:06:29 pm
POLITICA

Storia e geografia politica di un mondo che cerca una rivincita contro lo Stato

Quali sono i confini di un luogo che sembra totalmente diverso dal resto del Paese

Nord, tra il malessere e la ricchezza

Successo della Lega e futuro d'Italia

di ILVO DIAMANTI

 

Il Nord, ovviamente, esiste da sempre. In Italia, però, da una ventina d'anni, ne sono cambiate la definizione e la delimitazione. Oltre al significato. Aveva confini più larghi, un tempo. Oltre alle regioni al di sopra del Po, comprendeva l'Emilia Romagna, come, d'altronde, risulta ancora dalle pubblicazioni dell'Istat e degli altri organismi statistici.

Era identificato come luogo dello sviluppo di grande impresa, della metropoli. Per questo, gravitava su Torino. Vertice di un "triangolo industriale", che collegava, inoltre, Genova e Milano. Il resto era periferia. La provincia lombarda e piemontese, l'intero Nordest. Una campagna urbanizzata e industrializzata. Disseminata di piccole città e di piccole aziende artigiane. Prima o poi, sarebbero cresciute, le piccole imprese. Insieme alle piccole città. Avvicinandosi a Torino e alla Fiat. Questo si pensava, trent'anni fa.

Allora il Nord era definito anche in base alla geografia del potere politico. Che aveva il suo centro a Roma. Il Sud, invece, richiamava lo sviluppo arretrato e dipendente. Ma, insieme a Roma, "comandava". Garantiva il consenso elettorale, ma anche la classe politica, alle forze di governo. Da quell'epoca, molto è cambiato, nel Nord.

È cambiata la geografia economica. Torino non è più la capitale. Anche se si è ripresa, insieme alla Fiat. Da cui dipende molto meno di un tempo. I centri dello sviluppo, tuttavia, si sono spostati altrove. A Milano, metropoli di produzione dei beni immateriali (per citare Arnaldo Bagnasco). Nelle province pedemontane, che corrono a Nord del Nord e si tuffano nel Nordest. In vent'anni questa periferia si è industrializzata e urbanizzata come nessun altro posto in Europa. È passata dal prefordismo al postfordismo. Prima e dopo la Fiat. Senza tappe intermedie. Questa periferia è divenuta un centro. Diffuso e nebuloso. Anche l'Emilia Romagna e le altre regioni centrali hanno conosciuto una crescita rilevante dell'economia di piccola impresa. Ma non con la stessa "violenza". Né con lo stesso impatto sulla società e sul territorio. Così, il Nord si è allargato e, al tempo stesso, accorciato. Si è spostato più verso Milano e il Nordest. Ha eletto il Po a frontiera, respingendo l'Emilia Romagna. Perché lo sviluppo del Nord si è espresso in relazione stretta con la politica (e l'antipolitica). Lungo tre assi. 1) La contestazione dei tradizionali centri del potere economico e politico: Torino e Roma. Confindustria, il sindacato e i partiti "romani". 2) L'insofferenza per la politica, come mediazione realizzata dagli specialisti e dalle organizzazioni. Economia e società senza politica. Imprenditori, uomini del "popolo", che parlano come la gente comune. E gliele cantano forte a Roma, ai partiti romani, alla sinistra, al sindacato. Perfino a Confindustria. 3) La rivendicazione autonomista. Che, volta a volta, assume forme e traduzioni diverse: federalismo, indipendenza, secessione, devoluzione.

E' il "nuovo Nord" che pretende di contare. Di conquistare potere ma anche ascolto. A costo di gridare, insultare, spezzare le convenzioni; infrangere le "buone maniere". Gli hanno dato voce e rappresentanza, da tempo, due attori politici molto diversi fra loro. La Lega e Berlusconi.

La Lega, nelle aree di piccola impresa, nel territorio dei distretti. Dove prima c'era la Dc. Alle elezioni politiche di una settimana fa si è imposta come primo partito in oltre 800 comuni (su circa 4000, al di sopra del Po; Aosta e Bolzano escluse). Soggetto politico comunitario, che ha trasformato la società artigiana e laburista in una frontiera agguerrita. Bossi, fin dai primi anni Novanta, l'ha unificata. Le ha dato un'immagine e un nome: Padania. Patria dei produttori opposti allo "Stato dissipatore e oppressivo". Nel corso degli anni, la Lega si è insediata al governo di centinaia di comuni di taglia piccolissima, piccola. Ma anche media e grande. Come Verona, Treviso, Varese. Così è cresciuta una generazione di amministratori locali. Che recitano diverse parti, a seconda del luogo e del momento. Lo sceriffo, il governatore, il pragmatico, l'irredentista, il negoziatore. Perché nella metropoli sparsa del Nord, insieme alla ricchezza, è cresciuta anche l'inquietudine. Il territorio sta scomparendo. Il lavoro è garantito da centinaia di migliaia di immigrati (il 7% della popolazione, dove la Lega è più forte). Il mondo, in cui sono proiettate le imprese, fa paura. Viene in mente il bel film di Carlo Mazzacurati, La giusta distanza, ambientato in un paese del Polesine. Dove gli stranieri non sono gli immigrati. Ma noi. Quelli del Nordest. Spaesati dal successo.

L'altro volto del Nord è Berlusconi. Quanto di più diverso dalla fisicità della Lega. D'altronde, ha radici diverse. L'impresa immobiliare, il capitale finanziario e assicurativo. I media. Milano. Il suo "populismo" è mediatico. Nella santificazione della propria figura, della propria immagine di "imprenditore" di successo. In quanto tale - per definizione - più adatto di chiunque altro a fare politica. Perché si è fatto da sé, è riuscito in ogni impresa. Figurarsi se non è in grado di "gestire" lo Stato...

Questi due diversi modi di intendere e di rappresentare il Nord (la "megalopoli padana", come la chiama Giuseppe Berta, nel suo saggio appena pubblicato da Mondadori) sono, appunto, diversi. Perché hanno storie, geografie, economie e biografie diverse. Sono destinati, per questo, a rimanere distinti. Talora, a confliggere. Anche se alcuni elementi li attraggono. Li accostano. Il linguaggio, la personalizzazione (fisica o mediatica, non importa). I nemici. Roma, il ceto politico e le organizzazioni di massa. Lo Stato centrale. Da ciò il problema della "sinistra". Oppure del centrosinistra, non importa. Che continua ad abitare le grandi città. Soprattutto del Centrosud. (Ma anche del Nord. Dove vive da separato in casa). La cui base elettorale è radicata nel Centro. Nelle regioni rosse. Lungo l'asse Bologna-Firenze-Siena. Dove lo sviluppo di piccola impresa è incorporato nel sistema politico e nelle amministrazioni locali. Dove il ceto politico (lo hanno rilevato Carlo Trigilia e Francesco Ramella), da qualche tempo, si è progressivamente burocratizzato. Fatica a dialogare con le imprese. E con la società.

Questo Nord non è uno solo. È plurale. Ma è unificato dal linguaggio (im)politico di Berlusconi e della Lega. E ogni tanto "esplode". Nelle zone pedemontane. Quando crescono la sfiducia e il risentimento. Allora, affida alla Lega il compito di gridare il suo malessere. La sua insoddisfazione. La sua "differenza". Dal governo di Prodi, ma anche, preventivamente, da quello di Berlusconi. Il voto leghista, sottratto largamente (anche se non solo) al PdL, a questo serve. Come pre-monizione. O pre-ammonimento.

Il centrosinistra, invece, non ha mai sfidato apertamente la Lega (che, pure, D'Alema ebbe a definire "una costola della sinistra"), né Berlusconi sul loro terreno. Così, è costretto a evocare la "questione settentrionale". Dopo ogni sconfitta elettorale. E, quindi, spesso negli ultimi vent'anni. Senza trarne lezione, peraltro. Perché appare un lamento. Un inno all'impotenza. All'incapacità di capire e di agire. D'altronde, nel governo Prodi non ricordiamo un solo ministro del Nordest. Mentre i sindaci, i governatori del Nord si sono trovati, spesso, soli. A protestare contro Roma, contro il "loro" governo. Quasi fossero leghisti.

Dopo il voto del 14 aprile, Illy (più autonomista della Lega, sicuramente più liberista di Tremonti) è caduto. Cacciari, Zanonato e Dellai appaiono assediati. Neppure Chiamparino, la Bresso e la Vincenzi se la passano tanto bene. Bersani e lo stesso Fassino hanno lo sguardo più triste del solito. Il Nord padano ha ripreso ad allargarsi. Occupando lembi della via Emilia (cantata da Berselli e Guccini). Ma tutti se la prendono con Calearo. Perché è un padrone, per di più, piccolo. Dice cose di destra. È un autonomista e parla come un leghista. (Forse perché, in fondo, lo è). È proprio vero: nel centrosinistra, uno come lui, c'è finito per sbaglio.

(22 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Elezioni, cinque buoni motivi per consolarsi della sconfitta
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 11:44:08 pm
Rubriche - Bussole

Elezioni, cinque buoni motivi per consolarsi della sconfitta
 
Ilvo Diamanti


Le elezioni suscitano sempre sentimenti opposti, specie in Italia, dove è diffuso il senso di sfiducia reciproco, in base alle appartenenze politiche (e non solo quelle).

Così, dopo ogni consultazione, a seconda del risultato, c'è sempre qualcuno che si prepara alla resistenza oppure alla rivincita. Non importa la posizione sociale. Anche l'uomo della strada è talmente coinvolto che si sente "resistente" oppure "rivendicativo", attraverso l'identificazione nel partito o nel leader di riferimento. Magari, in senso op-positivo, se non positivo. Gli sconfitti, in particolare. Per cui, oggi, gli elettori dei partiti di sinistra si sentono orfani, quelli del Pd delusi. Quelli dell'Udc, più che al centro: presi in mezzo. Quelli che non hanno votato per protesta o per disagio: incazzati. Esattamente come prima.

Tutti si apprestano ad affrontare un lungo inverno. Inquieti e insofferenti. Dovrebbero considerare alcuni motivi di consolazione. Che riguardano, a volte, settori sociali estesi. Altre volte, gruppi limitati oppure singole persone.

1) Gli elettori di partiti di centrosinistra e di sinistra, finalmente, potranno coltivare ed esprimere la propria sfiducia, la propria insoddisfazione senza remore e senza sensi di colpa. Senza sentirsi, in parte, colpevoli e colpevolizzati per aver contribuito a delegittimare il governo della loro parte. O, peggio, per aver fatto "il gioco di Berlusconi". Da oggi, dunque, se "piove, governo ladro". Senza dubbi né esitazioni.

2) Il dilemma dell'asino di Buridano che, da sempre, lacera (letteralmente) il centrosinistra, per un poco, almeno, sarà meno lacerante. Ci riferiamo all'abitudine - frustrante -di invocare, alternativamente, la ragione liberal-liberista, oppure quella social-laburista, a seconda dei momenti. Visto che nel centrosinistra italiano, il linguaggio lib-lab risulta difficilmente utilizzabile e utilizzato. O lib o lab. L'uno o l'altro. Piuttosto, l'uno contro l'altro. Senza compromessi
Da oggi, almeno per qualche tempo, sarà possibile sanare questa contraddizione. I riformisti non dovranno prendersela con i massimalisti (scomparsi letteralmente). I "radicali" non si dovranno più lamentare dei "moderati". Ciascuno a casa propria. Anzi: alcuni (la sinistra radicale) fuori casa.

Questo duplice orientamento, al contrario, tornerà utile, come metodo critico verso l'avversario che governa. Il Centrodestra, Rovesciandogli addosso, a seconda dei casi, accuse di liberismo o laburismo; globalismo o protezionismo; interesse privato oppure indulgenza pubblica.

3) Un altro vantaggio della sconfitta - sicuramente il più benefico per il sistema politico e per le istituzioni - è la semplificazione dell'offerta politica. Ma, soprattutto, la dissoluzione dei "partiti individuali", emersi nel corso della scorsa, breve legislatura. Determinanti ai fini del governo Prodi, ma fattore di ingovernabilità. Soggetti politici, perlopiù, inesistenti sul piano sociale e politico. Partiti individuali senatoriali. Il cui peso, cioè, era dettato dal totale equilibrio di forze che caratterizzava il Senato. E impediva l'effettiva possibilità di decidere, per il governo. L'ascolto, l'attenzione, il potere di cui hanno goduto Pallaro, Dini, De Gregorio. E, ancora, Rossi e Turigliatto. Sono destinati a svanire. Di alcuni di essi ci dimenticheremo. Senza nostalgia.

4) I senatori a vita smetteranno di essere aggrediti perché esercitano le loro prerogative. Cioè: votano. Al loro voto, in questa legislatura, faranno caso in pochi. Rita Levi Montalcini, finalmente, potrà riposare. Pensare a se stessa. Troppo spesso dal suo voto è dipesa la sorte della maggioranza. Da oggi, per fortuna, ogni tanto potrà restarsene a casa; oppure recarsi altrove; partecipare a un convegno; ritirare un riconoscimento. Come non le capitava da due anni.

5) Anche Romano Prodi tirerà il fiato. Sta chiudendo il suo mandato e si prepara a partire, cercando di non dare nell'occhio. Quasi scusandosi della propria presenza. Come avesse fatto qualcosa di male. Come se non fosse l'inventore dell'Ulivo e del Pd. Quello che ha battuto Berlusconi una volta e mezzo. Da domani non farà più da capro espiatorio di ogni problema. Di ogni crisi. Non farà più da parafulmine alla sfiducia e alla delusione. Il puntaspilli degli esorcismi di avversari e di alcuni amici. A Berlusconi, crediamo, mancherà assai presto. Più avanti, molti italiani lo rivaluteranno. Siamo pronti a scommetterci.

Aggrediti dalla depressione, gli elettori di sinistra e di centrosinistra, non avranno più bisogno di dissimulare il loro sentimento. Da ora, si tratterà di un problema per chi governa. Fra un po', cominceranno ad apprezzare le virtù consolatorie della sconfitta; della condizione minoritaria. Dopo due anni di "vita spericolata" (e ansiogena) si dedicheranno a una "vita tranquilla".

A meno che non vogliano davvero cambiare orientamento. Fare sul serio. Esercitare un'opposizione responsabile e "costruttiva". Suggerire, proporre, controllare. Partecipare, comunque. Condividere. Come in una "normale" democrazia competitiva, dove ciascuno cerca di vincere, di battere l'altro. Ma, poi, tutti remano nella stessa direzione. Comunque, immaginiamo che, anche prima di affrontare questa prospettiva, si prenderanno una pausa. Di riposo, più che di riflessione. Una vacanza. Perché, dopo due anni stressanti e faticosi come questi, diventare "normali" da subito: sarebbe troppo.



(24 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se domani cadesse il Campidoglio, il Pd sarebbe confinato...
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2008, 11:07:23 am
POLITICA

Dal '94 c'era un tendenziale bilanciamento tra potere centrale e poteri locali

Ma già le elezioni amministrative di un anno fa hanno piegato l'assetto verso destra

Bipolarismo Milano-Roma in bilico l'onda Pdl non ricompatta il Paese

Dopo il primo turno del 13 aprile il centrosinistra ha mantenuto solo 6 dei 47 sindaci

Se domani cadesse il Campidoglio, il Pd sarebbe confinato nelle ex regioni rosse

di ILVO DIAMANTI

 

IL voto delle ultime settimane sembra destinato a unire l'Italia. E a renderne, al tempo stesso, più profonde le divisioni. Non ci riferiamo tanto agli effetti del voto politico. In questo caso, peraltro, la coalizione "per Berlusconi" ha allargato il suo peso elettorale in tutte le zone del Paese. Ma ci riferiamo all'equilibrio territoriale, fra governo e amministrazioni. Fra centro e periferia.

A partire dal 1994 e fino ad oggi, avevamo assistito a un tendenziale bilanciamento. Chi governava il Paese perdeva potere sul territorio. E viceversa. Con un andamento anticiclico.

1. Nell'autunno del 1993 la sinistra (il Pds e la Rete) aveva eletto i sindaci nelle principali città italiane. Da Venezia a Palermo. Da Torino a Roma. Da Firenze a Bologna a Napoli. Solo a Milano si era imposta la Lega, nel momento in cui proprio in quella città partivano le inchieste giudiziarie che avrebbero decomposto i partiti della Prima Repubblica. Peraltro sfibrati. Alle elezioni del 1994 aveva vinto il Polo delle Libertà. La coalizione del Centrodestra inventata da Silvio Berlusconi. L'anno seguente (quando, peraltro, Berlusconi aveva già concluso la sua prima esperienza di governo) il Centrosinistra aveva conquistato la maggioranza delle regioni italiane. Nel complesso: 9 su 15 (a statuto ordinario).

2. Dopo la vittoria del Centrosinistra (l'Ulivo, collegato a Rifondazione comunusta da un patto di desistenza) alle elezioni del 1996 si era verificato il "movimento" inverso. Cioè: il Centrodestra aveva "conquistato" il territorio. Soprattutto dopo il 1999, quando la Lega, in sensibile declino elettorale, era rientrata nella coalizione "personale" di Berlusconi. Si era, dunque, imposta in numerose città medie, ma anche grandi. Espugnando perfino "Bologna la rossa", capitale storica dell'Italia di sinistra. L'anno seguente, nel 2000, alle elezioni regionali il Polo delle Libertà conquista 10 regioni su 15 a statuto ordinario. Spingendo Massimo D'Alema, che ne aveva fatto un test di rilevanza nazionale, a dimettersi (pratica rara, in Italia). Un risultato che lancia il Centrodestra (divenuto "Casa delle Libertà") alla vittoria nelle elezioni politiche dell'anno successivo, nel 2001. Sempre alla guida del Cavaliere.

3. Da lì un nuovo cambio di ciclo. Caratterizzato dall'espansione del Centrosinistra (nella versione più ampia: Ulivo e Rifondazione). Che, nel 2007, governa, complessivamente, in 15 Regioni su 19. Inoltre, in 79 province contro le 26 amministrate dal centrodestra. Infine, in 396 comuni sopra i 15 mila abitanti, contro i 250 del centrodestra. In effetti, questa crescita si realizza, in larghissima parte, fra il 2003 e le elezioni regionali del 2005.

4. La stentata vittoria dell'Unione alle politiche del 2006 chiude definitivamente il ciclo. Le elezioni amministrative del maggio 2007 segnano il punto di svolta. La Lega e il Centrodestra conseguono successi travolgenti. Strappano al centrosinistra Verona, Monza, Alessandria, Gorizia, Asti. Il vento è cambiato. Un vento freddo e impetuoso. Soffia a Nord. E corre ovunque, nel Paese.

Abbiamo descritto in modo analitico e un poco pedante la successione di risultati che caratterizzano il voto politico e amministrativo nel corso della seconda Repubblica. Perché ci interessa dare sostanza all'incipit: il controcanto fra voto nazionale e locale. Elezioni politiche, da un lato, regionali, provinciali e comunali, dall'altro, hanno, sino ad oggi, seguito direzioni diverse e divergenti. E le elezioni politiche hanno chiuso il ciclo, piuttosto che aprirlo. Nel senso che hanno confermato la tendenza delineata, "prima", dalle amministrative e dalle regionali.

Certo, le consultazioni territoriali (regionali, provinciali e comunali) possono essere interpretate come elezioni di "mezzo termine". Usate dai cittadini per esprimere - in parte - la loro posizione verso l'azione del governo nazionale. E, dunque, per sanzionarlo. Viste le difficoltà incontrate da chiunque abbia avuto la ventura - oppure la sventura - di governare il Paese, vincolato - sempre - da maggioranze incerte, frammentate e divise.

C'è però una ulteriore spiegazione possibile. Non contraddittoria, ma semmai a integrazione dell'altra. La volontà dei cittadini di "bilanciare" i poteri, favorendo la costruzione di maggioranze diverse al centro e alla periferia. Quasi una coabitazione, secondo il modello che ha caratterizzato altri Paesi, nel passato più o meno recente. In Francia, ma anche negli stessi Usa. Dove i Presidenti hanno dovuto confrontarsi, talora, alle Camere (Assemblea Nazionale, Congresso o Senato), con maggioranze di diverso segno politico.

Tuttavia le elezioni recenti fanno emergere uno scenario diverso. Suggeriscono, cioè, la possibilità che i due livelli del potere - centrale e territoriale - possano allinearsi. Che il governo del Paese possa venire "unificato" dal Centrodestra di Berlusconi. Che, al terzo tentativo, dispone di un'ampia maggioranza alle Camere. Ma anche di un largo, crescente numero di amministrazioni territoriali. Potrebbe, quindi, governare senza eccessivi problemi. Se non quelli dettati dalle divisioni interne alla sua maggioranza.

Oltre ad aver vinto largamente le politiche, nell'election day del 13-14 aprile, il Pdl (insieme agli alleati di centrodestra) ha, infatti, ottenuto significativi successi anche nelle altre consultazioni. Alle regionali: ha trionfato in Sicilia. Mentre ha strappato al Centrosinistra il Friuli Venezia Giulia governato da Riccardo Illy. Forse il più autonomista dei governatori, tradito dal vento leghista e antiromano.

Alle municipali, il primo turno ha impresso un segno molto chiaro. Si è, infatti, votato in 71 comuni sopra 15mila abitanti, in 47 dei quali il sindaco uscente è di centrosinistra. Dopo il primo turno ne ha mantenuti solo 6 mentre in 13 ha perduto e in altri 28 casi il suo candidato è al ballottaggio. Parallelamente, dei 22 sindaci di cui disponeva, il Centrodestra ne ha rieletti 8, mentre gli altri 14 sono in ballottaggio. Per cui, il rapporto fra le due parti politiche si è rovesciato: 21 sindaci a 6, a favore del centrodestra. E' possibile che il ballottaggio di oggi e domani modifichi questo bilancio. Ma, sinceramente, ce ne stupiremmo.

Tuttavia, la "conquista politica dell'Italia" da parte di Berlusconi e dei suoi alleati dipende, in gran parte, dal risultato di Roma. Perché Roma non è solo la capitale d'Italia. E' anche la capitale del Centrosinistra. Che la governa fin dal 1993. Mentre perfino Bologna, nel 1999, è "caduta".

La capitale dell'Italia di Centrodestra, nella seconda Repubblica, invece, è sicuramente Milano. Insieme alla metropoli diffusa del Nord Pedemontano. Cuore dell'Italia dell'impresa, dei servizi, della comunicazione. Contesa e condivisa da Berlusconi, Bossi. E Formigoni. Negli ultimi 15 anni la competizione fra queste due città è divenuta continua. E accesa. Un conflitto che si svolge su diversi terreni. Malpensa contro Fiumicino. La "città del cinema" contro Mediaset. Roma contro Inter (e Milan). Il mercato globale della produzione e dei servizi contro il mercato (e il linguaggio) universale dei beni artistici. Anche questo dualismo e questo conflitto potrebbero finire. Mai come in questa occasione il confronto fra i candidati dei due schieramenti - Rutelli e Alemanno - è apparso tanto incerto. Tanto aperto.

Così, domani potremmo vivere in un'Italia unita. Governata da Berlusconi. Al centro e in periferia. Al Nord, al Sud e perfino al Centro. A Milano e a Roma. Il Pd verrebbe confinato dentro il perimetro delle "regioni rosse". Una sorta di "Lega Centro" (la formula è di Marc Lazar). Come i Ds e - prima di loro - il Pci.

Dubitiamo, tuttavia, che la fine del bipolarismo metropolitano pacificherebbe e compatterebbe il Paese. Nell'Italia unita dalla geopolitica, si produrrebbero altre fratture politiche. Più forti. Alimentate da un centrosinistra spaesato. Senza casa. E da un Centrodestra stressato. Stirato. Fra Roma e Milano.

(27 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Tra Roma e Vicenza
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2008, 06:00:29 pm
POLITICA IL COMMENTO

Tra Roma e Vicenza

di ILVO DIAMANTI


IL RISULTATO di Roma è troppo significativo, rilevante, netto. E, per il Centrosinistra, traumatico. Perché è la capitale d'Italia. E, fino a ieri, del Centrosinistra. Appunto: fino a ieri. Oggi la geografia politica italiana è cambiata. Soprattutto per il centrosinistra. Due settimane fa aveva riscoperto la "questione settentrionale", ieri, dopo il ballottaggio delle elezioni amministrative, ha riaperto la "questione romana". Quella "meridionale" si era già consumata, visti i risultati delle politiche. Visto l'esito delle elezioni regionali in Sicilia.

Così, si è spezzato anche il bipolarismo metropolitano che aveva caratterizzato la prima Repubblica. Milano e Roma. Capitali delle due Italie. Rispettivamente: di Destra e Sinistra. Oggi il Paese è unito. Milano e Roma, sotto il segno di Berlusconi. Collante e cornice, capace di far coabitare Lega e An. Fino a quando e come non si sa. Ma, intanto, per la prima volta dai tempi della prima Repubblica, le due capitali hanno un governo di segno coerente. Il centrosinistra, rinnovato e riformato, dopo la fine dell'Unione e la "fondazione" del Pd, invece, appare "spaesato". Sperduto. Non ha più casa. A meno che non si consideri tale il rifugio tradizionale e storico delle "regioni rosse" del centro. (Dove, peraltro, qualche scricchiolio si avverte). Gli stessi confini, le stesse roccaforti del Pci, fin dalle origini. Quasi una cittadella assediata. Il Pd, in fondo, era nato per superarne i confini. Per andare "oltre". Per diventare un partito nazionale. In grado di governare l'Italia. Come la Dc nella prima repubblica. Come il cartello PdL-Lega, oggi.

Il processo di "sterritorializzazione" che ha colpito il centrosinistra, in questa fase, è ben descritto dal bilancio dei comuni oltre i 15mila abitanti, in cui si è votato in queste settimane. Fino a due settimane fa il Centrosinistra ne governava 47, il Centrodestra 22. Altri 2 erano amministrati da liste civiche. Oggi, il rapporto si è letteralmente rovesciato. Il Centrodestra ne governa 46 e il Centrosinistra 24. Sta cambiando la geografia politica del Paese. Radicalmente. In senso letterale. Perché intacca il rapporto fra partiti e società "alle radici". E dunque: sul territorio. Dovunque. Per questo, anche i risultati in controtendenza, come la vittoria del centrosinistra in alcuni capoluoghi di provincia del profondo Nord e del Nordest (Sondrio, Vicenza, Udine), rischiano di finire sullo sfondo.

Un "pannicello caldo", l'ha definita, ieri, Massimo Giannini, su Repubblica.it. Visto che le elezioni politiche di due settimane fa hanno celebrato l'eterno ritorno del Nord e della Lega. Tuttavia, non conviene svalutare Vicenza. Dove Achille Variati, candidato del Pd, si è imposto di misura, risalendo, al ballottaggio, di quasi 20 punti percentuali e di 6000 voti. Mentre la candidata del Centrodestra, Lia Sartori, ha recuperato solo 150 voti. Perdendo non solo gli otto punti di vantaggio precedenti. Ma soprattutto le elezioni.

Certo, il successo di Vicenza non può lenire la ferita di Roma, che è profonda e non rimarginabile. Né può mascherare il rapido logoramento dei legami locali del Centrosinistra e del Pd subito in questa occasione. Tuttavia, può servire. Anzitutto, a capire il Nord, senza attendere la prossima ondata leghista. E poi a cogliere il senso delle difficoltà incontrate dal Pd, non solo a livello locale. Ma più in generale: come modello di partito.

D'altronde, nel suo piccolo, anche Vicenza è diventata (suo malgrado) una capitale: del "forza-leghismo". Sede del Parlamento Padano. Il luogo da cui Silvio Berlusconi, nel marzo 2006, in occasione dell'Assemblea nazionale di Confindustria, lanciò la rincorsa a Prodi. Da dieci anni governata da un sindaco (ner)azzurro. Logica la tentazione di spiegare questo risultato come un accidente. O, più semplicemente, di rimuoverlo. Come ogni evento lontano dal "caput mundi". Eppure, un po' di riflessione servirebbe a capire che il "caso", come ovunque, c'entra (tanto più quando si vince di 500 voti). Ma contano di più altre ragionevoli ragioni.

1. Anzitutto, il pregiudizio che disegna il Nord come un porto avvolto nella nebbia. Verdeazzurra. E' un pregiudizio. Per limitarci al Nordest, considerata una "Vandea", il centrosinistra amministra molte realtà fra le più importanti. Da Venezia a Padova. A Udine. Senza dimenticare Trento e Bolzano (province autonome comprese). Fino all'anno scorso anche a Verona. Fino a due settimane fa il Friuli-Venezia Giulia. Quanto a Vicenza, capitale forza-leghista, non è mai stata forza-leghista. Due anni fa, al referendum sulla devolution, la maggioranza dei cittadini ha votato contro.

Cinque anni fa Vincenzo Riboni, candidato dell'Ulivo, al ballottaggio ottenne il 47% dei voti. Gli stessi sondaggi condotti negli ultimi sei mesi a Vicenza, con regolarità (da Ipsos e Demos), delineavano una situazione di incertezza. Perfino una settimana fa (Demos, 17-18 aprile, 1000 casi) i due candidati apparivano perfettamente alla pari. Considerarla perduta a priori era un pregiudizio infondato.

2. L'importanza del candidato e del sistema di selezione. Lia Sartori è stata scelta dall'alto. Tra conflitti e mediazioni che hanno opposto Lega e Forza Italia, anche al loro interno. Un tempo figura d'apparato della sinistra socialista. Oggi "donna forte di Forza Italia". Vicina al governatore Giancarlo Galan. "Una di Thiene", ricca cittadina commerciale, a poca distanza da Vicenza. Lo stesso che candidare a sindaco di Malo "uno di Isola", direbbe Luigi Meneghello.

Invece Variati, cinquantenne, è un candidato vicentino, con una storia vicentina. Già sindaco fra il 1990 e il 1995. Di provenienza democristiana. Allievo di Rumor. Oggi PD. Legittimato, a inizio marzo, dalle primarie, con grande partecipazione popolare e un ampio consenso personale.

3. Il clima d'opinione attraversato da un'insicurezza sociale che riflette ragioni diverse dalla criminalità comune e dall'immigrazione. Piuttosto: dalla vicenda Dal Molin. La nuova base militare americana, concessa dal governo di centrosinistra, con l'accordo preventivo (taciuto per anni) della giunta e del governo precedenti. Ancora oggi "rifiutata" dalla maggioranza della popolazione (contrario il 53 % dei vicentini, sondaggio Demos). Non a caso, una lista ispirata da alcuni comitati contrari alla base ha conquistato il 5% al primo turno. Variati, sindaco neo eletto, ha sempre espresso dissenso nei confronti della decisione - e del centrosinistra nazionale. Per ragioni di metodo, più che di principio. La mancata consultazione dei cittadini, il deficit di confronto con il governo.

4. Infine, Variati e il Pd hanno fatto una campagna elettorale vera, vecchio stile. Porta a porta. Tutti i giorni nei quartieri, nei mercati, insieme a decine di militanti e volontari, giovani e giovanissimi, a volantinare dappertutto, in centro e in periferia. Mentre la sua avversaria quasi non si è vista. La vittoria di Variati, dunque, è avvenuta per ragionevoli ragioni. Al contrario della sua avversaria - ma anche di Rutelli a Roma - la sua candidatura è stata espressa direttamente dagli elettori, con le primarie. Ha fatto una campagna elettorale vera, mobilitando sul territorio un Pd vero. Ha comunicato messaggi condivisi. Egli stesso è apparso, ai cittadini, competente e credibile. Anche agli elettori della sinistra e ai comitati No dal Molin. Che lo hanno sostenuto, nel ballottaggio. Senza accordi. La candidatura di Calearo, inoltre, per quanto controversa, ha aperto una fessura nel rapporto con i settori imprenditoriali e del lavoro autonomo. Così, Variati ha fatto il pieno dei voti di centrosinistra e di sinistra. Intercettando anche molti voti di centrodestra, soprattutto della Lega.

Due settimane fa Ezio Mauro ha scritto che occorre "costruire un Pd del Nord. Per vivere, o almeno per capire". Forzando l'equazione, potremmo sostenere che, per sfidare il centrodestra, occorre costruire il Pd, ma "dovunque". Senza imitare il "modello Berlusconi". E' inimitabile. Più che un "partito personale", a questo fine, serve un "partito di persone", che si radichi sul territorio e nella società. Non solo sui media. Ora che Roma è caduta, può risultare (forse) più facile, al Pd, guardare a Nord senza occhiali deformanti. E, con umiltà, ripartire (anche) da Vicenza.

(30 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Radici forti e rami secchi è lo strano albero del Pd
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2008, 11:24:30 am
POLITICA MAPPE

Radici forti e rami secchi è lo strano albero del Pd

di ILVIO DIAMANTI


IL RISULTATO ottenuto dal Pd alle elezioni mantiene molti margini di ambiguità. Difficile da valutare quel 33%. Forse non deludente. Di sicuro, neppure esaltante. E viceversa. Sostanzialmente invariato, rispetto al 2006.

Mezzo punto percentuale in più se, oltre ai voti ottenuti dall'Ulivo, si considera il contributo dei Consumatori e dei Radicali (presenti nelle liste del Pd). Mentre in questi due anni, la distanza dal Pdl si è ridotta di qualche decimale, rispetto a quella fra Ulivo e Fi-An, considerati insieme. Poco più di 4 punti.

Se si legge la storia elettorale della seconda Repubblica in chiave bipartitica, d'altronde, ciò che colpisce è, soprattutto, la stabilità. L'Ulivo - e prima i Ds e la Margherita oppure i Popolari, considerati insieme - ha sempre ottenuto intorno al 30%. Il minimo nel 1996: 28% (ma il 32% se si considera la Lista Dini, che in seguito entrerà nella Margherita). Il massimo proprio in queste elezioni. Il che definisce la misura della sinistra riformista: meno di un terzo dell'elettorato. Mentre la base del Pdl, calcolata sommando Fi e An, oscilla maggiormente (soprattutto a causa della competizione di Fi con la Lega): fra il 36% (nel 1996) e il 41% (nel 2001). Sempre sopra al Pd, comunque. Anche se la distanza fra i due soggetti politici, in queste ultime elezioni, appare ridotta come mai in precedenza.

Il problema è che la lettura "bipartitica" non permette di capire con chiarezza il senso della competizione elettorale nell'Italia della seconda Repubblica. Perché il Pd e il Pdl, anche nelle versioni precedenti, non si presentano mai da soli. La differenza, dunque, la fanno sempre gli alleati. L'ampiezza delle coalizioni e la misura dei partiti con cui si coalizzano. Fino al limite del 2006. Quando la nuova legge elettorale viene interpretata in senso "aggregativo". Per cui, intorno a Berlusconi e Prodi, si coalizzano tutte le sigle, dalle più grandi a quelle minime. E l'elettorato si ricompone e si divide in due bacini perfettamente uguali.

Questa volta, invece, Veltroni ha scelto la strada della semplificazione, puntando tutto sul Pd. Berlusconi lo ha seguito. Ma la politica delle alleanze, per quanto a corto raggio, ha continuato a pesare. Con esiti asimmetrici. Perché la distanza fra Pdl e Pd, rispetto alle elezioni precedenti, è rimasta inalterata. Non quella fra le coalizioni. Il risultato conseguito dalla Lega, nel Nord, e dal Mpa, nel Mezzogiorno, ha sovrastato quello, rilevante, ottenuto dalla Lista Di Pietro. Per cui il distacco fra le coalizioni che sostengono Berlusconi e Veltroni è più che raddoppiato: da 4 punti percentuali a 9.

Da ciò il rischio, per il Pd: restare minoranza. Influente, ma permanente. Incapace di attrarre, per ora, quel 40% di elettorato potenziale, stimato dai sondaggi. Nato per sottrarsi al ricatto delle alleanze frammentarie, che permettono di vincere le elezioni ma impediscono di governare. Per costruire un polo riformista, in grado di allargarsi al centro e a sinistra. In questa occasione non ci è riuscito. Visto che, rispetto al 2006, è "scomparso" il 7% degli elettori. Oltre due milioni e mezzo di voti. Che, due anni fa, avevano votato per i partiti della sinistra cosiddetta radicale e, quindi, per l'Unione.

Mentre oggi, nel conteggio conclusivo, non ci sono più. Spariti. Fra le pieghe dell'astensione. Fuggiti, in misura limitata, a destra. Confluiti, in piccola parte, nell'alleanza per Veltroni, in nome del "voto utile". Insomma, un problema - forse "il" problema - del Pd sembra essere lo scarso grado di flessibilità. Nonostante la capacità di Veltroni di "personalizzarlo". Di sfidare Berlusconi sullo stesso piano. Per contrastare le resistenze dell'elettorato. Per sottrarsi all'eredità - e al vincolo - del rapporto con il territorio.

Ma forse il problema è proprio lì. Il rapporto con il territorio. Troppo forte e troppo fatuo, al tempo stesso. Il territorio: in cui il Pd appare imprigionato. E che, al contempo, non riesce a rappresentare davvero. Risulta, infatti, evidente, ma anche inquietante, il grado di coerenza e continuità territoriale con la base elettorale della sinistra comunista e postcomunista espresso dal Pd. La cui attuale geografia del voto riproduce, con poche variazioni, quella delineata dai Ds nel 1996, dal Pds nel 1992, fino al Pci nel 1953.

La personalizzazione e la mediatizzazione, imposte da Veltroni, non sembrano aver spostato i confini del voto. Neppure le primarie. Che hanno garantito una grande mobilitazione, ma riproducono ancora, in parte, il peso del passato. Non solo delle tradizioni storiche. Anche delle organizzazioni di partito; dei gruppi di pressione locali. Come dimostra la geografia della partecipazione dello scorso ottobre. Che ha raggiunto i livelli più elevati nel Mezzogiorno (con alcune punte stratosferiche come in Calabria). Superiori perfino alle regioni "rosse". Nel Sud, effettivamente, il Pd è cresciuto. Ma in misura modesta. E molto inferiore al Pdl.

In altri termini, abbiamo l'impressione che il "nuovo" Pd sia rimasto imprigionato dentro logiche vecchie. Che hanno ostacolato anche la capacità di leggere, correttamente, ciò che sta avvenendo sul territorio. Il viaggio di Veltroni attraverso il Nord, ad esempio, ha raccolto grande partecipazione. Ha reso visibile una domanda sociale ampia e generosa. Che, tuttavia, era ed è rimasta minoranza. La richiesta di cambiamento è stata intercettata perlopiù dalla Lega.

Nei pochi luoghi significativi dove ha vinto, peraltro, il Pd "nazionale" è stato colto di sorpresa. Come a Vicenza. Una vittoria inattesa. Considerata un caso fortuito e fortunato. Quasi che recuperare 3 punti percentuali in cinque anni (a Vicenza il centrosinistra aveva ottenuto il 47% al secondo turno, nel 2003) fosse più sorprendente che perderne 20 a Roma in due anni.

Il Pd, in altri termini, ci sembra ancora un progetto incompiuto. Riflette una domanda diffusa. Ha raccolto un ampio sostegno sociale. Riscuote attenzione e curiosità, nei settori moderati e di sinistra. Una "novità" attraente, ma "vecchia" dal punto di vista del gruppo dirigente. Nazionale e ancor più locale. Dove i giovani, le donne, i lavoratori, gli imprenditori, insomma, i "nuovi", quando si affacciano alla politica trovano porte strette. La strategia di marketing, utilizzata da Veltroni per forzare questo limite attraverso candidature simboliche (il piccolo imprenditore, la giovane ricercatrice, l'operaio ecc.), alla fine, si è scontrata con una realtà "radicalmente" (= alla radice) diversa. Dove prevalgono i "vecchi", non solo e non tanto per età. Ma per mentalità e carriera.

D'altronde, i leader del Pd - grandi e piccoli, centrali e locali - sembrano impermeabili a ogni mutamento di sigla, a ogni cambio d'epoca, a ogni sconfitta. (e, sia chiaro, non ci riferiamo a Veltroni). Insensibili al crollo dei muri, delle ideologie e dei partiti. Altrove, negli Usa e in Europa, abbiamo assistito, in questi ultimi anni, al "ritiro" di figure come Gore, Kerry, Schroeder, Aznar, Gonzales, Blair. Battuti di poco. A volte, neppure. In Italia, salvo Prodi (l'unico, peraltro, ad aver vinto una elezione e mezza contro il Cavaliere), nessuno si dimette; nessuno paga le sconfitte subite in città e regioni importanti.

Non solo: gli sconfitti vengono premiati con nuovi incarichi di prestigio. Mentre tutto il gruppo dirigente - ex comunista ed ex-democristiano - ha affollato le liste del Pd, occupando posti di assoluta sicurezza. In centro e in periferia.

Il Pd: è rimasto a metà del guado. Incerto. Fra partito di iscritti e partito elettorale. Fra personalizzazione nazionale e oligarchia locale. Agita le primarie come una bandiera. Ma non le usa per selezionare i candidati alle elezioni politiche; spesso neppure alle amministrative. Mentre, a livello nazionale, fino ad oggi sono servite a confermare leader pre-destinati. Vorrebbe rappresentare il Nord restando Lega Centro. I piedi in Emilia e in Toscana. La testa a Roma.

E' uno strano albero, questo Pd. Le radici salde. Fin troppo. Non riescono a propagarsi. Il fusto fragile. I rami rinsecchiti. Le foglie crescono. Tante.
Ma cadono presto.


(4 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Figli di buona famiglia
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 10:50:58 pm
Rubriche » Bussole

Figli di buona famiglia
 

"Giovani di buona famiglia". Così vengono definiti i cinque teppisti che hanno massacrato e ridotto in fin di vita Nicola Tommasoli. Colpevole di non aver voluto "consegnare" loro una sigaretta, dopo regolare intimazione. Giovani ultrà. Ultrà-giovani.

Occasionalmente di estrema destra. Neonazi oppure neofasci. Teste rasate. Un simbolo inquietante, ormai. Al punto da indurmi in tentazione. Io, skin per colpa del tempo che passa; e per eredità genetica. Oggi mi viene voglia di ricorrere alle tecniche tricologiche: un trapianto, una parrucca...

Giovani ultrà di estrema destra. Abituati ad avere uno stadio a disposizione per esibire i loro muscoli, i loro slogan, i loro simboli contro gli altri. I nemici. Gli "altri". Non solo quelli dell'altra parte politica.

Dell'altra parte. Ma "gli altri", in generale. Gli stranieri, i nomadi. Gli ebrei. I deboli. Hanno in spregio le persone "comuni". A cui la violenza non piace. Quelli che la sera, in città, tirano tardi con gli amici. E passeggiano in centro città. Immaginando che possa ancora essere una città. Luogo dove, appunto, passeggi con gli amici. Fumi la sigaretta. Chiacchieri. Luogo di relazioni, insomma. Rete di comunità. Non un agguato politico. Ma un'aggressione "per caso". Chissà: gli aggrediti potevano essere leghisti, magari perfino fascisti. In quel momento erano solo persone comuni. Finite sulla strada di persone extra-ordinarie. Super-uomini in libera uscita.

Giovani di buona famiglia anche quelli che, a Torino, hanno costretto i vigili ripiegare. Dopo averli circondati e aggrediti, qualche sera fa. La notte prima della festa. I vigili impudenti e imprudenti. Pretendevano di multare le auto in sosta dovunque, in Piazza Vittorio Veneto. In pieno centro. Perfino lungo le rotaie del tram. Tanto la notte non circola. Pretendevano, i vigili. Di interrompere la festa infinita. La "movida", come la chiamano adesso. La notte bianca che si celebra ogni fine settimana.

Pretendevano di ostacolare il libero accesso alle auto e ai suv che, ovviamente, sono padroni della notte. (In realtà, anche del giorno). Ovvia la rivolta di questi giovani di buona famiglia contro tanta sfacciata arroganza. Così, a centinaia, hanno costretto i vigili a fuggire. Non senza aver inferto loro qualche colpo, qualche botta. Così, a futura memoria. Certo, in questo caso non li hanno massacrati. Non erano neonazi e neofasci. (Magari, avessero incontrato un nazi che chiedeva loro una sigaretta, sarebbe finita male anche per loro...). Solo ragazzi normali, di "buona famiglia". Si sono limitati ad affermare la legge del controllo sul territorio. Filmando la scena, regolarmente diffusa su "You tube". A scopo esemplare.

Questi "figli di" buona famiglia, tecnologicamente attrezzati ed esperti. Per fortuna: sono nati in tempi molto diversi e lontani da quel maledetto 1968, di cui si celebrano i nefasti, a quarant'anni di distanza. L'eredità di illusioni mancate e di violenze mantenute.

Questi giovani di buona famiglia, invece, non guardano lontano. Non cercano figure e utopie di altri mondi lontani. Il comunismo, Mao, Che Guevara... Semmai - alcuni di essi - guardano più indietro. Riscrivono storie da cui isolano ciò che interessa loro. Il mito della forza. Il seme della violenza. Che coltivano, quotidianamente, esercitando l'odio contro gli altri. Poveracci, accattoni, zingari e stranieri. Clandestini e non.

Perché non conta distinguere, ma categorizzare e colpire "l'altro". Lo stesso che fa paura alla gente comune. Quella che mai si sognerebbe di bruciare un campo nomadi, tantomeno di ammazzare di botte un ragazzo perché non ti dà una sigaretta. Potrebbe essere loro figlio, l'aggredito. E gli aggressori potrebbero essere loro figli.

Giovani di buona famiglia. Quelli abituati a sfogarsi il sabato sera, in discoteca, o nei bar del centro. Nelle piazze e nelle strade. Molti bicchieri e qualche pasticca per tenersi su di giri. Per ammazzare il tempo insieme alla noia. E l'angoscia che ti prende, in questa vita normale, in questa società normale, in questa città normale. Dove i divieti sono comunisti e le regole imposizioni inaccettabili. Dove dirsi "buoni" è un'ammissione di colpa. E la debolezza un vizio da punire.

Giovani di buona famiglia. Genitori che non deprecano questa società senza autorità, senza divieti e senza punizioni. E poi si indignano: di fronte ai divieti e alle punizioni. Alle autorità autoritarie. Quando colpiscono loro e i loro figli. Sempre gli ultimi a sapere. Cadono dalle nuvole, se scoprono cosa combinano, quei loro figli, a cui hanno dato tutto. Senza chiedere nulla. Senza sapere nulla di loro.

Questi genitori di buona famiglia. Ce l'hanno contro questa scuola senza voti. Contro i professori che non si fanno rispettare. Contro i maestri che non sanno comandare. Non sanno punire. Questi genitori. Non capiscono e non accettano: i professori che impongono rispetto, comandano e puniscono. E magari bocciano. I loro figli.

Giovani di buona famiglia. Figli di buona famiglia. Figli di.

(5 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La geografia politica di Berlusconi
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2008, 05:52:22 pm
POLITICA MAPPE

La geografia politica di Berlusconi

di ILVO DIAMANTI


BASTA guardare la mappa elettorale del centrodestra per capire perché abbia vinto queste elezioni. E perché sarà difficile, in futuro, batterlo di nuovo. A differenza della coalizione a sostegno di Veltroni, quella guidata da Berlusconi ha una geografia "nazionale". La coalizione di centrosinistra, imperniata sul Pd, riproduce, invece, come sempre, la mappa della sinistra. In particolare: del Pci e dei suoi eredi. Pds, Ds. Il Pd, fino ad ora, non è riuscito ad allargare altrove le radici. E ha intercettato solo una parte degli elettori della SA (intorno al 30%, secondo i flussi elettorali calcolati dall'Istituto Cattaneo con il modello di Goodman, in alcune città del Nord).

Il centrodestra, invece, è ben distribuito. Se consideriamo anche l'Udc e la Destra (in altri termini: i confini della CdL), raggiunge il 59% nel Nord e nel Sud, scende al 53% nel Centro-Sud (Lazio, Abruzzo e Molise), mentre è più debole nelle "regioni rosse". Dove, comunque, totalizza il 43%. Il risultato migliore dal 1996 ad oggi. Simmetricamente, il centrosinistra è forte soprattutto nelle regioni rosse. (55%), ma scende notevolmente (al 39%) sia nel Nord che nel Sud. Nelle zone rosse, peraltro, il centrosinistra, in queste elezioni, consegue il risultato peggiore dopo il 1994.

ANALISI E CARTOGRAFIA DEL VOTO

Tuttavia, il centrodestra non ha un profilo territoriale stabile, nel tempo. Né, al suo interno, appare omogeneo. (Lo hanno messo in luce numerosi studi presentati al convegno nazionale della SISE, che si è svolto nei giorni scorsi a Firenze). La base elettorale della Lega e del PdL, infatti, propone un riassunto fedele del consenso ai partiti di governo durante la prima Repubblica. La Lega, in particolare, ricalca i confini della Democrazia Cristiana, nei primi decenni della Repubblica. Se ci concentriamo sull'elezione del 1948, un vero spartiacque per la nostra democrazia e il nostro sistema politico, la coincidenza appare impressionante. Fra le 13 province in cui la Lega ottiene le percentuali di voto più elevate, nel 2008, 10 sono le stesse in cui la DC, nel 1948, consegue le performance migliori.

Certo: la Lega è molto lontana dalla Dc delle origini. Tanto più da quella dei decenni successivi. Tuttavia, ne eredita il retroterra. Le province periferiche del Nord, costellate di piccoli paesi e di piccole aziende artigiane. Che, in seguito, si svilupperanno, in misura violenta, facendo di quest'area una delle più industrializzate e urbanizzate d'Europa. La Lega nasce lì. E lì si consolida. Alla mediazione con lo Stato, espressa dalla Dc, sostituisce la spinta autonomista contro Roma e contro Torino.

Contro la metropoli dell'economia di grande impresa. Contro la capitale della politica e dei partiti nazionali. La Lega contribuisce al crollo della prima Repubblica, aggredendo, alla radice, la Dc. Che rimpiazza, sul suo stesso territorio. In concorrenza, dopo il 1994, con Forza Italia e, da qualche mese, con il PdL. Tuttavia, questa Italia era e resta "leghista". Da "zona bianca" a "verde". Senza soluzione di continuità. La geografia del PdL, invece, è simmetrica. Centromeridionale. Con alcune roccaforti. Le isole, e soprattutto la Sicilia; inoltre, le province tirreniche del Centrosud, da sempre zone di forza di FI.

Inoltre, la Puglia, in cui è saldamente insediata AN. Un impianto territoriale che evoca i partiti di governo della prima Repubblica negli ultimi vent'anni. In particolare, dopo la prima metà degli anni Settanta. Non è un caso che la mappa del PdL ricalchi, in molti punti, quella dei partiti di governo nel 1992 (Dc e Psi, con il contributo del MSI). La meridionalizzazione del voto del PdL, come quella dei partiti di governo nel 1992, al tramonto della prima Repubblica, dipende in gran parte dall'affermazione della Lega. Che nel 1992 ottiene 3 milioni e 400mila voti, circa l'8,6%. Cioè: più di quel che ha conseguito alle elezioni politiche di un mese fa. A differenza del 1992, ma anche del 1996, in questa occasione la Lega si è presentata insieme ai partiti che, in precedenza, erano suoi avversari.

Tuttavia, il voto leghista resta un voto "autonomo". Alternativo al centrosinistra. Ma diffidente verso il PdL. Il voto dell'alleanza guidata da Berlusconi è completato dal MpA di Lombardo. Definito, da alcuni, la "Lega Lombardo", evocando l'intesa con la Lega Nord, alle precedenti elezioni. Ma anche una certa analogia con la biografia della Lega. Perché intercetta una parte del voto della Dc di un tempo (e, più di recente, dell'UdC). Soprattutto, ma non solo, nella Sicilia occidentale. Una sorta di Lega Sud, insomma, il cui rapporto con lo Stato centrale è altrettanto rivendicativo di quello della Lega. Anche se contiene e propone domande alternative.

Viste insieme, le zone politiche presidiate dai partiti dell'alleanza guidata da Berlusconi delineano una geografia nazionale, forte, soprattutto nel Nord, nel Sud e nelle isole. Con qualche segnale di insediamento anche nelle regioni rosse di centro. In prospettiva storica, evoca la frattura anticomunista, che ha condizionato il sistema politico ed elettorale della prima Repubblica. Il muro di Berlino, cui si è sovrapposto, in seguito, il "muro di Arcore". Questo radicamento di lunga durata suggerisce un rapporto con il territorio molto stretto. Nel Nord, grazie alla presenza della Lega, in passato "partito dei piccoli produttori", oggi "partito della sicurezza". Una tema attraverso cui ha rafforzato l'identità locale. In senso difensivo e chiuso.

Rispondendo, però, a un diffuso spaesamento sociale. La Lega, inoltre, governa in molti comuni. Le stesse "ronde padane" funzionano come una base di "militanti in divisa". Nel Mezzogiorno, PdL e MpA hanno utilizzato l'antica rete di relazioni particolaristiche, talora clientelari. Dopo la crisi dei partiti tradizionali, sono divenute più importanti. E più "libere". Non a caso, negli ultimi anni, è cresciuta la rilevanza del "voto personale", come ha osservato di recente Mauro Calise. Persone e clientele senza organizzazione. Ma ben radicate sul territorio.

Invece, il rapporto del Pd con la società e con il territorio è molto più incerto. Un problema che, come ha sottolineato Rossana Rossanda, affligge anche la sinistra comunista. Non è un caso che, in questa fase, il centrosinistra resista soprattutto nelle "zone rosse", dove ha ereditato le radici sociali e associative, ma anche la cultura politica del passato. Mentre il "nuovo" modello organizzativo del Pd non è ancora chiaro. Le "primarie", come metodo di mobilitazione della società, sono state utilizzate in modo intermittente. Per questo, anche a livello locale, i nuovi quadri faticano ad emergere. Frenati, perlopiù, dai gruppi dirigenti del passato: popolari e diessini; spesso, ex democristiani ed ex comunisti. Quanto al centrodestra, alla coalizione guidata da Berlusconi, le difficoltà che potrebbe incontrare sono implicite nel suo stesso modello di radicamento.

La prima è nella sua struttura territoriale. Il Nord presidiato dalla Lega, mentre il PdL non è mai stato tanto squilibrato a Sud. Dove risiede il 37% dei suoi elettori (il 14% nel Centrosud; il 34% nel Nord senza l'Emilia Romagna). Lega Nord, da un lato, PdL e Lega Sud (MpA), dall'altro, esprimono, però, domande diverse e contrastanti. Federalismo e libertà privata, gli uni. Protezione pubblica e intervento dello Stato, gli altri. In una fase di stagnazione economica e declino delle risorse, potrebbero entrare in conflitto. Come e più che in passato.

La seconda difficoltà sta nella sostanziale differenza rispetto al passato. Agli "antenati". Quando la Dc e i suoi alleati erano cementati da interessi, ma anche ideologie, valori, organizzazione. La coalizione guidata da Berlusconi, invece, oggi ha un solo, insostituibile, punto di equilibrio. Una sola vera colla. Berlusconi. Il quale è, notoriamente, eterno e onnipresente. Ma i miracoli non sempre gli riescono.

(19 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Pd e la sindrome del partito-ombra
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2008, 05:12:59 pm
POLITICA MAPPE

Pd e la sindrome del partito-ombra

di ILVO DIAMANTI



NESSUNO avrebbe immaginato, un anno fa, un sistema partitico semplificato come quello uscito dalle recenti elezioni.
Quasi bipartitico, visto che le due forze politiche principali, PdL e Pd, insieme, hanno superato il 70% dei voti (validi). Tuttavia, non è facile prevedere che ne sarà del bipartitismo italiano. Il cui destino dipende dai due partiti che lo hanno prodotto e dai leader che lo hanno guidato. Da PdL e Pd. Da Berlusconi e Veltroni. Anzi, soprattutto da Veltroni e dal Pd. Perché è difficile dubitare della durata di Berlusconi. (E' eterno). Anche se il suo Popolo della Libertà, per ora, resta un'intesa elettorale. Privo di legittimazione da parte degli organismi di Fi e An.

Tuttavia, Fini e soprattutto Berlusconi agiscono come leader di partiti personali, che operano in base a scelte personali, espresse dalle persone che li hanno concepiti, inventati, trasformati e guidati. Berlusconi, il PdL e i suoi alleati, inoltre, hanno vinto le elezioni. Governano. Buoni motivi per "resistere" a lungo.

Diverso e più serio, invece, il discorso per il Pd e per Walter Veltroni. Usciti sconfitti, seppure in modo onorevole. Dopo il voto, affrontano una fase incerta. Comprensibile, per un partito nuovo, guidato da un leader nuovo, che sperimenta un modo nuovo di fare opposizione. Sospettato, da alcuni amici e alleati, di eccessiva disponibilità alla mediazione. Con un leader trattato, fino a ieri, come un nemico. Anzi: il Nemico. Il futuro del bipartitismo (relativo, vista la presenza di altri soggetti politici, come IdV e Lega) dipende, quindi, in gran parte, dalla capacità di Veltroni e del Pd di consolidarsi. Senza perdere la fiducia dei propri elettori, ma allargando il perimetro tradizionale del consenso, che rischia di rendere il Pd, come alcuni malignano, l'ulteriore variante del postcomunismo. Il Pds senza la esse. Dipende, al tempo stesso, dalla capacità di Veltroni e del Pd di chiarire il reciproco rapporto. Fra leader e partito. Di decidere, cioè, cosa sarà il Pd da grande.

A favore di Veltroni, tre indicazioni, che ricaviamo da un sondaggio post-elettorale condotto dal LaPolis (Laboratorio di studi Politici e sociali) dell'Università di Urbino nelle ultime due settimane.

1. C'è una domanda generalizzata di dialogo e collaborazione fra maggioranza e opposizione sui temi topici della riforma delle istituzioni (90%). Questo orientamento non mostra particolari differenze fra schieramenti e partiti. E, nel Pd, coinvolge quasi la totalità degli elettori (94%). Ciò suggerisce che l'attuale politica "costruttiva" di Veltroni disponga di un largo sostegno, anzitutto fra i suoi elettori.

2. Forse anche per questo motivo, Veltroni gode di un consenso trasversale, che supera i confini del Partito Democratico e perfino del centrosinistra. Veltroni, infatti, è il leader maggiormente apprezzato per la sua condotta degli ultimi mesi. Approvata da quasi due terzi degli elettori, nell'insieme. In particolare: dal 93% dei Democratici e dall'80% di quelli dell'IdV-Di Pietro. Ma, soprattutto, da oltre metà degli elettori del PdL e dal 70% di quelli dell'UdC. Per spiegare la simpatia del centrodestra, si potrebbe malignare che verso gli sconfitti si è disposti ad essere indulgenti e generosi. Tuttavia, Prodi, a centrodestra, aveva sempre suscitato diffidenza. Anche quando, alla fine della breve legislatura, appariva politicamente "sfinito". Peraltro, gran parte degli elettori, realisticamente, ritiene che, dopo il voto, Veltroni si sia indebolito. Non solo nei confronti dei leader vincitori. Anche del suo alleato, Antonio Di Pietro. Anche se sconfitto, quindi, Veltroni è apprezzato. Perché considerato principale artefice della semplificazione del sistema partitico. Il leader che, con le sue scelte, ha costretto Berlusconi a "inventare" il PdL, riunificando FI e AN. E a presentarsi, a sua volta, (quasi) da solo.

La fiducia nei confronti di Veltroni, inoltre, rispecchia il "rendimento mediatico" del leader Pd. La sua capacità di affrontare la campagna elettorale e, più in generale, la politica nell'era del marketing e della comunicazione. Veltroni, dunque, piace, come leader. Ai suoi elettori ma anche a quelli di Berlusconi. Da cui ha appreso, in modo egregio, la lezione. Lo stile. Fino a superare il maestro.

3. La terza osservazione ricavata dall'indagine del LaPolis riguarda, direttamente, il Partito Democratico. La cui esperienza è guardata con favore da nove elettori su dieci, nel Pd. Al contrario, solo una frazione residuale (il 4%) pensa che occorra "resettare" il sistema e ripartire da capo. Rilanciando i partiti che lo hanno fondato. DS e Margherita. Tuttavia, questo consenso generalizzato riassume orientamenti distinti e distanti. Infatti, metà dei favorevoli al Pd ammette che, nel costruirlo, siano stati commessi errori significativi. Insomma, ne sono insoddisfatti. Il che sottolinea un certo distacco: fra la volontà - condivisa - di proseguire l'esperienza del Pd; e l'insoddisfazione - diffusa - per il modo in cui è stata, sin qui, realizzata. Questo contrasto, come quello nei confronti dell'immagine di Veltroni - universalmente apprezzata - non deve sorprendere troppo. Riassume il dilemma, irrisolto, su cosa farà, da grande, il Pd. Più in particolare, riflette l'ambiguità sul rapporto fra leadership e il partito. Che riguarda il sistema politico e la democrazia in Italia. Ma, nel Pd, appare più evidente.

In effetti, la campagna elettorale si è svolta seguendo un modello di tipo presidenzialista. Berlusconi contro Veltroni. Come fossimo negli USA oppure in Francia. Una tendenza che Veltroni ha interpretato al meglio. Per qualità personali, ma anche perché ha saputo intercettare la domanda - estesa e trasversale - di semplificare il sistema partitico. Fino a ridurlo a due forze politiche riassunte da due leader. Perché, inoltre, ha cercato di superare la lunga stagione della frattura tra berlusconismo e antiberlusconismo. Passando dalla contrapposizione all'opposizione. Abbattendo il muro di Arcore, eretto dove prima c'era quello di Berlino.

Tuttavia, passate le elezioni, il Pd appare un progetto incerto. Un partito incompiuto. Un partito-ombra all'ombra del governo-ombra. E di un presidente/premier-ombra. Mentre il dibattito politico si svolge, con accenti spesso critici, fra i "leader di una volta". D'Alema, Marini, Parisi, oltre allo stesso Veltroni. Di ciò che avviene in periferia, al centro giungono echi molto fiochi. Di ciò che avviene al centro, in periferia si sa poco. Al centro come in periferia, i "nuovi" dirigenti e militanti, esterni alle tradizionali cerchie di partito, stentano a farsi largo.

Insomma, il Pd oggi esprime un'ambiguità di fondo. E' un partito quasi "presidenziale" mentre il nostro sistema istituzionale non è presidenziale, né semi-presidenziale. Ma parlamentare E non assegna poteri particolari al premier. Inoltre, è un partito "debole" dal punto di vista organizzativo, dell'identità, del rapporto con la società e il territorio. Ma il nostro sistema elettorale è ultraproporzionale e attribuisce ai partiti (meglio: alle oligarchie di partito) un potere elevatissimo. Questa situazione è comune al PdL. Che, tuttavia, ne soffre assai di meno. Per motivi "biografici", visto che Berlusconi l'ha generato e ri-generato, a propria immagine e somiglianza. Per motivi di cultura e tradizione politica: per l'attrazione suscitata, a centrodestra, dal mito dell'uomo forte. A centrosinistra è diverso. Perché Veltroni non è Berlusconi e il Pd non è il PdL. Il PdL senza Berlusconi: non esisterebbe. Veltroni senza il Pd: non può durare.

Ma il Pd non c'è ancora. E il nostro bipartitismo - anche per questo - zoppica.

(1 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sono i cattolici "tiepidi" lo zoccolo duro del Pdl
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2008, 10:41:10 am
POLITICA

MAPPE / Il voto complica il rapporto Chiesa-politica

Sono i cattolici "tiepidi" lo zoccolo duro del Pdl

Il popolo cattolico disperso in politica

di ILVO DIAMANTI


DOPO il voto, le polemiche intorno al rapporto fra Chiesa e politica sembrano meno accese. La netta vittoria del Centrodestra, anzitutto, ha espunto dall'agenda parlamentare i temi etici, che tante polemiche avevano sollevato, soprattutto nel Centrosinistra. Per questo, le materie che hanno ostacolato il breve percorso del governo Prodi (coppie di fatto, fecondazione assistita, eutanasia) probabilmente verranno accantonate. Mentre difficilmente il Centrodestra rivedrà la 194, che regola l'interruzione della gravidanza, come vorrebbero le gerarchie ecclesiastiche. D'altronde, il Pdl ha lasciato solo Giuliano Ferrara a combattere la sua battaglia per la moratoria contro l'aborto. È probabile che, sull'argomento, prevalga la rimozione. Come, in fondo, è avvenuto in campagna elettorale, per tacita, reciproca intesa fra i due maggiori candidati premier.

A Berlusconi, d'altronde, non piace aprire grandi e laceranti discussioni fra gli elettori; i suoi, in particolare. Preferisce dialogare con la gerarchia in modo diretto. A tu per tu. Rassicurando il Pontefice sul sostegno alle famiglie e alle scuole cattoliche. Oppure invitando un vescovo a spendersi affinché la Chiesa permetta ai divorziati di "fare la comunione" (quindi anche, ma non solo, a lui: per evitare il sospetto di una indulgenza "ad personam").

Le posizioni della Chiesa, inoltre, in questa fase non favoriscono una specifica parte politica. Sui temi bioetici e sulla famiglia la gerarchia ecclesiastica è in contrasto con il Centrosinistra. Ma avviene il contrario in materia di sicurezza e di immigrazione. Così, la "questione cattolica", in Italia, non sembra più al centro del dibattito politico. Anche la polemica di Famiglia Cristiana sul ruolo dei cattolici nel PD avrebbe avuto un impatto mediatico assai maggiore qualche mese fa, quando i Democratici erano al governo. Mentre ora sono la minoranza della minoranza.

Tuttavia, è lo stesso risultato elettorale ad aver complicato il rapporto tra Chiesa e politica. Dopo la fine della Dc - il partito dei cattolici - la Chiesa ha scelto di agire in proprio sui temi di maggiore interesse. La gerarchia è intervenuta in modo diretto, insieme a gruppi, circoli e comitati del mondo cattolico. Ha investito con maggiore decisione sulla comunicazione e sui media. Dai quotidiani (L'Osservatore Romano, l'Avvenire, Famiglia Cristiana) alle emittenti radiotelevisive. Sostenuta da intellettuali e media "non" cattolici. Anzi: laici; atei (più o meno) devoti. Raccolti intorno al Foglio di Giuliano Ferrara.

Una "Chiesa extraparlamentare", l'ha definita Sandro Magister in un lucido saggio di alcuni anni fa (pubblicato dall'Ancora del Mediterraneo). Capace di promuovere massicce campagne di opinione. Disposta a "scendere in campo" direttamente, come ha fatto in occasione del referendum sulla procreazione assistita. Questo modello è stato ispirato e guidato dal cardinale Camillo Ruini. Che ieri si è congedato dal ruolo di "vicario" di Roma, dopo quasi 18 anni. Esortando i vescovi, nel commiato, a non essere "sudditi". Di certo non lo sono stati negli ultimi 20 anni. Semmai il contrario.

Tuttavia, questa linea oggi appare in discussione. Per funzionare, esige una Chiesa in grado di orientare, almeno in parte, le scelte elettorali dei cattolici. In modo da premiare oppure punire le forze politiche, in base alla coerenza con le posizioni della Chiesa. Capace, ancora, di influire sulle scelte legislative, attraverso parlamentari "fedeli". Come un "gruppo di pressione" (non diremo "lobby", per non generare equivoci) in grado di esercitare una "pressione" efficace. Ciò non è avvenuto, in questa fase.

Giuliano Ferrara (ancora lui) ha denunciato, dopo le recenti elezioni, l'indebolirsi della presenza dei cattolici e degli esponenti vicini alla Chiesa: nell'attuale governo e nei posti-chiave dei principali partiti. Conseguenza implicita della scelta della Chiesa di non scegliere. Di non schierarsi apertamente. E, semmai, di appoggiare l'Udc di Casini e di Pezzotta. Coltivando una tentazione neodemocristiana. Una critica esplicita alla strategia "extraparlamentare" di Ruini.

Le recenti elezioni, d'altra parte, sottolineano come, dopo la Dc, sia finita anche l'era dell'unità politica dei cattolici. In modo, forse, definitivo. Lo mostrano i dati dell'indagine condotta dal Laboratorio di Studi Politici dell'Università di Urbino (LaPolis) nelle settimane successive al voto (campione nazionale di oltre 3300 casi). I cattolici confermano, come nel recente passato, di essere orientati prevalentemente a centrodestra. Il 34% di coloro che frequentano assiduamente la messa domenicale ha, infatti, votato per Veltroni (il 30% per il PD); il 48% per Berlusconi (il 41% PdL).

Tuttavia, la differenza rispetto al totale dei votanti non è eccessivo. Fra i cattolici praticanti, infatti, il Pd ottiene 3 punti e mezzo in meno rispetto a quanto avviene fra i votanti nell'insieme. Il contrario del PdL. Tuttavia, conviene rammentare che quanti vanno regolarmente a Messa (secondo l'Osservatorio socio-religioso triveneto, diretto da Gian Antonio Battistella e Alessandro Castegnaro) costituiscono una quota di poco inferiore al 30% della popolazione. Per cui, rispetto al risultato ottenuto dal Pd e dal PdL fra i votanti nel complesso, la differenza espressa dal voto dei cattolici praticanti si riduce a circa l'1%
L'Udc, da parte sua, ha effettivamente intercettato una quota di cattolici quasi doppia rispetto al proprio peso elettorale. Il 10% dei cattolici praticanti assidui. Che, però, sul totale dei voti validi, significa non più del 3%. Poco per garantire ai cattolici peso e rappresentanza. Anche perché, comunque, il 90% dei cattolici ha votato diversamente. Dati molto simili emergono da altre ricerche (Itanes, nella parte curata da Luigi Ceccarini; dati Ipsos, nelle analizzati da Paolo Segatti e Cristiano Vezzoni).

Anche per questo riteniamo che i progetti neocentristi volti ad allargare la base elettorale dell'Udc non produrranno effetti significativi. Visto che la presenza radicale nel Pd non pare averne indebolito la capacità di attrarre il voto cattolico. Peraltro, nella base elettorale dei principali partiti (Udc esclusa), i cattolici praticanti costituiscono una porzione significativa, ma minoritaria. E, sui temi sociali ed etici, esprimono posizioni maggiormente vicine alla parte politica di riferimento piuttosto che alla Chiesa.

Semmai, la preferenza per il Centrodestra appare molto più evidente fra i cattolici che esercitano la pratica religiosa in modo saltuario. Una componente, peraltro, ampia degli elettori (circa un quarto del totale), poco sensibile agli insegnamenti ecclesiastici. Animati da grande fiducia nella Chiesa, questi cattolici interpretano e praticano una religione secolarizzata e privatizzata. Più simile al "senso comune" che a una professione di fede esercitata con coerenza.

L'influenza della Chiesa, per essere davvero influente, deve rivolgersi in particolare a questo popolo di "fedeli tiepidi". Peraltro, più tradizionalisti e orientati a destra, sui temi etici ma anche sociali. Tuttavia, la "missione" perseguita da Benedetto XVI non dimostra indulgenza verso il relativismo religioso ed etico. Al contrario, mira a recintare il "campo religioso", tracciando confini chiari fra la verità dei cattolici e quella degli altri. Per questo potrebbe avvenire che la Chiesa abbandoni la via extraparlamentare. Che la gerarchia cattolica concentri la propria pressione (e la propria "missione") sulla politica e i politici. Cattolici e non. Ma, ancor prima, sugli stessi cattolici. Soprattutto, i più "relativi". Per rafforzare il potere di rappresentanza della Chiesa. E, forse prima ancora, per "educarli". Per trasformare la loro fede da relativa in assoluta.

(23 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quei singolari dolori del giovane Partito democratico
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2008, 06:37:02 pm
POLITICA MAPPE

Quei singolari dolori del giovane Partito democratico

di ILVO DIAMANTI


È DURA, nell'era di Berlusconi III, fare opposizione. Meglio: l'Opposizione. Tanto più Responsabile. Lo sta verificando - con un certo disagio - il Pd di Walter Veltroni, dopo la fine del dialogo. Ne soffrono gli stessi elettori di centrosinistra. Stanchi di battaglie.

Ma, comunque, indisponibili a scambiare collaborazione per rassegnazione. Tanto meno per resa. Nonostante l'esito delle elezioni recenti, però, non tutto gira per il meglio, nella maggioranza di centrodestra. Lo stesso governo ha i suoi problemi. Che si riflettono in un certo raffreddamento dell'opinione pubblica nei suoi riguardi.

D'altronde, non è facile governare in tempi di "stagnazione" economica. Anche se, in campagna elettorale, il premier e il plenipotenziario all'economia, Giulio Tremonti, non hanno promesso miracoli. È difficile immaginare che la frustrazione dei ceti popolari e delle classi medie in declino (dal punto di vista del reddito e della posizione sociale) possa restare, a lungo, sottotraccia. Quando il richiamo ai capri espiatori più consumati degli ultimi vent'anni (Prodi e Visco) smetterà di funzionare, l'insoddisfazione riemergerà. Né crediamo che la Robin-tax possa tacitare a lungo il risentimento popolare. Perché dubitiamo che le banche e i petrolieri - i "ricchi" derubati da Robin Threemountains a favore dei più poveri - non riescano a riprendersi il bentolto.

Prontamente e direttamente: alle pompe o agli sportelli. Così, è difficile pensare che le distanze fra culture e interessi della coalizione non producano, prima o poi (anzi: più prima che poi), tensioni.
Ad esempio, sul tema dell'autonomia, di cui è paladina la Lega. Come nascondere il contrasto implicito nell'abolizione dell'Ici? Che è, sicuramente, un provvedimento popolare, perché riduce la pressione fiscale. Ma è quanto di più aggressivo nei confronti dei governi e delle autonomie locali, perché interviene in modo centralista su una materia di competenza dei Comuni. Ne ridimensiona le risorse e, prima ancora, ne umilia l'autorità. Proprio mentre si discute di federalismo fiscale.

Ancora, come non cogliere, nel pacchetto sulla sicurezza, il medesimo contrasto fra centralismo e federalismo? Visto che la Lega ha mobilitato le sue "ronde padane", in nome dell'autodifesa comunitaria. Mentre, a sostegno dell'ordine in ambito locale, il governo - e in particolare la famiglia AeNnista, rappresentata dal ministro della Difesa La Russa - ha stabilito l'intervento dell'esercito, nientemeno. Segno del potere dello Stato, monopolista legittimo dell'uso della forza a fini speciali.

Inoltre: difficile per i paladini dell'antipolitica - ancora la Lega, ma non solo - accettare la tutela della privacy a' la carte. Vietare la pubblicazione delle intercettazioni e delle denunce dei redditi e, invece, pubblicizzare le consulenze degli enti pubblici e gli stipendi dei dipendenti statali. Significa: la privacy garantita alla casta, ma non ai "dipendenti comuni".
Poi: il contrasto latente, compreso nella vicenda dei rifiuti di Napoli e, in generale, nel sostegno al Mezzogiorno. Sgradito all'opinione pubblica del Nord. Che ha tributato un plebiscito alla Lega. Esattamente come nel Sud è avvenuto al Pdl e al Mpa, la Lega Sud.
Ma, nella maggioranza, restano aperti anche problemi di ordine politico. Soprattutto nel partito maggiore, il Pdl. Che chiamare "partito" è, in effetti, un azzardo. Fin qui, infatti, non risulta che FI e AN abbiano celebrato un congresso di scioglimento e di riunificazione. E dubitiamo seriamente che ciò possa effettivamente avvenire senza conseguenze. Vista la ben diversa consistenza organizzativa e ideologica dei soci fondatori.

Infine e anzitutto: non riusciamo a credere che un'area segmentata da identità tanto distinte e forti, come il centrodestra, possa accettare, di nuovo, questa rappresentanza monopersonale e monocratica. Candidati alla successione, da Tremonti a Fini; leader dall'orgoglio irriducibile, come Umberto Bossi: a far da coro all'ennesimo monologo. Recitato da lui. Pardon: Lui. Silvio I, II e anche III. Impegnato a scrivere l'agenda politica e di governo. In base alle proprie urgenze e ai propri crucci. Quanto fondati e giustificati, non importa. Quel che conta è che oggi immigrazione, sicurezza, Robin-tax e Ici sono postille a un programma che ha un solo argomento, una sola priorità: la questione giudiziaria, che tiene al centro i processi ancora aperti contro Berlusconi. In seconda battuta: le televisioni. Con l'esigenza di salvaguardare l'intera piattaforma di Mediaset da ogni minaccia che giunga dal diritto comunitario, oltre che nazionale. Il centrodestra, così, rischia di ridursi all'ennesima versione del Partito Personale di Berlusconi. Il seguito di FI, allargato, per inclusione, ad altre correnti, più o meno autonome: An, la Lega, Mpa. Difficile che tutto ciò possa durare a lungo senza strappi. Anche se queste tensioni, al momento, risultano poco evidenti agli elettori.

Tuttavia, è indubbio che questa maggioranza e questo governo stiano fornendo ragioni e materie intorno a cui fare opposizione. Per questo appaiono singolari i dolori del giovane Pd, questo partito appena nato, dopo una lunga gestazione. Ma ancora alla ricerca di una missione; e, nel frattempo, di una "via all'Opposizione". Forse perché frenato dall'opzione del Dialogo, utilizzata, in campagna elettorale, per segnare la rottura rispetto al passato. Per spezzare il filo con l'eredità ingombrante dell'Unione di Prodi. Tuttavia, il dialogo è possibile quando esistono un vocabolario comune, regole e convenzioni condivise. Ma se la battaglia personale del premier contro i "giudici rivoluzionari" crea disagio nel centrodestra, figurarsi nel centrosinistra. Eppure è palese come oggi Berlusconi continui a scrivere l'agenda politica del Paese. Della sua maggioranza, ma anche dell'opposizione. Tanto da aver trasferito la sua "vera" opposizione fuori dal Parlamento e perfino dalla politica. L'ha sostituita con i magistrati. Con quelle istituzioni non elettive che non accettano il voto popolare. (Il presidente della Repubblica, per esempio). Ma pretendono di limitarne il potere. Non è casuale la crescita dei consensi all'Idv. A sua volta un partito personale. La LDP: Lista Di Pietro. Presunta e pretesa rappresentazione dei magistrati. In quanto tale, anch'essa icona del (l'anti) berlusconismo.
In Parlamento, d'altronde, i numeri mettono la maggioranza al riparo da ogni possibile rischio. Mentre il percorso del Pd ci sembra incerto. Il "partito" appare in difficoltà nella società e sul territorio. Dove i volontari e i sostenitori appassionati (sono ancora tanti) assistono a dibattiti che li appassionano poco: sulla questione cattolica, sulla collocazione europea (con il Pse o con chi?). Disorientati (e forse irritati) da un dibattito politico esile, ma crudo. Attraversato da polemiche di vertice e divisioni correntizie. Fra modello personale (Veltroni), post-socialista (D'Alema) e unionista (Parisi).

Il Pd: per comunicare la rottura del dialogo - agli avversari e agli amici - minaccia manifestazioni di piazza. Dopo le ferie. Meglio sarebbe, forse, dedicarsi alla costruzione del partito: come rappresentanza, organizzazione e identità. Per il bene dei suoi elettori (delusi, non rassegnati); e per il bene della democrazia - perché non c'è democrazia senza opposizione "politica". Il Pd dialoghi con la società e con i suoi elettori, prima che con il Cavaliere. Tenti di spiegare, con chiarezza: chi è, cosa vuole, quali valori e quali interessi esprime. Quale identità lo sostenga. Per dare senso alla traversata nel deserto, che i suoi elettori sono disposti ad affrontare. (Ne hanno passate tante, nel corso degli anni). Ma a condizione di conoscere cosa c'è "oltre". Al di qua e al di là di Berlusconi.

(29 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Paese in piena sfiducia
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2008, 09:39:57 pm
POLITICA - MAPPE

Il Cavaliere scende dal 61,4% al 46,4%, ma il leader Pd fa anche peggio e cade dal 65% al 40,7%. Prodi, due anni fa, era al 59%

Il Paese in piena sfiducia

Crollano Berlusconi e Veltroni

Largo dissenso sul carattere "ad personam" delle iniziative in tema di giustizia

I partiti: fermo il Pdl, cala il Pd. Crescono Idv, Udc e Lega

 
di ILVO DIAMANTI


Tre mesi dopo le elezioni il Paese è tornato alla normalità triste degli ultimi anni. Sprofondato nella sfiducia. Berlusconi non ha fatto miracoli, neanche stavolta. D'altronde, a differenza del passato, in campagna elettorale non li aveva promessi. Né, probabilmente, gli elettori gli avrebbero creduto.

I DATI COMPLETI SU "ATLANTE POLITICO"

Gli italiani non hanno votato per lui, il Pdl e la Lega sulla "fiducia". Ma per "sfiducia" nei suoi avversari. Nell'Unione che aveva governato, faticosamente, per neppure due anni. Tre mesi dopo il voto la nebbia è ripiombata e ha avvolto tutto e tutti. Veltroni e il Pd, che nelle stime elettorali scivola indietro. Ma anche Berlusconi e il governo. Verso il quale esprime fiducia il 44% degli elettori. Quindici punti in meno (ripetiamo: 15) rispetto al gradimento ottenuto dal deprecato governo Prodi esattamente due anni fa. Tre mesi dopo il voto, come oggi. Certo, nel luglio 2006 Prodi aveva "monetizzato" alcuni importanti successi, politici e non: a) il referendum che aveva bocciato le riforme istituzionali volute dalla precedente maggioranza di centrodestra; b) la soddisfazione suscitata dal decreto Bersani sulle liberalizzazioni; c) infine, la vittoria della nazionale italiana ai mondiali di calcio in Germania. Un patrimonio di fiducia che il governo Prodi avrebbe dissipato in fretta, a partire dalla legge sull'indulto, poche settimane dopo. Tuttavia, due anni fa, l'Unione aveva vinto le elezioni quasi per caso, mentre il centrodestra di Berlusconi, tre mesi fa, ha conseguito un trionfo. Ciò nonostante, nel Paese è tornata la sfiducia di sempre.

Quattro le ragioni, suggerite dal sondaggio.
1. In primo luogo, l'insoddisfazione verso le prospettive dell'economia nazionale e familiare: mai così elevata, mai così diffusa negli ultimi tre anni.

2. Poi, l'insicurezza, sottolineata dal sostegno popolare ai provvedimenti del governo sull'immigrazione clandestina e sull'impiego dell'esercito. A nostro avviso (lo abbiamo già scritto) inefficaci, prima ancora che inaccettabili. Ma, comunque, graditi ai più, perché intercettano le paure diffuse nella società. Tuttavia - come dimostrano i dati del sondaggio - rispondere alle paure alimentandole ulteriormente, non genera consenso. Ma il contrario.

3. La contrarietà espressa da gran parte dei cittadini verso i progetti annunciati e, in parte, avviati dal governo: per limitare le intercettazioni telefoniche nelle indagini, per bloccare i procedimenti giudiziari (cosiddetti) minori, per re-introdurre l'immunità a favore delle alte cariche dello Stato. Queste iniziative hanno suscitato un ampio dissenso, principalmente per quattro ragioni: a) perché molti le hanno considerate "ad personam"; finalizzate, cioè, a risolvere i problemi "personali" del premier prima di quelli "generali" dei cittadini; b) la sospensione dei processi, in particolare, è apparsa, per taluni versi, una sorta di mini-indulto; e, per questo, in contrasto con l'insicurezza diffusa; c) perché evocano l'idea, il sospetto di privilegi di "casta", utili, soprattutto, al ceto politico.

4. In definitiva, queste iniziative hanno alimentato il sentimento antipolitico: fattore decisivo nel deprimere il consenso verso le istituzioni e la classe politica, in generale; e, in particolare, verso il governo di centrodestra e il premier. Perché, a differenza di pochi mesi fa, oggi "governano". Appunto.
 
Walter Veltroni

Questo clima politico si traduce fedelmente nelle intenzioni di voto. Ne escono, infatti, rafforzati i partiti che più di tutti gli altri interpretano e amplificano il sentimento antipolitico. La Lega, da un lato, ormai vicina al 9%. La Lista Di Pietro (Idv), dall'altro, proiettata oltre il 7%. Parallelamente, tutti i leader politici subiscono un calo di fiducia, In particolare Walter Veltroni. Il quale ha perduto oltre venti punti nel gradimento degli elettori, rispetto a due mesi fa. Quando era "il più amato di tutti". Apprezzato, in modo trasversale. Ora, invece, dopo la fine del dialogo, il suo gradimento fra gli elettori di centrodestra è crollato. E ha subito una flessione anche nella base elettorale del Pd. Dove in pochi, tuttavia, ne mettono in discussione il ruolo e la leadership.

D'altronde, Veltroni e il Pd, oggi, si trovano ad agire in una posizione sicuramente scomoda. Il muro di Arcore non accenna a crollare; e gli impedisce di penetrare al centro, dove l'Udc non si limita a presidiare il suo pezzetto di mercato elettorale, ma lo allarga. Mentre è insidiato da Di Pietro, artefice di una opposizione intransigente. Si presenta come leader del Partito dei Magistrati. Trasformati, di nuovo, in protagonisti politici. Anzitutto, da Berlusconi: che ne ha fatto il Nemico. A cui non piegarsi. Anzi da piegare. Per questo, il calo di consenso per il governo e il premier non avvantaggia il Pd, il quale, anzi soffre. Nelle stime elettorali scende sotto il 30%. Stretto fra le difficoltà del dialogo e la pressione delle componenti che rivendicano un'opposizione più radicale.

In questa stagione, solcata da profondi conflitti istituzionali, tuttavia, nessuno si salva.
Per fare riferimento ai due principali antagonisti: la fiducia nel Presidente del Consiglio supera di poco il 40%; quella verso i magistrati si ferma ancor più in basso: intorno al 35%. Si assiste, cioè, a un gioco a somma negativa, nel quale la fiducia nella democrazia e nelle sue istituzioni declina. Degrada. Solo il Presidente della Repubblica resiste. Apprezzato da quasi tre italiani su quattro. Perché, come prima di lui Ciampi, Giorgio Napolitano, in un periodo buio della nostra Repubblica, alla maggioranza degli italiani appare come un "gancio". Un'ancora. A cui aggrapparsi, per non "perdersi" in questo Paese senza bussole, senza appigli e senza sponde. Dove latitano riferimenti certi e condivisi.

D'altra parte, la strategia del dialogo, promossa da Veltroni e accolta da Berlusconi in campagna elettorale, dopo il voto si è rapidamente consumata, nonostante gran parte degli elettori continui a ritenerla necessaria. Mentre il bipartitismo sembra molto più relativo. Neppure il bipolarismo di un tempo regge. Non c'è più un Paese diviso in due. Visto che le divisioni politiche e antipolitiche attraversano i due schieramenti, dall'interno. Soprattutto il centrosinistra. Per il quale la manifestazione promossa, martedì prossimo, da MicroMega a sostegno dei magistrati e contro Berlusconi costituisce, certamente, una sfida. Condivisa, senza condizioni, da una minoranza, per quanto significativa: 2 elettori su 10, in generale; quasi 3 fra quelli del Pd. Ma oltre 4 nella base dell'Idv. La maggioranza degli elettori di centrosinistra, invece, ne approva la sostanza, non la forma. In altri termini: vorrebbe attendere, cercare altre vie e altre strade, per fare opposizione, prima di affidarsi alla piazza. O ai magistrati.

In questo Paese confuso, dove coabitano a fatica una maggioranza delusa, un'opposizione divisa e istituzioni deboli, è forte la tentazione di fuggire. O almeno di cambiar canale. Voltare pagina. Dimenticare la politica e l'antipolitica passando direttamente al gossip.
Ma non ci accorgeremmo della differenza.

(6 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il regime mediocratico
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 12:20:43 pm
POLITICA MAPPE

Il regime mediocratico

di ILVO DIAMANTI


Da Silvio Berlusconi a Sabina Guzzanti, passando per Beppe Grillo: il percorso della democrazia italiana sembra essersi compiuto. Oltre la democrazia del pubblico e dell'opinione. Fino alla "mediocrazia".

La definiamo così non per evocare "mediocrità", che per noi è una virtù democratica, quando riassume passioni timide, distacco, moderazione. Intendiamo, in questo modo, echeggiare il potere dei "media". Che hanno imposto alla politica non solo il linguaggio, lo stile: anche le regole e i modelli di organizzazione. Infine, gli attori. Naturalmente, sappiamo che l'intreccio fra media, comunicazione e politica ha una storia lunga e globale, costellata di esempi illustri e per nulla "mediocri". Basti pensare a Ronald Reagan, modesto attore in età giovanile, ma presidente Usa fra i più importanti del dopoguerra. Oppure, a Terminator, al secolo Arnold Schwarzenegger, attuale governatore della California. Però in Italia l'intreccio risulta più stretto che altrove. Si è realizzato in modo tanto rapido che quasi non ce ne siamo resi conto. Era l'inizio dei burrascosi anni Novanta. Dai partiti di massa, ideologici, organizzati, radicati sul territorio si è passati a partiti senza società, organizzati al centro e fragili in periferia. Ma soprattutto: personalizzati, influenzati dalle logiche della comunicazione e del marketing. Una sorta di populismo mediatico, il cui inventore indiscusso e insuperato è Silvio Berlusconi. Creatore di un partito di successo, Forza Italia, ma, al tempo stesso, della seconda Repubblica. Di cui è divenuto il principale riferimento e discrimine ideologico: da accettare o rifiutare. Senza riserve. Padrone del principale gruppo televisivo privato. Ha imposto e "venduto" sul mercato politico se stesso e il proprio partito come un prodotto. La cocacola o il ferrero-rocher. Dopo di lui, la televisione è divenuta il principale luogo di partecipazione e di identità politica.

Ancora oggi, d'altronde, gli elettori di centrodestra preferiscono l'informazione di Mediaset, gli elettori di centrosinistra quella della Rai. Per tradizione e fedeltà. Anche se le differenze fra le reti sono ormai sottili e l'informazione di Mediaset, in alcuni casi, è più di "sinistra" di quella offerta dalla Rai. Non è detto - e, a nostro avviso, non è vero - che la tivù sia il luogo principale - se non l'unico - in cui si formano (peggio: si plasmano) le opinioni degli elettori. Però è una convinzione radicata e condivisa, soprattutto nel ceto politico. Senza distinzione di parte e di partito. Anche nel centrosinistra. Dove i partiti tradizionali, usurati dal punto di vista ideologico e organizzativo, hanno inseguito il modello inventato da Berlusconi, spostando il loro baricentro dal territorio al video, dall'organizzazione alla personalizzazione, dalle ideologie al marketing, dalle idee agli slogan. In pochi anni, diventa spettacolo dove si rappresenta lo spettacolo della politica.

Il centrosinistra, in questa scena, si è tuffato a capofitto. Sconta il problema iniziale dell'inesperienza. Ma si è abituato in fretta, affollando ogni rete e ogni programma. A ogni ora. Da "Uno Mattina" alle "Notti" di Vespa e Mentana. La competenza del sistema comunicativo è, quindi, divenuta un requisito importante per la carriera politica. Non a caso i consiglieri più influenti di Berlusconi sono due professionisti del sistema mediatico: Gianni Letta e Giuliano Ferrara. Anche il centrosinistra si è rivolto all'ambiente del giornalismo televisivo, da cui ha selezionato, con alterno successo, parlamentari italiani ed europei, ma anche sindaci e governatori.

L'immagine e la confidenza mediatica hanno pesato anche nella scelta del candidato premier. Anche per queste ragioni Rutelli nel 2001 e lo stesso Veltroni nel 2008 sono stati chiamati a sfidare Berlusconi. Certo, entrambi politici di (medio o) lungo corso, provenivano da un'esperienza amministrativa di successo, come sindaci di Roma. Veltroni, inoltre, è segretario del Pd, votato alle primarie da milioni di elettori. Tuttavia, in entrambi i casi, la capacità di comunicare ha contribuito in misura importante alla loro scelta.

La parabola della mediocrazia, a sinistra, è precipitata negli ultimi anni, con lo sconfinamento dei comici e degli attori satirici: dai teatri e dagli schermi alle piazze. Da attori di satira ad attori politici, tout-court. È il caso di Sabina Guzzanti, esploso in occasione della recente manifestazione dei girotondi, a Piazza Navona. Di cui è stata protagonista assoluta. Insieme a Beppe Grillo, leader di un movimento d'opinione, che ha assunto misure di massa e attraversa tutti i partiti. L'ascesa politica dei comici e dei satirici, a sinistra, ha diverse ragioni. Vi ha contribuito, per primo, Silvio Berlusconi, che li ha indicati - e legittimati - come "nemici". Decretandone, in alcuni casi, l'espulsione dai media. Ma gli attori satirici sono divenuti leader politici soprattutto perché trascinati dalla deriva mediatica del centrosinistra. D'altronde, sul piano della comunicazione, in tivù ma anche nelle manifestazione pubbliche, Pecoraro Scanio, Diliberto o Franceschini come possono competere con Sabina Guzzanti? O con protagonisti della scena teatrale come Moni Ovadia, il nobel Dario Fo o Franca Rame (peraltro, già parlamentare)? Per non parlare di Beppe Grillo. Non c'è partita. C'è, infine, la difficoltà di fare opposizione. Visto che la sinistra radicale è scomparsa e quella riformista appare fin troppo timida. Allora le piazze si trasformano in teatri dove si rappresenta lo spettacolo dell'opposizione "indignata". Perché questi sanno (e debbono) fare i comici e i protagonisti della satira. Scrutare e denunciare i vizi della politica. Del nemico e - a maggior ragione - dei presunti amici.

Per questo a Piazza Navona, martedì scorso, non poteva andare diversamente. Sabina Guzzanti e Beppe Grillo sanno suonare le corde del sentimento e del risentimento popolare. Sanno fare scandalo e notizia. Interpretare al meglio lo spettacolo dell'indignazione. Altro che Di Pietro e Furio Colombo. Tuttavia non si tratta solo e semplicemente di satira, come pretenderebbero alcuni fra gli organizzatori e fra i leader (sedicenti) politici (veri) presenti alla manifestazione. Troppo semplice. Troppo facile. Lo ha chiarito bene Sabina Guzzanti, nella lettera inviata al Corriere della Sera: "Chiunque parli a un pubblico fa politica". Non solo, ma "il discorso di un comico può essere molto più politico di quello di un politico". Ha ragione. È il suo intervento ad aver impresso il segno politico alla manifestazione di Piazza Navona. È lei la protagonista di quell'avvenimento.

Nella mediocrazia, d'altronde, il centro della scena è, inevitabilmente, occupato dai "mediocrati". Con effetti spiacevoli e sfavorevoli per le componenti riformiste del centrosinistra. 1) Perché la buona satira non è riformista, ma rivoluzionaria. Non accetta la mediazione: è intransigente e, oggi, antipolitica. Ma l'antipolitica scoraggia e delude soprattutto gli elettori di sinistra. 2) Perché fra Berlusconi, Grillo e la Guzzanti; fra Berlusconi, Veltroni e Rutelli: in un regime mediocratico, non c'è partita. Il primo è il padrone, l'impresario. Gli altri: attori o apprendisti. D'altronde, nell'era della "democrazia del pubblico", l'unico a battere Berlusconi, per due volte - o meglio: una volta e mezza - è stato Romano Prodi. Anticomunicativo e antitelevisivo. Perché i media, l'immagine, la tivù, in politica, contano, ma non sono tutto. C'è bisogno d'altro. Presenza nella società, organizzazione. Identità. Speranza. Ma questa sinistra, divisa fra coraggiosi e indignati, fra dialogo senza opposizione e opposizione senza dialogo: rischia di rimanere solo senza speranza.

(13 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ex voto, un dibattito al passato
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 10:13:28 pm
Rubriche » Bussole

Ex voto, un dibattito al passato

Ilvo Diamanti


 Le riforme istituzionali al pari di quelle elettorali sono sempre state scritte su pressione esterna. Sulla spinta di emergenze, ricatti, calcoli di opportunità. Almeno dopo la fase costituente. Fra il 1991 e il 1993, in particolare, molte riforme sono state fatte (in fretta) per fare fronte alla crisi della prima Repubblica. Spinte dall'onda del dissenso popolare provocata dai referendum.

Si è poi aperta la stagione delle riforme federaliste, per rispondere all'insoddisfazione del Nord e all'azione della Lega. Infine, nell'autunno 2005 il centrodestra ha delineato un pacchetto di riforme istituzionali - prontamente bocciate dal referendum che si è svolto nel giugno dell'anno seguente. Mentre è rimasta in vigore la legge elettorale disegnata dal ministro Calderoli (che ebbe a definirla una "porcata". Né, per una volta, saremo noi a contraddirlo). Un proporzionale con premio di coalizione, calcolato su basi diverse alla Camera (in ambito nazionale) e Senato (regionale).

Venne approvato in fretta e furia, insieme ad altre riforme (riguardanti la devolution, il bicameralismo i poteri del premier e del Presidente della Repubblica). Per rinsaldare il patto che legava i partiti della CdL, fra loro e con i propri "mercati elettorali". Nel caso della legge elettorale, però, c'era un ulteriore motivo. Contrastare il successo del centrosinistra, ritenuto dai sondaggi largo e largamente annunciato. Particolarmente ampio nella competizione maggioritaria di collegio, su cui si fondava il precedente sistema elettorale.

In altri termini: il "porcellum" di Calderoli serviva a ridimensionare il vantaggio dell'Unione e, comunque, a complicare vita al governo, dopo il successo elettorale scontato e annunciato. Nella realtà, produsse effetti opposti. Favorì il centrosinistra, che ottenne una larga maggioranza in seggi, alla Camera, nonostante avesse prevalso di poche migliaia di voti. Mentre al Senato conquistò ottenne una maggioranza parlamentare risicata, che gli impedì, di fatto, di governare. Avendo, però, ottenuto meno voti del centrodestra.

Alle recenti elezioni, sappiamo quel che è successo. Veltroni e il Pd hanno scelto di correre da soli. O meglio in compagnia del solo Di Pietro. E Berlusconi, dopo aver "allargato" FI ad AN, lo ha seguito, riducendo la cerchia delle alleanze alle due Leghe: Nord e Sud (MpA). Questa volta, il risultato ha garantito a Berlusconi e alla coalizione che lo sosteneva una maggioranza ampia e sicura, in entrambe le Camere. Ciò gli permette di governare con sufficiente tranquillità. Gli unici problemi gli possono venire dall'interno: dai partiti della coalizione. Oppure dall'esterno: dalle difficoltà imposte dalla situazione economica, dall'insicurezza. Ma, si sa, questi problemi non possono essere risolti dalla legge elettorale. Mentre pare che le borse e i mercati stentino a obbedire alle regole e ai desideri del Cavaliere. Anche se ci stanno pensando.

Per questo il dibattito - teso e quasi lacerante - che si è aperto nel Pd, sul sistema elettorale da adottare, pare degno di miglior causa. L'alternativa fra sistema tedesco, spagnolo, francese, inglese e americano. Fra proporzionale, uninominale secca di collegio, maggioritario a doppio turno e quant'altro. Ci sembra sostanzialmente accademica. Tutta interna al Pd, alle sue fondazioni, ai suoi specialisti. A politologi, costituzionalisti, giuristi. E, al tempo stesso, irrilevante e sostanzialmente priva di interesse per le forze politiche della maggioranza. Più attente semmai ad alcune riforme istituzionali, che chiamano in causa i poteri del premier e del presidente oltre al federalismo.

D'altronde, Berlusconi ha vinto in modo largo. Perché il distacco fra Pdl e Pd era ampio: oltre da 4 punti. Il risultato della Lega lo ha dilatato ancora, portandolo fino a 9-10 punti. Nulla, comunque, può far prevedere, nel breve periodo, un avvicinamento tale da far sospettare il sorpasso del Pd. Per cui non c'è motivo, per Berlusconi, di cambiare sistema elettorale. Questo, visti i risultati, gli va benissimo.

Certo, un ripensamento oppure la disperazione potrebbero indurre il gruppo dirigente del centrosinistra a tornare sui propri passi. A riprendere, magari in modo diverso, la via dell'Unione; le alleanze larghe con tutti quelli che ci stanno. In fondo, in questo modo ha vinto le elezioni del 2006, seppure di misura (minima). Tuttavia, c'è da dubitare che ciò avverrebbe di nuovo. Non solo perché le lacerazioni sono difficili da ricucire, soprattutto quando producono effetti tanto irreparabili (la scomparsa della Sinistra dal Parlamento e, in misura rilevante, anche tra gli elettori). Anche perché condizioni simili al 2006 difficilmente si riproporranno. Il centrodestra diviso e depresso (Berlusconi escluso). E il centrosinistra, al contrario, capace di coinvolgere, oltre ai tradizionali alleati, compagni di strada impensabili. Casalinghe, consumatori, pensionati, leghe regionaliste. Soggetti (per così dire) politici che si presentarono con proprie liste, attratti dalla prospettiva di "vincere le elezioni", saltando sul carro vincente; guadagnando una frazione, per quanto piccola, di risorse e di poteri. Non capiterà più. Come pare difficile eufemisticamente , com'è ovvio) immaginare il ritorno nell'Unione di Mastella e dell'Udeur. D'altra parte, a considerare i sondaggi, la distanza fra le coalizioni che si sono presentate alle elezioni del 2008 è ormai superiore a 11 punti percentuali. Ma se si considerano le coalizioni del 2006 la differenza diventa abissale. 13-14 punti.

D'altronde, anche se l'alleanza di centrodestra è frastagliata, le divisioni interne profonde, come nel precedente governo Berlusconi, è difficile immaginare fratture irreparabili. Non sono avvenute allora, perché oggi? Il fatto è che a destra c'è un padrone, a sinistra molti piccoli leader concorrenti. Nessuno in grado di comandare. Di imporsi agli altri. Con le buone o le cattive. Per questo non c'è motivo di cambiare. Per Berlusconi. Questa legge gli permette di prevalere comunque. Interpretata in modo "semplificato" e maggioritario, come alle recenti elezioni del 2008. Oppure in modo proporzional-maggioritario, come il porcellum del 2006. Il vincolo di coalizione gli permette di giocare la parte di unica colla e unico "capo" possibile del centrodestra. E impedisce alle spinte "autonomiste" interne alla coalizione (esercitate dalla Lega, per esempio) di produrre frazionismo o, peggio, scissioni. Ormai, nella Casa delle Libertà, il "porcellum" di Calderoli è divenuto un animale domestico. Berlusconi ne ha fatto quasi una legge "ad personam".

Con la differenza che altri - in questo caso - l'hanno concepita e scritta. Lui si è limitato ad adattarla alle proprie esigenze. Per questo, il conflitto acceso sulla legge elettorale investe e divide soprattutto - forse solo - il centrosinistra. E in particolare il Pd. Al quale converrebbe, almeno, approfittare del dibattito a fini interni, per rivedere le regole delle primarie e delle consultazioni in vista del prossimo (??) congresso.

(15 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ex voto, un dibattito al passato
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:08:08 am
Rubriche » Bussole

Ilvo Diamanti

Ex voto, un dibattito al passato


 Le riforme istituzionali al pari di quelle elettorali sono sempre state scritte su pressione esterna. Sulla spinta di emergenze, ricatti, calcoli di opportunità. Almeno dopo la fase costituente. Fra il 1991 e il 1993, in particolare, molte riforme sono state fatte (in fretta) per fare fronte alla crisi della prima Repubblica. Spinte dall'onda del dissenso popolare provocata dai referendum.

Si è poi aperta la stagione delle riforme federaliste, per rispondere all'insoddisfazione del Nord e all'azione della Lega. Infine, nell'autunno 2005 il centrodestra ha delineato un pacchetto di riforme istituzionali - prontamente bocciate dal referendum che si è svolto nel giugno dell'anno seguente. Mentre è rimasta in vigore la legge elettorale disegnata dal ministro Calderoli (che ebbe a definirla una "porcata". Né, per una volta, saremo noi a contraddirlo). Un proporzionale con premio di coalizione, calcolato su basi diverse alla Camera (in ambito nazionale) e Senato (regionale).

Venne approvato in fretta e furia, insieme ad altre riforme (riguardanti la devolution, il bicameralismo i poteri del premier e del Presidente della Repubblica). Per rinsaldare il patto che legava i partiti della CdL, fra loro e con i propri "mercati elettorali". Nel caso della legge elettorale, però, c'era un ulteriore motivo. Contrastare il successo del centrosinistra, ritenuto dai sondaggi largo e largamente annunciato. Particolarmente ampio nella competizione maggioritaria di collegio, su cui si fondava il precedente sistema elettorale.

In altri termini: il "porcellum" di Calderoli serviva a ridimensionare il vantaggio dell'Unione e, comunque, a complicare vita al governo, dopo il successo elettorale scontato e annunciato. Nella realtà, produsse effetti opposti. Favorì il centrosinistra, che ottenne una larga maggioranza in seggi, alla Camera, nonostante avesse prevalso di poche migliaia di voti. Mentre al Senato conquistò una maggioranza parlamentare risicata, che gli impedì, di fatto, di governare. Avendo, però, ottenuto meno voti del centrodestra.

Alle recenti elezioni, sappiamo quel che è successo. Veltroni e il Pd hanno scelto di correre da soli. O meglio in compagnia del solo Di Pietro. E Berlusconi, dopo aver "allargato" FI ad AN, lo ha seguito, riducendo la cerchia delle alleanze alle due Leghe: Nord e Sud (MpA). Questa volta, il risultato ha garantito a Berlusconi e alla coalizione che lo sosteneva una maggioranza ampia e sicura, in entrambe le Camere. Ciò gli permette di governare con sufficiente tranquillità. Gli unici problemi gli possono venire dall'interno: dai partiti della coalizione. Oppure dall'esterno: dalle difficoltà imposte dalla situazione economica, dall'insicurezza. Ma, si sa, questi problemi non possono essere risolti dalla legge elettorale. Mentre pare che le borse e i mercati stentino a obbedire alle regole e ai desideri del Cavaliere. Anche se ci stanno pensando.

Per questo il dibattito - teso e quasi lacerante - che si è aperto nel Pd, sul sistema elettorale da adottare, pare degno di miglior causa. L'alternativa fra sistema tedesco, spagnolo, francese, inglese e americano. Fra proporzionale, uninominale secca di collegio, maggioritario a doppio turno e quant'altro. Ci sembra sostanzialmente accademica. Tutta interna al Pd, alle sue fondazioni, ai suoi specialisti. A politologi, costituzionalisti, giuristi. E, al tempo stesso, irrilevante e sostanzialmente priva di interesse per le forze politiche della maggioranza. Più attente semmai ad alcune riforme istituzionali, che chiamano in causa i poteri del premier e del presidente oltre al federalismo.

D'altronde, Berlusconi ha vinto in modo largo. Perché il distacco fra Pdl e Pd era ampio: oltre da 4 punti. Il risultato della Lega lo ha dilatato ancora, portandolo fino a 9-10 punti. Nulla, comunque, può far prevedere, nel breve periodo, un avvicinamento tale da far sospettare il sorpasso del Pd. Per cui non c'è motivo, per Berlusconi, di cambiare sistema elettorale. Questo, visti i risultati, gli va benissimo.

Certo, un ripensamento oppure la disperazione potrebbero indurre il gruppo dirigente del centrosinistra a tornare sui propri passi. A riprendere, magari in modo diverso, la via dell'Unione; le alleanze larghe con tutti quelli che ci stanno. In fondo, in questo modo ha vinto le elezioni del 2006, seppure di misura (minima). Tuttavia, c'è da dubitare che ciò avverrebbe di nuovo. Non solo perché le lacerazioni sono difficili da ricucire, soprattutto quando producono effetti tanto irreparabili (la scomparsa della Sinistra dal Parlamento e, in misura rilevante, anche tra gli elettori). Anche perché condizioni simili al 2006 difficilmente si riproporranno. Il centrodestra diviso e depresso (Berlusconi escluso). E il centrosinistra, al contrario, capace di coinvolgere, oltre ai tradizionali alleati, compagni di strada impensabili. Casalinghe, consumatori, pensionati, leghe regionaliste. Soggetti (per così dire) politici che si presentarono con proprie liste, attratti dalla prospettiva di "vincere le elezioni", saltando sul carro vincente; guadagnando una frazione, per quanto piccola, di risorse e di poteri. Non capiterà più. Come pare difficile eufemisticamente , com'è ovvio) immaginare il ritorno nell'Unione di Mastella e dell'Udeur. D'altra parte, a considerare i sondaggi, la distanza fra le coalizioni che si sono presentate alle elezioni del 2008 è ormai superiore a 11 punti percentuali. Ma se si considerano le coalizioni del 2006 la differenza diventa abissale. 13-14 punti.

D'altronde, anche se l'alleanza di centrodestra è frastagliata, le divisioni interne profonde, come nel precedente governo Berlusconi, è difficile immaginare fratture irreparabili. Non sono avvenute allora, perché oggi? Il fatto è che a destra c'è un padrone, a sinistra molti piccoli leader concorrenti. Nessuno in grado di comandare. Di imporsi agli altri. Con le buone o le cattive. Per questo non c'è motivo di cambiare. Per Berlusconi. Questa legge gli permette di prevalere comunque. Interpretata in modo "semplificato" e maggioritario, come alle recenti elezioni del 2008. Oppure in modo proporzional-maggioritario, come il porcellum del 2006. Il vincolo di coalizione gli permette di giocare la parte di unica colla e unico "capo" possibile del centrodestra. E impedisce alle spinte "autonomiste" interne alla coalizione (esercitate dalla Lega, per esempio) di produrre frazionismo o, peggio, scissioni. Ormai, nella Casa delle Libertà, il "porcellum" di Calderoli è divenuto un animale domestico. Berlusconi ne ha fatto quasi una legge "ad personam".

Con la differenza che altri - in questo caso - l'hanno concepita e scritta. Lui si è limitato ad adattarla alle proprie esigenze. Per questo, il conflitto acceso sulla legge elettorale investe e divide soprattutto - forse solo - il centrosinistra. E in particolare il Pd. Al quale converrebbe, almeno, approfittare del dibattito a fini interni, per rivedere le regole delle primarie e delle consultazioni in vista del prossimo (??) congresso.

(15 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Due Destre, due Italie
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2008, 07:17:59 pm
POLITICA MAPPE

Due Destre, due Italie


di ILVO DIAMANTI


Le tensioni che scuotono il centrodestra tendono ad essere svalutate. In particolare le schermaglie fra Bossi e Berlusconi, a cui ci siamo abituati da decenni. Frequenti, talora aspre, ma non producono mai veri strappi. Se si eccettua la frattura avvenuta nel lontano 1994, pochi mesi dopo la formazione del primo governo Berlusconi. Ma quella era un'altra epoca.

Meglio, quindi, non equivocare. L'alleanza durerà a lungo. Tuttavia, la convivenza non sarà facile e neppure quieta, perché oggi sotto lo stesso tetto abitano due destre. Divise dalla geografia, dai valori, dagli interessi rappresentati. Che è assai più difficile del passato comporre. "Colpa" della semplificazione prodotta da Berlusconi, il quale, per rispondere al Pd e a Veltroni, ha allargato il suo "partito personale". Ha "inventato" e imposto il Pdl, associando Fi e An. Ma non l'Udc, che, anzi, è stata spinta fuori dall'alleanza.

Il successo della Lega, in fondo, risponde alla nascita di una nuova destra. Che, soprattutto nel Nord, appare fin troppo "romana", nazionalista, protezionista, per non produrre una reazione popolare. Come nel 1996. Quando la Lega ottenne un consenso molto ampio anche perché sfidò Fi e An, alleati nel Polo. Figurarsi oggi che sono dentro a un unico partito.

Il centrodestra, si è, dunque, "bipartitizzato". Diviso fra due soggetti politici distanti, per alcuni importanti aspetti. Anzitutto, dal punto di vista geopolitico. La Lega ha sfondato nel Nord, in prevalenza a spese del Pdl. Il quale ha conseguito il maggior grado di crescita elettorale nel Mezzogiorno e nelle Isole. Soprattutto in Sicilia. Tra le province dove ha ottenuto i migliori risultati, solo una è del Nord. Imperia, feudo di Scajola. Nel Lombardo-Veneto, invece, è cresciuto il peso della Lega. L'Italia del Pdl è, quindi, uno stivale rovesciato, la cui principale zona di forza è divenuta la Sicilia. Tanto più dopo le performance straordinarie ottenute alle amministrative di giugno. Ne emerge un partito dallo sguardo strabico sui problemi e sulle domande degli elettori. Che hanno, in effetti, orientamenti diversi, messi in evidenza dai sondaggi. (In questa sede ne utilizziamo due, condotti da Demos e La Polis).

Gli elettori della Lega appaiono, infatti, maggiormente ostili agli immigrati e all'euro; più lontani dallo Stato e più disponibili ad aumentare l'intervento privato nei servizi pubblici. Ma soprattutto: rivendicano federalismo. Come progetto, ma anche come parola magica, che evoca "indipendenza". Simmetricamente, gli elettori del Pdl dimostrano maggiore domanda di intervento dello Stato, soprattutto (ma non solo) con funzioni di "ordine pubblico" (attraverso l'impiego dell'esercito nelle zone più insicure), sono prudenti nel richiedere la privatizzazione dei servizi, hanno maggiore fiducia nei confronti delle organizzazioni di grande impresa.

Il Pdl, quindi, presenta un mix di orientamenti socioculturali che ne riflette l'impianto elettorale, prevalentemente centromedionale. E ciò lo distanzia dalla Lega. Il che rende difficile, al governo, delineare una politica comune e coerente. Perché federalismo fiscale e protezione pubblica sono rivendicazioni difficili da conciliare, nonostante la capacità creativa del "tremontismo". Tanto più in questa fase contrassegnata da ristrettezze di bilancio, vincoli internazionali, stagnazione globale.

In questa destra bipartitica tende a indebolirsi anche il ruolo di Silvio Berlusconi. Perché non è solo il premier: è il leader del Pdl. Il partito più forte della coalizione, dal punto vista elettorale. Ma non dal punto di visto politico. In quanto, senza la Lega, neppure il Pdl dispone della maggioranza in Parlamento. Non può vincere alle elezioni. Perché, inoltre, senza l'Udc, mancano ammortizzatori che assorbano gli strappi, dal punto di vista politico, ma anche del linguaggio e della comunicazione.

Ben diversa era la situazione nel precedente governo, quando il premier Berlusconi guidava Forza Italia. Il partito principale di una coalizione frastagliata, di cui Fi era colla e, al tempo stesso, cornice. La Casa comune di persone e posizioni difficilmente compatibili. Forza Italia teneva insieme il Nord leghista e il Sud di An e dell'Udc. Il Pdl è un'altra cosa. Molto diverso dalla Lega, per orientamenti e valori. Geografia. Così Berlusconi per la Lega è anzitutto il leader del Pdl, l'Altro Partito del centrodestra. Con cui è necessario convivere. Ma da cui occorre guardarsi e smarcarsi. A questo serve la costante pressione esercitata da Bossi nei confronti del Cavaliere. Trattato come un amico sempre più inaffidabile, perché ossessionato dai magistrati (e dalle donne), stressato da una sindrome da assedio, preoccupato, in modo quasi isterico, dai "fatti propri".

Un alleato necessario, da richiamare di continuo al rispetto dei patti. Perché antepone le proprie emergenze personali a quelle geo-politiche, che interessano maggiormente la Lega. Nello stesso tempo, Bossi, come nella migliore tradizione del passato, si abbandona sempre più spesso a invettive contro il Sud e i professori. Meglio: i professori del Sud. Un distillato dei "nemici della Lega". Ma, soprattutto, un modo di segnare i confini del suo territorio di caccia, contro i nemici e gli amici.
Peraltro, le due destre sono inevitabilmente attraversate da tensioni, che le scuotono anche dall'interno.

È, infatti, lecito chiedersi se An abbia scelto di sciogliersi definitivamente così, senza neppure segnare dei confini. Perdendo memoria e identità, senza rimpianti. Se il suo leader Gianfranco Fini abbia, a sua volta, accettato di interpretare un profilo politico talmente basso da risultare quasi invisibile. In cambio di una successione alla guida del Pdl ancora molto incerta. Può darsi, però, che i leader di An, a livello locale e centrale, cerchino, abbastanza presto, di far valere il loro "mestiere", il loro peso organizzativo. Per contare di più. Che lo stesso Fini cambi stile. Magari solo per orgoglio personale. Per non apparire il n. 3 della coalizione. Magari il n. 4, contando Tremonti. Si accenderebbe, allora, qualche tensione in più.

La nascita del Pdl, però, sta generando conflitti soprattutto nel Nord. Dove i governatori della Lombardia e del Veneto, Roberto Formigoni e Giancarlo Galan, si trovano ad affrontare una duplice sfida. 1) Con la Lega, che li considera concorrenti e occupanti "abusivi" di regioni a cui vorrebbe imporre la propria bandiera e i propri uomini. 2) Con il loro stesso partito. Divenuto assai più centralista, romano e meridionale di Forza Italia.

Per questo Galan vagheggia Forza Veneto. Un soggetto politico regionalista. E sostiene l'ipotesi di una Euregio Alpeadria, che appare palesemente alternativa al Nord della Lega e al baricentro centromeridionale assunto dal Pdl. Mentre Formigoni tende a marcare le distanze dalle politiche del governo, in nome degli interessi della sua regione e del "modello lombardo". Da ciò i conflitti, anche violenti, fra i due governatori e i leader della Lega, ma anche del Pdl e del governo. A livello nazionale e locale. Ne è prova la discussione accesa, esplosa di recente fra Formigoni e Tremonti sulla ripartizione dei fondi per la spesa sanitaria.

Chi, nel centrosinistra, "investe" su queste divisioni e profetizza l'implosione del centrodestra, però, non deve farsi troppe illusioni. Troppo larga la maggioranza. Troppo stretta - e divisa - l'opposizione. E troppo deludenti e frustranti le esperienze dei precedenti governi di centrosinistra. Gli italiani, anche se ve ne fosse l'occasione, si troverebbero, comunque, di fronte a una alternativa strana. A un bipolarismo singolare, che oppone due destre a tre-quattro sinistre. Sarebbe un bel dilemma.

(21 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Maledetti professori
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2008, 11:18:44 pm
POLITICA BUSSOLE

Maledetti professori

di ILVO DIAMANTI


IL "PROFESSORE", ormai, primeggia solo fra le professioni in declino. Che insegni alle medie o alle superiori ma anche all'università: non importa. La sua reputazione non è più quella di un tempo. Anzitutto nel suo ambiente. Nella scuola, nella stessa classe in cui insegna. Gli studenti guardano i professori senza deferenza particolare. E senza timore. In fondo, hanno stipendi da operai specializzati (ma forse nemmeno) e un'immagine sociale senza luce. Non possono essere presi a "modello" dai giovani, nel progettare la carriera futura. Molti genitori hanno redditi e posizione professionale superiori. E poi, la cultura e la conoscenza, oggi, non vanno di moda. E' almeno da vent'anni che tira un'aria sfavorevole per le professioni intellettuali. Guardate con sospetto e sufficienza.
Siamo nell'era del "mito imprenditore" . Dell'uomo di successo che si è fatto da sé. Piccolo ma bello. E ricco. Il lavoratore autonomo, l'artigiano e il commerciante. L'immobiliarista. E' "l'Italia che produce". Ha conquistato il benessere, anzi: qualcosa di più. Studiando poco. O meglio: senza bisogno di studiare troppo. In qualche caso, sfruttando conoscenze e competenze che la scuola non dà. Si pensi a quanti, giovanissimi, prima ancora di concludere gli studi, hanno intrapreso una carriera di successo nel campo della comunicazione e delle nuove tecnologie.

Competenze apprese "fuori" da scuola. Così i professori sono scivolati lungo la scala della mobilità sociale. Ai margini del mercato del lavoro. Figure laterali di un sistema - la suola pubblica - divenuto, a sua volta, laterale. Poco rispettati dagli studenti, ma anche dai genitori. I quali li criticano perché non sanno trasmettere certezze e autorità; perché non premiano il merito. Presumendo che i loro figli siano sempre meritevoli.
Si pensi all'invettiva contro i "professori meridionali" lanciata da Bossi nei giorni scorsi. Con gli occhi rivolti - anche se non unicamente - alla commissione che ha bocciato "suo figlio" agli esami di maturità. Naturalmente in base a un pregiudizio anti-padano. I più critici e insofferenti nei confronti dei professori sono, peraltro, i genitori che di professione fanno i professori. Pronti a criticare i metodi e la competenza dei loro colleghi, quando si permettono di giudicare negativamente i propri figli. Allora non ci vedono più. Perché loro la scuola e la materia la conoscono. Altro che i professori dei loro figli. Che studino di più, che si preparino meglio. (I professori, naturalmente, non i loro figli).

Va detto che i professori hanno contribuito ad alimentare questo clima. Attraverso i loro sindacati, che hanno ostacolato provvedimenti e riforme volti a promuovere percorsi di verifica e valutazione. A premiare i più presenti, i più attivi, i più aggiornati, i più qualificati. Così è sopravvissuto questo sistema, che penalizza - e scoraggia - i docenti preparati, motivati, capaci, appassionati. Peraltro, molti, moltissimi. La maggioranza. In tanti hanno preferito, piuttosto, investire in altre attività professionali, per integrare il reddito. O per ottenere le soddisfazioni che l'insegnamento, ridotto a routine, non è più in grado di offrire. Sono (siamo) diventati una categoria triste.

Negli ultimi tempi, tuttavia, il declino dei professori è divenuto più rapido. Non solo per inerzia, ma per "progetto" - dichiarato, senza infingimenti e senza giri di parole. Basta valutare le risorse destinate alla scuola e ai docenti dalle finanziarie. Basta ascoltare gli echi dei programmi di governo. Che prevedono riduzioni consistenti (di personale, ma anche di reddito): alle medie, alle superiori, all'università. Meno insegnanti, quindi. Mentre i fondi pubblici destinati alla ricerca e all'insegnamento calano di continuo. Dovrebbe subentrare il privato. Che, però, in generale se ne guarda bene. Ad eccezione delle Fondazioni bancarie. Che tanto private non sono. D'altra parte, chissenefrega. I professori, come tutti gli statali, sono una banda di fannulloni. O almeno: una categoria da tenere sotto controllo, perché spesso disamorati e impreparati. Maledetti professori. Soprattutto del Sud. Soprattutto della scuola pubblica. E - si sa - gran parte dei professori sono statali e meridionali.

Maledetti professori. Responsabili di questa generazione senza qualità e senza cultura. Senza valori. Senza regole. Senza disciplina. Mentre i genitori, le famiglie, i predicatori, i media, gli imprenditori. Loro sì che il buon esempio lo danno quotidianamente. Partecipi e protagonisti di questa società (in)civile. Ordinata, integrata, ispirata da buoni principi e tolleranza reciproca. Per non parlare del ceto politico. Pronto a supplire alle inadempienze e ai limiti della scuola. Guardate la nuova ministra: appena arrivata, ha già deciso di attribuire un ruolo determinante al voto in condotta. Con successo di pubblico e di critica.

Maledetti professori. Pretendono di insegnare in una società dove nessuno - o quasi - ritiene di aver qualcosa da imparare. Pretendono di educare in una società dove ogni categoria, ogni gruppo, ogni cellula, ogni molecola ritiene di avere il monopolio dei diritti e dei valori. Pretendono di trasmettere cultura in una società dove più della cultura conta il culturismo. Più delle conoscenze: i muscoli. Più dell'informazione critica: le veline. Una società in cui conti - anzi: esisti - solo se vai in tivù. Dove puoi dire la tua, diventare "opinionista" anche (soprattutto?) se non sai nulla. Se sei una "pupa ignorante", un tronista o un "amico" palestrato, che legge solo i titoli della stampa gossip. Una società dove nessuno ritiene di aver qualcosa da imparare. E non sopporta chi pretende - per professione - di aver qualcosa da insegnare agli altri. Dunque, una società senza "studenti". Perché dovrebbe aver bisogno di docenti?

Maledetti professori. Non servono più a nulla. Meglio abolirli per legge. E mandarli, finalmente, a lavorare.

(25 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La generazione perdente che va a destra
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 11:36:24 am
POLITICA MAPPE

La generazione perdente che va a destra

di ILVO DIAMANTI


RIFONDAZIONE Comunista è implosa. Prima alle elezioni politiche del 13 aprile, dove è rimasta esclusa dal Parlamento. Poi, al congresso, dove si è divisa in due pezzi quasi uguali, a sostegno dei candidati alla segreteria: Vendola e Ferrero, il vincitore.

Anche se, in effetti, il partito è assai più frammentato, perché, fin dalle origini, raccoglie molteplici componenti dell'opposizione radicale di sinistra. Una galassia ai margini del sistema politico. "Minoranza", per definizione e per vocazione. Ma, anche per questo, uno dei riferimenti politici più significativi per i giovani. I quali hanno di fronte un futuro aperto.

Amano le utopie. Pensano che sia possibile afferrare i sogni. Raggiungere "l'isola che non c'è". E cercano, inoltre, di definire la propria identità tracciando confini netti fra se stessi e gli altri. Contro padri e padroni. Per questo molti giovani hanno guardato alle posizioni più radicali della sinistra (ma anche della destra) con maggiore passione rispetto alle altre generazioni.

Oggi, però, ciò non avviene più. L'implosione (l'eclissi?) di Rifondazione Comunista è un segno, ma non il solo, del distacco dei giovani dalla sinistra. Non solo radicale, anche moderata. Si tratta della fine di un ciclo breve, che durava dall'inizio di questo decennio (millennio). Da quando, cioè, i giovani erano tornati a votare a sinistra, dopo circa trent'anni. Passata la vampata del Sessantotto, infatti, si erano raffreddate in fretta le speranze di cambiamento che avevano mobilitato ampi settori della società e, in particolare, i giovani. Frustrate dalle utopie del terrore, negli anni Settanta. Dal crollo dei muri e delle ideologie, negli anni Ottanta. Infine, in Italia, dalla fine della prima Repubblica e dei soggetti politici che l'avevano accompagnata.

Dopo la stagione dei movimenti era emersa una generazione "senza padri né maestri" (per citare il titolo di un saggio di Luca Ricolfi e Loredana Sciolla), che si era rifugiata nella "vita quotidiana" (come evoca un altro testo, scritto da Franco Garelli). La domanda di cambiamento era defluita altrove, soprattutto nella partecipazione volontaria. Un fenomeno diffuso, cresciuto a contatto con i problemi di ogni giorno.

Così i giovani erano divenuti "invisibili". Confusi nell'ambiente sociale e locale. Pur diventando appariscenti sui media. Consumatori ed essi stessi consumo. Bersagli e attori di ogni campagna pubblicitaria. Protagonisti di serial e reality televisivi. Politicamente, si erano spostati al centro. Oppure "fuori" dalla vita politica. A sinistra, invece, erano rimasti i loro genitori. Quelli della mia generazione, che nel Sessantotto avevano intorno a 18 anni. Nati dopo la fine della guerra, nei primi anni Cinquanta.

A metà strada, fra noi e i nostri figli, una "generazione perduta", come l'ha definita Antonio Scurati in un suggestivo (auto) ritratto pubblicato sulla Stampa. Nata alla fine degli anni Sessanta. Mentre la "rivoluzione" bruciava e si consumava altrettanto rapidamente. Nel 1989, vent'anni dopo, scrive Scurati, nella notte in cui cadde il muro "finì un'epoca della politica, ma per la mia generazione non n'è mai iniziata un'altra. Non a sinistra, quanto meno".

Infatti, fino alla conclusione del secolo, la classe d'età orientata a sinistra più delle altre è progressivamente invecchiata, da un decennio all'altro. I ventenni del Sessantotto. I trentenni negli anni Settanta. I quarantenni negli anni Ottanta. I cinquantenni negli anni Novanta. E via di seguito. Una generazione di nostalgici, che votano allo stesso modo, un po' per speranza, un po' per abitudine.

Solo dopo il 2000 i giovani sono tornati a sinistra. Soprattutto i "più" giovani. I miei figli. I fratelli minori di Scurati (se ne ha). In particolare gli studenti. Per diverse ragioni. La comune condizione di incertezza li ha resi inquieti. Una generazione senza futuro. La prima, nel dopoguerra, ad essere convinta (con buone ragioni) che non riuscirà, nel corso della vita, a migliorare la posizione sociale dei propri genitori. Poi, l'attacco alle torri gemelle e la guerra in Iraq. La globalizzazione economica e politica. Hanno alimentato l'insicurezza e il senso di precarietà, soprattutto fra i giovani. Che hanno "una vita davanti". Ma quale?

Li hanno spinti a mobilitarsi e a manifestare (soprattutto gli studenti). Anche per sentirsi meno soli. I (più) giovani, infine, hanno maturato una competenza comunicativa e tecnologica diffusa. Capaci di stare in contatto fra loro, senza limiti di spazio e tempo. Di sperimentare linguaggi nuovi, inediti e largamente incomprensibili agli adulti. Sono divenuti una tribù. Mischiati agli adulti, eppure separati da essi.

I (più) giovani. Quelli nati negli anni Ottanta, al tempo della caduta del muro. Quelli che non avevano conosciuto il Sessantotto, il terrorismo, la Dc e il comunismo. Quelli per cui CCCP è un gruppo di rock progressivo e Berlino una città di tendenza. Si sono spostati a sinistra. Perché dall'altra parte c'era Berlusconi. Il padrone dei media. Icona del potere nel mondo della comunicazione. A cui opporsi. Perché dall'altra parte c'erano gli amici di Bush e della guerra, ma anche i sostenitori del lavoro flessibile. Così, alle elezioni del 2001 e in quelle del 2006 i giovani hanno votato massicciamente a sinistra. Soprattutto, ripetiamo, gli studenti e i giovani con una carriera di studi più lunga.

Oggi questa stagione sembra conclusa. Era emerso anche nei sondaggi pre-elettorali, ma in misura minore a quanto si è poi verificato. Infatti, alle elezioni del 13 aprile 2008 (Sondaggio Demos-LaPolis, maggio 2008, campione nazionale di 3300 casi) appena il 31% dei giovani (fra 18 e 29 anni) ha votato per (la coalizione a sostegno di) Veltroni. Il 49%, invece, per Berlusconi.

Una distanza larghissima, superiore a quella registrata fra gli elettori in generale. Alle "estreme" dello schieramento politico, invece, la distanza fra le parti si è annullata; anzi, quasi invertita. Il 3,2% dei giovani ha votato per la Sinistra Arcobaleno, poco più (oltre il 4%) per la Destra di Storace. Una tendenza ribadita, peraltro, dal voto degli studenti. Anche fra loro la coalizione a sostegno di Berlusconi ha superato il centrosinistra di Veltroni, seppure con uno scarto più ridotto: 42% a 37%. Mentre la Destra radicale è, a sua volta, più avanti della Sinistra Arcobaleno: 6% a 4%. Vale la pena di aggiungere che Di Pietro, fra i giovani, dimostra scarso appeal. Anzi: il suo peso elettorale è più ridotto che nel resto degli elettori.

Quasi una svolta epocale, insomma. Naturalmente, la spiegazione più facile è prendersela con loro. I giovani. Sospesi fra precarietà e un mondo di veline e amici, sarebbero stati risucchiati in un nuovo riflusso "conservatore". Vent'anni addietro, a un osservazione del genere, Altan faceva replicare a Cipputi: "Mi devo essere perso il flusso progressista...". Per capire il deflusso dei giovani verso la destra e il non-voto, però, è più semplice soffermarsi sullo spettacolo offerto dalla sinistra, riformista e radicale. Il Pd, attraversato da divisioni personali e di corrente. Intorno ai soliti nomi: Veltroni, D'Alema, Rutelli. Marini.

Rifondazione: segmentata da fazioni e frazioni. Alcune che "pesano" il 3-4% in un partito stimato intorno al 2%. Pochi accenni, risaputi, evidenti a tutti. Sufficienti a comprendere perché la Sinistra non possa aiutare i 30-40enni della "generazione perduta" a ritrovarsi. Tanto meno i giovani - e gli studenti - a identificarsi. Si sentono una "generazione perdente". Perché dovrebbero affidare il proprio destino, la propria rappresentanza a una classe politica "perdente" di professione?

I dati citati in questo articolo sono disponibili
su www.repubblica.it
e www.demos.it

(4 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La scoperta dell'Ossezia
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2008, 10:53:30 am
Ilvo Diamanti

Rubriche » Bussole

La scoperta dell'Ossezia


Non si è capito molto, in Italia, della drammatica crisi che ha scosso la Georgia in questi giorni. I nostri occhi, d'altronde, sono puntati quasi esclusivamente sul cortile di casa. E ci riesce difficile capire anche quel che avviene intorno a noi. Perché siamo un Paese complicato, con una scena politica labirintica e fantasmatica. Ma anche perché non abbiamo un'idea chiara dei confini. Esterni e, ancor prima, interni.

L'abbiamo scritto tempo fa, in una precedente "bussola": dovremmo studiare e insegnare meglio la geografia, nelle nostre scuole. Serve: almeno quanto la "buona condotta". Invece, io continuo a incontrare colleghi (professori universitari) che mi decantano la qualità della vita e dell'ambiente in Umbria. Perché sono convinti che Urbino, dove io insegno e - per una buona parte dell'anno - vivo, sia in Umbria. E quando li smentisco, con un po' di tatto, succede che alcuni si correggano. E spostino Urbino in Toscana. Poco male. Tanto la geografia, in Italia, conta poco. E si studia poco. Con la scusa che cambia di continuo. Fra province e regioni che sorgono ogni anno. Con la scusa che tanto c'è la globalizzazione. I confini non contano. Con internet, i cellulari, le distanze spazio-temporali si annullano. Se vuoi raggiungere una meta, basta usare un navigatore satellitare. Ti guidano dovunque. Anche se ti costringono a itinerari strani e, talora, ti conducono in un luogo diverso dal previsto. Ma tanto, in un mondo senza geografia non c'è alternativa. Devi essere guidato.

Pochi, d'altronde, conoscono il linguaggio e la scrittura del territorio. Per cui è difficile comprendere cosa e perché stia capitando in Georgia. Perché la Russia vi sia intervenuta in modo tanto violento. Lo sconcerto, inoltre, si trasforma in vertigine di fronte alla scoperta dell'Ossezia e dell'Abkhazia. Perché, ad eccezione dei lettori abituali di liMes, quasi nessuno fino ad oggi sospettava dell'esistenza di queste entità. Nel caso dell'Abkhazia, peraltro, è perfino sconveniente nominarne gli abitanti, in pubblico.

Tuttavia, la geografia non è mai stata così importante, proprio perché non è mai stata incerta, aperta, mobile come oggi. Senza più muri certi e invalicabili a tracciare divisioni. Nell'era della comunicazione senza confini: i confini e i contesti - locali e nazionali - sono divenuti di nuovo essenziali. Lotte sempre più dure si combattono nel nome di un nome. E di un "dove". Per conquistare un'identità territoriale. Un nome legato a un dove. Per potersi chiamare osseti oppure (ci si perdoni) abkhazi. Anche se dietro a queste rivendicazioni ci sono, spesso, altri interessi e altri poteri. Altre potenze. La Russia, in questo caso, intenzionata a ostacolare l'intesa della Georgia con l'Occidente. E con gli Usa. E a mantenere saldo il controllo su aree strategiche dal punto di vista dell'energia (petrolio, gas). La Russia, impegnata a ricostruire l'Impero, dopo il crollo del sistema sovietico.

Ma in Italia la geografia e la geopolitica sono assenti: nella scuola, nel senso comune e dalla cultura politica. Come dimostra il dibattito di questi giorni. Fra il comico e il grottesco. La sinistra tace. Afasica. Reticente e imbarazzata come su - troppi - altri argomenti. Berlusconi è impegnato a mettere d'accordo gli amici George W. e Vladimir. Per telefono, dalla sua residenza reale di Villa Certosa. Ricorrerà alla proverbiale capacità di tessere relazioni informali. La "diplomazia della barzelletta", come l'ha definita Edmondo Berselli. Ma dovrà, prima, convincere la Lega, che, per bocca di Calderoli, ha invitato il governo a schierarsi con la Georgia e contro l'aggressione della Russia. Però, anche l'Ossezia del sud denuncia l'aggressione della Georgia; da cui, insieme all'Abkhazia, rivendica l'autonomia. D'altronde, entrambe - Ossezia e Abkhazia - sono, di fatto, Repubbliche indipendenti (con il sostegno attivo e interessato della Russia).

Tuttavia, la Lega ha sempre avuto un atteggiamento eclettico sui conflitti che mirano a ridisegnare la geografia e i confini. Come nelle sanguinose guerre balcaniche dello scorso decennio. Quando si è schierata apertamente per Milo%u0161evi%u0107. Dalla parte della Serbia e contro il Kosovo. Forse per ostilità verso gli albanesi. O, più probabilmente, verso la Nato, l'Europa e gli Usa. Garanti dell'unità nazionale dell'Italia e dunque nemici della Padania. Ma erano altri tempi e la Lega era all'opposizione di tutti. Ai margini del sistema politico italiano. Mentre oggi sta al governo e si è convertita a un atteggiamento realista. Tuttavia resta il dubbio. Quando Bossi alza il dito medio contro l'inno di Mameli. E, quindi, contro l'unità nazionale. Quando rammenta che quel dito è sempre levato. Intende ribadire, marcare con forza che anche la nostra geografia è provvisoria. Che siamo un Paese provvisorio. Che l'Italia non esiste. O meglio: a Nord c'è la Padania, mentre l'Italia comincia sotto il Po. Sempre più a Sud, però. Perché anche in Emilia Romagna e nelle Marche si levano forti i richiami alla liberazione: da Roma e dagli stranieri che ci invadono. Espressi e amplificati dal crescente successo elettorale della Lega. La Padania, cioè, si espande. E l'Italia si riduce.

In Italia non c'è una comune idea della geopolitica internazionale né dell'interesse nazionale. Tanto meno in questa maggioranza di governo. Anche per questo il nostro peso sulla scena globale è così leggero. E mentre Berlusconi è intento a telefonare agli Amici, Sarkozy negozia e conclude un accordo fra Presidenti.

Il fatto è che l'Italia è confinata ai confini del mondo; e i suoi stessi confini interni sono mobili. Ipotetici e negoziabili. Come il numero delle province, che cresce di anno in anno. E' unita dalle sue divisioni. Divisa dai suoi miti unificanti (presto cancelleremo anche Garibaldi). La sua classe politica e intellettuale è, in gran parte, incapace di scrivere una storia comune. Anzi, ne contesta i pochi elementi condivisi. Perché dovrebbe credere e riconoscersi nella geografia? Per muoversi e orientarsi basta un navigatore satellitare.

(13 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - "Il Presidente" del Nord
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2008, 04:21:07 pm
POLITICA MAPPE

"Il Presidente" del Nord

di ILVO DIAMANTI



Umberto Bossi non parla mai a caso. Neppure quando esagera. Neppure quando poi si corregge. E capitano spesso entrambe le cose. Soprattutto a Ponte di Legno, dove, da decenni, trascorre le ferie estive. Usa il tradizionale "discorso di Ferragosto" per annunciare le campagne d'autunno. O più semplicemente, per riposizionare la Lega al centro del dibattito politico nazionale. Come ha fatto in passato, quando, proprio a Ponte di Legno, ha anticipato e quindi sostenuto la "battaglia per l'indipendenza padana". In altri anni, ha, invece, polemizzato con la Chiesa. Nemica della secessione. Ogni anno un'invenzione. Così, negli anni Novanta l'estate è divenuta una stagione "politica" leghista. Sfruttando il vuoto informativo, mentre le altre forze politiche andavano in ferie oppure si dedicavano alle feste di partito, la Lega si mobilitava. E dava materia interessante ai giornali e ai giornalisti. Che la seguivano in massa. Poi, per alcuni anni, dopo l'eclissi elettorale di fine millennio e, soprattutto, dopo la malattia di Bossi, anche la Lega ha rispettato il periodo feriale. Ponte di Legno è divenuto un luogo di riposo. E di convalescenza, per il leader e la Lega. Oggi, insieme a Bossi e alla Lega, anche Ponte di Legno è tornata ad essere una capitale politica estiva. Controcanto di Villa Certosa. Per questo la promessa di Bossi, di "restituire l'Ici ai Comuni", appare importante. Perché suggerisce le preoccupazioni e, al tempo stesso, le strategie future della Lega. Dal punto di vista esterno, ma anche interno. Né il chiarimento avuto con Tremonti cambia la sostanza del discorso.

1) Anzitutto, c'è una preoccupazione "sostanziale" e progettuale. L'abolizione dell'Ici è popolare, fra i cittadini, perché si tratta di una tassa in meno per oltre il 70% degli italiani, proprietari di casa. Tuttavia, l'Ici è un'imposta comunale, applicata e incassata dai comuni. La principale fonte di autofinanziamento per le casse sempre più esauste delle amministrazioni locali. Abolirla per programma, farne il manifesto elettorale, è, sicuramente, servito al Pdl. Ma per la Lega era e resta un non-senso. Un partito che si presenta come il portabandiera dell'autogoverno locale: come può farsi complice di un atto che sottrae agli enti locali il principale e più sostanzioso strumento di autofinanziamento? È una contraddizione in termini. Che Bossi oggi cerca di sciogliere. Così, a Ponte di Legno, ha chiarito che il federalismo fiscale non può riguardare solamente le Regioni, ma deve interessare anche i Comuni. Per i quali gli oneri di fabbricazione e l'Ici costituiscono la principale risorsa. D'altronde, la Lega è insediata al governo di centinaia di comuni di taglia piccolissima, piccola. Ma anche media e grande. Come Verona, Treviso, Varese. Alle elezioni di aprile 2008, inoltre, si è imposta come primo partito in oltre 800 comuni (su circa 4000, al di sopra del Po; Aosta e Bolzano escluse). E nei piccoli e medi comuni del Nord pedemontano (più che padano), dove la Lega è più forte, il peso delle case in proprietà è massimo.

2) C'è, poi, la preoccupazione di Bossi di smarcare se stesso e la Lega dal Pdl di Silvio Berlusconi. Inventore dell'abolizione dell'Ici fin dalla campagna elettorale del 2006, quando l'aveva estratta, come un coniglio dal cappello, nel secondo, decisivo "faccia a faccia" in tivù con Prodi. Bossi, dopo la rappacificazione del 1999, ha sempre sostenuto, in modo fedele, l'amico Silvio. A Ponte di Legno, però, ha ribadito che non si tratta di una fiducia illimitata. Fine a se stessa. Ma fondata su solide basi di interesse. E lascia intendere che altre occasioni per ribadire la propria autonomia non mancheranno, in futuro. Soprattutto oggi che l'amico Silvio è divenuto leader di un nuovo partito, in cui è cresciuto notevolmente il peso del Sud e delle componenti più stataliste e assistenzialiste (AN).

3) Sullo sfondo, si intravede l'ipotesi - in realtà molto ipotetica - di un'intesa con il Pd. Che, a sua volta, governa in molti comuni del Centro-Nord. Sensibile alla proposta di reintrodurre l'Ici, sul tema del federalismo fiscale si è già dichiarato disponibile al confronto e a negoziare proposte comuni. Tuttavia, per la Lega, l'apertura a sinistra in questo momento costituisce soprattutto - se non solo - un mezzo per distinguersi e per esercitare pressione nei confronti del Pdl. Semmai, la Lega oggi ha interesse a presentare se stessa come opposizione "nel" governo. L'unica possibile, viste le difficoltà in cui si dibatte l'opposizione "al" governo. Cioè, il Pd e la sinistra.

4) Non vanno, infine, trascurate le ragioni "interne" alla Lega. Una, già anticipata, riguarda la preoccupazione di rispondere ai propri amministratori locali, ai propri sindaci. Pressati dalle richieste crescenti dei cittadini, mentre risorse e (auto)finanziamenti calano. Ma c'è un'altra ragione, forse più importante. Riguarda l'identità. La Lega negli ultimi anni, negli ultimi mesi, si è caratterizzata sempre più come soggetto "securitario". Attraverso le campagne sugli (e, spesso, contro gli) immigrati e i rom. Non è un caso che il suo uomo di governo più popolare e rappresentativo, oggi, sia Roberto Maroni, ministro degli Interni. Che proprio nei giorni scorsi ha ribadito l'efficacia dei provvedimenti in materia di immigrazione e criminalità comune. Rivendicando l'importanza dell'uso dell'esercito. Peraltro, fra gli amministratori della Lega, oggi i più popolari sono, forse, Flavio Tosi, sindaco di Verona, e (l'antesignano) Giancarlo Gentilini, (pro)sindaco di Treviso. Idealtipi del borgomastro che promette "ordine e polizia". Interpreta la domanda di sicurezza come risposta alle paure. L'identità locale come difesa "dagli altri". Rivendicare la restituzione dell'Ici, il federalismo fiscale, levare il dito medio contro l'inno di Mameli (al di là delle precisazioni storico-filologiche regalate da Bossi a Ponte di Legno) significa rilanciare la "Lega per l'indipendenza padana", annebbiata dalla "Lega degli uomini spaventati". Dare evidenza alla Lega dei Comuni e (prossimamente) delle Regioni, eclissata dalla Lega delle ronde.

Non bisogna, ovviamente, attendersi lacerazioni o strappi - e neppure fratture significative - su questi argomenti, nei prossimi mesi. Tuttavia, il discorso di Bossi a Ponte di Legno serve a rammentare tre cose, utili a immaginare il futuro politico italiano: a) Bossi è tornato e comanda la Lega; b) la Lega è alleato fedele di Berlusconi, ma oggi pesa molto più che nel 1994 e nel 2001: lo farà pesare; c) in questo governo e in questa maggioranza il fattore geopolitico è destinato a contare sempre più. Soprattutto in vista dell'annunciata, definitiva confluenza di FI e An nel Pdl. La Lega è (e vuole interpretare) il Nord, mentre il Pdl gravita sul Centro-Sud. La Lega abita nel Lombardo-Veneto, mentre il baricentro del Pdl è diviso fra Roma e la Sicilia. Inutile attendersi il Big Bang, in futuro. Però, forse, un Little Bang...

(17 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Italia, condominio degli estranei
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2008, 06:25:30 pm
POLITICA MAPPE

Italia, condominio degli estranei

DI ILVO DIAMANTI


NON è facile percepire quanto sia cambiato il mondo intorno a noi, in poco tempo. Non il Mondo. Ma il "piccolo" mondo che ci circonda. Il territorio. Il nostro paese, la nostra città, il nostro quartiere, le case e le strade vicino a casa nostra. E' avvenuto tutto in fretta, negli ultimi anni, anzi, negli ultimi decenni. I nostri occhi si sono abituati a vedere scomparire gli spazi, l'orizzonte. Si sono abituati a non vedere. Per cui "non" vediamo più, senza rendercene conto.

D'altronde, la casa è una vocazione nazionale. L'Italia: Paese di piccoli paesi, un Paese di compaesani (come lo ha definito, con una formula felice, il sociologo Paolo Segatti). Ha sempre inseguito il mito della "casa". Luogo e, al tempo stesso, simbolo di una società centrata sulla famiglia. Dove le case si trasmettono per via generazionale, dai genitori ai figli. Una società, per questo, "stabile", quasi immobile, anzi: immobiliare (abbiamo detto, in altre occasioni). Per cui la dilatazione edilizia non ci ha spaventati. Ci è sembrata naturale. Una casa per ogni famiglia. E per ogni figlio, se possibile. Non ci siamo accorti, anche per questo, del cambiamento intorno a noi. E, comunque, ci siamo abituati. L'abbiamo percepito come un costo necessario.

D'altronde, tutto ha un prezzo e non si può pretendere di conquistare il benessere, se non la ricchezza, senza rinunciare a qualcosa. Un pezzo di paesaggio, un frammento di ambiente, un metro di territorio, un po' d'aria, un angolo di orizzonte. E, via via, una cerchia di relazioni personali e sociali, una scheggia di vita quotidiana. Fino a ritrovarsi racchiusi in una nicchia, da soli in mezzo agli altri. Non vorremmo replicare la ballata del ragazzo della via Gluck. Lamentare che "là dove c'era l'erba ora c'è... una città". (Anche se la nostalgia è un vizio che conviene, a volte, coltivare).

Ci interessa, tuttavia, segnalare che il processo immobiliare, negli ultimi due decenni e soprattutto negli ultimi anni, ha assunto una velocità cosmica e un'estensione devastante, quanto gli effetti che ha prodotto. In Italia più che altrove. Secondo le valutazioni di Maria Cristina Treu (Presidente del CeDaT - Centro di Documentazione dell'Architettura e del Territorio del Politecnico di Milano), negli anni Novanta (dati Eurostat) le costruzioni, in Italia, hanno sottratto all'agricoltura circa 2.800.000 ettari di suolo. Ogni anno si consumano 100.000 ettari di campagna (il doppio della superficie del Parco Nazionale dell'Abruzzo). D'altra parte "l'Italia è anche il primo paese d'Europa per disponibilità di abitazioni; ci sono circa 26 milioni di abitazioni (di cui il 20% non occupate), corrispondenti a un valore medio di 2 vani a persona".

Ragionando sui dati Eurostat di Germania e Francia (come ha osservato l'economista Giancarlo Corò), emerge che negli anni Novanta l'Italia ha urbanizzato un'area più che doppia di suolo rispetto alla Germania (1,2 milioni di ettari) e addirittura 4 volte quello della Francia (0,7 milioni di ettari). I riferimenti statistici più recenti (Cresme/Saie 2008) sottolineano come questa tendenza, negli ultimi anni, abbia conosciuto una ulteriore, violenta accelerazione. Dal 2003 ad oggi, infatti, sono state costruite circa 1.600.000 abitazioni (oltre il 10% delle quali abusive). Per contro, è noto che, da vent'anni, la popolazione in Italia non solo non è cresciuta ma è, al contrario, calata sensibilmente. E solo negli ultimi anni ha dato segni di ripresa, grazie al contributo degli immigrati. Il nostro Paese si è, dunque, urbanizzato in modo ampio, rapido, violento.

Ma per ragioni che solo in parte - limitata, peraltro - si possono ricondurre alla "domanda sociale". All'evoluzione demografica, ai cambiamenti negli stili e nell'organizzazione della vita delle persone. Semmai è vero il contrario: gli stili e l'organizzazione della vita delle persone hanno subito mutamenti significativi e profondi in seguito alla rivoluzione immobiliare del nostro territorio. Anche se si tende a dimenticarlo, visto che l'attenzione si è concentrata altrove: sulle conseguenze economiche e finanziarie del fenomeno a livello globale. Visto che la casa e l'edilizia, dopo essere state, per anni, il principale motore della crescita, da qualche tempo si sono trasformate nel principale motore della crisi. In Italia, peraltro, i comuni hanno finanziato la loro "autonomia" e fronteggiato il calo dei trasferimenti dello Stato soprattutto con gli oneri di fabbricazione e la fiscalità legata alla casa (l'Ici).

Le aree destinate a edilizia privata, le zone artigianali, commerciali, industriali si sono moltiplicate. Senza limiti. Senza troppi vincoli. Ci hanno guadagnato in molti. Immobiliaristi e banche. Gli enti locali. Ma anche molti privati (impresari, ma anche proprietari di terreni). Così, abbiamo consumato in fretta il territorio, l'ambiente e, negli ultimi tempi, lo sviluppo e i risparmi. Ma anche (soprattutto, vorremmo dire) la società. Che esiste dove, quando e se ci sono relazioni, associazioni, luoghi e occasioni di incontro. Proprio quel che si è perduto in questi anni, nelle stesse zone dove esistevano e resistevano legami di comunità radicati e solidi. Come nel Centronord e soprattutto nella pedemontana del Nord e nel Nordest: aree policentriche, disseminate di piccoli paesi. Provate a girarle facendo attenzione ai cartelli che fiancheggiano le strade. Molti dei quali annunciano che lì vicino sta sorgendo, oppure è sorto, un "villaggio Margherita" oppure Quadrifoglio, un "quartiere Europa" o Miramonti.

Tanti insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno: prati un po' esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista ciclabile. Al centro una piazza - veramente finta - attrezzata con panchine e magari un prato. Perlopiù ridotta a parcheggio, dove i bambini non giocano e gli adulti non si fermano a parlare. Accanto: altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla rendita privata. Località artificiali, dove confluiscono migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di estranei. Di stranieri, immigrati: anche se sono veneti, lombardi, marchigiani. "Italiani veri": da generazioni e generazioni. Ma in realtà: apolidi. Abitanti del "villaggio Margherita" e del "condominio Europa".
È così che siamo diventati un paese di stranieri. Individui poveri di relazioni, sempre più soli e impauriti. Che passano la gran parte del loro tempo in casa. Con scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante.

Principale fonte di conoscenza del mondo: la televisione. Comunicano con gli altri attraverso i cellulari e - i più competenti - le e-mail. Abituati a relazioni senza empatia, frequentano i centri commerciali, non solo per "consumare" ma per uscire di casa, per incontrare gente. Si tuffano nelle notti bianche, negli eventi di massa. Dove gli altri sono "folla" e restano "altri". Estranei. Questo ci pare il problema principale, oggi. La scomparsa della società, sostituita da un'opinione pubblica pallida. Artificiale. Atomizzata. Non "Opinione", ma "opinioni", raccolte dai sondaggi, rappresentate "dai" e "sui" media. Più che "opinione pubblica": pubblico. Spettatori. Persone senza città. Non-cittadini.

(24 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gran Bazar Mussolini
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2008, 10:52:06 pm
Ilvo Diamanti


Rubriche » Bussole

Gran Bazar Mussolini

 
Domenica scorsa, tardo pomeriggio, sono passato per Rimini con la famiglia. Il tempo di una vasca lungo le vie parallele al lungomare, in attesa di recarci a cena da amici. Ci siamo, così, tuffati in mezzo ai turisti che, di ritorno dalla spiaggia, sciamavano, in massa, costeggiando un'infinita teoria di botteghe, bar, ristoranti, pizzerie, minimarket, fast-food, gelaterie, pasticcerie, piadinerie. Come in ogni città turistica che si rispetti.
E Rimini non è "una", ma "la" città turistica del lungomare di Romagna. Una città speciale, capace di non perdere la propria identità.

Perché Rimini ha un centro storico molto bello e ben tenuto. Una società (e una classe dirigente) locale ancora solida e resistente. Una storia e una tradizione artistica e culturale di tutto rispetto. Come rammentano le vie del lungomare che echeggiano i film di Federico Fellini. Rimini è una città "memorabile", in senso letterale: degna di memoria. Oltre l'amarcord: anche per la spiaggia, il lungomare e le vie dedicate allo struscio dei turisti.
Il vecchio e il nuovo, insieme.

Questa breve visita occasionale mi ha, tuttavia, riservato una scoperta inattesa. L'immagine del duce, Benito Mussolini, disseminata lungo il passeggio commerciale. Esposta in numerosi negozi (davvero tanti). Mussolini: in vendita, come un prodotto di consumo popolare. Tra una piadina e la coca-cola, ecco il busto del duce, in diversi formati, ma soprattutto la faccia del duce: su magliette, camicie, poster, bandierine, adesivi, quadretti già incorniciati, bicchieri e sottobicchieri, piatti, penne, sulle etichette di bottiglie di vino, dal contenuto improbabile.

Ma l'iconografia del Ventennio non si riduce alla sola immagine del duce - proposto perlopiù in primo piano, di profilo, la mascella volitiva e l'elmo bellicoso. Su t-shirt, poster, stoviglie e bottiglie incontriamo massime del duce e slogan del regime. Gli stessi che resistono - talora sbiaditi dal tempo, talora rinfrescati - ancora in alcuni edifici del tempo. Tipo: "è l'aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende"; oppure il noto "molti nemici, molto onore" ... Inoltre, molte immagini del führer Adolf Hitler. Spesso accostato al Duce. Lungo il passeggio, in bella evidenza, un grande mobile- cantina, carico di decine di bottiglie allineate. Il sangiovese di Benito alternato al nero di Adolf. Tutto ciò esposto alla luce del sole (domenica sera era ancora forte e caldo). Senza pudore e senza problemi. Perché, evidentemente, un problema di pudore non esiste, in questo caso. Prodotti come gli altri.

Se dedico una Bussola a questo argomento, tuttavia, non è per manifestare indignazione. Anche se lo spettacolo mi ha dato fastidio. (Ma se infastidisce solo me, che problema c'è?). Tanto meno per sollecitare provvedimenti restrittivi e proibizionisti. Probabilmente non servono, sicuramente non mi piacciono. Neppure per sollevare polemiche sul revisionismo dilagante, sul rischio di un "nuovo fascismo" o sul silenzio della memoria democratica. Questioni troppo impegnative per inseguirne le tracce a partire da cavatappi, magliette, bottiglie e sottobicchieri. (E poi non scrivo mica su Famiglia Cristiana...).

E' probabile, peraltro, che si tratti di un fenomeno più esteso. A Rimini (città di centrosinistra) appare più evidente perché luogo ad alta intensità turistica. Non lontano dalla terra del duce. I riminesi, che evitano le vie più affollate dai turisti, forse, non ci hanno fatto caso.

Comunque, nel passato, in alcuni mercati si incontravano (e ho incontrato) stand specializzati, che esponevano bottiglie fasciste, affiancate ad altre soviet-comuniste. Mussolini e Stalin vicini, in nome del vino. Poi, Stalin è scomparso. Mussolini, invece, resiste. E oggi fa concorrenza a Che Guevara (da tempo icona consumista, consumata negli accendini usa e getta e sulle copertine dei diari scolastici).

Nessuno scandalo. Anzi. Proprio questo mi ha colpito maggiormente: la "normalità" (neppure la normalizzazione) del fenomeno, ormai sospeso fra ideologia popolare e senso comune, fra politica e costume. La "banalizzazione del fascismo", commercializzato come un prodotto qualsiasi. Un consumo nazionalpopolare (nazipop?). L'immagine di Benito impressa su una t-shirt - accanto a quella di James Dean, George Clooney, Ronaldinho e Homer Simpson. Un gadget. Fra una piadina, una crescia, una birra e una coca-cola. Una porchetta e un sangiovese. Nell'aria echeggia la voce di De André ... "E un errore ho commesso - dice - un errore di saggezza abortire il figlio del bagnino e poi guardarlo con dolcezza. Ma voi che siete a Rimini tra i gelati e le bandiere non fate più scommesse sulla figlia del droghiere".
Coro: "Ri-mi-ni".

(26 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Perché non avremo mai un Obama o un McCain
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2008, 07:48:37 pm
POLITICA MAPPE

Perché non avremo mai un Obama o un McCain

di ILVO DIAMANTI


UNA PERSONALIZZAZIONE impersonale e irresponsabile caratterizza la politica italiana. Una democrazia mediatica, affollata di volti e nomi noti e visibili. Che, tuttavia, ha ridotto e quasi abolito la possibilità, per gli elettori, di esprimere scelte e preferenze "personali". Visto che ormai la costruzione delle rappresentanze politiche e parlamentari è un fatto praticamente esclusivo dei partiti, ridotti a cerchie di gruppi dirigenti ristrette e centralizzate. Eppure, quasi vent'anni fa, la storia era cominciata diversamente. La crisi del sistema politico era stata sancita, è vero, dal referendum del 1991, che riduceva le preferenze elettorali a una sola.

Ma si trattava, allora, di ridimensionare un sistema partitocratico, nel quale le preferenze costituivano uno strumento di controllo della società e, al tempo stesso, un elemento di scambio fra gruppi di potere. In seguito, siamo passati a sistemi elettorali che personalizzano il rapporto fra elettori ed eletti. Anzitutto a livello locale, con l'elezione diretta dei sindaci, dei presidenti di Provincia e, quindi, di Regione. Un rapido processo di presidenzializzazione diffusa, che il sistema elettorale della Camera e del Senato ha assecondato attraverso il maggioritario di collegio, che rende più immediato e trasparente il rapporto tra i parlamentari, i cittadini e il territorio.

Quel modello, ne siamo consapevoli, non ha ridotto la frammentazione dei partiti, tanto meno il distacco fra sistema politico e società. Ha, tuttavia, segnato una frattura, almeno a livello simbolico. Partiti contro presidenti. Riassunto dell'opposizione fra vecchio e nuovo, come ha osservato Mauro Calise.

D'altronde, i partiti si sono, anch'essi, personalizzati tutti. Dal 1994 ad oggi. Dall'archetipo insuperato, Silvio Berlusconi, fino a Walter Veltroni. Da Forza Italia all'Ulivo. Dal Partito democratico al Popolo della libertà. Passando per le diverse liste. Per limitarci alle principali: Lista Pannella e Bonino, la Lista di Pietro. Ma anche Alleanza nazionale, prima di confluire nel Pdl, nonostante disponesse di identità e organizzazione, era un soggetto identificato con il suo leader, Gianfranco Fini. E nell'Udc, ormai, la C evoca l'iniziale di Casini.

La personalizzazione è, ovviamente, enfatizzata dall'uso dei media. La televisione, in particolare, ha dato ai partiti un volto, un'immagine familiare. Anche in questa fase. I ministri più popolari appaiono al pubblico personaggi caratterizzati, che recitano in fiction di successo. Due sopra tutti. Brunetta, il vendicatore dei cittadini contro i servi fannulloni dello Stato (gli statali, appunto).

Mariastella Gelmini, protettrice dei genitori e degli alunni dagli insegnanti incapaci; restauratrice delle virtù perdute: la buona condotta, i buoni costumi (i grembiulini), i buoni maestri (unici). Mentre, all'opposizione, incontra un successo larghissimo Antonio Di Pietro, che interpreta il garante della legalità contro ogni abuso della politica; e anzitutto contro Berlusconi (che ne è il compendio). Ma anche Beppe Grillo. Attore protagonista della protesta di piazza.

Passando dal versante della partecipazione a quello della comunicazione, occorre rammentare che la costruzione del Partito democratico e, prima, dell'Ulivo, è avvenuta attraverso le primarie. Un rito di massa per celebrare la scelta del leader. Prodi, Veltroni.

Tuttavia, da qualche tempo, la personalizzazione della politica avviene insieme alla spersonalizzazione della scelta di voto. Imposta, per quel che riguarda le elezioni politiche, dalla legge elettorale in vigore dall'autunno 2005. Un proporzionale con premio di coalizione e liste bloccate. Cioè: senza preferenze.

La legge, inventata in fretta dal centrodestra al fine di contrastare il successo annunciato del centrosinistra (particolarmente avvantaggiato dal maggioritario), ha, nei fatti, rafforzato le leadership centrali di "tutti" i partiti. Consentendo loro di controllare e condizionare le candidature e, quindi, gli eletti. Mentre ha spezzato il legame dei candidati con gli elettori. Tanto che i candidati sono quasi spariti dal territorio, nel corso della campagna elettorale, limitandosi, perlopiù, ad apparire accanto ai leader nazionali, durante le manifestazioni più importanti.

Il problema avrebbe dovuto e potuto essere ridimensionato attraverso il ricorso alle primarie. Che, tuttavia, è divenuto molto intermittente. Quasi assente. Anche il Partito democratico ha usato le primarie con cautela. Evitando, comunque, di renderle troppo aperte e competitive. A livello nazionale, d'altronde, sono servite all'investitura di leader pre-destinati.

Mentre l'elezione dell'assemblea costituente e degli organismi rappresentativi a livello territoriale è stata vincolata dall'esigenza di garantire l'equilibrio tra componenti oltre al controllo (e al mantenimento) dei gruppi dirigenti. Anche nella scelta dei candidati alle amministrative (sindaci o presidenti), le primarie vengono guardate con diffidenza e trattate con prudenza. Impossibile che emergano outsider. Un Obama o un McCain de noantri. Inutile attenderli.

La questione si ripropone, oggi, in relazione al sistema elettorale che si sta progettando in vista delle prossime elezioni europee. Prevede, com'è noto, una soglia di sbarramento (3-4 per cento), per ridurre la frammentazione. Inoltre, un numero più ampio di circoscrizioni. Infine: l'abolizione delle preferenze. Su cui non c'è accordo. Ma che, indubbiamente, non dispiace - anzi, piace - ai partiti, in generale. Anche ai maggiori: Pdl e lo stesso Pd. In quanto permette loro di regolare e distribuire, con precisione algebrica e senza rischi, i posti tra le componenti (sotto)partitiche. An e Fi, da un lato. Ds e Margherita, dall'altro. Che ancora resistono e agiscono. Accanto ad altre correnti.

Vorremmo ribadire che non siamo tifosi delle preferenze. Abbiamo memoria di quando costituivano un metodo di scambio clientelare. Però insospettisce la paura che suscitano nei partiti, oggi che non hanno più basi di massa e sono ridotti a ristrette cerchie di vertice. Il contrasto tra l'enfasi sulla personalizzazione e la crescente spersonalizzazione del voto riassume quanto sia fittizia, oggi, l'opposizione fra partiti e presidenti. Visto che i presidenti identificano partiti "chiusi", la cui classe dirigente si riproduce in modo endogamico. Al proprio interno. Senza competizione; ma, semmai, per cooptazione, dall'alto.

Questo modello, peraltro, è coerente con la biografia del centrodestra. Inventata, scritta e interpretata da un Sovrano: Silvio Berlusconi. (Se ne è discusso molto nel recente convegno della Società italiana di scienza politica, all'Università di Pavia). Ma il centrosinistra e, soprattutto, il Partito Democratico - per storia, cultura e sociologia - non hanno prospettive senza coltivare il rapporto con il territorio e con la società. Senza rivalutare le primarie come metodo "vero" di consultazione e di selezione della classe dirigente. Senza dare agli elettori la possibilità di esprimere - in nessun modo - le loro preferenze personali. Senza vincolare gli eletti a un rapporto responsabile con gli elettori. Meglio che il Pd ci pensi, in vista delle prossime elezioni europee. Che, come sempre, avranno anzitutto effetti politici "nazionali".

(7 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Italia fra Repubblica e repubblichini
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2008, 05:46:47 pm
Rubriche » Bussole


Italia fra Repubblica e repubblichini
 


La "Bussola" dedicata alla banalizzazione del fascismo, ridotto a merchandising per turisti, a Rimini, ha prodotto molte reazioni. Di segno e contenuto diverso, hanno contribuito a precisare la fenomenologia nostalgica. Ne hanno, in particolare, allargato la geografia ben oltre Rimini. A partire dalla vicina Riccione, dove, mi è stato segnalato, da poco è stata restaurata e riaperta al pubblico Villa Mussolini. Proseguendo sul lungomare romagnolo, dove l'oggettistica fascista sembra diffusa, nelle vetrine e nei mercati, quanto l'iconografia del football.

Ma lo stesso avviene altrove, in punti diversi e distanti del paese. Per chiarire che la nostalgia non è un prodotto locale, circoscritto alle terre del duce. Il busto di Mussolini, in formato mignon, è stato avvistato - e segnalato - un po' dovunque, nella penisola. Da Nord a Sud, da Bolzano alla Sicilia, passando per la Liguria e la Campania. Nei mercati e nei mercatini di rione e di paese, nei minimarket lungo l'autostrada.

L'ampiezza del fenomeno suggerisce l'esigenza di una domanda, evidentemente, altrettanto estesa. E in crescita, come ha rammentato un lettore che se ne intende. Il quale mi ha ragguagliato che Mussolini è venduto ormai quanto il Che, mentre Stalin è in caduta. Anche Hitler riscuote un certo interesse, visto che la sua immagine si incontra, con frequenza crescente, accanto a quella del duce. A differenza di quanto avviene in Germania, come ha sottolineato un altro lettore, il quale vi si reca almeno due volte l'anno per lavoro. A Monaco, Francoforte, Berlino, Colonia, scandisce, " Mai e poi mai sono imbattuto nell'immagine di Hitler".

Ma gli estimatori tedeschi del fuhrer possono sfogare e soddisfare la loro passione quando passano per l'Italia. Qui il tabù è stato infranto, se mai è esistito. Sicuramente, però, oggi le immagini del fascismo e perfino del nazismo circolano senza problemi e senza inibizioni. Alcuni mi hanno rimproverato - talora aspramente- per aver manifestato una certa sorpresa, al proposito. Io tanto naif da non aver percepito prima che il fascismo sia stato sdoganato, da tempo. Tuttavia, non è la rivalutazione del fascismo a spiazzarmi. Semmai, la sua banalizzazione. A ogni livello. Dai mercatini al Campidoglio. Dagli autogrill ai palazzi del governo.

Quel clima culturale che induce il sindaco di Roma - senza provare neppure un brivido - a ridurre le colpe del fascismo alle "sole" legge razziali. E il ministro della difesa a porre sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Una guerra civile riletta con occhio equidistante. O equivicino. (Come ha denunciato il Presidente Napolitano). Gli antifascisti e i fascisti: portatori di eguali ragioni. E di eguali torti. Così, il male assoluto denunciato da Gianfranco Fini, per i suoi compagni di partito e di militanza, smette di essere tale. Diventa relativo. Limitato. L'unico male assoluto resta il comunismo. Un peccato originale che stigmatizza chiunque ne abbia avuto esperienza. Ieri, l'altro ieri, quando non importa. Comunisti e basta. Tanto più pericolosi se e quando rifiutano e condannano la loro tradizione ideologica.

Il fascismo invece no. E' parte della nostra biografia, della nostra memoria. Non un male assoluto, ma una malattia dell'infanzia. Come la varicella e il morbillo. Da cui si guarisce in fretta. Anzi, serve a crescere. L'Italia: una Repubblica e repubblichina al tempo stesso. Fondata, equamente, sull'antifascismo e sul fascismo.

Ecco: la banalità del "nostro" male rischia di renderlo inguaribile. Perché non si può curare una malattia che non è ritenuta tale. Ma viene percepita, al massimo, come un segno di stanchezza. E se la democrazia è stanca, in fondo, chissenefrega. Si riposi. Si prenda una pausa. Troppa democrazia, a volte, fa male.

(9 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI Come il fascismo, che a 60 anni dalla caduta continua a riemergere
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2008, 12:14:25 pm
POLITICA       

MAPPE / Il passato riaffiora nei discorsi pubblici e nelle discussioni politiche

Come il fascismo, che a 60 anni dalla caduta continua a riemergere

Prigionieri del passato


di ILVO DIAMANTI


È difficile guardare avanti quando si continua a camminare con la testa voltata indietro. Quando il passato riaffiora di continuo nei discorsi pubblici e nelle discussioni politiche. Come il fascismo, che - a oltre 60 anni dalla caduta - continua a riemergere. D'altronde, autorevoli leader di An, nei giorni scorsi, avevano riaperto la discussione.

Ha cominciato il sindaco di Roma, per il quale il fascismo non è stato il "male assoluto". Ad eccezione delle leggi razziali. Gli ha fatto eco il ministro della Difesa, ponendo sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Li ha smentiti ieri il presidente della Camera, e leader di An, Gianfranco Fini, il quale ha sostenuto che "la destra si deve riconoscere nei valori dell'antifascismo". Precisando, inoltre, che la Repubblica di Salò combatteva dalla parte sbagliata.

È probabile che questa volta i compagni di partito non prendano le distanze da Fini, com'è avvenuto invece quando ha confermato l'apertura verso il diritto di voto amministrativo agli immigrati. D'altronde, a destra è forte la voglia di "normalizzare", se non riabilitare, il fascismo. Riducendolo a un male non più "assoluto" ma "relativo".

Il ritorno del passato è, per molti versi, giusto e utile, perché dalla nostra storia possiamo trarre identità comune. Ma da noi succede l'opposto. La storia viene riscritta ad arte, da una stagione all'altra. La memoria è usata per dividere. Per cui, non solo il fascismo, neppure il comunismo passa mai di moda. Anche dopo la caduta del muro di Berlino. Dopo che, in Italia, il Pci si è sciolto, diviso, ha cambiato e ricambiato nome. Tuttavia, vi sono partiti e militanti che continuano a dirsi comunisti. Ma, soprattutto, i comunisti "servono" a Berlusconi, che li evoca dovunque, ora per minaccia ora per dileggio. Definiscono l'esistenza del Nemico, tanto più insidioso se pretende di cambiare nome e abito. Se si maschera. I comunisti: pericolosi e ridicoli. Al punto che il premier li usa come personaggi delle barzellette. L'equivalente dei carabinieri di un tempo.

Più complicato - e agro - entrare nella notte della Repubblica. La stagione delle stragi e del terrorismo, di cui non esiste una storia condivisa, ma un viluppo intricato di molte storie incrociate. Trent'anni dopo il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro è forte la sensazione che molte verità ci sfuggano. Lo stesso per quel che riguarda l'uccisione del commissario Luigi Calabresi. Inevitabile che il dibattito riemerga, aspro. Violento. Ma anche senza soluzione. In-finito.

D'altronde, quarant'anni dopo, siamo ancora impegnati a fare i conti con il '68. Anzitutto, una rivoluzione antiautoritaria, che ha investito tutti i piani. I costumi, la cultura, le relazioni sociali, la morale personale e sessuale, i rapporti di potere, il linguaggio. E tutti gli ambienti: il lavoro, la politica, la religione e la chiesa, l'informazione. Ma, soprattutto, l'università e la scuola, dove gli squilli di rivolta sono risuonati prima che altrove.

Così, oggi è esplosa la determinazione a ri-formare, nel senso di restaurare: modelli, valori, simboli. Come sta facendo la ministra dell'Istruzione, che ha restituito valore prescrittivo al voto in condotta, reintrodotto gli esami di riparazione, ma anche il maestro unico, alle elementari. E promette il ritorno dei grembiulini, magari griffati. Con il consenso di gran parte dei genitori. I quali apprezzerebbero anche l'uso dei cappelli d'asino per stigmatizzare i peggiori oppure l'impiego della lavagna come gogna, dietro a cui esiliare i cattivi.

Ultima, la frattura del '92. L'anno di "Tangentopoli". Formula con cui si indica la stagione dei processi per corruzione che investirono la classe politica al governo. L'anno dell'attacco condotto dalla mafia contro lo Stato e i suoi uomini più intransigenti. I magistrati, per primi Falcone e Borsellino. L'anno in cui si dissolve il sistema politico della prima Repubblica. Dalle cui macerie nasce un nuovo (dis)ordine, guidato dai leader e dalle formazioni politiche oggi al governo: Berlusconi e Fi, Fini e An; e, primo fra tutti, Bossi, insieme alla Lega. Difficilmente avrebbero conquistato altrettanto spazio, senza il "vuoto" prodotto dal '92.

Tuttavia, essi per primi, ne vorrebbero riscrivere la storia, il significato. Nel '92 - secondo loro - non si sarebbe verificato il crollo di un ceto politico esausto ma un complotto. Sinistra, poteri forti e media a sostegno dei magistrati: uniti nella lotta contro il ceto politico della prima Repubblica. Per ottenere a colpi di giustizia giustizialista ciò che con il voto democratico non era possibile.

Alla tesi del complotto si oppone quella del "male incurabile" (la formula è di Alfio Mastropaolo). Secondo cui il ceto politico e, in generale, il sistema partitico erano tanto corrotti e inefficienti da non reggere più. Affetti da un male incurabile, che i magistrati si erano incaricati di estirpare. Da ciò le opposte versioni dei fatti. Craxi: un esule o, al contrario, un evaso. I magistrati: "vendicatori" della società civile e garanti della legalità oppure gli autori di un golpe.

Siamo un paese smemorato che non riesce a dimenticare. I fatti ci inseguono sempre. Anche se o forse proprio perché abbiamo cercato di rimuoverli, rinunciando a chiarirli. O, almeno, a fornire loro una spiegazione condivisa. Abbiamo preferito, invece, voltare pagina, ogni volta, senza prima averne letto e compreso il testo. Così le storie e i personaggi del passato continuano a riemergere, nella nostra mente, nei nostri discorsi. Pagine di libri mai conclusi.

Di stagione in stagione, la storia viene riscritta retrospettivamente, in base a interessi e valori di parte. La nemesi è che alla rimozione succede la nostalgia. Della scuola di tanti anni fa, quando portavamo il grembiulino e il colletto bianco, quando gli insegnanti mantenevano la disciplina. Nostalgia dei democristiani e dei comunisti: quando sapevamo da che parte stare, chi erano gli amici e soprattutto i nemici. Nostalgia di De Gasperi, La Malfa (Ugo), Berlinguer. Perfino Craxi. (Andreotti no: è vivo e lotta insieme a noi).

Tuttavia, se siamo prigionieri del passato è anche per un'altra ragionevole ragione. Questa società ha abolito il futuro. Ha rinunciato a descrivere un orizzonte comune. Procede in ordine sparso, giorno per giorno. Una società vecchia, dove i giovani sono una specie rara - come i panda - controllata da adulti che non vogliono diventare adulti e da vecchi che rifiutano di invecchiare. La classe politica ne è uno specchio fedele. Al governo: un premier in continua opera di restauro; per apparire giovane, un pezzo dopo l'altro, è ridotto a un androide. All'opposizione: una leadership di ex (comunisti e democristiani). Impaurita da ogni cambiamento che ne possa minacciare il ruolo.
Un paese smemorato e, al tempo stesso, incalzato dalla memoria. Sospeso fra rimozione, revisione e nostalgia. Per sottrarsi alle trappole del passato che non passa mai, resta solo una via. Guardare avanti. Progettare - o almeno immaginare - il futuro.

(14 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se la delusione genera consenso
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 05:38:45 pm
Ilvo Diamanti


Se la delusione genera consenso
 
Berlusconi nella nuova scuola di S.Giuliano di Puglia (Cb)


E' un po' sorprendente che la delusione, tanto diffusa nella società, non produca sfiducia nel governo e, in primo luogo, nel premier.
Eppure in passato aveva sempre funzionato l'equazione: più delusione meno consenso a chi governa. Tanto che la delusione era divenuta una fra le più efficaci tecniche di opposizione.

Complici i media, che ne hanno fatto un genere di successo, miscelando la delusione con altri sentimenti di largo uso, nel linguaggio comune. La paura, l'incertezza, l'inquietudine, l'insicurezza. Così, per restare a questo decennio, gli italiani delusi hanno punito, dapprima, Berlusconi e il centrodestra. Il quale ha perduto tutte le elezioni intermedie, dopo il 2001: comunali, regionali, europee. Tutte. Per riprendersi - e quasi a rivincere - nel 2006, dopo una breve e intensa campagna elettorale tutta protesa a deviare il corso della delusione verso Prodi e il centrosinistra. Suscitando sfiducia preventiva nei loro confronti. Come avrebbero potuto, gli elettori, soprattutto i più moderati, fidarsi dei comunisti, neo o ex non importa, e dei loro alleati? Quelli che avrebbero aumentato le tasse, anzitutto sulla loro casa; quelli che avrebbero aperto le porte ai delinquenti e agli immigrati: cioè, lo stesso; quelli che avrebbero allargato ancora lo spazio dello stato e ridotto quello del privato. Non ne avevano ... "paura"?

Argomenti riproposti, con successo, nella breve parentesi del secondo governo Prodi. Neppure due anni di navigazione faticosa e affaticata, poi il naufragio. Nelle acque torbide della delusione. A poco è servito il tentativo di Veltroni di voltar pagina, cancellare il passato. Un nuovo partito, una nuova strategia, da soli da soli! Opposizione senza pregiudizio e senza antagonismo, Berlusconi: avversario mai più nemico. Troppa la delusione retrospettiva. Al punto da rendere inutile e controproducente il tentativo di rimuovere il passato - insieme a Prodi.

Da ciò la vittoria schiacciante di Berlusconi, sopravvissuto alla delusione, emerso da un mare di delusione. E ora là, luminoso faro nella nebbia della delusione. Un sentimento che, sei mesi dopo il voto, non si è dissolto, ma, al contrario, continua a crescere. Una foschia grigia e densa. D'altronde, non ne va bene una. La crisi economica e finanziaria deborda. I prezzi sono fuori controllo. La paura della criminalità non flette. La fiducia nel futuro... da che parte sta il futuro? E poi, nessuna promessa mantenuta. Le tasse? Non caleranno. Alitalia? Affonda. Neanche nel calcio le cose vanno bene. La Nazionale ha perso gli europei. (Altro che ai mondiali del 2006, quando c'era Prodi ...).

Eppure, il rapporto fra il governo e il paese; fra Berlusconi e gli elettori non ne risente. Al contrario: i livelli di fiducia crescono. Piove, anzi, tempesta: governo virtuoso. Edmondo Berselli, su Repubblica, ha sostenuto questa inversione di tendenza vi sia l'affermarsi di una forma di comunicazione politica. Anzi di un "format". Interpretato, sulla scia del Cavaliere, maestro insuperato, da alcuni attori politici abili.

Anzitutto, Brunetta, il persecutore dei fannulloni annidati nel pubblico impiego. Poi, la Gelmini, domatrice dei professori e dei maestri, incapaci di educare e disciplinare i nostri figli. Maroni, difensore degli italiani dall'invasione minacciosa di stranieri e rom. Infine, perfino la Carfagna, alla caccia di prostitute e clienti, da punire direttamente sulla strada; Un format che comunica in modo semplice problemi complessi; personalizzando le paure e le crisi, attraverso bersagli facili da colpire, che riflettono il senso comune e spostano il flusso della sfiducia e della delusione lontano dal governo.

Così la maggioranza degli italiani, riconoscente, si stringe intorno al governo, che li difende dalla minoranza deviante: professori, maestri, statali, immigrati, puttane. E dai piloti e i sindacati, colpevoli del possibile fallimento di Alitalia. Loro, non la politica che ha governato - e retto - le sorti della compagnia di bandiera per anni, decenni. Oltre ogni ragionevole ragione. Loro, che, pochi mesi fa, apparivano vittime del disegno del centrosinistra di svenderli agli stranieri, insieme alla compagnia.

Tuttavia, oltre al format comunicativo del governo, c'è un'altra spiegazione. E' che ci siamo abituati, assuefatti alla delusione. Non la consideriamo uno emergenza, di cui ha colpa, anzitutto, chi manovra le leve di governo. Ma una situazione normale, per quanto sgradevole. Come la nebbia in val padana d'inverno e le zanzare d'estate. Gli italiani: non possono non dirsi delusi. A prescindere. Perché nessuno, è stato capace di sanare i bilanci, abbassare le tasse, rilanciare l'economia, ridurre la paura della criminalità. E se anche avvenisse, non ce ne accorgeremmo. D'altronde, anche se i crimini sono diminuiti, la paura è cresciuta lo stesso. E se il tasso di criminalità in Italia è tra i più bassi d'Europa, noi restiamo il paese europeo più impaurito e deluso. Il più sfiduciato. Chiunque ci governi. Berlusconi o Prodi.

Per cui, dopo aver provato, invano, a invertire la rotta con il voto, cambiando governo e maggioranza, gli italiani si sono rassegnati. Così, oggi che la delusione è penetrata dovunque: nelle case, nelle famiglie nei vicoli, nei programmi tivù, negli indici di borsa che sembrano bollettini di guerra, nelle stime dei mercati, della produzione e dei consumi: oggi che la delusione è dappertutto, gli italiani hanno smesso di considerarla un accidente. La considerano una perturbazione durevole, uno stato di necessità. Che non è il caso di imputare a qualcuno. D'altronde, chi c'era prima ha fatto di meglio? E' riuscito a darci fiducia? A renderci felici? Allora, inutile ritorcere la nostra rabbia, la nostra delusione, su chi governa oggi. Teniamocelo. Accontentiamoci. Tanto più se riesce a consolarci e a offrirci capri espiatori, a suggerirci che non è colpa nostra (né tanto meno sua).

Ma se la delusione non costituisce più uno strumento di delegittimazione del governo, né un metodo di opposizione, allora - scusate la tautologia - per fare opposizione la delusione non serve. Non solo, ma diventa dannosa. Un boomerang.

Per fare opposizione occorrerebbe, al contrario, spingere la delusione più in là. Generare speranza, non nuove illusione. Ma la speranza è un attributo del futuro. E il futuro, per ora, è solo una speranza. Pardon: un'illusione, che in pochi si ostinano a coltivare.

(19 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se la democrazia diventa inutile
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 10:36:11 am
Rubriche » Bussole     

Ilvo Diamanti

Se la democrazia diventa inutile
 

Il Consiglio di Stato ha bocciato il referendum indetto, domenica prossima, a Vicenza dall'amministrazione comunale, per consultare i cittadini sull'uso dell'area dove è prevista la costruzione di una nuova base Usa. Non una consultazione deliberativa, perché si tratta di una scelta che poggia su negoziati internazionali. Ma un modo per permettere alla popolazione di esprimersi su una decisione che è destinata a produrre effetti rilevanti sulla realtà locale: dal punto di vista dell'ambiente, del territorio, della viabilità, della sicurezza.

Il Consiglio di Stato ha stabilito che si tratta di un esercizio "inutile", perché si applica a un obiettivo "irrealizzabile". E ha, per questo, bloccato l'iniziativa, tre giorni prima dello svolgimento. Contraddicendo, così, il pronunciamento del Tar, che, al contrario due settimane fa, aveva considerato legittima la consultazione.

Così, Vicenza diventa un caso esemplare, nella sua specificità. Una città dove lo Stato decide che i cittadini non "devono" pronunciarsi, secondo procedure istituzionali, perché, comunque, è stato già deciso. Peraltro, è difficile che, in questo caso, si levino voci indignate, a livello nazionale. (ad eccezione dei "soliti" esponenti della sinistra radicale). Perché su questa materia l'accordo è bipartisan.

La scelta della nuova base Usa nasce, cinque anni fa, da un accordo informale fra Berlusconi e le autorità americane, approvata dall'amministrazione di Vicenza del tempo e coltivata in gran segreto per anni. Così, a doverla gestire è stato il governo Prodi, che, dopo qualche resistenza e molte perplessità, ha, infine, concesso la base agli Usa, nel gennaio 2007. In nome dei buoni rapporti con l'alleato più influente, a livello internazionale. Dunque, destra, sinistra e centro d'accordo. Senza se e senza ma. Cioè: senza ascoltare i cittadini. Senza neppure preoccuparsi di vedere il luogo, il contesto, le condizioni.

Nessun leader politico del centrodestra e del centrosinistra che sia venuto a Vicenza a confrontarsi, a spiegare le ragioni della scelta. Nessun ministro che, negli ultimi due anni, abbia avuto il coraggio di avvicinarsi alla città, per timore di venire fischiato e contestato. Oggi che i fischi e le contestazioni fanno male all'immagine.

Solo il presidente Napolitano, di recente, si è recato a Vicenza. E ha pronunciato parole prudenti ma, in fondo, sagge, esortando affinché la difesa degli interessi locali avvenga nel rispetto di quelli nazionali. Senza, però, negare il diritto dei cittadini a esprimersi. Mentre il Consiglio di Stato ha decretato che il referendum è inutile. La stessa posizione espressa, in modo aperto, dal ministro La Russa. E dai leader di centrodestra. Dal presidente della Regione, Galan. Senza che, peraltro, si siano levate voci dissonanti dal centrosinistra. Né dal Pd né dall'Idv di Antonio di Pietro. D'altra parte, lo stesso Berlusconi, nelle scorse settimane, aveva inviato al sindaco di Vicenza una lettera per invitarlo a desistere. Il referendum è inutile: non fatelo. Tutti d'accordo, da sinistra a destra. Da Roma a Venezia.

Qui, però, non si tratta più del merito: la costruzione di una "nuova" base Usa (non dell'allargamento di quella pre-esistente, come erroneamente si dice) alle porte della città. Ma della possibilità dei cittadini di esprimersi attraverso un referendum. (come ritiene giusto oltre il 60% dei vicentini, interpellati in un sondaggio condotto da Demetra la settimana scorsa).

Il Consiglio di Stato (come le principali forze politiche nazionali) ha negato questa possibilità perché "ha per oggetto un auspicio irrealizzabile... su cui si sono pronunciate sfavorevolmente le autorità competenti". Sostenendo, in questo modo, che l'utilità della democrazia si misura solo a partire dal suo "rendimento" concreto; dall'efficacia dei risultati. (Se così fosse, non si spiegherebbe perché, per quanto faticosamente, regga ancora nel nostro paese).

Come se la democrazia fosse un utensile per realizzare "prodotti" pubblici. Un sistema e un metodo per decidere, come un'impresa qualsiasi (proprio oggi che il mercato non sembra più di moda). Dimenticando che la democrazia ha valore in sé. E' un valore in sé. Le procedure mediante cui si realizza "servono" come fonte di legittimazione perché garantiscono riconoscimento alle istituzioni e consenso alle autorità.

La democrazia "serve" perché istituzionalizza il dissenso sociale, perché sostituisce la mediazione e la partecipazione allo scontro. La democrazia diretta, peraltro, offre un sostegno importante alla democrazia rappresentativa. Nel caso concreto, la prospettiva del referendum ha incanalato i comitati e i movimenti contrari alla base americana dentro alle logiche e alle regole del confronto istituzionale. Ha istituzionalizzato il dissenso. Ha isolato e estromesso le frange più estreme e le tentazioni violente.

Due anni di opposizione, manifestazioni e proteste su un terreno così critico si sono svolte senza incidenti, senza strappi. D'altronde, e non a caso, il movimento "No dal Molin" ha partecipato alle elezioni comunali dello scorso aprile, dove ha eletto una rappresentante. Accettando, così, il gioco della democrazia. Trasferendo il confronto dalla piazza alle sedi istituzionali. Sostituendo - e preferendo - la logica della rappresentanza a quella dello scontro.

Per la stessa ragione, il referendum avrebbe offerto all'amministrazione comunale e, in primo luogo, al sindaco Variati uno strumento per "governare" il malessere e le tensioni sociali. Perché, qualsiasi ne fosse stato l'esito, avrebbe ottenuto una delega a "negoziare". Anche se non vi fosse stato nulla di negoziabile - come accusa il Consiglio di Stato (la cui fiducia nel potere della partecipazione, dunque, della democrazia "sostanziale" appare assai fragile). In quel caso, avrebbe pagato lui, il sindaco, insieme all'amministrazione il prezzo di aver generato aspettative deluse. Ora, invece, la città si ritrova muta. Costretta al silenzio. Perché si è sancito, semplicemente, che, in alcuni casi, in questo caso, nel "suo" caso, la "democrazia è inutile". Che la partecipazione non serve. Che l'ascolto è un vizio. Che è meglio decidere ignorando il dissenso. Dichiarando preventivamente "illegittima" la semplice possibilità di farlo emergere.

Ma la democrazia ha una funzione terapeutica, prima che pratica e strumentale. Serve a curare la frustrazione nei rapporti sociali e politici. A evitare che degeneri.

Quando diventa inutile allora è lecito avere paura.

(1 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La penisola della paura dove la tolleranza fa perdere consensi
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2008, 10:48:21 pm
MAPPE.

L'allarme viene alimentato dall'uso politico dell'immigrazione anche nelle leggi

Fino a ieri la parola razzismo era tabù, oggi ne parlano le cariche politiche

La penisola della paura dove la tolleranza fa perdere consensi


di ILVO DIAMANTI


IL CONTAGIO razzista ha coinvolto l'Italia. Perlomeno: nel linguaggio pubblico. Fino a ieri l'altro era un tabù. Ora, invece, le autorità religiose e politiche ne parlano esplicitamente. Il Papa, il presidente della Repubblica e perfino quello della Camera, Gianfranco Fini. Leader di destra. Perfino il sindaco di Roma, Alemanno, che ha espresso le scuse della città a un cittadino cinese, malmenato nei giorni scorsi da un gruppo di bulletti.
Dunque, il tabù si è rotto.

Oggi a denunciare il razzismo degli italiani non sono esclusivamente i "soliti noti". Sinistra radicale, no global, cattolici solidali. Giornali come il Manifesto e Famiglia Cristiana. Ma ciò solleva il rischio opposto. Scivolare dalla drammatizzazione alla banalizzazione. "Allarme siam razzisti?" No, se intendiamo definire, in questo modo, l'orientamento e il comportamento degli italiani. O meglio: il razzismo c'è, in Italia, come nel resto d'Europa. Dove gli episodi di intolleranza sono numerosi e violenti, anche più che da noi. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Belgio, in Spagna.

D'altronde, l'importanza del fenomeno è sottolineato dai successi elettorali di formazioni politiche di impronta apertamente xenofoba. Da ultimo, in Austria, una settimana fa. La reticenza è, dunque, pericolosa, quanto la generalizzazione. Tanto più, il sensazionalismo, che sposta il fenomeno al centro dei talk show e nei titoli di prima pagina. D'altronde, gli episodi di razzismo, probabilmente, esistevano anche prima, (sempre troppo) numerosi. Ma non se ne parlava, perché le vittime, per prime, preferivano tacere. Come è avvenuto, in passato, per le violenze sessuali sulle donne e sui minori.

Ora invece il clima è cambiato e gli episodi di razzismo sembrano moltiplicarsi, anche perché - più di ieri - sono riconosciuti come tali e denunciati. Anche se, di fronte alle ripetute aggressioni ai danni di stranieri e rom, è diffusa la tendenza a sostenere che "il razzismo non c'entra". Oppure a giustificarle: conseguenze della "legittima furia popolare" (come ha osservato Gad Lerner, su questo giornale). Invece, il razzismo c'è. La tentazione di costruire barriere fra noi e gli altri, in base a fondamenti in-fondati e in-dimostrabili. Come l'idea stessa di "razza", d'altronde. Il razzismo c'è. Allontanarlo da noi con un gesto di fastidio, non aiuta ad affrontarlo. Il razzismo esiste: in Italia come altrove. La storia e l'esperienza non rendono immuni neppure la Germania, l'Austria o la Francia.

Tuttavia, il confronto su base europea mostra come in Italia l'allarme sollevato dagli immigrati sia fra i più elevati. Il più alto, in assoluto, fra i paesi della vecchia Europa. Come emerge, chiaramente, dall'indagine europea curata da Demos, laPolis e Pragma (in collaborazione con Intesa Sanpaolo). In particolare, l'Italia è il paese dove l'allarme suscitato dagli stranieri è più forte, relativamente alla sicurezza e all'ordine pubblico, come denuncia una persona su due. In paese dove, al tempo stesso, i "pregiudizi positivi" si attestano su livelli più bassi. Meno della metà della popolazione accetta l'immagine degli immigrati come "risorsa dello sviluppo" oppure "fattore di apertura culturale". L'Italia, in particolare, è il paese in cui tutti gli indici di allarme son cresciuti maggiormente, negli ultimi anni. Come se qualcosa avesse abbassato le nostre difese, le nostre inibizioni. Alimentando la nostra paura. Madre del razzismo, come ha scritto Zygmunt Bauman nei giorni scorsi sulla Repubblica.

Il razzismo, allora, forse non è un'emergenza, come ha sostenuto ieri il ministro Maroni. Ma lo è sicuramente la xenofobia. Letteralmente: la "paura dello straniero". Che ha diverse cause, comprensibili, e che vanno comprese, se la vogliamo contrastare. Una su tutte: la distanza fra rappresentazione e realtà. La realtà è che ci siamo trasformati in un paese di immigrazione, dopo che per oltre un secolo è avvenuto il contrario. In poco più di un decennio il peso degli immigrati è passato dallo 0 virgola al 5-6% della popolazione. In alcune aree, soprattutto nel Nordest e nelle province più produttive del Nord, questa misura è doppia, talora tripla.

In dieci anni o poco più abbiamo raggiunto e superato paesi in cui questi processi hanno storia e tradizione assai più lunghe. Abbiamo "il primato dell'immigrazione veloce", come hanno scritto i demografi Billari e Dalla Zuanna, in un recente saggio ("La rivoluzione nella culla", Università Bocconi Editore). La realtà è che ci siamo adattati altrettanto in fretta. Non siamo stati travolti. In particolare, le zone dove si registrano i maggiori indici di integrazione (come sottolinea il periodico rapporto della Caritas) sono proprio quelle dove l'immigrazione ha assunto proporzioni più ampie.

Il Veneto, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia. Fra le province: Bergamo, Treviso, Vicenza. Dove, cioè, la Lega è più forte. Ma la rappresentazione è opposta, perché proprio qui la "paura dell'altro" è più elevata. In altri termini: abbiamo accolto e integrato milioni di stranieri - perché ne abbiamo bisogno, dal punto di vista economico, dell'assistenza, ma anche della demografia. Ma si stenta ad ammetterlo, ad accettarlo. In parte, è inevitabile. Flussi di stranieri tanto ampi e tanto rapidi generano inquietudine. Soprattutto se non sono regolati da politiche adeguate (sociali e urbane), a livello locale. Se si "permette" la concentrazione degli stranieri in ampie periferie degradate.

La paura, tuttavia, è alimentata dall'uso politico dell'immigrazione. Dal fatto che la paura degli immigrati e dei rom "paga". In termini elettorali e di consenso. La stessa legislazione riflette questo sentimento. Si preoccupa di rassicurare assecondando la diffidenza. Promette di "arginare" gli stranieri alle frontiere. Oppure di regolarne i flussi, in base a quote irrealistiche. Con l'esito che gli stranieri continuano ad entrare, lasciando dietro sé una scia di morte che non emoziona quasi nessuno. E quando sono in Italia diventano "clandestini". Per legge. Per la stessa ragione, si irrigidiscono le restrizioni agli istituti che rafforzano l'integrazione. Primo fra tutti: i ricongiungimenti familiari. Così gli stranieri diventano viandanti di passaggio. "Altri" da cui difendersi.

Invece di promuovere un modello - magari involontario - che ci ha permesso di "sopportare" e, anzi, di integrare flussi di immigrati così imponenti in così poco tempo, ci si affretta a negare l'evidenza. Si indossa la maschera più dura. Perché la faccia tollerante non è di moda. Fa perdere consensi. Per contrastare il razzismo, si dovrebbe, quindi, combattere la paura. Invece, viene lasciata crescere in modo incontrollato. E molti, troppi, la coltivano. Questa pianta dai frutti avvelenati, che cresce nel giardino di casa nostra.

(6 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il ritorno dello Stato (di necessità)
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 12:01:55 pm
Rubriche » Bussole     

Il ritorno dello Stato (di necessità)


di ILVO DIAMANTI
 


C'è di che stropicciarsi gli occhi (e le orecchie) a leggere i titoli dei giornali di questi giorni. A sentire i discorsi dei leader. Politici, imprenditori, imprenditori politici e politici imprenditori. Presidenti della Repubblica e di Banche internazionali - europee, americane e quant'altro. Super-ministri del tesoro e delle finanze.

Tutti quanti a invocare una nuova divinità, che, tuttavia, fa riemergere dalla nostra memoria qualche traccia, qualche ricordo. Ne avevamo sentito parlare altre volte, un tempo. Pare. Forse. Ma non ne siamo sicuri. Lo Stato. Rammentate: lo Stato? Proprio lui.

Quello che non poteva neppure essere pronunciato senza venire sommerso dalla riprovazione pubblica (pardon: generale). Lo Stato. Caduto in disgrazia dopo gli anni Ottanta. E negli anni Novanta: innominabile. L'unico "stato" possibile: il participio passato del verbo essere. Appunto: lo Stato? E' stato. Lo Stato imprenditore, lo Stato padrone. Che salva le aziende decotte. Lo Stato che fa i panettoni. Lo Stato che controlla i telefoni. E le poste. E le ferrovie. E la luce elettrica. Innominabile. Indicibile. Scacciato e sepolto dal Mercato. Dal Privato. Principio e pensiero unico del Mondo nuovo.

Dove a nessuno - ma proprio a nessuno - passava per la testa che il pubblico e lo stato potessero più competere, svolgere un ruolo regolatore, neppure di comando, o direzione. Meno stato e più Mercato. Meno pubblico e più Privato. Gli slogan dominanti li sentiamo ancora nelle orecchie. Era ieri. Ieri l'altro al massimo.

Per cui non sappiamo quando, perché e come sia successo. Ma una mattina mi son svegliato. E ho ritrovato lo Stato, insieme al Pubblico. Dovunque. Invocato da tutti: Garante e Salvatore. Esibito come un'icona, un'immagine sacra. Non sappiamo cosa sia successo - quando, come e perché. Ma tutto questo ci disorienta non poco, perché i sacerdoti del nuovo culto hanno volti e nomi noti. Sono gli stessi che hanno celebrato il culto dominante fino a ieri. Anzi: stamattina. Governi liberali e ministri liberisti. Presidenti imprenditori. E Imprenditori presidenti. Di uno stato Imprenditore. E partiti-azienda oppure leghe di piccoli produttori. Tutti quanti a celebrare il rito dello Stato. Che ci salverà. Che garantirà i nostri risparmi, i nostri fondi, le nostre banche, le nostre imprese - piccole e grandi. Perché nessuna banca fallirà e nessun risparmio sfumerà. Lo Stato che protegge i cittadini dovunque e comunque.

Lo Stato assicuratore e rassicuratore. A vegliare sulla quiete pubblica. A imporre l'ordine. L'esercito sparso dovunque. Sulle piazze e sulle strade. Nei luoghi di crisi. A presidiare le discariche e le periferie in degrado. Lo Stato ci salverà dal mondo che ci minaccia. Barboni, immigrati, puttane, scippatori, spacciatori, lavavetri. Ci vuole davvero uno sforzo grande per adeguarsi in fretta. Per non rischiare il cortocircuito cognitivo. E occorre tanta flessibilità - specialità del tempo presente - per cogliere l'attimo fuggente e già fuggito. Per riconoscere - senza perdersi - il nuovo paesaggio, al cui centro svetta lo Stato al posto del mercato. Il Pubblico al posto del privato. Quasi fossimo tornati indietro. Un ritorno al futuro. Anche se - a ben vedere - qualcosa manca nell'immagine del passato che ritorna. In particolare: lo Stato sociale, previdenziale e provvidenziale. Quello che garantiva - e spendeva tanto - per salute, lavoro, educazione, assistenza, pensioni. Quello Stato lì: non ritorna. O meglio: non "deve" tornare. Quello Stato lì: va aperto al mercato (che solo in questo caso torna ad essere considerato un valore). Pesa ancora troppo, si dice con rammarico. E - per questo - va ridimensionato. Troppi professori - perdipiù incapaci; troppi chirurghi macellai; e troppi maestri (torniamo ai maestri unici - e anche così sono troppi). Così la sensazione di essere proiettati all'indietro - nel vortice del passato - un poco sfuma. Non è lo Stato che domina il mercato, del pubblico che guida il privato.

Questo Stato non rimpiazza il mercato, ma lo soccorre. Sostiene le banche più delle scuole. Le borse molto più della sanità. E non promette più benessere sociale (come potrebbe?), ma sicurezza individuale. Sorveglia il nostro mondo, affronta le paure - senza dissolverle. E' lo Stato al servizio dei privati. Lo Stato che stigmatizza gli "statali" (fannulloni) e i servizi "pubblici" (inefficienti). Per cui non riesce a curare la nostra inquietudine, ma, anzi, la alimenta. Né può ricostruire la nostra fiducia. In noi stessi, nelle banche e nello Stato. Quando lo Stato è "stato": ridotto a un participio passato, d'altronde, come è possibile affidargli il nostro futuro?

E come credere nella sua forza, quando, per decenni, se ne è recitato il declino, anzi: la fine? Quando la globalizzazione - mitica - ne ha indebolito poteri e legittimità? Quando la finanza senza confini e senza bandiere ne ha fatto un dio minore: come si può pretendere che oggi possa fare miracoli? sconfiggere il panico finanziario? Ergersi al di sopra della paura? E' uno stato di necessità: non ha il fisico, tanto meno il carisma per recitare la parte del Leviatano.

(10 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli italiani pessimisti come mai prima
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2008, 04:34:59 pm
POLITICA     LE MAPPE.

Sei italiani su dieci ammettono di non fare più progetti impegnativi

Fiducia giù per imprese e sindacati, ma il gradimento del governo è a livelli record

Il Paese nella morsa della sfiducia

Gli italiani pessimisti come mai prima

di ILVO DIAMANTI


 E' come essere in guerra. E forse è proprio così. Anche se gli attacchi aerei e missilistici sono rimpiazzati dagli indici Dow Jones, MIB, Nasdaq e CAC. Il che fa una bella differenza, ovviamente e per fortuna.

Ma è una vera guerra quella che si combatte ogni giorno sulle piazze finanziarie di ogni parte del mondo.
E come tale è rappresentata, sui media. A ogni ora un bollettino che annuncia i dati della catastrofe. Le borse che crollano dovunque. Mentre i grandi (?) del mondo si incontrano e si affacciano sulle tivù. Per spiegare che non c'è da preoccuparsi, nessuna banca fallirà, nessun risparmiatore perderà i suoi risparmi. Producendo l'effetto opposto. Perché è difficile non farsi prendere dal panico quando i grandi del mondo ripetono che non bisogna farsi prendere dal panico. Sentirsi tranquilli quando le autorità intimano che bisogna restare tranquilli, mantenere i nervi saldi e il sangue freddo. Se non vi fossero motivi di timore, perché affannarsi a rassicurarti a ogni minuto che passa?

La spiegazione principale di questa crisi finanziaria senza fondo, peraltro, è che sui mercati ormai domina la sfiducia. Nessuno si fida di nessuno. Com'è ovvio, visto quel che è successo nel sistema finanziario negli ultimi anni. Tuttavia, in questo caso, mercati finanziari e società si rispecchiano. Soprattutto da noi. In Italia. Certo, non viviamo in un paese da incubo (come ha opportunamente rammentato il cardinal Bagnasco alcune settimane fa). Però bisognerebbe spiegarlo al paese. Visto che in Italia si rilevano, da tempo, gli indici di pessimismo e di insicurezza più elevati d'Europa (come hanno mostrato i sondaggi di Eurobarometro). Un clima d'opinione che sembra essersi ulteriormente deteriorato.

Sei italiani su dieci pensano, infatti, che in questo momento non valga la pena di "fare progetti impegnativi per sé e la propria famiglia, perché il futuro è troppo carico di rischi" (sondaggio nazionale Demos, condotto nei giorni scorsi). Si tratta della misura più elevata registrata dal 2000 fino ad oggi. Il problema è che questo sentimento, al di là delle ragioni ragionevoli che lo ispirano, in Italia trova importanti moltiplicatori. In particolare, lo sbriciolarsi dei legami e delle solidarietà sociali, alimentato dalla decomposizione urbana. Il gioco dei risentimenti incrociati fra gruppi professionali, di cui abbiamo parlato qualche settimana fa. Professori, medici, avvocati, maestri, farmacisti, tassisti, broker, commercianti e commercialisti ... Una lista infinita, destinata ad allungarsi. Tutti contro tutti. Deprecati a prescindere. Volta a volta: poveracci, privilegiati, evasori, fannulloni, ladri, incompetenti. Oppure, semplicemente, "nessuno". Un'entità fantasmatica, come gli operai. Che fanno notizia solo quando muoiono sul posto di lavoro.

Lo sfarinarsi delle appartenenze professionali, d'altronde, è drammatizzato (e accelerato) dalla perdita di rilevanza delle grandi organizzazioni di rappresentanza economica (Demos, ottobre 2008). In particolare, il 27% dei cittadini esprime fiducia nel sindacato, il 25% verso Confindustria. Si tratta di indici fra i più bassi nella graduatoria dei principali riferimenti associativi e istituzionali in Italia. La fiducia nel sindacato, soprattutto, scivola al livello minimo degli ultimi due anni. Inoltre, scende più in basso della media nella base di riferimento: gli operai (22%). Mentre sale soprattutto fra i pensionati. Uno scenario simmetrico rispetto agli anni Novanta, quando sindacato e Confindustria avevano garantito consenso allo Stato, dopo il tracollo della prima Repubblica. Era la stagione della concertazione, a cui si oppone, oggi, una società "sconcertata". Dove le tradizionali organizzazioni intermedie di rappresentanza non rappresentano più neppure i loro iscritti. La loro base professionale di riferimento. Come potrebbero, d'altra parte, supplire al deficit di fiducia delle istituzioni se esse stesse sono percepite come istituzioni e, per questo, sfiduciate?

Il collasso delle borse e del sistema finanziario, peraltro, rischia di accentuare ulteriormente le divisioni interne alla società. Di renderle profonde come baratri. Il 47% degli italiani (Osservatorio sul Capitale sociale di Demos-Coop, di prossima pubblicazione) afferma, ad esempio, di aver ridotto i consumi alimentari, in famiglia. Ma il dato scende sotto il 40% fra imprenditori, lavoratori autonomi e professionisti, mentre supera il 50% fra gli operai e i pensionati.

Da ciò il problema: come possa mantenere un grado accettabile di coesione una società così incoerente. Tendenzialmente dis-integrata. E come possa, a maggior ragione, non ri-esplodere quel dissenso politico che travolse, dall'autunno 2006, il governo Prodi e le forze che lo sostenevano. In una fase assai meno drammatica, economicamente, rispetto a quella attuale. Oggi, anzi, si osserva un orientamento contrario. Visto che la fiducia nel governo continua a crescere e ha raggiunto il livello più alto dal settembre 2002. (Al contrario dell'opposizione di centrosinistra, ormai ai minimi storici). La spiegazione più ragionevole sta, a nostro avviso, proprio nel clima di inquietudine e diffidenza che inquina il nostro mondo.

Questa società si sente sotto assedio. E le forze politiche, gli uomini di governo, lo stesso Presidente del Consiglio confermano le sue paure. Ne traggono motivo di consenso. Promettono di difenderla dai nemici che la minacciano. Immigrati, rom, prostitute, automobilisti e motociclisti ubriachi, tossici e spacciatori. Promettono, inoltre, di contrastare il disordine sociale, devastato dalla perdita di senso e di autorità. Combattono la morte del futuro e il collasso del presente attraverso il richiamo al passato. Attraverso i valori e i simboli pre-sessantottini. I grembiulini, il voto di condotta, i bambini che si alzano quando entra il professore. Attraverso lo Stato protettivo e protettore, gli impiegati pubblici che, finalmente, la smettono di poltrire, i professori che, finalmente, si fanno rispettare, i maestri, che, finalmente, tornano ad essere unici. Questa società sotto assedio (come la definisce Bauman) applaude l'esercito sparso sul territorio e nelle città, i vigili urbani che diventano poliziotti, i sindaci che si fingono sceriffi. I "ministri della paura", geniale invenzione di Antonio Albanese (puntualmente superata dalla realtà). Questa società, di fronte al terrorismo delle borse, come dopo l'attacco alle torri nel settembre 2001, esprime domanda di certezza e di autorità. Così, si raccoglie, trepida, intorno al Grande Rassicuratore. Che, dagli schermi, dice ciò che tutti temono e tutti vogliono sentire. Non c'è motivo di avere paura. Cioè: abbiate paura, perché ce n'è motivo. Ma io - solo io - vi salverò. Dalle banche e dai banchieri, dai subprime e dai fondi tossici, dalle cattive azioni e dai cattivi maestri (sempre loro...). Dai broker armati, che vi minacciano: "O la borsa o la vita". E se le borse non mi ascoltano io le chiuderò. Abbiate sfiducia negli altri. Paura del mondo. Il futuro è ieri. E' il consenso triste del nostro tempo. Intriso di sfiducia e di paure. Prigioniero della nostalgia.

(12 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il popolo delle Primarie si è perduto
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2008, 04:00:55 pm
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Il popolo delle Primarie si è perduto

di ILVO DIAMANTI
 

E' trascorso giusto un anno dalle primarie che elessero Walter Veltroni alla segreteria del Pd, insieme a un'assemblea costituente composta da qualche migliaio di persone. L'approdo finale dell'Ulivo di Romano Prodi dopo 12 anni di navigazione. Il 14 ottobre 2007 si recarono ai seggi circa tre milioni di persone. Mentre due anni prima la partecipazione alle primarie che avevano sancito la candidatura di Prodi in vista delle elezioni politiche del 2006 era risultata ancor più larga. Oltre 4 milioni. Ma allora la consultazione riguardava l'intera coalizione di centrosinistra.

In entrambi i casi, però, le primarie hanno costituito un'occasione di straordinaria partecipazione. Milioni di persone, in fila, davanti a seggi improvvisati, a firmare una dichiarazione di appartenenza. Disposte a pagare per votare. Un segno di vitalità della società civile che contrasta con quanti immaginano - e teorizzano - una democrazia stanca, fatta di cittadini indifferenti, per i quali il rito delle elezioni basta e avanza. E' fin troppo.

La risposta alle primarie dimostrò - dimostra - che i cittadini sono silenziosi perché non hanno buone ragioni e valide occasioni per esprimersi. Peraltro, le primarie non vanno confuse con una manifestazione di democrazia diretta. Sono, invece, strettamente collegate alla democrazia rappresentativa, in quanto servono a selezionare e a legittimare la classe dirigente dei partiti oppure le candidature alle elezioni a cariche pubbliche.

Tuttavia, nonostante si celebrino ogni giorno le ricorrenze più improbabili, l'anniversario delle primarie è stato accompagnato da un singolare silenzio. Rotto da alcuni contributi sui giornali di area. E da qualche iniziativa del Pd e dintorni. Come l'avvio di Youdem, la tv di partito voluta da Veltroni. Un convegno dei Democratici di Parisi. Questo silenzio riflette, forse, una certa voglia di rimozione. Alimentata, in primo luogo, dal risultato elettorale dello scorso aprile.

Se le primarie sono nel codice genetico del Pd, la sconfitta ne ha, in qualche misura, ridimensionato il ruolo. Il divario tra la partecipazione di un anno fa e l'ampiezza della sconfitta elettorale ha generato grande delusione. Da ciò una certa, magari inconfessata, voglia di dimenticare. La sconfitta e i suoi precedenti. La tentazione di esorcizzare la delusione per il risultato elettorale rimuovendo - dimenticando - l'illusione prodotta dalle primarie.

Tuttavia immaginare una vittoria, alle elezioni di aprile, era velleitario, visto il grado di sfiducia sociale verso il governo e il centrosinistra. Per cui la disattenzione intorno alle primarie ha altri motivi.

Riflette, in parte, la difficoltà di realizzare il progetto implicito nelle primarie. La costruzione di un partito aperto al confronto con la società, in grado di favorire la formazione e il rinnovamento della classe dirigente. Le primarie come indicazione di metodo. Come marchio di un nuovo modello di partito e di democrazia. Non possiamo dire che abbiano prodotto i risultati attesi.

Il Pd resta un progetto incompiuto.

Le primarie non sono diventate un metodo di selezione generale e generalizzato. Fin qui, a livello nazionale, sono state usate solo per dare investitura popolare a scelte già fatte dai gruppi dirigenti (Prodi, prima; quindi Veltroni). L'assemblea costituente, eletta un anno fa, d'altronde, si è riunita un paio di volte e sembra già aver concluso la sua missione.

Le primarie, invece, non sono state usate per scegliere i candidati alle politiche. Né il sindaco a Roma. A causa dei tempi troppo ravvicinati, si è detto. Un problema reale. Che, però, sembra essere stato accolto con sollievo nei gruppi dirigenti, preoccupati dall'emergere di qualche sorpresa, per definizione sgradita. In generale, a livello centrale e locale, negli organismi e fra gli eletti del Pd alle cariche più importanti prevalgono sempre i soliti noti. I leader dei partiti da cui originano: Ds e Margherita. Che, spesso, operano distintamente, come due entità specifiche (come ha rilevato una ricerca sul cambiamento dell'organizzazione dei "nuovi" partiti a livello territoriale condotta da Terenzio Fava, dell'Università di Urbino). La distribuzione degli incarichi avviene, inoltre, in base ad appartenenze "partigiane" (e di corrente: d'alemiani, rutelliani, popolari, veltroniani...).

Per cui, le primarie tendono a diventare un problema, perché complicano i rapporti di forza fra ex-partiti, correnti, leader. A livello centrale e locale. Soprattutto se non è possibile controllarne l'esito. Se possono dare, cioè, esiti imprevisti. E quindi sgraditi ai gruppi dirigenti. Come abbiamo osservato altre volte: Obama, mito e bandiera dei democratici italiani, in Italia non riuscirebbe mai a imporsi. A emergere. Troppo giovane: neppure cinquant'anni! Fuori dai giri che contano, controllati da Clinton. E poi, negli Usa (e non solo), difficile imporsi con quella carnagione scura...

Insomma, non è "previsto". In Italia, al massimo l'avrebbero nominato a rappresentare i diritti degli immigrati, in qualche amministrazione comunale; al massimo, in qualche commissione governativa. Anche coloro che parlano di "sfiduciare" Veltroni, d'altronde, pensano di rimpiazzarlo con qualcun altro dei "soliti noti". Per cooptazione o congiura. Sancita - ma solo dopo - dal voto popolare. Il che delinea un modello di democrazia poco democratico.

Un esito contradditorio e un poco ironico, visto che il progetto da cui originano l'Ulivo, il Pd e le primarie mira all'esatto contrario. Porre limiti a questa democrazia personalizzata e al tempo stesso impersonale. Impostata su partiti "senza società". Centralizzati, identificati nel leader. Le cerchie dirigenti scelte in base a criteri di fedeltà e di immagine. Una democrazia in cui la mediazione con la società è svolta dai media.

La televisione, in primo luogo. Dove il contatto con la "gente" avviene attraverso episodici e oceanici bagni di folla, manifestazioni di piazza. Si tratta di un format inventato e imposto da Silvio Berlusconi, che ha adattato e ridisegnato, a modo suo, tendenze presenti - spesso dominanti - in tutto l'Occidente (e non solo). Il filosofo francese Bernard Manin le ha riassunte nella formula della "democrazia del pubblico". Lo stesso Sarkozy ne ha imitato molti tratti. Alcuni commentatori hanno parlato per questo di "berluskozysmo". Il Pd è nato per contrastarlo sul suo terreno. Ma non sembra esservi riuscito. In particolare, non pare essere capace di opporsi alla deriva della democrazia che esclude gli elettori da ogni scelta relativa a chi dovrebbe rappresentarli. Una democrazia "rappresentativa" solo a parole, perché i rappresentanti li decide l'oligarchia che comanda. E che, con queste regole e con questi partiti, comanderà per sempre. Visto che la legge elettorale, alle politiche, non prevede il voto di preferenza.

E la dimensione delle circoscrizioni impedisce un rapporto diretto con gli eletti (che invece era possibile nel maggioritario di collegio). Visto che, inoltre, si sta preparando una legge con caratteristiche analoghe anche per le elezioni europee. Con soglia di sbarramento elevata e abolizione delle preferenze. Per impedire qualche imprevisto. Qualche lista sgradita. O peggio: qualche candidato non deciso a livello nazionale. Ormai, solo nelle elezioni amministrative (comunali, provinciali, regionali) la responsabilità degli eletti e degli elettori è chiara. Ma è probabile che, presto, si troverà rimedio anche a queste anomalie. Il Pd, al di là della buona volontà, non pare capace di opporsi a questa partitocrazia senza società. A questa democrazia che limita il potere del cittadino a un esercizio che si svolge - e si esaurisce - una volta ogni tot anni. Quando l'elettore mette una croce su una scheda. E tutto finisce lì. Fino alla prossima.

Per questo l'anniversario delle primarie avrebbe potuto essere una buona occasione. Per ricordare - per non dimenticare. Ciò che il Pd dovrebbe diventare. Ma che ancora non è - e non sappiamo se mai diventerà. Per ricordare - per non dimenticare. Ciò che rischia di diventare la nostra democrazia. Fondata su partiti chiusi - alla società e alla "circolazione delle élites" (per citare Pareto). Una democrazia povera, per pochi intimi.

Avrebbe potuto essere, ma non lo è stato, un'occasione per ricordare. Questo anniversario finito come è cominciato. Nell'indifferenza.

(14 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Chiamatemi Barone
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 11:28:02 pm
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 Chiamatemi Barone


Ilvo Diamanti


Chiamatemi Barone. L'ho detto anche mia moglie, ieri sera, dopo aver sentito ripetere questa definizione almeno una decina di volte, in tivù, nei salotti dove si discute delle sorti dell'umanità. Da Vespa e da Mentana. Da Floris e da Santoro. Ospiti: la variegata tribù di lotta e di governo, che si affolla intorno e dentro l'Università. Studenti pro e contro, manifestanti di sinistra e di destra, agitatori e agitati, rumoreggianti e silenziosi. Occupanti e occupati. Poi, filo-ministeriali e oppositori democratici. Infine, professori.

Pardon: "baroni". Perché ormai è dato per scontato: i professori universitari sono "baroni". Tutti. Reclutati in base a criteri clientelari, attraverso concorsi-truffa, che a loro volta provvedono, puntualmente, a riprodurre. Reclutando, a loro volta, ricercatori e professori in base a logiche di fedeltà. Schiavi e servi della gleba, che, dopo secoli di precarietà, un contratto oggi, una borsa domani, un dottorato e un post-dottorato dopodomani, giungono, alla fine, stremati, all'auspicato posto fisso. Per fare i ricercatori fino a diventare professori. Naturalmente "per anzianità" (così si dice). Senza rispetto per il merito e per la produzione scientifica, didattica e organizzativa. "Baroni", appunto. I veri colpevoli del dissesto dell'Università italiana. Del degrado del sapere nazionale.

Dell'ignoranza che regna fra i giovani. E, anzitutto, del disastro finanziario. Del deficit crescente di risorse. Provocato non tanto dai tagli di questo governo e da quelli precedenti, ma da loro (da noi): i baroni. Che prendono lo stipendio senza fare nulla. (Soggiogateli ai tornelli!). Incapaci di gestire le università. Colpevoli della moltiplicazione dei corsi e delle sedi, dovunque. Le università telematiche e quelle tascabili, fuori porta. Che promettono e permettono la conquista del titolo di dottore a tutti. Giornalisti, carabinieri, poliziotti, infermieri. Volontari e involontari. Perfino i politici. Beneficiati da un monte-crediti formativi tale da permettere loro di laurearsi in pochi mesi, con pochi esami. Dottori in Scienze della futilità. Questi "baroni": fannulloni, perfidi e manovratori. Capaci di manipolare gli studenti. Di farli scendere in piazza insieme a loro, per loro, con loro. Invece che "contro" di loro.

Tutti baroni. Tutti. Inutile eccepire ... Inutile osservare che tu, io, lui, noi - alcuni, magari molti - lavoriamo e insegniamo in modo assiduo e regolare, facciamo ricerca, pubblichiamo libri e saggi, perfino su riviste internazionali (un'aggravante: dove troviamo il tempo per fare tutte queste cose? Per scrivere e per studiare? Partecipare a convegni in Italia e addirittura all'estero?). Per sostenere le nostre attività, cerchiamo - e qualche volta troviamo - finanziamenti. Non solo pubblici: perfino privati. Le eccezioni non contano.

Sono conferme alla regola. Inutile osservare che se ci fosse un sistema di reclutamento e di valutazione universalista, criteri di finanziamento fondati su parametri "misurabili" di qualità e quantità ... Inutile. Perché tutto ciò non c'è. E se non c'è, inutile prendersela con il legislatore. La colpa è dei "baroni". D'altronde, quanti baroni infiltrati in Parlamento e perfino nel governo... Insomma, è inutile entrare nel merito, precisare. Quando da "professori" si diventa "baroni" le distinzioni cessano di avere rilievo e significato. Suggerirle, evidenziarle: è perfino fastidioso. Perché possiamo differenziare i professori, i quali possono essere bravi, capaci, laboriosi, prestigiosi, oppure fancazzisti, ignoranti peggio degli studenti, arroganti, fannulloni nullafacenti e nullapensanti.

Ma i "baroni" no. Perché traducono fenomenicamente una categoria sostanziale: la "baronità". Per cui i baroni sono i signori oscuri di una terra oscura. Avvolta nelle nebbie. Anche la semantica, d'altronde, condanna e stigmatizza la categoria. Ridotta a una variante della "casta". Definizione usata, fino a qualche mese fa, per catalogare (e insultare) i politici. Ora, invece, lo stesso termine è applicato con analogo disprezzo, ai professori dell'università. La casta dei baroni. Titolari di privilegi ereditati ed ereditari. Dotati di un potere arbitrario. Un ceto "nobiliare", appunto.

L'ho rammentato a mia moglie, come scrivevo all'inizio di questa "bussola" un po' scombussolata. Da oggi io sono un Barone.
E lei, di conseguenza, una Baronessa. Intanto, i Baronetti - ignari di essere divenuti tali - se ne stavano nelle loro stanze, intenti a studiare.

Chissà che invidia il Presidente del Consiglio. Lui, con i suoi successi, riconosciuti da tutti: soltanto Cavaliere.

(31 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il '68 è finito andate in pace
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2008, 11:44:13 am
SCUOLA & GIOVANI    MAPPE

Il '68 è finito andate in pace

di ILVO DIAMANTI


E' raro che un anniversario acquisti tanta forza quanto, quest'anno, il Sessantotto. Evocato, di continuo, grazie alle - e a causa delle - manifestazioni degli studenti universitari contro le politiche del governo.

In particolare, contro la ministra Mariastella Gelmini, il cui decreto, in effetti, c'entra poco con l'università. Tuttavia, la scuola e soprattutto l'università stanno al crocevia delle esperienze e delle attese dei giovani. Riflettono e acuiscono un disagio che ha ragioni lontane. E' comprensibile, anche per questo, la tentazione di cercare i segni di una storia che si ripete. Quarant'anni dopo. Anche se, a nostro avviso, si tratta di periodi difficili da comparare. Anzitutto, per il contesto sociale e globale che li caratterizza.

Quarant'anni fa la contestazione studentesca giungeva in Italia per contagio internazionale. Dopo avere infiammato molte importanti piazze e università. Citiamo, per tutte, le rivolte nei campus universitari USA e il maggio parigino. Il Sessantotto, in altri termini, fu un passaggio d'epoca internazionale, trainato da movimenti che attraversavano società, economia, religione, cultura e politica. Nelle scuole e tra i giovani, però, quella fase assunse un senso specifico. Marcò, infatti, la frattura generazionale tra figli e genitori.

Dove i genitori - insieme ai professori, ai politici, agli imprenditori (allora definiti, non a caso, "padroni"), alle gerarchie della Chiesa - evocavano l'autorità. E venivano, come tali, contestati. Perché il 1968 è, anzitutto, una rivoluzione antiautoritaria, che ridisegna i ruoli e i rapporti sociali: in famiglia, a scuola, nel lavoro, nella politica. E innova profondamente i riferimenti etici e di valore, gli stili di vita, i costumi sessuali.

Gli avvenimenti di questa fase hanno un carattere molto diverso. Si verificano in un contesto globale di implosione finanziaria ed economica. In Occidente e in Europa non si scorgono grandi movimenti di protesta. Prevale, invece, un'insicurezza diffusa, da cui si irradiano spinte populiste e domande d'ordine. Quanto alla mobilitazione degli studenti in Italia, avviene in uno scenario molto diverso. I professori: 40 anni fa stavano dall'altra parte della barricata. Oggi, sono vicini a loro. Ma sarebbe sbagliato parlare di "complicità", come denuncia la destra.

Le rivendicazioni di questa fase hanno un'impronta prevalentemente "difensiva". Ciascuno rema per proprio conto. I docenti: protestano contro la marginalizzazione della propria categoria e della scuola. Gli studenti e i giovani, invece, manifestano contro il furto del futuro. Dovrebbero prendersela "anche" con i professori (e con i genitori). Ma il governo e questa maggioranza offrono un buon bersaglio polemico. E per loro è prioritario manifestare la propria esistenza, anche se "contro"; per sfidare la propria condizione di generazione perdente e invisibile.

Il richiamo al Sessantotto, quindi, pare poco fondato. Se risuona di frequente è per iniziativa degli attori politici, in base a ragioni legate al presente.
Guarda al Sessantotto l'opposizione di sinistra riformista e radicale. Per nostalgia. Ma soprattutto nella speranza che le proteste studentesche si trasformino, come allora, in movimento. Che il movimento eroda il consenso del governo. Che incrini l'immagine del Cavaliere invincibile. Che restituisca alla sinistra, spaesata, la base sociale perduta.

Questo Sessantottismo minimalista si scontra con un Antisessantottismo ben più ambizioso e consapevole, espresso dalla destra al governo. Ben più determinata della sinistra a fare i conti con l'eredità di quella stagione. Lo ha chiarito bene la ministra Gelmini, subito dopo l'approvazione del decreto: "Si torna alla scuola della serietà, del merito e dell'educazione". Dando, quindi, per scontato che oggi nella scuola non vi siano serietà, merito ed educazione, la ministra riporta il calendario indietro di quarant'anni. E riafferma i valori della tradizione. Scanditi dai provvedimenti - altamente simbolici - assunti nei mesi scorsi.

Il voto in condotta: la disciplina. Gli esami di riparazione, il ritorno dei voti: la selezione e il merito. I grembiulini, il maestro unico: l'autorità.
La volontà di fare i conti con il Sessantotto è espressa, senza perifrasi, anche dal ministro Maurizio Sacconi (intervistato da Vittorio Zincone, sul Magazine del Corriere della Sera): "Il sessantottismo è il male oscuro, il cancro di questo Paese". Una metastasi prodotta "dall'Università corporativa figlia della sinistra degli anni Settanta".

Parallelamente, l'Antisessantottismo investe altri puntelli dell'identità di sinistra. Il sindacato unitario e in particolare la Cgil. Valori come la solidarietà e l'egualitarismo. Per contro, aderisce al discorso etico elaborato e predicato dalla Chiesa di Benedetto XVI, teso a marcare i confini della verità definiti dalla fede cattolica. A papa Ratzinger, non a caso, si ispirano molti esponenti politici e culturali della destra (anche se non solo). Cattolici e laici. Atei devoti e credenti disciplinati.

Ma il nucleo dell'Antisessantottismo coincide con il ritorno dell'autorità, delle istituzioni e delle figure che lo interpretano. Da ciò la polemica contro i professori, i maestri e, in fondo, i genitori (sessantottini). Incapaci di comportarsi davvero da padri, maestri e genitori. Simboli dell'antiautoritarismo da sconfiggere.
Non si tratta, peraltro, di un discorso nuovo. In Inghilterra, Tony Blair, alcuni anni fa, si espresse apertamente contro l'eredità sociale e culturale del Sessantotto.

In Francia, un anno e mezzo fa, Sarkozy, appena eletto, impostò il suo piano di riforme proprio sulla scuola. Il ritorno all'autorità perduta venne, simbolicamente, sottolineato dall'obbligo imposto agli studenti di alzarsi all'ingresso degli insegnanti.
Tuttavia, in Italia, questa polemica oggi appare strumentale. Non c'è partita fra le due diverse letture, perché il Sessantottismo è appassito, insieme ai suoi miti e ai suoi eroi. Si pensi al sindacato, diviso, il cui consenso è sceso a livelli minimi fra gli operai. E resiste solo fra i pensionati. Si pensi al solidarismo e all'egualitarismo: parole indicibili. Si pensi al disincanto dei genitori e dei professori. Loro, i primi a sentirsi sconfitti.

Mentre il ritorno dell'autorità - di ogni autorità - è ostacolato non da ideologie e da teologie della liberazione, ma, anzitutto, dalla scomposizione corporativa della società, frammentata in mille interessi organizzati, chiusi, gelosi e irriducibili. Si pensi alla rivoluzione dei costumi e della morale sessuale, oggi presidiati dal consumismo e dal "velinismo di massa" diffuso dai media. In particolare dalle tivù del Cavaliere.

Gli studenti che manifestano nelle scuole e nelle università, dunque, non debbono preoccuparsi troppo del Sessantotto. Semmai, del Sessantottismo e - ancor più - dell'Antisessantottismo. Conviene loro, per questo, marciare da soli. Liberarsi di padri, maestri e professori. Ma anche di coloro che li esortano a liberarsi di padri, maestri e professori. E cerchino di guardare avanti. Il loro futuro - incerto - non è quarant'anni fa.

(2 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI. Politica non cerca la selezione in Italia vince la via dinastica
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 10:44:09 pm
L'ANALISI

La politica non cerca la selezione in Italia vince la via dinastica

di ILVO DIAMANTI


IL SOGNO americano, interpretato da Obama, a molti italiani evoca, soprattutto, la possibilità e la capacità di cambiare. Perché Barack Obama è giovane e di colore. Parte di una minoranza, fino ad oggi esclusa dal potere. In più: non ha alle spalle una carriera politica lunga. Non fa parte delle oligarchie familiari che contano, fra i repubblicani e i democratici. La voglia di cambiare, cioè, ha spinto una grande quota di cittadini americani - anche "bianchi" - a scegliere (in larga maggioranza) un presidente meno condizionato da interessi ed eredità sociali, generazionali, familiari. Evidente la frattura rispetto all'Italia.
D'altronde, in nessun altro luogo in Europa l'incapacità di cambiare e di innovare la classe dirigente è altrettanto evidente che in Italia.

In Spagna: in trent'anni di democrazia si sono succedute quattro leadership. In Francia, nel corso della V Repubblica, si è passati dal gollismo al mitterrandismo fino al sarkozysmo. Il cui interprete, Nicolas Sarkozy, non proviene dalle Grandes Ecoles; ed è, inoltre, di origine straniera (ungherese, per la precisione).

Ma lo stesso vale per la Germania (passata, in vent'anni, da Kohl a Schroeder fino ad Angela Merkel) e per l'Inghilterra (dalla Thatcher a Mayor; e da Blair a Gordon Brown). Nell'Italia repubblicana, invece, i cambiamenti sono avvenuti in modo sporadico, per strappi e rivoluzioni. La generazione politica che ha costruito la democrazia e ricostruito l'economia e la società italiana era, prevalentemente, "giovane" all'indomani della guerra, nella fase costituente. Un po' meno, cinquant'anni dopo, quando, in buona parte, guidava ancora il sistema politico e le istituzioni.

Il Sessantotto, in realtà, non ha prodotto fratture determinanti nella classe dirigente dei partiti maggiori. Neppure a sinistra. Ne ha, semmai, accelerato la crisi. Perché si verificasse un cambiamento profondo si è dovuto attendere la fine della Prima Repubblica, nei primi anni Novanta. Appunto: una "rivoluzione". La caduta del "nostro" muro. Tuttavia, dal punto di vista dei soggetti politici e della leadership, le novità più rilevanti sono emerse a Destra. O, comunque, da settori antipolitici. Dalla Lega, anzitutto, la quale ha favorito l'accesso nel sistema politico e di governo di categorie divenute periferiche nei partiti di massa. Operai e lavoratori autonomi, giovani, "dilettanti" politici.

In seguito, l'ha affiancata e sovrastata Silvio Berlusconi, che, con il suo "partito personale", ha occupato lo spazio lasciato vuoto dai partiti di governo. Berlusconi e Bossi: entrambi del Nord, entrambi "padroni" del loro partito, entrambi "nuovi" per linguaggio e stile di leadership. Politici impolitici e populisti. Maestri della personalizzazione: territoriale oppure mediatica. A sinistra, l'affermazione di Romano Prodi e dell'Ulivo è stata favorita dalla debolezza dei partiti tradizionali. Sopravvissuti allo sfascio del sistema. Ma sradicati dal punto di vista sociale e del territorio. E zavorrati dall'eredità politica del passato. Più che imporsi, Prodi è apparso, allora, una reazione difensiva alla sfida di Berlusconi.

Quindici anni dopo, siamo sprofondati in un "regime oligarchico e personalizzato", che non lascia spazio al rinnovamento. A destra, Berlusconi e Bossi sono saldamente in sella ai loro partiti. Intorno al Cavaliere: esperti, consulenti di fiducia, amici e amiche. Un modello "cortigiano". In cui la successione può avvenire solo per via dinastica. Il più tardi possibile, visto che il Sovrano prevede di mantenere lo scettro oltre il secolo di vita. A sinistra, Prodi è stato sostituito, alla guida, dai "ragazzi" della Figc e del Movimento Giovanile Dc degli anni 70 e 80. Le primarie hanno plebiscitato prima Prodi e poi Veltroni, senza vera competizione. Mentre a livello territoriale appaiono, molto spesso, regolate dal centro. Il loro esito: predeterminato. Insomma: non appaiono ambienti di lotta per la vita. Di selezione darwiniana. Dove possano emergere i migliori; in grado, per affermarsi, di "uccidere" padri e maestri.

Anche l'esperienza dei sindaci che, nei primi anni '90, aveva promosso un significativo rinnovamento della classe politica non ha trovato sbocchi in ambito nazionale (salvo che per i sindaci di Roma) ed è stato "normalizzato" in periferia.

Tutto ciò, d'altronde, riflette un vizio nazionale, che, negli anni, è degenerato. Siamo una società familista e vecchia. Vecchia e familista. E, inoltre, corporativa e localista. Immobile e chiusa. La politica, in fondo, ne riproduce ed enfatizza i limiti, come un gioco di specchi. Un paese previdente si attrezzerebbe per superare in fretta questo problema, che sta producendo effetti devastanti.

Penserebbe, ad esempio, a favorire l'accesso nella politica e nelle istituzioni delle componenti "nuove"; delle "minoranze". Applicherebbe seriamente le quote "rosa", riservate alle donne. Ma introdurrebbe anche le quote "verdi", riservate ai giovani con meno di 35 anni. Abbasserebbe l'età del voto a 16 anni, anche alle politiche. E allargherebbe agli immigrati regolari il diritto di voto, alle amministrative e non solo. (Da noi, l'abbiamo già detto, Obama potrebbe, al massimo, ambire all'incarico di mediatore interculturale in qualche amministrazione di sinistra). Tuttavia, l'interesse comune contrasta con quello particolare. L'investimento nel futuro, anche immediato, è frenato dalle resistenze del passato. Per cui è difficile immaginare grandi mutamenti, senza nuovi strappi.

Come nel '45, nel '68 e nel '92. Senza rivoluzioni, senza fratture e "ribellioni" è difficile che le donne e - a maggior ragione - i giovani divengano protagonisti. Per questo guardiamo con interesse alle mobilitazioni studentesche di queste settimane. Al là degli obiettivi espliciti, possono diventare occasioni importanti di "formazione politica". Esperienze utili all'affermazione di nuovi leader. Tuttavia, questi giovani, questi studenti, difficilmente riusciranno a diventare una "generazione politica" con il permesso e la compiacenza dei genitori e dei professori.

(13 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se riesplode la guerra mediatica
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2008, 10:10:20 am
IL COMMENTO

Se riesplode la guerra mediatica

di ILVO DIAMANTI


NON finisce mai la guerra politica intorno allo spazio radiotelevisivo, ma, in particolare, intorno alle tivù. L'elezione del senatore Villari, del Pd, alla presidenza della Commissione di vigilanza della Rai, con i voti del centrodestra (e qualcuno in più) ne è solo l'ultimo atto. Tuttavia, è da qualche settimana che si colgono segni di nervosismo, intorno alla tivù. Soprattutto da parte del centrodestra e, anzitutto, del Presidente del Consiglio. Il quale è intervenuto, in diverse occasioni, perlopiù durante i suoi viaggi all'estero (d'altronde, è sempre in viaggio), per esprimere il suo disappunto sull'informazione televisiva.

Nello specifico: sulla Rai. Accusata di proporre l'immagine di un paese in rivolta. Strade e piazze affollate dalle proteste di studenti, genitori e professori. Scuole e Università in assemblea permanente. Ha recriminato, ancora, Berlusconi contro la satira che lo bersaglia ogni sera in tivù. Gli hanno fatto eco alleati fedeli. Il ministro Bondi ha gridato la sua indignazione contro una trasmissione satirica di tarda serata (Glob, condotta da Bertolino). Inoltre, Marcello Dell'Utri, amico e collaboratore di sempre, ha ironizzato - e polemizzato - sulla tivù ansiogena, che affida la lettura delle informazioni a giornaliste dark. Critiche politiche, etiche, estetiche. Troppe, in poche settimane, per non far pensare che la ricreazione è finita. Pareva, Berlusconi, aver allentato il morso sulla tivù (di Stato), dopo le elezioni dello scorso aprile. A differenza del 2001, quando, all'indomani del voto, si occupò presto della Rai.

Accelerò le nomine indicando, da subito, le figure sgradite. Biagi, Luttazzi e Santoro. Forse il Cavaliere, questa volta, dopo aver conquistato un successo tanto largo e una maggioranza parlamentare tanto netta, ha accarezzato davvero l'idea di assumere un atteggiamento più "liberale" verso l'informazione Rai. Che, d'altronde, non ha certo assunto un atteggiamento "militante" e antagonista, nei suoi confronti. Semmai, si è fatta più prudente, come normalmente avviene quando i giornalisti si sentono "di passaggio". Questa "pazza idea", però, sembra svanita in fretta. Dissolta, nell'ultimo mese, dal ritorno del "Cavaliere mediatico" - occhiuto e polemico - che abbiamo imparato a conoscere in questi anni. Spinto da diversi motivi.

1. Anzitutto, i sondaggi hanno rilevato un calo del consenso: suo personale e del governo. A causa di alcuni provvedimenti, che hanno sollevato polemiche e proteste. In primo luogo, come abbiamo detto, la mobilitazione di studenti e genitori, maestri e professori contro i decreti sulla scuola e sull'Università. Poi, il persistere e l'acutizzarsi della crisi economica e finanziaria. E gli effetti che sta producendo sulla vita quotidiana: dal punto di vista dei redditi, del risparmio, dei consumi. Nell'insieme, hanno spezzato lo "stato di grazia" che aveva permesso al governo di giungere fino a ieri "nonostante" la delusione. Non che la popolarità di Berlusconi e del suo governo abbiano subito un crollo. Ma si è ridimensionata. E, soprattutto, ha mostrato di non essere immune alla rappresentazione infinita sui media del malessere sociale.

2. Tuttavia, il timore di Berlusconi più che dal passato recente è dettato dal futuro prossimo. Dalla crisi economica che incombe. Dalla consapevolezza che, nei prossimi anni, i tagli della spesa pubblica continueranno; che la pressione fiscale non calerà. Preoccupa, Berlusconi, l'idea che la recessione divenga un genere televisivo, come nel passato recente la violenza nella vita quotidiana. Che comprometta la sua immagine di Grande Rassicuratore. Di Cavaliere Vincitore e Invincibile.

3. Tuttavia, le preoccupazioni di Berlusconi si rivolgono anche all'interno della sua coalizione. Il malessere sociale, amplificato dai media, alimenta, infatti, il clima antipolitico e le tensioni territoriali. E rafforza il partito antipolitico e territoriale per definizione. La Lega, stimata, oggi, sopra il 10% e nel Nord oltre il 20% (intorno al 30% in Lombardia e ancor di più in Veneto). Il che spinge il Pdl a centrosud. Nell'area della crisi. Si aggiunga che, in questa fase di "fondazione" unitaria, le tensioni attraversano lo stesso Pdl. An, infatti, cerca di far valere il suo radicamento territoriale per pesare di più, nei futuri assetti del partito. Inevitabile, per Berlusconi, rispondere all'organizzazione con la televisione.

4. I problemi di Berlusconi sono, peraltro, comuni anche al centrosinistra. La "comunicazione ansiogena" e "l'antagonismo e l'antiberlusconismo come spettacolo" hanno, infatti, avvantaggiato soprattutto l'Idv (stimata dai sondaggi intorno al 9%). Ma anche Michele Santoro, il cui programma ha raggiunto livelli di audience elevatissimi. Non a caso Santoro e Di Pietro costituirebbero, secondo alcuni, l'unica vera opposizione in Italia.

5. Anche il Pd, come il Pdl, è attraversato da tensioni interne. Tra fazioni e frazioni. Che mirano a consolidare oppure a scardinare definitivamente la leadership di Veltroni. La vicenda della "commissione di vigilanza", in fondo, costituisce un atto di sfiducia nei suoi confronti espresso anche dall'interno del Pd, visto che Villari non è stato votato solo dal centrodestra.

La tivù è tornata, dunque, il "campo di battaglia" privilegiato dalla politica e dai politici. Di entrambe le parti. Con un duplice rischio. A) Lo svuotamento della politica e dei suoi attori, sempre più distanti dalla società e dal territorio. B) Reciprocamente, la definitiva trasformazione del ruolo dei media e dei giornalisti: da mediatori ad attori politici. La rappresentanza politica tradotta in rappresentazione, guidata e interpretata da Vespa, Floris, Mentana e Santoro. O come imitazione. Crozza, Guzzanti, Cortellesi e Marcoré. Al tempo stesso, governo e opposizione.

Il Pd, Di Pietro, i Radicali e quanti contestano il rapporto mimetico e complice fra media e politica, fra i partiti e la Rai, per essere credibili, non dovrebbero spingere alle dimissioni Villari, per mettere qualcun altro al posto suo. Ma semplicemente andarsene dalla "Commissione di Vigilanza". Organo non di controllo, ma di spartizione.


(16 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Come si fabbrica l'insicurezza.
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2008, 11:43:42 am
MAPPE

Come si fabbrica l'insicurezza

di ILVIO DIAMANTI


SONO passati un anno, dodici mesi appena, ma l'Italia sembra un'altra. Meno impaurita e meno insicura. Infatti, l'inverno è vicino, ma il clima d'opinione registra un disgelo emotivo evidente. Come testimonia il 2° rapporto - curato da Demos e dall'Osservatorio di Pavia per Unipolis sulla rappresentazione della sicurezza - nella percezione sociale e nei media. Pochi dati, al proposito (d'altronde, ieri Repubblica gli ha dedicato molto spazio).

Nell'ultimo anno, si è ridotta sensibilmente la percezione della minaccia prodotta dalla criminalità a livello nazionale e soprattutto nel contesto locale. E' calato in modo rilevante anche il timore dei cittadini di cadere vittima di reati. Da un recentissimo sondaggio di Demos (concluso venerdì scorso) emerge, inoltre, che il problema più urgente per il 31% degli italiani (se ne potevano scegliere due) è la criminalità comune.

Un anno fa era il 40%. Mentre il 21% indica l'immigrazione: 5 punti meno di un anno fa. Gli immigrati, peraltro, sono considerati "un pericolo per la sicurezza" dal 36% degli italiani: quasi 15 punti percentuali meno di un anno fa e 8 rispetto allo scorso maggio. Il legame fra criminalità comune, sicurezza e immigrazione che, negli ultimi anni, è apparso inscindibile, agli occhi dei cittadini, oggi sembra essersi allentato. Cosa è successo in quest'ultimo anno, in questi ultimi mesi di così importante, significativo e profondo da aver scongelato il clima d'opinione? L'andamento dei reati, in effetti, rileva un declino che, peraltro, era cominciato a metà del 2007. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, si è sviluppato senza variazioni tali da giustificare mutamenti di umore tanto violenti.

Invece, l'immigrazione è cresciuta in misura molto rilevante, come segnalano le principali fonti, dal Ministero dell'interno alla Caritas. Gli sbarchi di clandestini sono anch'essi aumentati. Quasi raddoppiati. Non sono i fatti ad aver cambiato le opinioni. Al contrario: le opinioni si sono separate dai fatti. Per effetto di un complesso di fattori. D'altronde, il clima d'opinione riflette una pluralità di motivi, spesso non prevedibili e, comunque, non controllabili.

In questa fase, in particolare, la crisi economica e finanziaria ha spostato il centro delle paure e delle preoccupazioni dei cittadini. Non solo in Italia: anche negli Usa, prima del collasso delle borse, la campagna delle presidenziali era concentrata sull'immigrazione. Poi tutto è cambiato, con grande beneficio per Obama. Tuttavia, la preoccupazione economica, in Italia, è da tempo molto alta. Destinata a deteriorarsi ancora.

Nell'ultimo anno, però, non è peggiorata. Era già pessima. Il profilo delle "persone spaventate" presenta alcuni tratti particolari, utili a chiarire l'origine di questo collasso emotivo. Due fra gli altri: guardano la tivù per oltre 4 ore al giorno e sono vicine al centrodestra; nel Nord, alla Lega.

L'analisi dell'Osservatorio di Pavia sulla programmazione dei tg di prima serata, peraltro, rileva una forte crescita di notizie sulla criminalità comune nell'autunno di un anno fa e un successivo declino - particolarmente rapido dopo maggio. Peraltro, il peso delle notizie "ansiogene" è nettamente più elevato sulle reti Mediaset, ma soprattutto su Studio Aperto e Canale 5.

Seguiti, per trascinamento, dal Tg 1, il più popolare e autorevole presso il pubblico. Il sondaggio di Demos osserva come l'insicurezza sia molto più alta fra le persone che frequentano prevalentemente le reti e i notiziari Mediaset. Ciò suggerisce che i cicli dell'insicurezza siano favoriti e scoraggiati, in qualche misura, dal circuito fra media e politica. D'altra parte, la sicurezza, l'immigrazione e la criminalità comune sono temi "sensibili" negli orientamenti degli elettori.

"Spostano" i voti degli incerti. Rendono incerti molti cittadini certi. Peraltro, come abbiamo già visto, il tema della sicurezza non è politicamente "neutrale". La maggioranza degli elettori (anche a centrosinistra) ritiene la destra più adatta ad affrontare questi problemi - trasformati in emergenze (Indagine Demos, luglio 2007).

Così, per creare un clima d'opinione favorevole, al centrodestra basta sollevare il tema della sicurezza. Cogliere e rilanciare episodi e argomenti che alimentano l'insicurezza sociale. Farli rimbalzare sui media. Il che avviene senza troppe difficoltà. Non solo perché il suo Cavaliere ha una notevole conoscenza del settore, sul quale esercita un certo grado di influenza. Ma perché la paura è attraente. Fa spettacolo e audience. E perché, inoltre, in campagna elettorale, la tivù costituisce la principale arena di lotta politica, su cui si concentrano l'attenzione dei partiti e la presenza dei leader.

Così, l'insicurezza cresce insieme ai consensi per il centrodestra. Senza che il centrosinistra riesca a opporre una resistenza adeguata. Frenato da divisioni interne, particolarismi e personalismi che non gli permettono di proporre e imporre un solo tema capace di spostare a proprio favore il consenso. Il lavoro, i prezzi, le tasse, l'etica: nel centrosinistra c'è la gara a distinguersi e a smarcarsi. Tutti contro tutti.

La recente campagna elettorale di Veltroni, irenica, tutta protesa a marcare la distanza dal passato (Prodi), non ha scalfito l'insicurezza del presente.
La morsa della sfiducia e dell'insicurezza si è allentata solo dopo le elezioni politiche e le amministrative di Roma. Non a caso. Il risultato, senza equivoci, non lascia scampo alle speranze dell'opposizione: resterà opposizione a lungo. Così, la campagna elettorale, dopo anni e anni, finisce. E il centrodestra si dedica a controllare, in fretta, il clima di insicurezza che aveva contribuito ad alimentare negli anni precedenti.

Propone e approva provvedimenti ad alto valore simbolico: l'impiego dei militari contro la criminalità, l'aumento di vincoli e controlli all'immigrazione. La liberalizzazione delle polizie e delle milizie locali, padane, private. Gli stessi episodi di razzismo hanno prodotto la condanna "pubblica" dell'intolleranza, con l'effetto di inibirne, in qualche misura, il sentimento.

In quanto gli stranieri, percepiti perlopiù come "colpevoli" di reati e violenze, ne diventano "vittime".
Così gli immigrati continuano a fluire, i clandestini a sbarcare e il numero dei reati non cambia, ma l'attenzione dell'opinione pubblica e dei media nei loro confronti si ridimensiona. La paura declina. Un po' come avvenne nel periodo fra il 1999 e il 2001. Anche allora criminalità e immigrazione divennero priorità nell'agenda delle emergenze degli italiani.

Spaventati da aggressioni e rapine a orefici e tabaccai; dall'invasione degli stranieri. Che conquistavano i titoli dei quotidiani e dei tg. Poi, l'inquietudine si chetò. Sopita dall'attacco alle Torri Gemelle e dalla vittoria elettorale di Berlusconi. Capace, come nessun altro, di navigare sulle acque dell'Opinione Pubblica. E di domare le tempeste che la turbano dopo averle evocate.

(23 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Crisi, consumi e futuro dei figli i nuovi incubi degli italiani
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2008, 09:48:06 am
ECONOMIA     

Crisi, consumi e futuro dei figli i nuovi incubi degli italiani

di ILVO DIAMANTI


La crisi si è abbattuta sugli italiani, trainata dalla tempesta che ha travolto le borse e, quindi, il sistema bancario e l'economia.
Eppure inattesa, nonostante la evocassero da tempo.

Ma gli italiani si sono adeguati in fretta, come mostra il sondaggio dell'Osservatorio sul capitale sociale di Demos-Coop. La crisi è divenuta un "dato", accettato e condiviso. Base e riferimento di una "Second Life" - vissuta realmente però e non sulla rete. Quattro italiani su dieci sostengono, infatti, che la recessione abbia creato loro nuovi problemi oppure aggravato quelli esistenti.

D'altra parte, i segni della crisi - raccolti dall'Osservatorio Demos-Coop - sono molti. I più evidenti e traumatici riguardano il lavoro e il reddito. Oltre una persona su dieci dichiara che, da un anno a questa parte, qualcuno, nella sua famiglia, ha perso il lavoro oppure è stato messo in CIG. Oltre metà degli intervistati, inoltre, lamenta perdite significative ai propri risparmi e ai propri investimenti.

Ai "costi" della crisi gli italiani hanno reagito modificando i comportamenti di consumo e gli stili di vita. Quasi metà di essi ha rinviato le spese più impegnative per la famiglia: casa, auto, elettrodomestici, arredamento. La stessa quota di persone che dichiara di aver ridotto i consumi domestici. Non solo la spesa per l'abbigliamento, anche quella alimentare.

Gli italiani, quindi, si sono già adeguati alla crisi adottando strategie di consumo selettive e di risparmio preventivo, che investono anzitutto il loro ambiente di vita. La loro casa, la loro famiglia. Anche se, parallelamente, la preoccupazione li spinge a rinchiudersi proprio in casa. Nella loro cerchia domestica. Infatti, molti di essi hanno diradato le uscite con amici e parenti, i pasti all'esterno. Hanno limitato le spese per i viaggi e il turismo. Gli italiani. Hanno limitato il perimetro dei loro movimenti e della loro vita sociale. D'altra parte, la crisi li ha resi più insofferenti e diffidenti. Nei confronti degli "altri" , anzitutto. Solo il 20% - o poco più - pensa che "gran parte della gente è degna di fiducia". Il resto - quasi 8 persone su 10 - teme, invece, di essere fregato. I problemi economici, però, hanno deteriorato il clima delle relazioni personali anche in famiglia, come ammettono 4 intervistati su 10.

Più che dal terrorismo (nonostante il sanguinoso raid di Mumbai) e più che dalla criminalità comune (che sembra non essere più un'emergenza sociale), dunque, gli italiani si sentono spaventati dall'economia. Dalla disoccupazione, come minaccia e come realtà. Dai problemi che incombono sulla condizione familiare. Ma soprattutto dal futuro dei loro figli. Che preoccupa seriamente quasi un italiano su due. D'altra parte, circa 7 persone su 10 pensano che i giovani occuperanno, in prospettiva, una posizione sociale ed economica molto peggiore rispetto ai loro genitori. Due anni fa questa convinzione veniva espressa da una quota di persone molto più limitata, per quanto ampia: il 45%.

In generale si assiste a un collasso emotivo, che influenza direttamente e profondamente le aspettative di mobilità sociale. Al ribasso. La scala della stratificazione sociale costruita in base all'autodefinizione e all'autocollocazione degli italiani rivela, infatti, come nell'ultimo periodo sia avvenuto un sensibile slittamento. Le persone che considerano "bassa" la posizione della propria famiglia erano il 7% due anni fa: ora sono oltre il 15%. Nello stesso tempo è aumentata anche la componente di coloro che definiscono "medio-bassa"la posizione sociale della propria famiglia: dal 21 al 29%. Lo spazio della classe media, di conseguenza, si è ridotto: dal 59 al 48%. Si assiste, quindi, a una discesa sociale "percepita" che riflette il calo dei consumi effettivamente "sperimentato".

I costi reali e psicologici della crisi, tuttavia, non si distribuiscono in modo equilibrato. Alcuni ne sono colpiti in misura più pesante degli altri. Si tratta, soprattutto, di coloro che hanno perso il lavoro o ne sono ai margini. Insieme a una quota, ampia, di persone fuori dal mercato del lavoro. Nel complesso: intorno al 20-25% della popolazione. Se questa crisi rispecchia la competizione globale, loro rappresentano i "perdenti". Sono perlopiù operai o di famiglia operaia - ma anche pensionati. Si collocano, in gran parte, nelle posizioni più basse della scala sociale. Avevano basso potere d'acquisto e di consumo, prima. Oggi l'hanno perduto ulteriormente. Se ne stanno in famiglia più per costrizione che per scelta. Abitano, soprattutto, nel Nordovest metropolitano e nel Mezzogiorno.

Va detto, tuttavia, che questa crisi suscita grande preoccupazione, ma non panico. Gli italiani sembrano essersi adattati presto alla nuova emergenza. Soprattutto quanti (tanti) possono contare sui tradizionali "ammortizzatori" sociali: la famiglia, la casa in proprietà.

Tuttavia, la recessione ha avuto un effetto psicologico importante, in quanto ha spostato il pendolo dell'insicurezza: dalla paura della criminalità comune ai problemi economici, legati al reddito e al lavoro. Ciò potrebbe riflettersi sugli orientamenti politici, creando un clima sfavorevole al centrodestra, che oggi governa. Ma non è detto. Fino ad ora, almeno, questa svolta non si è percepita. Anzi: la preoccupazione economica sembra oscurare la politica. Ritenuta - quasi - impotente, di fronte a quanto avviene. E quindi estranea. Peggio: incolpevole. Innocente.

(5 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La morte in diretta
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2008, 12:30:55 am
Ilvo Diamanti


La morte in diretta
 
Sparatoria fuori dal Taj Mahal

E' una battaglia globale combattuta secondo le regole della guerra globale. L'operazione terrorista a Mumbai: va oltre l'attentato, singolo o a catena. Evoca, invece, un attacco militare, scatenato da un esercito frazionato in diverse cellule, che hanno aggredito molteplici punti della città. Contemporaneamente. In modo coordinato. Un'azione di guerra, preparata e realizzata con cura pari alla violenza. Comune alla logica terrorista è il bersaglio. I civili. Inconsapevoli. Colpiti nel corso della loro vita quotidiana, in luoghi pubblici, affollati. Scelti con grande attenzione simbolica. Hotel, locali di lusso. Turismo d'èlite e uomini d'affari. "Cercavano sangue a cinque stelle... erano alla caccia di inglesi e americani", hanno raccontato Davide Scagliola e Marilena Malinverni, due giornalisti di Repubblica che hanno assistito, loro malgrado, all'attacco. Un episodio eclatante della Guerra globale lanciata dalla galassia di Al-Qaida contro i "Signori della globalizzazione". Contro l'Occidente e il suo baricentro: l'asse anglo-americano. Appunto.

In questa guerra globale, le vittime non esistono come persone. Sono feticci. Sangue con cui imbrattare in modo appariscente e indelebile gli schermi di tutto il mondo. Perché non avrebbe senso un attacco a Mumbai, l'antica Bombay - la più "globale" delle metropoli indiane - senza la comunicazione "globale".

Pochi minuti dopo le prime esplosioni, dopo i primi attacchi e le immagini, le notizie - drammatiche e concitate - arrivano dovunque. Attraverso le tv, le emittenti satellitari e internet. Giornali online e blog. La morte in diretta. Con i rischi del caso. Perché la violenza e la morte sono, da tempo, divenute uno spettacolo diffuso e attraente. Videogames, giochi di ruolo, fiction: usano il terrore e la guerra come script. Mentre la rete si affolla di sequenze di violenza quotidiana, girate con il cellulare, spesso da giovani e giovanissimi.

Così, diventa difficile riconoscere la guerra vera, la violenza vera, il terrore vero. Tutto rischia di sembrare artefatto - fatto e girato "ad arte". Fino a rendere meno spaventose le immagini di morte e di guerriglia. Perché la morte e la guerriglia, appunto, si riducono a immagini. D'altra parte, le vittime, lo abbiamo detto, vengono "usate" - e massacrate - come bersagli "simbolici". Comparse di una rappresentazione in cui recitano e raffigurano il Nemico Globale. Ombre del Grande Fratello americano, il Padrone dell'Occidente. Gli stessi protagonisti - l'esercito di Al Qaida - immolano se stessi, bruciano la loro vita (e quella di altri, che nulla hanno fatto per meritare tanta attenzione) in nome di questa guerra simbolica. Vittime reali - metafore sanguinose - di una battaglia a uso mediatico.

La guerra globale rende evidenti anche le sfasature del nostro modo di conoscere e di guardare il mondo. L'informazione, anzitutto. Perché il giornale acquistato la mattina è già vecchio. Si riferisce a "prima": a un mondo che, dopo la chiusura delle pagine, è cambiato. Fornisce una rappresentazione sfasata. Non solo perché è superata dai fatti, ma perché, si traduce in "una" immagine, "un" fotogramma, "una" cronaca" e "un" commento. Il che fornisce una lettura dissociata e asincrona rispetto al fluire degli eventi. D'altronde, la globalizzazione, ha scritto Giddens, è riduzione spazio-temporale. Il tentativo stesso di "prendere le distanze", di trattare questi eventi come altri e altrove rispetto a noi, per questo, è destinato a fallire. Perché le distanze - di spazio e di tempo - si perdono e vengono meno. Così la battaglia di Mumbai si svolge qui, ora. E prosegue, una vittima dopo l'altra, sotto i nostri occhi: 24 ore dopo è ancora in divenire, come il numero delle vittime. Gli hotel trasformati in fortilizi assediati. I civili trasformati in ostaggi. Mediatici. Simbolici.

E noi, per difenderci, possiamo solo cambiare canale.

(28 novembre 2008)


Titolo: ILVO DIAMANTI Grecia, Francia, Italia la gioventù bruciata
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 11:45:33 am
Ilvo Diamanti.


Grecia, Francia, Italia la gioventù bruciata
 

In Grecia è esplosa una rivolta giovanile. Partita da Atene, si è propagata in molti altri punti del paese. Da Salonicco a Patrasso, da Corfù a Creta. Ma la protesta ha scavalcato i confini, coinvolgendo, fra i bersagli, le ambasciate greche di alcune capitali europee. E' una vera mobilitazione, scandita da episodi violenti. E di scontri continui, con le forze dell'ordine. Molti di essi sono studenti. E infatti l'epicentro del terremoto sociale è diventato il Politecnico di Atene, insieme al quartiere di Exarchia (intellettuale e, insieme, alternativo). Luoghi mitici, perché proprio da lì, proprio dagli studenti partì la rivolta che, con un costo di vite altissimo, travolse il regime dei colonnelli, 35 anni fa.

D'altra parte, non è un "movimento studentesco". Perché agli studenti si sono uniti molti altri: lavoratori, precari, disoccupati. Comunque: giovani. Inoltre, a guidare le manifestazioni sono gruppi di sinistra radicale, affiancati da gruppi anarchici. Ma non ciò che sta avvenendo non può essere riassunto in un'azione della sinistra antagonista. Anche perché la sinistra antagonista non dispone di una base tanto ampia. La ribellione di massa che sta incendiando le città greche è un po' di tutto ciò. Mobilitazione studentesca universitaria (e non), antagonista, di sinistra, giovanile.

L'episodio scatenante è drammatico. La morte di un giovane 15enne, sabato scorso, ad Atene, nel quartiere di Exarchia, ucciso da un poliziotto, in seguito allo scontro fra un gruppo di studenti e una pattuglia della polizia. Di fronte a quel che è avvenuto e che sta avvenendo, però, l'episodio, per quanto sanguinoso e violento, appare quasi epifenomenico. Un incidente occasionale. La miccia che provoca un'esplosione a catena. Ed è facile, anche se discutibile, per questo, accostarlo ad altre rivolte che hanno investito le metropoli europee negli ultimi anni.

Per prima, l'esplosione di rabbia che ha sconvolto le banlieue francesi - parigine, anzitutto - nell'autunno del 2006. Anche in quel caso il motivo scatenante è lo stesso: l'uccisione di un ragazzo in una colluttazione con la polizia. Da cui la spirale di violenza che ha travolto, per settimane, le periferie di Parigi, per propagarsi presto ad altre metropoli francesi. La stessa dinamica si ripropone un anno fa, a Villiers-le-Bel, nella banlieue Nord di Parigi. Stessa meccanica: la morte di due ragazzi in moto, investiti (in questo caso in modo del tutto accidentale) da un'auto della polizia. Cui segue una vampata di violenze che degenerano subito. In modo drammatico, visto che in pochi giorni si contano oltre cento feriti, perlopiù tra forze dell'ordine. Certo: si tratta di eventi assolutamente diversi, per contesto urbano e sociale. In Grecia: studenti che si mobilitano in centro storico, con obiettivi apertamente politici. I palazzi del governo e del potere, la maggioranza di destra. In Francia: francesi di seconda generazione; giovani socialmente periferici che abitano le periferie più povere e inospitali. I bersagli: i simboli della cittadinanza negata. Auto, centri sociali, biblioteche. In entrambi i contesti, però, si tratta di "giovani". E la violenza investe alcuni "oggetti" specifici. Oltre alle auto: negozi e hotel di lusso. Simboli di un sistema che si regge e si rappresenta attraverso i consumi. In entrambi i casi, ancora, lo scontro avviene direttamente con le forze dell'ordine e con la polizia, in modo aperto. Non solo è solo la polizia a opporsi alle azioni giovanili. Sono gli stessi giovani a cercare lo scontro con la polizia.

La rivolta di Atene, per alcuni versi, richiama, inoltre, le mobilitazioni che attraversano l'Italia da alcune settimane. Le differenze, in questo caso, sono però ancor più evidenti. Perché in Italia la protesta giovanile non nasce da un episodio violento e non ha assunto toni violenti (se non in alcuni casi molto specifici). Perché ha fini e bersagli squisitamente politici. I provvedimenti del governo in materia di scuola e università. Tuttavia, fra le mobilitazioni vi sono i punti di contatto altrettanto palesi. In Italia come in Grecia i protagonisti sono gli studenti, i teatri le università. In Grecia come in Italia la popolazione studentesca era da tempo in ebollizione, per gli stessi motivi. L'opposizione aperta contro la riduzione delle risorse e degli investimenti sulla scuola - e in particolar modo sull'organizzazione della ricerca e dell'università - pubblica.

Se colleghiamo questi tratti, tanto diversi in apparenza, si delinea un profilo comune e largamente noto. Perché le rivolte investono i giovani, sia gli studenti che i marginali, delle classi agiate e dei gruppi esclusi. I bersagli sono, in ogni caso, le istituzioni di governo, il sistema educativo e le forze dell'ordine, il sistema politico e in particolar modo i partiti e gli uomini di governo. Il denominatore comune di queste esplosioni sociali sono i giovani, occultati e vigilati da una società vecchia e in declino, da un sistema politico im-previdente, inefficiente e spesso corrotto. Schiacciati in un presente senza futuro. Cui sono sottratti i diritti di cittadinanza. Costretti a una flessibilità senza obiettivi. Il che significa: precarietà.

La violenza, in questo caso, diventa un modo di dichiarare e gridare la propria esistenza. Loro, invisibili. Inutile ignorarli, fare come se non ci fossero. Ci sono. Studenti, precari, di buona famiglia oppure marginali e immigrati, politicizzati o apertamente impolitici e antipolitici. Esistono. E se si finge di non vedere si accendono, bruciano. Fuochi nella notte che incendiano le città.

(9 dicembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Oltre la democrazia.
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2008, 10:40:57 pm
Oltre la democrazia


di ILVO DIAMANTI


LA DEMOCRAZIA.
Molti ne osservano in modo scettico l'evoluzione. In Italia, ma non solo. Così è diffusa la tendenza ad associarne il termine al prefisso "post". Come ha fatto il politologo Colin Crouch alcuni anni fa.
Definendo la fase attuale fase post-democratica. Non "anti" democratica, ma "oltre" la democrazia. O, ancora, "dopo" la democrazia, come suggerisce il socio-demografo Emmanuel Todd in un recente saggio di grande capacità suggestiva ("Après la démocratie", pubblicato da Gallimard).

Eppure pochi, in Italia, la mettono in discussione. Lo sottolinea l'XI rapporto su "gli italiani e lo Stato" di Demos - la Repubblica (www. demos. it), proposto due giorni fa sul Venerdì. Quasi tre persone su quattro la considerano il "migliore dei mondi possibili". Un dato in crescita (4 punti percentuali in più) rispetto all'anno scorso. Tuttavia, vi sono categorie sociali che la pensano diversamente. I più giovani, in particolare: oltre un terzo di chi ha meno di 35 anni ritiene che rinunciare alla democrazia, magari per un certo periodo, in fondo, non sarebbe male. Oppure, non cambierebbe nulla. E il peso della componente scettica sale fino a circa il 40% fra gli operai e i disoccupati. A rammentarci che il consenso alla democrazia declina quando manca il lavoro e le condizioni di vita quotidiana degradano.

Peraltro, il significato della democrazia appare profondamente cambiato rispetto al modello originario del dopoguerra. Fondato sulla partecipazione e sui partiti di massa, garantito dal bilanciamento fra poteri. In particolare: dal controllo del potere giudiziario su quello politico (legislativo ed esecutivo). Il rapporto di Demos - la Repubblica rileva, anzitutto, come, ormai, i partiti siano guardati con diffidenza generalizzata. Non solo: appena la metà dei cittadini ritiene che "senza partiti non vi sia democrazia". D'altronde, i due terzi degli italiani pensano che i partiti siano tutti uguali, dicano le stesse cose. Non riescono a coglierne le differenze di progetto e di azione. Ne considerano i programmi e il linguaggio strumentali. Più dei partiti, secondo il 40% degli italiani, oggi contano i leader. I partiti, di conseguenza, appaiono organismi personalizzati, talora "personali", al servizio del Capo. Una percezione generale che, peraltro, coincide largamente con la realtà. Richiama un'idea della democrazia fortemente semplificata e populista.

Alimentata dalla svalutazione dei tradizionali soggetti di partecipazione e rappresentanza. I partiti. Mentre i canali di mediazione degli interessi - organizzazioni imprenditoriali e ancor più sindacali - raccolgono consensi minimi nella società. Non che la partecipazione sia svanita. Anzi, nell'ultimo anno è perfino cresciuta, ma nelle forme meno convenzionali e istituzionali, oltre che antipolitiche. Quanto alle istituzioni e ai poteri di controllo, la magistratura è valutata con fiducia dal 37% dei cittadini. Più o meno come un anno fa. Ma circa la metà rispetto ai primi anni Novanta. Anche per questo motivo oggi il presidente del Consiglio afferma di voler procedere alla riforma del sistema giudiziario anche da solo, se necessario. Perché si sente più forte e socialmente legittimato dei giudici.

Da ciò il dibattito, meglio, il contrasto che investe il significato stesso di democrazia, nella pratica politica ma anche nella percezione sociale. Stressata fra due opposte tendenze, largamente complementari. Da un lato, si afferma una democrazia formale, che trae legittimazione, quasi unicamente, dal voto personalizzato della maggioranza. I partiti, sempre più oligarchici, racchiusi nelle istituzioni e nei centri di potere. La piazza, l'agorà: riassunta dai media e dalla televisione. Una democrazia elettorale. Il potere dei cittadini si esercita e si esaurisce in trenta secondi, una volta ogni 4-5 anni. Quanto basta per fondare l'autorità degli eletti, o meglio, dell'Eletto. Che, per questo, considera illegittimo ogni vincolo posto da poteri non elettivi. E sopporta a fatica e con fastidio ogni critica al suo operato che provenga da giudici, giornalisti, comici e intellettuali. Non eletti dal popolo. è su questa base, con questo argomento che, da sempre, Silvio Berlusconi (e la sua parte) rifiuta le critiche al conflitto di interessi e i tentativi di regolarlo.

Su questa stessa base contesta l'azione della magistratura nei suoi confronti, anche quando si tratta di accuse relative a reati esterni alla pratica di governo e all'attività politica. Perché si tratterebbe di limiti imposti da soggetti "non democraticamente eletti" a un leader "votato dal popolo". Nonostante tutte le accuse e tutti i conflitti di interesse, da cui - è il ragionamento implicito - il "popolo sovrano", con il voto, l'avrebbe assolto, oltre ad avergli attribuito il mandato di governare. è la post-democrazia, denunciata da molti critici, non solo di sinistra. Una democrazia elettorale e personalizzata. Spogliata delle mediazioni e dei controlli. La comunicazione al posto della partecipazione. L'equilibrio dei poteri, finalmente, modificato. Attraverso la riforma della giustizia, mettendo mano alla Costituzione - come ha annunciato il presidente del Consiglio - anche senza dialogare con l'opposizione. Si tratterebbe, come ha scritto Ezio Mauro nei giorni scorsi, del "passaggio... da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico". Post. Appunto. Una democrazia in preda a un degrado organico e quasi biologico. Una sorta di "mucca pazza della democrazia", come l'ha definita Alfio Mastropaolo.

D'altro canto, questa tendenza post-democratica e post-costituzionale sta insinuando, nell'area di opposizione, un sentimento di sfiducia nella democrazia. Riflette e moltiplica il senso di riprovazione verso quella parte di elettori, molto ampia, che, da quindici anni, continua a votare per Berlusconi. Nonostante i suoi stravizi o, forse, proprio per questo. Verso quegli elettori che nel Nord si ostinano - in gran numero - a premiare la Lega. Nonostante il suo linguaggio intollerante e le sue iniziative xenofobe o, forse, proprio per questo. Mentre nel Sud continuano a votare per oligarchie clientelari e corrotte. Senza porsi problemi. Da ciò, come osserva Emmanuel Todd, l'idea, latente e diffusa (a sinistra), che "il popolo è per natura cattivo giudice". E il pensiero - inconfessato e represso - che occorra, per questo, "ritirargli il diritto di voto o, almeno, limitarne seriamente l'esercizio".

Difendere la democrazia dal popolo e perfino dal voto popolare. Oppure usare il popolo e il voto per limitare le garanzie democratiche. Questa alternativa insidiosa racchiude tutto il malessere che oggi attraversa la nostra democrazia rappresentativa.

(14 dicembre 2008)
DA repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - RAPPORTO GLI ITALIANI E LO STATO - ED. 2008 e 2007...
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2008, 12:13:52 am
RAPPORTO GLI ITALIANI E LO STATO - EDIZIONE XI 2008

   
 
 
  COMMENTO GENERALE
[di Ilvo Diamanti]


E' l'anno dell'eterno ritorno. Ritorna Berlusconi alla guida del governo, per la terza volta, dal 1994. Dopo ogni caduta, puntualmente, si rialza. A dispetto di ogni previsione. (Dovesse davvero uscire di scena, un giorno, non ci crederebbe nessuno). Insieme a lui si assiste al ritorno dello Stato, ancor più sorprendente e clamoroso. Un'ipotesi implausibile fino a qualche anno - ma che diciamo? qualche mese - fa.
E' l'indicazione più evidente e più importante dell'XI Rapporto su "gli italiani e lo Stato", condotto da Demos per "la Repubblica". Un ritorno tanto più sorprendente perché, un anno fa, la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche e di governo aveva toccato i livelli minimi dal 2000. Non a caso avevamo titolato il rapporto 2007: "Gli italiani prigionieri della sfiducia". Mentre, al tempo stesso, incombeva, pesante, un clima di insicurezza, e quasi di paura sociale, accompagnato da un atteggiamento antipolitico diffuso. Oggi, questo clima, questo atteggiamento sembrano cambiati. Non rovesciati. Ma di certo meno opprimenti.
a) È risalita, anzitutto, la fiducia nello Stato e nei suoi organismi più rappresentativi. Il Parlamento, ma soprattutto e anzitutto il Presidente della Repubblica, che ha raggiunto i livelli di consenso dell'era "ciampiana": oltre il 70%. Si tratta di un orientamento politico trasversale. La fiducia in Napolitano, infatti, è alta anche a destra, dove un anno fa l'atteggiamento nei suoi confronti era piuttosto freddo. Merito della sua capacità di imporsi come figura di garanzia istituzionale, in tempi tanto difficili. La sua ascesa, però, riflette anche questa nuova (e antica) domanda di Stato. E' cresciuto notevolmente anche il consenso nell'Unione Europea. Di oltre 10 punti percentuali. Oggi è sostenuta dal 58% degli italiani. Il livello più elevato da cinque anni a questa parte. E' come se la critica antistatalista ed euroscettica degli ultimi anni si fosse smorzata. Frenata dalle paure globali e dall'incertezza locale.
b) Assistiamo, parallelamente, alla rivalutazione del "pubblico". E' infatti cresciuta la soddisfazione per i servizi. Le scuole "pubbliche" (a differenza di quelle private), la sanità "pubblica", i trasporti urbani. Perfino il giudizio sulle ferrovie migliora, seppur di poco. Gli stessi "dipendenti pubblici" (per quanto notoriamente "fannulloni") godono della fiducia di quasi un terzo degli italiani. Più delle associazioni imprenditoriali e del sindacato. Nell'ultimo anno, invece, la residua quota di persone che recrimina contro la presenza dello Stato nei servizi pubblici è diminuita ancora. Oggi è ridotta a un quinto della popolazione, per quel che riguarda i servizi sociosanitari. A poco più di una persona su dieci, quanto al sistema scolastico e formativo.
c) Ma è in rapporto all'economia che la domanda di Stato appare inarrestabile. Decenni di critiche liberal-liberiste contro l'ingerenza dello Stato padrone che, oltre alle infrastrutture e ai servizi di interesse pubblico, occupava anche il mercato e il campo della produzione. Lo Stato pasticciere, che faceva panettoni e cioccolatini. Oggi quello scetticismo si è dissolto. Secondo l'85% degli italiani "lo Stato deve intervenire sull'economia e sul mercato ogni volta che c'è bisogno".
d) Il vento dell'antipolitica soffia ancora, ma meno violento. Beppe Grillo, che ne è la figura più rappresentativa, suscita atteggiamenti più contrastanti di un anno fa. Di certo, i giudizi positivi nei suoi riguardi, per quanto prevalgano ancora su quelli negativi, sono calati sensibilmente (10 punti percentuali in meno).
e) Il ritorno dello Stato e del pubblico, lo stallo dell'antipolitica, però, non sembrano annunciare una nuova affermazione delle dottrine keynesiane, dello Stato interventista e regolatore; né una nuova stagione di consenso ai partiti e alla classe politica. La fiducia nei partiti resta debolissima. Quasi due italiani su tre pensano che siano tutti uguali, quattro su dieci che oggi conti solo il leader. E, per quanto in crescita, la fiducia nello Stato viene espressa solo da una minoranza: un terzo. Ciò significa che due persone su tre lo percepiscono con distacco.
f) Se la domanda di Stato e di pubblico è cresciuta non è, quindi, per convinzione o per l'affermarsi di nuove idee e di nuove visioni, ma per necessità. Sulla spinta dell'emergenza. E' uno "Stato di emergenza", quello che sembra ispirare gli orientamenti degli italiani. La cui agenda delle priorità e delle preoccupazioni è cambiata profondamente, negli ultimi mesi. Dominata non più dal tema della "sicurezza" personale, dell'allarme per la criminalità, della paura degli altri, in particolare degli immigrati. Ma dalle prospettive economiche e del lavoro. Gli italiani - gran parte di essi, almeno - temono per i propri redditi, per la disoccupazione, per i propri risparmi, per il costo della vita. Temono per il futuro proprio, della propria famiglia e dei propri figli. Per questo motivo non si fidano più degli attori del mercato, della finanza, delle banche. Non si fidano neppure del sindacato. Chiedono, invece, "più Stato". Ma uno Stato barelliere, infermiere, pronto-soccorso. Uno Stato che dia assistenza (ma non "assistenziale": non si può dire). Riscoprono l'Europa, guardata, fino a ieri, con sospetto e diffidenza. Per difendersi dal mondo. Mentre non osano chiedere "più politica" e "più partito". Si limitano a sospendere le critiche più aspre.
Sorprende un poco - o forse non poco - che a interpretare questo clima neo-statalista, pervaso da una nuova domanda di pubblico, sia Berlusconi, insieme al PdL, accanto alla Lega. I cui elettori continuano ad essere, di fatto, più liberal-liberisti degli altri. La Lega: nemica dello Stato nazionale e dell'Europa degli Stati e dei capitali. Berlusconi: che si era opposto allo Stato imprenditore e agli imprenditori di Stato, imponendosi come imprenditore alla guida dello Stato. Dopo aver vinto le elezioni, trainato dal vento dell'insicurezza, oggi cerca di intercettare il vento della crisi economica e finanziaria. Anche se non è facile, non sarà facile, neppure per lui, interpretare la domanda di Stato e di pubblico. D'altra parte, è complicato impersonare Keynes, al tempo della depressione. Con investimenti molto limitati. Tagliando il bilancio dello Stato, riducendo (e delegittimando) il personale pubblico: nella scuola, nell'Università, nella sanità. Più che un attore forte e rassicuratore, lo Stato proposto, oggi, dal governo assomiglia, da un lato, a un occhiuto guardiano della buona condotta dei suoi funzionari; dall'altro, a una sorta di associazione caritatevole, che aiuta e fidelizza i cittadini più bisognosi con una tessera. Da usare per gli acquisti e i consumi. Uno "Stato di emergenza" che legittima l'autorità alternando le crociate alla pietà.


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RAPPORTO GLI ITALIANI E LO STATO - EDIZIONE X 2007


 
  COMMENTO GENERALE

[di Ilvo Diamanti]


Nell'anno dell'antipolitica, la fiducia nelle istituzioni scende al livello più basso registrato dal 2000 ad oggi. In particolare: la magistratura, la scuola, oltre, ovviamente, allo Stato. Anche, il consenso verso l'Unione Europea, fra i cittadini, cala al di sotto del 50%. Per la prima volta.
Mentre il grado di fiducia nella Chiesa diminuisce sensibilmente. Perdono ulteriormente "credito" le banche. Per non parlare delle istituzioni rappresentative: parlamento e partiti. Pubblico e privato. Giustizia e interessi. Enti locali e nazionali. Poteri civili e religiosi. Nessun riferimento pare in grado di esercitare autorità sui cittadini. Questo inverno civile: sembra senza fine.
Altri segni lo rammentano, monotoni e puntuali. La soddisfazione dei servizi, soprattutto dei servizi pubblici, continua a calare. In misura massima: i trasporti urbani e le ferrovie. Al tempo stesso, aumentano sensibilmente l'insicurezza personale e l'insoddisfazione per il costo della vita.
L'ottimismo economico, riguardo alle prospettive del Paese, ma anche alla condizione familiare, nell'ultimo anno, si è raffreddato ulteriormente. Quasi metà delle persone ritiene, quindi, che oggi sia inutile fare progetti impegnativi "perché il futuro è incerto e carico di rischi".
Gli italiani sembrano, ormai, dediti a un esercizio di ordinaria sopravvivenza. D'altra parte, due persone su tre sono d'accordo con l'affermazione che "è meglio guardarsi dagli altri, perché potrebbero approfittare della nostra buona fede". Ci si attrezza, per questo, ad arrangiarsi, così come viene. Impegnati a "resistere", insieme ai propri familiari e alle (poche) persone amiche, giorno per giorno. Perché domani, chi lo sa...
Gli italiani. Diffidenti nei confronti degli altri e, ancor più, dello Stato. Di cui sopportano sempre più a fatica la pressione fiscale. Così, si allarga la quota di quanti ritengono lecito - comunque comprensibile - "pagare meno tasse del dovuto". In altri termini: evadere, o almeno eludere.
La sfiducia ha smesso di essere un vizio, un problema. Si è trasformata in un sentimento "normale". Quasi un "carattere nazionale". Gli italiani: creativi, fantasiosi. E poi: sfiduciati e diffidenti. Nei confronti dello Stato, del pubblico; ma anche del privato. Degli altri, ma anche di se stessi.
Per questo, l'istituzione di gran lunga più credibile è costituita dalle "Forze dell'ordine". Per lo stesso motivo, la parola "ordine" raccoglie consensi elevati e al tempo stesso trasversali. Vi si coglie una domanda di protezione nel "presente", visto che il futuro è difficile perfino immaginarlo.
D'altronde, la sfiducia e l'eclisse del futuro si richiamano reciprocamente. Parte della medesima sindrome. Perché la fiducia, come scrisse Georg Simmel, è "un'ipotesi sulla condotta futura". In altri termini, allarga l'orizzonte delle nostre scelte, delle nostre decisioni. Permette di assumere rischi "calcolati". A differenza di ciò che avviene da qualche tempo. Non solo in Italia, ovviamente. La "società del rischio" (delineata da Ulrich Beck) accomuna molti Paesi, molti contesti. Tuttavia, in Italia, l'incertezza è divenuta una patologia. Una condizione che non accenna a stemperarsi. Anzi: si drammatizza, a causa della specifica vicenda che ha caratterizzato la politica e le istituzioni, nell'ultima fase. Dopo la caduta della prima Repubblica, fin dal referendum del 1991 sulla preferenza unica, si è, infatti, avviata la (cosiddetta) "transizione" verso una nuova Repubblica. Definita da nuove regole, nuove istituzioni, nuovi attori politici. Sedici anni dopo non si è ancora conclusa. La discussione pubblica, infatti, prosegue, sempre più accesa, sulle stesse questioni. In base alla stessa agenda. Legge elettorale, cambiamento dei partiti, forma di governo, referendum. Tutto pare fermo e al tempo stesso in continuo movimento. Verso orizzonti più che mai confusi e nebbiosi. Impossibile soltanto immaginare che l'atteggiamento di sfiducia e insicurezza dei cittadini possa mutare. Che gli italiani possano guardare avanti. In questo "stato".
Al contrario, questo Rapporto rivela l'emergere di alcuni segnali inquietanti.
Gli italiani, infatti, faticano a capire di che si discute. Di conseguenza, non possono avere idee molto chiare, al proposito. Il quadro che appare loro di fronte è, comunque, confuso.
Due su tre ritengono che, ormai, non vi siano più grandi differenze tra i partiti. Certo: metà degli italiani pensa che "senza partiti non vi sia democrazia"; ma l'altra metà la pensa, evidentemente, in modo diverso. Anzi il 40%, circa, sostiene che anche senza partiti la democrazia possa funzionare egualmente bene.
Ancora: il 54% degli italiani crede che i partiti debbano avere una "base di iscritti". Ma il 60% preferirebbe che la scelta del leader avvenisse "attraverso elezioni aperte a tutti gli elettori interessati".
Lo stesso vale per la distinzione fra destra e sinistra. Metà degli italiani la considera ancora utile; ma l'altra metà la pensa diversamente; oppure non pensa nulla.
Insomma: più che "liquida" (per evocare la felice definizione di Zygmunt Bauman) la società italiana oggi appare "paludosa". Priva non solo di appigli a cui afferrarsi, per trovare stabilità e sicurezza. Ma anche di punti di riferimento, in base a cui orientarsi. Perché gli appigli e i riferimenti mancano, oppure cambiano di continuo. Oppure ancora: sono incomprensibili. Dal 1991, i cittadini sentono parlare di progetti politici e istituzionali sempre diversi, sempre provvisori, con un linguaggio sempre più cifrato. Partiti che cambiano nome e cognome; coalizioni a "geometria occasionale". E modelli istituzionali sempre nuovi. Diversi. Leggi elettorali continuamente in discussione, continuamente in evoluzione. Poi, la "minaccia" permanente che il governo cadrà domani, al massimo fra qualche settimana. Lanciata, senza soluzione di continuità, dal capo dell'opposizione ma anche, di volta in volta, dai leader della maggioranza. Difficile non provare sconcerto e senso di precarietà quando idee, valori, norme, istituzioni - i riferimenti della vita pubblica e dell'identità personale - appaiono tanto incerti e confusi.
Così, le stesse fondamenta del sistema rivelano qualche scricchiolio un po' sinistro. Il consenso nei confronti della "democrazia" rimane alto. Espresso dal 68% dei cittadini. Ma è in calo sensibile, rispetto agli ultimi anni. La democrazia: per una larga maggioranza di italiani, è ancora "il migliore dei mondi possibili". Ma quasi una persona su tre la pensa diversamente. Una "larga minoranza" che cresce ulteriormente nella popolazione giovanile, fino a raggiungere il 40% fra i giovanissimi (meno di vent'anni). I quali appaiono, peraltro, i più coinvolti nella partecipazione politica.
Disponibili, soprattutto, a percorrere le vie della protesta. Anche sfidando (32%) le leggi vigenti.
E qui, in fondo, sta il significato dell'antipolitica che ha caratterizzato il 2007. La cui figura-simbolo, Beppe Grillo, a dispetto degli anatemi giunti da ogni parte, riscuote grandi consensi. Trasversali. L'antipolitica: più che "rifiuto", evoca "domanda" di politica. Nostalgia del futuro.


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Titolo: ILVO DIAMANTI - Il "non luogo" dei democratici
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2008, 03:01:16 pm
MAPPE

Il "non luogo" dei democratici

di ILVO DIAMANTI


La ragione del disorientamento del Pd e del centrosinistra è, forse, più semplice di quel si pensa, anche se sgradevole. Molto semplicemente: nostalgia dell'unità. O meglio: dell'Unione. Un sentimento diffuso fra gli elettori di centrosinistra, che non si sono rassegnati davvero alla scelta di correre da soli. O, almeno, ci hanno ripensato. Non intendiamo dare giudizi retrospettivi, ma è ciò che emerge dagli orientamenti degli elettori, rilevati da un sondaggio, condotto nei giorni scorsi su un campione rappresentativo (di 1500 casi) da Demos (per i dettagli: www.demos.it).

1. Per quel che riguarda le intenzioni di voto, le stime confermano le tendenze indicate da altri sondaggi in questa fase (Ipsos, Ispo, Swg). In particolare: a) il centrodestra mantiene il distacco emerso alle elezioni di aprile. Il Pdl si attesta oltre il 37%, la Lega ha scavalcato largamente il 9%. Mentre a centrosinistra il Pd è scivolato sotto il 28% e l'Idv/lista Di Pietro ha più che raddoppiato il suo peso elettorale, raggiungendo la Lega. Fra gli altri, l'Udc tiene la sua base, intorno al 6%, mentre le forze della Sinistra (Rc, Verdi ecc.) mostrano segni di recupero.

2. Se consideriamo il grado di vicinanza ai partiti espresso dagli elettori, emerge un dato singolare quanto significativo. Il Pd intercetta più voti che simpatie. Infatti, la quota di elettori che lo sente "vicino" è, di poco, inferiore rispetto alle intenzioni di voto (26,7%). Al contrario della lista Di Pietro, il cui elettorato "amico" è doppio (19%) rispetto alle intenzioni di voto. Il dato, peraltro, riflette quanto avviene nel centrodestra, dove l'elettorato "amico" della Lega è di tre volte superiore alle intenzioni di voto, mentre il peso degli elettori vicini al Pdl risulta sensibilmente inferiore all'incidenza elettorale (di 6 punti percentuali). In altri termini: c'è una quota di elettori che, oggi, voterebbe Pd e Pdl "nonostante": per inerzia o per calcolo, mentre "il cuore" e l'istinto li spingerebbe altrove.

3. Tuttavia, non è possibile porre Pd e Pdl sullo stesso piano. I problemi del Pdl riflettono l'unificazione ancora incompiuta fra i due partiti fondatori, Fi e An. Inoltre, il Pdl (secondo i sondaggi) non ha perduto consensi elettorali dopo il voto di aprile. Il Pd sì. E parecchi. La tentazione di chiamare in causa la "questione morale" che ha investito le amministrazioni locali di centrosinistra è comprensibile e, in qualche misura, fondata. Ma il paragone con il 1992 ci pare improponibile. Allora si trattò di una crisi di sistema, che investì i partiti di governo, a livello centrale. Oggi le inchieste coinvolgono l'opposizione, già fiaccata dal voto. Alla periferia. La ragione principale del disamore verso il Pd, a nostro avviso, è diversa. Per citare Gian Enrico Rusconi (sulla Stampa): "La questione morale è solo un sintomo dell'impotenza politica".

4. Parafrasando Marc Augé, diremmo che il Pd appare ancora un "non luogo" politico. Un posto di passaggio, un poco anonimo. Non una casa stabile. Capace di fornire identità e memoria. Lo suggerisce l'orizzonte dei riferimenti politici espresso dagli elettori del Pd, tutt'altro che unitario e autosufficiente. Il 30% di essi si dice vicino all'Idv, il 10% all'Udc e il 22% ai partiti della Sinistra. Tra gli elettori che votarono per il Pd nello scorso aprile, la percentuale degli amici di Di Pietro sale di circa 4 punti percentuali. La stessa misura, circa, di quanti, dopo le elezioni, hanno spostato la scelta di voto dall'Idv al Pd. Ciò suggerisce che l'elettorato del Pd sia contiguo a quello dell'Idv e si sovrapponga ad esso in molti punti.

Ma l'elettorato del Pd si sente vicino anche agli altri partiti di opposizione. All'Udc e alla Sinistra radicale. Tanto che li vorrebbe alleati. In particolare, oltre il 50% degli elettori vicini al Pd vorrebbe allearsi con Di Pietro, il 37% con l'Udc, altrettanti con la Sinistra radicale. Il 39%, per la verità, preferirebbe che il Pd continuasse la sua marcia solitaria, ma circa un terzo di essi accetterebbe di allearsi con le altre forze di opposizione. In particolare con l'Idv e l'Udc.

5. Il principale problema del Pd, a nostro avviso, richiama, dunque, la difficoltà di delimitare con chiarezza il proprio "terreno di caccia". I suoi elettori - potenziali e reali - continuano a immaginarsi parte di un'area più ampia, a cui partecipano gli alleati di ieri: la Sinistra e soprattutto Di Pietro. Ma anche l'Udc. La prospettiva a cui Veltroni (e non solo lui) intendeva sfuggire quando, nello scorso gennaio, annunciò l'intenzione di far correre da solo il Pd. Naturalmente, le obiezioni a questa lettura sono immediate quanto legittime: a) l'Unione è improponibile; la sua fine è stata sancita dal risultato deludente del 2006 e dall'esperienza controversa ed estenuante del governo Prodi; b) i riferimenti di programma e di valore fra i partiti di opposizione erano e restano distanti e, talora, incompatibili; c) il percorso del Pd è appena partito, occorre attendere perché si radichi fra gli elettori.

6. Tuttavia, è evidente la perdita di appeal del Pd da quando si è affacciato sulla scena politica. Nei primi mesi dell'anno il suo elettorato potenziale era molto più ampio. Di circa 20 punti percentuali. È, peraltro, comprensibile anche la ragione "politica" di questo sfaldamento: l'incapacità di andare "oltre" Berlusconi. Lo slittamento di una parte dei suoi elettori verso Di Pietro sottolinea, infatti, una domanda di opposizione "antiberlusconiana". Frustrante per chi (come noi) pensa a un'alternativa capace di esprimere le proprie specifiche ragioni. Il problema, purtroppo, è che Berlusconi stesso contrasta questo disegno. Perché, più di ogni altro contenuto, lui (la sua immagine, i suoi interessi) resta il principale collante e, al tempo stesso, la principale fonte di identità del governo e della maggioranza. Oggi più di ieri. Non solo perché la Lega fa di tutto per marcare le proprie differenze, per sottolineare la propria missione di "partito del Nord". Ma perché il Pdl, ancor più del Pd, appare una casa abitata da inquilini diffidenti, l'uno dell'altro. Nel centrodestra, così, coabitano in tanti, diversi più che mai. Ex democristiani e socialisti, federalisti, secessionisti e nazionalisti, liberisti e colbertiani, postfascisti (e nostalgici). Ultracattolici e libertini. Nordisti e sudisti. Antidipietristi e anticomunisti. Tutti insieme. È l'Unione di Destra. Tenuta insieme e identificata da Berlusconi. Il berlusconismo è, quindi, l'ideologia dominante della seconda Repubblica ma, al tempo stesso, una tecnica di coalizione. Il Pd, da solo, senza interpretare e coalizzare l'antiberlusconismo non andrà mai molto oltre il 30%. Il che significa, con questa legge elettorale: rassegnarsi all'opposizione eterna.

(21 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La scomparsa dell'albero di Natale
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2008, 10:33:33 am
La scomparsa dell'albero di Natale

di ILVO DIAMANTI


E' un Natale strano. Sicuramente più buio degli altri. Non ho fatto indagini rigorose, al proposito. Non ho realizzato sondaggi su campioni rappresentativi della popolazione. Mi sono limitato a una passeggiata intorno a casa mia. Guidato dal mio schnauzer. Quindi abbastanza lunga, perché il mio cane non è mai stanco, quando riesce a trascinarmi fuori. E ho cominciato a guardare in giro, a fare un po' di conti.

Gli alberi di Natale sono quasi scomparsi. Non solo quelli "strappati" dai boschi, ma anche quelli artificiali. Ecologici, come si usa dire nel linguaggio eticamente corretto. In effetti: finti. Non si vedono quasi più. Ne avrò contati cinque-sei in tutto il quartiere, peraltro densamente popolato e, negli anni scorsi, illuminato quasi a giorno, la sera: dagli alberi di Natale. D'altra parte, nelle case dove mi sono recato in questo periodo ho visto pochi presepi oltre che pochi alberi di Natale. Oppure presepi e alberi lillipuziani. Mignon. Alberelli alti trenta centimetri accanto a presepi larghi venticinque. Capanna, Giuseppe, Maria, bue e asinello intorno alla culla vuota. Con bambinello a parte, da riporre nella culla la Santa Notte.

Ho girato il quartiere trascinato dal cane senza accorgermi quasi del Natale che arriva. Se non per qualche filo di luci intermittenti arrotolato intorno ai balconi o al corrimano delle scale di ingresso. Qua e là un Babbo Natale aggrappato al muro. Non si capisce bene se in fuga oppure in arrivo. Orrendi. Li brucerei tutti.

E mi sono chiesto cosa stia succedendo, cosa sia successo. Questo Natale mesto e un poco oscuro, senza alberi, pochi presepi e qualche luce. Perché?
Perché - mi sono detto - la crisi spinge al risparmio. Induce a ridurre i consumi energetici. E poi, manca l'atmosfera. Perfino la meteorologia congiura ad estraniarci. Come sentire il Natale quando da settimane siamo in mezzo a un monsone, pioggia pioggia e ancora pioggia, la sera nebbia? Manca il pathos.

Perché c'è poco da festeggiare e da celebrare. Con la crisi che incombe, il lavoro incerto, i redditi a rischio, il futuro corto e angoscioso. Chi ha voglia di luci, alberidinatalepresepiequantaltro...

Perché il senso del sacro e del mistero si è perduto. In questa società post-secolare. Anzi: post e basta. Il Dio che si fa uomo non stupisce, non richiede un "atto di fede". Non dà gioia. Eclissato dal virtuale, da Second Life, dai miracoli della tecnologia che tutto crea... E' routine.

Perché ormai è sempre Natale e Natale è, da troppo tempo, un giorno come gli altri. Neppure più una festa consumista, visto che il consumo è rito quotidiano e per questo non può stupire. Ci siamo assuefatti.

Perché è finito anche il tempo in cui i bambini attendevano la notte di Natale con gioia e timore. Non riuscivano a dormire dall'eccitazione. E temevano. Che Babbo Natale e Gesù Bambino se ne sarebbero andati senza neppure entrare se i bimbi erano ancora svegli. Non ci crede più nessuno a Babbo Natale tanto meno al Bambin Gesù. Oggi. E comunque se anche arrivassero non riuscirebbero a entrare nelle case. Troverebbero i bimbi in piedi fino all'alba, perché Natale è festa e si tira tardi davanti alla tivù, al pc e alla playstation. E quanto ai regali... i nostri figli unici: ne sono sommersi da quando sono nati. Perché dovrebbero attendere il Natale con ansia?

Poche luci, pochi alberi di Natale e pochi presepi. Poca attesa e poca emozione. Per dirla con Spinoza: è l'epoca delle passioni tristi. Ma forse "passioni" è una parola fin troppo forte. Come la "tristezza". Anche parlare di "epoca" pare esagerato. Più che un'epoca: un periodo. Un giorno come altri. Neppure tanto triste. Neppure tanto buio. Ma grigio. Qualche luce intermittente e un babbo natale dimenticato sul muro dietro casa.

(26 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La banalizzazione degli auguri
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2009, 07:45:44 pm
Ilvo Diamanti.


La banalizzazione degli auguri


Ho trascorso le feste impegnato a rispondere agli auguri. Via sms. Alcuni, lo ammetto, li ho inviati anch'io. Anzi: molti. E, ovviamente, non è ancora finita. L'opera continuerà per qualche giorno ancora. Dicono, i gestori della telefonia mobile, che in questi giorni l'aumento del traffico degli sms sia aumentato in modo spropositato. Di 25 punti percentuali in più rispetto a un anno fa. Sarebbe stato inviato un miliardo di sms solo a Natale. Pare. Ma deve essere vero. Io, nel mio piccolo, continuo a sentire il mio cellulare che segnala l'arrivo di nuovi messaggi. Tre ticchettii. A ripetizione.

E' il prezzo della tecnologia. Basso, dirà qualcuno. Anzi, più che un prezzo, un risparmio, perché inviare gli auguri per posta - una cartolina, un biglietto, una lettera - costava molto di più, in tempo e, forse, ma non ne sono certo, anche in denaro. Però - bisogna aggiungere - per via postale il numero di messaggi di auguri inviato era molto più ridotto. Il che costringeva a selezionare. A scegliere le persone per cui valesse la pena di "spendere" tempo. Per amicizia, riconoscenza, diplomazia, deferenza. Molti e diversi i motivi. In fondo, gli auguri sono un dono. Il cui fine non è solo altruista. Seguono anch'essi una logica di utilità, per quanto implicita. Servono a tener viva una relazione.

Fanno parte di un complesso gioco di reciprocità. Anzi, di scambi. Gli auguri, infatti, si "scambiano". Il cellulare, per questo, ne riduce il valore e il significato. Riducendoli a un rito elettronico, routinario e superficiale. Si fanno gli auguri in qualche nanosecondo. "Cari auguri...". E, pochi secondi dopo, tre tocchi e arriva la risposta. Oppure, a tua volta, senti il segnale del cellulare. Apri il messaggio e leggi: "Cari auguri...". Un secondo dopo hai già risposto: "... anche a te". Non è più un gioco di scambi e di relazioni. Solo una questione di riflessi. A volte non ti soffermi neppure a guardare di chi si tratta. Anche perché non sempre è possibile. A volte arrivano sms da numeri che non ho memorizzato. E il messaggio è firmato da nomi comuni. Molto comuni. Troppo. "Un Natale felice a te e ai tuoi. Paolo". Ma io conosco almeno una ventina di persone che si chiamano Paolo. Di quale si tratterà? Per cui non mi pongo problemi e rispondo: "Anche a te e alla tua famiglia. Ilvo". Tanto costa poco. Anche se la tecnologia ricorre a soluzioni sempre più elaborate, per simulare il biglietto di auguri tradizionale.

Messaggi sofisticati, con disegni sempre più complessi. Alberi-di-natale-con-luci-intermittenti.
Presepi-con-o-senza-remagi. Accompagnati, talora, da canti natalizi. Quattro-cinque note. La tentazione, ovvia, è di usarli a nostra volta. Sostituire la firma, e "inoltrare" ad altri. Evitando, possibilmente, di girarli a chi te li ha spediti.

Gli sms: hanno impoverito il rito degli auguri. Lo hanno burocratizzato definitivamente. Completando l'opera avviata dalle e-mail. Che, però, erano e restano prerogativa di una cerchia ristretta. Perché la posta elettronica la usa, comunque, una minoranza colta di persone, i cellulari più o meno tutti. Della posta elettronica gli sms hanno riprodotto la tendenza a standardizzare il rapporto fra gli interlocutori. Colpa delle mailing-list. Delle agende di indirizzi che possono essere usate per mandare messaggi collettivi. Talora elaborati: poesie, detti celebri, citazioni di filosofi greci o da mistici medievali. I più militanti: frasi di teologi della liberazione. E' la situazione peggiore. Come rispondere se arriva, per sms, questa massima di Meister Eckhart: "... finché avrete dei desideri, Dio li soddisferà, avrete desiderio di eternità e di Dio fino a che non sarete perfettamente poveri. Poiché è più povero solo chi non vuole nulla e non desidera nulla" ?

Sei disarmato. Non puoi reagire con: "Auguri anche a te e ai tuoi". Si instaura così una relazione asimmetrica, almeno in apparenza. Perché, di fatto, quella citazione è stata spedita a qualche decina o centinaia di indirizzi. Una volta per tutte. Non a uno a uno. Anche per questo il Natale e le altre feste stanno perdendo il loro valore sociale. Troppi doni, pochi alberi di Natale, pochi presepi, pochi, pochissimi auguri veri, fatti in modo diretto. Ormai per marcarne il segno esclusivo, come un dono dedicato, gli auguri devi farli di persona. Almeno per telefono.

Altrimenti tutto scade nell'assoluto impersonale. I tentativi di personalizzare gli sms collettivi, usando, per risparmiare tempo, lo stesso messaggio ma cambiando, di volta in volta, il nome del destinatario insieme all'indirizzo, trasmettono, comunque, una sensazione insopprimibile di artefatto. E lasciano aperti varchi pericolosi a equivoci imbarazzanti.

A me, ad esempio, il giorno di Natale è arrivato un sms - firmato da una persona a me nota - che recitava: "Caro Matteo, tanti cari auguri a te e famiglia". Matteo. Così gli ho risposto: "Anche a te e ai tuoi, caro Marco". Io non mi chiamo Matteo. Lui non si chiama Marco. Così ho ristabilito una relazione simmetrica. Fra due persone che si conoscono ma non si ri-conoscono. Un gioco di maschere e di finzioni.
Forse un segno dei tempi.

(1 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se l'Italia perde l'arte di arrangiarsi
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2009, 01:11:11 am
ECONOMIA      MAPPE

Se l'Italia perde l'arte di arrangiarsi

di ILVO DIAMANTI


CE LA FAREMO anche stavolta. Gli italiani ne sono certi. Lo testimoniano i sondaggi. Lo rammentano - e lo ripetono - le autorità più autorevoli. Della politica e dello Stato. In ogni occasione. Senza differenze politiche, per una volta. Ce la faremo come abbiamo sempre fatto in passato. Tanto più se e quando ci davano per spacciati. Dopo la guerra, dopo gli anni bui del terrorismo e della crisi. Dopo la fine della prima Repubblica, Tangentopoli e la recessione. Quando nessuno avrebbe scommesso che saremmo entrati nella Ue.

E dopo Calciopoli? Abbiamo vinto i mondiali. Per cui ce la faremo anche stavolta. Noi, italiani, maestri dell'arte di arrangiarsi. Considerata il distintivo del nostro "spirito nazionale". Come dimostrano le indagini condotte da LaPolis per liMes negli ultimi quindici anni. L'arte di arrangiarsi. Ammessa da un'ampia quota di popolazione. Senza timidezza e senza vergogna.

D'altronde, di che ci dovremmo vergognare? L'arte di arrangiarsi riflette e descrive la nostra capacità di adattamento. Che sconfina nel trasformismo opportunista, che tanto materiale ha fornito alla "commedia all'italiana". Citiamo, per tutti, un film di Pietro Germi degli anni Cinquanta. Intitolato (guarda caso): "L'arte di arrangiarsi". Protagonista un Alberto Sordi inarrivabile, che, per "adeguarsi" ai cambiamenti del paese, diviene, volta a volta: socialista, fascista, comunista e democristiano.

Tuttavia, l'"arte di arrangiarsi" non riflette solo i nostri vizi, ma anche alcune importanti virtù. Descrive, in particolare, la capacità innovativa e creativa degli italiani. Non a caso, nelle analisi sul carattere nazionale, è spesso associata all'arte, alla moda, all'imprenditorialità. Ma anche alla cucina, allo stile di vita. Gli italiani, in altri termini, si immaginano un popolo di lavoratori, imprenditori, artisti, artigiani e commercianti. Magari anche furbi e opportunisti. Insofferenti alle regole. Diffidenti verso lo Stato. Capaci, però, di reagire alle difficoltà più difficili su base individuale e, ancor più, familiare e localista.

Visto che l'attaccamento alla famiglia e alla città completa il marchio dell'identità nazionale. La crisi, quindi, non deve spaventare, come sostiene il Presidente del Consiglio, che ha interpretato ed esportato con successo l'arte di arrangiarsi. La maggioranza degli italiani si riconosce in lui - e continua a votarlo - anche per questo. Perché ne impersona, senza timidezza, le virtù e i vizi.
Per cui sarà dura, ma "ce la faremo", anche stavolta.

Forse. Perché qualcosa, comunque, sta cambiando in noi. Dopo decenni di benessere e di successi, si coglie qualche scricchiolio nella nostra capacità di adattamento. L'"arte di arrangiarsi", nella percezione sociale, continua a ottenere grande considerazione. Tuttavia, una recente indagine condotta da LaPolis-Demos per Intesa Sanpaolo (uscirà su liMes, in un numero dedicato all'Italia: alcune tabelle in www. demos. it) la vede superata dall'attaccamento alla famiglia, fra i caratteri che distinguono gli italiani. Il che suggerisce uno slittamento emotivo dell'opinione pubblica che intacca, in qualche misura, anche il significato dell'"arte di arrangiarsi". Dal polo creativo e innovativo a quello difensivo. Un altro segnale, in tal senso, è la perdita di appeal della spinta imprenditiva.

La percentuale di quanti - per sé e per i propri figli - sceglierebbero un "lavoro autonomo", nel Nordest (l'area dove questa domanda è tradizionalmente più estesa) negli ultimi mesi (molto prima della recessione) si è attestata al di sotto del 28%. Sempre tanto e tuttavia 5 punti meno rispetto al 2002 e circa 8 meno del 2000 (Demos per "Il Gazzettino", marzo 2008). Un atteggiamento che si riflette nella realtà. Da un paio d'anni, infatti, la nascita di nuove imprese procede a ritmi molto rallentati. Tende, anzi, ad essere contrastata e talora sovrastata dalla cessazione di numerose attività aziendali.

È un sintomo significativo, vista l'importanza dell'impresa in Italia, come mito e modello, oltre che come fattore di reddito e sviluppo. Il problema è che i fili dell'arte di arrangiarsi si stanno, in qualche misura, logorando. Ma, soprattutto, si fatica a intrecciarli. La famiglia e il localismo, come le appartenenze professionali: sono divenuti luoghi di autotutela per interessi concorrenti e irriducibili. Il dinamismo molecolare della società, a cui fanno riferimento le analisi di De Rita e del Censis, oggi produce effetti dissociativi. Accorcia e schiaccia l'orizzonte delle strategie personali. Perché, a differenza del passato, si è perduta l'idea del futuro.

D'altronde, è il futuro stesso, come idea, ad essere passato di moda, reso inattuale dal presente infinito. Dalla tendenza irresistibile a guardare indietro, a discutere del passato che non passa mai. Ma è il passato stesso a rendere più difficile guardare e marciare in avanti, in modo infaticabile come prima. Perché la società italiana ha conquistato un benessere largo. Ha appreso i piaceri del vivere bene. È divenuta più pingue. Si è un poco impigrita. È invecchiata. Ha parcheggiato (e nascosto) i giovani in angoli confortevoli, ma periferici. Per cui fatica a coltivare l'arte di arrangiarsi come professione creativa e costruttiva.

Non ha più il fisico, la rabbia di un tempo. (Anche se appare perennemente incazzata). Ha smarrito un po' dello spirito animale che le permetteva di reagire e innovare comunque e dovunque. Teme di perdere il benessere ottenuto, dopo averlo conquistato al prezzo di tanta fatica. In più, deve fare i conti con altre società lontane che la globalizzazione ha reso vicine.

Demograficamente giovani, economicamente aggressive. Mentre gli "altri" intorno a noi ci inquietano. Non solo perché minacciano la nostra sicurezza, ma perché ci sfidano sul nostro terreno. L'imprenditorialità, ad esempio. Ci sono 230 mila aziende i cui titolari provengono da paesi esterni alla Ue (anche per questo la Lega vuole imporre loro una fideiussione onerosa all'avvio di un'attività economica; sono tanti e fanno concorrenza ai "padani" in casa loro).

Quanto alla politica, i cambiamenti nella seconda Repubblica sono talmente rapidi e profondi che il personaggio di Alberto Sordi oggi faticherebbe ad adeguarsi. Più che di trasformismo è tempo di camaleontismo. Per narrarlo ci vorrebbe Woody Allen. Se volesse girare una nuova versione di "Zelig", l'Italia gli fornirebbe uno scenario ideale.

(11 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se si scioglie il Polo del Nord
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 07:37:37 pm
LE MAPPE

Se si scioglie il Polo del Nord

di ILVO DIAMANTI


Intorno a Malpensa si è combattuta una guerra politica destinata a durare ancora a lungo. Condotta dentro i confini del centrodestra, mischia simboli e interessi riassunti da una bandiera o forse un mito. Il Nord.

Ma, in effetti, la posta in gioco appare più ampia. Il territorio come fondamento della rappresentanza e dell'identità che accomuna e divide il centrodestra. Il quale, d'altronde, nasce così, nel 1994. Un'invenzione di Silvio Berlusconi, attuata coalizzando forze politiche largamente antitetiche. Oltre ai neodemocristiani del Ccd (i meno "pesanti" sul piano elettorale), Lega Nord e Alleanza Nazionale, cioè la Lega Sud. Il Federalismo ultrà (in seguito secessionista) e la Nazione. Il tutto tenuto insieme dall'Italia, apertamente evocata nel simbolo e nel nome dal partito personale creato da Berlusconi. Forza Italia. Più che un marchio, un grido. L'inno dell'Italia azzurra, che echeggiava la passione sportiva e la patria televisiva. Più dell'Italia come nazione: la Nazionale di calcio e Italia 1. Il Milan più di Milano. Anche per questo e in questo modo Berlusconi riesce a coalizzare gli opposti, a renderli compatibili. Attraverso un network ideologicamente leggero e personalizzato. Capace, però, di associare tutti i possibili significati del territorio. Il Nord, la Nazione, l'Italia, il federalismo regionalista. Vincendo, così, la sfida con il centrosinistra, attardato a esibire bandiere ideologiche ormai vecchie e scolorite. Quindici anni dopo, molto è cambiato, ma queste radici restano. Salde quanto prima, come dimostra la vicenda di Malpensa. Su cui intendiamo tornare solo per precisare la mappa che ne spiega i conflitti.

Alitalia, anzitutto. Riguarda Roma, visto che da sempre gravita su Fiumicino. Non può interessare la Lega, da cui si distanzia, anzitutto, per motivi di lessico e identità. Alitalia è Al-Italia. "O si fa Al-Italia o si muore", proclamava Berlusconi prima e dopo le elezioni, sostenendo la necessità di salvare la compagnia di bandiera in nome dell'interesse nazionale. Dell'italianità. Non poteva e non può, la Lega, rispondere al richiamo di una bandiera al-italiana. Peraltro, piantata a Roma. Divenuta, oggi, capitale non solo della Nazione ma di Alleanza Nazionale. Alla Lega interessa assai di più Malpensa. Situata lungo l'asse fra Milano e Varese. Dove si incontrano e si scontrano diversi interessi e diversi attori politici. Diverse facce della stessa alleanza, in aperto contrasto e in aperta concorrenza.

a) La Lega, anzitutto. In quest'area ha radici profonde e, oggi, una base elettorale molto ampia. Una sorta di capitale padana.

b) Formigoni, governatore della Lombardia da quasi quindici anni. Interprete dell'esperienza di Cl, del Movimento popolare. Oggi della Compagnia delle Opere. Determinato a mantenere un ruolo importante nel rapporto con Roma. In nome della Regione e della Lombardia. Sfidando, così, apertamente la Lega di Bossi che è, in origine, Lombarda.

c) Letizia Moratti, sindaco di Milano. L'altro polo della contesa di Malpensa. Teme di vedere la "sua" città risucchiata dalla vertenza fra il Nord della Lega, la Lombardia di Formigoni e il paese di Al-Italia, su cui regna Berlusconi. Il cui presidio è a Milano. Per questo non può accettare il ridimensionamento di Linate, l'aeroporto metropolitano. Per questo non può accettare un confronto che vede lei e la sua città comprimarie più che protagoniste.

d) Sopra tutti - e per questo al centro della guerra - c'è Silvio Berlusconi. Il passaggio della vertenza da Alitalia a Malpensa lo disturba parecchio. Perché accentua le distinzioni e le distanze originarie della sua invenzione: il cartello politico del territorio. Il Polo del Nord e del Sud. Riapre lo scontro fra Milano e Roma, alla base dell'identità leghista, ma anche del suo successo. E alimenta nuovi conflitti "locali": fra Milano, la Lombardia e il Nord. Ma Berlusconi teme, soprattutto, il riaprirsi della "questione settentrionale" oggi che al governo c'è lui e la sua leadership si sta allargando da Forza Italia al PdL. Il Nord, d'altra parte, è divenuto un riferimento largamente condiviso dai cittadini, come emerge da una recente indagine LaPolis-Demos per Intesa Sanpaolo (uscirà su Limes, in un numero dedicato all'Italia). È l'ambito territoriale in cui si riconosce maggiormente circa il 20% dei cittadini residenti nelle regioni dell'Italia settentrionale (ad esclusione dell'Emilia Romagna). Una quota di poco inferiore a quella dell'Italia, ma più ampia rispetto alla regione e perfino alla città. In altri termini, oggi i cittadini del Nord si dicono nordisti più ancora che milanesi o lombardi. Questa "identità", peraltro, diventa dominante nella Lega. Fra i suoi elettori, infatti, i "nordisti" salgono al 38%, mentre gli "italiani" sono il 22% e le altre appartenenze (città, regione) scivolano sotto il 10%. Al contrario, gli elettori del PdL si sentono soprattutto "italiani" (intorno al 25%, come coloro che dichiarano attaccamento alla loro città) mentre i "nordisti" sono il 7%. Il 16% di essi, al contrario, considera il Nord il riferimento territoriale più lontano. Da ciò il problema per Berlusconi e, in fondo, per il centrodestra: la titolarità della rappresentanza territoriale ne fonda ma al tempo stesso ne mina il consenso. Tanto più quanto più assume rilevanza, sul piano degli interessi e dell'identità. Non solo perché divide il Nord da Roma e dal Mezzogiorno. Anche perché divide "i" Nord, soprattutto nell'area lombarda. Il problema, peraltro, è destinato a riproporsi e, per alcuni versi, a moltiplicarsi nel prossimo futuro. Soprattutto in occasione della riforma federalista.

Un'ultima considerazione. La vertenza di Malpensa delinea una geografia del Nord semplificata e ridotta. Una sola capitale: Milano, allargata alla Brianza. Una sola regione: la Lombardia. Tutto il resto: periferia. Il Nordovest e il Nordest. Torino - dove governa il centrosinistra - e il Veneto - dove il PdL e soprattutto la Lega sono più forti che in Lombardia. Difficile parlare di "questione settentrionale" quando sparisce mezzo Nord.

(18 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Tra Lega e Pd la strategia del flirt
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2009, 09:44:27 am
MAPPE

Tra Lega e Pd la strategia del flirt

di ILVO DIAMANTI



Potrebbe la Lega tradire il Pdl per fuggire con il Pd? E Bossi abbandonare Berlusconi per Veltroni? Il quesito echeggia nelle stanze della politica dopo il voto sul disegno federalista, bandiera della Lega, approvato nei giorni scorsi con il voto della maggioranza e l'astensione del Pd e dell'Idv. Di fatto: con il consenso - condizionato - del centrosinistra. Difficile non rammentare il 1995, quando la Lega, dopo la rottura con il Polo di Berlusconi, si presentò da sola a tutte le scadenze elettorali. Appoggiando, in alcuni ballottaggi, l'Ulivo. Il quale vinse, per questo, le elezioni regionali del 1995, ma anche le politiche del 1996. Quando la Lega trionfò.

Inneggiando alla secessione. È possibile che in futuro si riproponga lo stesso schema? Che la Lega, partito del Nord, possa sfidare il Pdl, il Polo del Centrosud, ancorato a Roma (An) e in Sicilia (Forza Italia)?
Quesito legittimo, visto che, alle elezioni legislative, la Lega ha conquistato oltre l'8% dei voti, a livello nazionale, ma quasi il 20% nel Nord (esclusa l'Emilia Romagna). E successivamente, secondo i sondaggi, è cresciuta, fino a superare il 10%. Il che significa: primo partito in Lombardia e Veneto, dove si aggirerebbe intorno al 30%. D'altra parte è chiaro che il concorrente diretto della Lega è il Pdl, non certo il Pd. Tra i simpatizzanti della Lega, 2 su 3 si dicono vicini al Pdl (nel Nordest, sondaggio Demos per il Gazzettino, luglio 2008). Reciprocamente, 8 simpatizzanti su 10 del Pdl si dicono vicini alla Lega.

Passando alle radici territoriali, alle elezioni del 2008 la Lega si è imposta come primo partito in oltre 800 comuni su un totale di 4000 (pressappoco) che ne conta il Nord (senza l'Emilia Romagna). Nella gran parte dei casi, però, si tratta di un "ritorno", visto che, dopo il 1996, erano stati "conquistati", perlopiù, da FI (si veda l'analisi delle elezioni 2008 su www.demos.it).

Da ciò il problema, per la Lega: trattenere gli elettori "mobili" che, a ondate, in alcune occasioni la spingono in alto, allargando la base "fedele", peraltro ampia e solida. Perché più di ogni altra forza politica la Lega presenta i caratteri del "partito di massa". È radicata nella società e sul territorio del Nord, dove governa in centinaia di comuni piccoli e medi. Dispone di una base fedele, rilevante: il 4% su base nazionale, poco meno del 10% nel Nord. Questi elettori la votano sempre e comunque. Per atto di fede. Esprimono un alto grado di identità "comunitaria". Circa 2 su 3, fra i leghisti, affermano di frequentare in larga maggioranza persone che hanno "le loro stesse opinioni politiche" (LaPolis, maggio 2008, 2100 casi; per dati e tabelle rinviamo a www.demos.it).

Al tempo stesso, però, più degli altri partiti, la Lega riesce ad attirare elettori da altri settori politici, ma anche a perderli. Con un effetto a fisarmonica. È già avvenuto in passato, negli anni Novanta. Si è verificato anche in questo decennio. Alle ultime elezioni, in particolare, ha raddoppiato i voti, perché accanto agli elettori fedeli se ne sono aggiunti altrettanti di nuovi. Ne possiamo osservare i principali caratteri utilizzando i dati di un'indagine condotta nei mesi successivi al voto. Gli orientamenti che distinguono maggiormente i leghisti "nuovi" dai "fedeli" sono, in ordine di importanza, la paura degli immigrati, la domanda di sicurezza, la sfiducia nello Stato e nella politica. Aspetti che, perlopiù, specificano l'insieme della base leghista dall'elettorato nel complesso. Ma che raggiungono, fra i neo-leghisti, un livello elevatissimo, il più alto in assoluto. La Lega, in altri termini, ha interpretato il senso di insicurezza che ha investito la società italiana, soprattutto nel Nord.

Non è un caso che abbia conseguito la maggior crescita elettorale in due province, Verona (+19 punti percentuali) e Treviso (+ 17), dove governano Tosi e Gentilini. Sindaci (o prosindaci) leghisti, capaci più di ogni altro, di intercettare - ma anche di alimentare - le paure suscitate dalla criminalità e dai flussi migratori. Inscindibilmente collegati, nel senso comune. Inoltre, i "nuovi" elettori della Lega l'hanno usata come un messaggio antipolitico. Quasi uno su due, tra essi, spiega il proprio voto anzitutto come un atto di "protesta".

Il "federalismo", per questo, è importante, per la Lega. È una bandiera condivisa, in grado di tenere insieme i sentimenti e i risentimenti di un elettorato, peraltro, molto differenziato. Ma, nel tempo della politica come marketing, è stato "clonato". Intercettato e riproposto da tutti, come ogni messaggio dotato di appeal. Così il Federalismo, parola scandalosa vent'anni fa, oggi echeggia dovunque. Ne parlano tutti, senza timidezza e senza vergogna. Anche i più centralisti dei centralisti. Anche le forze politiche più "meridionali". Poco è costato ai "romani" di An e ai "siciliani" di FI sostenerlo. E al Pd astenersi. Tanto il decreto del governo è in-definito. Non se ne conoscono con precisione i costi e i vincoli. Il federalismo a parole: dispiace a pochi. Giusto all'Udc. Paradossalmente: per giocare il gioco della Lega. Per distinguersi da tutti.

Ma davvero la Lega può "staccarsi" da Berlusconi come nel 1994? Ciò che avvenne dopo quella data dovrebbe apparire educativo. Visto che la Lega secessionista trionfò nel 1996 per crollare successivamente. Quando, solitaria, negli anni seguenti finì ai margini del sistema politico. Abbandonata da molti elettori che l'avevano votata, in precedenza, per costringere Roma a una maggiore attenzione verso il Nord, non per andarsene dall'Italia. Oggi, come nel 1996, la Lega è tornata forte. Ma insieme al Pdl. A Berlusconi. Facendo l'opposizione non "al" ma "nel" governo.

Il dialogo con il Pd può servire alla Lega. Per marcare le distanze da Berlusconi e da Fini. Da Roma Ladrona e dalla Sicilia Sprecona. Per fare pressione. Ottenere di più. Non oltre. Perché i leghisti non sono più, come un tempo, estremisti di centro. Quando - a metà degli anni Novanta - i loro elettori non stavano né a destra né a sinistra, ma "fuori" dallo spazio politico. Oggi, invece, la Lega è naturaliter affine (e concorrente) rispetto ad An, per cultura securitaria, e rispetto a Berlusconi, per cultura (anti) politica. Sullo spazio politico (i suoi elettori - nuovi e fedeli, non importa - si situano più a destra del Pdl. Non accetterebbero mai un'intesa stabile con il Pd. Con la Sinistra. Con gli ex democristiani e comunisti. Se non in occasioni e in contesti specifici. È solo un flirt. Per ingelosire l'amante e costringerlo a un'attenzione maggiore.

(26 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Società rotonda, anzi rotatoria
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2009, 09:10:27 am
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Ilvo Diamanti 

Società rotonda, anzi rotatoria
 

Da Caldogno - dove risiedo e, ogni tanto, vivo - fino a Vicenza ci saranno 5 o 6 chilometri. E 9 o 10 rotatorie. In linguaggio familiare: rotonde.
Il loro numero, peraltro, varia. A seconda del percorso scelto. Nel tempo: nell'ultimo anno ne sono sorte almeno 2. O forse 3, non ne sono certo. E' varia anche la loro forma, la loro dimensione. In alcuni casi si riducono a piccoli oggetti circolari di plastica o di cemento. Talora a cerchi tracciati con la vernice sull'asfalto. Oppure sono rilievi quasi impercettibili. Molto meno evidenti di un dosso. Tanto che ci si può passare sopra con le ruote, senza bisogno di rallentare.

Ma in genere le rotonde sono ampie e appariscenti. Parecchi metri di diametro. E non le puoi accostare con le ruote, perché i bordi del perimetro sono ben rialzati rispetto al fondo stradale. In alcuni casi, infine, le rotatorie sono manufatti di grandi e talora grandissime dimensioni, di aspetto monumentale e pittoresco. Al loro interno, infatti, sorgono prati, giardini, alberi tropicali. Sculture ardite. Non manca, in qualche caso, lo sponsor.

Le rotonde cambiano aspetto nel corso del tempo. Evolvono, come organismi viventi. Quando nascono sono appena abbozzate, un segno bianco schizzato a mano oppure una specie di puff di plastica rigida, ancorato al fondo della strada. Poi cresco, diventa grandi, assumono forme "rotonde" e si estetizzano.
Le rotatorie sono sorte per ragioni ragionevoli. Regolare e fluidificare il traffico. Affidarne la responsabilità diretta agli automobilisti stessi per non finire imprigionati dai vincoli imposti dai semafori, che non "vedono" i flussi della circolazione nelle strade che si incrociano. Per cui certe volte e a certe ore ci si trova bloccati dal rosso ad attendere il passaggio di vetture da altre strade perennemente vuote. Come il tenente Dogo, in eterna attesa dei Tartari; di un assalto che non avverrà mai. Mentre, altre volte e ad altre ore, l'arbitrario potere dei semafori produce ingorghi biblici.

E', dunque, legittimo e comprensibile il fine che ha ispirato l'era delle rotonde. E gli esiti soddisfano le attese. In alcuni casi. Quando la rotatoria fa, effettivamente, scorrere la circolazione stradale molto più rapidamente del semaforo al cui posto è sorta. Lo stesso avviene - a volte - nei crocevia privi di semafori. Dove chi procede dalle vie minori è costretto a lunghe soste, in attesa di una pausa del traffico sulla strada principale.

La rotonda: può essere utile. Può. Talora. Non sempre. Non dovunque. Da qualche tempo invece si sta riproducendo dovunque e senza soste. Senza limiti.
Ne sorge una ogni qualche centinaio di metri, nei punti e nei luoghi più impensati. Rotonde "alla francese", le chiamano, evocando un esempio "à la page".

Impropriamente, perché in Francia tante rotonde così non le ho mai viste. Da nessuna parte, in nessuna città, in nessun dipartimento. In Italia, invece, sono proliferate dappertutto. E continuano a riprodursi. Organismi autonomi, sfuggiti a ogni controllo e a ogni regola. Riflettono, se vogliamo cercare analogie, l'andamento del fenomeno urbano e immobiliare negli ultimi quindici-vent'anni. Ha mutato il paesaggio sotto i nostri occhi in tempi tanto rapidi e in modo tanto profondo che non ce ne siamo nemmeno accorti. O meglio: prima di percepirne l'impatto era già divenuto "senso comune". Una realtà data per scontata. Di cui è inutile lamentarsi, anche se, ovviamente, crea disagio.
Un po' come le condizioni atmosferiche. Il caldo sempre troppo caldo e il freddo sempre troppo freddo.

Così, a dispetto della crisi, sono sorti e continuano a sorgere nuovi agglomerati immobiliari anonimi, come i loro nomi: Villaggio Nordest, Quartiere Miramonti, Résidence Margherita... Per non parlare delle zone artigianali e industriali. Questo fenomeno si è dilatato a prescindere dalla domanda del mercato e dalla pressione sociale. Visto che la stagnazione demografica dura da decenni e negli ultimi anni l'economia non marcia troppo bene. Le rotatorie "seguono" la stessa dinamica. Anzi, la annunciano e la "anticipano". Quando si incontra una rotonda in apparenza senza significato, lungo una strada che procede diritta, senza incroci, nel vuoto urbano è segno che lì qualcosa sta per capitare. E' probabile - anzi: certo - che intorno sorgerà presto un nuovo quartiere, una nuova zona residenziale.

Le rotatorie, come le nuove intrusioni immobiliari, cambiano il paesaggio. Ridisegnano la geografia quotidiana e le mappe della circolazione.
Per questo ri-orientano ma al tempo stesso dis-orientano. Cambiano non solo la viabilità, ma il modo stesso di affrontare e di guardare il territorio.
Mesi fa, dopo una breve assenza (un paio di settimane), alle porte di Caldogno ho incontrato (mi sono scontrato con) una nuova rotatoria, finalmente conclusa, dopo mesi di lavori che rallentavano il traffico (fino a quel momento, peraltro, del tutto normale). Dopo averla imboccata, mi sono trovato altrove. In mezzo ai campi. Ma mi sono arrestato subito - poco avanti - davanti a una recinzione. Al di là, terreni incolti e - per ora - vuoti. Su cui, però, presto sorgerà - diciamo così - qualcosa. Lo stesso avviene altrove. Penso a Tavullia.

Ci passo ogni settimana per andare a Urbino. E mi ci perdo, qualche volta, imboccando l'uscita sbagliata di una doppia rotonda - una specie di otto volante - in cima alla salita, prima di entrare in paese. Ma è la patria di Valentino Rossi, terra di piloti esperti. Mentre io - penseranno molti - sono un "impedito". Anche se in auto percorro almeno 50mila chilometri l'anno. Però lo ammetto: sono un "disadattato". "Non mi adatto" all'estetica del tempo nuovo; all'era immobiliare, che ci ha affogati in un mare di cemento.

Non mi oriento in mezzo ai quartieri Miramonti e ai villaggi Margherita. E mi perdo nelle plaghe oscure, punteggiate di capannoni (spesso dismessi), traversate da via dell'Industria che incrocia via dell'Artigianato e corso della Meccanica. Tanto meno mi adatto a questa iperfetazione di rotonde. Immotivata per quantità, qualità e localizzazione. Tuttavia, pochi oggetti sono in grado di raffigurare la meccanica sociale in modo altrettanto efficace delle rotonde. Dove i pedoni non hanno diritto di cittadinanza. Dove i ciclisti possono circolare solo a loro rischio e pericolo. Perché la regola delle rotatorie è che passa prima chi entra per primo. Però, spesso prima passano il secondo e anche il terzo. D'altronde, non è sempre facile capire chi è entrato per primo. E, comunque, presto si capisce che la rotatoria è come la vita: devi farti coraggio ed entrare nel gorgo. Prenderti i tuoi rischi. Sgommando e tamponando, se necessario.

La rotonda. La rotatoria. Difficile trovare una metafora migliore per rappresentare una società che assiste, senza reagire, alla scomparsa del "suo" territorio e, insieme, delle relazioni fra persone. Anche perché stanno scomparendo gli spazi per parlare e perfino camminare. Così per comunicare si usano i cellulari. Naturalmente senza vivavoce, auricolari e quant'altro.
Una mano su volante e nell'altra il portatile. Con sprezzo del pericolo. Per sé e, soprattutto, gli altri.

Una società dove le regole si interpretano a proprio piacimento, a proprio vantaggio. Dove le persone se ne stanno sempre più sole o in piccoli gruppi di familiari e amici, racchiuse in nicchie, come le automobili, che le allontanano dagli altri e le rendono più aggressive. (Io quando guido sono un mostro).

Non è la società liquida di cui parla Bauman. Questa è la "società rotonda". O forse: rotatoria.

(23 gennaio 2009)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Medici (delatori) in prima linea
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 06:55:19 pm
Ilvo Diammanti


Medici (delatori) in prima linea


Probabilmente è involontario il doppio registro che impronta la comunicazione del governo, in questa fase.
Un male necessario, generato dalla convivenza di soggetti politici tanto diversi. L'idea di libertà e, parallelamente, di controllo individuale che emerge - anzi: erompe - da alcune iniziative assunte con singolare sincronia.

Evoca una visione strabica e dissociata. Una doppia morale.

Da una parte, il chiodo della libertà di parlare senza essere ascoltati. L'ossessivo mantra sulla necessità di impedire le intercettazioni, limitandole al minimo. Non importa se utili alle inchieste. Anche se l'intenzione si scontra con l'impossibilità pratica di attuarla. Perché le orecchie che ascoltano le nostre conversazioni sono ovunque. Come gli occhi che ci scrutano. Noi siamo "tracciati" a ogni passo e in ogni conversazione. Altro che i prodotti alimentari. E se qualcuno ci osserva e ci ascolta è difficile - velleitario - impedirgli di archiviare le nostre parole, i nostri messaggi, le nostre azioni, i nostri percorsi internautici. Nonostante le leggi. Che possono condizionare l'azione delle autorità pubbliche. Magari dei giornali.

Non degli "altri" spioni, nascosti nell'ombra, nell'etere, nella rete, lontano da qui.

D'altronde, il guardonismo è divenuto un genere mediatico di successo. Come dimostrano i grandi fratelli, le talpe e le isole dei presunti famosi. Ma il Presidente del Consiglio - e proprietario di Mediaset, paradiso dei reality - insiste. Anche perché - dice - lui, per primo, è stato intercettato e certe sue conversazioni se uscissero lo convincerebbero ad andarsene dall'Italia. Non capiterà. Anche se quelle conversazioni dovessero uscire, ormai ci siamo abituati a tutto. Lui stesso, ne dice di tutti i colori, un giorno sì e l'altro pure. Non in privato o al cellulare. Ma in pubblico. Di fronte ai microfoni. Per poi smentire, precisare, rettificare ciò che tutti hanno sentito. Figurarsi se il pubblico si scandalizzerebbe di fronte ai contenuti delle sue intercettazioni. Da lui è disposto ad accettare - e ha accettato, fino ad oggi - di tutto.

Tuttavia, la preoccupazione per questo Grande Occhio, per questo Grande Orecchio che ci spia dovunque non è da prendere alla leggera. Noi, almeno, non lo facciamo. Per quanto disillusi, scettici e un poco cinici. Nonostante tutto: questo martellante riff sul diritto alla privacy ci sembra utile. Serve a frenare almeno un poco l'inquietante e rapida scomparsa dell'uomo privato. Soprattutto se il monito viene dal Signore dei media e della comunicazione. A cui tanta parte della popolazione crede. Dal governo che ci governa, senza quasi opposizione.

Per questo ci chiediamo come possa lo stesso governo, come possano le stesse forze politiche, come possa il Presidente (del Consiglio, per ora), come possano quelli che combattono lo spionismo quotidiano: come possano incitare alla medesima pratica i medici. Coloro a cui affidiamo la nostra salute, il nostro corpo, la nostra stessa identità. Coloro a cui consegniamo i nostri segreti più segreti, tanto segreti che talora restano segreti anche a noi. Coloro che sorvegliano la nostra vita e la nostra morte. Dovrebbero indagare su immigrati, barboni, sbandati, quando si rivolgono a loro, quando vengono ricoverati d'urgenza. E se clandestini, irregolari, homeless: schedarli e denunciarli. Naturalmente dopo averli curati. Così li possono arrestare senza troppi problemi.

Doctor House. I medici in prima linea. Il mio amico Vincenzo, che dirige il Pronto Soccorso. Non lo farebbero e non lo faranno mai. Figurarsi. Un medico.

Non fa obiezione di coscienza quando rifiuta di denunciare i poveracci che si rivolgono a loro in stato di necessità. E' questione di etica professionale oltre che personale. Come la chiamano? Deontologia. E poi, se il governo e il suo presidente rivendicano il diritto dei cittadini (e in particolare il proprio) a non essere ascoltati quando si è al telefono. Se esigono che, a maggior ragione, le loro chiacchiere non vengano raccontate in giro. Ma come possono pensare che un medico possa fare il delatore. "Vendere" un paziente, magari ricoverato d'urgenza, tanto più se in condizioni sanitarie - e sociali - penose? E' come chiedere al prete di raccontare i segreti raccolti in confessione. Alla Caritas di denunciare i poveri e gli stranieri che accoglie e assiste. Agli avvocati di rivelare quel che sanno dei loro tutelati. Al commercialista di raccontare i conti "veri" dei loro clienti.

Altro che Tavaroli e Genchi. Altro che le centrali di ascolto e gli archivi delle intercettazioni. Questo paese versa ormai in uno Stato impietoso.


(6 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Benefattori anonimi
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 12:08:57 am
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Benefattori anonimi

Ilvo Diamanti


PERCHE' la politica non si occupa più del "bene comune"? La questione è molto dibattuta negli ambienti politici. Quasi che il problema non li riguardasse. Ma, forse, è per chiamarsi tirarsi fuori. Sullo stesso argomento, peraltro, si interrogano le associazioni e i circoli culturali. Come fa, in questi giorni, l'Istituto intitolato a Vittorio Bachelet. Uno che al bene comune ha dedicato e sacrificato la vita.

Ho, tuttavia, l'impressione che la discussione sia viziata da un equivoco di fondo, riassumibile nel legame - dato per scontato - binomio tra bene comune e politica. Attribuendo la (presunta) scomparsa del bene comune, dalla scena pubblica, alla politica. Corrotta. Oligarchica. Ridotta a marketing. A spettacolo di bassa qualità, in onda a tempo pieno sui media. Il che è quantomeno parziale e riduttivo. Anche accettando l'idea di una politica asservita alla logica del marketing. Una politica che costruisce i messaggi e i comportamenti in base alle preferenze espresse dal pubblico a cui si rivolge. E si serve del Grande Orecchio Demoscopico. GOD. Il Dio dell'Opinione. E lecito il sospetto. Se la Politica, serva dell'Opinione Pubblica, non si interessa al Bene Comune forse è perché il bene comune non interessa all'opinione pubblica. Se non a parole. D'altronde, da molto tempo il Bene Comune gode di reputazione modesta. E' irreputato. Sotto diversi punti di vista e per diverse ragioni, che riguardano entrambi i termini del concetto.

Anzitutto il Bene, da parecchio tempo, è considerato male. E guardato peggio. Chi lo predica è considerato un idealista. Un cacciatore di nuvole, visto che gli ideali sono vaporosi, mutevoli e viaggiano rapidi. Proprio come le nuvole. Ma soprattutto: è ritenuto un debole. Vizio imperdonabile al tempo dei "cattivi", degli intolleranti, degli sceriffi, delle ronde, dei giustizieri. I nemici del "buonismo" (il pensiero debole fondato sul bene) godono di grande consenso, oggi, perché "rassicurano". Solo i cattivi possono difenderci dai cattivi che ci minacciano.

L'altro termine del concetto, Comune, è ancora più usurato. Non si sente più nominare. Se qualcuno ne parla è solo per sbaglio. E, quindi, si scusa e si corregge subito. D'altronde, veniamo da secoli di elegia del privato, dell'individuo, della specificità e della differenza. Ciò che è in "comune" non è di nessuno. Per cui è senza valore. Tanto più se viene associato - come spesso capita - al Pubblico, che, a sua volta, è perlopiù associato allo Stato. E tutto ciò che è Pubblico e Statale viene guardato con disprezzo. Pensate al Pubblico Impiego. Agli Statali. Ai Professori. Genia di fannulloni. Peggio dei romeni.

Si salva solo il pubblico con la p minuscola. La società intesa come una platea di spettatori che assistono - indifferenti - alla politica, alla cronaca rosa e nera, alle partite di calcio. Eternamente davanti agli schermi e ai media. Il pubblico, lo Stato. La gente li invoca solo in caso di emergenza. Come pronto soccorso. Dove si giunge in condizione di necessità e di urgenza e per questo ogni intervento sembra sempre tardivo, ogni terapia inadeguata. Così l'esasperazione e il risentimento, invece di sopirsi, si accendono ancor di più.

Per cui è difficile che la politica persegua il "bene comune", guardato dalla società con sospetto misto a dileggio. Certo, l'analista disincantato potrebbe avanzare il sospetto che la realtà sia diversa. E osservare che il "bene comune" non è scomparso. Anzi, muove i sentimenti e i comportamenti di gran parte delle persone. Basta pensare all'agire altruista e solidale. A quanti - tanti - fanno donazioni, dedicano parte del loro tempo ad attività volontarie. A quanti - tanti - si impegnano, nel loro quartiere e nel loro paese - per fini "comuni". Nella tutela dell'ambiente, del paesaggio, in azioni caritative. A quanti - tanti - si mobilitano a sostegno di valori universali. La pace, la solidarietà, il lavoro. Potrebbe, l'analista controcorrente, segnalare come il malessere sociale dipenda, almeno in parte, proprio dalla povertà di spazi, luoghi, occasioni dedicati al bene comune. Alla vita di "comunità". Perché il bene comune non serve solo al bene comune ma anche al bene(ssere) di chi lo persegue e lo pratica. Perché agire in "comune", per il bene "comune" soddisfa il "proprio" bene; il proprio bisogno di identità, di riconoscimento. Perché abbiamo bisogno di altruismo e di comunità. Ma, appunto, si tratterebbe solo di provocazioni. Per scandalizzare e, magari, far parlare i media. Guai a dire alla gente che è meglio di come è dipinta ed essa stessa si dipinge. Che, anche se non lo vuole ammettere, se non ne vuol sentir parlare: contribuisce al "bene comune". Guai. Penserebbe che la prendi in giro. Peggio: che la insulti e intendi metterla in cattiva luce.

Meglio rassegnarsi, allora. Essere duri, inflessibili. Dei mostri. Infelici. Almeno in pubblico. E per consumare la dose quotidiana di "bene comune" di cui abbiamo bisogno, meglio attendere. Quando e dove nessuno ci vede. Da soli. O in associazioni specializzate. Gli alcolisti anonimi del bene comune. I benefattori anonimi.

(13 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Sardegna capitale d'Italia
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 03:00:54 pm
MAPPE

La Sardegna capitale d'Italia

di ILVO DIAMANTI


In Italia ogni elezione assume valore politico nazionale. Non importa se municipale, regionale o europea. Così avverrà per la Sardegna. Tanto più per la Sardegna. Anche se è davvero un'isola. Una regione "speciale", per statuto, storia, società, economia. Tuttavia, si tratta della prima consultazione dopo le elezioni politiche dell'aprile 2008, il cui esito è stato tanto netto da rendere inattuale ogni possibile alternativa, politica e di leadership. Una sorta di elezione di mezzo termine in attesa dell'Election Day del prossimo giugno. Quando si voterà per il parlamento europeo e in molte importanti amministrazioni locali.

Si tratterà, dunque, di un test importante, per il centrosinistra e soprattutto per il Pd. Incerto sulle strategie e diviso da antiche rivalità personali. Il risultato della Sardegna potrebbe accentuarne le lacerazioni oppure aprire qualche spiraglio per guardare avanti. Per questo potrebbe sorprendere il protagonismo di Silvio Berlusconi, che da settimane batte l'isola, impegnato a pieno tempo nella campagna elettorale. Divenuta la "sua" campagna personale. Anche se, fino a prova contraria, egli governa il paese e non la Sardegna. Tanto attivismo e tanta attenzione hanno alcune spiegazioni precise. Anzitutto, la Sardegna è la capitale estiva dell'Italia di Berlusconi.

Fin dal 1994, quando il Cavaliere vi accolse Umberto Bossi, per scongiurare la defezione della Lega dal governo. Rammentiamo tutti il leader padano passeggiare, in canottiera, accanto a Berlusconi. Per poi tornarsene nel Nord. E rompere definitivamente con il Polo delle Libertà. Dopo il ritorno al governo del centrodestra, nel 2001, la Sardegna ha rafforzato il suo ruolo.

E' divenuta la Capitale estiva della Repubblica. In particolare, Villa Certosa, a Porto Cervo. Più che una villa, una residenza presidenziale, coerente con le ambizioni di Berlusconi. Sede istituzionale sontuosa, dove il Presidente incontra la sua corte di consiglieri, amici e amiche. Ma soprattutto i suoi pari. I potenti del mondo. Capi di Stato e di governo. Aznar, Blair, Putin, Mubarak. Il Presidente li accoglie in tenuta informale: bandana, braghe corte e camicia aperta sul petto. E li guida in mezzo a foreste di cactus lussureggianti, piscine, spiagge, baie e luna park. Dove organizza grandi feste festose, nelle quali si esibisce al pianoforte, e canta, accompagnato dal fido Apicella.
Più che un Presidente, un Sovrano. O almeno un Principe.

La Sardegna è la "sua" Isola. Casa "sua". Residenza estiva del "suo" governo. Per questo gli è difficile - anzi: intollerabile - abbandonarla ad altri. Soprattutto, a Renato Soru. Una storia, per alcuni versi, simile alla sua. Perché è un imprenditore, inventore di un'azienda innovativa e titolare di marchio di successo. Perché è, anch'egli, poco incline a piegarsi alle logiche della politica.

Capace di sciogliere il parlamento regionale, per marcare le distanze dalla sua stessa maggioranza, contro il suo stesso partito, il Pd. Per cui, oggi, egli appare il candidato di una lista presidenziale. Questa elezione appare, quindi, un confronto diretto, faccia a faccia. Un fatto personale: tra Soru e Berlusconi. Il quale, d'altronde, ha imposto un candidato a lui fedele, ma oscuro, Cappellacci, invece del sindaco di Cagliari, Floris, sicuramente più popolare e accreditato. Ma, appunto, Berlusconi voleva, anzi vuole, essere padrone lui, a casa sua. Senza fastidiosi concorrenti.

Peraltro, c'è chi vede in questa elezione il preludio a un prossimo, possibile confronto davvero nazionale. Quasi si trattasse, oltre che di eleggere il governatore della Sardegna, di designare il successore di Veltroni, in vista delle prossime, più o meno lontane, elezioni politiche. Una sorta di primarie del Pd. D'altronde, la politica italiana ormai si è presidenzializzata. Se non ancora dal punto di vista delle regole e del modello istituzionale, come vorrebbe Berlusconi, sicuramente nei fatti: nel modello di partito, nella comunicazione. E il centrosinistra, il Pd, pare abbia come unico problema e come unica missione la ricerca del candidato da opporre a Berlusconi. Un nuovo Berlusconi, magari. Simile a lui. Imprenditore, impolitico, decisionista. Insomma: uno come Soru.

Per questo Berlusconi preferisce chiudere subito i conti. Senza attendere che questa ipotetica alternativa si rafforzi; guadagni autorevolezza e legittimazione. Tuttavia, la campagna di Berlusconi in Sardegna ha anche finalità "interne" al centrodestra. Serve a ribadire la sua leadership, alla vigilia della fondazione del Pdl, di fronte a Fini, ma anche a Bossi. Sempre più insofferenti verso un premier che agisce da Presidente in un regime che presidenzialista, per ora, non è. E che non prepara alcuna successione. Perché pensa di vivere fino a 120 anni. Designando, semmai, il successore per via ereditaria, come in ogni regime dinastico che si rispetti.

Per questi motivi Berlusconi ha deciso di "scendere in campo" un'altra volta. D'altronde, lui vive la vita come una "campagna elettorale permanente". Ha bisogno di competizioni. E vuole vincere. Sempre. Per rinnovare il mito del Leader Invincibile.

Ciò significa, però, che a rischiare è soprattutto lui. Perché se vincesse si tratterebbe di una conferma dell'esistente. Il consolidamento di una leadership e di una maggioranza già solide. Ma se Soru vincesse, lo sconfitto sarebbe Berlusconi. Il che alimenterebbe nuove tensioni fra gli altri leader del centrodestra. E restituirebbe la speranza al centrosinistra, schiacciato dalla delusione. Gli fornirebbe, inoltre, qualche suggerimento per una possibile alternativa al Cavaliere. Non necessariamente Soru. Non necessariamente un imprenditore. Ma neppure un professionista della politica. Semmai: un professionista impegnato in politica.

Per queste ragioni, il voto in Sardegna avrà in ogni caso conseguenze nazionali. Rinnovando il mito del Presidente Invincibile. Oppure secolarizzandolo. Insinuando il dubbio verso una leadership che, invece, si nutre di certezze.

(15 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Paura di votare
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2009, 12:03:33 am
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Ilvo Diamanti


Paura di votare


Penso che Dario Franceschini abbia un profilo adatto a guidare il Partito Democratico. Il più lontano dal modello-Berlusconi. E dal gruppo dirigente che ha guidato il Pd e i partiti da cui proviene. Rispetto a Berlusconi, è proprio l'opposto. Non è mediatico, telegenico, imprenditore, anziano, potente, ricco. Cattolico ma non teodem.
Rispetto agli altri leader del Pd: non è un ex. Al massimo: dirigente del Movimento Giovanile della Dc.
La sua ascesa politica avviene attraverso il Partito Popolare e quindi: la Margherita, l'Ulivo e il PD. Insomma una storia vissuta dentro la seconda Repubblica. Non è neppure un capo corrente o un cospiratore. Insomma: non è un Caimano e neppure uno Scorpione. Ma neanche un Americano.

Se guardiamo ai suoi predecessori del centrosinistra, l'unico a cui può essere accostato è Prodi. Non perché gli somigli. Prodi era assai più coinvolto nella storia della prima Repubblica (per quanto da tecnico; e poi, non è una colpa). Ma per immagine. Prodi, tuttavia, è anche l'unico - mai dimenticarlo - che abbia sempre vinto contro Berlusconi. Magari di poco, pochissimo. Con un pareggio vittorioso. Ma non importa: lui, almeno, contro Berlusconi non ha mai perso. Anche perché è così diverso e alternativo rispetto al Cavaliere. Come Prodi, peraltro, Franceschini sullo schermo viene male. Uno dalla faccia onesta e bonaria, che meno va in tivù meglio è. (Anche se, a differenza di Prodi, in tivù ci va fin troppo. Dovrebbe auto-limitarsi). Perché i buoni in questa stagione politica non van di moda. Nemmeno gli onesti. Però da lui compreresti un'auto e anche una bici usata. Anche se è determinato e duro la sua parte. Altrimenti uno non diventa segretario del Pd, il secondo partito italiano. Il primo del centrosinistra, fino ad oggi.

Franceschini, insomma, ha tutto per sfidare Berlusconi. Perché è lo specchio dell'Altra Italia. Quella che oggi è all'opposizione. Minoranza precaria.
Ma, forse, con una rappresentanza più adeguata potrebbe anche cambiare. Comunque, riuscire a competere. Giocarsela. E' già avvenuto anche poco tempo fa.
Nel 2006 destra e sinistra, almeno, erano pari.

Ieri, peraltro, Franceschini ha fatto un discorso serio e - ancora una volta - onesto. Ma rischia di pagare il vizio d'origine, come non abbiamo mancato già di osservare.
Il modo in cui è stato designato. Da un'assemblea costituente eletta a sua volta per costituire il Pd, ma non per funzionare da organismo congressuale. Per eleggere il segretario, per quanto provvisorio. Una ratifica, insomma, arrivata dopo che Franceschini è stato "nominato" dal suo predecessore, con il consenso - magari non entusiasta - degli altri leader. Quasi una cooptazione ad opera dei soliti noti. Per cui anche se ha la biografia e la faccia giusta, ha seguito un percorso sbagliato. Ma per questo rischia di avere un futuro corto. Lui insieme al Pd. Franceschini dovrebbe, per questo, ascoltare il suo unico avversario di questa occasione: Arturo Parisi. E soprattutto la voce di tanti elettori del Pd. Promuovere una consultazione popolare vera, nei prossimi mesi. Non le primarie, che servono a selezionare il candidato a una carica istituzionale: il premier, il sindaco, il governatore. Ma una consultazione ampia quanto le primarie. Chiamiamole "primarie congressuali" da svolgere a fine aprile.
Aperte a tutti coloro che si riconoscano nel Pd. E intendano votare il segretario e gli organismi del partito. Disposti, al tempo stesso, a iscriversi, pagando una tessera low cost, ma comunque impegnativa: 8 o 10 euro, ad esempio. Un congresso vero ma largo e ampio come le primarie. In cui si misurino tutti coloro che davvero intendono guidare il Pd. Senza rete. Prima della tornata di elezioni europee e comunali di giugno. Non c'è tempo? Ma chi l'ha detto...

Comunque, queste "primarie congressuali" funzionerebbero da campagna elettorale mobilitando simpatizzanti e volontari in tutto il paese. Permetterebbero il confronto e la verifica intorno ai temi topici: la bioetica, le alleanze, la crisi, la sicurezza... Franceschini avrebbe ottime possibilità di vincerle, tanto più se avesse il coraggio di sfidare tutti, apertamente. Ribellandosi al destino di leader "secondario", come lo descrive la matita acuminata di Giannelli sul Corriere di oggi.
Lui, segretario provvisorio e precario, quasi uno specchio di questo paese precario e provvisorio, dove soprattutto i giovani sono attesi da un futuro precario e provvisorio quanto il suo. Faccia quel che gli altri dirigenti e l'assemblea del Pd non hanno avuto il coraggio di fare. Lasci da parte la paura di votare.

Ha tutti i requisiti per spiccare il volo.

(22 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli ex-voto del Pd esuli in Italia
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2009, 10:35:26 am
MAPPE

Gli ex-voto del Pd esuli in Italia

di ILVO DIAMANTI


SCOMPARSI.

Molti elettori che un anno fa avevano votato per il Pd: chissà dove sono finiti. I sondaggi condotti dai maggiori istituti demoscopici, infatti, oggi stimano il voto al Pd fra il 22 e il 24%. Alcuni anche di meno. L'IdV di Antonio di Pietro, parallelamente, ha pressoché raddoppiato i consensi e si attesta intorno al 9%. Le diverse formazioni riunite un anno fa nella Sinistra Arcobaleno, infine, hanno risalito la china, ma di poco. Nell'insieme, queste stime di voto non danno risposta al quesito. Anzi: lo rilanciano. Dove sono finiti gli elettori che avevano votato per il Pd nel 2008?

Rispetto ad allora mancano circa 10 punti percentuali. L'IdV ne ha recuperato qualcuno. Ma non più di 2 o 3, secondo i flussi rilevati dai sondaggi. E gli altri 7-8? Quasi 3 milioni di elettori: svaniti. O meglio: invisibili a coloro che fanno sondaggi. Perché si nascondono. Non rispondono o si dichiarano astensionisti. Oppure, ancora, non dicono per chi voterebbero: perché non lo sanno.

Certamente, non si tratta di una novità. L'incertezza è una condizione normale, per gli elettori. D'altronde, è da tempo che non si vota più per atto di fede. Inoltre, non si è ancora in campagna elettorale. E di fronte non ci sono elezioni politiche, ma altre consultazioni, nelle quali gli elettori si sentono più liberi dalle appartenenze. Come dimenticare, d'altronde, che il centrodestra ha perduto tutte le elezioni successive al 2001? Amministrative, europee, regionali. Fino al 2006: tutte. Forza Italia, in particolare.

Nei mesi seguenti alle regionali del 2005 i sondaggi la stimavano sotto il 20%. Dieci punti in meno rispetto al 2001. Come il Pd oggi. Ridotto al rango del Pds nel 1994. Sappiamo tutti cosa sia successo in seguito. Parte degli elettori di FI sono rientrati a casa, trascinati dal loro leader. Mobilitati dal richiamo anticomunista. Dalla paura del ritorno di Prodi, Visco e D'Alema.

Se ne potrebbe desumere che qualcosa del genere possa avvenire, in futuro, anche nella base elettorale del Pd. Ma ne dubitiamo. Non solo perché un richiamo simmetrico, in nome dell'antiberlusconismo, oggi è già largamente espresso - urlato - da altri attori politici. Primo fra tutti: Di Pietro. Non solo perché le elezioni europee - come abbiamo detto - non sono percepite come una sfida decisiva. Visto che sono, appunto, europee. Ma perché la defezione dichiarata nei confronti del Pd ha un significato diverso da quella che colpiva il centrodestra negli anni del precedente governo Berlusconi.

Allora, gli astenuti reali (rilevati alle elezioni) e potenziali (stimati dai sondaggi), tra gli elettori di FI, erano semplicemente "delusi". Insoddisfatti dell'andamento dell'economia e dell'azione del governo. Il quale aveva alimentato troppe promesse in campagna elettorale. Difficili da mantenere anche in tempi di crescita globale. Mentre, dopo l'11 settembre del 2001, quindi subito dopo l'insediamento, era esplosa una crisi epocale, destinata in seguito ad aggravarsi. Si trattava, perlopiù, di elettori senza passione. Moderati oppure estranei alla politica. Non antipolitici. Semplicemente impolitici. Non era impossibile risvegliarli. Spingerli ad uscire di nuovo allo scoperto. Il caso degli elettori del Pd è molto diverso, come si ricava da alcuni sondaggi recenti di Demos.

Coloro che, dopo averlo votato un anno fa, oggi si dicono astensionisti, agnostici o molto incerti (circa il 30% della base PD) appaiono elettori consapevoli, istruiti, politicamente coinvolti. Rispetto agli elettori fedeli del PD, si collocano più a sinistra. Si riconoscono nei valori della Costituzione. Sono laici e tolleranti. Ça va sans dire. Oggi nutrono una sfiducia totale nei confronti della politica e dei partiti. Anzitutto verso il Pd, per cui hanno votato. Per questo, non si sentono traditori, ma semmai traditi. Perché hanno creduto molto in questo soggetto politico. Per cui hanno votato: alle elezioni e alle primarie. E oggi non riescono a guardare altrove, a cercare alternative.

La loro sfiducia, d'altronde, si rivolge oltre il partito di riferimento. Anzi: oltre i partiti. Oltre la politica. Si allarga al resto della società. Agli altri cittadini. Con-cittadini. Rispetto ai quali, più che delusi, si sentono estranei. Gli ex-democratici. Guardano insofferenti gli italiani che votano per Berlusconi e per Bossi. Quelli che approvano le ronde e vorrebbero che gli immigrati se ne tornassero tutti a casa loro. La sera. Dopo aver lavorato il resto del giorno nei nostri cantieri. Gli ex-democratici. Provano fastidio - neppure indignazione - per gli italiani. Che preferiscono il maggiordomo di Berlusconi a Soru. Che guardano Amici e il Festival di Sanremo, il Grande Fratello. Che non si indignano per le interferenze della Chiesa. Né per gli interventi del governo sulla vicenda di Eluana Englaro.

Non sono semplicemente delusi e insoddisfatti, come gli azzurri che, per qualche anno, si allontanarono da Berlusconi. Ma risposero al suo richiamo nel momento della sfida finale. Questi ex-democratici. Vivono da "esuli" nel loro stesso paese. Lo guardano con distacco. Anzi, non lo guardano nemmeno. Per soffrire di meno, per sopire il disgusto: si sono creati un mondo parallelo. Non leggono quasi più i giornali. In tivù evitano i programmi di approfondimento politico, ma anche i tiggì (tutti di regime). Meglio, semmai, le inchieste di denuncia, i programmi di satira. Che ne rafforzano i sentimenti: il disprezzo e l'indignazione.

Questa raffigurazione, un po' caricata (ma non troppo), potrebbe essere estesa a molti altri elettori di sinistra (cosiddetta "radicale"). Scomparsi anch'essi nel 2008 (2 milioni e mezzo in meno del 2006: chi li ha visti?). Non sarà facile recuperarli. Per Franceschini, Bersani, D'Alema, Letta. Né per Ferrero, Vendola, lo stesso Di Pietro. Perché non si tratta di risvegliare gli indifferenti o di scuotere i delusi. Ma di restituire fiducia nella politica e negli altri. Di far tornare gli esuli. Che vivono da stranieri nella loro stessa patria.

(1 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli esuli a volte ritornano
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2009, 10:12:50 am
Ilvo Diamanti


Gli esuli a volte ritornano

CAPITA, ogni tanto, che una Mappa - o una Bussola - susciti curiosità, interesse, magari irritazione. Anche se la reazione più consueta è normalmente più modesta. Perché io non so proporre soluzioni, lanciare parole d'ordine, indicare obiettivi. Mi sento a disagio, quando ci provo, anche nella vita privata. Preferisco cercare e guardare. Anche - anzi soprattutto - quel che sta sotto ai nostri - miei - occhi. Ma non ci facciamo caso. Più che altro per pigrizia. Oppure per auto-difesa. Perche genera disagio.

Così è avvenuto anche questa volta, di fronte a un fenomeno diffuso, che incontro da tempo fra le persone che frequento. Una sindrome, che colpisce elettori di sinistra: radicale, riformista e moderata. Si esprime attraverso un dispiacere senza nome, un senso di spaesamento mischiato a impotenza. E alla sensazione di solitudine. Di estraneità.

Ne aveva parlato Ezio Mauro, alcune settimane fa, evocando la "secessione silenziosa di quei cittadini che si disconnettono dal discorso pubblico e attraversano una linea che li porta in qualche modo nella clandestinità politica". Sono gli "esuli in patria" che ho cercato di descrivere e misurare nella mia Mappa di domenica scorsa. I quali mi hanno scritto in molti attraverso la redazione di Repubblica ma anche direttamente, al mio indirizzo e-mail dell'Università di Urbino. Per cui ho pensato di proporre alcuni dei messaggi che mi sono giunti a una lettura più ampia.

Perché, dopo averne parlato io, può essere utile far parlare direttamente loro. Gli esuli. Sentirne le ragioni, i sentimenti e i risentimenti. Le pubblico senza firma, per rispettare la privacy di chi ha voluto raccontarmi il proprio malessere personale, quasi come a un confessore (come mi ha scritto un lettore). Peraltro, per i motivi che ho suggerito, non intendo "dare risposte". Non ne sarei in grado. E non ho intenzione di trasformarmi da analista in terapeuta. D'altronde, l'analisi può funzionare da terapia quando ci permette di definire il contesto da cui origina il nostro disagio.

In questa sede mi limito ad alcune - poche - notazioni, che ricavo dai messaggi.

1. La prima osservazione è il senso sollievo - misto a un po' di rabbia - suscitato dal trovarsi, quasi, di fronte allo specchio. In grado di riconoscersi e di venire riconosciuti. Genera sollievo. Perché diventare "invisibili", anche se per scelta, è, comunque, frustrante. Come se ci si nascondesse non per scomparire ma, al contrario, per diventare più evidenti. Si divenisse invisibili per essere più visibili. Si scegliesse il silenzio per essere ascoltati. Per produrre un silenzio fragoroso.

2. Venire definiti e definirsi "esuli" può servire, quindi, a dichiarare il desiderio - e il diritto - di tornare. Di rientrare in patria. Non tanto nel Pd: ma nella società civile. D'altra parte, come scrive un lettore: "Oggi sono trasparente ai sondaggi ma aspetto di poter votare e di sicuro esprimerò il mio voto". Questo è un altro aspetto che ricorre in alcuni messaggi: solo una quota limitata degli esuli è fatta di astensionisti patologici. Pochi, peraltro, hanno cambiato voto, a favore dell'IdV. In maggioranza sono, invece, votanti "potenziali". Potrebbero votare ancora. Alcuni lo faranno di certo. Come annota un altro (e)lettore: "Il quadro degli ex-democratici descrive alla perfezione ciò che provo io (...) in questo periodo. L'unica cosa che faccio di diverso è votare ancora per il PD, tanto per arginare un po' la frana. Ma senza speranza. Il cuore però è sempre pronto a risollevarsi, nessun fuoco sul camino è mai completamente spento. Si deve solo soffiare sotto nel posto giusto".

3. Gli esuli, infatti, non sono stranieri. Si sentono semmai "ex cittadini" (come si descrive un lettore). Perché si sentono estranei ai valori e agli orientamenti pubblici dominanti. Espressi dai leader e dalle forze politiche che governano, con il sostegno della maggioranza degli elettori. Rispetto a cui gli esuli si sentono "altri".

Il che suggerisce due altre osservazioni.

4. La prima riguarda la democrazia. Che si fonda sulla libera espressione del voto. Sulle elezioni. Elemento necessario ma non sufficiente. Tuttavia, considerare la maggioranza con fastidio, guardarli come fossero degli abusivi, o reciprocamente: considerare se stessi "estranei": non aiuta. A conquistare la maggioranza. Occorre, almeno, interrogarsi sul perché i valori e gli orientamenti di cui si è portatori siano "minoritari". Senza dedurne, a priori, che ciò avvenga per ragioni di natura antropologica. Perché i "nostri", perché "noi" siamo migliori degli altri. Avessero pensato e agito in questo modo i cittadini americani dopo 8 anni di presidenza repubblicana, alla guida di Bush e dei teocon; se quelli che negli Usa da 8 anni - ancora 6 mesi fa - erano minoranza avessero scelto l'esilio - in patria - oggi alla presidenza non ci sarebbe Obama.
E poi a chi si sente naturaliter minoranza, in Italia, occorre rammentare che 3 anni fa non era così. Alle elezioni del 2006 lo schieramento di centrosinistra, l'Unione, conquistò la maggioranza. O forse no: pareggiò. Ciò significa, però, che in quel referendum pro o contro Berlusconi - come avviene in ogni elezioni dal 1994 ad oggi - metà del paese, di questo paese votò contro. E che metà degli italiani è, quindi, "potenzialmente" all'opposizione. Metà. Oggi, se i sondaggi dicessero il vero - e spesso non è così - le forze di opposizione, tutte insieme, raggiungerebbero il 35-37%: 13 punti percentuali e circa 5 milioni di voti in meno. In questa cifra il problema. Il vuoto, ma anche lo spazio intorno a chi vorrebbe un'Italia politica (e non solo politica) diversa.

5. L'altra osservazione, però, riguarda la cittadinanza politica, che dipende direttamente dagli attori politici. I partiti, i leader. In passato, nella prima Repubblica - e per quasi cinquant'anni - il 40% dei cittadini è stato all'opposizione senza possibilità di diventare maggioranza. Ma senza mai sentirsi straniera. E senza mai perdere la speranza. Allora, però, i partiti offrivano valori, identità, organizzazione, socializzazione. E ciò garantiva appartenenza, senso. Cittadinanza. Oggi non è più così. Anche se non si può dire che gli elettori del Pd non abbiano espresso il lor sostegno a questo progetto. Visto il risultato elettorale di un anno fa. Vista la grande partecipazione che ha caratterizzato le primarie. Semmai, il problema sta nello scarto fra un investimento tanto generoso e una risposta altrettanto povera. Da ciò la delusione, la secessione silenziosa. Per ri-conquistare gli esuli, i gruppi dirigenti del Pd dovrebbero rinunciare ai giochi di palazzo, a parlar di se stessi per "parlare nuovamente alle persone", come ha scritto Michele Serra. "Basterebbe una politica copiata da un noto estremista. Barack Obama", conclude un altro lettore. Ma forse anche meno. Una politica.


Messaggi degli esuli in patria

Caro prof. Diamanti, sono uno degli "esuli" (...) descritto nella sua ultima "mappa". La raffigurazione che ha fatto del mio status di ex-democratico (è eccessivo dire: ex-cittadino?) è perfettamente aderente a tutto ciò che nell'intimo sento e penso. Perché non organizza un corso di recupero per la dirigenza (?) del PD? Sono certo che non tenterà neppure di farlo perché sa, come me, che si tratta di un'impresa affatto disperata. Cordiali saluti

Elettore di sinistra da sempre, volontario nei seggi per le primarie che elessero Prodi, ho trasalito leggendo l'articolo di Ilvo Diamanti, domenica 1 marzo; pensavo alla solita analisi sul voto degli Italiani, ma man mano che procedevo nella lettura mi sono interamente riconosciuto nella descrizione, la raffigurazione che egli fa dell'ex elettore PD non è affatto caricata, ma assolutamente fedele e precisa(...). Altrettanto centrata è la conclusione: gli ex-voto del Pd si recuperano restituendo fiducia nella politica, politica di "sinistra" (ricordate Moretti) aggiungerei io. Ma non sono più d'accordo con Diamanti quando dice che sarà difficile. Certamente difficile sarà per l'attuale classe dirigente del PD, ma non per un PD che tornasse a fare una politica di "sinistra", basterebbe una politica copiata da un noto estremista quale Barack Obama.

Gentile dott. Diamanti, ho letto con molta attenzione il suo articolo su Repubblica di ieri 1° Marzo e mi riconosco molto in quello che scrive. La nausea per quanto sta accadendo in Italia, dal caso Englaro, alle ronde padane, agli attacchi quotidiani alla Costituzione alla non opposizione del P.D. mi fanno veramente sentire un apolide. La voglia di fuggire di andarsene all'estero, se solo le condizioni economiche lo consentissero, sarebbe fortissima. Anche io ho ridotto al minimo la lettura dei giornali, anche la visione di Ballarò si sta facendo rarefatta e perfino le discussioni con gli amici. Perché sempre si deve litigare (anche con gli amici) e non ci si sente più parte di un progetto comune. L'unica osservazione con la quale non concordo è il fatto che questa fuga dalla politica e dalla voglia di fare politica precluda anche ad una fuga dal voto. Oggi sono trasparente ai sondaggi ma aspetto di poter votare e di sicuro esprimerò il mio voto. Non posso non essere assolutamente consapevole che se non tentiamo un pur piccolo e fragile argine le conseguenze per la nostra società, per la nostra Democrazia, per le Istituzioni Repubblicane rischiano di essere disastrose. Credo, spero che questa consapevolezza sia patrimonio di quel popolo di soggetti che hanno votato a sinistra e che oggi sono di colpo scomparsi.

Ciao Ilvo, Ho letto la tua mappa di oggi(...). Il quadro che hai fatto degli ex-democratici descrive alla perfezione ciò che provo io (...) in questo periodo. L'unica cosa che faccio di diverso è votare ancora per il PD, tanto per arginare un po' la frana. Ma senza speranza. Il cuore però è sempre pronto a risollevarsi, nessun fuoco sul camino è mai completamente spento. Si deve solo soffiare sotto nel posto giusto.

Egregio Prof. Diamanti, sei io fossi cattolico direi che il suo articolo su Repubblica di oggi potrebbe essere stato scritto dal mio confessore, in violazione del segreto sacramentale. Lei descrive in modo assai preciso le sensazioni, le delusioni, le paure, le frustrazioni degli ultimi mesi e i punti di domanda che riguardano il futuro politico del Paese. Non posso tuttavia lasciar cadere la speranza che Franceschini riesca a comprendere appieno i pericoli che il PD sta correndo e possa far imboccare al partito la strada giusta per interpretare le istanze che vengono dall'Italia non berlusconiana. Ciò non in nome dell'antiberlusconismo ma dell'urgenza di ridare al Paese la speranza di poter presto tornare a collaborare da pari con gli altri partner europei meno arretrati, meno provinciali, meno bigotti del nostro. Sono un illuso? Forse. Per saperlo seguirò il lavoro di Franceschini e della segreteria giorno per giorno, inonderò di mail le redazioni dei giornali e lo stesso PD (pur consapevole del fatto che nessuno le leggerà!). Se dovrò concludere che il PD non risponde alle speranze riposte nell'idea del nuovo partito democratico, laico, progressista e riformista... sarò in un guaio serio: all'orizzonte vedo solo una scheda bianca, una resa incondizionata! Perdoni lo sfogo.

Egregio dott. Diamanti, ho appena terminato la lettura del suo articolo "Gli ex voto del Pd esuli in Italia". Mi ha sbalordito la sua capacità di tratteggiare uno stato d'animo che mi appartiene ormai da mesi, con una precisione estrema, quasi gliene avessi parlato privatamente. Non andando più a votare, non comprando più assiduamente i giornali, non seguendo più i dibattiti, odiando tutto ciò che lei ha descritto egregiamente (grande fratello, ronde, interferenza della Chiesa...), tanto più in una città come la mia, Milano, dove il berlusconismo è ormai sistema sociale oltre che di potere, mi sono sentito inizialmente in colpa, come quei dissidenti che anziché combattere in patria scelgono un esilio dorato. Dopo molte riflessioni, anche con amici, colleghi, conoscenti, non necessariamente delle mie stesse posizioni, ho capito una cosa molto importante: tutto ciò è per me una questione di rappresentanza mancata, nel senso di assenza di una sinistra capace di essere laica, attenta alle istanze sociali, ambientali, una sinistra alla Zapatero capace di perseguire una concezione della società forte, chiara, netta e non titubante tra le istanze della chiesa e quelle dei laici, tra quelle dei sindacati e quelle della grande industria, insomma tra tutti i poli tra cui è possibile oscillare. Se poi aggiungo che sono un laureato con uno stipendio da fame in un settore schiavizzato come quello dell'informatica, convivo con una persona che, pur essendo laureata, non fa altro che oscillare tra contratti atipici, che pur non avendone voglia mi trovo costretto a chiedere ancora aiuto ai genitori, potrà capire quanto sento su di me il fallimento della sinistra sui temi del lavoro, delle leggi laiche (vedi PACS, DICO o dir si voglia), della meritocrazia e potrà intuire quanta strada questa sinistra deve fare prima di riavere il mio voto.

Spett. le Redazione, Egr. Sig. Diamanti, ho letto con particolare interesse l'articolo dell'1.3.2009 a firma di Ilvo Diamanti sugli italiani "esuli nel proprio Paese". E' (...) una sorta di specchio in cui, riga dopo riga, vedevo riflettersi la mia precisa immagine. Non avrei potuto descrivere meglio (...) il mio stato d'animo, il mio "sentire", il mio disagio (che, tuttavia, so appartenere a molti). La domanda che vorrei rivolgere ai "dirigenti" del PD è questa: com'è possibile che non vi accorgiate di questo disagio? E' talmente evidente, è così macroscopicamente chiaro, questo disagio diffuso, da imporre domande scomode di fronte all'assenza totale di opposizione... E' talmente tangibile (anche in termini elettorali) questo rigetto per un partito così desolatamente "buonista" (odio questo termine!), un partito così vergognosamente acquiescente di fronte alle prove di regime, di fronte all'evidente e gigantesco conflitto di interessi in cui annega la nostra democrazia, che le cerebrali e inutili discussioni tipiche degli intellettuali di sinistra sanno ormai di "collusione".
I Partigiani, anch'essi "esuli" nel proprio Paese, dopo l'8 Settembre del 1943, rischiarono la vita per la nostra Libertà. Possono, i Dirigenti del PD, rischiare almeno la faccia per recuperare credibilità e urlare - finalmente urlare - che quella Libertà la vogliamo proteggere, anzi ormai recuperare?

Egregio prof. Diamanti, ho letto il suo articolo su LA REPUBBLICA (...) e vorrei portarle la personale testimonianza di un astenuto che proviene dalla sinistra. Il mio non voto è figlio dell'infelice esperienza del governo Prodi(...). Per quanto attiene ad alcuni elementi del profilo dell'astensionista che lei individua, mi permetto di dirle la mia personale posizione
(statisticamente non faccio testo, ma per quello che può servire ...): 1) Personalmente non mi colloco più a sinistra del PD: Ritengo infatti che in Italia la sinistra può vincere e governare solo se si smarca dall'estrema sinistra. E' il centro del segmento elettorale che bisogna conquistare, non le frange estreme che storicamente ci saranno sempre. E quando si imbarcano creano solo disturbo nell'attività di governo. 2) Mi riconosco nei valori della Costituzione. Ritengo che debba invece essere aggiornata la parte relativa all'organizzazione delle istituzioni (camera, senato, governo, giudici, ecc.) e troppo tempo si è perso nel farlo, per colpa di tutti. 3) A differenza degli astensionisti di ultrasinistra (tipo i girotondini per capirci), non amo la corporazione dei giudici intoccabili e improduttivi che non hanno mai responsabilità di nulla e attribuiscono tutte le colpe della cattiva amministrazione della giustizia solo al governo che non dà soldi. 4) Nutro, ormai a 53 anni, una sfiducia totale nei partiti. 5) Non guardo con insofferenza a quelli che votano al centrodestra. La vita mi ha insegnato che le mie sconfitte sono dipese solo da me e perciò non ho mai inveito contro chi ha vinto in seguito a mia incapacità. E' stato solo bravo, dove invece io ho fallito. E ritengo che l'opposizione non debba essere fatta dicendo solo no. 6) Non mi indigno verso chi vota Cappellacci e guarda Amici e il festival di Sanremo. Questi sarebbero atteggiamenti da sinistrorsi da salotto. Non confonda gli astensionisti con i radical chic (....). 7) Sì, mi sono indignato per l'influenza della chiesa sulla vicenda Englaro. Ho inviato un telegramma con le mie discrete condoglianze a Beppino. Oggi ho però paura di un referendum in quanto ritengo che sia ormai passata la
stagione delle vittorie come ci sono state per il divorzio e l'aborto. 8) Anche se non ho mai fatto politica e non voto più, continuo ad essere un appassionato osservatore di ogni fenomeno politico. 9) (....). Come le dicevo sono solo una persona normale con famiglia e un buon lavoro e ritengo che la politica possa essere vissuta anche da dietro le quinte, commentando i fatti del giorno in famiglia, la sera a
cena, in una assoluta quotidianità e ordinarietà. (...)

Salve, Ho avuto modo di leggere il suo articolo "Gli ex-voto del Pd esuli in Italia". Credo ritragga molto bene la situazione di molti miei amici (di sinistra e centro-sinistra) che vivono in Italia. Ed è anche per quei motivi che ho scelto di diventare un "rifugiato politico di lusso" andando a fare un dottorato nei Paesi Bassi. Aggiungerei anche due cose che accomunano queste persone, soprattutto quelle più giovani: A) Avere la consapevolezza di vivere in un paese fermo da anni, dunque ormai arretrato; sul versante dei diritti, dell'ambiente, dell'innovazione tecnologica, delle politiche d'immigrazione, dell'economia, dei trasporti, del welfare, della dignità del lavoro ecc... B) Vedere che l'Italia sembra sempre meno un paese europeo e sempre più l'Argentina di Menem. (...)

Buongiorno Professore, mi scusi se La disturbo, ma (...) il profilo da Lei tracciato non è altro che quello del sottoscritto e, immagino, non solo il mio. E' tutto proprio esattamente come Lei ha scritto, da controfirmare riga per riga. Vorrei però aggiungere 3 punti per darLe il punto di vista completo di due suoi fedeli lettori (la mia compagna ed io): 1°) il nostro amato Paese vive una paurosa carenza dei valori civici e sociali di base: la prova sta nell'abbrutimento palese della collettività, nel razzismo neanche più strisciante e nel correlato neofascismo ormai sdoganato, nella ruberia fiscale assurta quasi a valore, nella devastazione del territorio, per finire nella sporcizia (uso proprio questo termine) in cui facciamo vivere le nostre strade e i nostri luoghi pubblici. Se siamo così sporchi fuori, come possiamo essere puliti dentro? (...)
2°) quando penso che, se solo fossimo un popolo normale (non dico speciale, per carità), potremmo godere appieno della grazia che ci è stata regalata di nascere e vivere nel Paese più ricco di storia, arte e cultura; nel Paese che è stato tra i più beneficati dalla natura; nel Paese che era e sarebbe ancora meraviglioso; nel Paese che dovrebbe tenere le sue città d'arte come gioielli; nel Paese che potrebbe e dovrebbe essere, e di gran lunga, la nazione più visitata al mondo (altro che quinto o sesto posto) (...). E qui mi fermo... Quando penso a tutto ciò che potrebbe essere e a quello che invece è, mi prende veramente lo scoramento; 3°) ed eccoci al dunque. A 50 anni compiuti da poco, con un discreto patrimonio non frutto di eredità, potrei decidere di avere tempo libero e di utilizzarlo non rimanendo con le mani in mano, ma passando dalle parole ai fatti per dare il mio minimo contributo alla causa di un Paese migliore. Già, ma chi si fila un perfetto signor nessuno che, come altri 5 (massimo 10) milioni di omologhi, sinceramente non merita di finire i suoi giorni in questo tipo di Italia? Mi ricordo chi una volta diceva "non moriremo democristiani" e quasi quasi rimpiango quel tempo! Conclusione. Sa come finirà? La mia compagna (46 anni, di Cuneo, che se non sbaglio è la Sua città natale) ed io, entrambi del Nord, entrambi laureati, parlanti 3 lingue straniere, cui la vita non ha portato figli, stiamo qui solo ed esclusivamente fino a quando vivranno i nostri genitori. Salvo imprevisti, quando sarà, chiuderemo baracca e burattini, prenderemo il nostro capitale (accumulato legalmente e a tasse pagate) e ci sceglieremo un posto che sarà o comunque ci sembrerà più civile. Per come è oggi l'Italia e per quello che abbiamo visto in giro per il mondo con i nostri occhi, ci sarà solo l'imbarazzo della scelta.

Desidero perfezionare la descrizione tipologica che Ilvo Diamanti fornisce a proposito del quesito: dove sono finiti i voti del PD? Mi riconosco perfettamente nella descrizione di Diamanti. Odio gli Italiani che si riconoscono in questo governo. Mi sento un corpo estraneo in un paese che non mi piace e che non avverto come mio alveo culturale ed etico. Oggi più di prima. Ed odio almeno altrettanto il PD ed i suoi dignitari che pure ho votato. Io sono un socialdemocratico convinto e votavo per il PCI, non perché fossi un rivoluzionario trozkista, ma semplicemente perché quello era il nostro vero partito socialdemocratico laico e riformista già allora (ed era questo che già faceva paura). Il PD ha sacrificato l'identità socialista in questo paese e questo è intollerabile, né, credo, possa essere riparato. In tutto quello che Veltroni ha fatto dopo la batosta elettorale vi è stato il tentativo di spostarsi dove i voti conquistati collocavano il soggetto politico che aveva creato. E la tipologia del voto, dopo l'annichilimento della sinistra cosiddetta radicale (ma in realtà, fuori dalle etichette, la sola depositaria dell'identità socialdemocratica del paese), spingeva appunto il PD a rinnegare una collocazione, più che ovvia, nell'alveo socialista europeo, ad assumere atteggiamenti ambigui rispetto a scelte che avrebbero dovuto essere evidenti ed automatiche, tipo il caso Englaro, e ad accettare supinamente un'offensiva autoritaria senza precedenti nel dopoguerra. Il provvedimento squadrista che è passato tranquillamente in un parlamento che ricorda in modo preoccupante quello del 1922 sarebbe stato impensabile quando DC e PCI erano quelli che erano. Alla faccia del pericolo comunista e della corruzione democristiana. Che cosa c'entra tutto questo con le persone come me, che vivono nella convinzione che, come dimostra la crisi che stiamo vivendo, la socialdemocrazia è l'unica possibile forma di democrazia condivisa? Non pretendo di aver ragione, ma pretendo di votare un soggetto politico che risponda al mio modello. Il PD così com'è non avrà mai più il mio voto. Ed invito tutti quelli che la pensano come me ad andare comunque a votare, ma scrivendo sulla scheda elettorale "questo voto sarebbe andato ad un partito di sinistra riformista e laico, se in Italia ce ne fosse uno". Non vedo uscite, se non quelle di spingere fuori dal paese i nostri giovani (...). Sono in tutte le mie scelte abbastanza vicino ai comportamenti medi. Sono, cioè un uomo normale e sono arcisicuro che quello che dico è sostanzialmente condiviso da quelli che non voteranno più per il PD.

(4 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Presidenzialismo all'italiana
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2009, 11:59:59 am
MAPPE

Presidenzialismo all'italiana


di ILVO DIAMANTI


LE polemiche sullo stravolgimento della nostra Costituzione trascurano un aspetto importante. Il nostro sistema istituzionale è già cambiato profondamente. Senza bisogno di grandi riforme, approvate in sede parlamentare oppure referendaria.

Ad esempio, siamo da tempo avviati verso il presidenzialismo. Anzitutto, attraverso il rafforzamento dell'esecutivo e, al suo interno, della figura del primo ministro (definito, non a caso, "premier", echeggiando il modello inglese). Poi, attraverso la mutazione dei partiti, che oggi è improprio definire "personali" (secondo la nota formula di Mauro Calise, fra i più attenti a registrare questi cambiamenti). Meglio chiamarli, appunto, "presidenziali". Perché tutti - e non solo l'archetipo Forza Italia - sono organizzati intorno a leader da proporre e imporre come candidati alla guida del governo del paese (ma anche degli enti locali). Al punto che, al momento del voto, sulle schede elettorali partiti e coalizioni accostano al proprio marchio il nome del candidato. Un segno di stravolgimento istituzionale, secondo Giovanni Sartori. Infine, il mutamento - per definizione - più visibile. Causa ed effetto degli altri. La mediatizzazione. La centralità assunta dai leader nella comunicazione politica.

Si tratta, ripetiamo, di un percorso comune ad altre democrazie occidentali. (Ne hanno fornito, di recente, una ricostruzione puntuale i politologi Thomas Poguntke and Paul Webb). Ma in Italia ha assunto un formato del tutto originale per l'interpretazione che ne ha dato Silvio Berlusconi. Un imprenditore mediatico, che conosce a fondo i meccanismi della comunicazione. E li possiede. In senso letterale. Berlusconi ha trasferito le logiche del marketing alla politica e ai partiti. Ne ha personalizzato l'immagine e il potere. Ha, inoltre, trasformato in modo rapido e profondo anche la forma di governo, rendendo il ruolo dell'esecutivo preminente sul Parlamento, come sottolinea il ricorso sempre più frequente alla legislazione per decreto (peraltro già abusata).

Alla preminenza dell'esecutivo sul Parlamento, d'altronde, si aggiunge la preminenza del premier sul governo. Che Berlusconi ha di fatto personalizzato. Visto che i ministri e i leader della maggioranza si incontrano a casa sua. A Palazzo Grazioli, Arcore, oppure nella sua villa in Sardegna. Dove riceve anche i "grandi della Terra", secondo un modello monarchico, più che presidenziale. La tendenza presidenzialista, inoltre, corre parallela all'affermarsi della "democrazia del pubblico", come la definisce il filosofo Bernard Manin. Dove il rapporto fra il leader e i cittadini diventa diretto, (im)mediato dai media. Una sorta di populismo mediatico che trasforma i cittadini in spettatori; misura il consenso per le politiche e i politici in base all'auditel.

Al principio di legittimazione offerto dal voto se ne è affiancato un altro, espresso dall'Opinione Pubblica. Descritta e, anzi, prodotta dai sondaggi riverberati dai media. Cittadini e Opinione Pubblica. Istituzioni e media. Berlusconi governa entrambi i settori. E li fa reagire, reciprocamente, in modo efficace. Utilizza l'Opinione Pubblica per rafforzare il potere sulle istituzioni ma anche sui cittadini. Per lui è naturale. Commentando i ripetuti sfoghi del premier, negli ultimi tempi, Vittorio Feltri, che se ne intende, ha scritto: "Berlusconi è talmente sincero che dice la verità anche quando racconta balle". Ragionamento, peraltro, reversibile. Ma certamente Berlusconi è sincero quando esprime fastidio verso le procedure - ahimé lunghe e complesse - della democrazia rappresentativa. E avanza l'idea di far votare i capigruppo per tutti i parlamentari. È altrettanto sincero quando manifesta tutta la sua insofferenza verso le cariche dello Stato, che interferiscono troppo sulle decisioni del governo. Verso Giorgio Napolitano: il Presidente della Repubblica parlamentare. Ridotto, dal presidenzialismo all'italiana, a un contrappeso istituzionale. Un garante della Costituzione. Una specie di Magistrato. Quindi, per Berlusconi, un avversario. Verso Gianfranco Fini. I cui continui richiami, la cui pretesa di contrastare il solo, vero Presidente, a Berlusconi appaiono irritanti e inattuali. Le resistenze di un passato che non vuol passare. Con l'aggravante che Fini, leader di An, con le sue critiche, danneggia l'immagine monocratica del nascente Popolo della Libertà. Napolitano e Fini: colpevoli, di fronte a Berlusconi, di essere più "popolari" di lui.

D'altronde, per il premier, la legittimazione fondata sull'Opinione Pubblica conta più di quella costituzionale. Da ciò la polemica continua - quasi un mantra - contro i media, colpevoli di distorcere la realtà. La fretta di rimodellare il sistema radiotelevisivo pubblico (cioè, le nomine). L'irritazione verso Sky: concorrente, politicamente non condizionabile. L'intento di intervenire anche sui giornali "indipendenti" più importanti. Berlusconi. Ha bisogno di legittimarsi ancora e a lungo presso l'Opinione Pubblica per rafforzare la sua autorità sulle istituzioni e sui cittadini. Non può permettersi, come avvenne tra il 2001 e il 2006, che crescano l'insoddisfazione e insieme la sfiducia. Parafrasando quanto scrisse Ernest Renan a proposito della nazione: la democrazia del pubblico è un plebiscito di tutti i giorni. Una lotta quotidiana, dura e insidiosa. Per Berlusconi. Anche per la democrazia. Anche per noi.

(22 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Biotestamento e preservativo gli italiani bocciano il Papa
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2009, 08:47:43 am
MAPPE.

Sul condom solo due su dieci d'accordo con Ratzinger

L'80% dice sì a testamento biologico e fecondazione assistita

Biotestamento e preservativo gli italiani bocciano il Papa

Nonostante le singole divergenze quasi il 55% si fida del Pontefice

di ILVO DIAMANTI


Da tempo le posizioni della Chiesa e del Pontefice non provocavano tanto dibattito. Divisioni profonde. Al di là delle stesse intenzioni del Vaticano. Lo prova la reazione del cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Cei, alle polemiche sollevate dall'affermazione del Papa, durante la visita in Africa, circa l'inutilità del preservativo nella lotta contro l'Aids. Il risentimento del cardinale, peraltro, sembra rivolgersi soprattutto verso la Francia, il cui governo ha ribadito ieri le proprie critiche. Marc Lazar, d'altra parte, sulla Repubblica, ha posto l'accento sulla timidezza, quasi l'imbarazzo dei commenti politici in Italia su questi argomenti. Non solo nel centrodestra, anche nel centrosinistra. Peraltro, in Italia, più che in Francia e negli altri paesi europei, il rapporto con la Chiesa e con l'identità cattolica è importante. Ma anche ambivalente.

In ambito politico ma prima ancora nella società, come emerge dagli orientamenti verso le questioni etiche e bioetiche più discusse. A partire dalla più recente: l'affermazione del Papa sull'uso del preservativo. Trova d'accordo una minoranza ridotta di persone, in Italia. Circa 2 su 10, secondo un sondaggio di Demos, condotto nei giorni scorsi. Che salgono a 3 fra i cattolici praticanti più assidui. La posizione politica non modifica questa opinione in modo sostanziale. Il disaccordo con il Papa, in questo caso, resta largo, da sinistra a destra. D'altra parte, lo stesso orientamento emerge su altri argomenti "eticamente sensibili". Circa 8 italiani su 10 ritengono giusto riconoscere alle persone il diritto di scrivere il proprio "testamento biologico", altrettanti si dicono favorevoli alla fecondazione assistita, 6 su 10 sono contrari a rivedere in senso restrittivo l'attuale legge sull'aborto. Pochi meno, infine, sono d'accordo a riconoscere alle coppie di fatto gli stessi diritti di quelle sposate. Con la parziale eccezione delle coppie di fatto, le posizioni dei cattolici praticanti, anche in questi casi, non divergono da quelle prevalenti nella società. Mentre le opinioni dei praticanti saltuari, la grande maggioranza della popolazione, coincidono con la "media sociale".

Ciò potrebbe rafforzare il dubbio sulle ragioni che ispirano la timidezza delle forze politiche in Italia, visto che gran parte dei cittadini, compresi i cattolici, mostrano distacco e perfino dissenso verso le indicazioni della Chiesa. Tuttavia, occorre considerare un altro aspetto, altrettanto significativo e in apparenza contrastante. In Italia, nonostante tutto, la grande maggioranza dei cittadini - quasi il 60% - continua ad esprimere fiducia nella Chiesa. Non solo: il giudizio su Papa Benedetto XVI non è cambiato, in questa fase. Il 55% delle persone mostra fiducia nei suoi confronti. Qualcosa di più rispetto a un anno fa. Il che ripropone il contrappunto emerso in altre occasioni. Gli italiani, cioè, continuano a fidarsi della Chiesa, dei sacerdoti, delle gerarchie vaticane. Ne ascoltano le indicazioni e i messaggi. Anche se poi pensano e agiscono di testa propria. In modo diverso e spesso divergente. Si è parlato, al proposito, di una religiosità prêtàporter. Di un "dio relativo". Interpretato e usato su misura. Ma si tratta di un giudizio riduttivo. Il fatto è che la Chiesa, il Papa intervengono sui temi sensibili dell'etica pubblica e privata in modo aperto e diretto. Offrono risposte magari discutibili e spesso discusse. Contestate da sinistra, sui temi della bioetica. Ma, in altri casi, come sulla pace e sull'immigrazione, anche da destra. Tuttavia, offrono "certezze" a una società insicura. Alla ricerca di riferimenti e di valori. Per questo quasi 8 italiani su 10, tra i non praticanti, considerano importante dare ai figli un'educazione cattolica (Demos-Eurisko, febbraio 2007). Mentre una larghissima maggioranza delle famiglie destina l'8 per mille del proprio reddito alla Chiesa cattolica.

Sorprende, semmai, che, su alcuni temi etici, le posizioni politiche facciano emergere differenze maggiori rispetto alla pratica religiosa. Le opinioni degli elettori della Lega, sulle coppie di fatto, quelle degli elettori del PdL, sull'aborto, appaiono più restrittive rispetto a quelle dei cattolici praticanti. Il che ripropone una questione mai del tutto risolta. In che misura sia la Chiesa a condizionare le scelte politiche e non viceversa: la politica a usare le questioni etiche per produrre e allargare le divisioni fra gli elettori. Caricando posizioni politiche di significato religioso.

Peraltro, questi orientamenti ripropongono un'altra questione, che riguarda direttamente il messaggio della Chiesa. Che gli italiani considerano una bussola importante per orientarsi, in tempi tanto difficili. Tuttavia, quando una bussola dà indicazioni così lontane e diverse dal senso comune, dalle pratiche della vita quotidiana. E puntualmente disattese. Dai non credenti, ma anche dai credenti e dagli stessi fedeli. Allora può darsi che la bussola possa avere qualche problema di regolazione.

(25 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ma il nuovo partito non sarà monocratico
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 12:15:08 pm
MAPPE.

Il 18% degli elettori del Pdl vuole Fini leader

il 24% indica il presidente della Camera come seconda scelta

Ma il nuovo partito non sarà monocratico

di ILVO DIAMANTI


Il Popolo della Libertà, in questi giorni, si trasforma in un partito vero. Personalizzato, presidenziale, maggioritario, rivolto alla società, impresa politica di marketing e comunicazione. Un modello imitato anche dal Partito Democratico. Rispetto al quale, però, il PdL sta sicuramente meglio. Non solo perché governa. E il governo continua a godere di un buon grado di consenso popolare. Ma perché, dopo le elezioni di un anno fa, ha allargato ulteriormente il suo vantaggio, che oggi, secondo l'Atlante politico di Demos-coop, è di oltre 13 punti percentuali. Infatti, il Pdl è stimato poco al di sotto del 39%, il Pd poco al di sopra del 26%.

Il Pd, tuttavia, sembra aver interrotto la discesa iniziata lo scorso in autunno e che pareva quasi inarrestabile, visto che negli ultimi mesi era sceso sotto il 24%. In questo periodo, il Pd ha affrontato il distacco di molti elettori. Esuli in patria. Delusi dal partito ma, prima ancora, dalla società che li circonda. Metà degli elettori che lo avevano votato nel 2008, infatti, si sente più lontana dal Pd. Si tratta di un'area composita. Dove coabitano elettori perlopiù giovani, istruiti. Molti di essi laici, residenti nelle zone rosse. Molti, invece, sono orientati al centro. In passato hanno votato per la Margherita e per il Partito Popolare. Metà di essi esprime fiducia in Beppe Grillo. Un'area ibrida, quindi, che riflette in modo esemplare l'integrazione incompiuta del PdL. Le traumatiche dimissioni di Veltroni hanno prodotto un sussulto emotivo. Il rischio - reale - di assistere alla rapida dissoluzione del Pd ha frenato e, anzi, interrotto l'esodo di tanti elettori di centrosinistra verso l'esilio. La scelta di Dario Franceschini sembra aver sopito, almeno fin qui, l'insoddisfazione degli elettori del Pd. Tanto che il 33% di essi ritiene che il prossimo segretario e leader del Pd dovrebbe essere proprio lui. Bersani, secondo nelle preferenze dei Democratici, è indietro di oltre 25 punti percentuali.

Tuttavia, il marchio "presidenziale" del PdL appare molto più netto. Visto che 6 elettori su 10 indicano come leader Silvio Berlusconi. Da cui l'idea che il PdL, più che un nuovo partito, frutto dell'accordo tra FI e AN, costituisca una versione più larga del partito personale del Cavaliere. Anche per la nota riluttanza di Berlusconi a condividere le leve del comando. A sottoporsi alla fatica - a lui insopportabile - della mediazione, della collegialità, del negoziato. Quando si tratta di governare: figurarsi nel partito. Tuttavia, il 18% degli elettori del PdL vorrebbe Gianfranco Fini leader del nuovo partito e il 24% lo indica, comunque, come seconda scelta. Difficile, per questo, pensare a un partito monocefalo. Anche perché le differenze di visione fra gli elettorati dei due 2 "soci fondatori" appaiono ancora visibili. Fra gli ex elettori di AN, infatti, la quota dei sostenitori di Fini alla guida del PdL sale a un terzo; alla pari con Berlusconi. Inoltre, il 35% di essi preferirebbe tornare indietro. AN e FI: divisi e senza alcuna con-fusione.

Il bipartitismo all'italiana, quindi, è ancora lontano. In primo luogo, ha bisogno di due partiti davvero forti. Per ora il Pd non lo è. Appare, invece, un partito in cerca di identità. Ha un elettorato sempre più vecchio. Dove abbondano i pensionati, gli impiegati del settore pubblico, le professioni intellettuali (si spiegherebbe altrimenti tanto accanimento da parte del governo verso gli statali e i professori?). Fra gli elettori del PdL, invece, pesano maggiormente i giovani, i lavoratori dipendenti del privato, i lavoratori autonomi, gli imprenditori, i liberi professionisti. Oltre alle casalinghe. Insomma: il Pdl è trascinato da ceti affluenti, spinto dal dinamismo del privato. Il Pd è anagraficamente vecchio. Esterno ai punti nevralgici del sistema produttivo.

Dal punto di vista dei valori, il PdL interpreta, soprattutto, la domanda di sicurezza. Le paure. Oltre all'insofferenza verso le regole. Marcia fra ronde e diritto a ristrutturare la casa. E' un calco del mutamento sociale che ha investito il paese negli ultimi trent'anni. Dei ceti sociali che lo hanno trainato. In più, ha una visione etica ormai ripiegata su quella della gerarchia ecclesiastica. Sulla vita come sulla famiglia. Da ciò i problemi del bipartitismo all'italiana. Il Pd, Partito Unitario dei Riformisti, deve fare i conti con un elettorato biograficamente e professionalmente conservatore. Poi, ha bisogno di "un'anima", come evoca il titolo del recente saggio scritto da Luigi Manconi (per l'editore "Nutrimenti"). Per ora è più uno "stato d'animo", depresso dal senso di declino che opprime una parte dei suoi elettori. Tuttavia, anche il PdL, il Partito Unitario dei Moderati, deve ancora diventare un "partito". L'integrazione tra i gruppi dirigenti dei due soci fondatori - FI e An - non è scontata. Come non lo è la leadership di Berlusconi. Abituato a non essere discusso. Padrone a "casa sua". Ci si dovrà abituare, visto che Fini non pare intenzionato a fare la parte dell'amministratore di condominio. Inoltre, più che moderato, per i valori che esprime, appare conservatore. Perfino tradizionalista. E, dal punto di vista dell'impianto elettorale, trascinato a Centrosud. La concorrenza con la Lega si farà sentire.

Insomma, il bipartitismo italiano fra PUM e PUR, per ora, è ancora imperfetto.

(28 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quanto vale quel "però"
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2009, 12:34:42 am
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Quanto vale quel "però"


di ILVO DIAMANTI

 
UN ANNO dopo le elezioni politiche è difficile parlare ancora di bipartitismo o di bipersonalismo. Visto che il PD ha rischiato di sfaldarsi, un paio di mesi fa.
Stressato dalle sconfitte elettorali - ultima la Sardegna - e dai sondaggi sfavorevoli, che lo stimavano al 22%. Mentre Berlusconi ha affondato l'ultimo di una lunga serie di avversari. Walter Veltroni. Peraltro, il congresso fondativo del PdL ne ha ulteriormente accelerato la crescita elettorale. Ma soprattutto ha celebrato l'ennesima, ulteriore e mai definitiva investitura dell'unico, vero, Numero Uno. Altro che SpecialOne. Altro che Mourinho. BerluscOne.

Tre giorni dedicati al Partito del Presidente. E al presidente del partito. Unica voce dissonante: Gianfranco Fini. Che, però, oggi nel PdL conta poco. Gli stessi dirigenti di AN (a differenza degli elettori), in larga misura, non rispondono più a lui.

Però. Qualche dubbio viene (a me personalmente, almeno). Dopo un'investitura personale tanto fastosa. Come sempre perfetta, sotto ogni punto di vista. Scenografia, script, luci, musica e colori. Comprimari e comparse. Un kolossal musicale hollywoodiano. Tutto questo è "troppo". BerluscOne. Troppo solo, troppo grande, troppo vincente, troppo amato, troppo celebrato. Troppo. Senza limiti e senza nessuno che glieli ponga. Salvo le "puntuali puntualizzazioni" di Fini. E i rimbrotti di Bossi. Che guarda BerluscOne di traverso. Un amico necessario. Ma così distante dal suo stile "popolano"...

Questo leader unico di un partito che ambisce a sfondare la soglia del 40% e, insieme agli alleati, quella del 50%. Per diventare, così, il Presidente. Di fatto. Senza bisogno di riforme. L'immagine di BerluscOne: ci sembra "troppo". Fastosa, rutilante, eccedente. Evoca un'Italia ipercinetica, disordinata, bulimica, vecchia e, insieme, un po' egoista. Un popolo di individui che hanno conquistato il benessere e premono per riuscire, affermarsi. Apparire.

Questa Italia, che si specchia nell'immagine e nella narrazione di BerluscOne, all'improvviso ci pare meno credibile. Fuori tempo. Resa inattuale dalla crisi pesante che incombe, anzi: è crollata su di noi e fa già vittime un po' dovunque. Magari ci sbagliamo. In fondo ha sempre ragione lui. E poi, annunciare il declino di Berlusconi: figuriamoci. Soprattutto oggi che Berlusconi è al top. Mentre il PD è al bottom. Il suo segretario, Dario Franceschini. Una brava persona.

Difficile, il confronto con Silvio Berlusconi. Il predestinato. Il vincitore nato. Esuberante e arrogante. Non si ferma neppure di fronte a Obama(aaaaa!!!). Né alla Merkel. Ai vertici internazionali si comporta come fosse a casa propria. E però. Franceschini, il "modesto" leader provvisorio del PD, per grado di consensi è lì. Alla pari con BerluscOne. Entrambi riscuotono la fiducia di circa il 45% degli italiani. (La componente di quanti valutano la fiducia nei loro riguardi con un voto uguale o superiore a 6, in una scala da 1 a 10. I materiali a cui fa riferimento questa mappa sono consultabili su http://www. demos. it).

D'altronde, nei sondaggi di Demos, solo nel maggio 2008, un mese dopo il "trionfo" elettorale, Berlusconi scavalcò di netto questo livello, superando il 60%. Ieri come oggi, invece, il più amato dagli italiani è Gianfranco Fini, come sempre, in passato. Anche perché era - e resta - un outsider. Invece Franceschini è il leader di quello che - per quanto indebolito - resta il maggiore partito di opposizione. Naturalmente la fiducia personale non si traduce, automaticamente, in voti, come ha potuto constatare Veltroni. Però. Nell'ultimo mese, il Pd - nelle stime elettorali - ha ripreso a risalire con continuità. Anche nell'ultima settimana. Oggi è attestato intorno al 27%.

Dunque, 6 punti meno di un anno fa, ma 4-5 più di febbraio. D'altronde, il 75% degli elettori del Pd ha fiducia in Franceschini e il 33% lo vorrebbe come segretario. Ma Franceschini riscuote dal 59% degli elettori dell'IdV, da oltre metà di quelli di RC-SL e dell'UdC. Quindi: dal centro a sinistra. Anche il 60% degli "esuli" del PD (quelli che, dopo averlo votato un anno fa, se ne sono allontanati) oggi esprime fiducia nei suoi riguardi. E il 20% di essi lo voterebbe come segretario di partito.

Gli elettori del PD continuano ad essere frustrati e disincantati. E però: guardano Franceschini con rispetto. Anche se è modesto. O forse proprio per questo. Perché la modestia e la sobrietà, in questi tempi, è una virtù. E un'immagine sobria e modesta può riuscire credibile di fronte a un paese preoccupato e impoverito. E poi Franceschini non si maschera da Berlusconi né da antiberlusconi. Dice poche cose, ma "di sinistra". In modo chiaro e comprensibile. E, per questo, funziona anche in tivù (come aveva previsto Berlusconi).

Inoltre, ha la possibilità di esprimersi senza altri leader intorno pronti a contraddirlo e a dargli sulla voce (non capitava da anni). Intenti a tramare per sostituirlo (in fondo è un leader transitorio). Non sarà molto. Ma a molti elettori del PD - illusi, delusi, esuli, disperati - sembra già abbastanza. Non c'erano più abituati. Così guardano Franceschini senza illusioni e con prudenza. E però...

Certo, per andare oltre ci vuole altro. Un partito organizzato. Non solo in centro, anche in periferia (dove le guerre e le guerricciole si moltiplicano). E poi, qualche idea chiara. Una fase congressuale vera, con primarie vere e candidati veri. In mezzo, un buon risultato alle europee. E però. Il BerluscOne non può permettersi battute d'arresto. Dopo gli annunci al congresso: il PdL a giugno dovrà stravincere. A Franceschini, più modestamente, per vincere basterà non perdere troppo.

(5 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il peso politico delle catastrofi
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2009, 11:24:56 pm
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Il peso politico delle catastrofi

Ilvo Diamanti


NESSUNO ne parla apertamente perché è socialmente inaccettabile. Quando la catastrofe è appena successa, terribile, sanguinosa. Un dramma immenso. Paesi devastati, vittime dovunque. Famiglie che piangono i loro cari. Mentre ancora si scava e si cerca dappertutto, nella speranza che qualcuno ancora sia sopravvissuto. Di un miracolo. E poi: le macerie. Case scomparse. La casa: ma sapete cosa vuol dire? È il nostro mondo. La nostra casa: racchiude la nostra vita. Ne traccia i confini. E' la nostra storia, personale e familiare. Perché si lavora una vita per farsi la casa che erediteranno i nostri figli. Per cui la tragedia, questa tragedia, una tragedia come questa: non si porta via solo la vita delle vittime, ma anche quella di chi resta. La folla degli sfollati. Anch'essi dispersi. Sperduti. Per cui è impossibile, in questo abisso, non tanto chiedere ma anche chieder-si. Interrogare se stessi. Se una catastrofe come questa, questa catastrofe avrà conseguenze politiche. E quali. Tuttavia, è indubbio: le catastrofi hanno sempre sortito effetti politici. Anche se non dello stesso segno.

Pensiamo all'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001. Fino a quel momento Bush e la sua amministrazione avevano proceduto in modo stentato. Volavano basso, sempre più in basso nel gradimento dell'opinione pubblica americana. L'attentato terroristico spostò la scala dei valori. L'incertezza economica lasciò il posto, in fretta, alla questione della sicurezza nazionale e personale. Alla sindrome d'assedio di fronte al terrorismo senza nome e senza volto. Bush ne trasse motivo di rafforzamento. Si rilanciò. E il suo regno è durato a lungo. Insieme alla sua dottrina. Fino a pochi mesi fa. La sua presidenza: è figlia delle Torri Gemelle, in molti sensi.

Anche Zapatero, molto probabilmente, non avrebbe vinto le elezioni del 2004 e oggi non sarebbe al governo senza un altro attentato terrorista. Quello alla stazione Atocha di Madrid, 5 giorni prima del voto. Quasi 200 morti. Il governo in carica, guidato da Aznar, ne attribuì immediatamente la responsabilità ai baschi dell'ETA. Ma era una cellula di Al Qaida, che lo rivendicò presto. E il PPE di Aznar, sospettato (probabilmente in modo ingiusto) di avere "sfruttato" politicamente il terrore e l'orrore, pagò. Venne sconfitto alle elezioni, di cui fino a pochi giorni prima appariva il vincitore annunciato e scontato. Da ciò la conferma dell'avvertimento iniziale. Chiedersi a chi possa giovare, politicamente, l'orrore è indegno, ma anche rischioso, quando avviene pubblicamente. Tanto da travolgere chi venga solo sospettato di approfittarne. Come in Spagna. Tuttavia, in Spagna come negli Usa, si trattò di catastrofi procurate. Premeditate e realizzate dai terroristi. Con fini apertamente politici. La politica con altri mezzi.

Chiedersi a chi giovi, chi ne sia il responsabile: è legittimo. Oggi no. In Abruzzo no. Non c'è premeditazione nelle catastrofi naturali. A cui in Italia siamo periodicamente sottoposti. Il dio dei terremoti e delle inondazioni non si informa su chi sia al governo in quel momento. Tuttavia, anche le catastrofi naturali producono effetti politici. Si pensi ancora, per usare un esempio noto, alle alluvioni che devastarono la Germania nell'estate del 2002. In piena campagna elettorale. Il cancelliere Gerhard Schröder, allora, pareva giunto al capolinea. Insieme ai socialdemocratici tedeschi, di cui era il leader. La SPD. Strabattuta - secondo tutti i sondaggi - dai popolari della CDU. Ma la gestione efficiente e visibile dell'emergenza gli permise di risalire in fretta. Fino a vincere le elezioni, rovesciando le previsioni.

Dunque, chiedersi se questa catastrofe avrà effetti politici - e quali: è osceno. Ma non più di quanto lo sia interrogarsi sugli effetti che produrrà dal punto di vista mediatico. Quanto faranno salire gli ascolti le ore e ore di tivù dedicate allo spettacolo del dolore e della morte. Su tutte le reti. Talk show e salotti televisivi. Dirette a tempo pieno. Inviati speciali, ma speciali veramente. Addosso agli sfollati, ai disperati, di fronte alle rovine, chiusi nelle loro auto trasformate in rifugi. "Signora, Lei che ha perso? Chi ha perso?". "Cosa prova ora che non ha più una casa? Un figlio? Una sorella? Un amico? La nonna?". Lo spettacolo offerto dallo spettacolo del dolore. E' osceno. Come i dati di ascolto delle edizioni speciali dei Tg, esibiti quasi fossero trofei (lo ha denunciato nei giorni scorsi Aldo Grasso). Come l'aggiornamento ossessivo del numero dei morti. Quasi che la catena delle vittime, allungandosi, infinita, protraesse anche l'orrore. E lo spettacolo. Perché il dolore fa ascolto. Come la morte, come la paura. Soprattutto quando si mischiano i generi. D'altra parte, tempo due giorni, la diretta in mezzo agli sfollati e nelle città ferite dal sisma si affianca e si alterna al Grande Fratello. Due reality uno accanto all'altro. Quello dall'Abruzzo, veramente vero. Per cui è meglio non indignarsi troppo se (sottovoce, piano piano) viene sollevata la questione circa gli effetti politici della catastrofe. Rafforzerà la fiducia nel governo, per reazione all'insicurezza, che spinge tutti a stringersi intorno agli uomini delle istituzioni che vegliano su di noi. O per simpatia nei confronti del premier e dei ministri, in visita permanente ai luoghi del disastro? Oppure avverrà il contrario e la catastrofe alimenterà angoscia e insicurezza, generando un clima di sfiducia nel governo? Perché, com'è noto, l'insicurezza mina la legittimità delle istituzioni e di chi comanda.

Indugiare su questi dilemmi è osceno. Ma, credetemi, c'è chi se li pone. Di certo non le decine di migliaia di protagonisti involontari di questa tragedia. Né i mille e mille volontari della solidarietà. Ma la questione appare, ben chiara, nei pensieri di chi fa politica e informazione. E anche oltre. D'altronde il campo politico ormai coincide largamente con quello mediatico. E se uno stupro o una catena di piccoli omicidi possono condizionare in modo sensibile il clima d'opinione e le scelte degli elettori, figurarsi una tragedia enorme, una catastrofe immensa. Trasformata in uno spettacolo colossale, che agita i sentimenti delle persone. E ci rende tutti diversi da come eravamo ieri.

(9 aprile 2009)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il peso politico delle catastrofi
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2009, 12:39:30 am
ILVO DIAMANTI

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Il peso politico delle catastrofi



NESSUNO ne parla apertamente perché è socialmente inaccettabile. Quando la catastrofe è appena successa, terribile, sanguinosa. Un dramma immenso. Paesi devastati, vittime dovunque. Famiglie che piangono i loro cari. Mentre ancora si scava e si cerca dappertutto, nella speranza che qualcuno ancora sia sopravvissuto. Di un miracolo. E poi: le macerie. Case scomparse. La casa: ma sapete cosa vuol dire? È il nostro mondo. La nostra casa: racchiude la nostra vita. Ne traccia i confini. E' la nostra storia, personale e familiare. Perché si lavora una vita per farsi la casa che erediteranno i nostri figli. Per cui la tragedia, questa tragedia, una tragedia come questa: non si porta via solo la vita delle vittime, ma anche quella di chi resta. La folla degli sfollati. Anch'essi dispersi. Sperduti. Per cui è impossibile, in questo abisso, non tanto chiedere ma anche chieder-si. Interrogare se stessi. Se una catastrofe come questa, questa catastrofe avrà conseguenze politiche. E quali. Tuttavia, è indubbio: le catastrofi hanno sempre sortito effetti politici. Anche se non dello stesso segno.

Pensiamo all'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001. Fino a quel momento Bush e la sua amministrazione avevano proceduto in modo stentato. Volavano basso, sempre più in basso nel gradimento dell'opinione pubblica americana. L'attentato terroristico spostò la scala dei valori. L'incertezza economica lasciò il posto, in fretta, alla questione della sicurezza nazionale e personale. Alla sindrome d'assedio di fronte al terrorismo senza nome e senza volto. Bush ne trasse motivo di rafforzamento. Si rilanciò. E il suo regno è durato a lungo. Insieme alla sua dottrina. Fino a pochi mesi fa. La sua presidenza: è figlia delle Torri Gemelle, in molti sensi.

Anche Zapatero, molto probabilmente, non avrebbe vinto le elezioni del 2004 e oggi non sarebbe al governo senza un altro attentato terrorista. Quello alla stazione Atocha di Madrid, 5 giorni prima del voto. Quasi 200 morti. Il governo in carica, guidato da Aznar, ne attribuì immediatamente la responsabilità ai baschi dell'ETA. Ma era una cellula di Al Qaida, che lo rivendicò presto. E il PPE di Aznar, sospettato (probabilmente in modo ingiusto) di avere "sfruttato" politicamente il terrore e l'orrore, pagò. Venne sconfitto alle elezioni, di cui fino a pochi giorni prima appariva il vincitore annunciato e scontato. Da ciò la conferma dell'avvertimento iniziale. Chiedersi a chi possa giovare, politicamente, l'orrore è indegno, ma anche rischioso, quando avviene pubblicamente. Tanto da travolgere chi venga solo sospettato di approfittarne. Come in Spagna. Tuttavia, in Spagna come negli Usa, si trattò di catastrofi procurate. Premeditate e realizzate dai terroristi. Con fini apertamente politici. La politica con altri mezzi.

Chiedersi a chi giovi, chi ne sia il responsabile: è legittimo. Oggi no. In Abruzzo no. Non c'è premeditazione nelle catastrofi naturali. A cui in Italia siamo periodicamente sottoposti. Il dio dei terremoti e delle inondazioni non si informa su chi sia al governo in quel momento. Tuttavia, anche le catastrofi naturali producono effetti politici. Si pensi ancora, per usare un esempio noto, alle alluvioni che devastarono la Germania nell'estate del 2002. In piena campagna elettorale. Il cancelliere Gerhard Schröder, allora, pareva giunto al capolinea. Insieme ai socialdemocratici tedeschi, di cui era il leader. La SPD. Strabattuta - secondo tutti i sondaggi - dai popolari della CDU. Ma la gestione efficiente e visibile dell'emergenza gli permise di risalire in fretta. Fino a vincere le elezioni, rovesciando le previsioni.

Dunque, chiedersi se questa catastrofe avrà effetti politici - e quali: è osceno. Ma non più di quanto lo sia interrogarsi sugli effetti che produrrà dal punto di vista mediatico. Quanto faranno salire gli ascolti le ore e ore di tivù dedicate allo spettacolo del dolore e della morte. Su tutte le reti. Talk show e salotti televisivi. Dirette a tempo pieno. Inviati speciali, ma speciali veramente. Addosso agli sfollati, ai disperati, di fronte alle rovine, chiusi nelle loro auto trasformate in rifugi. "Signora, Lei che ha perso? Chi ha perso?". "Cosa prova ora che non ha più una casa? Un figlio? Una sorella? Un amico? La nonna?". Lo spettacolo offerto dallo spettacolo del dolore. E' osceno. Come i dati di ascolto delle edizioni speciali dei Tg, esibiti quasi fossero trofei (lo ha denunciato nei giorni scorsi Aldo Grasso). Come l'aggiornamento ossessivo del numero dei morti. Quasi che la catena delle vittime, allungandosi, infinita, protraesse anche l'orrore. E lo spettacolo. Perché il dolore fa ascolto. Come la morte, come la paura. Soprattutto quando si mischiano i generi. D'altra parte, tempo due giorni, la diretta in mezzo agli sfollati e nelle città ferite dal sisma si affianca e si alterna al Grande Fratello. Due reality uno accanto all'altro. Quello dall'Abruzzo, veramente vero. Per cui è meglio non indignarsi troppo se (sottovoce, piano piano) viene sollevata la questione circa gli effetti politici della catastrofe. Rafforzerà la fiducia nel governo, per reazione all'insicurezza, che spinge tutti a stringersi intorno agli uomini delle istituzioni che vegliano su di noi. O per simpatia nei confronti del premier e dei ministri, in visita permanente ai luoghi del disastro? Oppure avverrà il contrario e la catastrofe alimenterà angoscia e insicurezza, generando un clima di sfiducia nel governo? Perché, com'è noto, l'insicurezza mina la legittimità delle istituzioni e di chi comanda.

Indugiare su questi dilemmi è osceno. Ma, credetemi, c'è chi se li pone. Di certo non le decine di migliaia di protagonisti involontari di questa tragedia. Né i mille e mille volontari della solidarietà. Ma la questione appare, ben chiara, nei pensieri di chi fa politica e informazione. E anche oltre. D'altronde il campo politico ormai coincide largamente con quello mediatico. E se uno stupro o una catena di piccoli omicidi possono condizionare in modo sensibile il clima d'opinione e le scelte degli elettori, figurarsi una tragedia enorme, una catastrofe immensa. Trasformata in uno spettacolo colossale, che agita i sentimenti delle persone. E ci rende tutti diversi da come eravamo ieri.

(9 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La tirannia della bontà
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 04:40:01 pm
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La tirannia della bontà

di ILVO DIAMANTI



Il bene comune, dopo una lunga eclissi, è riemerso. Tracimato, in modo prorompente. Se ne erano perdute le tracce, da qualche tempo, in Italia.

La tragedia del terremoto in Abruzzo l'ha fatto uscire dagli anfratti del non-detto, dove era nascosto da molti anni. Da quando - in economia, in politica, nello spettacolo, ma anche nei rapporti con gli altri - per avere successo, per apparire credibili in pubblico era divenuto conveniente apparire "cattivi". E quindi inflessibili, intolleranti. Nonché discretamente egoisti. Attenti anzitutto al proprio interesse. Sicuramente diffidenti verso qualsiasi "bene in comune", soprattutto se "pubblico". In nome del trionfo del mercato, del privato, della competizione. Impossibili dirsi "buoni" senza essere tacciati di "buonismo". Malattia senile della solidarietà. Marchio di un'epoca passata. Da rimuovere. Così gli italiani si sono trovati a vivere la loro "bontà" e il loro "altruismo" in modo quasi clandestino. Nonostante il loro spirito solidale e comunitario, coltivato da identità radicate, come quella cattolica e socialista. Bollate, a loro volta, nel segno - spregiativo - del catto-comunismo. Per cui oltre metà degli italiani hanno continuato a dedicare tempo, denaro e soprattutto impegno personale agli "altri", in modo continuo e regolare. Ma in silenzio. Come un vizio inconfessabile. Comunque da non dichiarare in pubblico. Per farsi apprezzare dai cittadini, l'uomo pubblico doveva apparire uno sceriffo, un vigilante, una ronda a tempo pieno. Perché la bontà e la solidarietà apparivano vizi privati. Che non facevano notizia, audience. Spettacolo. E sono stati, per questo, a lungo emarginati dai media. Ridotti in spazi minimi e dedicati. Come le rubriche per camionisti o i programmi sugli stranieri. Lo spazio del bene comune. Trasmesso alle 6 di mattina alla domenica e in replica alle 4 di notte.

Il terremoto, la tragedia immensa che ha colpito la popolazione dell'Abruzzo due settimane fa, ha sconvolto - insieme alla vita di migliaia di persone - anche la "gerarchia dei valori" e dei sentimenti. Il "male comune" ha risvegliato il "bene comune". O meglio: gli ha restituito dignità pubblica, visto che nel privato non aveva mai smesso di essere frequentato, dagli italiani. Abbiamo, anzi, assistito e stiamo assistendo, in questi giorni, a un significativo rovesciamento di prospettiva. Che ha posto - e anzi: imposto - il bene comune come cifra di lettura di ogni manifestazione, di ogni comportamento. Nulla di sorprendente, sia chiaro. Le difficoltà comuni sollecitano risposte comuni. Le emergenze stimolano convergenze. La disperazione sollecita la cooperazione. E insieme: la solidarietà e la pietà. Comunità, pietà, solidarietà, cooperazione; e ancora; carità, altruismo, soccorso. Parole quasi indicibili fino a ieri: sono tornate di moda. Sulla bocca di tutti. Pronunciate ad alta voce e non piano piano, per timore che qualcuno ci senta. Evocano il repentino passaggio del bene comune dalla clandestinità alla scena pubblica. Accanto alla desolazione e alla disperazione, sui luoghi del terremoto, sui media passano le immagini del soccorso. Non solo "professionale" ma soprattutto "volontario". Lo spettacolo del dolore si mischia a quello della solidarietà. Senza soluzione di continuità. Sottoscrizioni dovunque. E partite di calcio, tennis, basket, pallavolo; concerti, recital, pièces teatrali. L'incasso totalmente devoluto alle popolazioni colpite dal sisma. Perfino i talk show più futili si riconvertono all'impegno.

Il bene comune e il bene pubblico diventano virtù accettate e condivise. E definiscono nuove regole di comportamento e di linguaggio. La "cattiveria" diventa improponibile. Anche come linguaggio e come sguardo. Come chiave di lettura della realtà. Dei comportamenti pubblici. Cresce l'insofferenza verso la satira e l'ironia, perché dissacrano la pietà. Così la critica e le polemiche: suscitano fastidio. Sospettate di corrodere il principio della comunità solidale. Guai a sottolineare le gaffe del premier. Guai a contestare il governo. La processione dei ministri, sui luoghi del disastro. Per non minare l'unità del paese, riunito intorno al dolore e al bene comune. Anche se in Italia - paese storicamente diviso - lo Stato è considerato proprietà di chi governa e la fiducia nelle istituzioni cambia segno a seconda di chi vince le elezioni. Con la conseguenza che la spinta verso il "bene comune" tende a premiare soprattutto - anzi "solo" - il governo e il suo leader. Con l'opposizione a recitare la parte del coro muto. (Non abbiamo ancora dati al proposito, ma scommetteremmo che i prossimi sondaggi confermeranno questa ipotesi). Così, leader e forze politiche che hanno fondato la loro immagine (e il loro successo) sul sorriso permanente e la comunicazione opulenta, su valori individualisti e aggressivi, sulla critica allo Stato: acquistano un volto sofferente e mite; identificano il bene pubblico. Non è nostra intenzione "mettere a tacere la voce della compassione", per usare una formula di Adriano Sofri qualche giorno fa. Tuttavia, questo trionfo del "bene comune", esibito dovunque come bandiera. Regola di comportamento e stile di comunicazione. Questo clima di bontà coatta. Mi fa quasi rimpiangere i giorni cattivi del tempo recente. Perché sfidare i "ministri della paura" è difficile. Ma non quanto opporsi alla "tirannia della bontà" e ai nuovi custodi del bene comune.

(19 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Clandestini, la pietà svanita
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2009, 04:25:11 pm
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Clandestini, la pietà svanita


di ILVO DIAMANTI


CAMBIANO i tempi. Ma gli immigrati non si fermano. Nonostante governino forze politiche inflessibili e "cattive": gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni. Partono in tanti. Ogni giorno. Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l'Africa dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di persone. Gli stranieri continuano ad arrivare. Da est e da sud. Per terra e soprattutto per mare. Con ogni mezzo. Barche, barchini, barconi e gommoni.

Partono in tanti. Ogni giorno. Uomini, donne e bambini. E in molti non arrivano. Quel piccolo pezzo di mare che separa l'Africa dalla Sicilia è un cimitero dove giacciono un numero imprecisato di imbarcazioni e migliaia di persone. Persone? Per definirle tali dovremmo "percepirle". Invece non esistono. Sono "clandestini" quando si mettono in viaggio e quando riescono ad entrare nei paesi di destinazione. Ma anche quando vengono ammassati nei Cpa. Migranti perenni. Non riescono a trovare una nuova sistemazione - stabile e riconosciuta - ma non possono neppure tornare indietro.

Come i 140 stranieri raccolti e trasportati dal cargo Pinar. Rimpallati fra l'Italia - che alla fine li ha accettati - e Malta. Indisponibile. Perché la fuga dall'Africa e dall'Asia, come l'esodo dai paesi dell'est europeo, spaventa tutti i paesi ricchi. Non solo noi. La vecchia Europa vorrebbe diventare fortezza. Trasformare il Mediterraneo in un canale inaccessibile. A cui mancano i coccodrilli, ma non gli squali. Eppure, nonostante la politica della fermezza, la tolleranza-meno-uno, i Cpa e migliaia di espulsioni.

Nonostante tutto: i flussi non si fermano. Gli sbarchi proseguono senza sosta. Da gennaio ad oggi: oltre seimila. Il doppio rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Che già aveva segnato il livello più alto della nostra storia di immigrazione. Breve e travolgente. Nel 2008 erano sbarcati sulle nostre coste 37mila stranieri. Quasi il doppio del 2007. Difficile non nutrire dubbi sulla produttività delle nostre politiche e della nostra politica. Anche se l'attuale maggioranza di governo ha vinto le elezioni promettendo di fermare gli stranieri. Di bloccare l'invasione. Con le buone ma soprattutto con le cattive.

Propositi chiari ma, fin qui, inattuati. Semplicemente perché inattuabili. Quando a migliaia intraprendono il viaggio sulle carrette del mare, stipati come animali. Come i disperati del Pinar. Dietro alle spalle le storie terribili raccontate da Francesco Viviano, su queste pagine, nei giorni scorsi. In fuga da persecuzioni, conflitti etnici. Dalla fame. Disposti a tutto. A ogni costo. Come la ragazza annegata con il suo bimbo in grembo, nelle acque davanti a Malta.

Questa emigrazione è una tragedia senza fine. Che, tuttavia, non ci commuove. Anzi, suscita perlopiù distacco e ripulsa. Difficile non cogliere la differenza con l'onda emotiva e la solidarietà sollevate dalla catastrofe in Abruzzo. Ma noi riusciamo a provare pietà e solidarietà solo quando le tragedie accadono sotto i nostri occhi. Quando i media le illuminano, minuto per minuto, luogo per luogo, in modo quasi compiaciuto. Quando la politica le accompagna e le segue da vicino. Perché si tratta della "nostra" gente. Allora ci emozioniamo.

Gli "altri", invece, non hanno volto. Le loro tragedie non hanno quasi mai le aperture dei tigì. Gli sbarchi vengono raccontati come una calamità. Per noi. E a nessuno, comunque, verrebbe in mente di organizzare un G8 a Lampedusa. Non solo per ragioni logistiche.
Naturalmente, si tratta di considerazioni che possono apparire "buoniste", fradice di retorica. E con la retorica non si risolvono i problemi. Non si proteggono le città insicure. I cittadini minacciati dalla nuova criminalità etnica, dai clandestini che affollano le periferie.

D'altronde, in pochi anni siamo diventati un paese di grande immigrazione. Quasi come la Francia e la Germania. Fino a ieri eravamo noi, italiani, a disperderci nel mondo, a milioni, per fuggire la miseria. Ora invece ci sembra che il mondo si stia rovesciando su di noi. E questo mondo è troppo grande per stare dentro a casa nostra, dentro alla nostra testa. Noi non siamo in grado di controllarlo né di comprenderlo. Non ci riusciamo noi. Ma non ci riescono, soprattutto, i poteri economici e finanziari, le istituzioni di governo. In balia dei collassi delle banche e delle borse, delle guerre, del terrorismo, delle epidemie.

La politica. Non riesce a difenderci ma neppure a spiegarci ciò che avviene. E rinuncia a contrastare le nostre paure. Anzi, complici i media, le enfatizza. Inventa muri e confini che non esistono. Promette di chiudere i nostri mari, di sbarrare le frontiere. Promette di difenderci, a casa nostra, dagli stranieri che si insinuano nei nostri quartieri. Ricorrendo a iniziative a bassa efficacia pratica e a elevato impatto simbolico. Come le ronde. I volontari della sicurezza locale. Dovrebbero esercitare il controllo sul territorio un tempo affidato alle reti di vicinato, alla vita di quartiere, alla presenza quotidiana delle persone. Rimpiazzando una società locale che non c'è più. La politica. Promette di difendere la nostra identità, la nostra religione, la nostra cultura, la nostra cucina. E per questo combatte contro la costruzione di moschee. Oppure lancia battaglie gastroculturali. Contro i cibi consumati per strada. Anzitutto e soprattutto: contro il kebab. Insieme alle moschee: icona dell'islamizzazione presunta del nostro paesaggio e della nostra vita quotidiana.

La politica e le politiche usate come placebo. Per rassicurare senza garantire sicurezza. Per guadagnare voti e consenso. La Lega, secondo i sondaggi, sembra essere riuscita a superare i confini del Nord padano e ad espandersi nelle regioni dell'Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Ma la retorica della "protezione dal mondo", la costruzione della paura: non riguardano solo la Lega. E neppure la destra. Perché gli stranieri possono "servire", politicamente e culturalmente, ma tanto in quanto le distanze fra noi e loro sono visibili e marcate. Tanto in quanto restano stranieri. Oggi, domani. Sempre. Lontani e diversi. In questo modo ci permettono di ritrovare noi stessi. Di ricostruire - artificialmente, per opposizione e paura - la nostra identità e la nostra comunità perduta. A condizione di fingere: che le nostre frontiere immaginarie, i nostri muri emotivi possano arrestare l'onda degli stranieri. A condizione di non vedere. Diventare ciechi e cinici. Perdere gli occhi e il cuore.

(26 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le veline e l'evoluzione della specie (im)politica
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 05:04:53 pm
Ilvo Diamanti


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Le veline e l'evoluzione della specie (im)politica


Lo scandalo riguardo alla velinizzazione della politica italiana è effettivamente scandaloso. Cioè: è scandaloso che ci si scandalizzi. Certo, l'indignazione della signora Veronica Lario contro la candidatura (annunciata) di alcune belle ragazze nelle liste del PdL, cioè: del partito guidato (diretto, presieduto, governato ecc.) dal marito non poteva che rimbalzare fragorosamente sui media. Per il semplice motivo che la signora Lario per esprimere il suo pensiero al marito, invece di parlargli di persona o al cellulare, ha usato i media. E i media hanno fatto il loro mestiere.

Amplificando la vicenda. Come, d'altronde, si attendeva la signora Lario. Che intendeva manifestare la sua indignazione anche verso i media, che hanno tanto spazio e tanto tempo da perdere intorno alle veline. Invece di fare informazione e informazione politica. Il problema, però, è che - non da oggi - la distanza fra questi elementi è molto sottile. Quasi non si percepisce. Fra la politica, l'informazione, l'informazione politica, i media. E le veline. Che adornano ogni salotto politico che si rispetti, a partire dai più seguiti e influenti. Sulle reti e nelle ore di maggiore ascolto.

Il loro archetipo, d'altronde, va in onda ogni sera sugli schermi di Canale 5. La rete ammiraglia del Presidente del PdL, del Milan, di Mediaset. Nonché marito della signora Lario. Ci riferiamo, ovviamente, alle veline di "Striscia la notizia". Tiggì satirico concepito da Antonio Ricci. Il quale ne fece l'icona e il simbolo dell'informazione di regime. Per dire: tutti i tiggì della tivù pubblica - e non - sono condotti da sedicenti giornalisti di regime che ballano, mostrano le gambe e il sedere. Anche se sono meno gradevoli. E raramente, anzi: mai, ne ripetono il successo di ascolto e di audience. Non si sa se per merito dell'informazione irriverente degli inviati di Striscia o per il contributo all'informazione offerto dalle Veline. Diciamo: per entrambi i motivi. Lo stesso discorso vale per altri programmi Mediaset. Dalle Iene a Mai dire...

Dappertutto Veline. Esibite sempre in modo un po' ambiguo. Strizzando l'occhio allo spettatore. Sottinteso che in fondo si tratta di satira. Non di uso furbo delle belle ragazze a fini di audience. Lo stesso avviene, in modo perlopiù rovesciato, anche nella Rai. Dove, nelle trasmissioni leggere o presunte tali, sgambettano veline e ballerine di ogni genere e tipo. Intervallate da "momenti alti" di dibattito politico. Anzi: neppure intervallate: fianco a fianco. Coscia a coscia. Come nei contenitori pomeridiani della domenica. E in tutti gli altri format che ormai coprono l'intera giornata. Mattine sull'Uno e pomeriggi sul Due. Pranzi compresi.

Veline, cuochi, giornalisti, cronaca, politica, cultura. Perché non c'è politico disposto a rinunciare a un'occasione mediatica, che garantisca visibilità, ascolto, pubblico. Vuoi mettere le centinaia o migliaia di persone che stanno in una piazza o in una tivù, se non c'è la televisione? Ma se c'è la televisione, perché non seguirne le regole e le logiche? Per cui, perché non affiancare al leader, sul palco e sulle piazze, la bella ragazza, il volto del giornalista famoso, del cantante, del regista o del comico satirico? E poi, nella vita quotidiana, li ritrovi, uno accanto all'altro, nelle occasioni mondane. Ritratti puntualmente dalla stampa people ma anche da quella seria. Certificati e fotografati su Dagospia. Non per caso, a tradimento. Ma per scelta consapevole. Perché le veline, i cuochi, i cantanti, gli artisti, i registi, i nobili decaduti, gli intellettuali, i calciatori, i presentatori, i cuochi, i giornalisti. Insieme ai politici. Non andrebbero alle feste, inaugurazioni, celebrazioni. Se non ci fossero Novella, Eva, Chi, Dipiù. E Vanity e A. E Dagospia. A fotografarli, ritrarli, diffonderne l'immagine. Cioè: tutto quel che conta.

Ma non è un fatto nuovo, se non per motivi di misura. Di quantità. In fondo cantanti, comici, giornalisti, registi e quant'altro sono già stati - taluni sono ancora - in politica. Eletti nel parlamento italiano o europeo. In qualche caso, per rimanerci, si spostano da un punto all'altro dello spazio politico, da un partito all'altro, in modo rapido e disinvolto.

Non voglio dire che tutto questo (mi) vada bene. Però non (mi) sorprende. Mi sorprende di più lo scandalo che solleva. Lo scandalo delle veline non dovrebbe scandalizzare più di tanto. A meno che non ci si scandalizzi di tutti i passi di questo percorso, che viene da lontano. Questo trend. Che procede parallelo all'abbandono dei luoghi sociali della politica.

All'evoluzione dei partiti in macchine presidenziali al servizio di un candidato. E tutti gli altri intorno a far da corona. (Corona?). Una corte di consulenti e consiglieri. Cortigiani, cortigiane. Ma tutto questo non scandalizza. Se non a parole. In fondo, così fan tutti. E' la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell'elettore in pubblico. Quando , al momento di votare, per riflesso pavloviano, sceglie: presentatrici e presentatori, attrici e attori, grandi fratelli e grandi sorelle. Veline. L'evoluzione della specie politica. O impolitica. Dipende dai punti di vista.

(30 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Al mercato della paura
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2009, 06:06:48 pm
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Al mercato della paura


di ILVO DIAMANTI



ORMAI è impossibile affrontare il tema della "sicurezza" nel dibattito pubblico, ridotto a materia di propaganda politica. Sui giornali e in Parlamento. Se ne parla per catturare il consenso dei cittadini, non per risolvere i problemi. Nel sostenerlo ci pare di scrivere lo stesso articolo. Un'altra volta. Eppure è difficile non tornare sull'argomento. Perché l'argomento ritorna, puntuale, al centro del dibattito politico. Come in questa fase, segnata dalle polemiche intorno al decreto sulla "sicurezza" (appunto). A proposito del quale Franceschini ha parlato di nuove "leggi razziali". Anche se gli aspetti più critici della legge sono stati esclusi dal testo. Ci riferiamo alla possibilità, offerta ai medici e ai pubblici funzionari (i presidi, per esempio), di denunciare i clandestini.

Altre iniziative venate di razzismo invece, non riguardano il governo, ma singoli politici e amministratori locali. Come la proposta di segregare gli stranieri nei trasporti pubblici, a Milano. Assegnando loro posti e vagoni separati. Una provocazione, anche questa. Capace, però, di intercettare consensi, solo a evocarla. La Lega, su questa base, sta costruendo la sua campagna elettorale in vista delle prossime europee. Per conquistare consensi nel Nord, ma anche altrove. Presentandosi come il partito della sicurezza-bricolage, da perseguire in ogni modo.

Anche l'imbarcazione carica di immigrati respinta dalla nostra Marina e consegnata alla Libia rientra in questa strategia politica e mediatica. Serve, cioè, come "annuncio". Esibisce la volontà determinata del governo, ma soprattutto del ministro dell'Interni e della Lega, di respingere l'invasione degli stranieri. Di rimandarli là dove sono partiti. Chissenefrega che fine faranno. Noi non possiamo accogliere i poveracci di tutto il mondo.

Gli alleati di centrodestra, in parte, approvano. In parte no. Comunque, non si possono dissociare, altrimenti la maggioranza si dissolve. E poi non vuole abbandonare l'argomento della paura dell'altro alla Lega. Così Berlusconi approva. Si adegua al linguaggio leghista e dice "no all'Italia multietnica". In aperta polemica con la "sinistra, che ha aperto le porte a tutti". (Anche se i flussi da quando è tornata al governo la destra sono raddoppiati). E la sinistra, chiamata in causa, si adegua: nel linguaggio e negli argomenti. Oppone alla retorica della cattiveria quella buonista (che, in assenza di alternative, preferisco). Denuncia il razzismo. Esorta all'integrazione. Senza, tuttavia, spiegare "come" realizzarla. Si appella all'indignazione della Chiesa (contro cui, peraltro, si indigna quando si occupa di etica). Così la "sicurezza" sfuma in una nebulosa che mixa immagini indistinte. Criminali piccoli e medi, immigrati, zingari, stranieri. Ridotti a slogan.

Un tema così importante (e critico) dovrebbe venire affrontato in modo co-operativo. Attraverso il confronto e la progettazione comune. Invece, è abbandonato al gioco delle parti. In balia degli interessi e degli imperativi immediati. La "fabbrica della sicurezza" (titolo di una bella ricerca curata da Fabrizio Battistelli e pubblicata da Franco Angeli), d'altronde, si scontra con il "mercato della paura". Il quale non limita la sua offerta all'ambito politico-elettorale, ma presenta una gamma di prodotti ampia e differenziata (come suggerisce una riflessione di Gianluigi Storti).

a) La paura, insieme all'in-sicurezza: è un format di largo seguito, sui media. Nei notiziari di informazione, nei programmi di "vita vera e vissuta", nelle trasmissioni di approfondimento. A ogni ora del giorno, in ogni canale, incontriamo uno stupro, un'aggressione, un omicidio, un delitto, una catastrofe. E poi fiction di genere, che primeggiano negli indici di ascolto. Sky ha dedicato due canali alle "scene del crimine". 24 ore su 24 dedicate alla "paura".
E' significativa l'evoluzione (o forse la d-evoluzione) dei tipi sociali interpretati da Antonio Albanese. Attore e analista acuto del nostro tempo. Da Epifanio, il personaggio stralunato e naif (ricorda vagamente Prodi), proposto vent'anni fa, fino al "ministro della paura" (accanto al "sottosegretario all'angoscia") esibito ai nostri giorni.

b) La paura alimenta la domanda di autodifesa delle famiglie (come ha rilevato il rapporto Demos-Unipolis sul sentimento di insicurezza), che trasformano le case in bunker. Con porte blindate, vetri antisfondamento, sistemi di allarme sempre più sofisticati. All'esterno: recinzioni e cani mostruosi. In tasca e nei cassetti: armi per difesa personale.

c) Disseminati ovunque sistemi di osservazione, occhi elettronici che ci guardano. A ogni angolo. In ogni luogo. Mentre si diffondono poliziotti e polizie, ronde e servizi d'ordine. La sicurezza: affidata sempre più al privato e sempre meno al pubblico.

d) Intorno alla paura e all'insicurezza si è formata una molteplicità di figure professionali. Psicologi, psicanalisti, analisti, psicoterapeuti. E sociologi, criminologi, assistenti sociali. Operano in istituzioni, associazioni, studi. Nel pubblico, nel privato e nel privato-sociale.

e) Infine, come dimenticare la miriade di prodotti chimici al servizio della nostra angoscia? Occupano interi scaffali sempre più ampi, dentro a farmacie sempre più ampie. Supermarket dove il padiglione dedicato alla paura, di mese in mese, allarga lo spazio e l'offerta.

Per questo è difficile sconfiggere la paura e fabbricare la sicurezza. Perché la sicurezza è un bene durevole, che richiede un impegno di lungo periodo e di lunga durata. L'insicurezza, la paura, no. Sono beni ad alta deperibilità. Più li consumi più cresce la domanda. Garantiscono alti guadagni in breve tempo. Per costruire la sicurezza occorrerebbe agire con una visione lunga. Disporre di valori forti. Servirebbero attori politici e sociali disposti a lavorare insieme. In nome del "bene comune". Ispirati da una fede o almeno da un'ideologia provvidenziale. Pronti a investire sul futuro. Mentre ora domina il marketing. Trionfa il mercato della paura. Dove non esiste domani. È sempre oggi. È sempre campagna elettorale.
Che l'angoscia sia con noi.

(10 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La democrazia del privato
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 11:20:39 am
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La democrazia del privato


di ILVO DIAMANTI

E' comprensibile lo sconcerto pubblico suscitato dalle vicende personali del premier. Al di là del "merito" (si fa per dire), hanno indotto a riflettere sul significato stesso della politica e della democrazia.

Al proposito, Barbara Spinelli, sulla Stampa, ha denunciato l'intreccio perverso che lega i fatti personali e la politica. Sottolineando che "non si vorrebbe saper nulla dell'uomo politico se non quel che riguarda il bene comune". Le ha fatto eco Eugenio Scalfari, osservando, opportunamente, che la "tenda divisoria" tra pubblico e privato in democrazia può sussistere: sottile. Ma, ha aggiunto, scompare nei regimi autoritari. In realtà, è scomparsa anche nei regimi democratici. Da tempo. Anche dove il conflitto di interessi non si presenta esplicito come in Italia. Che costituisce, semmai, un laboratorio, come si è soliti dire. Dove i processi avvengono più violenti che altrove. Ma non un'anomalia. Perché - ormai da tempo - in molti paesi occidentali la politica si è personalizzata, insieme ai partiti. I quali hanno rimpiazzato l'ideologia con la fiducia nella personalità del leader; l'organizzazione e la partecipazione con il marketing e la comunicazione. Bernard Manin ha parlato, a questo proposito, di "democrazia del pubblico". Dove il "pubblico" non si riferisce a "ciò che è di interesse comune". Né allo spazio del dibattito sui temi (appunto) pubblici creato e occupato dagli intellettuali. Il "pubblico" evoca, invece, il cittadino-spettatore di fronte alla "messa in scena della politica" (per parafrasare Balandier, quando definisce i rituali del potere nelle società pre-moderne). Interpretata dai leader. Massimo Gramellini, commentando la performance televisiva di Berlusconi nel salotto di Bruno Vespa, ha parlato (anch'egli sulla Stampa) del "primo statista pop che abbia mai calcato il Palcoscenico della Storia". Osservazione spiritosa e acuminata. Ma anch'essa imperfetta.

Berlusconi, infatti, non è il "primo" ad aver scelto la strada della "politica pop" (titolo di un interessante saggio di Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini, in corso di pubblicazione per "il Mulino"). Intanto, perché, non solo in Italia, la politica si è da tempo travasata dal territorio e dalla società sui media. E, proprio per questo, si è rapidamente integrata nei moduli e nei linguaggi pop della televisione.

Delineando format e generi sempre più ibridi: "infotainment", "politainment". Miscela di informazione, intrattenimento e politica. Dove i fatti privati degli uomini pubblici fanno spettacolo e audience. Con le parole di Edmondo Berselli: "Nei talk show politici a metà programma accanto a D'Alema, Amato, Rutelli e Berlusconi possono entrare in studio Anna Falchi, Valeria Marini, Alba Parietti, Sabrina Ferilli (.); una conferma spettacolare che la televisione è fungibilità assoluta. L'importante è esserci".

Dunque, non è solo la politica ad aver appreso e imitato il linguaggio e il format dei media. è vero anche l'inverso. I media hanno adeguato i loro format e i loro linguaggi alla politica. La satira è entrata dovunque. Anzi: ambisce a fare "informazione vera". Mentre i programmi di informazione politica hanno accolto i comici, gli attori, gli esperti di vario genere e tipo. Peraltro, l'ingresso in politica di personaggi dello spettacolo e dei media (attori, giornalisti, ecc.) è frequente. (E non nuovo). Tuttavia, si assiste anche al passaggio inverso. Dalla politica allo spettacolo. Irene Pivetti: da presidente della Camera ai reality choc, alle danze sotto le stelle. Vladimir Luxuria. Dallo spettacolo alla Camera di nuovo allo spettacolo. L'Isola dei famosi. Reality di successo, che, peraltro, ha vinto.

Da questo ragionamento possiamo trarre alcune considerazioni sul cambiamento dei sistemi democratici. Le abbozziamo in ordine sparso.

1. Se il rapporto fra politica e media è così stretto (soprattutto in Italia) i media (e la televisione) diventano luoghi di lotta politica. E la televisione (si pensi alle nomine) un campo di battaglia permanente.

2. La distanza fra cittadino e spettatore si sta assottigliando sempre più. L'opinione pubblica è sovrana. Identificata dall'intreccio fra media e sondaggi. Principio di legittimazione politica e istituzionale sempre più importante. Anche perché agisce in tempo reale. La democrazia (parafrasando Renan sulla nazione) diventa, così, un plebiscito, o meglio: un sondaggio di ogni giorno. Anzi: ogni ora. Pubblicizzato dai media, testimoniato dai giornalisti, legittimato dagli esperti. Ispirato da chi li fa, commissiona, pubblica, commenta, ecc.

3. Se nella scena pubblica i ruoli sono fungibili, se il politico canta e cucina oppure discute di etica e della finanziaria con la velina, il cuoco e il cantante, perché scandalizzarsi se il cuoco, il cantante e perfino la velina ambiscono a calcare la scena politica? Ad andare in Parlamento?

4. Per la stessa ragione, la pretesa di ridurre le vicende personali e familiari dei leader politici a "fatti privati" e dunque privi di interesse pubblico, per questo, è insostenibile. Tanto più nel caso del premier, che ha fatto della "politica pop" (e del populismo mediatico) la base del suo successo: negli affari e in politica.

5. D'altronde, la "democrazia del pubblico" si sta traducendo in "democrazia del privato". Dove i fatti personali e familiari diventano di pubblico interesse. Non perché siano di interesse pubblico ma perché interessano al pubblico.

6. Questa tracimazione del privato nel pubblico, secondo alcuni studiosi (Crouch e Mastropaolo, fra gli altri), evoca l'avvento di una "post-democrazia". Una democrazia minima. Ridotta al voto. Dove il cittadino esercita il suo potere (?) una volta ogni cinque anni. Per trenta secondi. Poi si siede davanti alla Tv. E guarda. Al più: risponde a un sondaggio.

Noi ci limitiamo a osservare la singolarità del caso italiano anche nell'era della "democrazia del privato". Dove il governo, il partito e i media sono tutti e tre personalizzati. Tutti e tre riassunti in una sola persona. La stessa.

(17 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le minoranze ribelli che parlano al Paese
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2009, 10:31:03 am
Le minoranze ribelli che parlano al Paese


di ILVO DIAMANTI

 

L'Atlante Politico di Demos registra e conferma tendenze già osservate negli ultimi mesi tra gli elettori.

Poco allegre per il centrosinistra e, soprattutto, per il Pd.

GUARDA LE TABELLE: 1 - 2 (su repubblica.it)


Al di là delle specifiche stime di voto, il clima d'opinione sembra premiare tutte le principali scelte del governo e tutte le azioni del premier. Anche le più discusse e discutibili. Dai respingimenti delle imbarcazioni cariche di immigrati, approvate da oltre 2 italiani su 3 (da 4 su 10 fra gli elettori del Pd e dell'Idv), alle vicende personali e familiari di Berlusconi. Quasi 8 italiani su 10 pensano che il divorzio annunciato e le amicizie femminili del premier siano fatti suoi e di sua moglie.

Va detto che il sondaggio è stato condotto prima della sentenza sul caso Mills, che accusa il premier di corruzione. Anche se dubitiamo che possa scuotere un elettorato largamente immune dal vizio dell'indignazione.

L'emergenza-terremoto, invece, ha esercitato effetti positivi sulla popolarità del governo. Da ciò l'impressione che l'esito delle prossime elezioni europee sia già scritto. Una replica - dai toni più forti - del risultato di un anno fa. Le elezioni europee, tuttavia, non sono mai davvero prevedibili. Perché hanno effetti politici nazionali, ma le loro conseguenze istituzionali riguardano, appunto, il contesto europeo.

Per questo sono caratterizzate da un tasso di astensione più elevato del consueto (il 30%, cinque anni fa). Per questo molti elettori usano criteri di scelta diversi. Votano (oppure non votano) in modo più "libero" che in altre consultazioni. Meno attenti alla logica del voto utile e maggiormente disposti, invece, a esprimere un voto a elevato valore simbolico. Che suoni come minaccia, avvertimento oppure auspicio. Per questo, in particolare, conviene guardare anche "dentro" alle coalizioni, dove si gioca una partita altrettanto importante di quella "fra" le coalizioni. In particolare, occorre fare attenzione alla sfida lanciata da Antonio Di Pietro al Pd ma anche a quella, altrettanto esplicita, della Lega contro il Pdl. Di Pietro alle elezioni di un anno fa aveva raggiunto il 4,4%.

Oggi, secondo Demos, è quasi raddoppiato. Mentre il Pd è sceso di 7 punti percentuali. Insieme, Pd e Idv raggiungono a fatica il dato ottenuto un anno fa dal Pd da solo. Ma oggi l'Idv costituisce un quarto dei voti di quest'area politica. Circa un terzo rispetto alla base elettorale del Pd. Non un settimo (e anche meno) come un anno fa.

Diverso è il caso della coalizione che sostiene il governo. Il cui partito di riferimento, il Pdl, non sembra aver perduto consensi. Anzi, li sta allargando. Ma la Lega, rispetto a un anno fa, è cresciuta maggiormente. Secondo le stime di Demos, avrebbe superato il 10%, come solo nel 1996 le era capitato.

Quando si era presentata da sola contro tutti, agitando la bandiera della secessione. Una minaccia che, in seguito, però, l'avrebbe sospinta ai margini del sistema politico e dell'elettorato. Oggi invece agisce da alleata inquieta, ma fedele, del Pdl. Sta al governo e al tempo stesso assume atteggiamenti da opposizione. E sembra trarne un doppio beneficio. Lega e Idv, quindi, corrono per rafforzare il loro ruolo nella politica del paese ma anzitutto nelle due coalizioni. Mirano a diventare i veri punti di riferimento della maggioranza e dell'opposizione. Soggetti che dettano l'agenda e impongono il linguaggio della politica nazionale. La Lega, d'altronde, oggi è divenuta portabandiera del tema della sicurezza; in modo aggressivo. Rivendica l'autodifesa personale e delle comunità locali. Oggi le ronde. Domani, magari, la liberalizzazione della vendita delle armi. Seguendo il modello americano.

Ha, inoltre, assunto il ruolo di guida della lotta contro l'immigrazione clandestina. Anzi, diciamo pure: contro l'immigrazione tout-court. Intanto, ha conquistato il federalismo fiscale. Il suo marchio di fabbrica. Ma oggi sembra maggiormente interessata ad apparire garante della sicurezza e della paura. Perché non c'è domanda di sicurezza senza paura. E viceversa. In questo modo, conta di scavalcare il confine "naturale" del Nord padano. Il Po, appunto. Perché la paura non ha confini.
L'Idv di Di Pietro assorbe e intercetta almeno una parte di questo sentimento. La domanda di sicurezza. Perché, a differenza del Pd, non ha remore a esprimere un linguaggio securitario contro la criminalità comune e l'immigrazione clandestina.

Inoltre, pratica la linea della fermezza antiberlusconiana. Senza se e senza ma. Fa l'Opposizione inflessibile. Sempre pronta a manifestare apertamente e rumorosamente la protesta contro il governo. In modo da sottolineare la timidezza degli alleati e da coprire la voce del leader democratico Dario Franceschini. Così, sullo spazio politico, i due partiti sono scivolati via dal centro. Oggi il 50% degli elettori leghisti si colloca a destra. Nel Pdl, invece, un terzo. Per cui la Lega è più a destra del Pdl (dove sono confluiti gli elettori di An). L'Idv, anch'essa, tempo fa, vicina al centro, se ne è allontanata. Il 33% dei suoi elettori oggi si dicono di sinistra, il 34% di centrosinistra. Solo l'8% di centro. Fa concorrenza alla Lega, per linguaggio e inflessibilità (non per i riferimenti di valore). Ma anche alla sinistra radicale.
Lega e Idv, per questo, giocano una partita importante: per sé, per la propria area, per il sistema politico italiano. Di cui ambiscono ad assumere la leadership. Minoranze dominanti di un paese "contro".

(21 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La rivincita di Gran Torino
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 11:17:49 am
ECONOMIA      MAPPE

La rivincita di Gran Torino

di ILVO DIAMANTI
 

Nell'Italia dove le città hanno perduto la capacità di offrire significato e identità alle persone - e prima ancora allo stesso paese - si assiste a un evento inatteso. Il ritorno di Torino. Per motivi diversi e non necessariamente felici. Pensiamo all'incidente sanguinoso avvenuto alla ThyssenKrupp nel dicembre 2007. Una tragedia esemplare. Ha rammentato che le fabbriche industriali esistono ancora. Che gli operai esistono ancora. E muoiono ancora. Sul lavoro. Perché la sicurezza non riguarda solo la criminalità e l'incolumità personale.

Più di recente, Torino è tornata al centro dell'attenzione pubblica come piazza del conflitto sociale. In seguito all'aggressione dei Cobas contro il segretario della Fiom Gianni Rinaldini, nel corso della manifestazione sindacale per chiedere chiarezza sul piano di ristrutturazione internazionale avviato dalla Fiat. E ancora: nei giorni scorsi Torino è stata teatro delle proteste dell'Onda studentesca contro il vertice internazionale delle Università (il cosiddetto G 8 dei rettori). Certo, magari la città avrebbe fatto a meno di queste occasioni di pubblicità. Tuttavia, anche l'assenza di "cattive notizie" è segno del male che, da tempo, affligge Torino. L'invisibilità è un riflesso dell'irrilevanza. (Lo specchio pubblico non può riflettere quel che non c'è). La città della Fiat e della famiglia Agnelli aveva, infatti, seguito il destino della Fiat e degli Agnelli, dopo gli anni Settanta. Insieme alla grande impresa, al capitalismo familiare. Il declino dell'Italia fordista, fiat-ista. Baricentro a Nordovest. Nel triangolo industriale. Vertice a Torino. L'ascesa dell'economia post-fordista e del capitalismo dei beni immateriali (i servizi, la comunicazione, la finanza) aveva spostato i centri del potere altrove (Come ha ben rilevato, per tempo, Arnaldo Bagnasco). Nel Nordest e a Milano. Dove era avvenuta l'irruzione (o forse l'eruzione) della Lega e di Berlusconi. Mentre l'Italia laica e di sinistra aveva trasferito altrove i suoi centri. Lungo l'asse fra Bologna e Firenze, tracciato da Prodi e Ciampi. E nella Roma di Rutelli e Veltroni.
Torino era, così, divenuta provincia. Periferia di Milano e del Nordest. Oltre che di Roma. Ai margini di Berlusconi e della Lega. Risucchiata nella provincia piemontese. Un tempo satellite. Poi, sempre più autonoma. Ora non è più così. E non sono solo le tragedie e i conflitti a rammentarlo.

Torino oggi è di nuovo la città della Fiat. Non di Agnelli. Ma di Marchionne. E di Montezemolo (anche perché la Ferrari gira intorno alla Fiat). Un'azienda che si è rilanciata e sta cercando di rafforzarsi nel mercato globale. Oggi, è al centro di discussioni e tensioni, per i costi e le prospettive previste da un piano ambizioso e complesso. Che coinvolge Chrysler e Opel. Usa e Germania. Ma, appunto, è al "centro". Non più ai margini, com'era fino a pochi anni fa. Come echeggia, per una singolare coincidenza, un magnifico film di Clint Eastwood. Intitolato, appunto, Gran Torino. Modello mitico di un'auto... Ford.

D'altronde, Torino non è solo Fiat. Negli ultimi anni, mesi, la sua immagine è stata promossa da altri eventi. Eccezionali o ricorrenti. E' la città delle Olimpiadi invernali. È la città della buona cucina, del cibo biologico, dell'agricoltura equa e solidale. Sede del Salone internazionale del gusto e di Terra madre. È la capitale dell'editoria. Dove ogni anno si svolge la Fiera del libro. Per numero di visitatori, la prima in Europa.
Perché il ritorno di Torino rammenta che cambiare è possibile, anche in Italia. Dove pare impossibile cambiare. Soprattutto il territorio e le città. E il cambiamento risulta evidente anzitutto ai cittadini. Come sottolinea il sondaggio condotto da Demos per la Repubblica nei giorni scorsi. In particolare, la maggioranza assoluta dei torinesi (quasi il 55%) ritiene che il ruolo della loro città, in Italia, sia divenuto più importante negli ultimi anni. Nel 2002 era solo il 22% a pensarlo. La stagione opaca pare, dunque, finita, secondo l'opinione pubblica torinese. Al tempo stesso, si è consolidata l'idea che a Torino si viva meglio che nelle altre metropoli italiane. Non solo rispetto a Napoli. Ma anche a Milano e a Roma. Anche l'immagine del potere in città si è complicata. In testa, davanti a tutti, i torinesi oggi pongono il sindaco Sergio Chiamparino. Accanto a lui: Sergio Marchionne. A distanza: Luca di Montezemolo e Mercedes Bresso. Nell'ordine: il potere amministrativo e politico; poi la Fiat. Non era così trent'anni fa, ovviamente, quando il potere - reale e percepito - aveva un solo volto. Coincideva con il ritratto della famiglia Agnelli. Ma neppure 5 o 6 anni fa quando ogni potere pareva dissolto.

Questa mutazione ha, dunque, ridefinito l'immagine e l'identità di Torino. Oggi appare una città poliarchica e polisemica. Dove l'industria dei beni immateriali - i prodotti e gli eventi della cultura e del tempo libero - conta quanto e più di quella dei beni materiali. La stessa Fiat sembra avviata in tal senso. Riferimento di un network progettuale e creativo globale. Delocalizzato e de-urbanizzato.

Naturalmente, ciò non immunizza Torino dai problemi e dalle tensioni, a cui abbiamo fatto riferimento all'inizio dell'articolo. Torino è, peraltro, afflitta anche da altri mali, che riflettono il degrado delle metropoli. Dove il sentimento di insicurezza dei cittadini continua a crescere. Soprattutto nelle zone e tra le componenti sociali più periferiche: gli anziani, i ceti popolari e la classe operaia. Si sentono minacciati dalla criminalità, "assediati" dall'immigrazione. Oppressi dal rischio e dal peso della disoccupazione. Come nelle altre metropoli. Perché tornare al centro della scena, ritrovare identità e visibilità non significa risolvere i problemi. Semmai, per alcuni versi, il contrario: amplificarli. Infine, il ritorno sulla scena pubblica, nazionale e internazionale, non significa, per Torino, tornare capitale. Perché l'Italia oggi non ha una capitale. Ma molte città. Nessuna abbastanza forte da imporsi - ma tutte in grado di opporsi - alle altre.

(25 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La nazione degli elusi
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2009, 10:57:39 pm
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La nazione degli elusi

di ILVO DIAMANTI



A una settimana dal voto europeo l'incertezza elettorale rimane alta. Non solo: aumenta. Secondo alcuni sondaggi, la quota degli indecisi nelle ultime settimane si è, infatti, allargata sensibilmente. Era inferiore a un quarto degli elettori, un mese fa. Oggi è quasi un terzo.

È singolare, perché l'avvicinarsi della scadenza, normalmente, produce l'effetto opposto. Il passaggio dall'indecisione alla decisione. Occorre, certo, considerare la particolarità di questa consultazione. La partecipazione alle europee, infatti, è sempre più limitata rispetto alle altre elezioni. In Italia, nel 2004, ha votato il 73% degli aventi diritto. Una percentuale, peraltro, molto superiore agli altri paesi della Ue (la cui media complessiva fu del 45%). Il fatto è che le elezioni europee hanno un significato diverso delle altre, per gli elettori. In Italia, il paese più eurofilo, in questa campagna non si è mai parlato di Europa. Manco per sbaglio. Ciò che interessa ai partiti e ai media sono gli effetti del voto "interni" all'Italia. Sui rapporti tra maggioranza e opposizione. Sugli equilibri inter-partitici della maggioranza e dell'opposizione. Tuttavia, se si escludono i temi della sicurezza e dell'immigrazione, il dibattito ha trascurato anche le questioni nazionali. Si è, invece, concentrato intorno ai fatti personali e familiari del presidente del Consiglio. E ciò ha alimentato la tentazione di molti elettori di non partecipare al voto. "Usando" il voto, ma anche il "non voto", come un segnale. Come avvenne nel 2004, quando a pagare fu soprattutto Forza Italia. Abbandonata da un'ampia quota di elettori delusi. Fi ottenne, allora, 6 milioni e 800mila voti, il 21% sul totale dei voti validi. Cioè: 4 punti percentuali e 1 milione meno delle precedenti elezioni europee del 1999, ma 4 milioni e l'8% in meno rispetto alle politiche del 2001. Il recupero inatteso del centrodestra, e soprattutto di Fi, in occasione delle elezioni politiche del 2006, in effetti avvenne soprattutto mobilitando gli astenuti del 2004. Riportando alle urne i "delusi".

Per questo conviene fare attenzione al popolo degli incerti. Alla sua evoluzione, che in questa fase appare in controtendenza rispetto al consueto. Questo fenomeno ha diverse facce e diverse spiegazioni. Colpisce entrambi gli schieramenti elettorali. Da un lato, a sinistra, ci sono gli "esuli". Così abbiamo definito, tempo addietro, gli elettori del Pd del 2008 che, in seguito, avevano mostrato una crisi di rigetto. Allontanandosi dal Pd, considerato una opposizione debole e inefficace. Ma anche e soprattutto dalla politica. E dagli italiani. Estranei nel paese del Gf e degli Amici. Del Tg unico. Dell'intolleranza e dell'assuefazione a ogni vizio pubblico e privato. Esuli in patria. Lontani dal berlusconismo. Irriducibili a ogni dialogo con la maggioranza del paese. Dunque, con il paese. Da ciò il collasso dei consensi del Pd, stimato, a febbraio, circa 10 punti meno del 2008. Elettori confluiti solo in minima parte in altri partiti. La maggioranza di loro, invece, si era semplicemente dimessa dalla politica e dall'Italia. Un esodo riassorbito. Ma solo in qualche misura. Per cui il Pd ha ripreso a crescere, anche se il risultato di un anno fa resta lontano. Una parte dei suoi elettori è ancora esule. Un'altra parte, invece, si è accostata a Di Pietro. Un'altra ancora ai partiti della sinistra. Da cui proviene e che aveva abbandonato nel 2008, in nome del "voto utile". Un richiamo, in questa occasione, molto meno significativo.

Tuttavia, l'aumento degli indecisi in questa fase avviene, anzitutto, insieme al calo del Pdl. Di proporzioni ridotte. Una slavina, non un'alluvione. Ma costante nelle ultime settimane. Anche il peso degli elettori fedeli, nel Pdl, si è ridotto sensibilmente.
Una tendenza parallela e coerente alla fiducia nel presidente del Consiglio. Il cui consenso personale è declinato in modo sensibile nelle ultime settimane. Nonostante gli indicatori del clima d'opinione, dal punto di vista economico, e il giudizio nei confronti del governo non siano peggiorati.

Si assiste, cioè, a una sorta di sconcerto, fra gli elettori del Pdl, partito personalizzato e personale. Le faccende personali e familiari del premier hanno infastidito anche un pubblico come quello italiano. Ormai quasi incapace di stupirsi, se non di indignarsi. Anche l'elettorato medio, a cui si rivolge il Pdl, ne è disturbato. Non tanto per il clamore sollevato dai giornali "nemici" (che ovviamente non legge). Ma semmai per le prudenti critiche del clero.
Così, c'è una quota di elettori che da qualche settimana si pone in stand-by. In attesa. E stenta a dichiarare il proprio voto per il Pdl nei sondaggi. Per disagio, come ha osservato nei giorni scorsi Nando Pagnoncelli. Anche se ciò non significa che, fra una settimana, non lo voterà. Oggi però non lo dichiara. Sono elettori clandestini: invisibili e reticenti. Evitano di esprimersi e di apparire. Più che per "delusione", come in passato, per "elusione". Per disorientamento e imbarazzo. Atteggiamenti che, fra una settimana, potrebbero venir messi da parte. O forse no. In fondo si tratta di elezioni europee: se non dai un segnale in questa occasione, quando mai?

Tuttavia, l'indecisione che cresce fra gli elettori in prossimità del voto descrive bene il sentimento di questo paese spaesato. Affollato di "esuli" e di "elusi". Che cercano soluzione nella dissoluzione. O meglio, nella dissolvenza intermittente. Vorrebbero scomparire per riapparire in tempi migliori.

(31 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - I territori scomparsi nelle elezioni pop
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 11:54:01 am
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I territori scomparsi nelle elezioni pop

di ILVO DIAMANTI


SI TRATTA, forse, delle prime "elezioni pop" della storia della Repubblica. Settimane di inchieste, richieste, interviste, minacce, denunce intorno alle amicizie e alle frequentazioni del leader. E, ancora, di sua moglie.

Fatti privati che diventano pubblici, perché la "democrazia del pubblico", fondata sulla personalizzazione, sui media e sull'opinione, si concentra sul privato. Perché oggi il "personale è politico". Assai più che negli anni Settanta, ai tempi delle rivendicazioni femministe. Anche se i contenuti e i motivi che alimentano questa evoluzione (?) della democrazia sono ben diversi da allora. Le "elezioni pop", peraltro, tendono inevitabilmente a riassumersi in un referendum. Pro o contro Berlusconi. Non diversamente dal passato, d'altra parte. Tuttavia, mai come in questa occasione Berlusconi rappresenta non tanto un modo di intendere l'economia, il lavoro, lo Stato. Ma uno stile di vita, un'ideologia, una morale. Per questo, una volta di più e forse più di tutte le altre volte, il territorio e i confini sono scomparsi.

L'Europa: nessuno ne ha parlato. Gran parte degli elettori manco sanno dove abbia sede il Parlamento della Ue. D'altronde, il voto europeo è sempre stato usato per altri scopi. Come occasione per misurare i rapporti di forza tra e dentro le coalizioni. In questo caso: tra destra e sinistra. (E il centro). Fra Pd e Idv. Fra Pdl e Lega. Fra Berlusconi e tutti gli altri. Un sondaggio d'opinione pesante, che fa scomparire l'Europa, ma anche il territorio. Perché in questi due giorni quasi metà degli italiani votano per rinnovare la loro amministrazione: comunale o provinciale. Ma non ne parla nessuno, se non nei luoghi interessati. Come se l'esito riguardasse soltanto loro.

Eppure questa Repubblica, la seconda Repubblica, non è stata fondata da Berlusconi. La prima Repubblica non è stata "affondata" dai magistrati. Dietro ai magistrati, a Berlusconi e al movimento referendario guidato da Segni c'era il territorio. Bandiera della rivolta anticentralista del Nord, guidata dalla Lega. Delle rivendicazioni dei sindaci e dei presidenti provinciali e regionali, eletti direttamente dai cittadini. Non a caso, verso la metà degli anni Novanta, si parlò di un "partito dei sindaci". Perlopiù di centrosinistra, ma non solo. Perlopiù del Nord e del Nordest. Ma non solo. Mirava a riformare lo Stato centrale e i partiti nazionali.

Le elezioni amministrative, d'altra parte, hanno contribuito a segnare i cicli politici della seconda Repubblica forse più di quelle europee, a cui erano affiancate. Si pensi al 1999, quando il successo di Forza Italia e di Berlusconi, alle europee si associa alla conquista di Bologna. Capitale - e "città esemplare" - della zona rossa, espugnata da Giorgio Guazzaloca, sostenuto da una civica di centrodestra. Evento simbolico della fine di un'epoca. Così, cinque anni fa, più che dal riequilibrio tra le coalizioni alle europee, il marchio della consultazione è stato impresso dalle elezioni amministrative. Dalla riconquista di Bologna, con un risultato schiacciante. E da un successo generalizzato.

Infatti, le liste di centrosinistra, nel 2004, hanno vinto in 52 province, delle 63 in cui si votava; 8 in più rispetto alla situazione precedente. Il successo di Penati, a Milano, costituisce, sicuramente, il risultato più importante e appariscente, per motivi simbolici. Ma non l'unico. Si pensi a Bergamo, cuore della pedemontana leghista. A Padova, cuore del Nordest. Ma il centrosinistra si afferma ovunque. Anche alle elezioni municipali, dove elegge il proprio candidato sindaco in 171 comuni oltre i 15mila abitanti, sui 231 in cui si votava. Il che sottolinea un elemento importante del rapporto fra politica e società, nella seconda Repubblica.

Almeno fino ad oggi. La maggiore capacità competitiva della sinistra - e del centrosinistra - a livello locale, sul territorio. Perché più organizzato e radicato. In grado di esprimere una classe dirigente più esperta e legittimata.

Si delinea così una sorta di bilanciamento dei poteri. Berlusconi al governo dello stato e dei media. Il centrosinistra insediato nel territorio, al governo delle città e delle altre entità territoriali. A contrastarlo: la Lega nel Nord. Dove si presenta, spesso, da sola. Indebolendo, così, gli alleati del centrodestra. Ancora oggi, il centrosinistra governa nel 60% dei comuni capoluogo, nel 70% delle province e nei due terzi delle regioni. Una via - fin qui l'unica - per uscire dalla roccaforte - e dalla prigione - della zona rossa del centro. Ma l'impressione è che possa trattarsi di una geografia inattuale. Peraltro, pesantemente incrinata dalla sconfitta di una anno fa, al comune di Roma.

Anche in quel caso: decisiva, più ancora del voto alle politiche, nel sancire il successo del centrodestra guidato da Berlusconi. E la parallela sconfitta del Pd di Veltroni. Più in generale, i sindaci e governatori non sembrano più un contropotere democratico, testimoni e garanti dell'autonomia del territorio. La loro voce in ambito nazionale è debole. La loro scelta avviene, sempre più, in base a calcoli di partito e di coalizione, a livello centrale. (Come nel caso del Veneto, conteso fra Lega e Pdl). La Lega, peraltro, più della bandiera del territorio, oggi agita il fantasma dell'insicurezza. La paura dell'altro. Per superare i confini del Nord.

La scomparsa del territorio da questa campagna elettorale, dunque, non è casuale. E dovrebbe inquietare. Soprattutto il centrosinistra, la cui storia e la cui forza dipendono in modo determinante dal rapporto con la società locale. Ma dovrebbe preoccupare tutti i cittadini. Perché il risultato di Bologna, Milano, Torino, Padova, Bergamo, Firenze, Bari e in migliaia di comuni medi e piccoli avrà conseguenze politiche importanti, in ambito nazionale. E determinerà effetti duraturi sulla vita quotidiana delle persone. Sull'ambiente. Sulla formazione del ceto politico e di governo a livello locale. Mentre il voto europeo, fra qualche giorno, apparirà un semplice episodio del romanzo pop che ispira la politica italiana del nostro tempo.


(7 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Pd esule in casa
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:36:43 pm
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Il Pd esule in casa

di ILVO DIAMANTI

 Come avviene puntualmente da 15 anni, anche queste elezioni sono state affrontate come un referendum. L'unico ammissibile, in Italia, oggi. Pro o contro Berlusconi.
Il quale, a differenza delle ultime occasioni, questa volta ha perduto. E ha condizionato, in questo modo, la lettura del voto. Tuttavia, dalla consultazione esce sconfitto lui, ma non il centrodestra. Non certo la Lega. Ma lo stesso Pdl, per una volta, se l'è cavata meglio del suo leader. Come hanno confermato le elezioni amministrative.

Nell'insieme, questa consultazione conferma un profondo mutamento dei rapporti fra politica, società e territorio, che investe entrambi gli schieramenti. Ne forniscono una raffigurazione plastica ed esemplare la Lega e l'Idv. I vincitori di queste elezioni. Non solo perché hanno guadagnato peso elettorale, in valori assoluti e percentuali, rispetto alle precedenti elezioni politiche ed europee. Ma perché, inoltre, si sono rafforzati rispetto agli alleati. Si tratta di partiti molto diversi, ma con alcuni tratti comuni. Anzitutto, i temi che hanno imposto all'agenda politica, in campagna elettorale.

In primo luogo: la sicurezza. Anche se la interpretano in modo alternativo. La Lega: come reazione alla "paura degli altri e del mondo", all'inquietudine prodotta dal cambiamento. È la "Lega degli uomini spaventati", che organizza le ronde: la comunità locale in divisa per difendersi dagli immigrati e dalla criminalità comune. L'Idv, invece, punta sulla domanda di legalità. Rivendica l'eredità della stagione di Tangentopoli, impersonata da Antonio Di Pietro. Sostiene i magistrati. Esercita un'opposizione intransigente. A Berlusconi. A ogni mediazione sui temi della giustizia. Per questo motivo nel 2006 si oppose - unica, non a caso, con la Lega - all'indulto.
Entrambi i partiti usano, in diverso modo e in diverso grado, uno stile populista: per linguaggio e comunicazione. Esprimono, tuttavia, valori molto diversi. E seguono modelli opposti: dal punto di vista organizzativo e nel rapporto con la società e il territorio. La Lega è un partito "territoriale". Nordista per geografia e identità. Impiantato su una base di volontari e militanti diffusa e persistente. L'Idv è, invece, un "partito senza territorio", orientato su questioni "nazionali". Con un elettorato proiettato, semmai, nel Centro-Sud. Dal punto di vista organizzativo, è ancora largamente fluido e sradicato. D'altronde, ha conosciuto un successo rapido e recente. Fino a oggi, la sua identità si è confusa con quella del leader.

I diversi modelli espressi dai due partiti riflettono uno slittamento del rapporto fra politica e territorio, già segnalato. La sinistra utopica sta diventando atopica. Non solo l'Idv. Anche il Pd vede il proprio terreno sfaldarsi. Erede dei partiti di massa, il Pci e le correnti democristiane di sinistra, fino a ieri non era riuscito a scavalcare i confini delle zone rosse, dove però era saldamente insediato. Oggi, non più. Anche le zone rosse stanno diventando rosa. Segnate, qui e là, da alcune macchie di verde. Il Pd è il partito più forte solo in Emilia Romagna e in Toscana. Nelle Marche e perfino in Umbria è superato dal Pdl. Città e province tradizionalmente di sinistra scricchiolano. A Firenze e Bologna il Pd non è riuscito a imporre il suo candidato al primo turno. Delle 50 province dove governava, fino a pochi giorni fa, fin qui ne ha riconquistate solo 14 e 15 le ha già perdute. Delle 27 città capoluogo che amministrava fino a pochi giorni, il centrosinistra, al primo turno, ne ha mantenute sette mentre sei le ha cedute al centrodestra. Il quale sta piantando radici diffuse e profonde. Non solo la Lega. Nonostante l'insuccesso personale di Berlusconi, anche il Pdl ha dimostrato un buon grado di resistenza elettorale. Soprattutto nel Nord, dove ha sopportato lo scontro con la Lega. Per la prima volta, infatti, i due alleati non si sono cannibalizzati reciprocamente. Ha, inoltre, tenuto anche nelle regioni del Centro mentre ha perduto largamente nel Sud. Soprattutto in Sicilia, sua roccaforte. Dove ha pagato lo scontro con la Lega Sud di Lombardo. Suo alleato, fino a ieri. E forse di nuovo domani. Perché il Pdl, come prima Forza Italia, è un partito network. Aggrega soggetti politici e gruppi di potere radicati. Ciò lo rende forte e al tempo stesso vulnerabile. Esposto alle tensioni tra gli alleati, ai conflitti tra le diverse componenti locali. Il problema vero del centrodestra è che questa molteplicità di radici ha un solo, unico ceppo a cui attaccarsi. Una sola antenna, un solo volto attraverso cui comunicare insieme. Berlusconi. Risorsa. Ma anche limite. Come in questa occasione.

Il centrosinistra però, asserragliato nei suoi confini, oggi deve affrontare la minaccia che viene da Nord. La Lega (centro) Nord in questa elezione si è sviluppata soprattutto nelle regioni rosse. In Emilia Romagna e nelle Marche. Che hanno una struttura sociale ed economica molto simile a quella del Nordest e della provincia del Nord. Territorio di piccole imprese globalizzate, investito da flussi migratori estesi. La Lega Nord è riuscita a entrare nel territorio della sinistra usando il linguaggio della paura e del localismo. Un linguaggio che non ha confini, ma serve a crearli. Fra le province dove è cresciuta maggiormente, rispetto alle politiche, ci sono Reggio Emilia, Modena, Forlì, Prato, Parma, Pesaro-Urbino. Ciò solleva una questione che va oltre il voto europeo e amministrativo. Riguarda il Pd. Angosciato da una sorta di "sindrome della scomparsa", ha accolto il risultato delle europee con sollievo. Quasi come un successo. L'esito del primo turno delle amministrative, tuttavia, ne ha ribadito il disagio. Perché il Pd fatica a riconoscersi nella terra dei suoi padri. D'altra parte, per questo è sorto: per superare i confini della propria identità. Al di là delle regioni di cui si sente prigioniero. Ma ora è disorientato. Insidiato dall'Idv, in ambito nazionale, fra gli elettori di opinione che chiedono "opposizione" e parole chiare. Minacciato nelle proprie roccaforti dalla Lega. Che usa il territorio come arma e come bandiera. Anche il Pd, come molti dei suoi elettori, si sente un po' esule a casa propria.

(10 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Idv-Pd, l'opposizione senza speranza
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2009, 11:41:17 am
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Idv-Pd, l'opposizione senza speranza

di ILVO DIAMANTI


Per ragionare intorno al futuro del centrosinistra oggi bisogna fare i conti con Di Pietro e l'Italia dei Valori. Artefice di una crescita elettorale inarrestabile negli ultimi anni. Raddoppiato di consultazione in consultazione: 2,1% alle europee del 2004; 4,4% alle politiche del 2008 fino all'8% alle europee di una settimana fa.
Una progressione altrettanto clamorosa misurata in termini assoluti: circa 700 mila voti nel 2004, quasi 1 milione e 600 mila nel 2008, 2 milioni e 400 mila il 6-7 giugno scorsi. Quarto partito in Italia, in ordine di grandezza. Due punti sotto all'altro vincitore delle recenti europee: la Lega Nord. Rispetto a cui l'Idv è per molti versi simmetrica.

Anzitutto per geografia (rinviamo al dossier "L'Italia a colori": www.demos.it). Infatti, è particolarmente forte nel Centrosud, dove supera largamente il 9%. Inoltre, fra le 15 province dove raccoglie più consensi, una sola è del Nord: Torino (10,7%). Le altre, invece, sono nel Centrosud. Nel Molise, enclave del leader Antonio Di Pietro. Ma anche in Basilicata e in Calabria, dove operava l'ex procuratore De Magistris. E a Palermo, la città di Leoluca Orlando. Ciò chiarisce che la geografia dell'Idv dipende, in qualche misura, da motivi "personali". Una ulteriore specificità emerge in chiave storica. Le zone di forza dell'Idv hanno una tradizione di destra. Nelle 26 province dove il partito alle europee ha ottenuto le percentuali più elevate, il MSI nella prima Repubblica e successivamente AN conseguivano risultati molto superiori alla media nazionale.
L'Idv, tuttavia, non è figlia della destra. Ma ne condivide, in parte, il retroterra. E dunque alcune ragioni. Fra cui la domanda di sicurezza.

In terzo luogo, l'Idv ha un impianto urbano e metropolitano. È più forte nei comuni oltre i 20 mila abitanti e soprattutto nelle città oltre i 100 mila. Secondo una analisi dell'Ipsos, inoltre, gli elettori dell'Idv superano largamente la media tra i giovani, tra le persone con titolo di studio più elevato (diplomati e laureati).
E quindi fra gli studenti, i funzionari, gli impiegati "intellettuali", i dirigenti pubblici ma anche privati.

Gli atteggiamenti degli elettori dell'Idv (attraverso i sondaggi condotti da Demos nell'ultimo anno) sottolineano 3 orientamenti specifici, molto marcati.
1) L'importanza attribuita al ruolo "moralizzatore" e al tempo stesso "rivoluzionario" della giustizia. In particolare dei magistrati, verso i quali gli elettori dell'Idv manifestano un grado di fiducia molto più elevato della media. D'altra parte, i leader dell'Idv sono due magistrati-simbolo. Il fondatore, Antonio Di Pietro, icona di Tangentopoli. E Luigi De Magistris, che ha superato perfino Di Pietro, per numero di preferenze. Emblema del contrasto con il potere politico in tempi recenti.
Leoluca Orlando, l'altra figura rappresentativa del partito, evoca la stagione del cambiamento (mancato) del Mezzogiorno negli anni Novanta. Oltre alla lotta antimafia.
2) La sfiducia nei partiti, nelle istituzioni. In altri termini: il sentimento antipolitico contro la "casta" che comanda il paese. Sottolineato dal larghissimo seguito riconosciuto a Beppe Grillo.
3) Per ultimo, la totale, incondizionata, irriducibile avversione verso il premier e leader del Pdl, Silvio Berlusconi.

L'Idv canalizza, dunque, l'insoddisfazione di molti e diversi settori. La frustrazione dei contesti del Centrosud che si sentono trascurati dallo Stato. Coloro che recriminano sulla rivoluzione mancata del 1992. Il popolo di Grillo e quanti contestano il ceto politico, i partiti, l'informazione. Componenti e gruppi della sinistra radicale. Ma anche una quota di esuli del Pd e dell'Italia post-democratica che li circonda.
L'Idv è come un autobus dei malesseri socio-politici e, al tempo stesso, un "cane da guardia" della democrazia, contro tutti quelli che la minacciano. Anzitutto, Silvio Berlusconi. Ma anche le forze di opposizione che non fanno opposizione: il Pd. E le istituzioni che dovrebbero vigilare ma non lo fanno. Presidente della Repubblica compreso. Più che il partito dei magistrati, un "partito-magistrato". Che ha riferimenti precisi: riviste (MicroMega), giornalisti e trasmissioni (Santoro, Travaglio e AnnoZero su tutti), comici e dissacratori (Grillo ma anche la Guzzanti).
Più che un'alternativa politica tende ad essere un'alternativa "alla" politica. Almeno: a "questa" politica.

Un network che si compone e scompone a seconda del momento e del contesto. Come si è visto in alcune importanti città dove si è votato una settimana fa per il Comune, la Provincia e l'Europa, contemporaneamente. A Bologna: l'Idv ha ottenuto circa il 9% alle europee, l'8% alle provinciali e solo il 4,4% alle municipali. A Firenze: l'8% alle europee, il 7% alle provinciali e meno del 3% alle comunali. In entrambi i casi l'Idv è nella coalizione a sostegno del candidato sindaco del Pd. In entrambe le città oltre metà degli elettori dell'Idv hanno preferito votare per altre liste di sinistra (oppure vicine a Grillo) piuttosto che per il candidato del Pd. Anzi: hanno votato contro di esso. Impedendone l'elezione al primo turno. L'Idv. Appare, quindi, efficace come soggetto e strumento di opposizione. Ma non di progetto, né di governo. E neppure di aggregazione. Il suo successo, invece, rende più evidenti i limiti del Pd. Franceschini ne ha evitato la scomparsa, ma non il declino sostanzioso. Ci riesce difficile vederlo come il leader in grado di dare speranza agli elettori del Pd, che non si rassegnano a una vita da antiberlusconiani. Ma vorrebbero diventare maggioranza di governo. Domani, non fra cinquant'anni. Tuttavia, gli sfidanti annunciati - Bersani, lo stesso D'Alema - hanno avuto, e in parte sprecato, molte altre occasioni, in altri tempi. Non le hanno sapute sfruttare allora. Perché dovrebbero riuscirci adesso? Da ciò il problema del centrosinistra, sottolineato da queste elezioni. Nelle quali si è affermato un soggetto nato per fare opposizione, l'Idv. Mentre il Pd è nato per unificare il centrosinistra e portarlo al governo. Ma oggi appare debole, nella testa e nei piedi. È ridotto al 26%: 7 milioni e 800mila voti. Alle europee del 1984, 25 anni fa, quando morì Enrico Berlinguer, il Pci - da solo - ottenne 11 milioni e 600 mila voti: il 33%. Divenne per la prima - e unica - volta primo partito in Italia, davanti alla Dc. Alle elezioni politiche del 1987 scese al 26,7%: 10 milioni e 250 mila voti. Decise, allora, prima della caduta del muro, di rompere con la propria tradizione e la propria organizzazione. Con il proprio passato. Per non restare all'opposizione in eterno. Il Pd attuale, molto più debole del Pci del 1987, non può evitare di porsi lo stesso quesito.

(15 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Alla fine del bipartitismo l'astensione è nel Pdl
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2009, 10:41:33 pm
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Alla fine del bipartitismo l'astensione è nel Pdl

di ILVO DIAMANTI


La geografia politica italiana, dopo le elezioni amministrative di questo mese, si è riequilibrata. Cinque anni fa si era spostata a sinistra, in modo più accentuato che nel passato. Oggi il divario si è riassorbito. Le province. Erano 50 di centrosinistra e 9 di centrodestra.

Oggi il centrosinistra governa in 28 e il centrodestra in 34. Quanto ai Comuni capoluogo in cui si è votato, il centrosinistra ne amministrava 27 ed è sceso a 18, mentre, parallelamente, il centrodestra ha eletto 14 sindaci quando prima ne aveva solo 5. L'impianto urbano del centrosinistra, dunque, per quanto indebolito, resta solido. Tanto più se allarghiamo lo sguardo fino a comprendere le città medie (superiori a 15mila abitanti). Dove il centrosinistra ha eletto il candidato sindaco in 122 dei 220 al voto. Peraltro se si ragiona distintamente sui due turni, risulta evidente che le perdite le ha subite, perlopiù, al primo turno. Mentre ai ballottaggi ha riconquistato gran parte delle province e delle città rimaste in lizza.

Poi, contano i segnali. Dopo il primo turno il centrosinistra temeva di veder franare la terra sotto ai propri piedi. In altri termini: di perdere le regioni rosse. Non è avvenuto. Ha, inoltre, tenuto nel Mezzogiorno. Soprattutto nelle città. Mentre ha sofferto nel Nord. Il secondo turno ha fatto emergere anche un diverso grado di mobilitazione degli elettorati. La "ripresa" del centrosinistra al secondo turno coincide, infatti, con il "ritiro" di una parte degli elettori del centrodestra. Nelle capitali di regione è evidente. A Firenze e Bologna: il calo della partecipazione elettorale (oltre 14 punti percentuale in entrambi i casi) si è tradotto in un allargamento delle distanze a favore dei candidati del centrosinistra. Rispettivamente: Renzi (da 16 a 20 punti percentuali) e Delbono (da 20 a 21).

Più clamoroso il caso di Bari, dove la partecipazione fra i due turni è calata (anche qui) di circa 14 punti percentuali (pari a 40.000 votanti). Punendo il candidato del centrodestra, Di Cagno, che perso 25mila voti rispetto al primo turno. Il suo distacco da Vittorio Emiliano è, così, salito da 3 a 20 punti.

Un'evoluzione simile si osserva anche a Potenza e ad Ancona. Ma soprattutto nelle province metropolitane del Nord. A Milano, dove la partecipazione elettorale fra i due turni cala di 24 punti percentuali e di quasi 600mila voti, il distacco di Podestà nei confronti di Penati viene quasi annullato. Da 10 a 0,4 punti percentuali. Podestà ottiene 250 mila voti in meno (Penati 90 mila).

Infine a Torino, dove votano 500 mila elettori in meno del primo turno, il presidente uscente e candidato del centrosinistra, Saitta, perde circa 90 mila voti. Ma la sua avversaria, Porchietto, vede ridursi il risultato del primo turno di 166 mila voti e il distacco da Saitta dilatarsi: da tre a quasi 15 punti percentuali. Per cui se l'astensione cresce dovunque, al secondo turno, per ragioni diverse e in parte fisiologiche, tende però a colpire, in modo patologico, soprattutto i candidati del centrodestra. Che vincano o perdano, non importa.

Da questa rappresentazione geopolitica si ricavano alcune indicazioni, a nostro avviso, chiare.

1. Anzitutto, l'elettorato è meno stabile di quanto le mie stesse mappe lo rappresentino. Certo: il centrosinistra è ancorato al Centro e il centrodestra al Nord. Tuttavia, il Mezzogiorno era e resta fluido. Il Centro è meno stabile del passato. E nel Nord neppure Milano pare predestinata. Insomma: il paese è diviso. E il gioco elettorale, per molti versi, aperto.

2. Il risultato delle amministrative e, anzitutto, delle europee suggerisce la crescente difficoltà di far coincidere bipolarismo e bipartitismo. Il peso elettorale del Pd e del PdL, infatti, si è ridimensionato sensibilmente, a favore dell'Idv e della Lega. I cui elettori rappresentano quasi un quarto delle rispettive coalizioni. Inoltre, il risultato delle amministrative, in molti casi, è dipeso dalle coalizioni "locali" più che dal rendimento dei partiti maggiori. Il successo del centrodestra nel Nord deriva dall'intesa fra PdL e Lega. Cinque anni fa, invece, la CdL si era alleata prevalentemente con l'Udc, mentre la Lega aveva corso perlopiù da sola. L'Udc, d'altronde, si è alleata o apparentata con il centrosinistra in 6 province. Contribuendo al successo in 5 di queste.

3. Da ciò una conseguenza. In Italia non ci sono più partiti dominanti. Con questo sistema elettorale: non ci saranno mai più. E l'esito del referendum suggerisce che difficilmente riusciremo a cambiare modo di scrutinio con la spinta popolare.

Il Pd e il PdL sono, dunque, destinati a costituire i riferimenti principali dei poli. Ma non autosufficienti. Il Pd, con il 26% non può aspirare all'autosufficienza. Dovrà costruire alleanze intorno a programmi, progetti. Con l'Idv, l'Udc, una parte della sinistra. Lo stesso vale, però, per il centrodestra. Fin dall'origine: un network con un solo, unico frame, un solo unico gancio. Silvio Berlusconi e il suo partito personale. In pochi mesi, in poche settimane, quel gancio è divenuto molto più traballante. Quel puzzle molto più dada. Senza la Lega: non riesce a controllare il Nord. Ma neppure la Sicilia, senza Lombardo. E l'immagine del leader più che una risorsa è divenuta un limite.

4. Da ciò l'importanza crescente dei "partiti di mezzo". Per dimensione. Ormai centrali anche per importanza politica. La Lega, l'Idv e oggi l'Udc. Casini è riuscito a rafforzarla pur tenendola "fuori". Non era facile. Oggi dovrà decidere come e con chi giocare. Non sarà facile. Anche se riesce arduo immaginarlo alleato al centrodestra. Per motivi di ostilità personali fra leader. E per l'alternativa irriducibile - storica, geopolitica, culturale - con la Lega.

5. Infine, gli elettori. Usano, in modo e in misura crescente, il non voto come un voto. Di volta in volta, a seconda dell'elezione, del candidato, del momento. Occorre, dunque, dare loro buone ragioni: non solo "per chi" votare, ma anche "per" votare. D'altra parte l'astensione in questa occasione è cresciuta, infatti, in modo anomalo, rispetto al passato. Ha interessato gli "esuli" del Pd, alle europee; ma, soprattutto gli "elusi" del PdL. Gli elettori di centrodestra. In molti, hanno preferito fuggire. Nascondersi. Non solo per ragioni locali, immaginiamo.

Da ciò la conclusione obbligata, per quanto banale: il gioco è aperto. Il paese è politicamente contendibile. Dipende dalla qualità dei contendenti. Che, da oggi, non sono e non saranno solamente due.

(24 giugno 2009)
da repubblica.it
 


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'astensione senza opposizione
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2009, 03:34:15 pm
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L'astensione senza opposizione


di ILVO DIAMANTI

- Concluso il turno elettorale di giugno, il Pd si è tuffato in una nuova sfida. Questa volta interna. Il congresso d'autunno per eleggere il segretario.

Per mettere fine alla "supplenza" di Franceschini (non necessariamente alla sua carriera di leader). Nulla da eccepire sulle scelte autonome del principale partito di opposizione. Salvo che questo sarebbe, anzitutto, il momento di fare, appunto, l'opposizione. Non solo all'interno, come avviene da anni, segnati da conflitti e agguati (fatto un segretario, altri leader appaiono pronti a rimpiazzarlo). Dovrebbe invece fare opposizione al governo, ma soprattutto al premier e al suo partito. Che per la prima volta, dopo il voto del 2008, appaiono in difficoltà.

A modo suo, lo ha ammesso anche Silvio Berlusconi, quando, accennando alle vicende che gli stanno creando disagio, ha concluso: "Agli italiani piaccio così". Aggiungendo: "Il 61% degli italiani ha fiducia in me". Senza ulteriori chiarimenti circa la titolarità e la responsabilità dei sondaggi, il campione, il quesito impiegato, ecc.... Il premier, d'altronde, non si è mai preoccupato delle regole e dei vincoli circa l'uso e le fonti dei dati che distribuisce con tanta generosità.

Nessun garante e nessuna authority, d'altronde, gliene hai mai chiesto conto, a quanto ci risulta. Tuttavia, il 61% significa, comunque, 15 punti in meno del grado di fiducia che Berlusconi si attribuiva un paio di mesi fa. Quando, peraltro, affermava che il Pdl avrebbe sfondato il muro del 40% dei voti. Anzi: si sarebbe avvicinato al 45%. Anche in questo caso: 10 punti più di quelli effettivamente ottenuti alle elezioni europee.

D'altra parte, al di là della misura effettiva (al Cavaliere piace molto apparire più alto di quel che è), dalla fine di aprile gli indici di fiducia nei suoi riguardi hanno cominciato effettivamente a scendere. Molto più di quelli nei confronti del governo. Al tempo stesso, hanno iniziato a flettere, nei sondaggi, anche le intenzioni di voto per il Pdl. Senza che, peraltro, ne beneficiasse l'opposizione. Salvo l'Idv di Antonio Di Pietro. Insieme alla Lega: opposizione "nella" maggioranza. Principale dato effettivamente in aumento: l'incertezza.

Come abbiamo rilevato in diverse occasioni, la quota di elettori indecisi (cfr. fra gli altri, i sondaggi di Ipsos) in poche settimane si è allargata: dal 20% a un terzo degli elettori. Spinta, soprattutto, da coloro che nel 2008 avevano votato per il Pdl. Senza che, nel frattempo, nulla fosse cambiato sostanzialmente: nell'economia, nei consumi, nella sicurezza. D'altronde, un solo argomento, da due mesi, occupa le prime pagine dei giornali (ma non dei telegiornali): Berlusconi e le donne (per dirla in modo generico e allusivo). Non si è parlato d'altro in campagna elettorale. E ciò ha indebolito non tanto l'immagine del governo, ma direttamente quella del premier.

Tuttavia, l'immagine personale del premier, assai più di quella del governo, coincide con l'identità della maggioranza. O meglio: del partito di maggioranza. Da ciò il fastidio e il disamore di molti elettori del Pdl che si è tradotto nel voto e, in particolare, nel non-voto. Incoraggiati - o scoraggiati - dallo specifico tipo di competizione, le europee. Usate, spesso, per lanciare messaggi ai partiti e soprattutto al governo. In questo caso: al premier. Da ciò l'astensione, che è cresciuta pesantemente rispetto all'anno scorso, ma anche rispetto alle precedenti europee del 2004. Ai danni soprattutto del Pdl. Come conferma l'analisi statistica dei flussi elettorali condotta dall'Istituto Cattaneo di Bologna (con il modello di Goodman) partendo dai risultati delle sezioni elettorali nelle principali città.

Tra coloro che avevano votato per il Pdl alle politiche del 2008, alle recenti europee si è astenuto: l'8,4% (sul totale degli elettori) a Torino, il 9% a Milano, circa il 7% a Brescia e a Verona. E ancora: intorno al 5-6% a Padova, Reggio Emilia e Firenze; ma l'11% a Napoli, il 14% a Roma e addirittura il 18% a Reggio Calabria e il 22% a Catania. L'astensione ha colpito di nuovo e in modo pesante il centrodestra anche ai ballottaggi delle amministrative. Soprattutto i candidati del Pdl: a Milano, Torino, Firenze, Bari, Padova. Il profilo di coloro che hanno abbandonato il Pdl in questa occasione (sondaggio LaPolis, Università di Urbino, 15-20 giugno, campione nazionale, 1400 casi) segnala che si tratta dell'elettorato "moderato", che nello spazio politico si posiziona intorno al "centro".

Dal punto di vista sociale, la figura "tipica" dell'astensionismo nel Pdl è costituita dalla casalinga che risiede nel Sud. L'astensione massiccia che ha investito il Pdl, tuttavia, non segnala solo il disagio della base elettorale di centrodestra verso il partito di riferimento e il suo leader. Sottolinea, al tempo stesso, la debolezza del principale partito di opposizione.
Il Pd, infatti, si dimostra incapace di sfruttare il disagio degli elettori moderati di centrodestra. Non solo, ma, a sua volta, ha perso voti un po' in tutte le direzioni. Dovunque. A Nord, nel Centro e nel Mezzogiorno.

Verso l'astensione (anche se in misura molto più ridotta del Pdl). Ma soprattutto: verso l'Idv e l'Udc. Poi: verso i partiti di sinistra. E ancora, nelle città "rosse": verso la Lega. In alcuni casi, per quanto in misura ridotta: anche verso il Pdl. Il Partito democratico non riesce ad attrarre a sé una parte almeno degli elettori delusi ed elusi dal Pdl perché è afasico, abulico e un poco anonimo. Gli mancano un volto e le parole. In tema di sicurezza, immigrazione, ma perfino sui costi della politica e sull'economia: gli elettori ritengono il centrodestra più credibile e attrezzato del centrosinistra (sondaggio LaPolis Università di Urbino, 15-20 giugno 2009).

Il Pd: fatica a tenere i piedi per terra. A tenere rapporti solidi con il territorio e con la società. Per cui non riesce a incalzare Berlusconi. A "sfruttarne" il disagio e gli imbarazzi. Come ai tempi della campagna elettorale del 2008. Quando Berlusconi era l'Innominato. Mai nominato per timore di fare antiberlusconismo. Con grande beneficio per l'Innominato.

In effetti, da allora il filo dell'opposizione è stato afferrato dall'Idv e perfino dalla Lega, alleata inquieta ma fedele di Berlusconi. Il problema del Pd, prima e oltre il congresso, è di "fare" opposizione. Non al proprio interno, riaprendo personalismi vecchi (magari in nome del "nuovo"). Ma a Berlusconi e al centrodestra. Dicendo tre-quattro parole chiare e condivise su altrettante questioni: lavoro, sicurezza, economia, Welfare. (Al momento non ne viene in mente nessuna). Senza inseguire la Lega e la Destra sul loro terreno (non c'è partita). E scegliendo un leader capace di sfidare e contrastare apertamente Berlusconi. Senza timore di fare dell'antiberlusconismo. Un modello di valori pubblici e privati e, al tempo stesso, uno stile di vita. A cui Berlusconi dà volto, voce e biografia. Occorre qualcuno in grado di fare altrettanto. In modo evidentemente - ed efficacemente - alternativo. Perché il paese, questo paese, è politicamente contendibile. Lo si è visto in questo turno elettorale. Ma ci vuole qualcuno che lo contenda veramente. Un contendente. Noi soffriamo da sempre di miopia (politica e non solo), ma per ora non ne vediamo.

(28 giugno 2009)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se questo è un partito
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2009, 06:41:54 pm
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Ilvo Diamanti

Se questo è un partito
 

Due considerazioni a margine del congresso del Partito Democratico prima che avvii il suo percorso.

La prima riguarda le regole, le procedure. Non sono soltanto complicate. Ma incomprensibilmente affastellate. Ammucchiano idee, tradizioni e visioni contrastanti e incoerenti. Riassumendo in breve (in base a quel che, personalmente, abbiamo compreso; non necessariamente in modo corretto). In prima battuta votano coloro che risulteranno iscritti al PD alla data del 21 luglio. A livello di circolo e di provincia, eleggeranno i delegati alla Convenzione nazionale (altro neologismo costruito per affinità alle Convention dei partiti americani, dove però si scelgono i candidati alle presidenziali). Una mega-assemblea di oltre 1000 persone che, l'11 ottobre esprimerà l'Assemblea Nazionale. Un organo più o meno della stessa misura, e quindi, possiamo immaginare, largamente coincidente con la Convenzione. La quale, inoltre, designerà i tre candidati segretari più votati. Se non dovessero esserci novità, dunque, tutti quelli che si sono fatti avanti finora. Franceschini, Bersani e Marino. I quali verranno sottoposti, a quel punto, al voto di una base diversa: le primarie. Che si dovrebbero svolgere il 25 ottobre.

Alle primarie, però, voteranno non gli iscritti ma tutti coloro che si definiranno elettori (possibili) del PD. A questo punto, il candidato che otterrà più voti, o meglio più "delegati alle liste ad esso collegate", verrà confermato anche dall'Assemblea. A condizione che abbia ottenuto la maggioranza "assoluta" dei voti e quindi dei delegati. Altrimenti sarà l'Assemblea stessa a scegliere, mediante un ballottaggio fra i due candidati più votati.

In questo caso, non mi interessa entrare nel merito del tracciato contorto disegnato dal PD per individuare il suo segretario. Piuttosto, mi sorprende, a dir poco, il mostro che disegna. Un collage - un po' sgangherato - che pretende di assemblare modelli di partito e principi di legittimità diversi. Eterogenei. Contrastanti.
I congressi di sezione e di provincia, aperti agli iscritti. Richiamano il tradizionale partito di membership. Fondato, cioè, sull'appartenenza, sull'identità, sugli apparati. In qualche misura: i tradizionali partiti di massa o comunque di integrazione sociale. Comunità politiche e non solo.

La Convenzione e le successive primarie allargate agli elettori (possibili) evocano, invece, apertamente, il modello americano. Anche se in modo rovesciato. Visto che negli Usa la "convention" avviene a conclusione delle primarie. E viceversa.

Il ritorno all'Assemblea (subentrata alla Convenzione) nel caso che nessuno ottenga la maggioranza assoluta dei voti (e dei delegati) restituisce, infine, il ruolo decisivo agli iscritti. O meglio: ai gruppi dirigenti da loro espressi. E dunque: al partito d'apparato. Dove i gruppi dirigenti prevalgono sugli iscritti oltre che sulla società. Tanto che possono mettersi d'accordo fino a rovesciare, se necessario, anche il responso degli elettori. (Come avverrebbe se i due candidati meno votati alle primarie facessero convergere i voti su uno di loro). Una collezione di pezzi incoerenti che non possono produrre un collage. (Una specie di Frankenstein, verrebbe da dire, se il paragone non fosse estremo). Perché provengono da tradizioni politiche, storiche, culturali reciprocamente estranee e alternative.

La seconda considerazione si riferisce direttamente ai candidati leader. Anche qui, non m'interessa entrare nel merito (qui, almeno). Ma è difficile immaginare un partito dove si confrontano prospettive così diverse. Prendiamo i due candidati più accreditati (sulla carta): Franceschini e Bersani. Il primo ha in mente un modello di partito "esclusivo", post-veltroniano. In grado di attrarre gli elettori dentro i suoi confini. In una prospettiva bipartitica. L'altro ha in mente l'Unione. Alleanza tra partiti profondamente distinti. Una prospettiva non tanto post-prodiana. Perché Prodi, e Parisi, vedevano, comunque, nell'Unione un passaggio verso l'Ulivo. (Una DC di centrosinistra). Parte di un orizzonte maggioritario. Invece, si tratta della riproposizione dell'idea dalemiana ( e cossighiana) del centro-sinistra. Intesa tra forze diverse, distinte, che mantengono ciascuna la propria specificità.

Chiunque fra i candidati prevalga, definirà non un'alternativa rispetto al progetto dell'avversario. Ma un altro partito.

Poi, c'è l'intorno. Le tensioni e le polemiche fra i leader del PD. Più o meno i soliti. D'Alema, Veltroni, Marini, Rutelli, Parisi, Fassino. Quelli che stanno dentro al partito - parlamentari e dirigenti centrali e locali - parlano di tensioni violente. Di pressioni molto forti. Che riguardano, però, non i valori, i progetti, le idee, le parole della politica. La costruzione di un Alfabeto Democratico. Ma, appunto, i modelli organizzativi, le alleanze, le aggregazioni centrali e locali.

Da ciò il dubbio, il "mio" dubbio: se sia possibile costruire, in questo modo, un partito. Oppure se, dopo 15 anni di percorso unitario, dopo due anni appena dall'avvio del Partito Democratico, non ci si troverà di nuovo di fronte a un soggetto politico incoerente, disorganico, senza identità. Senza appigli comuni. E senza leader in grado di riassumerlo. Perché chiunque vinca ci sarà subito qualcuno - molti - al lavoro per sostituirlo e prima delegittimarlo, sputtanarlo, indebolirlo. D'altra parte, nessun congresso può costruire una leadership se non c'è la volontà e la disponibilità dei diversi leader ad accettarla. Oppure, se nessun leader è in grado di imporsi agli altri. Per autorevolezza, carisma, diplomazia, ricchezza, potere personale, sostegno lobbistico, retorica, immagine. Gli altri partiti, dal PdL alla Lega all'Italia dei Valori, non hanno avuto bisogno di congressi per creare un leader. Semmai, è vero il contrario.

Il PD, però, nasce da una tradizione democratica e partecipativa. E la sua leadership è destinata a nascere allo stesso modo (anche se fino ad oggi si è sempre seguito un percorso plebiscitario). Ma la democrazia e la partecipazione da sole non sono in grado di creare un leader e neppure un partito. Perché la democrazia è competizione: aperta, libera e partecipata. Fra leader e partiti. Il male del PD è che, per ora, non è un partito e non ha un leader. Ma questo congresso, per come si annuncia, più che una terapia sembra una diagnosi.

Il PD ha davanti a sé tre mesi e mezzo per rimediare. Dopo, riteniamo, sarà troppo tardi. Anche per tornare indietro.

(10 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - LA LETTERA Uno Statuto che garantisce il Pd O forse è meglio
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2009, 11:21:07 pm
LA LETTERA

Uno Statuto che garantisce il Pd

O forse è meglio il congresso Pdl?


di SALVATORE VASSALLO*
 

Ho letto con il consueto interesse la stroncatura di Ilvo Diamanti al partito democratico e alle sue regole interne. Sono d'accordo con l'argomento di fondo. Nel Pd non è mai veramente maturata una convinzione univoca sul modello di partito da adottare, tanto che dopo qualche (documentabile) ipocrisia, chi era contrario al "modello delle primarie" torna a dirlo apertamente. Non sono invece d'accordo sulla conclusione tranciante che Diamanti trae in merito allo specifico contenuto dello Statuto attualmente in vigore. Credo che, in questo, si accodi ad una vulgata fuorviante.

Chi non sopporta le primarie dice che il processo congressuale disegnato dallo statuto è interminabile, che lo Statuto del PD è complicato, macchinoso, da cambiare se non da cancellare. Non che non siano necessari aggiustamenti. Ma tanti, proprio tanti, lo dicono senza averlo nemmeno letto, lo Statuto, e per un'unica ragione. A controprova, mi capita spesso di fare da un paio di mesi questo esperimento, con dirigenti nazionali o locali di partito. Chiedo innanzitutto se i congressi dei Ds o della Margherita prendevano meno tempo dei due mesi e mezzo (al netto di agosto) che impiegheremo a iniziare e chiudere la procedura congressuale 2009. Non ho mai ricevuto, come è ovvio, una risposta diversa. I congressi dei vecchi partiti duravano di più.

Procedendo nel test, chiedo allora di indicare tre degli aspetti che secondo loro vanno cambiati, per rendere il processo più semplice. Fino ad oggi non sono riuscito a ottenere nessuna risposta precisa. In un terzo dei casi mi vengono indicate come modifiche assolutamente necessarie cose che nello statuto sono già esattamente come si dice dovrebbero essere. In un altro terzo ottengo risposte generiche. In un altro terzo si ricade nella vera questione: se a determinare la scelta del segretario e gli equilibri interni deve essere il voto dei soli iscritti (purtroppo sempre di meno, sempre più anziani, sempre più coincidenti con chi fa o vuole fare politica) o anche di tutte le persone che dichiarano d'essere elettori del PD e sono disposte a versare un contributo minimo; se sia giusto che il gruppo dirigente del Pd si faccia giudicare dall'intera platea dei suoi elettori oppure se i cittadini che votano alle primarie siano degli "invasori".
 
Proprio così, invasori, li ha chiamati D'Alema alla festa del PD a Roma: "le primarie per l'elezione del segretario sono una regola assurda, figlia di una concezione che ha portato la società civile a invadere, occupare il partito" (ANSA, Roma 5 luglio). Bersani aveva già espresso un'opinione simile e ora a catena i dirigenti territoriali che lo sostengono hanno perso ogni residua reticenza.

La contrarietà verso le primarie di D'Alema e della dorsale organizzativa pro-Bersani non mi stupisce. Registro purtroppo che anche nella Bussola di Diamanti acquista ingiustamente credito (a mio avviso) all'idea che il meccanismo congressuale sia contorto o insensato, che sia frutto di una costruzione contraddittoria e sgangerata. Cerco di dire perché secondo me non è vero.

In base allo statuto le (cosiddette) primarie, che si terranno il 25 ottobre 2009 per eleggere gli organismi nazionali e regionali, saranno precedute da una consultazione tra i soli iscritti. Nel mese di settembre i circoli si riuniranno per discutere le candidature a segretario e le connesse mozioni. Votando per una o l'altra mozione, gli iscritti nomineranno anche i loro delegati alla Convenzione nazionale che si terrà l'11 ottobre e i delegati per le Convenzioni regionali che si terranno qualche giorno prima.

Questa prima fase ha tre funzioni: a) verificare che le potenziali candidature a segretario (nazionale e regionali) siano dotate di un minimo consenso tra gli iscritti, scremando le candidature credibili da quelle fittizie o inadeguate; b) consentire ai candidati a segretario e ai sostenitori delle diverse mozioni di presentare le loro proposte e confrontarle di fronte a una platea qualificata di delegati (la "convention" nazionale dell'11 ottobre e quelle regionali); c) dare modo ai sostenitori delle diverse mozioni di coordinarsi e formare le liste per le assemblee nazionale e regionali in maniera meno verticistica di quanto accadde, per forza di cose, in assenza di una base organizzativa comune, nel 2007.

Alla elezione vera e propria, quella che si svolge il 25 ottobre, saranno ammessi tutti i candidati che hanno ottenuto almeno il 15% dei voti tra gli iscritti e comunque i primi tre, purché abbiano ottenuto almeno il 5% nella consultazione preliminare interna. Esattamente come nel 2007, il 25 ottobre, su una prima scheda si vota per liste di candidati all'Assemblea nazionale collegate alle candidature a segretario nazionale.

Su una scheda distinta, si vota per le liste di candidati all'Assemblea regionale collegate alle candidature a segretario regionale.

È davvero così complicato? Non mi pare. Anche se, certo, è stato più semplice lo svolgimento del congresso fondativo del PdL! C'è tutttavia un aspetto che può legittimamente generare qualche dubbio, che Diamanti rimarca nella sua Bussola. Siccome potranno accedere alle "primarie" più di due candidati alla segreteria, è possibile che nessuno di loro ottenga la maggioranza asssoluta dei delegati nell'Assemblea (il discorso vale ovviamente sia per il livello regionale che per quello nazionale). In teoria, potrebbe succedere che tre candidati ottengano ciascuno circa un terzo dei seggi. Che si fa a quel punto? Non sarebbe meglio allora limitare l'accesso all'elezione finale solo ai primi due più votati dagli iscritti?

Sono dubbi che ci si è posti in fase di redazione dello Statuto. Limitando l'accesso alle "primarie" solo ai due più votati tra gli iscritti sarebbe stato escluso dalla competizione qualsiasi outsider, comprese personalità molto popolari. In ogni caso, in fase di elaborazione dello statuto i "bindiani" posero come condizione per loro irrinunciabile che fosse lasciata una chance di partecipare anche ad una terza candidatura di nicchia.

Avendo accolto questa richiesta, c'erano tre alternative per chiudere il cerchio, ciascuna con un suo difetto. Una prima, apparentemente semplice, sarebbe stata quella di considerare in ogni caso eletto il candidato più votato, con il rischio di avere un segretario sostenuto da poco più di un terzo dell'Assemblea o addirittura portatore di una linea invisa ad una larga maggioranza del "parlamento" del PD. Una seconda alternativa poteva consistere nel chiamare di nuovo a votare tutti i simpatizzanti per un secondo turno di ballottaggio, ma era troppo costosa organizzativamente. Si è previsto quindi che, in caso non emerga un chiaro vincitore, ci sia un ballottaggio tra i primi due in Assemblea. Naturalmente l'Assemblea chiamata eventualmente a scegliere tra i primi due non è la "convention" eletta dagli iscritti, ma quella eletta dai simpatizzanti il 25 ottobre, in collegamento con i candidati a segretario e alle relative mozioni.

Anche in caso di ballottaggio, quindi, il voto del 25 ottobre non verrà vanificato, soprattutto se i rappresentanti eletti in collegamento con il candidato arrivato terzo voteranno per quello tra i primi due con la "piattaforma" più simile alla loro.

Considerando la professione accademica che condivido con Diamanti, mi permetto una chiosa finale. Anche nell'eventuale passaggio tra l'elezione del 25 ottobre e l'eventuale ballottaggio in Assemblea, per le ragioni che ho esposto, non ci sono in realtà contraddizioni tra diversi principi rappresentativi così stridenti come a prima vista potrebbe sembrare.

Ad esempio in Bolivia si usa un metodo simile per l'elezione del Presidente: in assenza di un chiaro vincitore tra gli elettori (esito possibile perché al contrario che negli Usa lì non c'è un sistema bipartitico) è il "congresso" a scegliere tra i primi tre candidati più votati. Aggiungo che ci sarebbe stata una contraddizione più stridente tra principi rappresentativi se, come ad un certo punto è parso possibile nelle primarie democratiche americane, per scegliere tra Obama e la Clinton fossero risultati decisivi i superdelegati di diritto alla convention di Denver NON eletti attraverso le primarie.

Ciò detto, concordo pienamente, ripeto, sull'argomento di fondo. Nel Pd ci sono idee diverse in merito al modello di partito. Io confido che nel corso della fase congressuale si parli soprattutto di altri argomenti che interessano di più gli italiani, ma credo che il nodo debba essere sciolto. Del resto i principali candidati hanno già preso una posizione abbastanza chiara e distinta sul punto. La pratica ci dirà poi ancora meglio cosa può essere migliorato. Per quello che mi riguarda, spero che nel frattempo non vinca chi vuole tornare al partito introverso ... liberandosi degli "invasori".

* L'autore dell'articolo è deputato del Pd, presidente della commissione per lo Statuto e professore di Scienza Politica e Politica Comparata all'Università di Bologna.

------------



Salvatore Vassallo difende le procedure adottate dal PD per eleggere il segretario e gli organismi nazionali (e locali). Lo fa con passione e con argomenti tecnici ragionevoli. La sua tesi di fondo è che i diversi passaggi del percorso congressuale si tengano e possano, anzi, rispondere alla pluralità di componenti che si riferiscono al PD. Io, per quanto mi riguarda, resto dell'idea espressa nella Bussola pubblicata venerdì scorso. In modo forse aspro, ma non livoroso.

Nelle Bussole, destinate all'edizione on line, uso un linguaggio più diretto. Servono a discutere e far discutere, più che a definire e a spiegare. Però ribadisco: il tracciato congressuale mi pare la somma di modelli di partito difficilmente conciliabili.

Il risultato di compromessi - come riconosce lo stesso Vassallo - fra idee diverse e contrastanti di quel che il PD dovrebbe essere e diventare. Il partito di massa, neo-socialdemocratico, a cui ha sempre guardato D'Alema. Il modello americano, evocato da Veltroni. In mezzo, l'Ulivo di Prodi: anch'esso "americano", maggioritario e personalizzato. Ma "inclusivo", largo come la Dc di un tempo e l'Unione di ieri. Inoltre: non "esclusivo" come quello immaginato da Veltroni. L'insieme di questi modelli a me pare, francamente, inconciliabile. Come il confronto fra i due principali candidati, che hanno in mente modelli di partito e di strategie agli antipodi.

Tuttavia, la critica espressa nella mia Bussola di qualche giorno fa non è metodologica, ma politica. Riguarda il modo in cui pare svolgersi il confronto tra i leader. Nella scelta del segretario. Di nuovo: ho l'impressione di un conflitto senza contenuti. Centrato sulle persone. Non solo quelle scese in campo, ma ancor più fra gli altri leader, che stanno dietro. Poche idee, poche parole. Il nuovo-in-sé, la "questione morale" (evocata in riferimento a un presunto "stupratore democratico". Roba da matti).

Vorrei, insieme a molti altri, sentir parlare d'altro. Anzitutto: di come fare opposizione a una maggioranza di destra che ha un'identità chiara, centrata su valori e messaggi chiari. E non condivisi da molti cittadini (me compreso). Come affrontare il tema della sicurezza senza fare il verso alla Lega? (Sempre meglio l'originale). Come affrontare il tema della crisi economica senza fingere che non esista e senza usarla come uno spot? Come costruire un partito che non solo permetta, ma favorisca la selezione e il ricambio dei leader? Per gli altri, in effetti, il problema non esiste, perché sono talmente personalizzati da essere personali. Creati e riprodotti da una persona. Gruppi dirigenti compresi. Per il PD non è così. Per fortuna. Ma a condizione che riesca a porvi rimedio.

Questo congresso, per le ragioni che ho indicato, mi lascia molto dubbioso (e qui uso un linguaggio fin troppo prudente). Però - e sono convinto di quanto affermo - non ce ne sarà un altro se non produrrà almeno alcuni dei risultati che ho suggerito. In particolare: un leader legittimato e autorevole, gruppi dirigenti e militanti locali rappresentativi e ascoltati. Idee. Un linguaggio democratico. Non ce ne saranno altri di congressi di un partito che in 3 anni ha cambiato 3 leader, due nomi, tre quattro modalità di organizzazione ed elezione della leadership. E ha perso un bel po' di elezioni e di elettori. Questo mi interessava sottolineare. E ribadire oggi. Non per rispondere a Vassallo (io non sono un leader democratico). Ma perché anch'io, come lui, sono interessato a che in questo paese e in questa democrazia opaca si formi un'opposizione vera. Per ora non c'è.

Ilvo Diamanti

(13 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Salvatore Vassallo difende le procedure adottate dal PD per...
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2009, 11:42:53 pm
LA LETTERA

Uno Statuto che garantisce il Pd

O forse è meglio il congresso Pdl?


di SALVATORE VASSALLO*
 

Ho letto con il consueto interesse la stroncatura di Ilvo Diamanti al partito democratico e alle sue regole interne. Sono d'accordo con l'argomento di fondo. Nel Pd non è mai veramente maturata una convinzione univoca sul modello di partito da adottare, tanto che dopo qualche (documentabile) ipocrisia, chi era contrario al "modello delle primarie" torna a dirlo apertamente. Non sono invece d'accordo sulla conclusione tranciante che Diamanti trae in merito allo specifico contenuto dello Statuto attualmente in vigore. Credo che, in questo, si accodi ad una vulgata fuorviante.

Chi non sopporta le primarie dice che il processo congressuale disegnato dallo statuto è interminabile, che lo Statuto del PD è complicato, macchinoso, da cambiare se non da cancellare. Non che non siano necessari aggiustamenti. Ma tanti, proprio tanti, lo dicono senza averlo nemmeno letto, lo Statuto, e per un'unica ragione. A controprova, mi capita spesso di fare da un paio di mesi questo esperimento, con dirigenti nazionali o locali di partito. Chiedo innanzitutto se i congressi dei Ds o della Margherita prendevano meno tempo dei due mesi e mezzo (al netto di agosto) che impiegheremo a iniziare e chiudere la procedura congressuale 2009. Non ho mai ricevuto, come è ovvio, una risposta diversa. I congressi dei vecchi partiti duravano di più.

Procedendo nel test, chiedo allora di indicare tre degli aspetti che secondo loro vanno cambiati, per rendere il processo più semplice. Fino ad oggi non sono riuscito a ottenere nessuna risposta precisa. In un terzo dei casi mi vengono indicate come modifiche assolutamente necessarie cose che nello statuto sono già esattamente come si dice dovrebbero essere. In un altro terzo ottengo risposte generiche. In un altro terzo si ricade nella vera questione: se a determinare la scelta del segretario e gli equilibri interni deve essere il voto dei soli iscritti (purtroppo sempre di meno, sempre più anziani, sempre più coincidenti con chi fa o vuole fare politica) o anche di tutte le persone che dichiarano d'essere elettori del PD e sono disposte a versare un contributo minimo; se sia giusto che il gruppo dirigente del Pd si faccia giudicare dall'intera platea dei suoi elettori oppure se i cittadini che votano alle primarie siano degli "invasori".
 
Proprio così, invasori, li ha chiamati D'Alema alla festa del PD a Roma: "le primarie per l'elezione del segretario sono una regola assurda, figlia di una concezione che ha portato la società civile a invadere, occupare il partito" (ANSA, Roma 5 luglio). Bersani aveva già espresso un'opinione simile e ora a catena i dirigenti territoriali che lo sostengono hanno perso ogni residua reticenza.

La contrarietà verso le primarie di D'Alema e della dorsale organizzativa pro-Bersani non mi stupisce. Registro purtroppo che anche nella Bussola di Diamanti acquista ingiustamente credito (a mio avviso) all'idea che il meccanismo congressuale sia contorto o insensato, che sia frutto di una costruzione contraddittoria e sgangerata. Cerco di dire perché secondo me non è vero.

In base allo statuto le (cosiddette) primarie, che si terranno il 25 ottobre 2009 per eleggere gli organismi nazionali e regionali, saranno precedute da una consultazione tra i soli iscritti. Nel mese di settembre i circoli si riuniranno per discutere le candidature a segretario e le connesse mozioni. Votando per una o l'altra mozione, gli iscritti nomineranno anche i loro delegati alla Convenzione nazionale che si terrà l'11 ottobre e i delegati per le Convenzioni regionali che si terranno qualche giorno prima.

Questa prima fase ha tre funzioni: a) verificare che le potenziali candidature a segretario (nazionale e regionali) siano dotate di un minimo consenso tra gli iscritti, scremando le candidature credibili da quelle fittizie o inadeguate; b) consentire ai candidati a segretario e ai sostenitori delle diverse mozioni di presentare le loro proposte e confrontarle di fronte a una platea qualificata di delegati (la "convention" nazionale dell'11 ottobre e quelle regionali); c) dare modo ai sostenitori delle diverse mozioni di coordinarsi e formare le liste per le assemblee nazionale e regionali in maniera meno verticistica di quanto accadde, per forza di cose, in assenza di una base organizzativa comune, nel 2007.

Alla elezione vera e propria, quella che si svolge il 25 ottobre, saranno ammessi tutti i candidati che hanno ottenuto almeno il 15% dei voti tra gli iscritti e comunque i primi tre, purché abbiano ottenuto almeno il 5% nella consultazione preliminare interna. Esattamente come nel 2007, il 25 ottobre, su una prima scheda si vota per liste di candidati all'Assemblea nazionale collegate alle candidature a segretario nazionale.

Su una scheda distinta, si vota per le liste di candidati all'Assemblea regionale collegate alle candidature a segretario regionale.

È davvero così complicato? Non mi pare. Anche se, certo, è stato più semplice lo svolgimento del congresso fondativo del PdL! C'è tutttavia un aspetto che può legittimamente generare qualche dubbio, che Diamanti rimarca nella sua Bussola. Siccome potranno accedere alle "primarie" più di due candidati alla segreteria, è possibile che nessuno di loro ottenga la maggioranza asssoluta dei delegati nell'Assemblea (il discorso vale ovviamente sia per il livello regionale che per quello nazionale). In teoria, potrebbe succedere che tre candidati ottengano ciascuno circa un terzo dei seggi. Che si fa a quel punto? Non sarebbe meglio allora limitare l'accesso all'elezione finale solo ai primi due più votati dagli iscritti?

Sono dubbi che ci si è posti in fase di redazione dello Statuto. Limitando l'accesso alle "primarie" solo ai due più votati tra gli iscritti sarebbe stato escluso dalla competizione qualsiasi outsider, comprese personalità molto popolari. In ogni caso, in fase di elaborazione dello statuto i "bindiani" posero come condizione per loro irrinunciabile che fosse lasciata una chance di partecipare anche ad una terza candidatura di nicchia.

Avendo accolto questa richiesta, c'erano tre alternative per chiudere il cerchio, ciascuna con un suo difetto. Una prima, apparentemente semplice, sarebbe stata quella di considerare in ogni caso eletto il candidato più votato, con il rischio di avere un segretario sostenuto da poco più di un terzo dell'Assemblea o addirittura portatore di una linea invisa ad una larga maggioranza del "parlamento" del PD. Una seconda alternativa poteva consistere nel chiamare di nuovo a votare tutti i simpatizzanti per un secondo turno di ballottaggio, ma era troppo costosa organizzativamente. Si è previsto quindi che, in caso non emerga un chiaro vincitore, ci sia un ballottaggio tra i primi due in Assemblea. Naturalmente l'Assemblea chiamata eventualmente a scegliere tra i primi due non è la "convention" eletta dagli iscritti, ma quella eletta dai simpatizzanti il 25 ottobre, in collegamento con i candidati a segretario e alle relative mozioni.

Anche in caso di ballottaggio, quindi, il voto del 25 ottobre non verrà vanificato, soprattutto se i rappresentanti eletti in collegamento con il candidato arrivato terzo voteranno per quello tra i primi due con la "piattaforma" più simile alla loro.

Considerando la professione accademica che condivido con Diamanti, mi permetto una chiosa finale. Anche nell'eventuale passaggio tra l'elezione del 25 ottobre e l'eventuale ballottaggio in Assemblea, per le ragioni che ho esposto, non ci sono in realtà contraddizioni tra diversi principi rappresentativi così stridenti come a prima vista potrebbe sembrare.

Ad esempio in Bolivia si usa un metodo simile per l'elezione del Presidente: in assenza di un chiaro vincitore tra gli elettori (esito possibile perché al contrario che negli Usa lì non c'è un sistema bipartitico) è il "congresso" a scegliere tra i primi tre candidati più votati. Aggiungo che ci sarebbe stata una contraddizione più stridente tra principi rappresentativi se, come ad un certo punto è parso possibile nelle primarie democratiche americane, per scegliere tra Obama e la Clinton fossero risultati decisivi i superdelegati di diritto alla convention di Denver NON eletti attraverso le primarie.

Ciò detto, concordo pienamente, ripeto, sull'argomento di fondo. Nel Pd ci sono idee diverse in merito al modello di partito. Io confido che nel corso della fase congressuale si parli soprattutto di altri argomenti che interessano di più gli italiani, ma credo che il nodo debba essere sciolto. Del resto i principali candidati hanno già preso una posizione abbastanza chiara e distinta sul punto. La pratica ci dirà poi ancora meglio cosa può essere migliorato. Per quello che mi riguarda, spero che nel frattempo non vinca chi vuole tornare al partito introverso ... liberandosi degli "invasori".

* L'autore dell'articolo è deputato del Pd, presidente della commissione per lo Statuto e professore di Scienza Politica e Politica Comparata all'Università di Bologna.

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Salvatore Vassallo difende le procedure adottate dal PD per eleggere il segretario e gli organismi nazionali (e locali). Lo fa con passione e con argomenti tecnici ragionevoli. La sua tesi di fondo è che i diversi passaggi del percorso congressuale si tengano e possano, anzi, rispondere alla pluralità di componenti che si riferiscono al PD. Io, per quanto mi riguarda, resto dell'idea espressa nella Bussola pubblicata venerdì scorso. In modo forse aspro, ma non livoroso.

Nelle Bussole, destinate all'edizione on line, uso un linguaggio più diretto. Servono a discutere e far discutere, più che a definire e a spiegare. Però ribadisco: il tracciato congressuale mi pare la somma di modelli di partito difficilmente conciliabili.

Il risultato di compromessi - come riconosce lo stesso Vassallo - fra idee diverse e contrastanti di quel che il PD dovrebbe essere e diventare. Il partito di massa, neo-socialdemocratico, a cui ha sempre guardato D'Alema. Il modello americano, evocato da Veltroni. In mezzo, l'Ulivo di Prodi: anch'esso "americano", maggioritario e personalizzato. Ma "inclusivo", largo come la Dc di un tempo e l'Unione di ieri. Inoltre: non "esclusivo" come quello immaginato da Veltroni. L'insieme di questi modelli a me pare, francamente, inconciliabile. Come il confronto fra i due principali candidati, che hanno in mente modelli di partito e di strategie agli antipodi.

Tuttavia, la critica espressa nella mia Bussola di qualche giorno fa non è metodologica, ma politica. Riguarda il modo in cui pare svolgersi il confronto tra i leader. Nella scelta del segretario. Di nuovo: ho l'impressione di un conflitto senza contenuti. Centrato sulle persone. Non solo quelle scese in campo, ma ancor più fra gli altri leader, che stanno dietro. Poche idee, poche parole. Il nuovo-in-sé, la "questione morale" (evocata in riferimento a un presunto "stupratore democratico". Roba da matti).

Vorrei, insieme a molti altri, sentir parlare d'altro. Anzitutto: di come fare opposizione a una maggioranza di destra che ha un'identità chiara, centrata su valori e messaggi chiari. E non condivisi da molti cittadini (me compreso). Come affrontare il tema della sicurezza senza fare il verso alla Lega? (Sempre meglio l'originale). Come affrontare il tema della crisi economica senza fingere che non esista e senza usarla come uno spot? Come costruire un partito che non solo permetta, ma favorisca la selezione e il ricambio dei leader? Per gli altri, in effetti, il problema non esiste, perché sono talmente personalizzati da essere personali. Creati e riprodotti da una persona. Gruppi dirigenti compresi. Per il PD non è così. Per fortuna. Ma a condizione che riesca a porvi rimedio.

Questo congresso, per le ragioni che ho indicato, mi lascia molto dubbioso (e qui uso un linguaggio fin troppo prudente). Però - e sono convinto di quanto affermo - non ce ne sarà un altro se non produrrà almeno alcuni dei risultati che ho suggerito. In particolare: un leader legittimato e autorevole, gruppi dirigenti e militanti locali rappresentativi e ascoltati. Idee. Un linguaggio democratico. Non ce ne saranno altri di congressi di un partito che in 3 anni ha cambiato 3 leader, due nomi, tre quattro modalità di organizzazione ed elezione della leadership. E ha perso un bel po' di elezioni e di elettori. Questo mi interessava sottolineare. E ribadire oggi. Non per rispondere a Vassallo (io non sono un leader democratico). Ma perché anch'io, come lui, sono interessato a che in questo paese e in questa democrazia opaca si formi un'opposizione vera. Per ora non c'è.

Ilvo Diamanti


(13 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - "Stressati e felici", gli italiani e la crisi
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2009, 11:39:40 am
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"Stressati e felici", gli italiani e la crisi


di ILVO DIAMANTI

È da oltre 10 mesi che la crisi è stata "ufficialmente" dichiarata. A livello globale, ma anche da noi. E fa sentire i suoi effetti. Nei comportamenti privati, nelle aspettative sociali. Ma anzitutto nella condizione sociale e di vita degli italiani. L'indagine condotta da Demos-Coop nelle settimane scorse ne offre numerosi segni. È cresciuta notevolmente la quota di persone che ha familiari disoccupati oppure in cassa integrazione. Si è allargata anche la componente di famiglie che lamentano la perdita di valore del proprio risparmio. Oppure il ricorso al sostegno finanziario di parenti e amici. Necessario per tirare avanti. Anche le previsioni sui tempi della crisi non sono rassicuranti. Quasi il 60% degli italiani (intervistati) ritiene che durerà ancora a lungo. Almeno un anno. Eppure, nonostante la crisi, il clima d'opinione non sembra essersi deteriorato.

L'atteggiamento sociale verso il futuro, al contrario, negli ultimi mesi appare migliorato. Comunque: meno negativo. Verso le prospettive dell'economia nazionale, familiare. Personale. Anche il calo dei consumi denunciato dagli italiani, nei mesi scorsi, sembra essersi arrestato. Come si spiega questo contrasto apparente fra le condizioni e le percezioni? Perché la crisi, contrariamente alla paura del premier, non fa paura? Non ci soffermiamo, in questa sede, sulle ragioni sociali, legate allo specifico "modello italiano".

I cui limiti, spesso deprecati, in fasi critiche come questa, si traducono in risorse. Il ruolo eccedente delle famiglie e delle reti comunitarie, la sovrabbondanza di piccole e piccolissime imprese, il peso del risparmio privato. Agiscono da ammortizzatori sociali. Sistemi di protezione, che assorbono, frammentano e rendono meno pesante l'impatto della recessione. Economica e finanziaria. Tuttavia, vi sono altre ragioni, altri meccanismi che contribuiscono a limitare il peso della crisi. Il primo, più importante, è la capacità di adattamento. La fatidica - per alcuni famigerata - "arte di arrangiarsi", di cui gli italiani stessi si dicono orgogliosi - e si dichiarano maestri. Si trasferisce anche negli atteggiamenti verso gli altri. Verso il mondo. Verso se stessi. D'altronde, per anni la crisi è stata agitata ora come una minaccia, ora come una catastrofe imminente. Così, quando è arrivata, molti si sono chiesti: e allora? C'eravamo già abituati. E poi la convinzione che "ce la faremo", come ce l'abbiamo fatta in passato. In mezzo a una pluralità di emergenze.

Per questo, come mostra l'indagine di Demos-Coop, gli italiani alternano stati d'animo non sempre coerenti. Anzi, talora in opposizione stridente. Si dicono preoccupati, ansiosi e stressati. Ma anche - in misura minore - felici e soddisfatti. In non pochi casi (circa il 13% della popolazione) felici e stressati al tempo stesso. Gli italiani, semmai, hanno modificato i loro stili di vita e i loro comportamenti. Li hanno adeguati al segno dei tempi. Sono divenuti ulteriormente prudenti e casalinghi. Sette su dieci: hanno accentuato l'attenzione sui consumi domestici (luce, acqua, gas). Quattro su dieci: passano più tempo a casa. E, dunque, da soli, davanti alla tivù. Oppure con gli amici. Invece, fanno meno l'amore (o, almeno, è ciò che dichiarano a un estraneo che li intervista, in modo indiscreto, nel corso di un sondaggio). Hanno ripiegato su modelli di vita più parsimoniosi e modesti. In questo modo hanno ammorbidito l'impatto psicologico della crisi. Che li spaventa meno. Questa regola, ovviamente, non vale per tutti. O meglio: tutti cercano di adattarsi. Ma con esiti diversi. Dipende da alcune condizioni specifiche. Tre di esse, in particolare, distinguono le persone più infelici e stressate.

Il primo "distintivo" è la posizione sul mercato del lavoro. Lo esibiscono le figure marginali e precarie. Gli esclusi. I disoccupati, i cassintegrati e i loro familiari. Il loro grado di insoddisfazione è molto più elevato della media. Sono naturalmente poco felici. E anzi spesso infelici. Preoccupati. Ansiosi. Come potrebbe avvenire diversamente?

Il secondo "distintivo" è definito dai "consumi". Consumare meno e soprattutto "peggio" aumenta il grado di frustrazione e di infelicità. E ciò non riguarda necessariamente - e solamente - le persone in condizioni economiche e sociali più difficili. D'altronde, l'abbiamo sottolineato altre volte, i consumi - usati in modo selettivo - fungono da placebo. Aiutano ad "abbassare" l'ansia. A gratificarsi, soprattutto nei momenti difficili. In mezzo alla crisi.

Il terzo distintivo dell'infelicità è squisitamente "politico". Caratterizza, prevalentemente, le persone che si collocano apertamente a sinistra. Ma anche quelli che rifiutano le differenze. Quelli che "destra e sinistra, oggi, uguali sono". Caso specifico ed estremo: gli elettori dell'IdV di Antonio Di Pietro. Sono i più stressati, i più depressi. I più infelici di tutti. Li angoscia una crisi diversa da quella che affligge l'economia globale e nazionale. Una crisi che essi ritengono più grave, Riguarda la politica. La loro infelicità dipende dallo stato dello Stato. E delle istituzioni. Dipende dalla presenza di Berlusconi alla guida del governo. E dell'Italia. (Non a caso esprimono il massimo livello di sfiducia verso il premier). Dipende, inoltre, dall'insofferenza per la leadership politica di centrosinistra: opposizione inefficace. E per la debolezza etica di una parte della società. Specchio del governo e del suo leader. Sono infelici perché alla crisi economica - fino a quando esploderà in modo davvero violento - si possono adattare. Magari con fatica e sacrificio. A Berlusconi no. Da ciò l'insofferenza. E molta sofferenza.

(16 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI Se la "politica pop" costruisce la morale
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 04:53:26 pm
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Se la "politica pop" costruisce la morale


di ILVO DIAMANTI

TRE MESI dopo l'avvio delle polemiche sulle frequentazioni del premier. Le reazioni della moglie. Le rivelazioni e i servizi fotografici sulle feste che hanno ravvivato le sue residenze. A Roma e in Sardegna. Private ma al tempo stesso pubbliche. Sede di rappresentanza per missioni dello Stato. E di feste fastose, abituali a casa "sua". Dopo molte spiegazioni - date e ritrattate - per spiegare vicende mai spiegate perché inspiegabili. Sentiamo echeggiare una questione, non solo in ambienti amici (suoi). Questa insorgenza morale e moralista. A chi e a che è servita?

Infine la maggioranza ha vinto le elezioni europee. Stravinto le amministrative. Magari "lui" non ha ottenuto il plebiscito personale che aveva chiesto. Il "suo" partito non ha ottenuto il risultato che sperava. Però, è ancora saldamente al comando. Del partito, della maggioranza, del governo. "Lui": ha vinto anche il G8. Tre mesi di inchieste giornalistiche, fotografie maliziose, rivelazioni piccanti e imbarazzanti. E poi scandali, veline, escort. Se dopo tutto questo "lui" è ancora saldamente al comando: ma chi ne potrà scalfire il potere e il consenso in futuro? Non solo: se dopo tutto questo la popolarità del premier è calata ma non è collassata, non significa che la maggioranza dei cittadini, in fondo, gli somiglia? Pensa come lui?

Definite in questi termini, le questioni ci sembrano mal poste. Anzitutto perché queste vicende hanno comunque influito sul risultato. Spingendo una quota elevata di elettori del PdL nel grande buco grigio dell'astensione. Ma, soprattutto, poste in senso meramente utilitarista. Come se il valore delle inchieste dipendesse solo da chi ci perde e guadagna. Non intendo affrontare discorsi moralisti e tantomeno morali. Non ne avrei titolo. Non scrivo per Famiglia Cristiana e non sono un portavoce della Cei. Solo un peccatore come (e forse più di) tanti altri.

Mi interessa, invece, tornare su un tema già affrontato in altre occasioni. Riguarda il rapporto fra le istituzioni, i leader e gli elettori in tempi di democrazia dell'opinione. Quando i cittadini diventano pubblico. Spettatori. Le istituzioni e i leader: attori. I media: teatro. Quando i valori diventano slogan. Le politiche e i politici prodotti da vendere. Quando il privato diventa pubblico. Perché è esposto in pubblico. E ha valore pubblico. Quando il gossip: diventa linguaggio politico.

È l'epoca della "politica pop". E si rischia di scambiare la popolarità per la realtà. Identificare la volontà popolare con la realtà sociale. Peggio: con l'etica pubblica. E viceversa: immaginare l'etica pubblica come un dato. Ma ciò che pensa e dice la "gente", anche in larga maggioranza, non è "innato". Riflesso della natura umana. Intanto perché una minoranza, talora molto ampia, pensa e dice diversamente. Poi perché a costruire l'opinione pubblica e la realtà sociale contribuiscono, in misura significativa, le istituzioni, chi le rappresenta e governa. Attraverso gli atti, l'esempio, le parole, i contatti quotidiani.

Attraverso i media. Il "fatto" che l'intolleranza e la xenofobia montino a folate in modo non coerente con le tendenze dei reati e dei crimini. Non è un "fatto", ma un "risultato". Prodotto dall'enfasi attribuita dai media e dagli attori politici e sociali. A livello nazionale e locale. Come ha scritto Barbara Spinelli sulla Stampa: "I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela".

Si pensi all'esecrazione che, a seconda del periodo, investe i cani assassini, gli stupri, gli zingari, i romeni, gli albanesi. Gli islamici. A ondate. Oggi ad esempio pare che gli sbarchi degli immigrati si siano arrestati. I clandestini ridotti. D'altronde, se tali smettono di essere le badanti, ne abbiamo eliminati più della metà.
La realtà sociale, inoltre, è spesso trasfigurata dall'iperrealtà (come abbiamo scritto, riprendendo una suggestione di Carlo Marletti). Un ritratto quasi fotografico. Che si concentra su alcuni particolari. Li dilata oppure li riproduce in modo ossessivo.

Così propone uno specchio tanto fedele quanto distorto. Riflette una prospettiva unilaterale - e per questo falsa - della realtà. Perché ognuno di noi è "diverse persone". Siamo tutti, almeno un poco: opportunisti, egoisti, xenofobi, intolleranti, bugiardi, trasformisti, evasori (latenti), diffidenti (verso gli altri e lo Stato). Ma siamo tutti - almeno un poco - anche: altruisti, solidali, generosi, ospitali, dotati di civismo, sinceri, aperti, felici di stare in comunità.

E ci sentiamo tutti - almeno un poco - infastiditi: da chi dice bugie, evade, frega il prossimo, tratta male gli altri, è arrogante, prepotente, usa le cose pubbliche come fossero private e le cose private come fossero pubbliche. Tutti. (In particolare quando ci trasformiamo in vittime di questi atteggiamenti.) Per cui siamo capaci di grandi slanci e grandi chiusure. Per questo ogni raffigurazione unilaterale e caricata è irreale quanto iperreale.

È la pop-art della democrazia-pop. Dove i valori sono trasmessi dai comportamenti pubblici e privati - tanto è lo stesso - esibiti dalle istituzioni. Dall'esempio degli uomini che le rappresentano e le governano. Dai media. Tanto più oggi, in Italia. Dove i confini tra chi guida la politica, il governo, i media sono tanto sottili e confusi che quasi non si vedono. Per questo ciò che il premier dice e non dice. Quel che fa e non fa. Anche in privato. Ha valore pubblico. Forma - o deforma - i valori pubblici. E privati. Le inchieste e le critiche (di una parte solo) della stampa e della politica che tanto infastidiscono il premier, per la stessa ragione, non sono un "attentato" alla democrazia. Ma una garanzia.

Un antidoto contro l'iperrealismo. Servono a correggere la distorsione di questo "specchio unico". In cui si riflette, ripetuta e dilatata all'infinito, l'immagine del berlusconi-che-è-in-noi. Fino a sovrapporla al nostro profilo. Un'idea che, personalmente, mi inquieta non poco.

(19 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le piccole secessioni di un paese piccolo piccolo
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2009, 11:40:00 pm
Ilvo Diamanti.


Le piccole secessioni di un paese piccolo piccolo


Non ha provocato grandi reazioni il passaggio dei comuni dell'Alta Valmarecchia dalla provincia di Pesaro-Urbino a quella di Rimini. E, dunque, dalle Marche all'Emilia Romagna. Voluto e votato dai cittadini attraverso un referendum popolare circa un paio d'anni fa. Con un consenso plebiscitario. La Valmarecchia è incastrata fra monti, colline e corsi d'acqua. Un paesaggio suggestivo. Dal punto di vista naturale, ma anche architettonico e artistico. Giacimento gastronomico pregevole. Prodotto di riferimento: il pecorino di fossa. In alto, a Pennabilli, Tonino Guerra esorta il suo amico Gianni a coltivare l'ottimismo. Il profumo della vita.

L'Alta Valmarecchia inseguiva da tempo questo obiettivo. In base a buone ragioni: storiche, geografiche, culturali. Novafeltria, Sant'Agata Feltria, Talamello, Pennabilli, Casteldelci, Maiolo. Insieme a San Leo, sovrastata da una rocca cupa e magnifica. Dove venne imprigionato Cagliostro. Sono periferia - meglio: entroterra - di Rimini e non di Pesaro-Urbino. Oggi che anche il Senato ha riconosciuto la loro identità romagnola: festeggiano. "Abbiamo ridato dignità al popolo dell'Alta Valmarecchia di ritornare alla sua madre patria", ha esclamato, commosso, Gianluca Pini, deputato della Lega. Immaginiamo, però, che l'entusiasmo e l'emozione si riverberino anche altrove. In particolare: negli altri comuni che, in tutta Italia, chiedono - da più tempo dell'Alta Valmarecchia, talora - di liberarsi dal giogo imposto dallo Stato centralista. Di riunirsi, anch'essi, alla loro madrepatria. Cambiando provincia e regione. Come negare questa loro aspirazione? Pensiamo ai comuni dell'Altopiano di Asiago. Perché impedire loro di accedere alla provincia di Trento? Insieme (fra gli altri) a Cortina e a Lamon (il primo ad averne fatto richiesta). E perché bloccare la voglia dei cittadini di Portogruaro, Caorle e Concordia Sagittaria di scavalcare i confini della provincia di Venezia per passare a quella di Pordenone? Di trasferirsi dal Veneto al Friuli Venezia Giulia? Oppure, ancora, perché chiudere i confini della Val d'Aosta ai comuni dell'Alto Canavese? A Noasca e Carema, 1000 abitanti in due? Perché frenare la loro voglia di secedere dal Piemonte? Anche in questi realtà locali si sono svolti referendum, partecipati e approvati dalla quasi totalità della popolazione. Anche se, a differenza della Valmarecchia, è legittimo il sospetto che dietro all'iniziativa gli interessi materiali contino molto più che il patriottismo.

Perché entrare in regioni a statuto speciale - come il Trentino, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d'Aosta - comporta benefici evidenti e rilevanti. Tuttavia, molti altri comuni nutrono la stessa ambizione, senza però orientarsi verso regioni autonome. Comuni della Campania che intendono passare alla Puglia, al Molise o alla Basilicata. Altri che dalla Toscana vogliono trasferirsi in Emilia Romagna. Oppure che dal Lazio vorrebbero entrare in Umbria. E poi, in definitiva, perché non permettere alla provincia di Bolzano di ritornare ad essere Sud Tirolo e quindi Tirolo? Per lingua e storia è difficile negare l'esistenza di forti legami fra i due contesti.

Certo, in questi tempi si stanno riaprendo fratture territoriali ben più profonde. Tra Nord e Sud, anzitutto. Sudisti e nordisti che si affrontano. Una lotta dura senza paura. Mentre i leghismi affiorano dovunque. Difficile prestare troppa attenzione a piccole secessioni locali che coinvolgono piccoli comuni. Anche se rimettono in discussione e anzi ridisegnano i confini delle regioni e delle province. D'altronde, i confini non si vedono. Soprattutto quelli interni agli stati. (E oggi, spesso, neppure quelli fra gli stati). Mi viene a mente un sentiero sull'Alpe della Luna, in alto, accanto al passo della Bocca Trabaria. Nell'Alto Metauro. Corre e separa, o forse congiunge, quattro regioni e quattro province. Toscana, Emilia Romagna, Umbria e Marche. Arezzo, Perugia, Rimini e Pesaro-Urbino. Quando lo percorro a piedi (il paesaggio è straordinario), giuro, non è visibile la distanza e la distinzione fra una regione e l'altra. Perché i confini sono "costruzioni" sociali, istituzionali, cognitive. Che noi interiorizziamo. Come le mappe, la geografia. Ci servono a capire e a vivere. A guardarci intorno. A situarci. Servono ad avere relazioni con gli altri e con il mondo. E poi delimitano i contesti dentro ai quali agisce l'autorità. Gli spazi di sovranità per le istituzioni. Per questo i cambiamenti di confine non avvengono mai senza conseguenze. Basta pensare a quel che è successo dopo la caduta del muro di Berlino.

Naturalmente, qui si tratta di mutamenti molto meno epici. Non riguardano regimi o sistemi geopolitici mondali. Non ci sono muri che crollano. Semmai, muretti. Questi cambiamenti non intaccano i confini nazionali. Solo quelli locali. Anche se è difficile sminuire il "locale", nei giorni in cui la Lega - con il consenso del ministro Gelmini - alza la voce in nome del rispetto delle tradizioni "locali" nella scuola. Proponendo che ai docenti venga richiesto, come requisito preliminare, la conoscenza della storia e delle culture "locali". Locali. Appunto. Ma quale "locale" - se i nostri confini interni slittano, si spostano senza grandi preoccupazioni politiche? Con il consenso del parlamento? In fondo, in Veneto 4 persone su 10 si dicono d'accordo con le richieste dei comuni che intendono andarsene. Passare a un'altra regione. Il Veneto: dove il 70% degli abitanti parla ancora dialetto (o lingua regionale) "spesso" (Osservatorio Nordest di Demos per "Il Gazzettino": maggio 2009). Il fatto è che l'Italia brulica di localismi. Afflitta e affetta dal virus della "traslochite", come ha scritto tempo fa Gian Antonio Stella. Dove molti comuni vogliono "traslocare". Da una provincia all'altra, da una regione all'altra. E talora ci riescono. Senza un disegno istituzionale, senza un progetto, senza una direzione e qualcuno la diriga. Per le ragioni più diverse e legittime. Per interesse, per storia, per affinità, per comodità, per comunanza di dialetto. Tante piccole secessioni. A cui non si oppone quasi nessuno. Tanto riguardano piccoli paesi. In un paese altrettanto piccolo.

(31 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La paura a telecomando
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2009, 11:27:39 am
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La paura a telecomando

di ILVO DIAMANTI


Ora che il decreto sulla sicurezza è entrato in vigore siamo sicuramente più sicuri. Le ronde sono state, finalmente, istituzionalizzate. La clandestinità è reato. Tuttavia, la sicurezza si è affermata anche senza decreti.

Lo confermano i dati del Ministero dell'Interno. Nel 2008 il numero dei reati è sceso di otto punti percentuali rispetto all'anno prima. La riduzione riguarda tutti i tipi di delitti. Dalle rapine agli scippi ai furti. Resta il problema della percezione, che tanto preoccupa il centrodestra. Oggi che governa. Assai meno ieri, quand'era all'opposizione. Negli anni del governo guidato da Prodi, quando al Viminale c'era Amato, era legittimo avere paura. Anche se il calo dei reati è cominciato nella seconda metà del 2007. Ed è proseguito nel semestre successivo.

Andare troppo a fondo nell'analisi dell'evoluzione dei reati, però, potrebbe sollevare qualche dubbio. Sul fatto che la sicurezza in Italia costituisca un'emergenza. O almeno: un problema emergente. Nuovo. In fondo, risalendo al 1991, quasi vent'anni fa, si scopre che il peso dei reati è superiore a quello attuale: 4666 per 100mila abitanti, allora; 4520 oggi. In termini percentuali: lo 0,1 in più. Non molto, si dirà. Anche se, quando si tratta di reati, ogni frazione è rilevante. Tuttavia, la verità è che la variazione percentuale dei reati (negli ultimi dieci anni, almeno) ha un andamento ondivago. Ma segna una sostanziale continuità. Dal 4,2% sulla popolazione, nel 1999, si passa al 4,5% di oggi. Una variazione minima. Che, peraltro, conferma l'Italia come uno dei paesi più sicuri - o meno insicuri - d'Europa.

I cambiamenti più rilevanti, nello stesso periodo, riguardano, invece, la sfera delle percezioni. A fine anni novanta l'Italia era attanagliata dall'angoscia. Poi, nella prima metà del nuovo millennio si è rassicurata. Per cadere preda del terrore nei due anni seguenti. Fino a intraprendere di nuovo una strada più sicura, a partire dall'autunno del 2008. Come ha mostrato il II Rapporto Demos-Unipolis, presentato lo scorso novembre.

Un dato recente suggerisce, peraltro, che la tendenza non sia cambiata. Anzi. In occasione delle elezioni del 2008, infatti, il 21% degli elettori aveva indicato nella "lotta alla criminalità" il tema più importante ai fini della scelta di voto. Ma alle elezioni europee del 2009 questa componente si riduce sensibilmente: 12%. (Indagini post-elettorali condotte da LaPolis, Università di Urbino). Difficile vedere nel cambiamento del clima d'opinione solo - o principalmente - il riflesso della "realtà", come alcuni pretenderebbero. In fondo, l'aumento dei reati che, per quanto limitato, si verifica nel biennio 2004-2005, non accentua l'inquietudine sociale. Mentre negli anni seguenti la paura dilaga.

Un osservatore malizioso potrebbe, semmai, cogliere una costante politica, dietro ai mutamenti dell'opinione pubblica. Visto che, incidentalmente, l'insicurezza cresce quando governa il centrosinistra. E viceversa. Tuttavia, la relazione più significativa riguarda senza dubbio l'attenzione dedicata dai media. In particolare, dalla televisione. Anzi, sotto questo profilo, assistiamo davvero a una realtà - o forse a una fiction - profondamente nuova e diversa rispetto al passato.

Basta scorrere i dati del recentissimo report dell'Osservatorio di Pavia su "Sicurezza e media" (curato da Antonio Nizzoli) per rilevare la rapida eclissi (scomparsa?) della criminalità in tivù. Infatti, i telegiornali di prima serata delle 6 reti maggiori (Rai e Mediaset) dedicano agli episodi criminali ben 3500 servizi nel secondo semestre del 2007, poco più di 2500 nel secondo semestre del 2008 e meno di 2000 nel primo semestre di quest'anno. In altri termini: se i fatti criminali sono calati di 8 punti percentuali in un anno, le notizie su di essi, nello stesso periodo, sono diminuite di 20. Ma di 50 (cioè: si dimezzano) se si confronta il secondo semestre del 2007 con il primo del 2009. Più che un calo: un crollo. In gran parte determinato da due fonti. Tg1 e Tg5, che da soli raccolgono e concentrano oltre il 60% del pubblico. Le notizie relative ai reati proposte dal Tg1 in prima serata, dal secondo semestre del 2007 al primo semestre del 2009, si riducono: da oltre 600 a meno di 300. Cioè: si dimezzano. Insomma, per riprendere i propositi del nuovo direttore del Tg1 (poco responsabile di questo trend, visto che è in carica solo da giugno): niente gossip; ma neppure nera. Solo bianca. Tuttavia, è nel Tg5 che il calo di attenzione in tal senso assume proporzioni spettacolari. Il numero di servizi dedicato a episodi criminali, infatti, era di 900 nel secondo semestre del 2007. Nel primo semestre del 2009 scende a 400. Insomma, la criminalità si riduce un po' nella percezione sociale e sensibilmente nell'opinione pubblica. Ma nella piattaforma televisiva unica di Raiset - o Mediarai - quasi svanisce. E chi non si rassegna (come Canale 3 - pardon: Tg3) viene redarguito apertamente dal premier. Il quale, tuttavia, non ha motivo di avere paura. Se - come ha recitato tempo addietro - l'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura. E la paura erompe soprattutto dalla televisione. In questo paese dove il confine tra realtà reale e mediale è sempre più sottile. Allora il premier non ha nulla da temere. Ronda o non ronda. Ronda su ronda. La paura scompare insieme alla criminalità. Oppure riappare. A (tele) comando.

(9 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il telefonino come il pane
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 03:59:27 pm
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Il telefonino come il pane


di ILVO DIAMANTI

LA CRISI sta condizionando le strategie e i comportamenti di consumo delle famiglie. Al di là dell'impatto reale sul mercato del lavoro e sui redditi, ne ha ridefinito le priorità. Per cui non tutti i consumi sono stati ridotti nella stessa misura. Anzi: alcuni sono aumentati. In particolare: i telefoni cellulari. Le cui vendite sono cresciute del 15% nel 2008. Ma quasi del 200% negli ultimi 7 anni.

In altri termini: oggi i telefonini non sono più un consumo voluttuario, ma un bene di prima necessità. Di cui non è possibile fare a meno. Come il pane. Se il reddito si riduce, se le attese sul futuro prossimo sono grigie, allora le famiglie preferiscono tagliare altre spese. Risparmiano sui trasporti, sugli autoveicoli, sull'arredamento. Perfino su alcuni prodotti alimentari. Ma non sulle tecnologie della comunicazione. Sui telefonini, appunto. Ma anche sui computer, in particolare sui portatili e sui palmari.

D'altra parte, i telefonini di nuova generazione sono computer a ogni titolo. Servono a navigare su Internet, a controllare e a inviare la posta elettronica. E svolgono molte altre funzioni. Video e fotocamera, riproduttore musicale Mp3, navigatore satellitare. E, inoltre, sveglia, agenda. Perfino torcia elettrica. Tutto questo riassunto in un oggetto leggero e di piccolissime dimensioni. Portatile, appunto. E concretamente "portato" dovunque. Ci segue dappertutto, in ogni luogo e ad ogni ora. Visto che molte persone lo tengono acceso 24 ore su 24. Notte compresa. Lo appoggiano sul comodino, mentre si carica. Così da non perdere neppure una chiamata o un messaggio.

Chiamarlo telefonino, per questo, non è solo riduttivo, ma improprio. Non è un telefono più piccolo. D'altra parte, in quanto a diffusione, ha ormai sorpassato il telefono fisso. Lo possiede il 90% delle persone (circa il 20% più di uno). I gestori della telefonia mobile, d'altronde, offrono, con un solo contratto, non solo il telefono - a uso domestico e mobile - ma anche l'accesso a Internet (wi-fi) e alle reti televisive. Per questo la diffusione del telefono cellulare riflette, in realtà, il moltiplicarsi dei servizi che esso propone. Ma anche, soprattutto, il mutamento degli stili di vita e delle abitudini delle persone.

Anzitutto dei più giovani. L'uso dei cellulari, infatti, è condizionato e incentivato da due aspetti. L'età e il livello di istruzione. I consumatori "pesanti" e al tempo stesso gli specialisti sono infatti i più giovani. Anzi: i giovanissimi. Gli adolescenti. I quali si distinguono dalle altre generazioni perché non usano il telefonino per telefonare. Infatti, è quasi impossibile coglierli mentre parlano con il cellulare all'orecchio. A differenza degli adulti che, armati di auricolare, per strada parlano da soli, in modo animato.

I giovani, invece, messaggiano. Usano gli sms. Oppure segnalano la propria presenza ed esistenza agli amici con uno squillo muto. Una vibrazione, una schermata a colori personalizzata. E reagiscono ai messaggi degli altri subito. Dovunque essi siano. A casa, per strada, a scuola, in chiesa, al cinema, in riunione. Non importa. Il cellulare è sempre acceso e accessibile. Loro: sempre pronti a leggere i messaggi e a rispondere.

Negli ultimi anni, peraltro, la confidenza con il cellulare si è allargata anche agli adulti. Perfino a qualche anziano. E sono molte le persone che messaggiano. Dappertutto. Non solo: ricorrono agli sms per messaggi destinati a una larga cerchia di persone. Soprattutto in occasioni particolari. Festività, mobilitazioni, ricorrenze.

Si digita il messaggio, breve, e lo si invia alla lista - sempre più lunga - di numeri in agenda. Infine, l'accesso dei cellulari - in particolari i palmari - a Internet ha incentivato la possibilità di dialogo con gli altri (gli "amici" di una comunità elettronica) attraverso i social network. Come Facebook e soprattutto Twitter, concepito per essere consultato e aggiornato via sms. Quindi, con il cellulare.

Da ciò una ulteriore - decisiva - ragione che spiega la diffusione dei cellulari. A dispetto dell'andamento dei redditi e dei consumi. Riguarda il cambiamento sociale e culturale. I modi di comunicare e di stare insieme. E per questo coinvolge, per primi, i giovani più giovani. Demograficamente pochi. Protetti e controllati da famiglie pervasive. Vivono in un ambiente urbano devastato e informe. Frutto di politiche territoriali imposte dagli immobiliaristi.

Secondo logiche e interessi, ovviamente, immobiliari. I luoghi di incontro e di contatto fisico, per loro, si sono ridotti sempre di più. Non la domanda di stare insieme. Per cui hanno trasferito le relazioni dal territorio allo spazio tecnologico. I loro contatti non avvengono più - meglio: si verificano sempre meno - in un contesto di compresenza fisica. A casa, in piazza, sulla strada, a scuola, in oratorio.

Ma si realizzano, sempre più spesso, a distanza. Attraverso la rete e i cellulari. Così intrattengono relazioni sempre più frequenti. Sempre più fitte. E sempre più astratte. Sempre più personali e impersonali al tempo stesso. La società intera li segue, su questa strada. I fratelli maggiori. I genitori. Gli adulti. Si addentrano in questa terra senza terra. Dove gli altri sono un numero di cellulare o un indirizzo e-mail. Dove tutti comunicano senza vedersi e senza parlarsi direttamente. Nelle piazze e nelle comunità della rete. Proiettano la loro icona. Il loro avatar. Il loro profilo. E dialogano con altri avatar e altri profili. Un teatro di maschere. Un mondo di relazioni senza empatia. Dove il confine tra comunicazione ed esperienza, fra immagine e realtà: svanisce.


(23 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'identità apolide del pallone
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2009, 12:08:06 am
Ilvo Diamanti


L'identità apolide del pallone


Il ministro Luca Zaia è deciso a giocare fino in fondo una partita che ha come posta la vittoria delle culture locali su quelle nazionali. Nel campionato delle identità. Per questo, dopo aver esortato alla valorizzazione dei dialetti, all'uso degli inni e delle bandiere, oggi si rivolge alla principale fonte di appartenenza degli italiani: il football. O meglio, per non cedere all'esterofilia linguistica: al calcio, al pallone. Così ha invitato "i grandi club" a "cucire sulle magliette i simboli della regione o della provincia o della città, a scelta". Perché, ha precisato, "sarebbe un modo molto popolare di far conoscere gli stendardi della cultura locale".

Immaginiamo che si riferisca soprattutto ai club del Nord. Visto che sulla maglia della Roma campeggia, in bella evidenza, la Lupa; mentre il Napoli, sopra il marchio dello sponsor, ha, in bella vista, una N maiuscola. Iniziale della città. Ma il ministro si riferisce alle società del Nord. Le più importanti. Juventus, Milan e Inter. Le quali raccolgono i due terzi dei tifosi italiani (circa il 30% la Juve, intorno al 20 Milan e Inter). Vorrebbe che rimpiazzassero la Zebra (Juve), il Diavolo (Milan) o il Serpentone (Inter) con la Mole Antonelliana, la Madunina. Vessilli ed emblemi cittadini, provinciali o regionali. Magari macroregionali. Padani, per esempio. Come lo stemma del Carroccio, che evoca l'icona di Alberto da Giussano alla testa della Lega Lombarda contro l'esercito del Barbarossa. Una richiesta comprensibile, visto che il calcio è la fede più condivisa, nel paese. Unisce e divide più di ogni altra passione. Anche perché non vi sono altre passioni altrettanto con-divise, in Italia. In fondo, dicono molti - con qualche ragione - l'unico vero momento di unità nazionale degli italiani si verifica quando gioca (e soprattutto vince) la Nazionale di calcio. Ovvio l'interesse della Lega per esaltare il localismo - anche nel calcio. Tuttavia, c'è un problema. Forse più di uno. Diciamo tre.

1. Il primo. Il tifo calcistico delle squadre maggiori non è locale. Neppure cittadino, provinciale o regionale. E' senza territorio. Atopico. Come - appunto - la fede e le ideologie.

La Juve, in primo luogo. La più amata dagli italiani (almeno fino a un anno fa, data dell'indagine di Demos a cui faccio riferimento). Il popolo bianconero non appartiene a nessun contesto specifico. La Juve è la squadra che attira il maggior numero di fedeli in ogni area del paese. Intorno al 30% dovunque. Il massimo nel Nordest triveneto. E' la squadra per cui tifano, soprattutto, gli italiani di provincia. In un paese provinciale come l'Italia. Anche a Torino e in Piemonte i tifosi bianconeri sono numerosi soprattutto tra le persone che provengono da famiglie di immigrati. Come me, nato a Cuneo, cresciuto a Bra, al seguito di genitori veneti. Sono divenuto bianconero "naturaliter". Tanto più dopo il ritorno in "patria", insieme la famiglia, quand'ero adolescente.

I torinesi doc, invece, tifa(va)no per il Toro. E ci guarda(va)no come beur. Discendenti di immigrati che provengono dalle colonie. Perché il tifo per la Juve era - in qualche misura "è" - un modo per integrarsi. Una forma di rivincita sociale degli "ultimi arrivati". (Per questo mi è insopportabile sentire i tifosi bianconeri allo stadio indirizzare contro Balotelli cori ingiuriosi. "Non ci sono italiani neri". Ma io, juventino da sempre, non sono bianco e non sono nero. Sono l'uno e l'altro: bianconero.)

Un discorso simile vale anche per gli altri club più blasonati del Nord. Il 36% dei tifosi del Milan e il 28% di quelli dell'Inter risiedono nel Centrosud. Il tifo del Napoli e della Roma è territorialmente più addensato; più "metropolitano" che "locale", comunque. Soprattutto il Napoli. Tuttavia il 20% dei suoi sostenitori abita in Piemonte e in Lombardia.

2. Seconda ragione: poche altre entità organizzate sono altrettanto globali e multietniche quanto i club di calcio. Non siamo nei Paesi Baschi. In Italia le squadre reclutano i giocatori al di là di ogni confine: locale e nazionale. Nell'Inter è difficile incontrare italiani, in campo. Santon, Materazzi, Balotelli (ammesso che i sostenitori del localismo calcistico lo considerino italiano). Mai tutti insieme. Uno, massimo due alla volta. Più spesso: nessuno. I miti del Milan (Gattuso a parte, che non mi risulta essere un meneghino doc) sono da tempo brasiliani. Prima Kakà, oggi Pato. Brasiliano anche il nuovo allenatore, Leonardo. Paolo Maldini, milanese, venticinque anni e oltre 900 partite da "rossonero", nel momento dell'addio è stato contestato dagli ultrà. Non per motivi etnici, locali o nazionali. Ma per ragioni "faziose". Claniche (di clan). Perché si era permesso di contestarne, in passato, le contestazioni (estreme ed estremiste).

In Italia, come altrove, il calcio è un "affare" che non appartiene più neppure ai mecenati o agli imprenditori (stra)ricchi (salvo rare eccezioni; come Roman Abramovich e, da noi, Massimo Moratti). I suoi bilanci - e quindi le sue sorti e le sue scelte - dipendono, invece, soprattutto dai diritti televisivi. Da Rai, Mediaset, Mediarai, Sky. Cioè: un mondo atopico. Senza luoghi. Senza appartenenze locali. (D'altronde, come risalire al contesto di squadre che si chiamano Juventus e Inter?).

3. Terza ragione (ma probabilmente se ne potrebbero sollevare altre). Le appartenenze legate al calcio non solo sfuggono a ogni confine, ma producono anche l'effetto opposto. Cioè: possono moltiplicare i confini senza fine. All'infinito. A Milano: il derby tra Milan e Inter di sabato prossimo disintegra la milanesità. Il comune riferimento metropolitano delle due squadre diventa motivo di contrapposizione e divisione violenta. Lo stesso vale per gli altri derby. Non solo a livello urbano e metropolitano. A Roma, Torino, Genova. Ma anche in ambito regionale. Tra Fiorentina e Siena. Tra Livorno e Pisa. Tra Bologna e Parma. A Vicenza, dove risiedo, le sconfitte del Verona (retrocesso in una serie minore) sono accolte con lo stesso entusiasmo delle vittorie conseguite dalla squadra biancorossa.

Insomma, lo stemma locale non si addice al calcio. E viceversa. Il calcio non si addice a promuovere l'identità locale. Soprattutto in Italia. Soprattutto nei club maggiori delle metropoli del Nord. Dove i calciatori non parlano in dialetto, fra loro. Ma devono, semmai, imparare l'inglese, per comunicare fra loro. In Italia. Dove il tifo - lo ripetiamo - è una fede e un'ideologia. Più forti di altre fedi e - soprattutto - di altre ideologie. Per cui se chiedete al mio figlio minore, Nicola, in cosa si riconosca, vi risponderà, senza alcuna esitazione: anzitutto e soprattutto nel Chievo (un quartiere, neppure una città). Mentre io e Giovanni (il primogenito), in tempi tanto tristi per la nostra passione politica, ci sentiamo sempre più bianconeri.

(24 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il posto della Chiesa in tempi pagani
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2009, 11:13:31 am
POLITICA

       
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Il posto della Chiesa in tempi pagani

di ILVO DIAMANTI


È SINGOLARE vedere la Chiesa all'opposizione. Soprattutto oggi, che governa il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, particolarmente attento e disponibile nei confronti delle richieste della Chiesa: sulla bioetica, sulla scuola e sull'educazione, sulla famiglia. Mentre le incomprensioni con il precedente governo di centrosinistra erano comprensibili. Eppure mai, nella contrastata (per quanto breve) stagione dei rapporti con il governo Prodi, si era assistito ad attacchi tanto violenti, nei confronti della Chiesa, come quelli lanciati negli ultimi giorni dal centrodestra.

Prima: le reazioni della Lega alle critiche espresse dal mondo cattolico in merito alle politiche sulla sicurezza e sull'immigrazione. Culminate nella minaccia - apertamente evocata dal quotidiano "La Padania" - di rivedere il Concordato. Poi l'attacco rivolto dal "Giornale" al direttore di "Avvenire", Dino Boffo (il quale ha parlato di "killeraggio"). Accusato di non avere titolo per esprimere giudizi "morali" sugli stili di vita del premier. Troppi e troppo ravvicinati, troppo violenti, questi interventi per apparire casuali. Come si spiega l'esplodere di queste tensioni? E, in particolare, cosa ha spinto all'opposizione la Chiesa, fino a ieri interlocutore affidabile del governo?

In effetti, occorre distinguere. I rapporti con la Lega sono sempre stati conflittuali. Basti pensare al periodo intorno alla metà degli anni Novanta, quando la Chiesa si oppose alla strategia secessionista della Lega. Allora Bossi si scagliò contro il Papa polacco e i "vescovoni romani arruolati nell'esercito di Franceschiello, l'esercito del partito-Stato". In altri termini: contro la Chiesa, ritenuta (non senza ragione) il collante, forse più denso, dell'unità nazionale. Oggi, invece, il problema è prodotto dalle critiche del mondo cattolico - le associazioni, i media, le gerarchie - contro le politiche del governo sulla sicurezza e l'immigrazione. Cioè: il vero marchio della Lega (degli uomini spaventati). Più ancora del federalismo.

D'altronde, il mondo cattolico, su questi temi, esprime un progetto fondato sull'accoglienza, sulla carità, sull'integrazione. Concretamente praticato attraverso associazioni e istituzioni diffuse sul territorio. Dalla Caritas, ai gruppi di volontariato, alle parrocchie. Assai più della sinistra, è il mondo cattolico l'alternativa alla cultura e al linguaggio leghista. Non solo sui temi della sicurezza e degli immigrati. Perché il mondo cattolico è presente e attivo soprattutto dove è forte la Lega. Cioè: nella provincia del Nord. Dove i campanili costituiscono ancora un centro della vita sociale. Da ciò un conflitto inevitabile. Che è, in parte, competizione. Anche perché la Lega si propone come una sorta di "Chiesa del Nord". Con i suoi riti, i suoi simboli, i suoi valori, le sue reti di appartenenza locale. Ronde comprese. Della tradizione cattolica accetta gli aspetti, appunto, più tradizionali e tradizionalisti. Le "radici cristiane" rivendicate dalla Lega coincidono, in effetti, con la "religione del senso comune".

Diverso - e meno prevedibile - è invece il contrasto diretto con il premier e il PdL. Innescato dalla velenosa inchiesta dedicata dal "Giornale" al direttore dell'"Avvenire". Definito un "lapidatore che non ha le carte in regola per lapidare alcuno". In particolare il premier. Immaginare Dino Boffo - prudente per natura (e incarico) - impegnato a scagliare parole dure come le "pietre" risulta (a noi, almeno) davvero difficile. Per questo, la reazione del "Giornale" appare sproporzionata rispetto al contenuto e al tono delle critiche apparse su "Avvenire".

Era difficile, d'altronde, che i vescovi italiani tacessero di fronte al disagio emerso in molti settori del clero e in molti esponenti del mondo cattolico. Tanto più al tempo di Papa Ratzinger, che ha fatto del contrasto al relativismo etico un marchio e un programma.
Tuttavia, nonostante le smentite di questi giorni, ci riesce altrettanto difficile pensare che Vittorio Feltri abbia lanciato il suo attacco "senza preavviso". Senza, cioè, avvertire almeno il premier. Il che suggerisce una ulteriore spiegazione della singolare (op) posizione assunta dalla Chiesa in questa fase.

Vi sarebbe stata spinta, più che per propria scelta, dallo stesso premier e dalla Lega. Per diverse ragioni. (a) Intimidire l'unico soggetto capace, nell'Italia d'oggi, di esercitare un effettivo controllo morale, istituzionale e sociale. (b) Dividere la Chiesa stessa, al proprio interno; isolando gli ambienti accusati di simpatie per la "sinistra"; e ponendola in contrasto con il suo stesso popolo. In larga parte vicino alle posizioni della Lega, in tema di sicurezza e immigrazione. E indulgente verso i comportamenti e gli stili di vita esibiti dal premier. (c) C'è, infine e al fondo di tutto, la crisi del modello, proposto e imposto da Ruini alla fine della prima Repubblica. La "Chiesa extraparlamentare" (come la definisce Sandro Magister), che agisce ora come movimento, ora come gruppo di pressione. A sostegno dei propri riferimenti di valore e di interesse. Senza partiti cattolici né "di" cattolici.

Oggi sembra suscitare molti dubbi. E in alcuni settori della Chiesa e del mondo cattolico emerge la nostalgia di un polo alternativo: a una destra amica ma pagana. E a una sinistra laicista e comunque inaffidabile. Da ciò l'idea (post-ruiniana) di un soggetto politico che metta insieme Casini, Tabacci, Pezzotta. Rutelli e Montezemolo. Magari Letta (Gianni). D'altra parte, 4 cattolici praticanti su 10 non hanno un partito di riferimento. Sono patologicamente incerti. Anche così si spiega la reazione di Berlusconi - e l'azione di Feltri. Volta a scoraggiare la costruzione di un nuovo partito collaterale alla Chiesa. Mentre al premier - e alla Lega - piace di più l'idea di una Chiesa collaterale o, comunque, affiancata al PdL. In grado - non da ultimo - di santificare un modello di vita che - come ha ammesso il premier - santo non è. Ma, anzi, piuttosto pagano.

(31 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'informazione prudente: risposte senza domande
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2009, 11:02:16 pm
L'informazione prudente: risposte senza domande


ILVO DIAMANTI


Non seguo troppo la politica italiana. Troppo gossip. Poca politica. Troppi fatti personali. Poi sono troppo impegnato a scrivere per riuscire anche a leggere. In particolare: i giornali. In particolare: alcuni giornali. Quelli nazionali. Anche se la crisi li ha defoliati e dimagriti sono troppo densi e pesanti, per me. Troppo. Così mi limito a dare un'occhiata distratta ai tiggì. Soprattutto a quelli che si sono impegnati a non fare gossip e si occupano di cose serie. Influenze A, celebrazioni e anniversari, il muro di Berlino e lo sbarco sulla luna, le pandemie, le ferie e gli esodi biblici per andare in ferie, il caldo, i temporali, la formula 1, le ferie e i rientri biblici dalle ferie, i campionati di nuoto, ibra, i dispersi in montagna, valentinorossi, i sentimenti (ah... i sentimenti!!!), la storia fra clooney e la canalis (gossip vero - o finto, non importa - non politica mascherata da gossip o viceversa!), il calcio (ah... il calcio!!!), kakà, qualche omicidio e qualche suicidio in famiglia, tra vicini di casa; ancora: il superenalotto e qualche incidente al volante - quelli sul lavoro non emozionano più, se le vittime non sono almeno 5 - poi gli immigrati. Però gli omicidi, i suicidi, i crimini e i criminali e quindi gli immigrati: devono essere diminuiti. Non ne sento più parlare come una volta.

Però oggi è più bello guardare i tiggì perché spaventano di meno e perché hanno separato il gossip dalla politica. Il pubblico dal privato. Si dedicano alla politica seria. Sarà per questo che di politica ne sento parlare poco. Meno che della cronaca nera; omicidi, rapine e altri delitti. Che devono essersi ridotti, ma meno della politica. Ma forse è che sono distratto. Mi interesso poco. Di politica, intendo. Troppe donne e donnine. Troppo gossip. E se il gossip e la politica, se la politica e il gossip coincidono allora è ovvio che la tivù non ne parli. Che i tiggì ne riducano lo spazio. Ovvio. Ovvio che qualcosa - anzi: molto - mi sfugga. Ovvio. Che io non riesca a capire sempre e tutto. Seguo poco e in modo disattento. Che cosa pretendo?

Anche ieri sera. Ho sentito il premier - proprio lui - e anzi l'ho visto in tivù, nei tiggì - depurati dal gossip - dire ai giornalisti che alle 10 domande poste da Repubblica non ha risposto e non risponderà. Non per le 10 domande in sé. Lui non ha nulla da nascondere, lui. Ma le ha poste Repubblica. Che è un giornale eversivo e disonesto. Dall'editore al direttore ai giornalisti ai collaboratori giù giù via via fino agli impiegati e ai tipografi. Non un giornale ma un partito e anche peggio: un'associazione a delinquere. Se non le avesse poste Repubblica, in modo ovviamente offensivo e infamante, a quelle 10 domande lui avrebbe dato risposta. Meno all'ultima, sul suo stato di salute, perché lui è superman. Altro che gufare o diffondere sospetti malevoli. Inseguire le maldicenze di una moglie irriconoscente. La facciano pure altrove, negli Usa o in Francia, quella domanda. Ma non a lui. Che è superman. Ma alle altre domande, poste in modo più discreto, da altri giornali, lui avrebbe certamente risposto. Anche ai tele-giornali, immaginiamo. Quelli che non fanno gossip - e non attaccano il governo, perché non lo debbono fare, ci mancherebbe - ma solo informazione. Seria. E hanno riportato - seriamente - le parole del premier. Che non avrebbe - e non avrà - problema, nessun problema, a rispondere a quelle domande se qualche altro giornale o tele-giornale gliele vorrà riproporre. In modo meno insolente. Ma non a Repubblica. Così ha detto il premier. E i tiggì lo hanno ripreso e rilanciato. Fedelmente. Nessun taglio alle sue dichiarazioni. Riproposte integralmente. Per dovere di informazione.

Io, però, che dei giornali scorro solo i titoli, preferibilmente sulle rassegne tivù (e d'altronde mi informo solo in tivù), io: mi sento dubbioso. Perplesso. Anche se mi vergogno ad ammetterlo. A confessarne il motivo. Mi imbarazza. Però qualcosa mi deve essere sfuggito. Perché io guardo la tivù e i tiggì, ma in modo perlopiù disattento. E allora me le devo essere perse. Anzi me le sono perse certamente. Le domande di Repubblica, intendo. Le prime 9. L'ultima l'ho capita. Riguarda la salute. Ma spero che un giorno il premier decida davvero di rispondere anche alle altre. In tivù, nei tiggì. Seri. Dai quali mi informo. Così dalle risposte - forse, magari, chissà - riuscirò finalmente a risalire alle domande. Che non ho mai sentito.

(2 settembre 2009)

da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il nuovo partito mediale di massa
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2009, 10:48:11 am
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Il nuovo partito mediale di massa

di ILVO DIAMANTI


NELL'ERA della mediocrazia avanza un soggetto politico nuovo. Anche se ha sembianze note e sembra quasi antico, visto che - nella versione originaria - è sorto insieme alla prima Repubblica. Eppure è cambiato profondamente, negli ultimi anni. In modo tanto rapido che neppure ce ne siamo accorti. Lo chiameremo Partito Mediale di Massa (PMM).

Perché è entrambe le cose. Allo stesso tempo mediale e di massa. Senza soluzione di continuità. Non ci troviamo di fronte a un modello, a un caso "esemplare". Perché non è riproducibile né tanto meno ripetibile. Anche se l'intreccio fra media e politica è divenuto stretto e quasi inestricabile. Dovunque. Nei partiti: la comunicazione ha preso il posto della partecipazione; il marketing quello delle ideologie; mentre le persone hanno rimpiazzato gli apparati. Così nel dibattito politico il privato è divenuto pubblico e viceversa. È una tendenza non solo italiana, ma che in Italia ha assunto modalità del tutto inedite, determinate, ovviamente, dalla posizione dominante di Silvio Berlusconi. Il premier di un paese ormai presidenzializzato, dove il potere presidenziale è largamente riassunto dal premier (mentre il Presidente svolge funzioni di garante). Leader unico e indiscusso del partito più forte, dal punto di vista elettorale e in Parlamento. Imprenditore e proprietario del più importante gruppo mediatico privato. Nessuna novità in tutto questo. Silvio Berlusconi, infatti, ha inventato 15 anni fa questo ibrido di successo. Un partito che miscela i linguaggi e l'organizzazione del mondo calcistico (gli azzurri, i club, lo stesso marchio: Forza Italia!) con la pubblicità e la televisione. Così è divenuto difficile distinguere le passioni politiche da quelle televisive. E viceversa.

Indagini condotte alcuni anni fa (da ultimo: Demos per la Repubblica, 2007) mostrano lo stretto rapporto di fiducia che legava gli elettori di centrodestra alle reti, ai programmi e ai conduttori di Mediaset; e, parallelamente, l'alto grado di credibilità riconosciuto dagli elettori di centrosinistra ai telegiornali, ai tele-giornalisti e alle reti Rai. Anche se la realtà non sopporta divisioni tanto schematiche. Visto che l'informazione del Tg5 di Mentana - forse - non era orientata più a destra rispetto a quella del Tg1 di Mimun. È, dunque, difficile distinguere fra politica, interessi e media quando si osserva Forza Italia. Ed è impossibile, quando si osserva Berlusconi, distinguere le scelte - e gli interessi - del leader politico da quelle dell'imprenditore. Argomenti noti, da tempo.
La novità degli ultimi anni è che il partito è divenuto, progressivamente, un "sistema". Forza Italia è divenuta Pdl, associando - o meglio: assorbendo - anche An. Per cui ha assunto la "misura" elettorale dei partiti di massa di un tempo. Anche l'impianto del voto sul territorio riproduce quello dei partiti di governo degli anni Ottanta: al declino della prima Repubblica. A differenza da allora, oggi l'ideologia, la cultura, l'organizzazione fanno tutt'uno con i media. Attraverso i quali il PMM offre alla società - trasformata in pubblico - linguaggio, modelli di valore, stili di vita. Una lettura della realtà. Anche perché - altra importante differenza dal passato recente - le distinzioni fra i network televisivi nazionali, ormai, si sono quasi dissolte. Dopo le elezioni del 2008, l'influenza dei partiti di governo - quindi del premier - sulla Rai è cresciuta. Il vero bipolarismo mediatico (come ha scritto Aldo Grasso) oggi oppone Mediaset e Sky. E la Rai sta con Mediaset, per cui possiamo parlare di MediaRai (marchio più adeguato di Raiset, visto il ruolo subalterno della Rai).

Il PMM costruito da Berlusconi si avvale anche dei giornali. Il linguaggio e gli argomenti politici della destra, negli ultimi anni, sono stati imposti soprattutto da Libero e da Vittorio Feltri. Il quale è tornato, da poco, a dirigere il Giornale. Non a caso. Perché il campo di battaglia dove si stanno svolgendo i conflitti politici più aspri e violenti coincide con il sistema dei media. Investe la scelta dei dirigenti, dei direttori e vicedirettori dei Tiggì e delle reti Rai. Senza dimenticare che i direttori dei maggiori quotidiani nazionali sono cambiati quasi tutti, nell'ultimo anno. D'altra parte, la costruzione della realtà sociale passa tutta dai media. La paura e la sicurezza. Agitate a tele-comando. Mentre i lavoratori licenziati, per conquistare visibilità, hanno una sola chance: realizzare azioni clamorose per andare in televisione. Mentre i terremoti e i rifiuti che sconvolgono il territorio diventano occasioni importanti per suscitare consenso o dissenso politico. L'informazione critica diventa, per questo, assai più pericolosa di qualsiasi partito. Anche la riserva indiana della terza Rete Rai crea insofferenza. Mentre il direttore di Avvenire diventa un bersaglio esemplare. Per comunicare al mondo (politico, mediatico, religioso) che nessuno può gettare ombre - seppure lievi - sul consenso e sulla credibilità sociale del PMM. E del suo leader. Nessuno è al sicuro. Neppure il direttore dei media della Cei. Figurarsi gli altri.

I tradizionali modelli del giornale di partito e del giornale-partito, che sentiamo evocare spesso - anche in questi giorni, con riferimento a Repubblica - appaiono semplicemente anacronistici. I giornali che appartengono ai partiti. Oppure, al contrario, la stampa d'opinione che esercita pressione su di essi, per indirizzarne le scelte. Sono fuori tempo. Comunque, non possono competere. Perché hanno un pubblico molto limitato rispetto alle tivù. E, senza le tivù a rilanciarli, i loro argomenti restano confinati al pubblico dei lettori fedeli. Il PMM, invece, è un sistema integrato. Al tempo stesso: partito, istituzione rappresentativa, impresa, giornale, tivù, media. Senza soluzione di continuità. Una sola, unica persona al comando. Di questa democrazia personalizzata. Di questo paese personale.

(7 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Tra il Grande Nord e il Grande Centro
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2009, 11:57:19 am
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Tra il Grande Nord e il Grande Centro

di ILVO DIAMANTI


Sono passati 13 anni da quando la Lega tentò di "strappare" l'Italia. Mobilitando il suo popolo, in marcia lungo il Po fino a Venezia. Dove, da allora, si riunisce puntualmente, ogni anno, a rinnovare il rito padano (e pagano) che vede Umberto Bossi versare in laguna l'ampolla con le acque del Po (ma anche del Piave e dell'Olona).

Per rammentare che l'indipendenza della Padania resta il vero orizzonte della Lega. Anche se il fallimento della manifestazione del 1996 ha costretto la Lega ad accantonare la secessione tornando all'obiettivo del federalismo. Distintivo originario dell'esperienza leghista. Non più rivoluzionario come in origine. Anche per questo la Lega ha spostato, rapidamente e decisamente, la sua offerta politica, concentrandola sui temi della sicurezza. Intorno alle paure prodotte dalla criminalità e dall'immigrazione. Ha anche ridefinito i riferimenti del territorio. I nemici: non più (solo) Roma, ma il Mondo. La globalizzazione. L'Europa larga. I paesi dell'Est. La Cina.

Oggi la Lega è tornata forte come nel 1996, dal punto di vista elettorale. Ha ottenuto oltre il 10% alle europee. Un dato che i sondaggi confermano stabile e, semmai, in ulteriore crescita. Ma, dal punto di vista politico, molto più forte di allora. È Lega di governo. Alleata del Pdl di Berlusconi. Meglio: di Berlusconi e del suo Pmm (Partito mediale di massa). Ma, soprattutto, è la principale artefice dei temi che caratterizzano l'agenda di governo. Tremonti si occupa della crisi economica e finanziaria. Opera importante, ma impopolare. Brunetta insegue i fannulloni che affollano gli uffici pubblici. Ma le questioni che preoccupano maggiormente i cittadini le affrontano gli uomini della Lega. In primo luogo, Roberto Maroni, titolare dell'Interno. Il "ministro della paura", per citare il personaggio interpretato da Antonio Albanese. Ma anche Zaia, vista l'importanza assunta dalle minacce "alimentari". La Lega oggi è soprattutto il "partito securitario". E ciò le ha permesso di sfondare anche nelle zone rosse. In molte province della Toscana, dell'Emilia Romagna e delle Marche. Le più simili alle zone pedemontane del Nord dove è maggiormente radicata. Le aree di piccola e piccolissima impresa. Per altri versi, però, la Lega si è "normalizzata". È l'ultimo partito di massa. L'unico sopravvissuto al crollo della prima Repubblica (a cui ha contribuito attivamente). Ha un'organizzazione diffusa, una base di militanti fedeli - estesa e presente sul territorio. Un giornale, alcune emittenti. Governa in centinaia di comuni piccoli e medi. Ha anche appreso dai "vizi" dei partiti tradizionali, che un tempo contestava fieramente. Ha coltivato un ceto di professionisti politici. Inseriti negli enti e nelle amministrazioni, a livello locale e nazionale. Anche a romaladrona. Basta vedere come ha gestito la vicenda delle nomine Rai.

La Lega oggi è un partito forte politicamente. Nel Nord come a Roma. Ma ciò può sollevare qualche problema. Perché rischia, appunto, di normalizzarla. Farla apparire un partito come gli altri. I suoi obiettivi caratterizzanti non la caratterizzano più. Il federalismo è stato raggiunto, anche se non è chiaro cosa significhi. Il suo linguaggio, i suoi proclami, anche i più scandalosi, non scandalizzano più. D'altra parte, dopo le ronde, i respingimenti e il reato di clandestinità, non è chiaro quali altri obiettivi possano scaldare gli animi dei suoi elettori e degli antagonisti. E poi le parole più violente e le iniziative più grevi tendono a perdersi nel rumore di fondo che segna il dibattito politico - in questi tempi tristi. Quando tutti gridano e urlano. E i media frullano in modo indistinto ogni offesa e ogni minaccia, anche la più turpe. Da ciò il richiamo esplicito all'indipendenza padana. Espresso ieri ad alta voce da Bossi. Con echi secessionisti che non si udivano da un decennio. Non a caso. Perché, come nel 1996, il federalismo non basta più. Inoltre, l'etichetta di partito populista e securitario - o xenofobo - non scandalizza nessuno. Ma, anzi, rende più confusa la sua missione originaria. La rappresentanza del Nord. Peraltro, non è casuale anche la sfida lanciata da Casini. Alla Lega e agli altri partiti maggiori. Nello stesso giorno in cui Bossi riprendeva il tema della secessione. Perché c'è simmetria fra la Lega e l'Udc. Anzitutto dal punto di vista territoriale. Perché l'Udc è impiantata nel Sud, dove alimenta, a sua volta, forti spinte autonomiste. Una minaccia per il Pdl, che nel 2008 ha raccolto oltre metà dei voti nel Mezzogiorno e nel Lazio ma solo un terzo nel Nord padano. L'Udc, inoltre, nel Nord fa concorrenza alla Lega. Nel 2006 è cresciuta nelle zone dove è calata la Lega. Viceversa nel 2008. Entrambe, d'altronde, attingono dall'antico bacino elettorale democristiano. A maggior ragione, l'Udc è alternativa alla Lega nei rapporti con la Chiesa e i cattolici. Perché la Lega è una "chiesa locale", che usa i riferimenti della religiosità popolare - la famiglia, il lavoro autonomo, il localismo - come base della propria ideologia. Mentre l'Udc continua a riproporre l'antico modello collaterale. Partito al servizio degli interessi e dei valori della Chiesa. Un'ipotesi che sta raccogliendo nuova attenzione negli ambienti ecclesiali, dopo le tensioni recenti.

D'altra parte, nel 2007 Berlusconi respinse la "pretesa" dell'Udc di presentarsi con il proprio marchio. Come la Lega. Perché la Lega, più ancora di Berlusconi, non l'avrebbe accettato.

Oggi Casini guarda al di là del proprio "piccolo centro". Scommette sul declino del bipolarismo tradizionale per attrarre altri settori e altri leader politici. Ma anche del mondo imprenditoriale e associativo. Conta sulle difficoltà del Pd, impigliato in un percorso congressuale lungo. Che ne sta logorando l'identità e ancor più la leadership. Mentre il Pdl è ormai totalmente risucchiato - e sperduto - nelle vicende personali del suo leader.

La collisione Bossi e Casini pare, dunque, inevitabile. In nome di un nuovo bipolarismo. Fra il Grande Nord e il Grande Centro.

(14 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il premier in stile Andy Warhol
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2009, 04:03:23 pm
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Il premier in stile Andy Warhol


di ILVO DIAMANTI


È arduo separare Berlusconi dalla sua immagine. E quindi dai media. In particolare, dalla televisione. Imprenditore, attore politico e mediatico al tempo stesso. "Il" protagonista della scena nazionale. Tuttavia, non ci è mai capitato di vederlo tanto spesso come negli ultimi mesi. Usare argomenti e toni così violenti, con altrettanta continuità. Deciso a rispondere colpo su colpo ai "nemici". Ai farabutti che si annidano nei giornali di partito e soprattutto nei giornali-partito.

Per difendersi da questa "Repubblica dei veleni". L'unica opposizione che egli tema. Perché ne minaccia l'immagine. Non l'abbiamo mai visto così presente in tivù. In modo diretto ma anche indiretto: nei discorsi degli altri. Amici e nemici.

Non abbiamo dati empirici, al proposito. Ma siamo certi che chi ne dispone confermerebbe le nostre impressioni. D'altronde, nell'era della comunicazione e della personalizzazione, Berlusconi, come ha osservato Giuliano Ferrara sul Foglio (echeggiando David Brooks, columnist del New York Times), interpreta e incarna l'idealtipo dell'individualismo espressivo. E - aggiungeremmo noi - aggressivo. Ne è "il più grande e clamoroso campione in Europa e forse nel mondo". Iperpresente. Anche perché agisce in Italia, dove dispone dei mezzi - meglio: media - che servono al fine. In primissimo luogo le televisioni. Leadership del governo e del partito di maggioranza. Il Partito Mediale di Massa. Si tratta di un mutamento sostanziale rispetto alle precedenti vite vissute da Berlusconi, nel corso della seconda Repubblica.
Segnate da alti (gli anni della discesa in campo) e bassi (il periodo del limbo, fra il 1996 e il 1998, quando molti, compresi gli amici, lo davano per finito). Sempre attento a marcare le distanze dal mondo. Dai nemici e ancor più dagli amici. Anche durante la precedente esperienza di governo, dal 2001 al 2006.
Quando a discutere in tivù con l'opposizione delle piccole cose del nostro piccolo paesino mandava i suoi consiglieri, avvocati, consulenti. I leader alleati. Mentre Lui volava alto. Tra i grandi della terra a cui dava e dà del tu. Per 10 anni: nessun confronto aperto in televisione. Sino al 2005, quando decide - a sorpresa - di recarsi a Ballarò, nella tana del nemico, dopo il disastroso risultato delle elezioni regionali. E prosegue nella campagna elettorale del 2006. Presenza fissa della tivù. Dovunque. A sfidare tutti e soprattutto Prodi, vincitore annunciato. Per rovesciare le previsioni. Per dimostrare che Lui non ha paura. Da allora non ha più smesso. Si è trasferito stabilmente sugli schermi. Nella breve stagione del governo Prodi: per ripetere che era abusivo. Infine, dopo la vittoria elettorale del 2008, ha deciso di impersonare governo e maggioranza. Da solo. E negli ultimi mesi la sua presenza è divenuta ancora più frequente. La sua retorica: ancora più aggressiva. È un uomo solo, il premier. Solo contro tutti. O almeno come tale agisce.
Per almeno tre ragioni.

1) Gli scandali sollevati intorno alle sue frequentazioni femminili lo irritano e gli creano disagio. Quasi più delle polemiche sul conflitto di interessi e dei problemi con la giustizia. Perché - appunto - ne incrinano l'immagine pubblica-privata. All'estero, ma anche in Italia. Come è emerso alle elezioni europee. Il cui risultato, rispetto alle premesse e alle (sue) promesse, è apparso deludente.

2) La sua maggioranza è divisa da rivalità politiche, personali e territoriali. Inoltre, Gianfranco Fini non perde occasione per sfidarne la leadership. Non solo in ambito istituzionale. Anche nel centrodestra e nel Pdl.

3) L'opposizione politica: chi l'ha vista? La sinistra radicale è quasi svanita. Di Pietro e l'Idv sono stranamente scomparsi dai media. Il Pd si è preso una vacanza congressuale ed esercita la propria opposizione al proprio interno piuttosto che contro il governo.

L'unica vera opposizione che disturbi il premier, per questo, giunge dai media. I pochi media che lo incalzano. Scavano nella sua vita pubblica e privata. Che poi è lo stesso.

Così la presenza mediatica del premier si è dilatata all'infinito. Egli è dovunque. Nelle occasioni pubbliche. Anche - e soprattutto - le più dolorose. I luoghi del terremoto e le esequie dei militari caduti in Afghanistan. Quando fra gli italiani prevale lo spirito unitario. Conta sull'effetto seriale. L'assuefazione a un format che si ripete, puntuale, un giorno dopo l'altro. Ma, al tempo stesso, asseconda il suo - personale - "individualismo espressivo" (e aggressivo). Che, tuttavia, comporta anche qualche conseguenza non voluta.

a) In primo luogo: il fastidio, la ripulsa. Perché quando è troppo è troppo. E allora quando si presenta a Porta a Porta, in un palinsesto rivoluzionato a sua misura, molti cambiano canale. Meglio la fiction vera. Meglio (molto meglio) la Juve. Oppure fanno qualcos'altro.

b) In secondo luogo: la patologia del rumore. In mezzo a polemiche tanto violente per farsi sentire occorre urlare più forte. Sparare cannonate. Minacciare di nuovo la secessione. Gridare al golpe. Alla sinistra parassita che vada morire ammazzata. Con il rischio che, presto, tutti divengano sordi. Che, molto presto, evocare la secessione e la morte solo a parole - per stupire - non basterà più.

Ma il rischio maggiore di questa strategia iperrealista - che identifica la realtà con la sua immagine - è la dissociazione. Fra realtà mediale e reale. Scoprire che la vita - politica e sociale - è diversa dalla sua narrazione mediatica. Che la crisi, espulsa dagli schermi e dal linguaggio mediatico perché disfattista, in effetti: esiste. Che la disoccupazione: esiste. Che l'insicurezza, bandita dai tiggì: esiste. Che il paese, unito a reti unificate: è diviso. Che l'immagine del premier, riprodotta e moltiplicata, in molti, diversi colori, come un'opera di Andy Warhol: non basta.
La realtà italiana è troppo complessa per venire rappresentata da un monoscopio.

(21 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il movimento dei farabutti
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2009, 10:59:34 am
Rubriche » Bussole
     
Il movimento dei farabutti

Ilvo Diamamnti.


STRANI giorni.
Chi avrebbe mai immaginato che l'opposizione, per trovare senso, parole e significato dovesse ispirarsi a Berlusconi? Non ci riferiamo a ieri. Perché è noto che i partiti di centrosinistra hanno da tempo imitato il modello espresso dal premier. Hanno abbandonato il territorio e la partecipazione per tuffarsi nei media e soprattutto nella tivù. In nome della personalizzazione e del marketing. Con risultati, fino ad oggi, modesti.

Ci riferiamo, invece, a oggi: alla "nuova" opposizione dei nostri giorni. In larga parte "suggerita" - e ispirata - proprio dall'esperienza politica di Berlusconi. Assistiamo, da un lato, al rovesciamento del meccanismo che ha tradotto il privato in un fatto pubblico. Politico. Fino a ieri: usato dal leader del PdL (prima, di FI) per coltivare consenso e di fiducia. Oggi: dagli avversari politici contro di lui. Privato e pubblico, retroscena e ribalta. Tutt'uno. A flusso continuo.

D'altro canto, il confronto politico si è spostato - totalmente - sui media. Che sono divenuti l'unico vero campo di battaglia politica. Tivù e stampa. Stampa e tivù. Giornali e tele-giornali. Opposti fra loro. Visto che le informazioni in tivù, in molte reti, sono filtrate. Con l'alibi di non sovrapporre pubblico e privato. Politica e gossip. Come se fossero cose diverse. Come se la ribalta e il retroscena fossero ambienti separati. (Come se le interviste "politiche" del premier non fossero ospitate da Chi e annunciate in copertina da foto di famiglia. Nonno Silvio insieme a figli, figlie e nipoti).

Da ciò l'ostilità di Berlusconi verso la stampa. E verso i giornalisti della carta stampata. In particolare (ma non solo) verso un giornale. La Repubblica (dei veleni). Che si trova, più che dalla parte dell'opposizione, a fare l'opposizione. Scavando nel privato-pubblico del premier. Il quale è bersaglio ma anche attore di ogni polemica. Che concorre a rilanciare e a moltiplicare. D'altronde, sarebbe difficile ricordare le precise, specifiche vicende che lo riguardano se non fosse per la sua determinata scelta di ribattere colpo su colpo. Anche perché in tivù quasi non se ne parla. Perché è Berlusconi a scrivere l'agenda politica. A determinarne i temi e il linguaggio. Senza, però, riuscire a controllarne sempre le conseguenze. Tanto che egli stesso contribuisce a promuovere l'opposizione. Non solo: ne suggerisce le esperienze e le novità. Dà loro nome e significato. È il caso dei "farabutti". Da cui il premier si sente circondato, "sulla stampa, in tivù e nella politica", come ha affermato a Porta a Porta. Farabutti.

L'insulto si è trasformato subito in un segno di riconoscimento, per un numero crescente di persone. Che hanno affollato uno spazio appositamente dedicato dall'edizione online di Repubblica. Dove, un giorno dopo l'altro, migliaia di persone hanno inviato e continuano a inviare la propria foto. Al posto del nome, la scritta: farabutto. Esibita orgogliosamente come un marchio. Una sorta di movimento di opposizione cresciuto dentro a quello che il leader considera il principale soggetto di opposizione. Se scorriamo le pagine dell'album fotografico, in continua evoluzione ed espansione, possiamo cogliere alcune informazioni utili a definire il profilo, non solo fisiognomico, ma sociale, culturale e politico di questa popolazione. Senza pretese, ovviamente, di rigore scientifico. Ci sarà tempo per analisi più raffinate.

Anzitutto, si tratta perlopiù di giovani. Spesso di giovanissimi. Accanto a molte persone adulte e di mezza età. Molto poche della mia generazione: "anziani" che si ostinano a definirsi giovani (non è il mio caso). Poi: vi sono molte donne. Anzi: più donne che uomini. I "farabutti" si presentano raramente da soli. Qualche volta in coppia, ma quasi sempre in gruppi più numerosi. A volte intere famiglie. Diverse generazioni riunite. Genitori, figli di età diverse. Qualche volta i nipoti. Questo fenomeno riflette diversi linguaggi e diversi tipi di azione. È all'incrocio fra il movimento e il social network. Fra i girotondi e Facebook. Tra la manifestazione di piazza e Twitter. Unito da un comune obiettivo: la libertà di informazione. Ma esprime, al tempo stesso, una domanda di opposizione. Aperta e condivisa. Orientata dal "mezzo" di cui si serve. La rete.

Permette di esserci, di esprimersi, con la propria faccia, con il proprio gruppo di riferimento. Senza censure. I "farabutti", d'altronde, sono competenti nelle tecnologie della comunicazione. Sono quelli che navigano in internet, si scrivono per e-mail, chattano attraverso Messenger e si parlano con Skype. Quelli che propongono il loro profilo su Facebook, dove coltivano relazioni vecchie e nuove. Quelli che guardano Fazio, la Gabanelli, Floris e la Dandini. Quelli di (centro) sinistra. Lettori di Repubblica (e non solo).

Una comunità specifica.
Larga e stretta al tempo stesso. "Esuli". Del Pd, in cui faticano a riconoscersi. Di un paese nel quale stentano a sentirsi cittadini. Spaesati. Di incerta identità. Berlusconi ha contribuito a dar loro un nome. Farabutti. Un titolo - rivendicato con tono di sfida che alcuni perfezionano aggiungendo: "coglioni" (così, nel 2006, Berlusconi definì gli imprenditori intenzionati a votare per il centrosinistra). E altri ancora: "fannulloni" (gli statali, secondo Brunetta). È il meccanismo mimetico che produce nuove forme di opposizione. Inventate, in modo involontario, dalla maggioranza. Dal premier e dai suoi consiglieri. Che forniscono a molte persone, a molti giovani, parole d'ordine ma anche senso di appartenenza. L'identità che i partiti di sinistra non riescono più a offrire. Tanto meno a imporre.

Il che suona come avvertimento e ammonizione.
Senza identità, senza bandiere, senza parole da dire. Senza simboli da esibire e senza riti da celebrare. Senza faccia e senza nome. Senza identità. Un soggetto politico non può esistere. Così, ci pensa Berlusconi. E quelli che un tempo si chiamavano - o si dichiaravano - "compagni", oppure "amici", oggi si chiamano - e si dichiarano - "farabutti". Etimologicamente: pirati. Che sfidano l'onnipresenza del Pmm - Partito mediale di massa - e del suo leader. Trasformano gli insulti in segni di riconoscimento. Parole che rendono meno opprimente l'afasia dell'opposizione.

(28 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Dal nuovo libro di Ilvo Diamanti, una riflessione su una società guardona che ..
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2009, 04:15:54 pm
IL SAGGIO

Occhiali

Dal nuovo libro di Ilvo Diamanti, una riflessione su una società guardona che si nasconde


E' in libreria il nuovo libro di Ilvo Diamanti, editorialista del nostro giornale e autore delle "Bussole", cliccatissima rubrica del nostro sito. Dal "Sillabario dei tempi tristi" (Feltrinelli editore), ecco un capitolo inedito.

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Nel mio vagone dell'Eurostar che da Roma mi conduce a Padova quasi tutti indossano occhiali neri. Uomini, donne e perfino i bambini. Di età diversa. Anch'io, d'altronde, ho gli occhi schermati dalle lenti scure. Certo, è un pomeriggio di giugno. La giornata è luminosa. In treno, poi, è facile assopirsi. Capita spesso. Mentre si legge oppure si ascolta musica con l'Ipod. Magari si fanno entrambe le cose insieme. Gli occhiali neri e l'Ipod servono a isolarti. Però, non occorre avere un'età troppo avanzata per accorgersi del cambiamento profondo e rapido annunciato da questo segno. Un paio di decenni, più o meno. Nel frattempo, la posta elettronica è divenuta un mezzo di comunicazione normale, per molta parte della popolazione. E il telefono cellulare ha invaso la nostra vita. Peraltro, rispetto al cellulare e alla posta elettronica (che insieme alla foto-videocamera, il riproduttore MP3 e molte altre funzioni oggi è riassunta dal cellulare) gli occhiali neri sono meno generazionali. Il loro uso è meno legato all'età, ma anche al genere e alla classe sociale. Perché, appunto, li portano tutti. Non solo i più giovani o i più istruiti oppure, ancora, quelli che abitano nei centri urbani. Ma tutti. Non è un caso che i negozi di ottica si siano evoluti così tanto in così poco tempo.

Non più centri specializzati, dove si acquistano occhiali con lenti adeguate ai "vizi" della vista. Naturale complemento dell'oculista. Ma megashop, Optical Store, dove gli occhiali coprono tutte le pareti. Decine di marche e di modelli. Che cambiano rapidamente, di mese in mese. Un tempo - quand'ero giovane perfino io - erano simboli di status. O meglio: marchi e etichette che evocavano un tipo sociale. Uno stile di vita. Li indossavano James Dean, Audrey Hepburn, Jacky Kennedy. E Clint Eastwood, quando interpretava l'ispettore Callaghan. Al posto del sigaro che gli permetteva, secondo Sergio Leone, di cambiare espressione. Come David Caruso, quando "è" Horatio Caine nel serial CSI Miami. Due sole espressioni: con oppure senza gli occhiali neri. Allora, anche in tempi non lontanissimi (la serie CSI si è imposta nell'ultimo decennio), gli occhiali servivano a distinguere, a vestire i panni di un personaggio. Erano la maschera con cui si affrontavano gli altri. Nella vita pubblica. Nelle relazioni sociali di ogni giorno. Un capo di abbigliamento o un taglio di capelli fra gli altri. Un giornale esibito, sotto il braccio. Diceva agli altri chi sei. Cosa pensi. Oppure: come vorresti essere. Come vorresti essere percepito dagli altri. A modo loro: un modo per comunicare e per socializzare. Ora non più. Gli occhiali neri li portano - e li portiamo - tutti. Non perché il giorno si sia allungato e la luce sia divenuta più invasiva. (Anche se è vero). Non perché l'aria, i pollini, le polveri fini abbiano diffuso le allergie a una quota di popolazione più ampia. (Anche se è vero).
D'altronde, gli occhiali neri si indossano solo di giorno e non solo in periodi e in luoghi "allergogeni". Ma dovunque e ogni ora. Gli occhiali neri (come, in fondo, l'Ipod) si usano non per "distinguersi", ma per "distanziarsi" dagli altri. Non solo una maschera, ma uno schermo fra sé e gli altri. Servono a vedere senza essere visti. A scrutare senza essere scrutati. Senza che gli altri possano vederti mentre gli scruti. Non servono a essere riconosciuti, ma a non farsi riconoscere. Non perché si cambi identità, ma perché si nascondono gli occhi. E gli occhi parlano di noi più di qualsiasi parola. Trasmettono e rivelano emozioni, sentimenti, paure. Il popolo degli occhiali neri è una folla di persone che vogliono vivere sole in mezzo agli altri. O meglio: come fossero da sole, ma insieme agli altri. Sempre alla finestra (sul cortile), dovunque e a ogni ora. Con poche pause e poche riserve. A casa propria, con i propri familiari, la cerchia delle persone più vicine. L'uomo che guarda senza essere visto pur sapendo che tutti gli altri lo guardano. Una società guardona e guardata al tempo stesso. Per paura degli altri, nasconde - e sta perdendo - gli occhi.

(9 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La leggenda del premier eletto dal popolo
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:20:39 pm
MAPPE

La leggenda del premier eletto dal popolo

di ILVO DIAMANTI


"Presidente eletto dal popolo". Così si definisce Silvio Berlusconi. Sempre più spesso, da qualche tempo. Per rivendicare rispetto dai molti nemici che lo assediano. Ma, al tempo stesso, per marcare le distanze dall'altro presidente. Giorgio Napolitano. Il Presidente della Repubblica. Il quale, al contrario, è "eletto dal Parlamento". Anzi da una parte di esso. Perché Napolitano non è "super partes", ma di sinistra. Come tutte le altre istituzioni dello Stato. Corte Costituzionale e magistratura in testa. Non garanti. Ma soggetti politici. Di parte. Per questo Berlusconi non ne accetta le decisioni, ma neppure il ruolo. In pratica: considera le istituzioni dello Stato - e quindi la Costituzione - inadeguate. Peggio: illegittime. Meno legittime di lui, comunque. Presidente eletto dal popolo.

Queste affermazioni, sostenute a caldo e a tiepido dal premier, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, si fondano su premesse discutibili, anzitutto sul piano dei fatti. Dati per scontati. Che scontati non sono.

Il primo fatto è che Berlusconi sia un presidente "eletto dal popolo". È quanto meno dubbio. Perché l'Italia non è (ancora) un sistema presidenziale. I cittadini, gli elettori, votano per un partito o per una coalizione. Non direttamente il premier o il presidente. Anche se, dopo il 1994, abbiamo assistito a una progressiva torsione delle regole elettorali e istituzionali in senso "personale". Senza bisogno di riforme. Così, nella scheda elettorale, accanto ai partiti e alle coalizioni viene indicato anche il candidato premier. (Come ha lamentato, spesso, Giovanni Sartori). Tuttavia, non si vota direttamente per il premier, ma per i partiti e gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per questo, non è un presidente eletto dal "popolo". Semmai dal "Popolo della Libertà". Da una maggioranza di elettori, comunque, molto relativa.

Alle elezioni politiche del 2008 il partito di cui è leader Berlusconi, il Pdl, ha, infatti, ottenuto il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Intorno a un terzo del "popolo", insomma. Peraltro, prima di unirsi con An, fino al 2006, il partito di Berlusconi era Forza Italia, che non ha mai superato il 30% dei voti (validi). Al risultato del Pdl si deve, ovviamente, aggiungere il 10% (o l'8%, a seconda della base elettorale prescelta) ottenuto dalla Lega. I cui elettori, però, non hanno votato per Berlusconi. Visto che al Nord la Lega ha sottratto voti al Pdl, di cui è alleata e concorrente. E quando ha partecipato al governo (come in questa fase) si è sempre preoccupata di fare "opposizione". Questa considerazione risulta ancor più evidente se si fa riferimento al risultato delle recenti europee. Dove si è votato con il proporzionale e con le preferenze personali. Il Pdl, il partito di Berlusconi, ha infatti ottenuto il 35,3% dei voti validi, ma il 33% dei votanti e il 21,9% degli aventi diritto. Lui, il Presidente, ha personalmente ottenuto 2.700.000 preferenze. Il 25% dei voti del Pdl, ma meno del 9% dei votanti. Il risultato "personale" più limitato, dal 1994 ad oggi.
Tutto ciò, ovviamente, non intacca la legittimità del governo e del premier. Semmai la sua pretesa di interpretare la "volontà del popolo".

D'altronde, si vota una volta ogni cinque anni, mentre i sondaggi si fanno quasi ogni giorno. Per cui, più che sul voto, il consenso tende a poggiare sulle opinioni.
Sulla "fiducia". Ma stimare la "fiducia" dei cittadini è un'operazione difficile e opinabile. Che non coincide con il consenso elettorale. Non si capirebbe, altrimenti, perché, se davvero - come sostiene Berlusconi - il 70% degli italiani ha fiducia in lui, alle recenti elezioni europee il Pdl si sia fermato al 35%, la coalizione di governo al 45% e le preferenze personali per il premier al 9% (dei voti validi).

La fiducia, inoltre, è difficile da misurare. Per ragioni sostanziali, ma anche metodologiche. Soprattutto attraverso i sondaggi. Dipende dalle domande poste agli intervistati. Dagli indici che si usano. Alcuni fra i principali istituti demoscopici (come Ipsos di Nando Pagnoncelli e Ispo di Renato Mannheimer) utilizzano una scala da 1 a 10, per analogia al voto scolastico. Per cui l'area della "fiducia" comprende tutti coloro che danno a un leader (o a un'istituzione) la sufficienza (e quindi almeno 6). Oggi, in base a questo indice, circa il 50% degli italiani esprime fiducia nel premier Berlusconi (le stime di Ipsos e Ispo, al proposito, convergono). Mentre a fine aprile, dopo il terremoto in Abruzzo, superava il 60%. Ciò significa che negli ultimi mesi la "fiducia" del popolo nel premier si è ridotta, anche se risulta ancora molto ampia. Tuttavia, anche accettando questi indici, un 6 può davvero essere considerato un segno di "fiducia"? Ai miei tempi, nelle scuole dell'obbligo - ma anche al liceo - era una sufficienza stretta. Come un 18 all'università. Che si accetta per non ripetere l'esame. Ma resta un voto mediocre. Basterebbe alzare la soglia, anche di pochissimo, un solo punto. Portarla a 7. Per vedere la fiducia nel premier (e in tutti gli altri leader) scendere sensibilmente. Al 37%. Più o meno come i voti del Pdl. Con questi dati e con queste misure appare ardita la pretesa del premier di parlare in "nome del popolo". Tanto più che, con qualunque metro di misura, il consenso personale verso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risulta molto più elevato. Fino a una settimana fa, prima della recente polemica, esprimeva fiducia nei suoi confronti circa l'80% degli italiani, utilizzando come voto il 6. Oltre il 50%, con una misura più esigente: il 7. Lo stesso livello di consenso raccolto dal predecessore, Carlo Azeglio Ciampi. Anche da ciò originano le tensioni crescenti tra il premier e il Presidente della Repubblica. Nell'era della democrazia del pubblico. Maggioritaria e personalizzata. Dove i media sono divenuti lo spazio pubblico più importante. E il consenso è misurato dai sondaggi. Nessuno è "super partes". Sono tutti "parte". Tutti concorrenti. Avversari o alleati. Amici oppure nemici. Anche Napolitano, soprattutto Napolitano. Per la carica che occupa e la fiducia che ottiene. Agli occhi di Berlusconi, impegnato a costruire la leggenda del "presidente votato e voluto dal popolo". Non può apparire amico.

© Riproduzione riservata (11 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Terra?
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2009, 09:18:43 am
Rubriche » Bussole
     
   Ilvo Diamanti 
     

Terra?
Sorprende la sorpresa di chi si sorprende. Che la terra ci manchi sotto i piedi. In occasione dei terremoti. Quando trema, si scuote e si squarcia. A l'Aquila. E prima ancora in molti altri luoghi. Perché il nostro terreno sobbalza sempre. Da sempre. Dappertutto. A Nord, nel Centro, nel Sud e nelle Isole. Dal Friuli alle Marche. Dall'Abruzzo alla Campania. Alla Sicilia.
La terra. Ci manca sotto i piedi. Quando piove più del dovuto. In modo torrenziale. Allora si scioglie e si sfalda. Slavina. Una palude che scorre. Invade tutto. Affonda case e strade. Persone. È avvenuto altre volte, tante volte, troppe volte. A Sarno, nel 1998. A Messina, nei giorni scorsi. Dove si continuano a contare le vittime e a cercare i dispersi. Anche dopo le esequie.

La terra manca sotto i nostri piedi. Palazzi e le case che sprofondano in voragini improvvise. Si apre un abisso e gli edifici scompaiono, insieme alle famiglie, alle persone, alle loro vite. E, ancora, i fiumi che debordano, i bacini che tracimano. Il Po. Il "diopo". Talora esce dagli argini che non arginano più. Come altri corsi d'acqua. Fiumi e torrenti. Tracimano, allagano, travolgono case che lì non ci dovrebbero essere.

Sorprende la sorpresa di chi si sorprende. Che la terra ci manchi sotto i piedi. La terra. In fondo, per molti di noi, molti italiani, la è un concetto astratto. Un modo di dire. Un sottinteso. Un malinteso. Come il cielo. Di cui non abbiamo esperienza, solo un'idea. (Anche perché lo vediamo sempre meno. Almeno a casa mia, vicino a Vicenza. Avvolto e nascosto da una velo lattiginoso. Non ha l'immagine tantomeno il colore di quel che si intende per "cielo". D'altronde, le colline, a 5-6 kilometri di distanza, certi giorni si indovinano solamente. Ombre nella foschia).

La terra. Non la vediamo più, la terra. Urbanizzata senza fine e senza limiti. Capannoni ovunque. E case, quartieri, edifici e villaggi. Nuovi. Abitati o disabitati da stranieri. Non importa se italiani. Persone che non si conoscono e non si frequentano. Capitate lì per caso. Per ragioni immobiliari. Quando si incrociano un cenno di intesa, un saluto frettoloso, buongiorno, come va? E poi dritto, ciascuno per la propria strada. E non c'è terra senza relazioni, senza vita sociale. Questo paese dove l'80% delle famiglie è proprietaria di una casa e il 20% di almeno un'altra. Dove il terreno edificabile è limitato. Ma è edificato in modo illimitato. Dove larghi tratti di costa sono occupati da stabilimenti balneari, ristoranti, disco, hotel, ville a picco; dove il verde resta tale solo nelle mappe elettorali della Lega.
Questo paese dove anche la politica nei luoghi della vita quotidiana non si vede più. Le sezioni e le manifestazioni locali: archeologia. Come il risorgimento e la Resistenza. Oggi tutto si è spostato in tivù. E sugli altri media. I partiti: riassunti dalla faccia dei singoli leader. Che non hanno bisogno di comizi, incontri, assemblee per farsi eleggere. (D'altronde, non ci sono più le preferenze. Gli eletti li decidono le segreterie di partito). I politici. Non fanno campagna elettorale porta a porta. Ma sgomitano per una serata a "Porta a Porta". Chez Vespà.

È davvero sorprendente che qualcuno si sorprenda ancora quando la terra ci manca sotto i piedi. Perché la terra non c'è più. È rimasta nel nostro linguaggio. Residuo di un passato veramente passato. Come le lucciole. Le diligenze. L'arcobaleno. I buoni sentimenti e la buona educazione. I partiti di massa. Le sagre di paese. Come "i bei film di una volta". Insomma: roba d'altri tempi. Quando eravamo più giovani, noi anziani.
La terra: ce ne accorgiamo solo quando sprofonda. Quando ci travolge e ci trascina. Quando ci spezza la vita e l'esistenza. Allora montano il dolore, il lutto, le polemiche e i rimpianti. E la terra ritorna. Riaffiora. Come un ricordo lontano. Una parola che pronunciamo. Un po' per abitudine. Un po' per nostalgia.

(13 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli italiani e MediaRai Meno fiducia nel Tg1
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2009, 03:58:17 pm
Nel sondaggio Demos-Coop emerge la fine della concorrenza tra network e la nascita di una sola entità.

Così la percepiscono i telespettatori

Gli italiani e MediaRai Meno fiducia nel Tg1

di ILVO DIAMANTI


FRA media e politica è ormai difficile distinguere. I ruoli si rovesciano. I comici, i presentatori, gli attori, i direttori di giornali e i giornalisti, gli editori sono spesso più importanti dei politici. E viceversa. I leader politici fanno spettacolo. Non sempre con successo. L'identificazione è quasi totale. Il Pdl è un esempio di Partito Mediale di Massa, guidato dal più importante imprenditore mediatico italiano. D'altra parte, come mostra l'indagine dell'Osservatorio di Demoscoop, oltre 6 italiani su 10 ritengono che questa situazione "condiziona l'andamento della politica".

E più di 1 su 2 - la maggioranza assoluta - pensa che danneggi la libertà di informazione. Tuttavia, anche queste opinioni risentono del cortocircuito mediatico-politico. Che, dal punto di vista dei mezzi di comunicazione, appare attraversato da tre fratture.

1. La più nota - e al tempo stesso più discussa - è tutta interna alla televisione. Indiscutibilmente, il mezzo più utilizzato per informarsi. Come fa, con cadenza quotidiana, oltre l'86% degli italiani. Cioè: quasi tutti. D'altronde, circa il 18% della popolazione (con più di 15 anni) passa più di 4 ore davanti alla tivù. Il 46% fra 2 e 4. Il tempo trascorso davanti alla televisione rende fragili i confini tra realtà e politica. Per cui, oltre le 4 ore di esposizione televisiva, la percezione del conflitto di interessi come vincolo per la libertà politica e dell'informazione diminuisce e, quasi, svanisce.
Comunque, nell'immagine politica dei notiziari e dei programmi di infotaiment (informazione e intrattenimento, miscelati) continua a pesare la distinzione fra Mediaset e le altre reti. Tutti i programmi e i notiziari di Mediaset sono apprezzati dagli elettori di centrodestra - e soprattutto del PdL. Al contrario quelli della Rai e ancor più delle altre reti: Sky e La 7, in particolare. Tuttavia, questa "frattura" appare meno profonda rispetto a due anni fa. In particolare perché l'identità delle due testate leader della rete leader di ascolti - la prima - si è spostata in modo significativo a destra. Ci riferiamo a Porta a Porta, condotta da Bruno Vespa, e al Tg1 diretto da Minzolini. Il quale, anche per questo motivo, ha perso terreno nella classifica della fiducia degli italiani. Superato dai Tg regionali, ma anche, dal Tg3, fra quelli nazionali. Il che spiega la definizione di RaiSet. O di MediaRai. Usata polemicamente per sottolineare la fine della concorrenza e della differenza tra network. Sostituita da una sola entità televisiva, condizionata dal premier e orientata da Mediaset. Il conflitto, semmai, attraversa la Rai, dove il gradimento per il Tg 3, Ballarò (ancora il programma più affidabile nel giudizio degli italiani) e Annozero si allarga fra gli elettori di centrosinistra. La caratterizzazione politica dei programmi più popolari, in tempi di crescente contrapposizione politica, ne ha peraltro ridimensionato il grado di fiducia, negli ultimi anni. (Inversamente agli ascolti). Mentre è significativa la crescita (+10%) di Report, di Milena Gabanelli. Che è un programma di inchieste scomode per tutti.

2. La seconda frattura attraversa i media stessi. Oppone, in particolare, il pubblico televisivo a quello dei quotidiani. Circa un terzo della popolazione, se si considerano i lettori assidui. I quali pesano - molto più della media - fra le persone adulte e anziane (oltre 45 anni) e tra quelle più istruite (al contrario dei teledipendenti). Mentre si eclissano - e quasi scompaiono - fra i giovani e soprattutto i giovanissimi (con meno di 25 anni). I quali non leggono più i giornali. Nel formato cartaceo, almeno. I lettori fedeli sono, politicamente, molto più orientati a centrosinistra. Sono sensibili al conflitto di interessi. Considerano, ovviamente, l'informazione dei giornali più libera di quella della televisione. E ciò riflette, in modo simmetrico, l'opinione del premier. Secondo il quale i giornali fanno informazione distorta - in particolare alcuni, che agiscono in modo eversivo. Mentre la televisione sarebbe più equilibrata. Con alcune eccezioni.

3. La terza frattura ha segno diverso dalle precedenti. Ed è nuova. La si coglie osservando com'è cambiata la frequenza nell'uso dei canali di informazione. Fra tutti gli strumenti utilizzati, due fanno rilevare una crescita esponenziale e significativa negli ultimi due anni. La componente di coloro che si affidano alle reti satellitari e al digitale terrestre è più che raddoppiata: dal 19% al 40%. Ma è cresciuta di un terzo anche la quota di persone che si informano, quotidianamente, attraverso Internet: dal 25% al 39%. La rete, d'altronde, è considerata il luogo (!) più libero. In cui si sperimentano pratiche di democrazia e di partecipazione diretta. Il pubblico di questi due media in parte si sovrappongono, ma hanno caratteristiche distinte. In particolare, gli internauti pesano molto più della media fra i giovani e i giovanissimi, fra le persone più istruite - e quindi fra gli studenti, i dirigenti, i professionisti. Leggono i giornali ma guardano la televisione meno degli altri. Sono maggiormente diffusi a sinistra e a centrosinistra, ma soprattutto fra gli elettori della sinistra radicale e della Lista Di Pietro (sostenuti dal "popolo" di Grillo).

La guerra mediatica, dunque, coincide con la guerra politica. E la libertà politica coincide con quella mediatica. La crescente importanza che stanno assumendo Internet, le tivù satellitari e il digitale permettono - e permetteranno - maggiore autonomia e nuovi spazi agli attori politici e sociali. Tuttavia, la televisione e i giornali sono ancora (e tali resteranno a lungo) luoghi di formazione e informazione politica importanti. Per quel che riguarda la tivù: il più frequentato dai partiti e dai loro leader. Per questo oggi questione mediatica e democratica sono indistinte. E indistinguibili.

© Riproduzione riservata (19 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI Quel patrimonio di tre milioni
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2009, 07:02:19 pm
MAPPE

Quel patrimonio di tre milioni

di ILVO DIAMANTI


A primarie concluse, la prima reazione è di sollievo. E' finita. Questa lunga, estenuante, complessa maratona congressuale. E al di là di valutazioni di merito, è finita bene.

Senza contraddizioni sostanziali fra il voto degli iscritti e quello degli elettori, alle (cosiddette) primarie. Senza bisogno di ricorrere al ballottaggio. Oggi, finalmente, il Pd ha un segretario, Pierluigi Bersani. Ma soprattutto ha scoperto che può ancora contare su una base enorme. Quasi tre milioni di elettori e simpatizzanti. Che domenica hanno partecipato alle primarie. Nonostante tutto. Molti, rientrati dall'esilio, per una volta ancora.

Bersani, con il 54% dei voti validi, ha distanziato gli altri due candidati. Che, pure, hanno riscosso un buon risultato. Franceschini ha raccolto un terzo dei voti. Marino ha ottenuto il 12%, il 4% in più rispetto al voto degli iscritti. Il dibattito congressuale non ha prodotto grandi emozioni. Identità chiare. Parole-chiave. Spendibili sul mercato politico, come slogan, dall'intero Pd. Tuttavia, alla fine, resta l'immagine di questa grande partecipazione. Un investimento sulla fiducia. Che sarebbe irresponsabile dissipare (ancora).

Sugli elettori delle primarie vorremmo proporre alcune considerazioni. Provvisorie, come i dati forniti dal Pd. (Ieri sera alle 18: poco più di 2 milioni, circa tre quarti del totale, incompleti soprattutto per il Sud).

1. La prima riguarda la partecipazione complessiva stimata dal Pd. Circa 2 milioni e 800 mila elettori - anche calcolando la presenza di giovani oltre i 16 anni e gli immigrati regolari - sono tanti. Circa il 35% degli elettori alle europee. Più di un elettore su tre. Nonostante la delusione verso un partito disorientato. Un'opposizione incerta. Una leadership indefinita.

Le ragioni di una partecipazione così ampia sono diverse. (a) Anzitutto, per la prima volta, si è trattato di una competizione vera. Non era mai avvenuto prima. Nel 2005 le primarie erano servite a legittimare l'investitura dell'unico possibile candidato premier. Romano Prodi. Ma anche nel 2007 si sono trasformate in un plebiscito per Veltroni, visto che l'unico vero sfidante, Bersani stesso, dopo un primo momento, rinunciò. Stavolta, invece, i candidati si sono affrontati in modo serio e aspro. (b) Un secondo incentivo alla partecipazione è riconducibile alla lunga fase congressuale. Per alcuni versi, defatigante. Ha tuttavia costruito una rete di tifosi e sostenitori organizzata e diffusa in tutto il paese. (c) Il terzo motivo è che gli elettori di centrosinistra sono pronti a mobilitarsi, se si forniscono loro occasioni serie e ragionevoli ragioni. Come hanno fatto anche stavolta. Quasi per riflesso condizionato. Alcuni - più di quanti si pensi - per disperazione. Come estremo atto di fiducia. Per non lasciare nulla di intentato.

2. La seconda considerazione riguarda la distribuzione territoriale della partecipazione alle primarie. Il cui dato è condizionato dall'andamento dello spoglio, incompleto e lungo. Soprattutto in alcune aree. Calcolata sul voto alle europee dello scorso giugno, raggiunge il massimo nelle zone rosse e nel Nordest. La partecipazione appare rilevante anche al Sud (dove, tuttavia, lo spoglio procede a rilento). Mentre è più ridotta nel Nordovest e nelle regioni centromeridionali: Lazio, Abruzzo e Molise. Le regioni del Nord sono quelle dove la partecipazione alle primarie appare più ampia rispetto agli iscritti. Soprattutto il Nordest. Mentre la partecipazione nelle zone rosse è coerente con la media nazionale (superiore di circa due volte e mezza agli iscritti). Infine, è più bassa nel Centro-Sud e nel Sud e nelle Isole. Questi indici suggeriscono diversi tipi di orientamento politico. Nelle regioni del Nord, in particolare, sottolineano l'importanza del voto di opinione. Espresso da elettori disposti a sostenere il Pd, ma senza atti di fede. Nelle regioni rosse, invece, la partecipazione alle primarie si è appoggiata, anche in questa occasione, alle tradizionali reti di appartenenza partitica. Nel Sud e nel Centrosud, infine, sembrano aver pesato maggiormente i meccanismi del voto personale e delle lobbies localiste. Mentre la mobilitazione sollecitata da motivi di identità e d'opinione appare meno propulsiva che altrove.

3. La terza osservazione riguarda il voto ai candidati. La base elettorale più caratterizzata è certamente quella di Marino. Che ha ottenuto i livelli più elevati nelle regioni del Nord e nelle province metropolitane (sempre oltre il 15%). Bersani, il vincitore, ha raggiunto il 60% nelle regioni del Sud (oltre il 70% in Calabria) e delle Isole. Ma ha conseguito un buon risultato anche nel Nordovest e nelle zone rosse. Ha peraltro vinto in quasi tutte le regioni. Il che ne legittima ulteriormente il successo. Franceschini, infine, appare il più "trasversale", dal punto di vista della distribuzione territoriale dei consensi. In grado di intercettare circa un terzo dei voti dovunque.
Mancano, per ora, dati sulla composizione sociale e anagrafica degli elettori. Ci fidiamo dell'esperienza diretta - nostra e dei nostri "testimoni privilegiati". Raccontano di una base adulta e anziana, ma con un'ampia presenza femminile. I giovani si sono visti di meno. Ma abbiamo l'impressione che si tratti di un problema più ampio. Demografico oltre che culturale. Si vedono poco perché sono pochi.

Finita questa infinita maratona congressuale, il maggiore partito di opposizione potrà finalmente fare opposizione. Se ne sarà capace. Oggi ha un segretario, legittimato dal voto degli iscritti e degli elettori. Ma soprattutto: le primarie gli hanno restituito una base ampia. Milioni di persone. Vere. Pronte a uscire di casa e a cercare un seggio provvisorio, presidiato da militanti. Per votare. Dopo aver pagato una somma, per quanto piccola.

Un'indicazione importante - sorprendente - al tempo della democrazia del pubblico. Dove è convinzione condivisa, anche nel centrosinistra, che lo spazio politico coincida con quello mediatico. In particolare con la televisione. La partecipazione alle primarie rammenta che la politica si può (vorremmo dire: si deve) fare anche sul territorio. Anche nella società. Per il PD, un'avvertenza utile. Forse l'ultima.

© Riproduzione riservata (27 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il bar dei giovani senza fissa dimora
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2009, 04:36:16 pm
Rubriche » Bussole

Ilvo Diamanti
     
Il bar dei giovani senza fissa dimora


Un'amica che insegna ad Architettura mi ha interpellato, giorni fa, per sottopormi un problema. Nelle ore dedicate a Laboratorio, come ogni anno, ha proposto agli studenti un esercizio di progettazione. In questo caso: un bar. Da organizzare, negli spazi e negli arredi, secondo gli stili di vita e di consumo della loro generazione.
Ha incontrato subito imbarazzo, più che perplessità. Come di fronte a un'ipotesi improbabile. Chessò: organizzare un torneo di calcio per i ragazzi del quartiere in un cortile. Quasi che i cortili esistessero ancora. Oppure, servissero a stare insieme, giocare, parlare, incontrare altre persone. Naturalmente non è così.
I cortili servono ormai da parcheggi. La gente vi si ferma solo per transitare verso l'ingresso del condominio. Per rientrare a casa il più presto possibile. Quando si incontra un'altra persona perlopiù ci si limita a un saluto frettoloso. Buongiornobuonaseracomeva? Poi ciascuno per la propria strada. Tanto non si conoscono.

Così i bar. Non sono più quelli di una volta. Dove si passava il tempo - dentro - a parlare, giocare, bere, fumare. Guardare la tivù. Intorno ai tavoli, al biliardo.
I bar come riferimento sociale e territoriale, a cui si affidava la propria identità. Perché a ogni bar corrispondevano un gruppo oppure molti gruppi caratterizzati da comuni modelli di valore oppure da comuni gusti - in fatto di musica, motori, calcio. Ma anche da comuni orientamenti politici e ideologici.

Quei bar non ci sono più. Perché, anzitutto, i giovani non hanno più "un" bar di riferimento. Perché non hanno più uno specifico modello culturale, di consumo oppure politico che li definisca. Perché non hanno più una sola compagnia con cui trascorrere il tempo. Perché non hanno una identità con un solo centro e una sola cerchia sociale di riferimento. I giovani - e soprattutto i più giovani - hanno, perlopiù, piccoli gruppi amicali, di poche persone. Spesso non esclusivi.
Nel senso che frequentano persone diverse.

Appartengono a gruppi diversi. Per cui non ha senso fermarsi in un bar, ma neppure in un luogo specifico. Ne visitano, invece, molti dove incontrano persone e gruppi diversi. Per cui lo spazio dei bar è molto spesso rivolto all'esterno, più che all'interno. Un bancone, gli amplificatori che sparano musica, tavolini e sedie fuori, sui marciapiedi o sulla piazza. Ma in molti casi i giovani restano in piedi. A bere, chiacchierare, ridere, mangiar qualcosa. Poi si spostano altrove. Sempre in piccoli gruppi oppure da soli.
A casa di qualcuno oppure al cinema. O in un altro bar, dove incontrano altri gruppi di giovani. Poi, dipende dagli orari. Dai giorni. Se è festa o vigilia di festa.
Se è mattino, pomeriggio, notte. Sono luoghi di passaggio, i bar. Non centri di aggregazione e di socialità. Stazioni disposte lungo itinerari complessi, che raffigurano bene la complessa (ricerca di) identità dei giovani. Un'identità mobile e - necessariamente - incerta. I bar, come i social network, Facebook oppure Twitter, sono pagine dove si cercano amici, con cui si dialoga. Diverse pagine, costruite da persone diverse, talora intorno a un obiettivo, un proposito, una parola d'ordine.
Dove incontri persone note, altre meno note, altre del tutto sconosciute. Che tali restano, anche se ti propongono il loro profilo.

I bar si sono adeguati in fretta a questi cambiamenti sociali. Il mercato, del resto, è sempre pronto e rapido a trasformare le novità culturali sul piano dei consumi.
I bar oggi non sopportano una clientela (troppo) fissa e soprattutto (troppo) stabile e stanziale. La loro offerta varia di continuo, a seconda dell'ora e del giorno. Pasticceria, macchiatoni e cappuccini per la prima colazione, poi, a metà mattina, spuntineria e all'ora di pranzo, fast food, paninoteca. Per diventare, a tardo pomeriggio e fino a sera inoltrata, luogo di happy hour, che accompagna l'aperitivo ma può anche sostituire la cena. Infine, più tardi, cambia ancora. È semi-discoteca, pub, birreria. Dalla mattina a notte inoltrata: molti bar nello stesso bar. E molte persone diverse, molti giovani diversi, da soli o in compagnia. Per cui progettare un bar "dedicato" non ha senso. È come progettare una dimora fissa per i nomadi. E i giovani, i più giovani, in fondo, sono una generazione nomade. Senza fissa dimora. Anche se risiedono a lungo, molto a lungo, nella casa dei genitori. Ma sono sempre di corsa, sempre di passaggio. Senza territorio. Non hanno un posto fisso - non ci riferiamo solo al lavoro.
E, forse, neppure lo cercano. Per ora, almeno. Domani chissà.

Però domani è troppo avanti, troppo in là, troppo futuro, per una società - e una generazione - dove il futuro, più che imprevedibile, è imprevisto.

(6 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - I partiti personalizzati svuotano la democrazia
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2009, 05:20:58 pm
POLITICA    MAPPE


I partiti personalizzati svuotano la democrazia


di ILVO DIAMANTI

Mentre ieri l'Assemblea del Pd proclamava Pierluigi Bersani segretario del partito, Rutelli se n'era già andato, insieme ad altri ex-democratici. Anche se non è chiaro dove approderanno. Nell'orbita dell'Udc, probabilmente. Ne è convinto Casini, che ha preconizzato, per il proprio partito, il raddoppio della base elettorale. Anche se i sondaggi, per ora, non hanno rilevato variazioni nelle stime di voto dell'Udc e del Pd. Il quale appare, anzi, in crescita.

L'Udc diverrebbe, in questo caso, un partito diverso. D'altronde, è una fase incerta, che coinvolge non solo Rutelli e Casini, il Pd e l'Udc, ma il sistema politico italiano nell'insieme. Scosso da tensioni trasversali agli schieramenti e ai partiti. Basta rammentare la turbolenza che investe, in questa fase, l'Idv, dove la leadership di Antonio Di Pietro subisce la concorrenza di Luigi De Magistris. Anche nell'altro versante, però, si colgono alcune crepe. Nel Pdl cresce l'insofferenza di alcuni leader nei confronti del protagonismo e delle scelte di Tremonti. E, parallelamente, cresce l'insofferenza di Tremonti verso le pretese degli altri ministri di condizionarlo - e di ridimensionarlo. Avvisaglie - per alcuni versi - della "guerra di successione" (preventiva) a Berlusconi. Perfino nel regno monocratico della Lega emerge una timida ricerca di autonomia personale rispetto alla leadership di Bossi.

Questi casi, profondamente diversi, riflettono l'equilibrio instabile del sistema politico italiano, dove è difficile - quasi impossibile - distinguere le persone dai partiti e i partiti dalle persone.
Rutelli, per ora, è un leader senza partito. Alla ricerca di un partito. Senza movimenti, fondazioni, comitati oppure liste che lo sostengano. Mosso da intenti che meritano rispetto. Ma vaghi. L'accusa rivolta al Pd, di essere il Pds senza la "S", evoca un rischio concreto. Tuttavia, il richiamo a un soggetto politico riformista e moderato è un po' generico. Tutti in Italia - salvo la sinistra radicale ormai fuori gioco - si definiscono tali. Riformisti e moderati. Inoltre, pare difficile che il riferimento ai valori gli permetta di attrarre gli elettori cattolici del Pd. I quali, peraltro, non sono troppo sensibili al richiamo della Chiesa, su questi temi.

Anche l'Udc, a cui Rutelli guarda con interesse (ricambiato), è un "partito personalizzato". Riassunto, a livello nazionale, da Casini. Altri leader, come Tabacci, godono di ampio credito, al di là dei confini del partito. Ma, per questo, non lo rappresentano e non lo identificano. D'altronde, il distacco dell'Udc dal centrodestra nasce dal rifiuto di Casini di confluire nel Pdl nel dicembre del 2007. Per non recitare, in eterno, la parte della "giovane promessa" (felice formula di Edmondo Berselli). Per non sparire, insieme all'Udc, nel PMM, il Partito Mediatico di Massa. Casini, allora, preferì spostarsi al centro. Cioè: alla periferia del sistema bipolare. (Aiutato da Bossi e dalla Lega). Mentre Fini si "ritirò" a Montecitorio. Visto che il gruppo dirigente di An, in larga maggioranza, non avrebbe accettato di sfidare il Cavaliere. Fini. Altro leader senza partito. Interpreta il ruolo di presidente della Camera da protagonista politico.

L'Udc, tuttavia, non è un "partito personale" (secondo la definizione di Mauro Calise). Non è il Pdl e neppure la Lega. È una rete di gruppi personali e di interessi locali. Un arcipelago sopravvissuto alla scomparsa del continente democristiano. Casini offre loro un'immagine comune. Una regia nazionale. Il riferimento all'identità cattolica, peraltro, è importante, ma non "distintivo". D'altronde, la Chiesa, per tutelare i propri valori e interessi, preferisce agire in proprio. Rivolgersi ai partiti maggiori e soprattutto al governo. Non alle formazioni minori. L'Udc, per questo, è un partito " personalizzato". Orientato dalle strategie personali del leader, ma anche da quelle dei gruppi dirigenti locali e della base elettorale. Per metà, insediata nel Centrosud. Zone di forza: Sicilia e Calabria. Per questo, l'arrivo di Rutelli ne può accrescere la visibilità. Il peso politico. Ma non i voti. Non più di tanto, comunque, fino a quando resterà in vigore questa legge elettorale - ironia della sorte: voluta dall'Udc - che premia le coalizioni e schiaccia chi sta in mezzo.

Nell'Udc crescerà , semmai, la concorrenza "personale". D'altronde, nel Pd, Rutelli era divenuto "periferico", dopo la sconfitta nell'elezione a sindaco di Roma, un anno e mezzo fa. E dopo la vittoria di Bersani al congresso e nelle primarie del Pd. Afflitto anch'esso dal dualismo fra partito e persone. Ma in senso contrario rispetto agli altri casi. Perché il Pd tende ad apparire oggi una sorta di "partito impersonale". Il che non è un male, se ci si riferisce a un partito non ridotto a una sola persona; dove il peso organizzativo e associativo è più importante del leader. Ma la definizione suggerisce dell'altro. Un'identità politica pallida. Oltre al sospetto che il potere effettivo di Bersani - per quanto legittimato dal voto degli iscritti e dei simpatizzanti - sia condizionato, nel retroscena, dai soliti noti.

La politica personale - o impersonale - rende, dunque, vulnerabile soprattutto il centro-sinistra. Nell'altro versante, il rapporto fra partito e persona è diretto. Berlusconi, in particolare, non è solo il leader unico del Pdl. Ma "impersona" l'ideologia condivisa dagli elettori. Dove pubblico e privato si confondono, nell'esercizio e nella "messa in scena del potere", attraverso i media, che egli stesso controlla. Nell'Idv, al contrario, Di Pietro, oscurato da mesi in tv (e non solo per volontà della destra), ha perso consenso e fiducia popolare. Mentre la concorrenza di De Magistris sta logorando le fondamenta (personali) del partito.
Questa seconda Repubblica. Ridotta a un catalogo di combinazioni tra partiti e persone. Partiti personali, personalizzati e impersonali. Accanto a persone senza partito e in cerca di partito. Evoca una democrazia povera. (Povera democrazia!). Di idee e di identità. Di passione e partecipazione. Speriamo che passi presto.

© Riproduzione riservata (8 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il neo-anticomunismo personaggi e interpreti
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2009, 10:36:04 am
POLITICA

       
Il neo-anticomunismo personaggi e interpreti

di ILVO DIAMANTI


È proprio vero che le ideologie sono finite? Dissolte insieme al muro di Berlino, vent'anni fa? In parte sì. Ma solo in parte. Perché resistono ancora. Anche se ridotte a parole e immagini, sedimentate nel senso comune. E interpretate dai leader politici.

Personalizzate, come tutta la politica, in quest'epoca senza partiti - dove i partiti sono, comunque, entità flou.

In questo "paese personale". È il tempo dell'anticomunismo senza il comunismo. In cui il "comunismo" ritorna come un mantra, nei discorsi del premier, dei suoi ministri, degli uomini del suo governo. Proprio - e tanto più - perché non c'è più. Ma serve. Come ha confessato Confalonieri a Sabelli Fioretti sulla Stampa: "È un ottimo argomento di vendita". Utile a catalogare gli Altri, quelli che stanno a centrosinistra. Ma anche al centro, perfino a destra. Comunque: a est del muro di Arcore che ha sostituito quello di Berlino. Dove si stende la terra del neo-comunismo. Costellata di riferimenti reali ad alto contenuto simbolico e di simboli ad alto contenuto realista. Recitati ad alta voce da testimonial e leader d'opinione. Gli ideologi del neo-anticomunismo (senza il comunismo). Che colgono fratture antiche e latenti e le proiettano nel presente. Con un linguaggio e argomenti popolari. Parole gridate, sempre più forte, secondo le regole della "politica pop".

Pensiamo, in primo luogo e soprattutto, al ministro Brunetta. Onnipresente sui media. Sempre alla ricerca della provocazione. Buca lo schermo. Suscita, per questo, grande consenso, ma anche ostilità. Nel suo stesso governo. (Com'è avvenuto di recente con Tremonti). Il suo marchio è la missione contro l'inefficienza della pubblica amministrazione. Contro i "fannulloni" che vi si annidano. Nell'intento - meritevole - di premiare i meritevoli. Con l'esito - non involontario - di coniare un'etichetta onnicomprensiva e indelebile, per chiunque insegni oppure operi negli uffici pubblici. Condannato, ora e sempre, a una carriera da "fannullone".

Altra figura importante - e popolare - è la ministra Gelmini. Si occupa della scuola e dell'università. Persegue, in modo determinato, l'obiettivo di ridurre gli sprechi e aumentarne l'efficienza. Anche la riforma dell'università, appena presentata, segue un disegno virtuoso. Introdurre criteri di qualità ed efficienza: nell'offerta formativa, nell'insegnamento, nel reclutamento, nell'organizzazione. Ma appare mossa da una preoccupazione dominante - anche legittima, per carità. Destrutturare il sistema di potere fondato sul ruolo dei professori ordinari. Disarmare i famigerati "baroni". Senza chiarire cosa dovrà diventare, questa università. Scossa da un processo di riforma continua. Da oltre 10 anni. Con una sola costante: la riduzione continua di risorse destinate all'università e alla ricerca. Prevista, puntualmente, anche da questa finanziaria. Con il rischio che, insieme ai baroni, affondi anche l'università. La meno finanziata di tutti i paesi dell'Ocse.

La scuola, l'università, la burocrazia, insieme, definiscono il regno della sinistra. Che ancora oggi attinge i suoi consensi maggiori proprio in quest'area sociale. Nell'impiego pubblico, fra gli insegnanti e nelle professioni intellettuali. Gli intellettuali.

Invece, il neo-anticomunismo rappresenta il mondo di "quelli che lavorano sul serio". Interpretato efficacemente dal ministro Sacconi. Spietato con gli ex-comunisti o presunti tali. Con la Cgil. Il sindacato comunista. (E chi lo è stato in passato è destinato a rimanerlo per sempre). Accusato di agire ispirato da pregiudizio politico più che dagli interessi dei lavoratori. I suoi iscritti operai, d'altra parte, resistono solo nelle grandi fabbriche. Quasi estinte. Oppure sono pensionati. Ex lavoratori che non lavorano più. Assistiti dallo Stato. Anche per questo votano prevalentemente a sinistra.

Contro la sinistra pubblica e intellettuale agisce la Lega popolana e plebea. Immersa nel territorio delle piccole imprese. Ma anche nelle campagne. Come rammenta Zaia. Ministro dell'Agricoltura. Un drago della comunicazione. Contadino fra i contadini, allevatore fra gli allevatori. Anche se non è mai stato né l'uno né l'altro.

È su questa linea di demarcazione che è stato costruito il muro del neo-anticomunismo senza il comunismo. Il nuovo muro. Da una parte, a ovest, il mondo dei lavori e dei lavoratori "che usano le mani". Gli imprenditori e gli artigiani che producono, faticano. Fanno. Dall'altra parte, quelli che parlano, dicono, predicano. A spese dello Stato. Da un lato il privato e dall'altro il pubblico. Da un lato le cose concrete dall'altro quelle virtuali. Da un lato i "fannulloni" e dall'altro i "fantuttoni", per citare Francesco Merlo. Quelli che fanno a quelli che dicono. I piccoli imprenditori e i lavoratori "veri" contro gli statali, i maestri, i professori, i baroni. Contro i giornalisti. Ma anche contro "attori e attrici, artisti e commedianti, registi e teatranti, cantanti e cantautori (...) Schiavi e proni. In attesa di una nuova rivoluzione". Come li ha apostrofati il ministro Bondi, in una lettera al Foglio, a commento della visita degli artisti al Quirinale. Bondi: fino a ieri persona mite e rispettosa. Si è adeguato al linguaggio e allo stile del tempo. All'ideologia che fa ritenere l'"industria culturale" quasi un ossimoro.

Berlusconi non si limita a ispirare questa rappresentazione del mondo. Ne scrive il copione, ne sceglie i personaggi. Delinea la scena con obiettivi simbolicamente reali e realmente simbolici. Offerti dall'emergenza presente. Luoghi come Napoli - da liberare dall'immondizia; l'Aquila - da ricostruire sulle macerie del terremoto. Oppure il ponte sullo Stretto.

Più che un'infrastruttura: una sovrastruttura marxiana. Ideologia allo stato puro. Berlusconi è l'uomo-che-fa, alla guida del governo-italiano - che - ha-fatto-di-più-negli-ultimi-150-anni. Cioè: da quando esiste l'Italia unita. Un vitalismo che schiaccia l'opposizione. Rappresentata e guidata da funzionari, uomini di Stato. Politici di professione. Giornalisti. Artisti. E intellettuali. Quindi ex oppure neo-comunisti.

L'opposizione. Dovrebbe certamente avvicinarsi di più al mondo dei lavori. E magari rifiutare, senza rassegnarsi, questa ideologia. Che considera la cultura inutile. E l'intellettuale una figura improduttiva. Più che una categoria: un insulto.

© Riproduzione riservata (15 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Pd, il risveglio del partito latente
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2009, 05:24:03 pm
MAPPE

Pd, il risveglio del partito latente

di ILVO DIAMANTI


Il Partito Democratico sta crescendo. Nei sondaggi, perlomeno. Al contrario dell'inizio del 2009, quando assegnavano al Pd circa il 23%. Il che spinse Veltroni a dimettersi anzitempo, in febbraio.

Da un paio di mesi, invece, si assiste a una risalita, anche rispetto al risultato delle elezioni europee di giugno (26% dei voti validi). I sondaggi, al proposito, mostrano oscillazioni ancora significative. L'Ispo di Renato Mannheimer situa il Pd intorno al 28%. Come Euromedia, diretta da Alessandra Ghisleri, l'istituto di fiducia di Berlusconi. L'Ipsos di Nando Pagnoncelli, invece, stima il Pd oltre il 30%. Secondo il politologo Paolo Natale (su Europa), avrebbe superato la soglia del 31%. Come spiegare una crescita così continua (perlomeno nei sondaggi)?

1. Anzitutto, con l'effetto della stagione congressuale. Lunga e contorta, come abbiamo rilevato - polemicamente - prima dell'estate. Però è servita a strutturare un partito che prima non c'era. La fase dedicata agli iscritti ha, appunto, restituito il Pd agli iscritti. E gli iscritti al Pd. Ha, inoltre, attribuito un ruolo agli apparati locali e centrali. Nel bene e nel male: si è ricostruita, in qualche misura, l'organizzazione di partito. Le primarie, invece, hanno confermato la domanda di partecipazione che anima gli elettori del centrosinistra. Vi hanno partecipato circa tre milioni di persone. Tante. Questa mobilitazione ampia, durata mesi, ha fornito visibilità a un partito a lungo "latente". Ne ha risvegliato gli elettori "latenti".

2. Poi, oggi il Pd dispone di una leadership legittimata dal voto degli iscritti e degli elettori. Dopo un confronto vero, fra candidati che si sono sfidati senza esclusione di colpi. Questa divisione, lamentata da molti, ha dato l'idea di una competizione aperta che, in passato, non c'era mai stata. Nel 2005 e nel 2007 le primarie avevano "plebiscitato" un candidato pre-stabilito. Certo, Bersani deve dimostrare di essere capace di sottrarsi al condizionamento dei "soliti noti". Ma dispone di un'investitura ampia. Accompagnata da un grado di fiducia elevatissimo presso gli elettori (non solo del Pd). Favorito dall'immagine di competenza e concretezza che sta trasmettendo. Prima di lui, Franceschini aveva guidato il partito in condizioni di emergenza. Erede di un leader dimissionario, era apparso - necessariamente - un segretario provvisorio e di passaggio. Difficile, per il Pd, non essere percepito, a sua volta, come un partito provvisorio e di passaggio. Oggi il Pd non è divenuto un "partito personale", ma è certamente meno impersonale di prima. E la sospensione delle ostilità interne, la stessa uscita di Rutelli, ne hanno rafforzato l'immagine di coesione e unità.

3. Un ulteriore motivo della risalita del Pd, nelle stime elettorali, è riconducibile all'asfissia delle formazioni di sinistra, ma soprattutto al parallelo calo dell'Idv. Che riflette un certo declino dell'immagine (e della visibilità mediatica) del suo leader, Di Pietro. D'altronde, l'Idv è un partito personale. Fino a ieri: Lista Di Pietro. Lo stesso dualismo con De Magistris ne mina l'identità. Tuttavia, conta anche il ritorno di una domanda di opposizione "politica" più che espressiva. Partitica più che personale.

4. D'altronde, siamo entrati in una fase di campagna elettorale. Non tanto per le minacce di voto politico anticipato. (Non se ne vedono le condizioni). Ma perché sono prossime le elezioni regionali. Le quali avranno, assai più che le europee, un significato politico nazionale, oltre che territoriale. Per gli elettori e per i partiti. Lo schema della competizione regionale, d'altra parte, è "maggioritario" (e "presidenzialista"). E il risultato del voto avrà effetti molto più diretti sulla realtà politica e sulla vita delle persone, rispetto alle europee. Per cui, presso gli elettori, la domanda di "vincere" e di governare è destinata a prevalere sulla voglia di fare opposizione e sull'indignazione.

5. Ancora: la ripresa del Pd riflette quella del Pdl. Che i sondaggi stimano oltre il 38%. Nonostante la fiducia nel leader-premier non sia cresciuta, ma semmai calata, dopo le elezioni europee. Tuttavia, la figura di Berlusconi, in questa fase, ha ulteriormente polarizzato la meccanica del sistema partitico. Anzi: l'ha bipartizzata. L'identificazione tra Berlusconi e il Pdl - insieme alla centralità della questione giustizia - ha ridotto la visibilità della Lega. Invischiata nella discussione sulla spartizione delle candidature in vista delle prossime elezioni regionali. Definita su basi rigidamente nazionali. E personali: attraverso il dialogo diretto e personale fra Berlusconi e Bossi. Ebbene: anche la Lega, come l'Idv, appare in lieve flessione, nei sondaggi. Perché l'asse della politica nazionale si è spostato sul Pdl di Berlusconi. E valorizza, di riflesso, il Pd.

Resta il problema di fondo. Il Pd è ancora lontano dal Pdl: 7-8 punti percentuali. Il bacino elettorale a cui si rivolge, a sinistra, si è ridotto. Il suo alleato più stretto, l'Idv, è divenuto un competitor, a livello nazionale. Mentre sul territorio è un alleato debole, perché non ha radici. Per cui dovrà riesaminare il tema delle alleanze, guardando, necessariamente, al centro. All'Udc, più che a Rutelli (la cui uscita non sembra avere scalfito, per ora, l'elettorato del Pd né quello dell'Udc). Soprattutto, però, il Pd dovrà chiarire meglio il proprio progetto. La propria offerta politica. Un ambito ancora nebuloso. Non può restare a lungo così. Né può immaginare di affidare la propria identità al solo leader. Inseguendo il Pdl di Berlusconi sul suo terreno (mediatico). Per tornare ad essere un'opposizione credibile e possibile. Capace di raccogliere il voto di un terzo degli elettori. E di attrarre altri partiti, intorno a sé. Senza divenire ostaggio di alleanze tanto larghe quanto incoerenti. Il Pd: non può accontentarsi di rappresentare il "male minore".

© Riproduzione riservata (22 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La religione senza Dio
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2009, 11:26:15 am
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La religione senza Dio

di ILVO DIAMANTI


È impossibile separare la religione dalla politica, in Italia.
Tanto più dopo la fine della Dc, quando la Chiesa è tornata a rappresentare i valori, i principi, ma anche gli interessi dei cattolici in Italia, in modo autonomo e diretto. Il fatto è che oggi altri soggetti, oltre alla Chiesa, svolgono lo stesso ruolo. Talora in competizione, perfino in disaccordo con essa. Come dimostra la pesante polemica lanciata, ieri, dalla Lega contro il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano.

Ma gli esempi sono molti.
Basta pensare alla proposta di inserire la croce nel tricolore. La bandiera nazionale. Avanzata (ancora) dalla Lega e apprezzata dal ministro Frattini, dopo il referendum che, in Svizzera, ha bloccato la costruzione dei minareti. D'altronde, la Lega si oppone alla costruzione delle moschee in molte realtà locali, insieme ad altri gruppi e partiti politici della destra (non solo) estrema. Xenofobia e islamofobia si mischiano e si richiamano reciprocamente, in nome delle radici cristiane dell'Europa e, soprattutto, dell'Italia. Come dimostrano le polemiche suscitate dalla decisione della Corte europea contro l'esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Criticata, in Italia, da gran parte delle forze politiche, di destra e di sinistra. Tutte impegnate a difendere l'identità cattolica. Anche a costo di entrare in contrasto con la Chiesa. Di assumere posizioni più clericali della Chiesa. Non nel caso del crocifisso, ovviamente, ma nelle altre vicende citate. Le moschee, i minareti. In generale: le politiche sull'immigrazione e i rapporti con gli stranieri. Su cui la Chiesa, attraverso le sue organizzazioni e i suoi media, ma anche attraverso la gerarchia (non solo il cardinale Tettamanzi, ma tutta), ha assunto posizioni molto lontane dalla Lega e dal centrodestra. Schierandosi a favore del diritto di culto e di fede religiosa, anche per gli islamici. E, dunque, in disaccordo con le guerre di religione lanciate contro i minareti e le moschee. E contro gli immigrati.

Da ciò il singolare (ricorrente) contrasto, fra la Chiesa e la Lega - spesso affiancata dagli alleati di centrodestra - nella rappresentanza dei valori religiosi e della "comunità cattolica". Il fatto è che il valore della religione va ben oltre i confini della fede e della comunità dei credenti. D'altronde (Demos, 2007), l'insegnamento della religione nella scuola pubblica, in Italia, è approvato da 9 persone su 10. E dalla maggioranza degli stessi elettori di sinistra. Lo stesso per l'esposizione del crocifisso. Perché, come ha rammentato il sociologo Jean-Paul Willaime su Le Monde: "Tutte le società europee, per quanto secolarizzate, non sono mai uscite del tutto da una concezione territoriale di appartenenza religiosa; gli stessi immaginari nazionali non sono completamente neutri dal punto di vista religioso".

Così, anche in presenza di un declino sensibile della pratica rituale, ai partiti populisti diviene possibile riattivare - e sfruttare - le componenti religiose dell'identità nazionale e territoriale. Non solo: la religione viene usata come strumento di consenso partigiano ed elettorale. Lo ha fatto la Lega fin dagli anni Novanta, in polemica aperta e dura contro la Chiesa nazionale, nemica della secessione. Lo scontro è proseguito in seguito, sui temi della solidarietà sociale, soprattutto verso gli immigrati. Sulla questione dell'integrazione. La Lega, in altri termini, si è proposta essa stessa alla guida di una religione senza Chiesa - e senza Dio. I cui valori, simboli, luoghi vengono fatti rientrare dentro i confini dell'identità territoriale. Ne diventano riferimenti fondamentali. D'altronde, il ruolo della religione nella costruzione dell'immaginario locale e nello stesso mondo intorno a noi - per riprendere la suggestione di Willaime - è innegabile e molto visibile. Un santo al giorno, scandisce il calendario. Le festività. Gli atti che accompagnano la biografia di molte persone: dal battesimo al matrimonio fino al funerale. E ancora, ogni giorno: le ore battute dai campanili. I quali, insieme alle chiese e alle cattedrali, fanno parte del nostro paesaggio quotidiano. Il che spiega, in parte, la reazione sollevata dalla possibile costruzione di luoghi di culto di altre religioni. Le moschee. Figuriamoci i minareti. Capaci di produrre una rottura rispetto al passato, resa visibile - anzi: appariscente - da uno skyline urbano inedito. Il che genera incertezza e inquietudine, soprattutto quando, come in questa fase, le appartenenze territoriali - nazionali e locali - sono scosse violentemente dalla globalizzazione, ma anche dai mille muri sorti dopo la caduta del Muro.

In Italia questo problema appare particolarmente rilevante, perché si tratta di un paese diviso, con un'identità nazionale debole e incompiuta. La Lega offre, al proposito, risposte semplici e rassicuranti a problemi complessi. Reinventa la tradizione per rispondere al mutamento. Recupera le radici cristiane di una società secolarizzata, le impianta sul territorio. Ricorre a simboli antichi per affrontare problemi nuovi. Lo spaesamento, l'inquietudine suscitata dai flussi migratori. Gli stranieri diventano, anzi, una risorsa importante per rafforzare l'appartenenza locale. Per chiarire chi siamo Noi attraverso il distacco dagli Altri.
Lo stesso crocifisso si trasforma in simbolo unificante, avulso dal suo significato. È la croce da associare al tricolore. Dove la croce è più importante del tricolore. Una bandiera che, secondo la Lega, evoca una nazione inesistente. Mentre la croce evoca lo "scontro fra civiltà". La crociata contro l'Islam, che ha l'epicentro nel Nord, dove l'immigrazione è più ampia. D'altra parte, su questi temi gli italiani e gli stessi cattolici si trovano spesso d'accordo con la Lega e con gli alleati di governo (a cui essa detta la linea). Molto meno con le posizioni solidali e tolleranti espresse dalla Chiesa (Demos per liMes, 2008).

La sfida della Lega è, dunque, insidiosa. Perché etnicizza la religione. Costruisce, al tempo stesso, una patria e un'identità. Ma anche una religione alternativa. In tempi segnati da una domanda di appartenenza e di senso acuta e diffusa.
Di fronte a questa sfida, le scomuniche e l'indignazione rischiano di risultare risposte insufficienti. Inadeguate. Per gli attori politici. (Tutti, non solo quelli di sinistra. Anche per gli alleati di centrodestra). Ma soprattutto per la Chiesa.

© Riproduzione riservata (7 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Natale è fuggito
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2009, 04:36:49 pm
Rubriche » Bussole 
     
   
Il Natale è fuggito

di ILVO DIAMANTI


Ormai è Natale. Mancano un paio di settimane appena. Un'occasione per vedere come cambiano le cose intorno a noi. In fondo, a questo servono gli anniversari. A ricordare e a ricordarsi. Nel caso del Natale: a verificare quanto e cosa significhi per noi. Così ho ripreso la mia esplorazione, guidato da Mambo, il mio schnauzer. Che mi trascina sempre più lontano da casa mia. Un po' per suo piacere. Un po' perché, un mese dopo l'altro, le zone e le strade non edificate si allontanano sempre più. Nell'ultimo anno: sono sorti almeno un paio di condomini, ciascuno con 10-15 appartamenti. Anche se non capisco quanti di essi effettivamente siano abitati. Il mio giro con Mambo, peraltro, è un'occasione utile e piacevole anche per me. Ne approfitto per leggere, telefonare. Senza troppa concentrazione: tanto mi guida il cane. Io con Mambo, Berselli con Liù: abbiamo parlato spesso, nel corso di questi anni.

Il giro si conclude, puntualmente, intorno a una rotonda. Nel corso degli anni si è evoluta in modo sorprendente. All'inizio non si capiva a che servisse. Così sperduta in mezzo alla campagna. Ora invece è alla confluenza di un incrocio. Da un lato, una nuova strada - chiusa da una sbarra - ha occupato quella che prima era campagna aperta (due cani fa, negli anni Ottanta, ci venivo spesso con Snoopy, un meticcio: la testa di un setter sul corpo di un cocker. Lo lasciavo libero di correre, tanto non c'era nulla).

Ora è costeggiata da una lunga serie di nuovi condomini colorati. Non ancora abitati. (Forse; ma non è detto). All'altro lato della rotonda: una strada non ancora asfaltata. Immagino lo sarà presto. E anche lì, nuove case, nuovi condomini. O forse una zona artigianale, chissà. Case e capannoni, d'altronde, crescono a prescindere dalla domanda, com'è noto. Sono bolle. Volano alte e qualche volta scoppiano.
Poco lontano da qui, dove un tempo c'era l'aeroporto Dal Molin, si continua a scavare e a costruire. Intorno sorgeranno altri edifici e tante, tante rotonde.

Rispetto allo scorso anno, gli alberi di Natale mi sembrano ulteriormente rarefatti. Può darsi che sorgano all'improvviso, nelle due prossime settimane. Ma per ora non ne vedo nessuno. Dietro alle finestre non si intuiscono neppure i presepi. Un tempo, ma tanto tempo fa, a casa mia lo si preparava a inizio dicembre. E io ho proseguito la tradizione con i miei figli. Quand'erano piccoli ci aggiungevano i personaggi del loro tempo. Ufo robot, le tartarughe Ninja. Oggi lo facciamo io e mia moglie. Riprendiamo la scatola degli anni passati, giù in garage. Con i pezzi tradizionali. Pastori, pecore, contadini. Ma in giro ce ne sono pochi, ormai. Se non in formato bonsai: capanna, madonna, Giuseppe, bue e asinello. E il bambin Gesù già nato, senza attendere la notte di Natale.

Dice la Lega: più presepi e meno moschee. Moschee non se ne vedono, presepi nemmeno. È il declino del sacro, altro che invasione dell'islam! Anche gli addobbi consumisti, però, latitano. Fili luminosi e stelle rosso porpora. Li avranno concentrati in centro città. Qui attorno proprio non si vedono. Sarà l'effetto della crisi, che inibisce l'esibizione della festa. Invece, qui e là, sono ricomparsi i babbi natali. Appesi alle finestre e ai balconi. Attaccati ai muri. Come ladri. Qualcuno mi ha detto che è lecito abbatterli a fucilate, per legittima difesa. Ci sto pensando seriamente.

Il tempo-meteo non aiuta a creare l'atmosfera. Oggi, ad esempio, è un giorno luminoso e fa discretamente caldo. È quasi primavera. Negli scorsi giorni: autunno piovoso. Neanche un fiocco di neve. Anche il Pasubio, all'orizzonte, è appena sbiancato. Insomma: quando mancano due settimane appena, quest'anno, si vedono poche tracce del Natale. Forse sta arrivando. Magari arriverà domani, senza preavviso. Oppure stavolta se n'è andato. È fuggito altrove. Può darsi che ritorni. Però non pare siano in tanti ad attenderlo.

(10 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI Se il Carroccio diventa una Lega nazionale
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2009, 05:06:33 pm
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Se il Carroccio diventa una Lega nazionale


di ILVO DIAMANTI

In questi giorni concitati sembra che, in Italia, esista solo Berlusconi. Impegnato nella sua lotta quotidiana con quanti ce l'hanno con lui. Più o meno tutti, cioè. Persone e istituzioni. Magistrati e alte cariche dello Stato. E alleati che occupano alte cariche dello Stato, come il presidente della Camera Gianfranco Fini. Capo dell'opposizione di centrodestra. Anzi, dell'opposizione.

Eppure, oggi più che mai, l'attore politico più importante della maggioranza è la Lega. Le guerre personali e di fazione che agitano il Pdl e Berlusconi la rafforzano. D'altronde, il suo peso politico, negli ultimi anni, non ha smesso di crescere. Anzitutto, per motivi elettorali. Ha superato l'8% dei voti validi alle politiche del 2008 e il 10% alle europee del 2009. Tuttavia, nel 1996 - e anche nel 1992 - aveva ottenuto un risultato migliore. Ma allora correva da sola contro tutti. Oggi è al governo. I suoi elettori occupano circa un quarto dell'area di centrodestra, in Italia. Ma oltre il 40% nelle regioni del Nord (al di sopra del Po). Dove, alle elezioni politiche del 2008, si è imposta come primo partito in 800 comuni su circa 4000. Ma il suo peso politico è molto superiore a quello elettorale (come ha lamentato di recente Piero Ignazi sull'Espresso). Perché, senza la Lega, per Berlusconi, le elezioni diventano un azzardo. Lo ha sperimentato nel 1996. Non ci proverà più. E per evitare tensioni, alle prossime elezioni cederà la presidenza di - almeno - una grande regione del Nord.

La forza della Lega riflette, in modo simmetrico, le debolezze del principale partito di maggioranza. Il Pdl. E i tormenti del suo leader, Silvio Berlusconi. Il Pdl non è ancora un partito. Appare, invece, una somma di elettorati e di gruppi dirigenti, senza un'effettiva identità condivisa. Fin qui, alle elezioni ha raccolto fra 35 e il 37% dei voti validi. Più o meno la somma dei risultati ottenuti dai partiti da cui origina. I quali, tuttavia, continuano a operare divisi, a livello locale. C'è poi il problema della leadership. Certo: Berlusconi è indiscutibile, ma Fini lo discute. Quasi ogni giorno. In fondo: logora il carisma del "capo assoluto". Così Berlusconi è costretto a legarsi sempre di più alla Lega. Compatta: in Parlamento e sul territorio, guida una maggioranza spesso incerta e divisa. Ne costituisce la bussola. Orientata a Nord. Come i ministri-chiave del governo. Leghisti e no. Tremonti e Maroni, anzitutto. Poi Brunetta, Sacconi, Gelmini, Zaia. Scajola. Lo stesso La Russa, politicamente, è milanese. Il Sud. La Sicilia, un tempo bacino elettorale di FI, oggi contesa da altri soggetti regionalisti, è rappresentata - soprattutto e anzitutto - dal ministro Alfano. Impegnato a tempo pieno nella "guerra" contro i magistrati. Accanto al suo leader.

La Lega, dunque, garantisce un consenso essenziale al governo e al premier - in ogni occasione e in ogni materia. In cambio del sostegno alle politiche che le interessano maggiormente. A favore del Nord e in tema di sicurezza. Nel frattempo, sta ridimensionando la sua "eccezione", sul piano territoriale e sociale. Alle europee, ha colorato di verde le regioni rosse dell'Italia centrale. Dal punto di vista socio - anagrafico, continua ad attirare i piccoli imprenditori e i lavoratori dipendenti della piccola impresa privata. Ma, fra i suoi elettori, è cresciuta la presenza dei giovani. E, soprattutto, quella delle donne. Fino a 10 anni fa, era un partito maschio e maschilista. Oggi quasi metà del suo elettorato è composto da donne. Insomma, il suo elettore "medio" si è avvicinato alla "media sociale". Da cui si distingue per gli atteggiamenti: perché riassume - enfatizzate - le fobie del nostro tempo. Su queste paure - oltre che sulla radice territoriale - la Lega ha fondato la propria offerta politica, negli ultimi anni. E, al contempo, ha costruito l'identità politica della maggioranza di centrodestra. Più di quanto non abbia fatto lo stesso Berlusconi. Imprigionato in una sorta di autismo, che lo spinge a riproporre se stesso come mito ed esempio. Mito esemplare. L'italiano tipo. La Lega, invece, agita la società, ne ascolta il rumore. E lo amplifica con argomenti espliciti e un linguaggio violento. Con iniziative polemiche dall'intento simbolico ed educativo.

È la Lega degli uomini spaventati, che raccoglie le paure e le moltiplica. Capta la xenofobia e la riproduce.
È la Lega dei localismi, che intercetta lo spaesamento prodotto dalla globalizzazione. Dalla caduta del Muro e dei muri. Intercetta il distacco dallo Stato, dalle istituzioni, dalla Ue. E lo amplifica. È la Lega dei cattolici senza fede. Sorta nel vuoto prodotto dall'eclissi del sacro - per citare Sabino Acquaviva - e dalla secolarizzazione. Propone una nuova religione. Naturalmente secolarizzata. Senza Dio e senza chiesa. Sovente, contro la Chiesa. D'altra parte, nella sua base elettorale è maggioritaria la presenza dei cattolici non praticanti. Molti dei quali riducono la religione a una cornice del senso comune. Un sistema di valori e di credenze che usa la tradizione per "difendersi" dalla (post) modernità.

Il paradosso è che la Lega, in questo modo, si distacca dal suo specifico territoriale. Non ambisce (solo) alla "corona longobarda", come ha suggerito Gad Lerner su Repubblica. Sta, invece, mutando in "Lega Nazionale". Non solo perché il suo elettorato ha superato i confini del Po. Non solo perché è il perno del governo nazionale. Ma perché, con le sue polemiche, le sue politiche, le sue parole sta affermando un'idea di "nazione" piuttosto precisa a un paese dall'identià incerta. Attraverso l'opposizione agli stranieri, agli immigrati, all'Islam. Il distacco fra noi e gli altri. La Lega: rivendica il tricolore e la croce, uniti per dividere. Dagli stranieri. Fa riferimento esplicito al nostro "carattere nazionale". Evoca una "nazione" di individui e di localismi, che chiedono protezione allo Stato, ma ne diffidano. Invocano la tradizione e i suoi principi. Ma vogliono essere liberi da ogni regola. Da ogni limite. Correre felici a 150 all'ora. E oltre. Una Lega veloce. Nazionale. Mentre Berlusconi corre dovunque. Ma, alla fine, è sempre lì. Gira intorno a se stesso.

© Riproduzione riservata (13 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il falso mito del senso comune
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2009, 10:43:04 am
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Il falso mito del senso comune

di ILVO DIAMANTI


E' tornato a parlare agli italiani, Silvio Berlusconi, dopo l'aggressione avvenuta a Milano due settimane fa.

E la soddisfazione, nelle sue parole, ha largamente sopraffatto i segni della paura e del dolore. D'altronde, il moto di emozione e di solidarietà, seguito all'episodio, ha aiutato Berlusconi a risalire nei sondaggi, dopo mesi e mesi di declino. Il premier non ha mancato di rammentarlo in una telefonata al Tg1, due giorni fa, citando i suoi sondaggi personali. Secondo i quali due italiani su tre lo incoraggiano ad andare avanti (dati Euromedia). Oggi, d'altronde, anche altri istituti demoscopici confermano questa tendenza, seppure con stime diverse e più ridotte. La quota di elettori che esprime un indice di fiducia almeno "sufficiente" nei confronti del premier (con un voto da 6 a10) è intorno al 55-56%, secondo l'Ipsos diretta da Nando Pagnoncelli. Lo stesso dato è indicato dall'Ispo di Renato Mannheimer. In entrambi i casi: una crescita di 6-7 punti percentuali.

Da ciò la determinazione del premier ad andare avanti nell'azione di governo e con le riforme. Perché il suo volto, più degli altri, raffigura e rispecchia il "senso comune". La volontà popolare degli italiani, che magari provano disagio verso i suoi comportamenti e il suo relativismo etico. Ma, in fondo, anche per questo, lo percepiscono come uno di loro. E gli vorrebbero assomigliare. Questi italiani: individualisti e familisti, spacconi e donnaioli, un po' evasori, diffidenti verso i poteri pubblici, liberisti a parole, soprattutto quando si tratta degli altri. Innamorati dell'immagine, sperduti nel mondo dei media e della televisione, attratti dal gossip e dai salotti tivù. E, quindi, dal principale protagonista e autore della realtà mediale. Lui. Silvio Berlusconi. L'aggressione ai suoi danni e il suo volto insanguinato: uno degli eventi mediatici del decennio. Lo hanno beatificato. La vittima sacrificale dell'odio espresso dalla parte invidiosa del Paese oggi è stata risarcita moralmente.

E pochissimi si sono azzardati a eccepire. Criticare. Salvo i soliti noti - Di Pietro in testa. Condannati alla pubblica esecrazione. L'onda impetuosa della solidarietà personale verso il premier sembra aver trascinato con sé anche il consenso per le riforme. Che, come ha affermato Berlusconi nella telefonata al Tg1, verranno fatte senza esitazioni. A partire, immaginiamo, da quella sulla giustizia. E dai provvedimenti utili ad allontanare gli effetti dei processi che lo riguardano. In nome dello snellimento della macchina giudiziaria. A tutela delle alte cariche dello Stato ma anche di governo.

E' il potere del "senso comune". Che, oltre a Berlusconi, vede protagonista anche la Lega, che interpreta e respira le paure "della gente". Invece l'opposizione - la sinistra, il centrosinistra e perfino il centro - è troppo aristocratica per immergersi nel "senso comune" che pervade la vita quotidiana, dove c'è bisogno di certezze. Un mondo di cose date per scontate che, tuttavia, si possono costruire e manipolare. Semplicemente isolando alcuni aspetti e rimuovendone altri. Ad esempio, se consideriamo i dati di Ipsos presentati da Pagnoncelli a Ballarò (martedì 22 dicembre), Berlusconi è "gratificato" dal 55% di italiani che nutrono fiducia (alta, ma anche appena discreta) nei suoi riguardi. Ma altri leader politici e istituzionali e altre figure pubbliche non sono da meno. Oppure lo superano largamente. Il Presidente della Repubblica Napolitano: 84%; il Presidente della Camera Fini: 68%; il Ministro dell'Economia Tremonti: 56%; il presidente della Fiat e della Ferrari, Cordero di Montezemolo: 55%. Perfino Bersani si attesta al 54%.

Insomma, la pietas suscitata dall'aggressione di Tartaglia ha permesso a Berlusconi di riprendere consensi. Senza tuttavia svettare sugli altri. Lo stesso vale per i giudizi politici e sulle politiche. La fiducia nel governo è anch'essa risalita. Tuttavia, il giudizio dei cittadini sulle "politiche" non è cambiato rispetto a prima. In particolare, in tema di giustizia (ancora Ipsos). Sulla "sospensione temporanea dei processi o su una legge 'ad personam' che permetta di sbloccare la situazione politica" e di riprendere il dialogo sulle riforme si dice d'accordo solo il 25% degli elettori. Un italiano su quattro. E il 48% degli elettori di Pdl e Lega. Cioè: meno della metà. La solidarietà verso il premier e la sua maggioranza non si traduce, quindi, in consenso verso le leggi "ad personam". Né verso scorciatoie come il cosiddetto "processo breve", percepito alla stregua di un indulto. Che fa rima con "insulto". Tanto che nel luglio 2006, quando venne approvato dal governo Prodi, ne trascinò in basso il consenso. Immediatamente. Con il contributo della propaganda di alcune forze politiche oggi al governo e allora all'opposizione.

Non è di senso comune, però, neppure l'appoggio alle politiche del governo su "lavoro e occupazione", valutate negativamente dal 60% degli elettori, mentre i provvedimenti in materia di tasse e fisco sono avversate dal 56% della popolazione. Inoltre (Demos-Coop, dicembre 2009), il 70% degli italiani si dice favorevole alle manifestazioni a sostegno della libertà di stampa e addirittura l'86%, cioè la quasi totalità, approva le proteste contro i tagli e le carenze di risorse relativi alla ricerca. D'altronde, nella gerarchia dei problemi da affrontare, per gli italiani, i temi dell'occupazione e dello sviluppo sono di gran lunga prioritari. Le riforme istituzionali e sulla giustizia, invece, in fondo alla lista. Senza eccessive differenze fra destra e sinistra.

Noi, per istinto e formazione, diffidiamo del "senso comune". Parola magica, sospesa tra mito e ideologia. Tuttavia, proprio per questo, conviene evitare di dare per scontato che gli argomenti sostenuti da Berlusconi e la Lega siano - naturaliter - di "senso comune". Popolari. E quelli dell'opposizione - di sinistra e centrosinistra e anche di centro - impopolari. Prima di convincersi che perfino fare opposizione sia impopolare. E anti-italiano. L'opposizione: almeno si informi.

© Riproduzione riservata (27 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Benvenuto figlio unico!
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2010, 12:25:06 am
Benvenuto figlio unico!

di ILVO DIAMANTI


Ormai è di moda salutare i figli appena nati addobbando la casa, all'esterno, con striscioni, manifesti, nastri azzurri o rosa - dipende dal genere del neonato. E a volte con ornamenti più impegnativi. Intrecciando le piante davanti all'abitazione con fili di luce intermittente. O con altre decorazioni, che manco a Natale ...

"Benvenuto Pietro" (oppure Agata, Dario, Samuele, Greta, Mattia, Sofia, Francesco). Così che tutti sappiano. Che è arrivato il figlio/la figlia tanto atteso/attesa. Dai genitori, dai nonni, dagli zii. Non è il "figliol prodigo", che torna dopo aver dissipato tutto. Accolto con gioia dal padre "misericordioso", che per festeggiarlo fa uccidere il vitello grasso. No, gli annunci e i festoni non salutano il ritorno, ma l'arrivo di "un" figlio. Forse il primo. Forse l'unico. E i genitori, per questo, ci tengono ad annunciarlo al mondo.

Almeno: alle persone e alle famiglie che abitano intorno a loro. E che, nella gran parte, non conoscono. Perché i nuovi quartieri sono affollati da estranei. Così capita sempre più spesso di imbattersi in una bifamiliare imbandierata che celebra l'arrivo di Tito, Giorgia, Marco, Camilla, Matteo. Figli primogeniti e unici di genitori entusiasti di comunicare a tutti - persone note e sconosciute - la loro gioia. Perché il loro Signore: è nato. Difficile immaginare un atteggiamento simile a casa dei miei nonni quando "arrivarono" i miei genitori. Negli anni Venti del secolo scorso. Mia madre: settima di nove figli. Mio padre: sesto di otto.

La loro casa - per anni e anni - avrebbe dovuto essere addobbata a tempo pieno. Come tutte quelle intorno. D'altra parte, la famiglie contadine e quelle povere facevano molti figli. La famiglia di mia madre era contadina, quella di mio padre povera. Oggi le famiglie povere sono "invisibili". Nascondono la loro condizione. Quelle contadine non ci sono quasi più. Le famiglie numerose, con tanti figli, sono, perlopiù, composte da stranieri. Spesso povere. Oppure, al contrario, si tratta di famiglie ricche e borghesi. In entrambi i casi: difficilmente gridano al mondo la nascita di un nuovo figlio.

Mentre per tutti gli altri, la maggioranza dominante, è davvero un fatto raro. Da celebrare e da esporre al piccolo mondo in cui si è inseriti. Il bimbo che arriva, infatti, resterà in quella casa a lungo. Attraverso molte stagioni della vita. Fino a età avanzata. Visto che in Italia quasi tre (cosiddetti) giovani su quattro, tra 15 e 39 anni, risiedono con i genitori. Come ha rivelato l'Istat pochi giorni fa. Una "novità" nota da tempo, che ha diverse ragionevoli ragioni. Perché è difficile per i giovani (e non solo per loro) trovare casa e lavoro (per mantenersi). Perché i legami stabili sono sempre meno frequenti e, comunque, le coppie di giovani vanno a (con)vivere insieme sempre più tardi. Perché a casa con i genitori, in fondo, i figli stanno bene. Poche spese. Trovano pranzo e cena. La loro camera arredata e accessoriata con tutte le tecnologie più avanzate (a carico della famigli). Alla biancheria pensa mamma. E poi, a differenza di un tempo, dei miei tempi, sono "liberi". Di andare e venire a loro piacimento. Di fare quel che vogliono. Per cui non "vivono" con i genitori.

Ci passano e ci stazionano quando e per quanto è loro necessario. Poi ripartono. Ritornano. A volte incrociano i genitori. "Come va? dove sei stato? Quanto ti fermi? Quando riparti? Sei da solo? Hai bisogno di qualcosa?". Invece, per le generazioni precedenti andare via di casa, sposarsi, mettere su casa era un modo di fuggire, di conquistare l'autonomia. Oggi non è più così. Si è liberi anche da giovani. Quando si sta in famiglia. I figli. Da piccoli sono trattati come ninnoli. Coccolati, accuditi, assecondati. Da tutti: genitori, nonni, zii. E, ovviamente, controllati.

Tenuti d'occhio come una risorsa scarsa e - dunque - di valore. Da conservare con cura, quando crescono. Perderli, per i genitori, significherebbe restare soli. Senza rimedio. Così diventa difficile staccarsi. E figli restano nella casa in cui sono nati sempre più a lungo. Anche dopo il matrimonio. In un appartamento ricavato approfittando di qualche deroga edilizia. Oppure costruito lì accanto. Per mantenere solide relazioni di reciprocità. I nonni crescono i nipoti. I figli assistono i genitori. Così la catena biografica si allunga sempre di più. In questa costellazione di famiglie, strette e lunghe. Ma solide e radicate. Determinate a resistere e ad esistere. Piantate nello stesso luogo. Una società dove genitori, figli e nonni coabitano tanto a lungo che le distanze fra le generazioni si perdono. In un presente senza fine che si interrompe solo quando nasce un figlio. Salutato in modo vistoso, come un evento formidabile.

E allora benvenuta Federica. Benvenuto Alberto. Benvenuto Ruggero. Benvenuta Greta. Benvenuto Elia. Tracce di un futuro introvabile.

30 dicembre 2009
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Parole perdute: Riforme/Riformismo
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2010, 04:55:41 pm
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Parole perdute: Riforme/Riformismo

Ilvo Diamanti


 Ci sono parole che cambiano significato. Altre, invece, lo perdono. Fino a ieri richiamavano contenuti, idee, realtà dai contorni definiti. De-finivano. Cioè: tracciavano limiti, distanze. Distinguevano. Poi, a un certo punto ci si accorge che non è più vero. Le differenze, le specificità evocate da una parola si perdono. E quella parola non significa più nulla. O quasi. È la sensazione che si prova (io, almeno, provo), da qualche tempo, da qualche anno, di fronte a "riforme" e, soprattutto, a "riformismo".  Ha una storia nobile. Identifica, nel movimento socialista, coloro che ritenevano possibile superare il sistema capitalista, dargli nuova forma. Ri-formarlo, insieme alla democrazia. Senza abbatterlo. Per cui, nel corso del tempo, il riformismo ha indicato una duplice alternativa. Da un lato, ai conservatori e, dall'altro, ai rivoluzionari (massimalisti). Dirsi riformisti, promuovere le riforme ha, per questo, diviso la sinistra. Ma anche i cosiddetti "moderati".

In un sistema bloccato, come l'Italia,  dove l'alternativa nella prima Repubblica non era possibile, ha spinto la DC ad allearsi con il PSI, oltre che con i partiti laici di centro. Il riformismo: ha attraversato anche il PCI, orientando l'azione di leader e componenti importanti, al suo interno.  Tuttavia, le fasi riformiste, negli ultimi 40 anni, hanno origine extra-parlamentare.  Le riforme sociali  degli anni 70: trainate dalla stagione di lotte sindacali. Quelle istituzionali, invocate nei primi anni 90: reazioni alla caduta della prima Repubblica. In quegli anni il federalismo diventa una "parola" di successo, che la Lega impone non per riformare la prima Repubblica, "fondata dai e sui partiti romani". Ma per abbatterla. Pratica il riformismo come metodo rivoluzionario. Negli stessi anni, fra il 1991 e il 1993, si riforma il sistema elettorale nazionale. Attraverso i referendum, promossi dai radicali e dal movimento guidato da Segni. Così il riformismo si traduce in una sorta di via "populista" al cambiamento radicale delle istituzioni. Che fa riferimento diretto al "popolo", mobilitato contro i partiti.   

Riformare le istituzioni, costruire una nuova Repubblica, da allora, diviene un imperativo condiviso. Da destra a sinistra, passando per il centro. Si assiste anche a tentativi istituzionali impegnativi. È il caso della bicamerale, presieduta da Massimo D'Alema. All'opera dal 1997 al 1998, traccia diversi scenari che riguardano, in particolare, federalismo e semipresidenzialismo. Oltre che, a margine, il sistema elettorale. Ma fallisce, senza produrre risultati. Perché a Berlusconi, allora all'opposizione, interessava soprattutto la riforma della giustizia. Ieri come oggi. Ridimensionare il ruolo assunto dai magistrati dopo "tangentopoli". E gli interessava, inoltre, rientrare in gioco, dopo la sconfitta alle elezioni politiche del 2006.

Il percorso delle riforme procede, dunque, a strappi. Prodotti dai partiti, di fronte a emergenze specifiche. Come fa il centrosinistra alla vigilia delle elezioni del 2001, quando riforma il titolo V della Costituzione per introdurre il federalismo (sperando di compiacere il Nord). Con pochi voti di maggioranza.  Come fanno Berlusconi e il centrodestra nel 2005, anch'essi in vista delle elezioni politiche. Elaborano e approvano un pacchetto di riforme che comprendono il rafforzamento dei poteri del capo del governo, la devoluzione. Inoltre: il sistema elettorale proporzionale con premio di coalizione. Voluto dall'UdC. È l'unica "riforma" che  -  purtroppo - sopravvive al referendum confermativo. In quanto non ne è oggetto, visto che non è una legge costituzionale.  Così  le riforme, in Italia, procedono in modo episodico e, talora, casuale. Rispondono a emergenze, provocazioni, mobilitazioni sociali e di "popolo". Oppure si realizzano "di fatto". Agendo sulle leggi esistenti con piccole modifiche successive e attraverso la pratica. In questo modo siamo divenuti uno Stato federale: attraverso il trasferimento di poteri dallo Stato agli enti locali e alle regioni.  Un pezzo alla volta. Tra mille conflitti politici e inter-istituzionali. Allo stesso modo, siamo divenuti un sistema presidenziale. Solo che il presidente coincide con la figura del premier. Leader del partito e della coalizione di maggioranza. Indicato sulla scheda elettorale. In modo improprio. (Come non smette di denunciare Giovanni Sartori). Mentre il Presidente della Repubblica si è trasformato in una istituzione di garanzia. Che controlla l'azione del governo e del Presidente (del Consiglio). Sempre più impaziente e intollerante di fronte a questo e agli altri vincoli, posti dai magistrati e dagli organi costituzionali. La stessa Costituzione diviene, dunque, un problema, perché impedisce a questa Repubblica preterintenzionale di consolidarsi.

Così tutti (o quasi) vogliono  -  e invocano  -  le "riforme".  Ma ciascuno pensa a cose diverse.  Berlusconi per primo. Ha promesso una "grande stagione di riforme". Ma vuole, anzitutto, riformare la giustizia. Lo ha ribadito anche ieri. Pensa, poi, a dare un fondamento costituzionale al  presidenzialismo di fatto che egli interpreta. Bossi e la Lega, invece, hanno in mente - soprattutto, se non solo - il rafforzamento del federalismo. Il centrosinistra sostiene la priorità delle riforme sociali. Ma in effetti appare titubante e diviso, come sempre. Di Pietro e l'IdV considerano ogni riforma quasi eversiva. Ad eccezione di quelle che permettano di cacciare il premier abusivo. Il "popolo", infine, si è stancato. La prospettiva delle riforme istituzionali non lo emoziona più. Da tempo. Ha altri problemi, altre priorità. Il lavoro,  la protezione sociale. Certamente diffida delle proposte di riformare la giustizia in modo particolaristico.
Così, oggi tutti  -  ad eccezione dell'IdV - si dicono d'accordo con l'invito  di Napolitano -  peraltro doveroso -  a dialogare sulle riforme.
 
E tutti si dicono riformisti.  Con intenti talora conservatori, talora rivoluzionari, talora semplicemente confusi.  In questo paese di riformisti a parole. Dove le riforme  sono parole dette per non dire. O, comunque, senza dire.
 
(06 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Pdl, il non-partito senza opposizione
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2010, 04:01:09 pm
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Pdl, il non-partito senza opposizione

di Ilvo Diamanti


L´INCAPACITA' del Pd di scegliere i candidati presidenti in vista delle prossime regionali e, prima ancora, un metodo per selezionarli.
I dubbi sulle alleanze da stringere. Le difficoltà profonde, che affliggono l´opposizione: rendono quasi invisibili i problemi del Pdl.
Il primo partito in Italia, fra gli elettori e in Parlamento. Alla guida della maggioranza di governo. Il partito del premier, Silvio Berlusconi.

Per una volta, deve ringraziare il Pd. Accusato ? spesso ? di esistere solo in funzione antiberlusconiana. I suoi dolori hanno permesso, fin qui, al Pdl di occultare ? a se stesso, oltre che agli altri attori politici e agli elettori ? una realtà spiacevole, ma difficile da negare. Che è un partito incompiuto. La somma dei gruppi dirigenti di An e di Fi. Spesso in conflitto fra loro, a livello nazionale.

Mentre a livello locale hanno scarsa coesione e presenza. Il Pdl: nella scelta dei candidati alle regionali ha mostrato, fin qui, incertezze non dissimili dal Pd. In particolare dove è tradizionalmente più forte. Soprattutto Fi, il partito inventato e identificato da Berlusconi. Le sue roccaforti elettorali coincidono con tre regioni: la Lombardia, il Veneto ? il Lombardo-Veneto ? e la Sicilia. Oltre alle province periferiche del Nordovest e alla fascia tirrenica del Mezzogiorno. Partito network, capace di collegare gli alleati del Nord ? la Lega ? e del Centrosud ? An. Oggi non è più così. Non solo perché la fusione con An ha meridionalizzato il partito, ma perché appare incapace di imporre la propria leadership.

Nel Nord, ha ceduto il Veneto a un candidato della Lega, Luca Zaia, sacrificando Giancarlo Galan. Uomo espresso nel 1995 da Publitalia.
E divenuto, in seguito, l´unica figura in grado di rappresentare Fi in Veneto. Il Berlusconi regionale. Oggi è stato richiamato in azienda. Cancellato da una stretta di mano. Fra Berlusconi e Bossi. Nonostante la resistenza di Galan e del gruppo dirigente regionale del Pdl (in particolare ex Fi). Che hanno minacciato scissioni, liste autonome. Senza seguito. Perché il Pdl, nel Veneto, ha organizzazione debole e radici fragili.

Diversamente dalla Lega. Lo stesso in Piemonte, dove per 10 anni aveva governato Enzo Ghigo, altro uomo di Publitalia. Battuto nel 2005 da Mercedes Bresso. Il prossimo candidato del centrodestra sarà un altro leghista. Roberto Cota. Certo, in Lombardia c´è Formigoni.
Ri-candidato, molto probabilmente, verrà rieletto. Lo stesso governatore al governo della Regione. Per vent´anni. Una monarchia.
Quasi impensabile al tempo del "regime partitocratico". Ebbene: catalogare Formigoni come uomo del Pdl e di Forza Italia è azzardato.
Si tratta del leader e del rappresentante di un mondo articolato, che associa Comunione e Liberazione e la Compagnia delle Opere.
Sostengono Fi e il Pdl, ma non vi appartengono. Fi e il Pdl, cioè, sono collaterali a Formigoni e al suo mondo. Non viceversa.

Infine la Sicilia. Governata da Raffaele Lombardo. Leader ? si è detto ? della "Lega Lombardo", per assonanza con l´altra Lega. Da cui ha mutuato il "legame" con gli interessi regionali, come missione. Ha cambiato alleati a seconda dell´elezione. Senza problemi e senza vincoli. Udc, Lega Nord, Pdl, Destra. Ora ha ri-formato la maggioranza in Regione. Ha cacciato dalla giunta gli uomini del Pdl, inserendo, fra gli altri, un tecnico di area Pd. Alle recenti elezioni europee, ha fatto lista comune con la Destra di Storace, superando il 15% dei voti. Mentre il Pdl ne ha perduti il 10% rispetto alle politiche del 2008. Il che ne sottolinea l´instabilità elettorale, ma soprattutto la dipendenza da liste, fazioni, frazioni politiche e personali. Oltre che da gruppi di interesse locali e regionali.

Lo stesso problema ha reso difficile al Pdl, in Campania, rinunciare alla candidatura di Nicola Cosentino, per quanto indagato.
Perché, comunque, in grado di controllare ampi settori del voto, su base personale. In Emilia Romagna, invece, il candidato del centrodestra sarà Giancarlo Mazzuca. Giornalista, già direttore del Resto del Carlino. Ora parlamentare. Non propriamente un uomo cresciuto nel ? ed espresso dal ? Pdl regionale. La precarietà del partito risulta meno evidente nelle zone di forza tradizionali di An (e, prima, del Msi).
In Puglia, Calabria oppure Lazio. Il problema, però, è che An non c´è più. E i gruppi dirigenti locali e nazionali che provengono da quel partito sono divisi. Tra la fedeltà a Fini e a Berlusconi.

Renata Polverini, ad esempio, già candidata alla guida della Regione Lazio, è vicina alle posizioni del Presidente della Camera.
Ma proprio per questo non piace ad ampi settori del Pdl. Il cui malessere è stato espresso, a voce (come sempre) alta e forte, da Feltri e dal suo Giornale. Il quale oggi riempie il vuoto politico del Pdl. Gli fornisce argomenti e linguaggio. Indica e colpisce i nemici. Esterni e interni. È lui, oggi, accanto a Berlusconi, la vera guida del Pdl. Di un centrodestra, altrimenti, diretto ? nel Nord, ma anche nelle strategie nazionali ? dalla Lega.

Dunque, dal punto di vista del Pdl: per fortuna che l´opposizione "non" c´è. Che il Pd continua nella sua strategia di "non" scegliere. Tentato dall´alleanza con Casini e dell´Udc. Spettatore di fronte al protagonismo dei Radicali. Insofferente e sofferente davanti a Di Pietro. Così può resistere ancora la leggenda del Pdl, guida di un governo senza opposizione.

Ma neppure il Pdl se la passa bene. In Parlamento, "per sfiducia" nella propria maggioranza, il governo è costretto a ricorrere "al voto di fiducia". All´infinito. Il Pdl: è un Pmm. Partito Mediale di Massa. A cui Berlusconi può fornire ? e fornisce ? immagine e identità.
Risorse infinite. Ma non un programma e un´organizzazione per governare il territorio. Dove appare sperduto. Imprigionato da logiche locali e personali. Che lo condizionano anche a livello nazionale. Un non-partito. Per esistere ha bisogno di una non-opposizione.
 

© Riproduzione riservata (10 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - I disoccupati ci sono ma non si vedono
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2010, 04:23:30 pm
Politica

I disoccupati ci sono ma non si vedono

di ILVO DIAMANTI


Esistono problemi visibili e altri invisibili. A prescindere  -  direbbe Totò  -  non solo dalla realtà ma anche dalla percezione.
La disoccupazione, ad esempio,  esiste: nella realtà e nella percezione. Ma parlarne è da irresponsabili e mostrarla anche peggio.

Basta pensare alla reazione del governo di fronte alle stime fornite dalla Banca d'Italia, che considera il tasso di disoccupazione "reale" superiore al 10%: 2.600.000 persone. Un calcolo scorretto e fantasioso, secondo il ministro Sacconi. Perché associa ai disoccupati anche i cassintegrati cronici e i "lavoratori scoraggiati". Quelli, cioè, che rinunciano a cercare occupazione perché ritengono la situazione sfavorevole. Un'operazione scorretta, quella praticata dalla coppia  Epifani-Draghi. Entrambi disfattisti e, implicitamente, comunisti. Imprenditori delle fabbriche che producono pessimismo, come li ha definiti il premier Berlusconi. Seminano sfiducia e rischiano, in questo modo, di alimentare una crisi che ormai è alle spalle. Anche se i cittadini non sembrano accorgersene. Afflitti da una "percezione" diversa  -  e distorta. La disoccupazione, infatti, preoccupa il 37% degli italiani, secondo la recente indagine di Demos per Unipolis sulla (in)sicurezza. Il 2,5% più dell'anno scorso, ma il 7% più di due anni fa. È motivo di angoscia, non solo in Italia, anche nel resto d'Europa.
Il 51% dei cittadini della UE (dati Eurobarometro) la indica fra le due principali emergenze da affrontare. E il 40% aggiunge anche la crisi economica. Tuttavia, nel nostro paese, questa percezione è anti-italiana. In contrasto con gli interessi nazionali e con la rappresentazione mediale della realtà.

Infatti, se si prendono in considerazione i telegiornali di prima serata delle reti Rai e Mediaset (rapporto dell'Osservatorio di Pavia per Unipolis, dicembre 2009), alla disoccupazione e alle difficoltà economiche delle famiglie, nel periodo fra il 18 ottobre e il 7 novembre 2009, viene dedicato il 7% delle notizie "ansiogene". Quelle, cioè, che raccontano fatti e contesti critici. L'anno prima, nello stesso periodo, lo spazio delle notizie riferite ai problemi economici e dell'occupazione sui telegiornali delle reti pubbliche e private era oltre 4 volte superiore: 27%. Due anni prima, nell'autunno 2007, intorno al 16%. Per cui la disoccupazione c'è, si sente e fa paura. Ma non si deve dire troppo forte. E comunque non si vede. Una analisi condotta dall'Osservatorio di Pavia (per Unipolis) in alcune settimane del 2008-9  sui telegiornali delle reti pubbliche di alcuni paesi europei, sottolinea come il numero delle notizie dedicato dal Tg1 al problema della disoccupazione sia circa un terzo rispetto ad Ard (Germania), un quarto rispetto alla Bbc (Gran Bretagna), un quarto a Tve (Spagna) e, infine, sei volte meno rispetto a France 2. Inutile rammentare il diverso trattamento riservato alla criminalità comune. Di gran lunga l'argomento "ansiogeno" più trattato dalla tivù italiana. In misura nettamente più ampia rispetto al resto d'Europa.

D'altra parte, la criminalità e la violenza spaventano ma piacciono al pubblico, come ha osservato Quentin Tarantino. Uno che se ne intende. Inoltre, esercitano sull'opinione pubblica effetti politici diversi dalla disoccupazione e dalla crisi economica. Penalizzano la sinistra e il centrosinistra, il cui consenso è legato a una idea di sicurezza "sociale" proiettata nel futuro. Mentre oggi la concezione della sicurezza è schiacciata sull'individuo e sulla famiglia, la dimensione sociale si è sbriciolata e del futuro si è perduta traccia. Così i lavoratori e  -  ancor più  -  i disoccupati scompaiono. Non solo perché le grandi fabbriche chiudono e le piccole aziende, flessibili e intermittenti, si confondono nel territorio.  Anche perché non hanno appeal, presso coloro che scrivono l'agenda dei media. In particolare: nella tivù. Le morti: occupano i palinsesti televisivi se diventano tragedie collettive. Oppure se si tratta di piccoli omicidi, catalogati nella criminalità "comune". Mentre gli incidenti sul lavoro non interessano. Nell'autunno del 2009 in Italia i Tg Rai e Mediaset di prima serata  dedicano loro lo 0,2% delle notizie "ansiogene". L'anno prima, sull'onda emotiva sollevata dalla tragedia della ThyssenKrupp, avevano conquistato il 2,6%  delle notizie. Cioè, anche allora, quasi nulla.
Da ciò una conclusione, un po' desolata e desolante, ma difficile da contraddire. Gli operai: fanno notizia quando bruciano in tanti e tutti insieme. Le morti quotidiane sul lavoro  -  1120 nel 2008  -  sono definite eufemisticamente: "bianche". Per cui: poco visibili e dunque poco rilevanti. Perché, al tempo della "democrazia del pubblico", la "rappresentanza" dipende sempre più dalla "rappresentazione".

In altri termini: dalla capacità di "fare notizia", apparire, comunicare. Gli operai non contano, i disoccupati ancor di meno.
Figurarsi: sono non-operai. Non-lavoratori. Lavoratori esclusi oppure scoraggiati. Mettono tristezza, a chi li guarda. Suscitano pessimismo. Per cui è meglio non mostrarli.  Il reality-show della crisi quotidiana che coinvolge le persone e le famiglie: non interessa agli autori della scena mediatica. A coloro che orientano l'informazione. Così, i lavoratori (disoccupati, scoraggiati, minacciati), per esistere e resistere, invece di rivolgersi al sindacato, salgono sulle gru, si gettano dai ponti, a volte si suicidano. O bloccano ferrovie e autostrade. Aziende. Talora, sequestrano dirigenti e imprenditori. Atti violenti? Reati? Certo. In un paese dove la violenza e i reati vanno in scena  quotidianamente - e in primo piano. Sui giornali e nei telegiornali, al centro dei talk-show, al cuore dell'infotainment.
Per sfidare l'audience della criminalità comune, bisogna fare cose eccezionali.

Parafrasando Humphrey Bogart: "È lo spettacolo bellezza! E tu non ci puoi fare niente. Niente".

© Riproduzione riservata (16 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se dalla scuola (per legge) scompare la geografia
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2010, 12:20:49 pm
Rubriche » Bussole

Ilvo Diamanti

Se dalla scuola (per legge) scompare la geografia

ll Consiglio dei Ministri del prossimo venerdì 22 gennaio dovrebbe approvare la riforma della scuola superiore. Nei nuovi curricoli dei licei e degli istituti tecnici e professionali, in via di definizione, la geografia scompare del tutto  -  o quasi. Non si sono sentite proteste, al proposito. Ad eccezione di quelle sollevate, comprensibilmente,  dalle "associazioni di categoria" (in testa l'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e la Società Geografica Italiana), che hanno lanciato un appello accorato (su www.aiig.it e www.luogoespazio.info). Ma c'è da dubitare che troveranno grande ascolto. I problemi che contano e appassionano sono ben altri. Anche se il territorio continua ad essere evocato, per ragioni politiche e polemiche. I confini: vengono chiamati in causa quando c'è da respingere i clandestini. Frontiere invisibili divengono muri visibili per marcare la distanza dagli "stranieri". Per alimentare domanda di sicurezza, per richiamare la comunità perduta. Il nostro piccolo mondo che scompare, schiacciato dal grande mondo che incombe. Così si invocano le ronde, senza poi formarle. E i "confini" della città sono marcati da cartelli segnaletici che, accanto al nome di città "straniere" gemellate, avvertono: non vogliamo "stranieri", guai ai "clandestini". (Quasi che i clandestini si dichiarassero come tali, apertamente, all'ingresso della città).

Siamo orfani dei confini che, tuttavia, non riconosciamo. E non  conosciamo più. Come il territorio. Rimozione singolare, visto che mai come in quest'epoca le identità ruotano intorno ai riferimenti geografici. L'Oriente e l'Occidente. Che, dopo la caduta del muro di Berlino, non sappiamo più come e dove delimitare. In Italia, il Nord e il Sud. La Lega Nord e il Partito del Sud. Si rimuove la geografia mentre la geografia si muove. Insieme ai confini. Centinaia di comuni vorrebbero cambiare provincia. Oppure regione. E molte province si spezzano; mentre, parallelamente, ne nascono altre di nuove. E se guardiamo oltre i nostri confini abbiamo bisogno di aggiornare le mappe. Un anno dopo l'altro. Per de-finire i paesi (ri)sorti in seguito al crollo degli imperi geopolitici. Per "nominare" contesti senza nome oppure ignoti, un attimo prima, il cui nome è rivendicato da popoli che ambiscono all'indipendenza. Da minoranze che vorrebbero venire riconosciute e da maggioranze che ne reprimono le pulsioni. Così, scopriamo, all'improvviso, dell'esistenza di Cecenia, Abkhazia, Ossezia, Timor Est. Mentre Cekia e Slovacchia sono, da tempo, felicemente divise. Ma molti non lo sanno e continuano a "nominare" la Cecoslovacchia.

In questo paese  -  ma non solo in questo - il "popolo" più detestato è quello Rom. Gli zingari. Accusati di molte colpe  -  talora a ragione. La principale fra tutte: non avere una patria. Una residenza. Rifiutarla. Troppo, per una società che ha dimenticato il territorio - sepolto sotto una plaga immobiliare immensa e disordinata. Ma continua a evocare le "radici". E non sopporta chi è nomade. Sempre altrove.

Questa società: non ha più bisogno di mappe, bussole, atlanti, carte geografiche. Basta il Gps. Ciascuno guidato da un satellitare o dal proprio cellulare. In auto ma anche a piedi, in giro per la città. Una voce metallica, senza accento, intima. "Ora girare leggermente a destra, poi andare dritto per 100 metri". Ma se finisci in contromano, una marea di auto che ti corre (in)contro; oppure davanti a un muro, a un divieto di circolazione, e ti fermi, preoccupato, si altera: "Andare dritto!!". E quando cambi direzione, per non essere travolto, non si rassegna e ordina: "Ora fare inversione a U". Anche se hai imboccato una strada a senso unico.

La società del Gps è popolata di persone etero-dirette, che si muovono senza un disegno, né un progetto. Non sanno dove andare e neppure dove sono. Questa società  -  questa scuola - non ha bisogno di geografia, né di geografi. Ma neppure della storia: visto che la geografia spiega la storia e viceversa. Questa società  -  questa scuola  -  questo paese: dove il tempo si è fermato e il territorio è scomparso. Dove le persone stanno ferme. Nello stesso punto e nello stesso istante. In attesa che il Gps parli. E ci indichi la strada.

(21 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Pd, un partito senza fissa dimora
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2010, 03:39:01 pm
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Il Pd, un partito senza fissa dimora

di ILVO DIAMANTI


Il clima d'opinione è grigio. Economia e lavoro. Politica. Anche la fiducia nel premier e nel governo, passata la benefica onda emotiva prodotta dall'aggressione a Milano, un mese fa, si è ripiegata.

Senza, peraltro, che l'opposizione ne abbia tratto vantaggio. Il Partito Democratico, in particolare. Nelle stime elettorali naviga intorno al 30%. Un po' sotto, per la verità. È sceso, rispetto a qualche mese fa. L'elezione di Bersani l'aveva rafforzato. Ragionevole e competente, guardato con simpatia anche dagli elettori di centrodestra. Poi, la sospensione delle ostilità interne: non c'erano più abituati gli elettori del Pd. Così la nave del Pd aveva ripreso il suo viaggio.

Oggi, all'avvio della campagna che conduce alle elezioni regionali di fine marzo, sembra essersi incagliata di nuovo. Senza una rotta. Senza una bussola. Le stesse primarie per scegliere i candidati stanno frenando il Pd. Ciò è significativo, visto che le primarie sono, al tempo stesso, "mito e rito fondativo" (la formula è di Arturo Parisi) del Partito Unitario di Centrosinistra. L'Ulivo di Prodi, dapprima, e, quindi, il Partito Democratico di Veltroni. Diversi modelli di un comune progetto politico e istituzionale: maggioritario e bipolare. La risposta di centrosinistra al modello imposto da Berlusconi.

Oggi le primarie sembrano, invece, un'arena dove regolare i conflitti interni al partito e alla coalizione. Perlopiù, un ostacolo di fronte ai disegni del gruppo dirigente del partito. D'altronde, è difficile ricorrere alle primarie se si privilegia l'alleanza con l'Udc. Che ha fatto del proporzionale una ragione di vita. E che, comunque, non avrebbe una base elettorale adeguata a imporre i propri candidati in una consultazione popolare. Più in generale, è arduo cogliere una strategia coerente nelle scelte del Pd, in questa fase. Quasi dovunque il partito appare diviso. In contrasto al proprio interno e con i dirigenti centrali. Spesso incapace di decidere. Nel Lazio si è piegato - senza discussioni - all'autocandidatura della Bonino. Non proprio in accordo con l'intenzione di accostarsi alle componenti cattoliche moderate e all'Udc. In Puglia, invece, oggi le primarie celebrano lo scontro - più che il confronto - tra Vendola e Boccia (trainato da D'Alema). Divisi su molti temi. Non ultimo l'intesa con l'Udc. Anche a Venezia la scelta del candidato sindaco avviene in un clima acceso. Da vicende personali e dalla questione del rapporto con i moderati. Insomma, le primarie, invece di mobilitare e unificare gli elettori del Pd e del centrosinistra intorno alla ricerca di un candidato comune, si stanno trasformando in una resa dei conti.

Il Pd nazionale non sembra, peraltro, capace di regolare le scelte assunte in ambito regionale. Semmai, le complica ulteriormente. Somma le proprie divisioni a quelle locali. Rischia, così, di affermarsi un "modello balcanizzato", come l'ha definito Edmondo Berselli. Ciò avviene perché il Pd resta sospeso in una zona d'ombra. A metà fra la tentazione - implicita e inconfessa - di rifare il "partito di massa" fondato sulle appartenenze e sull'apparato. E l'imperativo - esplicito - di costruire il "partito dei cittadini", maggioritario e bipolare. Il percorso congressuale ha accentuato questa incertezza. Dapprima, la lunga sequenza dei congressi a livello territoriale ha mimato il "partito di iscritti". Le primarie, poi, hanno evocato il modello americano, che coinvolge elettori e simpatizzanti. Bersani è stato eletto da entrambi i modelli di partito. Avrebbe potuto, sfruttando la legittimazione conquistata, imprimere una svolta chiara al Pd. Indicare un progetto, definire un programma, con obiettivi chiari. Ai "suoi" elettori, anzitutto. Fin qui non l'ha fatto. Anche se continua a riscuotere ampia fiducia personale, mentre il Pd perde consensi. Una contraddizione significativa. Riflesso dell'incerta identità del Pd, ma anche di una leadership personale ancora incompiuta. Bersani, infatti, è simpatico a molti, non solo a sinistra, anche perché le sue parole non fanno male. Non segnano confini netti.

Non marcano appartenenze né differenze chiare. Nello stesso Pd, dove emergono posizioni diverse e talora contraddittorie, ad esempio: sui temi della giustizia e dell'immunità. E ciò lascia trapelare il dubbio che le decisioni importanti vengano prese altrove, da altri. I soliti noti. Magari è una scelta meditata. Ha deciso di non decidere, di lasciare in sospeso le scelte strategiche, in vista di tempi migliori. Per non tradurre le divisioni interne in fratture. Ma allora meglio dirlo apertamente, per non passare da debole. In-deciso.

Insomma, il Pd oggi è un partito in grado di aggregare il 30% dei voti. Ma non dà speranza. Gli riesce difficile allargare i propri consensi. (E perfino tenere quelli che ha). Da solo ma anche attraverso alleanze. Perché non dice chi è, cosa intende fare e insieme a chi. È un ibrido. Forse: un equivoco. Un partito di massa senza apparato, con una debole presenza nella società e un ceto politico resistente. Al centro e in periferia. Un partito americano provincialista. Senza territorio ma condizionato dalle oligarchie locali. Un partito americano all'italiana.

Parla un linguaggio difficile da capire. Anche perché non ha un vocabolario e neppure un sillabario. Non sa gridare uno slogan che risuoni forte nell'aria. Non ha una bandiera riconoscibile, dai sostenitori e dagli avversari. Le parole che usa hanno perso il significato di un tempo. Come il "riformismo". Oggi che le riforme le vogliono tutti. A partire dal premier e dal centrodestra, che pensano alla giustizia, al "legittimo impedimento" e al presidenzialismo. Il Pd: quali riforme vuole? E quali "non" vuole? Detti la sua agenda. Dica due o tre cose "memorabili". Che restino nella memoria.

Le primarie che si svolgono a partire da oggi e le elezioni di marzo, per il Pd, sono un'occasione importante. Importantissima. Da non perdere. Per non perdersi definitivamente. Ma chi lo guida deve tracciare un orizzonte. Che vada oltre i prossimi tre mesi. Per non rischiare che il Pd venga percepito come un partito provvisorio. Soprattutto dai suoi elettori.
 

© Riproduzione riservata (24 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il marketing del Cavaliere e il bipolarismo della xenofobia
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2010, 10:03:16 pm
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Il marketing del Cavaliere e il bipolarismo della xenofobia

di ILVO DIAMANTI


IL PREMIER Silvio Berlusconi nei giorni scorsi ha sostenuto l'equazione: + immigrati = + criminalità.
E ha ribadito il proposito di agire in modo coerente e conseguente. Ridurre gli immigrati per abbassare il numero dei reati e dei criminali. Altre fonti autorevoli hanno contestato la fondatezza di questa relazione.

A partire dalle statistiche sui reati. (Trascurando, peraltro, che il tasso di criminalità cresce insieme al grado di marginalità sociale.
I ricchi non rubano per strada o nelle case. E finiscono in carcere molto più raramente dei poveracci). A noi interessano, invece, le ragioni di questa affermazione. Proprio in Calabria, proprio alla presentazione del piano antimafia. Più logico sarebbe stato un riferimento ai fatti di Rosarno, al ruolo delle organizzazioni criminali e della 'ndrangheta nel mercato e nello sfruttamento dell'immigrazione clandestina. Rivendicando a sé e al governo i successi conseguiti nella lotta alle mafie nell'ultimo anno. Invece no. Piuttosto che alle organizzazioni criminali ha preferito rivolgersi alla criminalità comune, sottolinearne il legame con gli immigrati. Silvio Berlusconi non è un "radical-choc". Raramente indulge alle battute di "bassa lega". Non gli riescono bene come gli attacchi ai magistrati o a "certa stampa" che avvelena le coscienze. Però gli capita. Ogni tanto. E mai a caso.

Perché la scelta dei temi e delle parole, nella comunicazione di Berlusconi, non avviene mai a caso. Mai. D'altronde, i precedenti sono, al proposito, pochi e facili da ricordare. Lo scorso maggio affermò che non è possibile spalancare le porte a tutto il mondo. Che "l'Italia non sarà mai un paese multietnico". Annuncio un po' tardivo, visto che ci vivono ormai 4 milioni e mezzo di stranieri (Rapporto Caritas-Migrantes 2009). Ma, appunto, è "l'annuncio" che conta. E, poi, il 4 giugno: "In alcune città italiane, come Milano, a camminare per il centro, vedendo il numero di cittadini stranieri, sembra di essere in una città africana". Perché a Parigi, Londra oppure a New York, nelle altre metropoli globali, evidentemente, è diverso. Tutti rigorosamente bianchi. Ma Silvio Berlusconi non è un radical-choc. Se maneggia la xenofobia non lo fa per convinzione ma per opportunità. Per marketing. Un tema fra gli altri. Come il calcio, il dolore, lo sport, le donne. Basta far caso ai momenti. Le frasi appena ricordate risalgono, infatti, alla campagna elettorale delle ultime europee. Nell'ultimo caso, il 4 giugno, al comizio conclusivo tenuto a Milano insieme a Bossi. Anche oggi siamo in piena campagna elettorale. E se il nemico, per Berlusconi, è il Pd, insieme all'UdC, l'avversario è la Lega. A cui ha ceduto la candidatura alla presidenza di due regioni importanti: il Piemonte e il Veneto (un'enclave). La Lega: alleata necessaria eppure scomoda per un partito, il PdL, che ha una base elettorale estesa nel Mezzogiorno. Ed esprime orientamenti molto diversi dai leghisti. La criminalità, ad esempio, non è tutta uguale agli occhi degli elettori.

La criminalità "comune": preoccupa molto gli elettori di centrodestra. Meno quelli di centrosinistra, più reattivi nei confronti della criminalità "organizzata". Vediamo i dati dell'ultima indagine di Demos-Unipolis (novembre 2009). La criminalità "comune" è considerata più grave di quella "organizzata" dal 19% degli elettori del Pd e dal 16% tra quelli dell'IdV. Fra gli elettori del PdL questo sentimento è espresso da una componente doppia: 35%; e di quasi tre volte superiore fra quelli della Lega: 50%. Simmetrico e complementare l'orientamento rispetto alla criminalità organizzata. La considera più grave di quella comune il 76% degli elettori nel Pd e nell'IdV, ma il 58% nel PdL e il 49% dei leghisti (che lo ritengono, a torto, un problema che non tocca il "loro" mondo, ma il Sud). Lo stesso profilo caratterizza l'atteggiamento verso gli immigrati. Li ritengono un pericolo per la sicurezza o per il lavoro: il 30% tra gli elettori del Pd, il 39% dell'IdV, il 62% del PdL e il 66% della Lega. In questo bipolarismo della xenofobia, gli elettori dell'UdC si pongono in posizione intermedia. A metà strada fra sinistra e destra.

In Italia, dunque, la paura della criminalità è diffusa, come quella nei confronti degli immigrati. Perlopiù, le due paure vanno insieme e contagiano tutti i contesti e tutti gli elettorati. Ma alcuni in modo diverso e maggiore rispetto agli altri. Negli ultimi anni, queste paure si sono allentate. In particolare dopo le elezioni politiche del 2008, che hanno sancito il successo chiaro e netto del centrodestra. Ciò ha reso la paura degli altri meno utile, politicamente  -  e meno interessante per i media. Ma oggi siamo di nuovo in campagna elettorale. Alla vigilia delle regionali, che riscriveranno i rapporti fra gli schieramenti, ma anche al loro interno. Per cui la paura torna ad essere un buon tema di marketing politico. Gli scontri di Rosarno evocano la rivolta degli stranieri contro la 'ndrangheta calabrese. Sono stati rappresentati associando immigrazione, sfruttamento, criminalità organizzata, Mezzogiorno. Tutti insieme, in un campo di significati unitario. Che disturba soprattutto il PdL. Mentre piace alla Lega e non dispiace al centrosinistra. Da ciò la preoccupazione del premier: sottolineare il legame fra immigrazione e criminalità "comune", evocando, insieme, l'invasione degli stranieri. Temi che incontrano il favore degli elettori di centrodestra, soprattutto nel Nord. Mentre il tema della criminalità "organizzata" resta sullo sfondo. Nonostante i risultati ottenuti dal governo su questo fronte. Per non sottolineare di più i meriti del ministro Maroni (e della Lega). Per non turbare troppo la sensibilità degli elettori del PdL, disturbati dalle voci e dalle inchieste che ne hanno coinvolto leader nazionali e locali.

Così vanno le cose in questo paese. Dove tutto è valutato in base all'impatto politico mediatico. A partire dalle parole. Negri o terroni; rom, romeni o romani; trans o escort; criminali comuni o mafiosi.

È solo questione di voti e di share. 

(31 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sordi, ciechi e solitari la nostra vita al tempo dell'iPod
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2010, 04:03:09 pm
Sordi, ciechi e solitari la nostra vita al tempo dell'iPod

Ilvo Diamanti

Oggi mi sono recato a Milano in treno. Ne ho approfittato per accompagnare mio figlio Nicola a Vicenza. A scuola. Si è seduto in auto, nel sedile dietro. Io ho cominciato a parlargli. Delle lezioni del mattino, del Chievo,  di suo fratello, del viaggio a Londra, ormai prossimo. Così, per risvegliarmi insieme a lui, vista l'ora. Nessun segnale. Nessuna risposta. Non dormiva, come immaginavo. Semplicemente, era altrove. Da solo con se stesso. IPod e cuffie. Immerso nel suo metal, in grado di svegliarlo, sicuramente, più di ogni chiacchiera con me.  Così ho rinunciato.

Ho proseguito fino all'incrocio accanto al suo liceo. Mi sono fermato con il rosso, la porta si è aperta. E lui se n'è andato con un ciao distratto. Risucchiato dal flusso degli studenti. Tutti rigorosamente attrezzati di cuffia e Ipod.  Tutti soli in mezzo agli altri. Ho tirato dritto fino alla stazione. Parcheggiata l'auto, ho preso al volo il Freccia Rossa (o forse Argento, non ricordo). E mi sono sistemato al mio posto. Il vagone, pieno di professionisti, in missione. Tutti con il portatile aperto, sul tavolino di fronte a loro. Intenti a navigare, comunicare via email, Facebook, Twitter. Alcuni immersi nella visione di un film o di un video. Con cuffia. Per non disturbare e non essere disturbati. Poi i cellulari. Un concerto di suonerie, le più diverse. Sinfonie, riff di James Brown, accordi dei Deep Purple, rombi di monoposto di Formula 1. Cani che abbaiano e bimbi che piangono. Meno fastidiosi, certo, dei dialoghi e delle risposte. I cazzi loro recitati ad alta voce, ci mancherebbe.  Abituati ad essere soli in mezzo al mondo. Sempre soli. Tutti soli. Ovviamente, armati di occhiali neri. Per guardarsi intorno senza mostrare gli occhi. Cioè: senza essere visti. In mezzo al vagone, tre persone (sindacalisti, mi pare) impegnate a discutere. A voce alta, ma non più degli altri che telefonavano. Le ho trovate irritanti, tanto era strano vedere e sentire dei passeggeri parlare tra loro.  Uno davanti all'altro. Gli unici a comportarsi come non fossero da soli. Insopportabile. Per cui ho aperto la mia cartella, ho estratto il Mac Air, mi sono connesso alla posta elettronica e ho indossato gli occhiali neri. Poi, ho acceso i'iPod. E, mentre dalle cuffie uscivano le note di Karma Police dei Radiohead, mi sono sentito tranquillo. Anch'io: finalmente solo.
 

(03 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Dov'è finito il cambiamento
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2010, 06:21:43 pm
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Dov'è finito il cambiamento


di ILVO DIAMANTI

Galleggiamo sullo stagno del nostro tempo immobile. Dove il futuro è introvabile  -  come si usa dire spesso. Nascosto, insieme ai giovani. Oppure simulato, come la gioventù che non finisce mai. Inibito nel linguaggio.

Di "cambiamento": chi ne parla più? È una parola rimossa dalla comunicazione politica. Scomparsa dal sillabario della vita quotidiana. Qualcuno potrebbe eccepire che non si tratta di una grande perdita, visto che non se n'è accorto nessuno. Ma per questo la rimozione appare più significativa. Tanto più perché riguarda una parola  -  e un concetto  -  di largo uso e di grande successo, nel secolo scorso. Fino a pochi anni fa. Declinato in diversi modi: trasformazione, mutamento. Progresso.

Anche negli ultimi decenni abbiamo assistito alla celebrazione del "cambiamento". Si pensi all'epica della modernizzazione interpretata da Craxi negli anni Ottanta. Ma soprattutto alla cosiddetta "rivoluzione" dei primi anni Novanta, che ha prodotto il crollo della prima Repubblica. Ha sbriciolato cinquant'anni di storia, lasciandoci senza passato. Così siamo stati costretti a guardare avanti. A "cambiare".
E molto è effettivamente cambiato. In modo confuso, frammentario, per strappi e senza un disegno o un progetto condiviso. Anni convulsi, scossi da una sorta di isteria del "nuovo". Parola magica, usata come passepartout da quanti  -  tanti  -  hanno invocato una Repubblica "nuova", con partiti "nuovi" e uomini "nuovi". In quanto estranei alla politica tradizionale e alla tradizione politica. Leghe e partiti personali. Uomini politici rigorosamente extrapolitici. Esterni alla politica. E meglio se antipolitici. Imprenditori, artigiani, militanti della società civile e del "sociale", attori, autori, sportivi, presentatori e presentatrici tivù.

E' di quegli anni il mito della "Grande Riforma". Perché ri-formare significa dare una forma "nuova" alle istituzioni. Quindi "cambiare"  -  in modo sostanziale  -  rispetto al passato: lo Stato, il sistema politico, le istituzioni, il governo. Attraverso il presidenzialismo e il semipresidenzialismo, oppure il premierato/cancellierato; e poi il federalismo, il sistema americano, il maggioritario, il bipolarismo e magari il bipartitismo. Il partito leggero e le primarie. Per quanto tempo se n'è parlato e discusso. Anzi, non si è mai smesso. Però, in modo sempre meno convinto. E, soprattutto, sempre meno condiviso dai cittadini. Dalla mitica società civile che aveva partecipato in modo coinvolto e appassionato alla stagione del cambiamento, nei primi anni Novanta. Votando massicciamente ai referendum e premiando i partiti e i leader "nuovi" alle elezioni politiche.

Alla fine del decennio, tuttavia, questa spinta si spegne. Tutti i referendum falliscono. I cittadini: dal 1999 si oppongono a ogni tentativo di modificare il sistema elettorale in senso definitivamente maggioritario. L'unico referendum che supera la soglia del 50% di partecipazione elettorale, nell'ultimo decennio, è quello che, nel giugno 2006, boccia le riforme costituzionali. Approvate in fretta e furia dalla maggioranza di centrodestra l'anno prima. Segno che l'ansia di cambiamento, fra i cittadini, si era ormai spenta. D'altronde, da tempo, anche il linguaggio si è adeguato a quest'epoca stagnante. Non si parla più del "Cambiamento", ma piuttosto di "cambiamenti". Meglio ancora di "innovazioni", che toccano aspetti specifici e puntuali della realtà, senza pretendere di ri-disegnarla. Inoltre, al Cambiamento subentra il riferimento alla Transizione, che significa Passaggio. Cioè: siamo in viaggio. Ma senza sapere perché. Così, dopo anni e anni passati a viaggiare senza mèta, a "innovare" senza un fine preciso e condiviso, la Transizione è divenuta una condizione stabile (e non transitoria). Mentre il cambiamento e i termini ad esso collegati hanno perso significato. Come le riforme: oggi le vogliono tutti, a parole, ma pensano a cose diverse e spesso opposte. D'altronde, i riformisti più accaniti oggi stanno a destra. Solo che pensano a ri-formare la giustizia, a ristabilire l'immunità parlamentare  -  anzitutto per il premier. Più che una ri-forma, un ri-torno. Alla prima Repubblica. D'altronde, più che sul cambiamento futuro, il dibattito politico  -  e sociale  -  è tutto ripiegato sul passato. Si discute di Craxi e di Tangentopoli. Dei comunisti e dei socialisti. Dei democristiani no, perché non sono mai passati di moda. E, di data in data, si risale  -  o si ridiscende  -  lungo la nostra storia. Al 1968, alla Resistenza. Fino all'Unità nazionale.

Il sospetto  -  fondato  -  è che si discuta del passato con gli occhi rivolti al presente. Anche perché il cambiamento si è, ormai, consumato. La classe politica della prima Repubblica è tornata, in parte non se n'è mai andata. La si incontra oggi in tutti i principali partiti e schieramenti. Gli uomini "nuovi", peraltro, stanno, ormai da tempo, saldamente al potere. Bossi e Berlusconi, in testa. Per cui non sono più "nuovi". Perché, allora, dovrebbero "cambiare"? Anche i leader e i parlamentari del centrosinistra, sopravvissuti, in gran parte, alla fine dei partiti di massa. Perché dovrebbero evocare  -  o peggio: promuovere  -  il cambiamento? La loro posizione è, in fondo, garantita da partiti largamente oligarchici e da un sistema elettorale conservatore. Le difficoltà in cui versa il progetto dell'Ulivo e del Pd, in fondo, hanno la stessa origine. La resistenza al  -  e la rimozione del  -  cambiamento. A cui la destra può opporre l'uso della tradizione in senso neo  -  e teo  -  con (servatore). Come risposta allo spaesamento sociale, culturale ed etico prodotto dal "cambiamento". La sinistra no. Per storia, valori, per coerenza con le domande della sua base sociale: ha bisogno di immaginare il cambiamento. E di evocarlo ad alta voce. Senza farsi tentare dalle (note) parole di Tancredi, quando (nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa) suggerisce allo zio, don Fabrizio Salina: "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!".

© Riproduzione riservata (07 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La società fra etica e anestetica
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2010, 10:21:55 pm
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La società fra etica e anestetica

di ILVO DIAMANTI


Il sospetto è che: "Tanto rumore per nulla". Come altre volte. Che il clamore intorno allo scandalo sugli appalti gestiti dalla Protezione civile in vista del G8 a La Maddalena e nella ricostruzione, dopo  il terremoto in Abruzzo, alla fine, non produca effetti.

Non ci riferiamo all'ambito giudiziario. L'inchiesta seguirà il suo percorso, per accertare la fondatezza di accuse tanto infamanti. Ne verificherà le responsabilità e i responsabili. Non ci riferiamo neppure al versante politico, dove tutto si è svolto secondo copione. A partire dalla difesa del premier nei confronti del sottosegretario Bertolaso. Attesa e prevedibile, anche nelle parole. Quasi per riflesso pavloviano. Il nostro sospetto riguarda, invece, l'atteggiamento della "società media", rilevato dai sondaggi. Tradotto e banalizzato in Opinione Pubblica. L'opinione della maggioranza. Silenziosa. Il sospetto è che, anche questa volta, la reazione della "società media" si limiti a quel brontolio, continuo e diffuso, che pervade la vita quotidiana. Dove tutti - davvero: tutti - si lamentano, recriminano, criticano. A voce bassa. Dichiarano la loro sfiducia verso i "politici". Di ogni parte. Ma soprattutto di sinistra, perché loro, prima e più degli altri, hanno sollevato la questione "morale". Se ne sono fatti garanti. Finendone, anch'essi, invischiati. Per cui prevale la convinzione - popolare - che ogni reazione, ogni moto di indignazione: è inutile. Non serve. Sono tutti uguali. E nulla cambia.

Da ciò il rischio: l'assuefazione a ogni scandalo. Che quindi non dà più scandalo. E induce, anzi, a guardare con sospetto chi si scandalizza. A trattarlo - con acida ironia - da "professionista dell'indignazione". Così, dopo ogni esplosione polemica, sopravviene - e ritorna - il silenzio. O meglio: il mormorio. La colonna sonora (meglio: il sottofondo) al tempo della "società sfrenata". Senza freni. Perché, anzitutto, si sono persi i riferimenti che associavano e orientavano i cittadini. Nel rapporto con le istituzioni e con il governo. I partiti di massa, grandi educatori al servizio di un progetto futuro. Dissolti. Personalizzati e oligarchici. Le grandi organizzazioni "intermedie" di rappresentanza. I sindacati, in primo luogo. Perlopiù burocratizzati. Una base ampiamente composta da impiegati pubblici e pensionati. Difficile chiedere loro di imporre vincoli morali. Fatica perfino la Chiesa, scossa e divisa al suo interno, come dimostrano le tensioni emerse dopo la campagna diffamatoria che ha costretto alle dimissioni il direttore dell'Avvenire, Dino Boffo. Lo stesso mondo del volontariato, il mitico Terzo settore, oggi appare impegnato - peraltro, con successo - sul mercato dei servizi più che dei valori. E gli "intellettuali". Reclutati dai media. (Soprattutto dalla tivù). Oppure dai partiti. Voci deboli, perché hanno poco da dire. (Io, naturalmente, non mi chiamo fuori. Anche se la definizione di "intellettuale" mi fa rabbrividire).

Così, oggi è difficile trovare soggetti in grado di rafforzare il senso "civico" della società, ma anche di inibire il senso "cinico". Mancano, cioè, i "freni". Gli stessi "anticorpi della democrazia", come scrive da tempo Giovanni Sartori.

Ma forse c'è dell'altro. Oltre al "familismo amorale", riferito alla società del Mezzogiorno nel classico studio di Edward Banfield degli anni cinquanta - e oggi esteso all'intera società italiana. Oltre alla delusione prodotta dal ripetersi ciclico di rivolte antipolitiche puntualmente riassorbite e rimosse. Prima Tangentopoli, poi, quindici anni dopo, la Casta. E come effetto: dai partiti di massa ai partiti personali, ispirati da Forza Italia e Silvio Berlusconi.

Oltre a tutto ciò, dietro al disincanto diffuso del nostro tempo, c'è la mutazione del rapporto fra società e politica. Mediato dai media. Cioè: im-mediato. Senza mediazione. La politica e i leader di fronte agli elettori soli. In modo asimmetrico e squilibrato. Perché oggi la metafora più adeguata per descrivere il sistema della rappresentanza (ben delineata dal filosofo Bernard Manin) richiama la "scena", dove si confrontano gli attori e il pubblico. Il quale può, certamente, decretare il successo oppure il decesso di un programma e (simbolicamente) di un attore. Ma, appunto, non è lui a decidere i palinsesti. Perché può solo reagire a un'offerta elaborata dall'esterno. A cui non partecipa. Ebbene, fatti e attori della scena politica in questa fase propongono una rappresentazione davvero amorale. Dove il dolore si mischia alla speculazione, la tragedia alla corruzione. Dove il pianto è interrotto dalle risa. La biografia del potere accosta, una accanto all'altra, figure e immagini di generi contrastanti. Da Rosarno a Palazzo Grazioli. Da L'Aquila alle telefonate di Balducci, Anemone e compagnia. E poi: i morti sul lavoro, i potenti della terra, escort e veline, aggressioni violente, il volto insanguinato del premier. Le immagini si sommano e si confondono. Senza soluzione di continuità. In questo paese provvisorio, abitato da post-italiani (per usare una felice e amara definizione di Edmondo Berselli), tutti siamo spettatori di una rappresentazione in-differente. Dove non c'è differenza fra giusto e ingiusto, giudici e malfattori, furbi e onesti. Buoni e cattivi. Perché i cattivi, i furbi e i disonesti fanno audience. Questa democrazia fondata sulla "deroga" (come l'ha chiamata nei giorni scorsi Ezio Mauro) rammenta un reality, anzi: iper-reality show. Dove al massimo possiamo "nominare": Bertolaso oppure Berlusconi. (Gli altri sono già usciti dal gioco). Consapevoli del rischio: che il nominato, invece di essere escluso, resti protagonista della scena. Come prima e più di prima.

D'altronde, è difficile vedere alternativa. Se ci si arrende al pensiero unico: del partito personale, della scena mediatica al posto del territorio, dello spettatore al posto del cittadino, del senso comune al posto del senso civico. Dell'Opinione Pubblica dettata dai sondaggi invece che dal dibattito "pubblico" sui problemi, con la partecipazione degli attori sociali e degli intellettuali.

Allora il senso civico si confonde con il senso comune. E il senso etico diventa, al più, anestetico.

© Riproduzione riservata (14 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'ideologia del fare
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2010, 05:34:55 pm
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L'ideologia del fare

di ILVO DIAMANTI


È l'era del "fare". I fatti contrapposti alle parole. Quelli che "fanno" opposti a quelli che "dicono". E perdono tempo a discutere, controllare, verificare. È un argomento caro al premier. Ripreso, in questi giorni, con particolare insistenza per replicare alle polemiche.

Polemiche sollevate dalle inchieste della magistratura sull'opera della Protezione civile, in Abruzzo dopo il terremoto e alla Maddalena, in vista del G8 (in seguito spostato a L'Aquila). E, ancor più, contro le critiche al progetto di trasformare la Protezione civile in Spa per meglio affrontare ogni emergenza. Allargando il campo dell'emergenza fino a comprendere ogni evento speciale e straordinario. Per visibilità e risorse investite. Oltre alle celebrazioni del 150enario dell'Unità d'Italia: i giochi del Mediterraneo e i Mondiali di nuoto; l'Anno giubilare paolino, l'esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Cupertino, e i viaggi del Papa in provincia (perché non quelli del presidente della Repubblica e del premier?). Insomma, tutto quanto fa spettacolo e richiede grandi quantità di mezzi. Affidato alla logica della "corsia preferenziale", superando i vincoli imposti dalle regole, dalle procedure. Dagli organismi di controllo istituzionali. Per sottrarsi ai tempi e alle fatiche della democrazia.

Che spesso delude i cittadini. E impedisce al governo di produrre risultati da esibire, come misura dell'efficacia della propria azione.

La mitologia del "fare" è alla radice del successo politico di Silvio Berlusconi. Il sogno italiano. L'imprenditore che si è "fatto" da sé. Dal nulla ha costruito un impero. In diversi settori. Da quello immobiliare a quello editoriale. A quello mediatico. Anche nello sport, ovviamente. Ha sempre vinto. Dovunque. E ha imparato che, se vuoi "fare", le regole, le leggi e, peggio ancora, i controlli a volte sono un impedimento. I giudici e i magistrati, per questo, possono rappresentare un ostacolo. Perché non sono interessati ai risultati, ma alle procedure. Alla legittimità e non alla produttività. Anche se nell'era di Tangentopoli i giudici erano celebrati da tutti (o quasi). Tuttavia, allora apparivano non i garanti della giustizia, ma i "giustizieri" di una democrazia malata. Bloccata e soprattutto improduttiva. Ostile ai cittadini e agli imprenditori.

Sul mito del "fare" si basa l'affermazione del politico-imprenditore alla guida di un partito-impresa, che gestisce la politica come marketing e promette di governare il paese come un'azienda. Anzi: di guidare l'azienda-paese. In aperta polemica con il professionista politico e il partito di apparato.

Si delinea, così, un modello neo-presidenziale di fatto. Realizzato su basi pragmatiche ed economiche. Quindi, molto più libero da regole e controlli rispetto ai sistemi presidenziali e semi-presidenziali effettivamente vigenti nelle democrazie occidentali.

L'evoluzione della Protezione civile è coerente con questo modello. Ne è il prodotto di bandiera, ma anche il modello esemplare. In fondo, Bertolaso anticipa e mostra quel che Berlusconi vorrebbe diventare (e costruire). È il suo Avatar. Affronta emergenze "visibili" e produce per questo risultati "visibili". In tempi rapidi. Puntualmente riprodotti dai media. Napoli. Sepolta dall'immondizia. L'Aquila devastata. Poi, arriva Bertolaso. L'immondizia scompare. Le prime case vengono consegnate a tempo di record. Sotto i riflettori dei media. Che narrano il dolore, l'emozione. E i successi conseguiti dal premier-imprenditore attraverso il suo Avatar. Aggirando vincoli e procedure. Perché nelle calamità, come in guerra, vige lo Stato di emergenza, che non rispetta i tempi della democrazia e della politica. Da ciò la tentazione di estendere i confini dell'emergenza fino a comprendere i "grandi eventi". Cioè: tutto quel che mobilita grandi investimenti, grandi emozioni e grande attenzione.

La Protezione civile diventa, così, modello e laboratorio per governare l'Italia come un'azienda. Dove il presidente-imprenditore può agire e decidere "in deroga" alle regole e alle norme. Perché lo richiede questo Stato (di emergenza diffusa e perenne). Dove il consenso popolare è misurato dai sondaggi. Dove, per (di) mostrare i "fatti", invece che al Parlamento ci si rivolge direttamente ai cittadini. O meglio, al "pubblico". Attraverso la tivù. Dove anche la corruzione diventa sopportabile. Meno "scandalosa", quando urge "fare" - e in fretta.

Di fronte a questa prospettiva - o forse: deriva - ci limitiamo a due osservazioni
La prima: la democrazia rappresentativa non si può separare dalle regole. Perché la democrazia, ha sottolineato Bobbio, è un "metodo per prendere decisioni collettive". Dove le procedure e le regole sono importanti quanto i risultati. Perché garantiscono dagli eccessi, dalle distorsioni, dalle degenerazioni. Come rammenta Montesquieu (nel 1748): "ogni uomo di potere è indotto ad abusarne. Per cui bisogna limitarne la virtù". Bilanciandone il potere con altri poteri. Perché, aggiunge un altro padre del pensiero liberale, Benjamin Constant (nel 1829): "ogni buona costituzione è un atto di sfiducia". Nella natura umana e del potere.

La seconda osservazione riguarda il fondamento del "fare", cui si appella il premier. In effetti, coincide con il "dire". Meglio ancora: con l'apparire. Perché i "fatti" - a cui si appella Berlusconi - esistono in quanto "immagini". Proposte oppure nascoste dai media. Secondo necessità. Come i "dati" dell'economia e del lavoro. Come i disoccupati o i cassintegrati e i morti sul lavoro. Che appaiono e - preferibilmente - scompaiono sui media. A tele-comando. Perché il pessimismo e la sfiducia minano la fiducia dei consumatori e dei cittadini. Meglio: del cittadino-consumatore. O viceversa.

È la retorica del "fare". Narrazione e al tempo stesso ideologia di successo. Per costruire e proteggere l'Italia spa.
 

(21 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Repubblica democratica di Sanremo
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2010, 03:29:49 pm
La Repubblica democratica di Sanremo

Ilvo Diamanti

Il risultato del Festival di Sanremo è utile a capire come funziona la democrazia rappresentativa. Tanto più e soprattutto in un sistema maggioritario e presidenziale, dove "vince uno solo". Quello che prende più voti. Al tempo della democrazia personale e mediatica. Naturalmente, dipende dagli elettori. Il "popolo sovrano". Che in questo caso, come abbiamo visto, non è uno solo. I popoli sovrani sono molti e non la pensano allo stesso modo. Anzi, pensano in modo molto diverso.

C'è il popolo informato e interessato, che corrisponde alla giuria popolare, selezionata da Ipsos di Nando Pagnoncelli. Rappresentativa delle persone che acquistano musica  -  nei negozi o su internet  -  o comunque la conoscono e la ascoltano con regolarità. Sono elettori esperti. Poi, ci sono gli specialisti. I maestri orchestrali. Più che elettori interessati: veri e propri militanti. In grado di valutare le qualità dei concorrenti e della loro offerta. Le canzoni e i cantanti. I programmi e i candidati. Infine ci sono gli elettori disinteressati. Quelli che ascoltano la musica in modo disattento. Quando passa in tivù. Interessati ai personaggi più che alle canzoni. Non indifferenti alle qualità canore dei concorrenti, ma assai più attenti alla loro immagine e al loro appeal mediatico.

È il pubblico del televoto. L'elettore medio. Influenzato, come dice la parola stessa, dalla televisione più che dalla canzone, dalla popolarità dei cantanti più che dalle loro capacità e dalle loro doti interpretative. Il risultato, letto in questa chiave, si spiega senza ricorrere a spiegazioni complottiste e truffaldine. Perché non sono necessarie a illustrare un esito è comunque comprensibile e ragionevole. Nelle prime serate hanno votato gli elettori interessati e competenti, i quali hanno escluso il trio, guidato dal principe e dal pupo. Ma anche il giovane Amico di Maria De Filippi. Hanno invece premiato le voci e i testi. Gli elettori "medi", invece, hanno ripescato gli esclusi e li hanno trascinati al successo. Hanno, cioè, premiato i personaggi televisivi. I più noti, perché stanno spesso in tivù, perché hanno un volto noto e una storia da narrare. Tra questi, i più giovani hanno votato per i cantanti promossi dai cosiddetti talent show. Valerio Scanu e Marco Mengoni. Per mesi e mesi sotto gli occhi di tutti. Non solo a cantare e a ballare, ma a vivere il loro reality, tra amici e talent scout alla ricerca dell'X factor. Sotto gli occhi appassionati del pubblico interessato - più che alle canzoni  -  alle lacrime, ai sentimenti personali, alle vicende di gelosia, simpatia e antipatia. Televotati di settimana in settimana. Con successo. I più anziani, invece, hanno votato per il trio. Non solo per il Principe, ma anche per Pupo. Il "re dei pacchi". Da anni in video, nella prima rete, in prima serata. Magari non sapevano neppure che cantasse, i suoi elettori, ma lo hanno votato perché è simpatico. Perché porta fortuna. Anche il principe, d'altronde, è un personaggio tivù di primo piano. Sdoganato, molti anni fa, non da un monarchico, ma da un "democratico pop" come Fabio Fazio. Al tempo di "Quelli che il calcio". Poi, si è fatto da solo, "ballando sotto le stelle". Evidentemente piace. Non solo perché è principe (anche se, ovviamente, aiuta). Suo padre, per dire, difficilmente avrebbe ottenuto lo stesso risultato.

Come immaginare un esito diverso, su queste basi e con queste premesse? I voti valgono tutti allo stesso modo. Che vengano espressi da elettori esperti o disinteressati, militanti o abulici: non importa. Una testa conta un voto. Di qualsiasi testa si tratti. Ma le teste che guardano Amici, i pacchi e ballando sotto le stelle sono molto più numerose di quelli che vanno ai concerti, acquistano dischi o scaricano musica dalla rete (perlopiù gratis). E infinitamente di più rispetto alle teste di quelli che la musica la suonano, da professionisti e da virtuosi. Per cui tutto è finito come doveva. Com'era prevedibile. Com'era già successo altre volte. E la vittoria dei giovani, in particolare dell'Amico di Maria De Filippi, si spiega, probabilmente, con il fatto che gli elettori del principe e di Pupo sono molto più anziani. Al momento del voto finale, passata ormai mezzanotte, esausti, hanno spento la tivù e sono andati a dormire.

Perché stupirsi o, peggio, scandalizzarsi, allora? Quando la televisione prende il sopravvento e la tivù diventa l'unica arena della competizione  -  musicale, ma anche politica  -  vince chi recita meglio la parte. Chi è più telegenico, chi è più conosciuto dal pubblico, chi dispone di consulenti e bravi e impresari potenti. È la democrazia del pubblico.

E allora, non vorrete che vinca Bersani, anche se canta discretamente e gli piace Vasco? Meglio  -  per tutta la vita  -  Silvio, che ha cantato sulle navi e ancora canta, quando gli capita, con Apicella. E poi racconta barzellette e trasforma in spettacolo anche le tragedie  -  pubbliche e personali. Silvio: non ha bisogno di promuovere gli altri. Basta lui. Che ha confidenza con i media, perché sono suoi. E se a me  -  elettore esperto e informato - non piace, se io voto per altri. Chissenefrega. Tanto peggio. Io, Scanu e Mengoni non li avevo mai sentiti nominare prima. (E comunque non li ho sentiti neppure a Sanremo, perché non l'ho guardato). Non vorrete mica che proprio io possa decidere chi vince a Sanremo - e magari anche le elezioni?

(22 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le due città di Tangentopoli
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2010, 01:12:26 pm
Politica

Atlante politico.

Le due città di Tangentopoli

di ILVO DIAMANTI

È forte l'impressione che Tangentopoli sia ancora qui, tanto rimbalza nei discorsi pubblici. Tangentopoli. Il sondaggio dell'Atlante politico di Demos, presentato oggi su La Repubblica, lo conferma e fornisce dati molto espliciti al proposito.

GUARDA LE TABELLE SUL SITO DI DEMOS

Oltre 7 italiani su 10 pensano, infatti, che la corruzione sia molto diffusa nella politica nazionale, oltre 1 su 2 anche in quella locale e negli appalti. Hanno l'impressione, cioè, che non sia cambiato nulla da un tempo. Infatti, la grande maggioranza dei cittadini ritiene che, rispetto agli anni di Tangentopoli, la corruzione sia egualmente (48%) oppure più (36%) diffusa. Più che di un ritorno, si dovrebbe, dunque, parlare di un fenomeno mai davvero scomparso.

Per questo, appare generalizzata la richiesta di confermare i sistemi di controllo e di garanzia nei confronti delle degenerazioni della vita politica, oggi messi in discussione dal governo e dalla maggioranza di centrodestra. Senza soluzione di continuità. Quasi 8 persone su 10 sono contrarie all'immunità per i parlamentari; 2 su 3 a iniziative di legge volte a sospendere i procedimenti nei confronti delle principali figure istituzionali, compreso (soprattutto) il Premier. Fra gli elettori di destra (e soprattutto del Pdl) la contrarietà è minore, ma resta elevata.
Tuttavia la percezione dominante è che, appunto, non molto sia cambiato, rispetto a un tempo. L'immunità parlamentare, ad esempio. Nessuno o quasi vuole che venga ripristinata. Ma la maggioranza dei cittadini non pare essersi accorta che è stata abolita - o comunque limitata.


C'è scarsa indulgenza, peraltro, nei confronti dei politici accusati oppure solamente inquisiti per questi fatti. Gran parte degli italiani (6 su 10) vorrebbe che si dimettessero. Allo stesso modo, la maggioranza degli intervistati considera le intercettazioni telefoniche utili, nonostante una quota significativa di persone (circa un terzo) valuti eccessivo l'uso che se ne fa. Tuttavia, solo una frazione minima le considera un abominio da abolire, come vorrebbe il Premier. Più delle violazioni alla privacy, cioè, gli italiani sembrano preoccupati di quelle alla legalità.

Rispetto al tempo di Tangentopoli, tuttavia, si colgono alcune significative differenze.
La prima riguarda i magistrati. I quali sono comunque guardati con fiducia da una quota di italiani molto ampia (oltre 4 su 10), peraltro in crescita negli ultimi anni. Ma vengono percepiti con ostilità da una parte altrettanto estesa di persone. I protagonisti della stagione di Tangentopoli oggi costituiscono un riferimento discriminante. Quasi una linea di frattura. Un po' meno della metà degli italiani li considera un baluardo nella lotta contro la corruzione e a sostegno della legalità. Mentre il 40% ne critica l'eccessiva politicizzazione. Una divisione di cui è chiara l'impronta politica. Il consenso verso i magistrati fra gli elettori del Pd e di Idv sale all'80%. Mentre circa 7 elettori del Pdl e 6 della Lega su 10 li considerano attori politici, alleati  -  anzi: la guida - dell'opposizione.

Quindici anni di polemiche frontali, lanciate dal premier e dal centrodestra, con cadenza continua - anche negli ultimi giorni - hanno lasciato il segno. Un marchio indelebile. Per questo oggi Tangentopoli non ha lo stesso significato, lo stesso impatto politico dei primi anni Novanta. Insomma: non è la Città corrotta da distruggere. Rappresenta, invece, un fenomeno deprecato e condannato senza riserva. Ma anche con un po' di fatalismo.
D'altronde, non tutta l'azione del governo e non tutto l'intervento pubblico sono valutati allo stesso modo. In particolare, l'ambito della Protezione civile e il suo titolare, Guido Bertolaso, nelle ultime settimane al centro di polemiche roventi e di inchieste giudiziarie critiche. Godono, comunque, di consensi elevatissimi. E trasversali. A destra come a sinistra. Le degenerazioni prodotte dalla gestione di grandi risorse in condizione di deroga ai controlli e alle procedure non hanno mutato, fin qui, l'atteggiamento degli italiani. L'Abruzzo, ad oggi, conta molto più de La Maddalena.

Infine, sotto il profilo dell'orientamento politico, non si vedono grandi rimbalzi. L'opposizione non ha beneficiato di questo clima. Il Pd fatica a risalire la china, anche se appare al di sopra del risultato delle scorse europee. L'Idv, peraltro, non sembra avvantaggiarsi di questa ondata di inchieste. E Berlusconi e il Pdl, per quanto indeboliti rispetto a qualche mese fa, dopo l'aggressione di Milano, non mostrano segni di cedimento. Mentre la Lega conferma e consolida la crescita elettorale degli ultimi anni.

Da ciò la differenza rispetto alla stagione di Tangentopoli, la quale poté esplodere e produrre il crollo della classe politica di governo perché alimentata da un clima sociale di "rivolta". Perché rappresentata da attori istituzionali largamente popolari. I magistrati. E da soggetti politici e sociali  -  all'opposizione - dotati di grande consenso fra gli elettori. La Lega, il movimento referendario, la Rete. Infine, dai media, pronti ad amplificare ogni episodio e ogni responsabilità. Oggi, invece, gli indignati sono pochi. La rabbia non si traduce in ribellione e neppure in indignazione. L'opposizione è timida. I media molto meno sensibili e molto più divisi di un tempo, sull'argomento. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che nulla possa cambiare. In fondo, più di metà degli italiani si dice preoccupata per la diffusione della corruzione negli appalti che riguardano la Protezione civile. E, al tempo stesso, non vorrebbe che allargasse troppo la sua azione, spostandola dalle emergenze ai grandi eventi.

Non è detto che, se gli scandali proseguissero e divenissero evidenti, la corrente d'opinione che esprime  -  e alimenta  -  la sfiducia nel sistema e nelle istituzioni non monti ancora. Allora, diverrebbe difficile per chi è alla guida  -  del sistema e delle istituzioni, ma anche del governo  -  non venirne investito.

© Riproduzione riservata (01 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La nostalgia dei vecchi partiti
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 06:40:39 pm
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La nostalgia dei vecchi partiti

Nessuno ha fiducia in quelli di oggi

di ILVO DIAMANTI

Non sappiamo come finiranno le prossime elezioni regionali. Sappiamo, però, che sono cominciate malissimo. E, prima ancora del voto, conosciamo già il nome degli sconfitti. I partiti. Nelle democrazie occidentali, compresa l'Italia, sono gli attori politici attraverso cui si è realizzata la democrazia rappresentativa. Anche dopo che la politica si è personalizzata e mediatizzata.
 Perché i partiti organizzano e orientano l'azione degli eletti nelle istituzioni rappresentative. Perché, prima ancora, partecipano alle elezioni, presentano liste e selezionano i candidati.  Lo stesso Berlusconi, per entrare in politica, ha dovuto fondare un partito personale. E lo ha allargato, nel 2007, annettendo An a Fi. Per inseguire il centrosinistra, dove, dopo dieci anni e oltre di esperimenti e discussioni,  i Ds e la Margherita si erano alfine riuniti nel Pd.


LE TABELLE su http://www.repubblica.it/politica/2010/03/07/news/mappe_7_marzo-2538883/

Un progetto ancora incerto, come abbiamo già scritto nelle settimane scorse. Il Pd. Un partito senza fissa dimora. Incapace di imporre e perfino proporre candidati propri in regioni importanti, come la Puglia e il Lazio (senza nulla eccepire sulla qualità di Vendola e della Bonino. Anzi). Incapace di indicare e affermare una strategia comune di alleanze. Tuttavia il Pdl, il primo partito per consensi elettorali e per peso parlamentare, ha fatto molto peggio.

Non era facile, ma ci è riuscito. Si è dimostrato un non-partito. O, almeno, un partito con-fuso. Frutto di una fusione incompiuta e mal riuscita. Fi e An: continuano ad agire come corpi separati. Tra loro e al loro interno. Al punto che nel Nord la Lega  -  l'unico partito vero - ha imposto i propri candidati in due regioni importanti: Piemonte e Veneto. Quest'ultima: una roccaforte. Mentre in Lombardia si è auto-imposto Formigoni. Leader non del Pdl, ma del mondo cattolico che si riferisce a Cl e alla Compagnia delle Opere. Altrove, come in Puglia e in Campania, il Pdl ha stentato a trovare candidature valide. Al punto da non riuscire a rispettare termini e regole di presentazione delle liste. Non per colpa del Pd, dei comunisti, dei magistrati. Di Repubblica. O di Santoro, Di Pietro, Grillo, Pannella. Ma per colpa esclusivamente propria. Dell'organizzazione precaria che lo caratterizza alla base. Dei conflitti tra frazioni e fazioni. Personali, locali e di interesse. A Roma, nel Lazio, in Lombardia (nonostante le differenze significative tra i casi). Il partito che governa l'Italia, in questa occasione, si è mostrato approssimativo, povero di professionalità e professionismo. Oltre ogni attesa.

Così non sorprende  -  e come potrebbe ?  -  l'ostilità che oggi avvolge, come una nebbia densa, i partiti. Guardati con fiducia da meno dell'8% degli italiani (Atlante politico di Demos, febbraio 2010). Insomma: peggio delle banche e della borsa. Si tratta, peraltro, del dato più basso degli ultimi 10 anni, durante i quali non hanno mai goduto di grande popolarità.

I partiti a cui si riferiscono gli italiani, va precisato, sono quelli odierni. Tanto deprecati e deprecabili, agli occhi dei cittadini, da far loro rivalutare il passato. Il 45% degli italiani, infatti, considera gli attuali partiti peggiori di quelli della prima Repubblica. Solo il 20% - meno della metà  -  migliori. Il giudizio più positivo sui partiti di oggi è espresso dal centrodestra e in primo luogo dagli elettori del Pdl. Curiosamente, visto che proprio il Pdl ha esercitato, da qualche anno, un'opera di rivalutazione della prima Repubblica. Parallela alla svalutazione di Tangentopoli. Definita un complotto ai danni delle classi e dei partiti di governo, per favorire la sinistra. L'elogio dei partiti della seconda Repubblica espresso dagli elettori del Pdl  -  e della Lega  -  suona, per questo, come un auto-riconoscimento. E serve a rammentare come proprio loro siano stati i maggiori beneficiari del vuoto politico prodotto da Tangentopoli.

La rivalutazione dei partiti della prima Repubblica appare molto estesa. A destra come a sinistra. Il 45% degli italiani, oggi, giudica positivamente la Dc, il 35% il Pci, il 32% il Psi. L'apprezzamento nei loro confronti si è rafforzato sensibilmente negli ultimi 5 anni: di circa il 9 punti percentuali verso la Dc e il Psi; di quasi il 4 verso il Pci. Probabilmente, anzi: sicuramente, i partiti maggiori della prima Repubblica sono più apprezzati oggi che al loro tempo. Quando esistevano veramente.

D'altronde, gli italiani hanno sempre votato  -  in larga misura  -  "contro" prima ancora che "per". Un popolo di "anti": comunisti, capitalisti, clericali. Però mai, come oggi, il sentimento antipolitico e partitico degli italiani era apparso tanto sviluppato ed esteso. In modo così generalizzato. Al punto da suscitare un'onda impetuosa di rimpianto verso un passato fino a ieri deprecato. Naturalmente, più che per merito dei partiti di un tempo è per colpa di quelli che li hanno sostituiti. Di cui il Pdl costituisce l'idealtipo. E Forza Italia il riferimento esemplare. Il modello inventato da Berlusconi e imitato da tutti. Oggi suscita delusione. E nostalgia. In senso etimologico: "malattia del ritorno". Evocazione dolorosa di un passato idealizzato, a causa delle ombre del presente. Per citare Odon Vallet: "la nostalgia è l'oppio dei vecchi". Per questo è tanto diffusa, oggi. Soprattutto fra i più vecchi. In questo paese di vecchi, dove la seconda Repubblica è invecchiata da tempo, insieme ai partiti - sedicenti - nuovi che l'hanno guidata. Insieme alla nostra democrazia. Insieme a noi, che siamo invecchiati attraversando entrambe le repubbliche, senza trovare un approdo sereno.

© Riproduzione riservata (07 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Pdl in marcia contro se stesso
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2010, 09:44:02 am
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Il Pdl in marcia contro se stesso

di ILVO DIAMANTI

Mancano due settimane alle elezioni regionali ma raramente si è assistito a una campagna così accesa. A una mobilitazione altrettanto ampia. E un'attenzione ai temi locali così ridotta. Ieri la grande manifestazione del centrosinistra, a piazza del Popolo, contro gli interventi del governo sulle regole elettorali  -  e non solo. Sabato prossimo, ancora a Roma, la manifestazione del Pdl, con un obiettivo simmetrico: protestare contro i giudici e la sinistra. Accusati di impedire alla maggioranza di presentare le proprie liste. Anche in questa occasione, dunque, le elezioni "regionali" hanno assunto un significato politico "nazionale". In fondo è sempre successo, dopo la fine della prima Repubblica. Da allora, infatti, le elezioni regionali hanno funzionato come una sorta di primo turno rispetto alle elezioni politiche dell'anno seguente. Anticipandone, puntualmente, l'esito. Nel 1995 il centrosinistra si è imposto in 9 regioni su 15. L'anno successivo, l'Ulivo, guidato da Prodi, ha vinto le elezioni politiche.

Viceversa, nel 2000 il centrodestra, guidato da Berlusconi, ha prevalso in 8 regioni su 15 (ma in Molise la consultazione verrà successivamente annullata). Provocando le dimissioni di D'Alema. Per poi vincere le elezioni politiche del 2001. Infine, nel 2005, l'Unione di centrosinistra ha travolto il centrodestra, conquistando 12 regioni su 14. Premessa alle politiche dell'anno seguente, quando si è imposta, per quanto di misura.

Questa volta, però, la situazione appare molto diversa. Dieci anni di elezione diretta hanno garantito ai Presidenti grande visibilità. Mentre, dopo vent'anni di discorsi sul federalismo e sull'autonomia, il voto regionale è divenuto importante, per i cittadini. Infine, soprattutto, le elezioni non si svolgono un anno prima delle politiche. Non costituiscono, dunque, l'avvio di una lunga, intensa e unica campagna elettorale. Tanto più per un governo che ha stravinto le elezioni del 2008, dispone di una maggioranza parlamentare molto larga.
Ed è guidato da un premier che sostiene di avere la fiducia di tre quarti dell'elettorato. Con un'opposizione incerta. Visto che il Pd, negli ultimi due anni, ha cambiato tre segretari. E oggi appare, comunque, lontano, in quanto a peso elettorale, dal Pdl. Il partito del premier. Il quale, però, proprio per questo, rischia più di tutti, alle prossime elezioni. Che possono alimentare nuove tensioni nel suo schieramento, ma anche nel suo partito. Creando ulteriori problemi alla sua leadership personale. Solo così si spiegano la crescente pressione sui media, il silenzio imposto ai programmi di infotainment e di politainment. Che mischiano, cioè, informazione, intrattenimento e politica.

L'insofferenza verso Santoro. Così si spiega la tracimazione del tempo occupato dagli uomini del centrodestra nei tigì Rai e Mediaset.
E ancora: la mobilitazione di piazza, agitando la teoria del complotto, per trasferire sugli altri  -  i giudici, i radicali, la sinistra  -  le responsabilità dei propri militanti e del proprio partito riguardo all'esclusione delle liste Pdl in provincia di Roma. Tanto movimento, tanta determinazione servono a contrastare la frustrazione dei propri elettori. A contenere la tentazione, di molte fazioni locali e personali del Pdl, di "remare contro"  -  altre fazioni locali e personali del loro stesso partito. A frenare il disimpegno possibile di decine di candidati (esclusi). Il loro risentimento contro i veri colpevoli di questa situazione. Non gli avversari politici, ma i loro stessi compagni di partito.

In definitiva: Berlusconi teme il maggior nemico con cui abbia dovuto misurarsi, dal 1994 fino ad oggi. Più insidioso dell'Ulivo e del Pd, della sinistra e dei radicali, di Prodi, D'Alema, Di Pietro, Pannella, Casini e la Bonino. Teme l'astensione. Principale causa del risultato deludente alle elezioni europee del 2009. Ma anche del tracollo alle regionali del 2005. Quel bacino di elettori di centrodestra  -  molto ampio: circa un terzo del totale  -  che per votare hanno bisogno di buoni motivi. Ma a cui bastano pochi motivi per non votare. Oppure per votare "contro". Non tanto la sinistra  -  da cui si sentono antropologicamente distanti. Ma contro la loro parte. Il centrodestra. Il Pdl. Quelli, cioè, che, per protestare, votano (lo hanno già fatto) per la Lega. E che potrebbero scegliere perfino gli "estremisti" (sic!) di centro. Come recita uno slogan dell'Udc. Insomma, il premier teme l'indebolirsi del suo partito, già attraversato da divisioni personali e di gruppo. (Da ultimo: l'esodo di Micciché verso il Partito del Sud di Lombardo). Teme gli effetti di un risultato negativo. Che restituisca fiducia al Pd. Alla stessa Udc (tanto più se risultasse determinante in regioni come la Puglia o il Piemonte). Ma, soprattutto, teme la Lega. Sua alleata forte. Dopo queste elezioni potrebbe divenire perfino "troppo" forte. Rendendo vistosa - e imbarazzante, nel confronto  -  l'immagine di un partito  -  il Pdl  -  senza territorio. Disorganizzato. Proprio perché al comando c'è un uomo solo. Troppo solo. A capo di un partito grande. Troppo grande. Troppo frammentario. E troppo diviso. Berlusconi, per tenere insieme la sua galassia, ha bisogno di rinnovare  -  perennemente  -  la leggenda del leader vincitore. Quello che non si arrende mai. Cade e si rialza. Contro ogni previsione.
E contro ogni auspicio. Di nemici e amici. Ma oggi governa da solo, con una maggioranza larga e un'opposizione debole. Davanti, ancora tre anni di governo. La crisi che incombe, una catena di vicende giudiziarie da affrontare  -  e schivare. La Lega a capo del Veneto e magari anche altrove. Tre anni sono lunghi. Senza altre elezioni da affrontare. Per mobilitare la base.  Alimentare un'organizzazione che non c'è.
Per questo, oggi, a Berlusconi conviene usare l'antiberlusconismo come un'arma contro gli altri. Giudici, comunisti, la Repubblica, Di Pietro. Per raccogliere gli elettori intorno a sé. Tutti uniti. Tutti in piazza. Come titolava, in modo icastico, il Foglio nei giorni scorsi: "Nel Pdl manifesteranno tutti convinti, ma non capiscono bene perché". La risposta è semplice: "Contro  -  e per  -  se stessi".

© Riproduzione riservata (14 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se si interrompe lo spettacolo virtuale
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2010, 04:21:47 pm
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Se si interrompe lo spettacolo virtuale

di ILVO DIAMANTI

PUÒ sembrare paradossale la scena in cui si sta svolgendo questa campagna elettorale. Silvio Berlusconi: il Signore dei media, che ha inventato e imposto in Italia la politica come marketing. Oggi fa applicare in modo estremo la par condicio, progettata, a suo tempo, contro di lui, per limitarne il potere mediatico. Preferisce il silenzio dei media. O meglio: dei talk show politici. E scende in piazza, insieme al suo popolo. Contro la sinistra "giustizialista e anticlericale". Contro Michele Santoro e Annozero. Contro i magistrati che conducono i processi in tivù. Singolare rovesciamento di ruoli. Berlusconi e il suo popolo si mobilitano come i partiti di massa di un tempo.

Mentre il centrosinistra, erede dei partiti di massa, Pd in testa, guida la protesta contro il silenzio imposto ai media e ai talk-show. Eppure non è così sorprendente. Neppure paradossale. È che la logica della comunicazione, quando orienta la politica, diviene difficilmente controllabile. Anche per chi la controlla. Perché minacciae contraddice il meccanismo su cui si fonda la "democrazia del pubblico": la fiducia. E insieme: la rappresentanza come rappresentazione - e costruzione - della realtà. Una materia che Berlusconi ha maneggiato primae meglio di tutti. Dal 1994 ad oggi: ha raccontato e recitato alcune storie di successo. Una fra tutte. L'imprenditore che si è fatto da sé e ha vinto in ogni campo. Negli affari, nello spettacolo, nel calcio, in politica.

Una rappresentazione familiare, che ha plasmato il senso comune. Riprodotta dovunque e in ogni momento della vita quotidiana, attraverso la tivù e i giornali. E attraverso i prodotti, i valori e gli stili di vita veicolati dai media. Berlusconi ha interpretato il presente, ma anche il passato, di un Paese che ha perduto la memoria. Se il percorso della Repubblica italiana ricomincia nel 1992, se le ideologie sono franate insieme ai partiti di massa, lui può opporre la sua storia personale vincente alla Storia Collettiva degli avversari.

Evocata all'infinito, ripetendo il termine "comunisti". Come un mantra. Contro tutti gli "altri". Non importa se davvero siano o siano stati comunisti. Basta che si oppongano a lui. E all'ideologia del Fare. Alla sua ultima interpretazione: l'Uomo-che-fa. E affronta ogni emergenza, in un Paese dove l'emergenza è la regola. Accompagnato dal suo profeta e testimone, Guido Bertolaso, cammina sui rifiuti lasciati dai governi di sinistra e li dissolve. Sfida i terremoti e dalle macerie ri-sorgono, in breve, nuove case.

Lui, Berlusconi, non parla, ma fa. Neppure le aggressioni lo fermano. Colpito e sanguinante, si rialza e fa. Sotto l'occhio delle telecamere. Che elaborano l'immagine del "fare". Il problema è che le Storie personali, come le rappresentazioni della realtà, soffrono, quando vengono smentite oppure oscurate da altre storie. Raccontate dalle inchieste dei giornali e della magistratura. Dai dialoghi telefonici intercettati. E rilanciati sui media. È l'effetto perverso della democrazia dell'opinione. Della comunicazione pervasiva. Dove tutti possono scrutaree ascoltare tutti. (Anche quando e se non dovrebbero).

Dove il privato diviene pubblico anche perché è esibito in pubblico. Alla ricerca del consenso. Dove i confini fra pubblico e privato scompaiono. Allora, anche la storia del premier senza macchia rischia di venire macchiata. E la sua immagine appariscente si scolora. Le sue imprese, in Abruzzo: sminuite. Degradate da altre storie - mediocri - di corruzione e prostituzione. E il rapporto diretto fra il leader e i suoi elettori - spettatori si complica. Anche perché il clima d'opinione è intristito da altre storie, ben più crude e reali. La crisi economica, la disoccupazione, il reddito delle famiglie sempre più inadeguato... Così i "suoi" elettori (e spettatori) delusi sono tentati dalla prospettiva di non votare. Per nessuno. Quindi neppure per lui. È già avvenuto l'anno scorso, alle europee. Per questo, l'opposizione più pericolosa, oggi, non è condotta dal Pd. Ma dai giornalisti (alcuni) e dai magistrati.

Dai magistrati: nemici irriducibili di Berlusconi, dopo che le loro inchieste ne hanno incrociato ripetutamente la biografia e le attività. Costituendo argomento di informazione e spettacolo. E dell'informazione-spettacolo. Poi, da Michele Santoro e Annozero. La vera opposizione, detestata da Berlusconi e dal suo popolo. (Altro che Bersani e il Pd). Insieme ai talkshow che danno spazio ai giornalisti di Repubblica. E ai magistrati che entrano in politica. Di Pietro e De Magistris. E Travaglio. Una specie di centauro: mezzo giornalista e mezzo magistrato. Non importa chei talk show politici spostino pochi voti (come ha rammentato, correttamente, Aldo Grasso), visto che il loro pubblico è già orientato.

Il problema è che possono degradare la Rappresentazione Ufficiale della realtà. Neutralizzare il virtuality-show che va in onda, con successo, da tanto tempo. Meglio, allora, il silenzio dei media. A cui opporre la mobilitazione e le grida della piazza "reale". Il Popolo Sovrano: un milione di persone - ma 100 mila secondo la "versione" del Pd - raccolte intorno al premier. L'Uomo del Predellino che arringa le masse. Ieri, nella veste del Grande Sacerdote che celebra un rito collettivo. Ripreso dalle telecamere e dai media. Così, sui tigì, dove la par condicio non conta, si rappresenta l'indignazione della piazza che protesta contro chi vorrebbe spezzare un sogno. Facendo prevalere la realtà sulla narrazione. E i fatti sulle opinioni.

© Riproduzione riservata (21 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Cavaliere in camicia verde
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2010, 11:03:06 pm
Il Cavaliere in camicia verde
 
Ilvo Diamanti


È come Zelig, il Cavaliere. In grado di trasformarsi, di cambiare pelle per compiacere gli estimatori, gli amici, i nemici che vorrebbe trasformare in amici.  Da qualche tempo, ad esempio, si sta esibendo nella imitazione di un leghista. Meglio: del suo leader, Umberto Bossi. Nello stile e nel linguaggio. Basta rievocare la manifestazione di piazza San Giovanni, sabato scorso, a Roma. Dove il PdA, il suo Partito dell'Amore, ha riempito la piazza. Lì, sul palco, Berlusconi, Come un grande Sacerdote, ha imposto ai candidati un "giuramento",  trasformando, poi, i convocati in "missionari". Come un movimento di massa. Una comunità guidata da un imperativo religioso. Convertire miscredenti e agnostici al verbo dell'Amore. Espresso dal Capo. L'Unico. Inimitabile. Presente, in mezzo ai suoi, "fisicamente", in piazza.
E non per immagine, in tivù. Per analogia con l'unico  partito di massa rimasto in Italia...  La Lega, sua alleata. Che conosce bene la pratica rituale. I giuramenti. Basta tornare con la memoria alla  (sfortunata) marcia sul Po, iniziata con la cerimonia dell'ampolla, alle sorgenti del fiume sacro. Berlusconi. Oggi vorrebbe imitare la Lega. Nello stile e nel linguaggio. Qualche volta, anche nei temi, vista l'insistenza sull'invasione degli stranieri, sulla piazza del Duomo a Milano, dove sembra di stare in Africa.  Mentre, in quanto alla violenza del linguaggio,  Berlusconi ha imparato in fretta la lezione di Bossi. Anzi: ha superato il maestro. Da ultimo, il premier ha appreso e riprodotto la grammatica della partecipazione leghista.

A Torino, tra un apprezzamento greve alla Bresso
e un apprezzamento tenero a Cota, trattato come un assistente, Berlusconi lancia la consultazione sull'elezione diretta del presidente o del premier. Attraverso un referendum da svolgere nei gazebo, come ha osservato Giovanni Cerruti. Marchio di fabbrica delle campagne leghiste.

Il Cavaliere in camicia verde non deve sorprendere troppo. È una delle sue tante imitazioni. Non sarà l'ultima. D'altronde, in questa fase, più che dal PD, si sente incalzato dalla Lega. Ne teme la concorrenza nel Nord, ma anche l'espansione in altre zone del paese, com'è avvenuto alle elezioni europee del 2009: in Emilia, in Toscana e nelle Marche. Ed è preoccupato dalla minaccia dell'astensione. Per cui usa la tattica del partito di lotta e di governo. Sperimentato con successo dalla Lega, che parla e agisce come stesse all'opposizione, anche se, ormai da tempo, sta al governo. Ben insediata a "Roma capitale". Così comizia dai predellini, mobilita le piazze, si tuffa nella folla  -  rischiando e subendo aggressioni violente. Incita alla rivolta  -  contro i magistrati e la sinistra dei talk show.

Coinvolge persone adulte, con una storia dignitosa, in riti imbarazzanti  -  imponendo loro giuramenti, al posto delle tradizionali "promesse dei politici". E, ancora, convoca referendum  ai gazebo. Indossa la camicia verde.

Senza troppa convinzione. Da parte sua, del pubblico e dei leghisti. Per primo, il leader, Umberto Bossi. Anch'egli sul palco, a piazza San Giovanni. Dove ha esordito, con il suo incedere verbale faticoso, dopo la malattia, affermando che lui, Bossi, era uno dei pochi a non aver chiesto soldi a Berlusconi. Anche se nessuno ha riso, a noi è sembrata una battuta acuminata. Una rasoiata. Da padano vero.

(25 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: Re: ILVO DIAMANTI - Il falso mito del risultato elettorale già scritto.
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2010, 03:29:03 pm
Il falso mito del risultato elettorale già scritto.

Ma solo dopo
 
Ilvo Diamanti

Oggi che le classi sociali hanno perso visibilità e forse sono perfino scomparse, confuse in mezzo a una moltitudine di individui. E le ideologie sembrano ridotte a leggende perdute nel tempo. Oggi,  in politica, si evocano altre definizioni. Meno suggestive, meno epiche, ma comunque eloquenti. Capaci di spezzare. Distinguere. Stigmatizzare. Dividere il mondo. Per esempio: gli aristocratici e il popolo. Con tre p. Oppure la gente. Con quattro g. I radical chic e i radical choc. La sinistra dei salotti e la destra delle partite IVA e delle piccole imprese.  Quelli che parlano di cultura tra Uomini di Cultura - rigorosamente con le iniziali maiuscole  -  e quelli che parlano dei problemi di tutti i giorni nella vita di tutti i giorni con le persone comuni. Quelli dell'Alta Finanza e quelli che hanno i calli alle mani. Insomma: definizioni di senso comune dette in modo diretto. Capaci di tracciare confini chiari e netti. Per riprodurre la distanza fra Noi e Loro. Amici e nemici. Senza possibilità di dialogo, ma che dico?, di sguardo reciproco. Ciascuno per la sua strada, dalla sua parte della strada. Senza neppure pensare di attraversarla.

Così, i "populisti" -  orgogliosi di essere tali, dalla parte del popolo, di quelli che faticano e si sporcano le mani  -  guardano gli "elitisti" e gli aristocratici da lontano. Come animali rari. La destra popolare e la sinistra impopolare. Condannata  -  e rassegnata  -  a perdere le elezioni. Tutte le elezioni. Sempre. Senza speranza. E viceversa. Gli aristocratici, chiusi nei loro salotti e nei loro circoli culturali, tra loro, lontano dal vociare del popolo minuto. Il ventre di questa società imbarbarita dal benessere e dalla televisione. Che la sinistra aristocratica osserva con malcelata insofferenza. Così tutto pare congelato. Vincitori e vinti predestinati, in competizioni elettorali non competitive. Dall'esito scontato.

Non c'è luce, in questo scenario senza luce. In questa rappresentazione ideologica. Tanto ideologica, però, da occultare la realtà. Fino  a negarla. Come spiegare, altrimenti, comportamenti ed esiti elettorali tanto diversi in poco tempo? Nello stesso giorno? La sinistra sconfitta nel 1994 vittoriosa nel 1996; di nuovo sconfitta nel 2001 e poi di nuovo  vittoriosa, in tutte le elezioni successive, fino al 2006. Per poi subire l'insuccesso nel 2008 e le battute d'arresto successive. E, dall'altra parte, come spiegare le vicende altalenanti di Berlusconi, One Man Show. Che, dopo il 1994, solo "insieme" alla Lega. Nel 2000, nel 2001, nel 2008. E solo "grazie" alla Lega, alle regionali di 10 giorni fa.  La Lega, per sua parte, oggi appare invincibile. Eppure ha perso tante volte, da quando è sorta. È cresciuta e poi si è ristretta. Dall'8% nel 1992 al 10% nel 1996: 3-4 milioni di voti. Poi è crollata negli anni seguenti.. Ha tenuto a fatica il 4%. Per poi risalire, dopo il 2006. Fino a raggiungere e sfondare, negli ultimi 3 anni,  la barriera del 10%. Senza però produrre la valanga di voti degli anni Novanta.

E come spiegare, con la teoria del  Popolo con tre p, lontano dalle èlite, che quel popolo, lo stesso popolo, lo stesso giorno, il 28 marzo scorso,  ha votato diversamente, molto diversamente, per la Regione e il Municipio? A Venezia e a Lecco, per esempio: i voti leghisti, alle regionali, si sono tradotti in sostegno ai sindaci di centrosinistra. 
Perché, ha suggerito qualcuno,  le città sono radical chic. Affollate di borghesi e intellettuali da salotti. Ma, allora, Verona? Governata dalla Lega? Dubitiamo che, se si fosse votato per il Comune, due settimane fa, i cittadini avrebbero votato diversamente.
I benpensanti e i malpensanti, i salotti e le partite IVA, la società civile e la società reale. Queste definizioni dirette, per quanto suggestive e di senso comune, sono molto più ideologiche delle vecchie ideologie. Aiutano a coltivare l'etica dell'irresponsabilità. Non spiegano ma rassicurano. Non aiutano a distinguere, ma soddisfano gli istinti. Sono autoconsolatorie. Ti convincono che se perdi non è colpa tua. Ma della gente. Del popolo. Oppure degli intellettuali, dei poteri forti. Del destino cinico e baro. Storie già scritte, dove la politica e gli uomini non contano. Storie senza pathos e senza epica. Troppo scontate per essere vere. Sono attraenti e insidiose. Soprattutto per chi ha perso.

(08 aprile 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Fenomenologia dell'elettore scettico
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2010, 11:28:41 pm
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Fenomenologia dell'elettore scettico

di ILVO DIAMANTI

ALLE regionali 15 milioni di elettori non hanno votato. È l'astensione più elevata del dopoguerra, considerando tutte le elezioni di rilievo nazionale dal '46 ad oggi (referendum esclusi). Ma il fenomeno ha subito una accelerazione significativa nella seconda Repubblica. Se consideriamo le 13 regioni dove si è votato due settimane fa, la partecipazione è scesa dall'87% nel 1994 all'81% nel 2008  -  alle elezioni politiche (3 punti in meno rispetto al 2006). Dal 75% nel 1994 al 70 % nel 2009  -  alle europee (5 punti in meno rispetto al 2004). Infine, dall'82% nel 1995 al 64% del 2010 alle regionali (8 punti in meno rispetto al 2005). Insomma, a seconda delle elezioni, tra 2 e oltre 3 (anzi, quasi 4) persone su 10, ormai, non votano. E il dato si allarga nelle elezioni amministrative dei comuni oltre 15 mila abitanti, dove, in caso di ballottaggio, tra il primo e il secondo turno la percentuale di votanti scende ulteriormente.

Da ciò la tentazione di evocare un "partito dell'astensione", considerando il non-voto come un voto. Il primo in Italia, viste le dimensioni. Per usare una formula nota (di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino): il "voto di chi non vota". Tuttavia, è difficile ricondurre quelli-che-non-votano a "un" partito, visto che sommano componenti molto diverse e contrastanti. Vi si incontrano: (a) quelli che non votano per forza maggiore; (b) le persone marginali  -  apatiche e disinteressate; (c) quelli che esprimono protesta contro il sistema; (d) quelli che non si sentono rappresentati; (e) quelli che, al contrario, si fidano, chiunque vinca; (f) quelli convinti che il loro voto non conti; (g) e quelli che, invece, intendono usare il voto come "ammonimento" ai partiti  -  soprattutto di governo. Sfruttando, a questo fine, le elezioni amministrative o europee.


Insomma, l'area dell'astensione si è dilatata, ma ha assunto, al tempo stesso, significati molto diversi. Tanto che la quota degli astenuti "per forza maggiore"  -  un tempo prevalente  -  oggi appare ridotta. Mentre è cresciuta quella degli "intermittenti" (come li definisce Paolo Segatti). Che scelgono "se" votare a seconda delle occasioni. Non è, ovviamente, un fenomeno solo italiano. Anzi. L'Italia è tra i paesi europei dove l'affluenza elettorale resta più elevata. Tuttavia, nel nostro paese, questa tendenza, negli ultimi anni, è cresciuta in modo rapido e impetuoso. Per alcune ragioni, in parte specifiche.

a) Il rovesciamento e il rimescolamento continuo del sistema partitico. Il che ha reso sempre più difficile non tanto identificarsi, ma almeno "affezionarsi" a un soggetto politico, visto il turbinio di sigle, aggregazioni e leader. Pensiamo al Pd, al Pdl. Alla galassia della Sinistra. Unico partito ad aver mantenuto lo stesso marchio dai tempi della prima Repubblica: la Lega. Non a caso, il prodotto più riconoscibile sul mercato elettorale.
b) Il cambiamento e la diversità delle leggi elettorali hanno disorientato l'elettore. La logica maggioritaria del voto utile ha, inoltre, spinto a votare per un partito o un candidato competitivo. Quindi, non sempre  -  e sempre meno  -  per quello più vicino.
c) La personalizzazione dei partiti, il declino dell'identità a vantaggio della fiducia, della partecipazione a favore delle tecniche di marketing. Hanno reso i "prodotti" del mercato elettorale volatili e deperibili.
d) Il mutamento della società, del contesto culturale e del territorio. Sottolineato dal profondo mutamento territoriale dell'astensione. Se consideriamo le 20 province dove alle regionali recenti il fenomeno è cresciuto maggiormente rispetto alle europee del 2009, solo 2 sono del Sud (Crotone e Avellino). Le altre sono del Centro-nord e comprendono realtà a forte tradizione democristiana (Sondrio) ma soprattutto di sinistra (Livorno, Rimini, Pesaro Urbino, Siena). Zone ad alta partecipazione, anche per questo colpite  -  più delle altre  -  dall'astensione.

Non è più corretto, quindi, considerare il "voto" come la "regola", trattando il "non-voto" come un comportamento "deviante". Quasi fossimo ancora al tempo delle fedeltà di partito. Perché quel tempo è finito. E quelle fedeltà si sono erose profondamente. Se utilizziamo una scala che misura l'orientamento degli elettori verso i partiti (sondaggio di Demos, febbraio 2009, campione nazionale rappresentativo, 1000 casi), la quota di coloro che esprimono vicinanza  -  e quindi appartenenza esclusiva  -  verso un solo partito appare molto ridotta. Intorno al 10% del totale, mentre il 20% si dice lontano da tutti. La maggioranza, invece, è costituita da elettori "tiepidi". Incerti fra diversi partiti. Rispetto ai quali si dicono  -  più che vicini  -  "non lontani". Incerti anche "se" votare. Si tratta, peraltro, degli elettori politicamente più interessati e informati. Da ciò il declino del senso di appartenenza; la disponibilità a cambiare voto e partito. Anche senza salti di schieramento, visto che alcune fratture restano. Una, soprattutto: scavata da Berlusconi. Tuttavia, in caso di elezioni amministrative, anche queste fratture scompaiono. E nello stesso giorno, gli stessi elettori, in elezioni diverse, possono decidere di votare per candidati di schieramenti opposti. A Venezia, a Lecco, come in numerosi altri comuni: per la Lega alle regionali e, al contempo, per un sindaco del Pd. Non era così nella prima Repubblica, quando tutti  -  o quasi  -  votavano sempre e allo stesso modo, in tutte le elezioni.

Oggi, invece, un'ampia quota di elettori decide di volta in volta. Per chi e "se" votare. Ciò costituisce un problema soprattutto per i partiti maggiori, frutto di aggregazioni complesse. Con un'identità opaca. Poco presenti nella società. Il Pd. E a maggior ragione il Pdl: il più colpito alle ultime elezioni. Ma nessuno ne è immune. Perché nessuno dispone di un elettorato fedele, come i partiti di massa della prima Repubblica. Neppure la Lega. Che dal 1992 ad oggi ha visto oscillare le sue percentuali di voto  -  oltre che il numero di elettori. Dal 10% al 4%. Per poi tornare al 10%. Non è stata la fedeltà a favorirne la risalita degli ultimi anni. Semmai, la capacità della Lega di intercettare domande locali, rivendicazioni territoriali, sentimenti di incertezza. Oltre all'insoddisfazione verso gli altri partiti. Ma ora che governa a Roma, in Veneto e nel Piemonte sfruttare i vantaggi di chi fa la maggioranza e l'opposizione, al tempo stesso: le riuscirà più difficile.
Il tempo dell'elettore fedele è finito. Siamo nell'era dell'elettore scettico. Non è privo di valori, non è senza preferenze politiche. Ma ha bisogno di buone ragioni per votare un partito o un candidato. E prima ancora: per votare.

© Riproduzione riservata (12 aprile 2010)
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Pdl, il partito senza terra
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2010, 10:05:57 pm
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Pdl, il partito senza terra

di ILVO DIAMANTI

C'E' LA TENDENZA - e la tentazione - di trattare il conflitto fra Berlusconi e Fini come un caso "personale". L'ultimo episodio di una lunga "guerra di successione" (come ebbe a definirla Adriano Sofri). D'altronde, in questa democrazia personalizzata, non può sorprendere che i conflitti politici abbiano retroscena personali  -  e viceversa. Tuttavia, gli argomenti critici espressi da Fini a sostegno della propria minaccia difficilmente possono essere considerati "personali". Perché sono politicamente fondati. E, al tempo stesso, percepiti  -  e condivisi  -  in ampi settori del Pdl con inquietudine. L'egemonia della Lega sulla coalizione. Ma soprattutto, la debolezza del Pdl e il suo squilibro territoriale crescente. Non sono invenzioni polemiche. Soprattutto oggi, dopo il voto regionale. Non a caso  -  e non per gusto della provocazione  -  Bossi ha dichiarato l'intenzione della Lega di esprimere il futuro premier, nel 2013. Fra i propri leader. Interni o di riferimento (un nome a caso: Tremonti).
La polemica sollevata da Fini, anche per questo, contribuisce a svelare quante difficoltà abbiano prodotto i risultati delle elezioni regionali nel Pdl.

Anche se la ri-conquista di 3 regioni importanti, come la Campania, il Piemonte, e il Lazio, ha indotto ad attribuire la vittoria al centrodestra, nell'insieme. E, dunque, al suo leader. Al premier. Che da sempre fanno tutt'uno. Tuttavia, il voto ai partiti ha sancito un evidente insuccesso del Pdl. Si tratta di un aspetto già osservato da altri analisti (per primo, dall'Istituto Cattaneo). Eugenio Scalfari, domenica, vi si è soffermato a lungo. Il Pdl, in valori assoluti, anche considerando la Lista Polverini in provincia di Roma, ha perso consensi, rispetto alle europee del 2009 (2.600.000) e alle regionali del 2005 (400.000). In termini percentuali, si è attestato sui valori del 2005. Cioè: il più basso della seconda Repubblica, considerando tutte le elezioni dal 1994 fino ad oggi. (Si veda, al proposito, l'articolo di Luigi Ceccarini su Repubblica. it).

Il buon risultato della Lega ha  -  in parte  -  compensato queste difficoltà. E le ha  -  in parte  -  acuite. Perché ha aumentato in misura rilevante il peso leghista. Nell'alleanza con il Pdl, infatti, nel 2005 la Lega rappresentava il 16% dell'elettorato, nel 2009 il 24%, oggi il 29%. Il fatto che fino al 2006 l'alleanza di centrodestra comprendesse anche l'Udc, peraltro, riduceva la forza contrattuale della Lega. (Che, anche per questo, considerava i neodemocristiani degli intrusi e dei nemici). Ma il peso assunto dalla Lega appare più evidente su base territoriale. Considerato insieme a quello del Pdl, nel 2005 l'elettorato leghista costituiva il 29%, nel Nord: oggi è salito al 47%. La crescita è ancora più evidente nelle regioni rosse del Centro (compresa l'Emilia Romagna). Dall'8% del 2005, oggi è salito al 26%. In altri termini: la Lega, per il Pdl, è un partner fedele. Ma anche necessario. E, al tempo stesso, un concorrente. (Si vedano mappe e tabelle sul risultato elettorale del Pdl nel sito di Demos), Nel Sud, la Lega non c'è, per ora. Ma il Pdl ha, comunque, incontrato difficoltà di tenuta elettorale. Certo, ha conquistato la Campania e la Calabria. In più ha strappato il Lazio. In complesso, nelle regioni meridionali, allargate al Lazio, ha recuperato 300 mila voti rispetto alle regionali del 2005, ma ne ha persi quasi un milione rispetto alle europee del 2009 e oltre due rispetto alle politiche del 2008.

Così, il Pdl continua ad apparire  un partito fortemente meridionalizzato. Visto che il 41% del suo elettorato, alle recenti elezioni, proviene dalle regioni del Sud e dal Lazio. Eppure, anche in quest'area si è indebolito. Nel Sud, infatti, alle regionali ha ottenuto il 32% dei voti validi, ma alle europee del 2009 ne aveva conquistati il 42% e nel 2008 il 45%. Da ciò l'impressione che le critiche di Fini siano tutt'altro che infondate. Ma, al contrario, rivelino alcune ragioni di disagio e tensione che attraversano il Pdl. Sfidato dall'interno, più che dall'esterno. Dagli amici, più che dagli avversari. Da destra e dal centro, più che da sinistra. Nel Centro-Nord, come abbiamo già detto, è incalzato dalla Lega. Alle regionali del 2010, primo partito in 9 province, alle europee del 2009 in 6. Nel 2005 in nessuna. Mentre il Pdl nel 2005 era primo partito in 25 province, nel 2009 in 32. Oggi in 20. La concorrenza della Lega, peraltro, rimette in discussione l'accesso alle risorse e ai centri di potere. Nelle istituzioni, nel credito, nella finanza (come ha puntualmente mostrato Tito Boeri, su questo giornale).

Nel Sud, invece, il Pdl deve fare i conti con il malessere dei gruppi politici e di interesse a cui fa riferimento. Insoddisfatti e preoccupati, per il conflitto distributivo con gli "alleati" del Nord. Frustrati dall'asimmetria fra peso elettorale e politico. Dal contrasto fra un partito centromeridionale e un governo nordista. Queste tensioni hanno già prodotto strappi vistosi. Soprattutto in Sicilia, dove Raffaele Lombardo, leader del Mpa e presidente della Regione, agisce in aperto contrasto con il governo e il centrodestra. Dove Micciché e altri leader del Pdl parlano di costituire un Partito del Sud. Nel Mezzogiorno, il Pdl deve, inoltre, fare i conti con l'Udc, che ha ottenuto successi significativi. Ha, infatti, "conquistato" 15 comuni tra i 29 (a scadenza naturale) dove si è votato nelle scorse settimane. Partecipando a coalizioni per metà di centrosinistra e per metà di centrodestra.
Più che dal centrosinistra e dal Pd, quindi, l'opposizione alla maggioranza viene dalla maggioranza. L'opposizione al Pdl dal Pdl. Dalla sua  -  contraddittoria  -  presenza nella società e nel territorio. Dove appare poco radicato. Stressato da una fusione  -  tra Fi e An  -  mai del tutto compiuta, soprattutto a livello periferico. Frammentato in gruppi locali e particolaristici. Incalzato dalla compattezza della Lega. Disorientato  - più che da Fini  -  dall'incertezza sui fini comuni e condivisi. Per comprendere le difficoltà e i conflitti nel Pdl, allora, conviene non concentrarsi solo sui gruppi parlamentari, sui dirigenti nazionali di partito, sui luoghi della "politica dell'audience". Meglio spostare lo sguardo anche sul territorio. Dove si rischia di capire il significato della sfida di Fini a Berlusconi meglio che in un talk-show.

© Riproduzione riservata (18 aprile 2010) Tutti gli articoli di Politica
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il partito di Fini vale almeno il 6% Ma un altro 38% potrebbe..
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2010, 05:51:56 pm
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Il partito di Fini vale almeno il 6% Ma un altro 38% potrebbe votarlo

Consensi anche dalla Lega, in calo lo share personale.

Il presidente della Camera appare a molti come leader di un altro partito di centrodestra

di ILVO DIAMANTI


LA ROTTURA tra Berlusconi e Fini è avvenuta in modo spettacolare. E irreparabile. Come la coabitazione all'interno dello stesso partito e, perfino, della stessa coalizione. Anche se, in politica, non c'è nulla di irreversibile.

Dipende dagli interessi e dalle convenienze. Basta rammentare i rapporti tra Berlusconi e Bossi. Spezzati e ricuciti, dal 1994 al 2000. Per reciproca necessità. E utilità. La questione intorno a cui ruota il futuro del Presidente della Camera, ma anche della legislatura, è, dunque, principalmente una. Quanto può costare, al centrodestra, la defezione di Fini? E, in parallelo, quanto può contare  -  e costare  -  la sua presenza e permanenza nel PdL? Il sondaggio condotto da Demos nei giorni scorsi offre alcune indicazioni utili al proposito.

Anzitutto, lo spazio del partito di Fini. Circa il 6% degli elettori afferma che lo voterebbe sicuramente. (Una stima analoga a quella fatta da Renato Mannheimer). Un settore molto più ampio (38%) lo "potrebbe" votare. Si tratta di un'area significativa, che incrocia diversi segmenti del mercato politico-elettorale, anche se gravita, principalmente, nel centrodestra. Il 26% degli elettori "certi" e la stessa quota di quelli "possibili", infatti, attualmente votano per il Pdl. Ma un altro 20% dei "certi" e una quota limitata di "possibili" votano per la Lega.

Il che non deve stupire. Un'ampia componente di elettori del centrodestra ha, da sempre, considerato la Lega un'alternativa a FI, prima, e al Pdl, poi. Un modo per manifestare la propria distanza da Berlusconi e dal governo, senza votare per gli "altri". Tuttavia, l'offerta politica di Fini attira consensi anche da centrosinistra e in particolare dal Pd. Ma attrae, soprattutto, gli elettori indecisi e meno coinvolti (un terzo del totale).

In definitiva, metà degli elettori (che si dicono) "certi" di votare per il partito di Fini (cioè, il 3% dell'elettorato totale) e un terzo di quelli "possibili" (circa il 13% del totale) sono di centrodestra; in particolare del Pdl, ma anche della Lega. Sufficienti a spostare gli equilibri politici a sfavore della coalizione guidata da Berlusconi e Bossi.

La posizione di Fini, tuttavia, oggi è rafforzata da tre elementi: a) il ruolo istituzionale di Presidente della Camera; b) la collocazione  -  tuttora - interna al centrodestra e al Pdl; c) la conoscenza, non ancora estesa a tutti gli elettori, della rottura con Berlusconi. Anche per questo, Gianfranco Fini resta il leader più stimato dagli elettori. Ma anche quello i cui consensi personali sono calati maggiormente: quasi 10 punti, nell'ultimo anno. Se confrontiamo l'evoluzione del giudizio su Fini in base al voto e alla posizione politica degli elettori, negli ultimi anni, la spiegazione di questa tendenza appare chiara. La quota degli orientamenti positivi nei confronti di Fini, negli ultimi due anni, tra gli elettori del Pdl scende, infatti, dall'89% al 67%.

Si attesta, quindi, allo stesso livello di Bossi. Leader di un altro partito, per quanto alleato. Ma forse anche Fini, nel Pdl, appare a molti il leader di un altro partito. E non necessariamente alleato. La stessa tendenza emerge se si considera la posizione nello spazio politico: fra gli elettori di destra, il Presidente della Camera cala dall'83% al 55% e tra quelli di centrodestra dall'87% al 65%. In parallelo, il suo consenso sale tra quelli di centrosinistra. Di conseguenza, l'elettorato che gli è più favorevole oggi è quello di centro: 70%.

Il Presidente della Camera beneficia, dunque, di una posizione di rendita, che appare vantaggiosa e insidiosa, al tempo stesso.
È figura istituzionale, leader di centrodestra, ma anche di opposizione. Apprezzato (in misura calante) dagli elettori di centrodestra, ma anche (in misura crescente) da quelli di centrosinistra. Come appare chiaro se si osserva la mappa che raffigura la posizione dei leader politici, nella percezione degli elettori. Fini si colloca, infatti, vicino al centro, accanto a Casini. In fondo a destra: Berlusconi e Bossi. Pressoché appaiati. Quasi un "unicum". Nel settore opposto, Bersani e Di Pietro. Non lontani da Grillo.
Le diverse anime dell'opposizione di (centro)sinistra.

Da ciò i problemi.

Per Fini. Il quale, come abbiamo detto, può svolgere un'azione corsara. Raccogliendo consensi a destra e al centro, perfino a sinistra. Opposizione e oppositore. Dentro il Pdl, nel centrodestra. Ma anche in ambito nazionale. Fini. Anti-berlusconiano e anti-leghista, in un sistema politico in cui Berlusconi e la Lega costituiscono i due principali fattori di divisione e identità.

Per la stessa ragione, però, egli appare esposto alla concorrenza degli altri attori politici. Di destra e di centro. Soprattutto se e quando venisse "espulso" dal Pdl e, ancor di più, dal ruolo istituzionale che ricopre.

Tuttavia, la posizione di Fini può diventare pericolosa anche per gli altri attori politici. Per il centro e, ancor più, il centrosinistra. Che rischiano di venire oscurati da quel dito puntato contro il Premier (assoluto). Dall'accesa polemica lanciata dal co-fondatore del Pdl contro la Lega "egoista" e padana. L'opposizione di Fini, però, appare incompatibile, anzitutto, con la natura del Pdl, che è un partito "personale". La versione allargata di FI. E non può sopportare, all'interno, un'alternativa "personale".

Infine, la sfida di Fini è inaccettabile per la Lega di Bossi. Che rischia di vedersi sottrarre il ruolo di opposizione "nel" governo. Una ragione importante del successo leghista, in passato e nel presente. L'assimilazione Lega-Pdl, Bossi-Berlusconi. Il Giano bifronte che governa il Paese. Una rappresentazione intollerabile per Bossi, trasformato in un leader "romano".

E, simmetricamente, per Berlusconi, ridotto a gregario del Nord.

Difficile che possa durare a lungo tutto ciò. Questo Pdl. Questo centrodestra. Questa legislatura.

(25 aprile 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - Primo maggio, dov'è la festa?
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2010, 11:18:11 am
Primo maggio, dov'è la festa?

di ILVO DIAMANTI

SI E' APERTA una stagione senza feste civili. Dove i riti della memoria, che danno senso e identità alla nostra Repubblica, vengono guardati - e trattati - con insofferenza e indifferenza, da una parte del paese.
In particolare, dalla maggioranza politica di governo.

Anzitutto il 25 Aprile, che il premier ha definito "Festa della Libertà". Non della "Liberazione".

Quasi fosse una celebrazione del suo partito. D'altronde, ha sostenuto un amministratore del PdL, ci hanno liberato gli americani, non i partigiani, che erano comunisti.

Abbiamo motivo di credere, inoltre, che anche il prossimo 2 Giugno susciterà fastidio in alcuni settori del centrodestra, in particolare nella Lega.

Che vede nel tricolore e nella nazione i simboli di un passato da superare. D'altronde, le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia, ormai prossime, non sembrano al centro dell'attenzione di questo governo. Anche perché parlare di Unità d'Italia, in un paese tanto diviso, appare un ossimoro.

Il Primo Maggio non si sottrae al clima del tempo. Al contrario. Non solo perché evoca le lotte del movimento operaio e sindacale.

Una versione in grande della "Festa dell'Unità", dove si canta "Bella Ciao" e sventolano le bandiere rosse.

Il Primo Maggio disturba anche - e soprattutto - perché il lavoro e i lavoratori appaiono, ormai, entità inattuali. Si dovrebbe parlare, semmai, del "non lavoro". Della disoccupazione reale e di quella implicita. Nascosta tra le pieghe dei lavoratori scoraggiati, che non risultano disoccupati solo perché, per realismo, non si "offrono" sul mercato del lavoro.

E per questo non vengono calcolati nei "tassi di disoccupazione". Ma anche dell'occupazione informale. E si dovrebbe parlare, ancora, degli imprenditori, piccoli e piccolissimi, che stentano a continuare la loro attività perché i clienti non li pagano, faticano ad accedere al credito. E non riescono a mantenere l'azienda e i dipendenti.

Lavoratori e piccoli imprenditori "disperati". Per fare parlare di sé, per essere "notiziabili", devono darsi fuoco, sequestrare i dirigenti, appendersi alle gru. Oppure inventarsi

"l'Isola dei cassintegrati", all'Asinara, recitando se stessi.

Lo abbiamo detto altre volte, ma vale la pena di ripetersi.

C'è uno squilibrio violento fra la percezione sociale e la rappresentazione pubblica - mediatica - del lavoro e dei suoi problemi.

La disoccupazione è ormai in testa alle preoccupazioni degli italiani, visto che 38% di essi la indica come l'emergenza più importante da affrontare (Rapporto "Gli Italiani e lo Stato", Demos per Repubblica, novembre 2009). Eppure se ne parla poco, sui media. Soprattutto in tivù.

Tra le notizie di prima serata del Tg1 monitorate dall'Osservatorio di Pavia (per la Fondazione Unipolis) nello scorso settembre, ai problemi legati al lavoro, alla disoccupazione, alla perdita dei risparmi era riservato il 7% sul totale delle notizie.

Per fare un confronto con le tivù pubbliche di altri paesi europei, nello stesso periodo, Ard (Germania) dedicava ai temi del lavoro e della disoccupazione il 21% delle notizie, Bbc One il 26%, France 2 il 41%.

Eppure il tasso di disoccupazione in Italia continua a crescere e oggi ha raggiunto l'8,8% (dati Eurostat). Anche se il paese appare, anche in questo caso, diviso in due. Sotto il profilo territoriale: nel Sud il tasso di disoccupazione si avvicina al 20%.

E sotto il profilo generazionale, visto che fra i giovani (15-24 anni) il tasso di disoccupazione sale al 28%. Il più alto d'Europa. Quasi 10 punti in più della media europea.

Ma i giovani, è noto, non esistono. Sospesi fra precarietà e dipendenza dalla famiglia. Protetti dai genitori, a cui affidano le chiavi del futuro (in cambio di quelle di casa). In modo assolutamente consapevole.

Come emerge da una recente ricerca condotta da LaPolis dell'Università di Urbino per Coop Adriatica (che verrà presentata nei prossimi giorni).
Una frazione minima di giovani (15-35 anni) pensa che, in futuro, riuscirà a raggiungere una posizione sociale migliore rispetto a quella dei genitori. Mentre il 56% pensa il contrario.
Ancora: il 23% dei giovani è convinto che, per farsi strada nella vita, la risorsa migliore sia costituita dalla rete di relazioni e di "conoscenze familiari".
Quasi quanto l'istruzione, tradizionale fattore di mobilità sociale. E poco meno dell'esperienza di lavoro e studio in Italia e all'estero (26%).

Inoltre, si sono abituati all'esperienza di lavoro temporaneo e intermittente. Ma non rassegnati. Molti di loro, anzi, inseguono il "posto fisso" (39%; ma tra i 15-17enni il 46%). Al tempo stesso si è raffreddato, fra loro, l'entusiasmo per il lavoro in proprio e la libera professione attira, oggi, il 25% di loro.
Nell'insieme, il 49% dei giovani oggi si dice orientato verso un'attività autonoma o professionale. Circa 10 punti in meno di 4 anni fa.

Nello stesso periodo, parallelamente, è risalito l'interesse verso la grande impresa e il pubblico impiego.

In altri termini, i giovani, sono flessibili "per forza", non rassegnati alla precarietà.
Sanno che li attende un futuro difficile. E per questo fanno affidamento alla famiglia.
La considerano la risorsa mezzo per farsi strada nella vita.
E, prima ancora, un rifugio e una protezione.

Meccanismo fondamentale del welfare all'italiana. Pressoché ignorato dal sistema pubblico.

Così è più chiaro perché il Primo Maggio susciti disagio.

Nel centrodestra, dove è percepito, da molti, una festa comunista.
Ma, anche altrove.
Perfino a sinistra, dove molti la considerano un rito nostalgico. Dedicato a quando il lavoro era fonte di vita, riferimento dell'identità, motivo di orgoglio. Mentre oggi l'evento sindacale più significativo e partecipato, per celebrare il Primo Maggio, non è una manifestazione rivolta ai lavoratori.

Ma il tradizionale concertone rock che si svolge in Piazza San Giovanni, a Roma. Affollata da una massa enorme di giovani.
Per una volta, insieme.
Per una volta, visibili.
Normalmente isolati, intermittenti, frantumati, custoditi, controllati. Normalmente invisibili. Come il lavoro.

(01 maggio 2010
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/01/news/mappe_1_maggio-3740751/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Italiani a metà un popolo diviso
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2010, 11:06:36 am
SONDAGGIO

Italiani a metà un popolo diviso

Fieri di appartenere alla comunità nazionale anche se spesso pronti a considerare il Sud un peso. L'Italia si presenta ai 150 anni dell'Unità con molte contraddizioni ma con un'identità. Costruita soprattutto intorno all'attaccamento ai familiari e all'arte di arrangiarsi. Ecco perché, nonostante le tensioni, continuiamo a sentirci cittadini dello stesso Paese. E perché rischiamo di scoppiare

di ILVO DIAMANTI

Italiani a metà un popolo diviso

CI SI avvia al 150esimo anniversario dell'unità nazionale fra molte divisioni. Tanto che alcuni fra i più autorevoli componenti del Comitato dei Garanti per le celebrazioni si sono dimessi. Per primo: Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente della Repubblica che, nel corso del suo mandato, ha investito sulla riaffermazione delle feste e dei simboli nazionali. Un atteggiamento che non pare condiviso dalla maggioranza di governo. Nella Lega, soprattutto. I cui leader, a partire da Bossi, fanno a gara nel sottolineare che c'è poco da celebrare. Che, per i padani veri, l'unità d'Italia  anzi: l'Italia stessa  non merita di essere celebrata. Così, ci si avvia a questo 150enario in modo dimesso e reticente. Un po' come l'atteggiamento degli italiani verso l'Italia, descritto da un sondaggio di Demos per Repubblica. Difficile da interpretare in un solo modo. Tratteggia un popolo di "italiani a metà". Visto che, fra le diverse appartenenze territoriali, il 28% sceglie, anzitutto, l'Italia (comunque, in crescita di 5 punti rispetto al 2006). Il resto: cosmopoliti (27%) e localisti (45%). Dunque, veneti, siciliani, lombardi, napoletani, nordisti "e" - non "o" - italiani. Visto che quasi tutti (l'88%) si dicono (molto o abbastanza) "orgogliosi" della propria appartenenza nazionale. E quasi tutti (l'84%) considerano "positiva" (il 24% "molto") l'Unità d'Italia.

Italiani a metà. Perché, tuttavia, il 30% di essi considera il Sud un peso. Il 41% nel Nordest, ma il 24% anche nel Mezzogiorno. Cittadini di un paese diviso. Non solo dal punto di vista territoriale, ma - lo sappiamo bene - anche politico. E civile. Perché lontani dalle istituzioni e dallo Stato. L'orgoglio nazionale, infatti, appare incardinato su elementi extra-civili e pre-politici. La bellezza del paesaggio, il patrimonio artistico e culturale, la moda e la cucina. Mentre gli elementi che specificano gli italiani rispetto agli altri popoli, secondo gli italiani stessi, evocano il "carattere nazionale": l'attaccamento alla famiglia e l'arte di arrangiarsi, sopra tutti gli altri. (Come abbiamo messo in luce anche su liMes, in altri scritti). Seguiti dalla "creatività" - nell'arte e nell'economia. Perché l'arte di arrangiarsi è, in fondo, un'arte. Evoca la capacità di innovare e di inventare. Gli italiani. Familisti, imprenditori, localisti, artigiani e artisti. In fondo alla graduatoria dei caratteri che li distinguono dagli altri popoli, non a caso, pongono la fiducia nello Stato e il senso civico. Mentre, fra gli avvenimenti che hanno modernizzato la Repubblica, al primo posto, indicano la "ricostruzione economica degli anni 50 e 60". La stagione nel corso della quale il nostro paese conquistò, faticosamente, lo sviluppo e il benessere. Quando gli ultimi dell'Occidente risalirono fino ai primi posti. E si guadagnarono un po' di rispetto dagli altri. Non più soltanto mafiosi, poveracci ed emigranti. Ma lavoratori e imprenditori.

"Italiani a metà", però, non significa solo "divisi", ma anche ambivalenti e contraddittori. Perché, dopo la "ricostruzione", tra i fattori di modernizzazione della Repubblica, collocano lo "statuto dei lavoratori" e il "referendum sul divorzio". Avvenimenti che segnarono una stagione di mutamento sociale e civile profondo. E, tra i motivi che alimentano l'orgoglio nazionale, il 50% indica la Resistenza e il Risorgimento, il 43% la Costituzione (un orientamento in crescita di 7 punti percentuali rispetto al 2008). Quasi come lo sport e la Nazionale (ma, in questo caso, pensiamo che si tratti di una risposta reticente. Mentre quasi due italiani su tre ammettono la loro soddisfazione (non andiamo oltre...) di fronte al Tricolore e all'inno nazionale.

Insomma, gli italiani sono divisi, non solo dal punto di vista politico e territoriale, ma anche personale. Incoerenti anche di fronte a se stessi. In grado di manifestare malessere verso il Sud, fino ad auspicarne l'espulsione dal Paese. Oppure, identificati nel loro piccolo mondo, nella loro piccola patria locale: città, regione, Padania, Sud. E ancora: sfiduciati verso lo Stato, disillusi nei confronti delle istituzioni. Rassegnati al proprio - patologico e storico - deficit di senso civico, rimpiazzato e compensato da un senso "cinico" dilatato e dilagante. Le stesse persone che si dicono orgogliose di essere italiane. Convinte che l'Unità sia una conquista positiva. Solo una minoranza minima (15%) sostiene che dividere Nord e Sud sia un obiettivo utile, da perseguire.

Gli stessi italiani raccolti intorno al Presidente Napolitano, guardato con fiducia da oltre 7 cittadini su 10. Come Ciampi, prima di lui. Prova che, se lo Stato è lontano, se il Paese è diviso, c'è grande bisogno di riferimenti e di istituzioni comuni, in cui riconoscersi "insieme". Ciò induce a leggere diversamente anche fenomeni che hanno assunto grande ampiezza e importanza crescente, come il voto alla Lega. Il cui significato è, anch'esso, in-coerente. E non può essere assimilato, in modo automatico, ai proclami e alle parole dei leader padani. Visto che 2 leghisti su 3 considerano positiva l'Unità d'Italia e 8 su 10 si dicono "orgogliosi" di essere italiani (il 52%: "molto"). D'altra parte, basta pensare all'Adunata Nazionale degli Alpini, ieri. Centinaia di migliaia di penne nere confluite a Bergamo, nel cuore di una zona leghista. Gli alpini, al cui interno le simpatie leghiste non sono poche (basta citare l'esempio di Gentilini, prosindaco di Treviso e "alpino doc"). Sfilano, orgogliosamente, dietro al Tricolore. Accompagnati da inni patriottici.

Un altro segno di questo Paese di italiani a metà. Che, proprio per questo, potrebbe non restare tale, a lungo. Dipende dal modo di rappresentarli - e di governarli - espresso dagli attori politici. Dalle istituzioni. Potrebbero cambiare. Divenire, finalmente, una "nazione" (per echeggiare Gian Enrico Rusconi). Oppure degradare ancora. Rinunciare del tutto alla loro identità nazionale. Al residuo di civismo che ancora esprimono. Gli "italiani a metà": potrebbero ridursi a "mezzi italiani". Per citare Edmondo Berselli: post-italiani. Non-cittadini di un paese provvisorio.

(10 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/10/news/inchiesta_italiani-3948703/


Titolo: ILVO DIAMANTI - La fretta del regime mediocratico
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2010, 12:14:36 am
MAPPE

La fretta del regime mediocratico

di ILVO DIAMANTI

Può sorprendere la determinazione con cui il governo spinge per approvare il disegno di legge sulle intercettazioni  -  in fretta, anzi subito, e con poche modifiche. Senza badare al parere dei magistrati, dell'opposizione, di molti giornalisti. Notoriamente "ostili". Senza curarsi neppure del dissenso espresso da esponenti del governo Usa e dalla maggioranza degli italiani (come emerge da alcuni sondaggi).

Questo atteggiamento non si spiega solo con la volontà  -  dichiarata dal ministro Alfano  -  di tutelare la privacy dei cittadini. E di alcuni in particolare: il premier, i ministri e i leader politici. Per evitare che altri scandali rimbalzino sulla stampa. La fretta del governo riflette anche la voglia di saldare le crepe emerse nel modello di democrazia che si è affermato in Italia, da oltre 15 anni. La "democrazia del pubblico" (formula coniata da Bernard Manin, a cui facciamo spesso riferimento). Personalizzata e mediatizzata. Perché tutto è mediatico, nella "scena" politica. I partiti, in primo luogo. Poi: le istituzioni e, ovviamente, il governo. La personalizzazione è un corollario. Perché sui media vanno le persone, con le loro storie, i loro volti, i loro sentimenti. Non i partiti, le grandi organizzazioni, le istituzioni. Che fanno da scenario, ma non possono recitare da protagonisti. È un modello sperimentato altrove, anzitutto negli Usa. Ma in Italia ha assunto una definizione specifica e originale. In tempi rapidissimi. Merito (o colpa) di Silvio Berlusconi. Insieme: imprenditore mediatico dominante, leader  -  anzi, padrone  -  del partito dominante e, naturalmente, capo dell'esecutivo. Presidente "reale"  -  potremmo dire  -  di una Repubblica non presidenziale, dove il Presidente "legale" agisce da garante e autorità di controllo.

La conseguenza più nota di questa tendenza è l'avvento di uno "Stato spettacolo" (titolo di un recente saggio di Anna Tonelli, pubblicato da Bruno Mondadori). Dove lo scambio tra pubblico e privato avviene in modo continuo e pervasivo. Dove il consenso si costruisce sui fatti privati. I cittadini diventano il pubblico di uno spettacolo recitato dagli attori politici che si trasformano in attori veri. È difficile "confinare" il privato, in questo modello. Perché la privacy, per prima, è risorsa usata a fini "pubblici". È la conseguenza inattesa e, in parte, indesiderata del regime mediocratico: le stesse logiche, gli stessi meccanismi che alimentano il consenso possono contribuire a eroderlo. O, addirittura, a farlo collassare.

1. In primo luogo, ovviamente, perché il "privato esibito in pubblico" non è "reale". È fiction. Come nel Grande Fratello, dove tutti agiscono "sapendo di essere osservati". (Anche se, con il tempo, se ne dimenticano). Ben diverso è scavare nel "privato reale" attraverso, appunto, le intercettazioni oppure le indagini che entrano nella vita delle persone  -  dei politici  -  a loro insaputa. Quando si sentono "al sicuro". Quando non recitano la "commedia della vita quotidiana". Perché, allora, possono uscire segreti "scomodi". Comportamenti talora illeciti, altre volte semplicemente sgradevoli. Perché rivelano uno stile distante dal "privato esibito in pubblico". È il caso delle conversazioni telefoniche fra il premier e i dirigenti Rai. Dove Berlusconi esprime, senza mezze misure, la "sindrome del padrone" (la formula è di Edmondo Berselli). Preoccupato da comici, predicatori, conduttori, moralisti, giornalisti: tutti quelli che deturpano la sua immagine e la sua narrazione. La sua "storia". È il caso, recente, dello scandalo che ha indotto il ministro Scajola alle dimissioni. Costretto non dall'illecito, ma dall'indignazione. Dalla scoperta di un appartamento davanti al Colosseo pagato da altri. Peraltro, a insaputa del beneficiario e a prezzo stracciato. In tempi di crisi, mentre milioni di italiani pagano il mutuo della loro casa con molta fatica. Il che sottolinea la distanza tra questa stagione di inchieste sulla corruzione e Tangentopoli. Allora, nei primi anni Novanta, la corruzione intrecciava il mondo degli affari e "la" politica. E aveva, come primo (non unico) obiettivo, il mantenimento della (costosa) macchina dei partiti. Oggi, invece, lega il mondo degli affari e "i" politici. Intorno a vicende, talora, grandi e dolorose (come il terremoto). Altre volte, invece, piccole e mediocri. (Come quelle suggerite dalla "lista Anemone"). Ma, proprio per questo, altrettanto  -  e forse più  -  intollerabili, nella percezione e nel senso comune.

2. L'altra tendenza indesiderata di questo regime mediocratico, soprattutto per chi lo guida, riguarda la "svalutazione del potere" e di chi lo esercita. Rendere pubblico il privato "vero", senza finzioni: manifesta il volto mediocre della politica e di chi governa. Il confine tra i rappresentanti e i rappresentati, tra i leader e i cittadini: scompare. Anzi, i leader politici, gli uomini di governo imitano e giustificano gli istinti più bassi della società. In questo modo, però, perdono autorevolezza, ma soprattutto legittimità, credibilità, consenso. Da ciò l'ossessione di chi ha inventato e imposto, per primo, il sistema mediocratico. La tentazione e il tentativo di controllarne ogni piega. Di prevederne ogni possibile trasgressione. In modo quasi compulsivo. Perché la realtà deve funzionare come un reality; recitato secondo un copione pre-stabilito; e, comunque, orientato e modellato dalla produzione. Quando gli autori, anzi: l'Autore, mentre osserva la "casa del Grande Fratello", si scopre, a sua volta, osservato e ascoltato. E, pochi minuti dopo, si vede ripreso e riprodotto sugli stessi schermi, sulle stesse pagine, sugli stessi giornali. Il "fuori onda" messo in onda, come un'edizione permanente di "Striscia la notizia". Quando il gioco gli sfugge. Allora gli passa la voglia di giocare. E vorrebbe smettere. O meglio: fare smettere gli altri. Cambiare le regole. A dispetto dei magistrati, del governo Usa. E perfino dell'opinione pubblica.
La legge sulle intercettazioni. Serve a impedire che si spezzi la magia della "Storia italiana". L'unica biografia del paese veramente autorizzata.

(24 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/24/news/diamanti_intercettazioni-4287847/?ref=HREA-1


Titolo: ILVIO DIAMANTI - Una società senza baroni (e possibilmente senza università
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2010, 11:52:34 am
Una società senza baroni (e possibilmente senza università)
 
Ilvio Diamanti
 
Pare che gran parte dei problemi del paese siano riassumibili nel binomio vizioso Statali-Professori. Certo, altre categorie sono, da tempo, bersaglio di critiche durissime. Fra tutti: i magistrati. Ma loro, almeno, hanno potere. Altrimenti non continuerebbero ad essere, dopo tanti anni, al centro di attacchi – sempre più duri - da parte del premier e della classe politica  - soprattutto, ma non solo – di centrodestra. Degli statali, invece, “non glie ne frega niente” a nessuno, ormai. La manovra finanziaria del governo, per metà, grava su di loro. Il che - al di là del merito – non ha sollevato nessuna reazione, nessuna protesta. Quasi che, ormai, non si attendessero alcun ascolto. Perché reagire se non ti aspetti alcuna solidarietà sociale - visto che, da fannullone quale sei, il tuo stipendio è, per definizione, rubato?

La posizione dei professori universitari è, in parte, diversa. Difficile sostenere che non contino nulla. Ma, sicuramente,  sempre meno.
D’altronde, nell’università (iniziale minuscola) non si investe più. (Come nella Cultura: iniziale maiuscola.) Un ambiente in cui è lecito risparmiare, “tagliare”, se hai bisogno di ridurre la spesa pubblica. Tanto la colpa è soprattutto loro. Dei Baroni. Che costano tanto e fanno poco. Anzi, nulla. In fondo sono “statali”. I Baroni: non si riesce a mandarli via. Fino a pochi anni fa andavano in pensione quasi a 80 anni. Poi, l’età della pensione, per loro, si è abbassata. Fino a 70. Raro caso – forse unico - in cui si spinge per anticipare l’età della pensione, invece di ritardarla. Ma, come si sa, i Baroni non solo costano, fanno poco o nulla. In aggiunta, impediscono il reclutamento dei più giovani. Visto che, ormai, l’età media dei ricercatori si aggira intorno ai 50 anni. Mentre l’università si è popolata di figure precarie che più precarie non si può. Assegnisti, borsisti, contrattisti. Chiamati, per quattro soldi (e a volte neppure quelli)
 a far di tutto. Anche lezione, ovviamente. Come i ricercatori – sempre più attempati, ma ancora ricercatori. E chiamati, ovviamente, a tenere corsi, a fare anch’essi i “professori”. Senza esserlo. Anzi, restando ricercatori – a vita. Visto che il reclutamento è bloccato (non dai Baroni) e loro sono divenuti un ruolo “a esaurimento”. Rimpiazzati da nuovi ricercatori – ma a tempo determinato. Tanto per chiarire che il futuro dell’università è incerto. A tempo determinato, appunto. Come la cultura. Di eterno, ormai, c’è solo il presente. E il premier.

Così, per rimediare, per svecchiare il corpo docente, per ridurre la spesa universitaria, per accelerare il turnover, conviene spingere i Baroni fuori dall’università il più presto possibile.  Va in questa direzione la proposta del PD approvata dall’Assemblea nazionale: mandare i Baroni in pensione “ obbligatoria” a 65 anni. Mario Pirani, nella sua “Linea di confine”,  una settimana fa ha già espresso, al proposito, critiche molto accurate. Da me, molto condivise. A cui aggiungerei un appunto. Molto personale – lo ammetto.

Riguardo all’invecchiamento dei Baroni, ma anche gli altri: i Conti e gli Scudieri. Gli Associati e i Ricercatori.  I quali sono “vecchi” non (tanto) per colpa dei Baroni, eterni e immortali. Ma del meccanismo stesso che regola il reclutamento e le carriere nell’università. Autobiograficamente: io, che non ho avuto Baroni a trainarmi, ma molti colleghi e maestri, con i quali ho collaborato, studiato, scritto e pubblicato, ebbene, sono diventato di “ruolo”, ho, cioè, vinto il concorso di ricercatore, quando avevo 40 anni. Prima - e per 14 anni - ho fatto il precario. A mia volta: assegnista, borsista, “ esercitatore”. E poi dottorando e dottorato. Per mantenermi (ma anche per passione), ho diretto un ufficio studi sindacale, poi ho fatto il ricercatore di professione. Così come, durante gli studi universitari, per sostenere i costi e aiutare la famiglia, ho fatto molti altri “lavori”. Fra l’altro: il benzinaio, l’assicuratore, il venditore di enciclopedie,
l’operaio. Un’esperienza veramente formativa.

Poi, a 40 anni, dopo tanti anni precari, tante ricerche e tante pubblicazioni (non avere Baroni ha i suoi lati positivi; in particolare: sei più libero), finalmente ricercatore. E quindi uno stipendio regolare per fare quel che mi piace e avevo, comunque, fatto da sempre.
Per questo non l’ho mai concepito come un “lavoro”. Da allora, pochi anni dopo, sono divenuto un Barone (ora si dice così). Anche se come Barone sono un disastro, a valutare dalla capacità di curare la politica interna all’accademia (per informazioni, chiedere ai colleghi – più giovani - che collaborano con me).  Preferisco fare ricerca, scrivere, insegnare piuttosto che gestire i concorsi. Se davvero mi chiedessero di andare in pensione a 65 anni, temo che, alla scadenza, non raggiungerei i requisiti minimi di anzianità richiesti. A meno di non “riscattare” (si dice così?) gli anni della laurea, del dottorato, ecc… A un costo, mi si dice, tale da azzerare i primi anni di pensione. Per fortuna, ho ancora un po’ di tempo – un po’ di anni di università - davanti, per organizzarmi.

Tuttavia, dubito seriamente che, al mio posto e con il mio stipendio, entrerebbero tre nuovi, giovani ricercatori, come si ipotizza. Intanto perché di giovani, all’università, non ne vedo più. I collaboratori, intorno a me, ormai hanno i capelli bianchi, hanno messo su famiglia, sprezzanti del rischio: hanno persino fatto figli. Magari potessero subentrare a me, loro, precari ad alta qualificazione e con “tanti tituli”. Se così fosse davvero, me ne andrei prima. Anche subito. Magari all’estero, dove in un paio di università, almeno, e in un paio di paesi, almeno, un vecchio Barone come me troverebbe ancora posto. Senza molti problemi

Ma continuo a dubitare che al posto dei Baroni 50-60enni, subentrerebbero davvero tanti giovani ricercatori. Credo e, anzi, temo che – invece -  il “taglio” avverrebbe con pochi rammendi. Senza turnover. Chi è fuori ci resterà, raggiunto dai neopensionati.  Tutti in cammino verso una società senza (o meglio: con sempre meno) “statali”. E senza Baroni. Verso una società popolata da lavoratori autonomi.
Artigiani, commercianti, liberi professionisti. Imprenditori. Grandi, medi, piccoli e piccolissimi. E da lavoratori dipendenti. Ma Privati. D’altronde, come rammentava Eugenio Scalfari domenica scorsa, “gli statali votano in larga maggioranza a sinistra”. E, aggiungo, i Baroni ancor di più. “Il loro scontento non peserà, se non marginalmente, sul consenso raccolto dal governo”. Perché mai, dunque, dovrebbe preoccuparsene il governo  insieme alla Lega e al centrodestra?

Mi sfuggono, semmai, i motivi, le ragioni per cui ci stiano pensando l’opposizione e il PD. Forse perché è più facile – e popolare -  combattere i Baroni che il Cavaliere.

(31 maggio 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/05/31/news/una_societ_senza_baroni_e_possibilmente_senza_universit_-4468962/?ref=HREC1-5


Titolo: ILVIO DIAMANTI - La "svolta emotiva" colpisce soprattutto il premier, ritenuto..
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2010, 04:45:22 pm
SONDAGGI / ANALISI

Tra manovra e intercettazioni il Cavaliere adesso è solo

In passato i nemici erano i pessimisti.

Ma oggi tocca a lui predicare sacrifici: difficile farsi credere.

La "svolta emotiva" colpisce soprattutto il premier, ritenuto colpevole di aver negato la crisi

di ILVO DIAMANTI


IL PREMIER è uno specialista di sondaggi. Ne conosce l'importanza, in quest'epoca senza ideologie, senza maestri e senza profeti. I sondaggi: servono a supplire a questo deficit di senso. A costruire consenso.

Per questo non tollera "rappresentazioni della realtà" in contrasto con la sua narrazione. Soprattutto in tempi difficili. Quando incombe la crisi: sulle imprese e sui cittadini. A cui si chiedono sacrifici. Lacrime e sangue. Mentre governo e parlamento sono impegnati - un giorno sì e l'altro anche - a discutere una legge sulle intercettazioni, che interessa soprattutto a lui. Personalmente.

Per questo gli saltano i nervi quando in tivù, a Ballarò, uno specialista serio, come Nando Pagnoncelli, attraverso i sondaggi di Ipsos, propone un'Italia delusa. Dal premier. Il fatto è che la nostra democrazia è fondata sull'Opinione Pubblica assai più che sul voto. E l'Opinione Pubblica si esprime attraverso i sondaggi e i media. Soprattutto la tivù. Ogni giorno. Per questo Berlusconi reagisce quando i sondaggi, attraverso i media, danno una rappresentazione dell'Opinione Pubblica - e della realtà - diversa da quella che lui vorrebbe. In contrasto con i suoi sondaggi, secondo i quali egli sarebbe amato da 2 italiani su 3. Anche se il suo partito personale, alle recenti elezioni regionali, si è fermato al 30% dei voti validi. Cioè: meno di un terzo dei due terzi degli elettori. Insomma, intorno al 20%.

Da parte nostra, ci limitiamo - come sempre - a proporre i risultati di un sondaggio condotto nei giorni scorsi. Su un campione rappresentativo della popolazione (poco più di 1000 persone). Attenti a rispettare criteri di rigore, nella rilevazione e nell'elaborazione. Indifferenti ai risultati. Non ci riguardano. Da molto tempo, d'altronde, forniscono indicazioni penose sul centrosinistra e sul Pd, in particolare. Questa volta, però, anche i dati sul premier e il governo appaiono negativi. Peggiori di quelli forniti da Ipsos. Secondo il sondaggio di Demos, infatti, la fiducia verso Berlusconi e il governo non è mai stata così bassa, dalla primavera del 2008. Dunque, da quando è in carica. Negli ultimi due anni, il premier aveva attraversato altri momenti difficili. Ma questo appare diverso. Perché non investe il "privato" di Berlusconi, ma il suo ruolo "pubblico" e di governo. Fino a ieri, gli elettori li tenevano distinti. Magari, non apprezzavano i comportamenti personali del premier, ma approvavano l'operato del governo. Oggi molto meno. L'azione del governo è valutata con un voto "sufficiente" (6 o più) da poco più 4 elettori su 10. Il dato più basso da due anni. Un orientamento analogo a quello verso Berlusconi, giudicato in modo "positivo" o "sufficiente" dal 43% degli elettori: 6 punti in meno rispetto a 4 mesi fa e quasi 10 rispetto a un anno fa. Ma, soprattutto, 7 meno di un mese fa. Quando superava, comunque, il 50%.

È come se, all'improvviso, si fosse spenta, o almeno, abbassata la luce. Su di lui. E sul Pdl, stimato intorno al 33% dei voti. Perché la confidenza verso Giulio Tremonti appare, invece, molto elevata. Di quasi 10 punti superiore a quella del premier. Anche se la manovra finanziaria è giudicata negativamente dalla maggioranza dei cittadini. Ritenuta squilibrata e poco equa. Sfavorevole, soprattutto, per i dipendenti pubblici e, in minor misura, privati. Gli italiani rimproverano al governo, in particolare, di aver mentito loro. Fino a ieri. Sottovalutando - ad arte - il peso della crisi, per ragioni di consenso. Da ciò l'improvvisa svolta emotiva dell'opinione pubblica. Che punisce Berlusconi, ma non Tremonti. Distinguendo le responsabilità di chi ha imposto la manovra economica. Senza pietà. Da quelle di chi ha cercato di nasconderne, fino a ieri, l'urgenza e, soprattutto, i costi. In modo pietoso.

Il giudizio degli italiani è aggravato dalla legge sulle intercettazioni, attualmente in discussione al Parlamento. Verso la quale il dissenso è ampio. Anche tra gli elettori del centrodestra. La reputano negativamente quasi metà dei leghisti e un terzo della base del Pdl. Le riserve sono ancor più larghe in merito agli effetti. Gran parte degli italiani, infatti, ritiene che favorirà gli affari dei politici e dei potenti invece della privacy dei cittadini. Che ostacolerà le indagini sulla criminalità organizzata. E se anche ponesse limiti all'invadenza dei media, ne ridurrà sensibilmente l'autonomia e la libertà. In questa fase, è cresciuta anche l'insofferenza verso la corruzione: oltre 8 cittadini su 10 la ritengono diffusa quanto o di più rispetto ai tempi di Tangentopoli. Si è, inoltre, allargata la convinzione che il governo non stia facendo abbastanza, su questo fronte.

Così Berlusconi è costretto a inseguire troppi fronti. A recitare troppe parti, nello stesso tempo. Contro nemici, che cambiano di giorno in giorno. Ieri: i pessimisti, trattati da anti-italiani. Mentre oggi è intento a predicare sacrifici. Difficile apparire credibile. Anche per lui. Zelig. Attore nato.

Per sua fortuna, l'opposizione politica continua a dimostrarsi debole. Soprattutto il Pd. Mentre l'Idv e l'Udc, nelle stime di voto, si rafforzano. Tra i leader, il presidente della Camera, Fini, ha perduto consensi. Ma resta il più apprezzato dagli italiani. Insieme a Tremonti, nel quale gli elettori confidano e cercano sicurezza, in questa crisi. Così, nel centrodestra, la delusione si concentra sul premier. E sul Pdl. Mentre gli altri - intorno a lui - si mostrano in buona salute (dal punto di vista del consenso). Fini, Bossi, la Lega. E, soprattutto, Tremonti. Per questo, Berlusconi appare irritabile. E molto solo. Anche se lo è sempre stato. Anzi, se ne è fatto vanto. Lui: estraneo alla politica politicante, che affligge i suoi alleati e il suo stesso partito personale. "Commissariato", come si è lamentato di recente. Senza potere, commissariato dai gerarchi. Lui, orgogliosamente solo. Ma dalla parte degli italiani. I quali, irriconoscenti come i tifosi del Milan, oggi, non sembrano più intenzionati ad alleviare la sua solitudine. Ad assecondare la sua irreale narrazione della realtà.

(03 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/03/news/diamanti_3_giugno-4531500/


Titolo: Re: ILVO DIAMANTI - Gli ultimi mesi hanno cambiato il termometro del Paese
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2010, 09:51:10 am
IL SONDAGGIO

Italia, sfida alla crisi

Il cattivo umore di un Paese

Nella rilevazione Demos-Coop emerge una maggiore ansia per l'economia e meno paura degli immigrati.

Gli ultimi mesi hanno cambiato il termometro del Paese

di ILVO DIAMANTI


L'economia e la società attraversano tempi duri. Come avviene da anni, per la verità. La differenza è che oggi gli italiani ne sembrano consapevoli. Dopo un lungo periodo durante il quale apparivano convinti che, comunque, sarebbero riusciti a superare anche questa crisi. Perché noi italiani "ce la caviamo sempre", tanto più quando tutti ci danno per spacciati. Questa volta, però, qualche serio dubbio, al proposito, affiora. È ciò che suggerisce il sondaggio condotto da Demos-Coop per l'Osservatorio sul Capitale sociale.
Quasi il 60% degli italiani, infatti, considera i problemi economici (disoccupazione e prezzi) prioritari, nell'agenda delle emergenze da affrontare. Tre anni fa, questa componente della popolazione era di 20 punti più ridotta: il 37%. Un segno che il clima d'opinione sta cambiando in fretta. In peggio. La maggioranza degli italiani pensa, infatti, che, fino a ieri, il governo abbia mentito, sulla crisi. Ostentando un ottimismo fuori luogo.

Né consola il fatto che altrove, in Europa, le cose vadano peggio. Anzi, metà delle persone intervistate, non a caso, teme che anche da noi capiti quel che è successo in Grecia. Questo brusco cambiamento d'umore, come abbiamo sottolineato una settimana fa, dipende, sicuramente, dalla manovra finanziaria del governo. Che promette sacrifici molto duri, ai cittadini, dopo mesi e mesi di rassicurazioni. Ma il pessimismo è suggerito, soprattutto, dal peggioramento della condizione familiare. Che ha raggiunto livelli di guardia. Il 18% degli italiani, nel sondaggio Demos-Coop, dichiara che, nella sua famiglia, qualcuno ha perso il lavoro (5 punti in più di due anni fa). Il 24% sostiene che un familiare è stato messo in cassa integrazione (il doppio rispetto al 2008). Infine, il 27% degli intervistati (5 punti in più di due anni fa) afferma di aver dovuto ricorrere a prestiti presso genitori, parenti oppure amici. Considerando questi segni di difficoltà, il 17% delle famiglie italiane appare in condizione di grave disagio. Due anni fa questa cerchia era già ampia, ma si fermava al 12%. Un ulteriore 30% degli intervistati manifesta episodi di difficoltà familiare. Due anni fa era il 22%. Il profilo degli italiani in difficoltà economica risulta piuttosto chiaro. Si tratta di persone che risiedono, maggiormente, nel Mezzogiorno (anche se il peso della cassa integrazione è rilevante anche nel Nord). Di età media (40-55 anni), ma anche giovane (25-40 anni). Occupati (o disoccupati) come lavoratori dipendenti del settore privato. Ma le difficoltà colpiscono, in misura superiore alla media, anche i lavoratori autonomi.

Il montare della crisi economica e occupazionale ha largamente "saturato" lo spazio delle preoccupazioni, ridimensionando le paure suscitate dalla criminalità comune e dagli immigrati - perlopiù connessi, in un binomio inscindibile. L'atteggiamento verso gli immigrati, in particolare, sembra cambiato profondamente, sotto diversi profili. Si è ridotta la quota di coloro che li percepivano come un pericolo per la sicurezza, ma anche per l'occupazione. Mentre si è ridotto il peso di chi vede negli stranieri una "minaccia all'identità e alla religione". Parallelamente, è cresciuta la disponibilità a considerarli una risorsa per la nostra economia. Oltre che dalle preoccupazioni economiche, questo cambiamento del clima di opinione è stato favorito dalla minore intensità della campagna mediatica sui temi dell'immigrazione e della sicurezza (come mostrano i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza). Non vanno, tuttavia, trascurati gli effetti della diffusione dei rapporti con gli stranieri, messa in luce dall'Osservatorio Demos-Coop. Ci riferiamo alla crescente presenza degli stranieri nei luoghi di vita e di lavoro degli italiani. Come colleghi, amici, collaboratori, studenti, genitori di figli che studiano e giocano insieme ai nostri figli. Tutto ciò li ha resi meno "altri", agli occhi degli italiani.

La crisi, tuttavia, può distogliere lo sguardo dal problema della sicurezza personale. Ma alimenta, comunque, la diffidenza. Tra gli italiani in maggiore difficoltà, infatti, la sfiducia nel futuro è molto superiore alla media. Ma anche la sfiducia negli altri e, in particolare, verso gli stranieri. Le persone in difficoltà economica familiare, infatti, risultano anche le meno tolleranti e disponibili verso gli immigrati. Percepiti come concorrenti. Nell'accesso al mercato del lavoro, ma anche ai servizi. La percezione della crisi, tuttavia, sta indebolendo anche la fiducia nella politica. La quota di popolazione che esprime un giudizio positivo sull'operato del governo è, infatti, del 42% (il livello più basso degli ultimi 2 anni). Ma scende al 34% tra le persone in difficoltà economica e occupazionale. La stessa, esatta tendenza emerge nei confronti del premier: 42% di giudizi positivi nella popolazione; 34% nella componente sociale più precaria. Ma anche il consenso per Tremonti, che supera il 50% nella popolazione, tra i più "marginali" si riduce al 40%. Si tratta di una novità. Visto che, negli ultimi anni, il governo Berlusconi aveva attraversato le crisi economiche senza pagare un prezzo significativo, dal punto di vista del consenso politico. Ora qualcosa si è rotto, in questo meccanismo. Anche se ciò non implica, necessariamente, una svolta. Visto che il giudizio verso l'opposizione e il suo leader resta egualmente basso: nella popolazione come tra le persone socialmente in difficoltà. Il che suona come un avvertimento. Perché i mutamenti del sentimento sociale si traducano in termini elettorali occorre un'alternativa credibile e creduta. Che ancora non c'è.

(14 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/14/news/sondaggio_demos-4818781/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Federalismo senza autonomia
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2010, 12:07:26 pm
LE MAPPE

Il Federalismo senza autonomia

Alla vigilia del raduno di Pontida, è arrivato anche il "Ministero al Federalismo".

Tanto per chiarire che la via è segnata e senza ritorno.

Verso una Repubblica federalista, dove la Padania conquisterà nuovi poteri

DI ILVO DIAMANTI


NUOVA e ulteriore autonomia. Come la Catalogna oppure la Baviera. Mentre si celebra la marcia inarrestabile verso il federalismo, però, sindaci e governatori del Nord, del Centro e del Sud, di destra e di sinistra, e anche della Lega: sono in rivolta. Tutti. Uniti contro la manovra economica del governo, responsabile di sottrarre risorse e autonomia ai Comuni e alle Regioni. Da ciò il paradosso di questa fase. Nella quale il federalismo procede insieme al centralismo statale. Entrambi ad alta velocità: rischiano di finire uno contro l'altro.

Certo, l'Italia è un "Paese provvisorio", per citare Edmondo Berselli. In perenne transizione. Impegnato a riformarsi. E, nello stesso tempo, a frenare gli effetti delle riforme. Oppure ad adattarle, su base familista e localista. D'altronde, i partiti di massa della Prima Repubblica avevano orizzonti nazionali e internazionali e, insieme, un'organizzazione plasmata sulle differenze locali. Il Pci e la Dc. Capaci di promettere la società senza classi e il socialismo, di evocare la dottrina sociale cristiana e di fare appello ai "liberi e forti". Ma, soprattutto, di mediare le rivendicazioni locali e di rappresentare il territorio senza farvi esplicito riferimento. Nella Seconda Repubblica tutto è cambiato. Il territorio è divenuto una bandiera, in quest'epoca senza ideologie, con poca fiducia e poca fede. Oggi tutti evocano il territorio, come un mantra. Non solo la Lega Nord per l'indipendenza della Padania. C'è anche il Partito del Sud, al cui interno
militano numerosi esponenti, soprattutto di centrodestra. In Sicilia. Ma l'appello al territorio echeggia anche a Sinistra.

Come dimostra il richiamo, frequente, di Nichi Vendola all'orgoglio pugliese e "meridiano". Ma sta montando anche l'orgoglio dell'"Italia di mezzo", per iniziativa di molti amministratori (perlopiù di sinistra) che, a Perugia, un mese fa, hanno promosso gli Stati Generali dell'Italia Centrale. Insomma, è come se le divisioni politiche tradizionali si fossero tradotte e trasferite sul piano territoriale. Non più destra, centro e sinistra. Ma Nord, Centro e Sud.
L'importanza – simbolica e politica – delle realtà locali è apparsa evidente in occasione della manovra finanziaria del governo, che aveva previsto l'abolizione delle province più piccole (meno di 200mila abitanti). Una scelta coraggiosa, in un Paese dove le province, negli ultimi trent'anni, da quando cioè si parla di abolirle tutte, sono passate da 95 a 110. Ma anche un freno contro una frammentazione istituzionale che produce dissipazione di risorse e crescita incontrollata della spesa pubblica. Naturalmente non se ne è fatto nulla. La decisione è stata contrastata e ritirata, soprattutto per iniziativa della Lega. In nome dell'autonomia territoriale.

Le tensioni fra lo Stato e il territorio, tuttavia, non sono cessate e sono destinate ad acuirsi. Soprattutto fra i partiti di governo, ma anche al loro interno. Anzitutto perché si sono accentuate le ragioni del contrasto geopolitico e geoeconomico fra la Lega Nord e il Pdl, il cui bacino elettorale si è progressivamente spostato verso Sud. Il federalismo fiscale rischia di allargare le tensioni tra le aree del Paese. Come emerge, d'altronde, dagli stessi atteggiamenti sociali. Nel Mezzogiorno (sondaggio Demos, giugno 2010) il 31% dei cittadini pensa che il federalismo fiscale peggiorerà le cose, per la sua regione, il 18% che le cambierà in meglio. Al contrario, nel Nord "padano", il 43% dei cittadini, dal federalismo fiscale, si attende effetti positivi, solo l'8% negativi. Nel Nordest l'atteggiamento verso il federalismo è ancor più positivo.

In provincia di Vicenza (sondaggio di Demos per l'Associazione Industriali) è valutato con favore dal 63% della popolazione. Che, anzi, lo considera una sorta di rimedio universale, che produrrà: meno tasse, più poteri, servizi più ampi e qualificati. Il che alimenta attese pericolose, impossibili da soddisfare. Perché i governatori e i sindaci - tutti, senza differenze politiche e territoriali - dovranno affrontare uno squilibrio evidente e lacerante. Hanno assunto grande visibilità, poteri e competenze crescenti, mentre le risorse disponibili sono calate e continuano a calare in misura sensibile. Tanto più oggi, che lo Stato federale deve fare i conti anzitutto con lo Stato di necessità. Il "rigore colbertista" di Tremonti, dettato dalla crisi economica e finanziaria globale, cozza contro la promessa federalista.

Anche da ciò dipendono i continui conflitti simbolici promossi dalla Lega: sul tricolore, sull'unità d'Italia, sull'inno, sulla nazionale di calcio. Servono a spostare l'attenzione sull'identità, visto che sul piano degli interessi è difficile attendersi risultati concreti, nel prossimo futuro. Peraltro, il successo della Lega dipende, in misura significativa, anche dalla capacità di presentarsi come opposizione e governo, al tempo stesso. Il sindacalista del Nord: a Roma. Il movimento di liberazione da Roma: nel Nord. Ma questo gioco oggi diventa complicato, perché la Lega è al governo praticamente "ovunque". A Roma e nel Nord. Dove guida 2 Regioni, 14 province e oltre 350 comuni. Mentre al governo gestisce alcuni ministeri-chiave.

E nei giorni scorsi ne ha imposto uno nuovo, di bandiera, dedicato all'"Attuazione del Federalismo". (Tanto per contraddire i dubbi, al proposito). Attribuito a Brancher. Un "forzaleghista". Ma il contrasto fra la promessa federalista e la logica centralista, esercitata da Tremonti, difficilmente potrà ridimensionarsi, nel prossimo futuro. Vista l'emergenza economica e finanziaria. Il conflitto fra il Nord e Roma, fra la Padania e l'Italia rischia, dunque, di riprodursi e di porre la Lega in aperto conflitto con se stessa. Da ciò uno scenario che Mao avrebbe definito "eccellente". Visto che "grande è la confusione sotto il cielo". In questo "Paese provvisorio", capace di riforme istituzionali ardite, impensabili altrove. Il Federalismo Centralista. Il Localismo Statalista. L'Autonomismo Romano. Manca solo il Comunismo Anticomunista. Ma abbiamo già l'Anticomunismo senza il Comunismo. Basta avere un po' di pazienza.


(20 giugno 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it


Titolo: ILVO DIAMANTI - La patria immaginaria
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2010, 09:41:36 am
IL COMMENTO

La patria immaginaria

di ILVO DIAMANTI

"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all'indomani della manifestazione di Pontida.
Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione.
Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".

Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all'appartenenza e all'identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: "Patriottismo repubblicano e Unità d'Italia". Appunto: l'Unità d'Italia. Divenuta un tema centrale dell'agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l'Italia: l'inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell'organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita.

Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.

Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l'etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c'è.

Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l'importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch'essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d'altronde, l'invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.

Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell'esperienza di governo con Berlusconi.
Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l'indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita.
No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall'Italia. E quindi alternativa.

In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita.

Per questo nel 1999 Bossi rientra nell'alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all'anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l'identità leghista. L'antagonismo contro Roma. La lotta contro l'Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.

Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana".

Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l'Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.

(22 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/22/news/diamanti_padania-5043453/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ma la Nazionale non è la Nazione
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 11:23:09 am
Ma la Nazionale non è la Nazione

di ILVO DIAMANTI


Nei giorni scorsi, abbiamo sentito e letto che "la Nazionale è lo specchio del Paese". E, in fondo, della Nazione. Lo spettacolo della sciagurata esperienza degli azzurri ai mondiali in Sudafrica: una metafora della società e, soprattutto, della classe dirigente italiana. Vecchia, senza capacità di innovare, di inventare qualcosa. Ripiegata su se stessa. Povera di identità.

E per questo incapace di affrontare una competizione aperta e dura con altre nazioni. Più giovani e affamate di successi. Vero, per la Nazionale. Ma il discorso si ferma lì. L'identità nazionale non ha a che fare con quella della Nazionale. La Nazionale di calcio non è lo specchio del Paese o della Nazione. Anche se si è soliti dire che gli italiani esibiscono l'orgoglio nazionale solo quando gioca la Nazionale. Conviene, semmai, invertire il ragionamento. Gli italiani, la società italiana: "usano" il calcio come specchio. Quando e se conviene loro. Alla ricerca di buoni motivi per stare insieme e per sentirsi soddisfatti. Per riconoscersi. A maggior ragione quando altri motivi latitano. Quando l'economia va male e il lavoro manca. Quando si diffida delle istituzioni e degli altri. Allora si è più pronti a sfilare dietro a una bandiera che prometta e permetta di vincere. E, al contempo, di sentirsi comunità, in una società sempre più individualizzata.

I mondiali di calcio, peraltro, costituiscono un'occasione unica. Perché si tratta di competizioni "inter - nazionali", dove le squadre "nazionali" si misurano "contro" le altre. Il che rende visibili gli elementi di eguaglianza e differenza impliciti nell'appartenenza territoriale. Sottolineati dalla bandiera, dall'inno, dalla maglia, dal tifo. Noi e gli altri. Noi contro gli altri. Amici e nemici (non avversari).

La svolta è avvenuta ai mondiali del 1970, nell'epica partita Italia - Germania, finita 4 a 3. Da allora è iniziata la ricerca di "momenti magici". Come ai mondiali del 1982 e del 2006. Occasioni per riunirsi con amici e altre persone, a vedere la partita. A casa, nei bar, di fronte a megaschermi. Per poi sciamare tutti quanti in strada e in piazza, in caso di vittoria. Offrendo (e assistendo a) spettacoli di entusiasmo collettivo. In cui ci si sente, all'improvviso, per una volta, italiani. Perché è bello vincere. Godere "insieme". Tanto più se negli altri momenti ci sentiamo soli. Se il successo arriva inatteso. Anzitutto da noi.

Naturalmente, il calcio è lo spettacolo che, più di altri, alimenta  -  e si alimenta  -  di identità e di appartenenza. Locale, urbana, regionale e non solo. In Italia il 50% delle persone tifa per una squadra. E, al tempo stesso, "contro" un'altra squadra (Sondaggio Demo - Limes, luglio 2008). Tra i più giovani la bandiera della squadra di calcio conta più di ogni altra. Politica, ma anche religiosa. È una "fede" più che una passione. Per questo la politica se ne è impadronita. A costo di ripetersi, come dimenticare l'esempio di Silvio Berlusconi, inventore della Nuova Politica e della Nuova Repubblica?

Nel 1994, proprietario e presidente del Milan, oltre che di Fininvest. Fonda un partito che si chiama "Forza Italia", organizzato attraverso i club. Definisce i suoi elettori: "azzurri". Un progetto post - ideologico, che definisce il Paese come una massa di tifosi, coinvolti in un campionato permanente, che si svolge sotto gli occhi di tutti, sui media. In chiaro o in pay - per - view.

Logico che il calcio, in una politica mediatizzata, sia divenuto il terreno dove si elaborano, creano, promuovono, scontrano le identità. Anche se la Nazionale non è la Nazione, viene usata per promuoverne oppure delegittimarne il significato. Secondo la convenienza. Come ha fatto, apertamente, la Lega, in questa occasione. Identificando  -  lei sì  -  la Nazionale con la Nazione. Per metterne in dubbio il fondamento. Così, Radio Padania ha "tifato contro". In seguito, Bossi si è detto certo che l'Italia (Nazione e nazionale) avrebbe "comprato" gli slovacchi, per vincere la partita e qualificarsi. (Nel calcio, si sa, queste cose succedono). Smentito dal risultato, ha usato l'eliminazione in senso "nazionalista". Recriminando sull'eccessiva presenza di stranieri. Nel campionato, ma, ovviamente, anche nella società italiana. (Varrebbe la pena di prendere sul serio questa critica, per allargare la rosa della nostra Nazionale, "etnicamente pura". Come avviene quasi ovunque.)

Negli ultimi anni, peraltro, anche Berlusconi sembra aver preso le distanze dal calcio. Ha smesso di investire nel Milan. Perché il Premier non può spendere cifre immense per i giocatori del suo club e chiedere, al tempo stesso, sacrifici ai cittadini. Poi, ha sciolto "Forza Italia" e gli "azzurri" (nel Popolo della Libertà). Forse, (anche) per ridurre i motivi di tensione con il fedele alleato "padano". Forse perché il calcio è diventato, nel frattempo, un'arena di guerra per bande. Localiste ed estremiste. Una piazza mediatica ingovernabile. Dove è impossibile coltivare un sogno "comune". Celebrare una storia "italiana".

La Nazionale, dunque, non è lo specchio della Nazione e neppure del Paese. Lo può diventare solo quando ai cittadini e alla classe dirigente "conviene" specchiarsi in essa. Cioè: se vince e (possibilmente) convince. Altrimenti, viene negata e rinnegata. Oppure ignorata. Come ieri, al ritorno degli azzurri, in aeroporto. Pochi tifosi, qualche insulto e molta indifferenza.

Noi, post-italiani (copyright di Berselli), per dirci e sentirci di nuovo italiani  -  e orgogliosi di essere tali  -  attenderemo un'occasione migliore.

(27 giugno 2010)
http://www.repubblica.it/speciali/mondiali/sudafrica2010/squadre/italia/2010/06/27/news/diamanti_27_giugno-5186999/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Un governo "geograficamente scorretto"
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 10:34:09 pm
Un governo "geograficamente scorretto"

Ilvo Diamanti

Può apparire una sindrome maniacale, la mia insistenza sulla geografia. Eppure non mi capacito della disattenzione sull'argomento. Tanto più da parte di questa maggioranza e di "questo" governo. Che, come rammenta Gino De Vecchis, Presidente dell'Associazione Italiana Insegnanti Geografia, ha sensibilmente ridimensionato la materia nei diversi indirizzi delle scuole superiori. Infatti, la geografia è stata eliminata del tutto dagli Istituti Professionali, mentre negli Istituti Tecnici è rimasta solo nell'Indirizzo economico (con decurtazioni di orario). Nel biennio dei Licei, infine, è stata accorpata con la Storia antica (tre ore insieme).?

Insomma, l'idea implicita  -  anzi, esplicita -  nelle scelte del legislatore è che la geografia non serva. Che non sia, comunque, un bene primario ma, semmai, voluttuario. Come il dessert a fine pranzo. A cui si può rinunciare, con beneficio per il peso. Non torno a ripetere quel che ho già scritto altre volte, sulla geografia, come scienza dei confini: del territorio, della società, della persona. Dell'identità.  Per non apparire noioso. E un po' maniaco (anche se, indubbiamente, un po' lo sono). Però  fatico a capire un provvedimento del genere da parte di "questo" governo. Di "questa" maggioranza. La più "geograficamente" definita di ogni epoca. A partire, ovviamente, dalla Lega Nord. Poi il PdL. Che somma Forza Italia. E Alleanza Nazionale.  Più che una coalizione,
un catalogo di definizioni e di appartenenze riferite al territorio. La Lega, in particolare. Più del Nord, da tempo, evoca la Padania. Come potrà spiegare di che si tratta, senza chiarirne i confini? Dove comincia e dove finisce? E quando invoca il modello "catalano! oppure "bavarese": come riuscirà a chiarire, a un popolo di geo-analfabeti, che di Comunità autonome della Spagna e di Länder tedeschi si tratta - e non (appunto) di dessert?

Poi: il "federalismo". Per la Lega, più che un progetto, il Progetto. Anzi, un'ideologia. Il Federalismo come la Riforma delle riforme. Che, ai contesti regionali, garantisce poteri, competenze, identità. Come crederci davvero, quando il governo riduce loro le risorse? Se inibisce la geografia? (Che sta al federalismo come la televisione sta a Berlusconi).

Insomma, se perfino questo governo - fondato sul territorio (e sui media) - dimentica la geografia, allora: non c'è più speranza per noi. Individui etero-diretti da navigatori satellitari e GPS. Viaggiatori sperduti in un mondo di non-luoghi senza nome. Un movimento immobile. Da un aeroporto all'altro. Da un villaggio turistico all'altro. Spaesati in un paesaggio sempre più devastato e devastante. Impegnati a divincolarsi da una rotatoria all'altra.
Non c'è più speranza. Non c'è più senso. Anche i "marchi" delle mie rubriche, ispirati alla geografia e al territorio: Mappe, Bussole, Atlanti. Rischiano di diventare incomprensibili - oltre che inattuali. Al più: reperti di antiquariato. Meglio ricorrere ad altre metafore, meno consumate. Più trendy. Chessò: Tagli, Ritagli, Rimozioni. Perché oggi l'importante non è trovare e ritrovarsi, ma risparmiare. Senza troppi interrogativi. Adeguiamoci.

(01 luglio 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/07/01/news/un_governo_geograficamente_scorretto-5303290/?ref=HREC1-9


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se il Cavaliere non sa più comunicare
Inserito da: Admin - Luglio 04, 2010, 06:19:47 pm
MAPPE

Se il Cavaliere non sa più comunicare

di ILVO DIAMANTI

SONO passati tre mesi dal voto regionale ed è come se i partiti procedessero senza bussola. La maggioranza, in particolare (l'opposizione staziona, già da tempo, nella penombra). Non è in grado di trasmettere "un" senso all'azione di governo. Ma una maggioranza di governo ha bisogno di indicare valori e obiettivi comuni. Deve comunicare le priorità. Ha bisogno di una guida riconosciuta e condivisa. Capace di decidere. Ma quando il premier annuncia in tivù: "Ghe pensi mi", è segno che qualcosa non funziona. Infatti, se davvero "ci pensasse lui" a dettare la linea alla maggioranza e al governo, ebbene: non avrebbe bisogno di annunciarlo. In tivù. Perché chi "comanda" davvero non ha bisogno di dirlo. Comanda e basta. Anche quando si allontana dal Paese per qualche giorno. Dover minacciare i propri alleati (?) in tivù, per avvertirli che, da domani, "Ghe pensi mi", è segno di frustrazione. È la reazione del leader che "personalizza" l'identità del Centrodestra contro la "sua" maggioranza. Dove non si scorge una sola identità. Semmai, molte e diverse. Quindi, nessuna.

Non era mai avvenuto. In passato, i governi avevano sempre proposto un'idea, un marchio da esibire. Magari per ragioni di marketing, vista la crisi dei grandi progetti e delle grandi ideologie. Lo aveva fatto perfino il centrosinistra, durante le sue complicate esperienze di governo. Negli anni Novanta: il contrasto alla sfida secessionista e l'ingresso nell'Europa dell'euro. Nel 2006, all'avvio del secondo governo Prodi: la liberalizzazione delle professioni.

Il centrodestra, però, aveva sempre dettato un'agenda di priorità molto ben definita. Sia al governo che all'opposizione. Forza Italia, Lega, in parte An. Ciascuno con il proprio slogan. Ma insieme. Uniti nel segno e nell'immagine di Silvio Berlusconi.

A metà degli anni Novanta: il "nuovo", il cambiamento. La questione settentrionale. La riduzione dello Stato assistenziale e fiscale. Negli anni Duemila: la lotta contro il declino, le grandi opere. Ma soprattutto: la sicurezza "personale". Contro l'aggressione della criminalità comune, contro l'invasione degli immigrati. Negli ultimi anni: il federalismo. Infine, la logica del "fare". (Tranquilli. "Ghe pensi mi".) Ma oggi, due anni dopo il largo successo del 2008, con una larghissima maggioranza parlamentare, è difficile "capire" questo governo. Il quale fa poco, ma dice anche troppo. E spesso si contraddice. Questa maggioranza: parla troppi linguaggi, usa troppe parole. Ha troppi volti. Più che ambigua (nell'esercizio del potere l'ambiguità può essere una virtù), appare confusa. L'immigrazione e la criminalità comune. Svanite. Non si sa come né perché. In compenso, è cresciuta la disoccupazione (nelle statistiche e nella percezione sociale). Di cui, ovviamente, il governo non parla. Perché inquietare una società già inquieta? Alimentare lo spirito disfattista? Però, all'improvviso, si annunciano  -  e si assumono  -  misure economiche severe. Si agita lo spettro della Grecia. E allora  -  ancora  -  non si capisce: la crisi c'è o non c'è?

Gli altri obiettivi-chiave procedono a fatica. Tra annunci roboanti e successive frenate. Come per l'università. Di cui, da anni, si annuncia la riforma. Anzi: la Riforma. Che, però, slitta. Mentre le risorse calano. Poi, il fisco. Una bandiera del centrodestra liberal-federalista. Si promette di ridurne la pressione e di semplificarne il procedimento. Ma domani, oggi ancora non si può. Il federalismo, invece, resta una priorità. Una bandiera. Sventolata dalla Lega. Che minaccia, se non venisse realizzato subito, la secessione. Di fatto, avanza un federalismo senza autonomia. Dove i governatori non governano neppure se stessi e si autodenunciano "curatori fallimentari". Dove i sindaci vedono crescere le proprie competenze e diminuire le risorse.

La manovra finanziaria. Nessuno sa come sarà davvero, alla fine. Ogni giorno un nuovo emendamento, smentito all'indomani. Ultimo: il taglio alle tredicesime dei poliziotti. Perfino Bossi: non sembra più lui. Prima provoca. Sostiene che la Nazionale comprerà la partita contro la Slovacchia. Poi ritratta. Come un Berlusconi qualsiasi.
La maggioranza. Questa larga maggioranza. Non ha un'idea da comunicare. E neppure qualcuno che la comunichi. Per conto di tutti. Ci penserà Berlusconi, ma da domani. Per ora, definirla divisa è un eufemismo. Fini e i suoi: sono già all'opposizione, anche se stanno ancora nella maggioranza. La Lega: non può lasciare a Fini questo ruolo. Ma non può permettersi neppure di rappresentare un governo centralista e anti-federalista. Contestato dai governatori e dai sindaci. Tremonti: è il vero premier. Ma non si può dire.

L'unica vera  -  e visibile  -  missione del governo sembra essere la difesa del premier. Dei suoi interessi, dei suoi collaboratori e amici. Contro ogni minaccia legale e politica. Contro i giudici, i giornalisti. Contro le intercettazioni. Con fatica crescente, però. Perché le leggi "personali" procedono tra modifiche, accelerazioni e rallentamenti. Deviazioni. E tante proteste, tante manifestazioni contrarie.

Troppo poco per costruire un'identità. Emozionare gli elettori del Nord e del Sud. Convincere gli imprenditori e i lavoratori autonomi. Rassicurare i pensionati e i lavoratori dipendenti. Anche perché latitano i nemici da combattere. I comunisti: chi li ha visti? Il "complotto di giudici e magistrati": dopo tanti anni, suona come un disco rotto.

Questo premier  -  e questo governo  -  in campagna elettorale permanente, senza elezioni da affrontare, a breve periodo, appare sperduto. E, Berlusconi, probabilmente "ci pensa (lui)". Al voto anticipato. Per ritrovare una missione e un senso. Tuttavia, per chiudere una legislatura, per andare a nuove elezioni, il premier dovrebbe essere in grado di imporle (e di scaricarne le responsabilità all'esterno). Dovrebbe, comunque, spiegarne il significato.

Non sarà facile, in quest'epoca di politica insignificante.

(04 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/04/news/se_il_cavaliere_non_sa_pi_comunicare-5372184/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Perché non esiste l'opinione pubblica unica
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2010, 08:41:26 pm
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Perché non esiste l'opinione pubblica unica

di ILVO DIAMANTI

Difficile trovare un'altra epoca nella quale il richiamo al popolo sia risuonato così ossessivo e insistente. Quasi come un rap. Nelle varianti più diverse. La più frequente evoca la "volontà degli elettori". Contro cui congiurerebbe la Sinistra, insieme ai suoi complici e alleati. I magistrati, in testa. E, naturalmente, i giornalisti. Le testate della stampa e della tivù che continuano a fare - seriamente - il loro mestiere. Tradotto, nel linguaggio del premier: gettano fango per "ribaltare il voto". Lo stesso argomento usato dalla Lega contro un'altra Magistratura, il Tar del Piemonte, che ha imposto il riconteggio di 15 mila schede delle ultime elezioni regionali. Che rischiano, così, di essere ripetute. Qui non sono le specifiche vicende, a interessarci. La P3 o la verifica del risultato in Piemonte. Ma, appunto, l'argomento usato. Il tradimento del popolo e degli elettori. Seppure non sia facile capire come potrebbero, la sinistra, i giudici e i giornalisti, impedire al governo di governare. Questione di numeri, visto che nessun governo del dopoguerra ha potuto disporre di una maggioranza tanto ampia. Sulla carta. Perché, alla prova dei fatti, è disomogenea e divisa. Gli alleati poco alleati. Il PdL frazionato e rissoso al suo interno. Ma a questo il premier penserà in agosto. Quando si dedicherà a "rimettere a posto il partito".

Il problema è un altro. Il "fango", che sporca la credibilità e l'immagine del premier e del governo. Narra una storia diversa da quella ufficiale. Logora il clima d'opinione, come sottolineano i sondaggi. Oggi poco favorevoli al premier, al governo e al suo partito. Il cui gradimento ha toccato i livelli minimi dal 2008. A causa delle pessime condizioni dell'economia e di una finanziaria difficile. Terreno di scontro, anzitutto dentro il governo e la maggioranza. A causa della percezione, diffusa, che questo governo non governi. E che, soprattutto, sia fisiologicamente viziato dal malaffare. Un governo a più livelli. Quello ufficiale non decide, perché le decisioni si prendono altrove, in cerchie segrete, in zone opache. Così, ha osservato Ezio Mauro, il governo appare una sorta di "vascello fantasma", da cui vengono gettati i corpi dei malati incurabili. I ministri toccati dal male della corruzione. Indifendibili anzitutto perché potrebbero contaminare l'intera nave. Trasmetterle il male oscuro e irrimediabile, per la politica. La "delegittimazione". In una sola parola: potrebbero modificare l'Opinione Pubblica.

Che oggi appare la vera sovrana. Sostituto dell'elettorato. Equivalente del Popolo. In fondo, alla stessa Lega l'inchiesta piemontese dispiace non solo perché ne mette in discussione la vittoria alle regionali. Ma perché rammenta che si è trattato di un successo incerto, avvenuto per pochi voti, pochi decimali. E rende arduo sostenere l'esistenza di "un" Popolo padano, se perfino in Piemonte ha vinto grazie ai voti di due liste ipotetiche.

Il fatto è che l'Opinione Pubblica Sovrana, per essere tale, non può essere "plurale". È un plebiscito che si celebra ogni giorno, a colpi di sondaggi amplificati dai media, celebrati da giornalisti, certificati da pollster e specialisti.

Non uno strumento per capire e orientarsi. Ma una rappresentazione della volontà popolare. Dove la maggioranza (anche molto relativa) di un campione, costituito da 1000 oppure 800 casi, rappresenta "gli italiani". Tutti. Cioè: il popolo. Così, la diffusa sensazione di un governo che non governa, dove molti, a partire dal premier, si fanno i fatti propri piuttosto che quelli dei cittadini, non compromette solo il clima d'opinione.

Ma, soprattutto: ri-disegna l'Opinione Pubblica. Per definizione: unica. Sovrana. Così, per questa sola ragione, potrebbe "cambiare il risultato delle urne". Senza neppure bisogno di votare. Di fatto. Perché nel nostro tempo si vota una tantum, mentre i sondaggi - che fabbricano l'Opinione Pubblica Sovrana - si realizzano ogni giorno.

Per questo, nonostante una maggioranza parlamentare schiacciante e un esteso controllo sull'economia, sulle istituzioni centrali e locali, oltre che sull'informazione, il governo guidato da Berlusconi appare così debole e vulnerabile. Così insofferente verso gli "altri poteri" che fondano la democrazia. Per quanto costretti in spazi ridotti e limitati. Lui, il depositario principale e, forse, unico dell'Opinione Pubblica Sovrana.

Il che ci spinge a (ri)proporre alcuni avvertimenti, magari scontati, ma che non è inutile ripetere.
L'Opinione Pubblica Unica non esiste. Sicuramente non la misurano i sondaggi (strumenti imperfetti che rilevano "opinioni"). I quali, però, possono essere usati per "costruirla", soprattutto con l'appoggio dei media.

Per questo, fra i poteri da equilibrare, oggi, Montesquieu inserirebbe sicuramente il sistema dell'opinione pubblica - media, sondaggi, comunicazione. E dubitiamo che apprezzerebbe il grado di concentrazione esercitato in Italia dal Cavaliere. Premier, leader del partito di maggioranza, proprietario del maggiore gruppo mediatico privato e attore influente di quello pubblico.

Tuttavia, il campo dell'opinione pubblica è ampio e diversificato. Gli attori che vi partecipano - e lo possono influenzare - sono molti. Non solo politici e partiti. Ma giornalisti, movimenti, associazioni, comitati, blogger. Intellettuali e specialisti. I magistrati, ovviamente (Pizzorno li definì "garanti della pubblica virtù"). Attraverso vecchi e nuovi media. Giornali, televisioni, internet. Che nessuno è in grado di controllare fino in fondo. È questo il principale anticorpo di cui disponga la democrazia (dell'opinione).

Perché l'opinione pubblica in cui noi crediamo è lo spazio che rende "pubblico" il confronto sulle decisioni di "interesse pubblico". Uno spazio di partecipazione e di controllo aperto a tutti. Dove nulla è dato per scontato. Dove è possibile discutere tutto. E tutti.
A partire da noi stessi.

(18 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/18/news/perch_non_esiste_lopinione_pubblica_unica-5654700/?ref=HREC1-4


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se il Pdl diventa il Pil
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2010, 11:16:54 pm
Se il Pdl diventa il Pil

Ilvo Diamanti

La cronaca politica  scorre, sempre più tumultuosa, tutta dentro alla maggioranza. D'altronde, quel che avviene al di fuori di essa, oggi, conta poco. Basta leggere, a caso le notizie degli ultimi giorni. Il sottosegretario Cosentino si è dimesso. Come, prima di lui, due ministri: Scajola e Brancher. Quest'ultimo, prima ancora di entrare in carica. Il coordinatore del Pdl, Verdini, invece, è ancora al suo posto. Non si sa per quanto. Lui  e Cosentino  -  ma ora anche il sottosegretario Caliendo - sono indagati. Accusati di avere  agito in un comitato occulto  -  definito, non a caso, P3  -  per condizionare le decisioni del CSM e, in generale, la vita politica. Senza porsi troppi scrupoli. A costo di screditare gli avversari politici. E non solo gli avversari. Visto che tra i bersagli più "bersagliati" incontriamo il governatore della Campania. Caldoro. Designato dal PdL. Eletto nelle liste del PdL.  Dopo l'esclusione di Cosentino.

Appunto: Cosentino. Costretto a rinunciare a favore di  Caldoro. Appunto. Contro cui la P3 ha tramato, per coprirlo di fango. Del PdL fanno parte anche Bocchino e Granata. I quali negli ultimi giorni hanno sostenuto - e ripetuto - che nel partito esiste una "questione morale". Da affrontare senza indulgenza. Suscitando la reazione di autorevoli leader del PdL. Ad esempio, La Russa. Loro compagno di partito. Oggi, nel PdL. Ma anche ieri, quando militavano, tutti insieme, in AN. La Russa è intervenuto, come altri esponenti
del PdL. Per esempio, Lupi. Senza indulgenza. Appunto. Hanno invitato i probiviri del partito a occuparsi di loro. Non di Verdini e Cosentino. Ma di Bocchino e Granata. Appunto. E  insieme a molti altri  -   Cicchitto, Bondi, Lupi, Gasparri: tutti del PdL (appunto)  -  hanno esortato Fini  a lasciare la carica di Presidente della Camera. Magari, se possibile, anche il PdL.  Dove è ritenuto, ormai, un corpo estraneo.  Lo scrive il Giornale da mesi  e mesi. Fini è un traditore. Eletto con i voti del PdL al Parlamento, ma anche alla Presidenza della Camera, ora agisce  -  e parla  -  come uno di sinistra. Mosso da rancore personale. Contro Berlusconi. E contro i suoi vecchi compagni (si fa per dire...) di AN. I suoi colonnelli, che 3 anni fa, quando il Cavaliere, dal predellino, lanciò il PdL, lo lasciarono solo. E passarono nell'esercito di Berlusconi. Così Fini fece buon viso a cattivo gioco. E divenne, a sua volta,  socio fondatore del PdL. Per trasformarsi, presto, in un critico implacabile. Secondo Berlusconi: un capo corrente. E nel PdL le correnti non sono previste. A Berlusconi non piacciono. Anzi non le sopporta. D'altronde, non gli piace  -  e non sopporta  -  neppure Fini. Lo ha ripetuto molte volte, negli ultimi giorni. Senza troppa cautela. Sempre negli ultimi giorni, Giulio Tremonti, superministro dell'Economia, ha proseguito la sua faticosa lotta con i ministri del "suo" governo. E con i governatori e i sindaci, compresi quelli del "suo" partito. In nome del "rigore", del controllo dei conti e del bilancio. Anche se, dicono molti compagni di partito, Tremonti userebbe il rigore come un'arma per ricattare il ceto politico locale e centrale. O meglio: per rafforzare solo se stesso. Anche di fronte a Berlusconi. In fondo, dicono che il vero premier sia lui, Tremonti.  E, per questo, è guardato con crescente insofferenza anche da Berlusconi.

In questa storia di conflitti politici quotidiani, tutta interna alla maggioranza, ma soprattutto al PdL (appunto), il partner più affidabile di Berlusconi è la Lega. Che non è afflitta da correnti e dissensi personali. Comanda solo uno, con la collaborazione dei suoi fedeli. Dopo di lui comanderanno i suoi figli. Eppure neanche la Lega appare affidabile come un tempo. Per esempio, di fronte agli scandali che investivano il ceto politico e i ministri del PdL non ha garantito a Berlusconi un sostegno convinto. Nella vicenda della legge sulle intercettazioni non ha eretto le barricate. Preoccupata di non farsi coinvolgere in faccende untuose, che ne potrebbero indebolire il ruolo di opposizione nel governo. D'altra parte, perché sputtanarsi mentre i sondaggi la danno in ulteriore crescita? Però, anche la Lega ha i suoi problemi. Il progetto federalista è contraddetto dall'opposizione dei sindaci e dei governatori. Che accusano il governo di svuotare, insieme alle risorse, anche l'autonomia degli enti locali. Così ricorre, anch'essa, alla strategia dell'annuncio. Bossi promette che IVA e IRPEF passeranno, presto, sotto il controllo di Comuni e Regioni. Ma poi Calderoli smentisce. Il suo leader non ha mai detto nulla di tutto ciò. Hanno capito male i giornalisti.  Sempre loro. I Nemici del governo e della maggioranza.

Bossi e la Lega, poi, si inquietano ogni volta che Berlusconi dialoga con Casini e l'UdC. Perdono le staffe. E minacciano: noi o loro. Il Nord o il Centro.

Temo che i lettori si saranno stancati di fronte a questa rassegna di notizie degli ultimi giorni. Eppure consumate. Perché le notizie politiche girano su se stesse. Sempre nuove. E sempre vecchie.  Cambiano e si ripetono. Sempre uguali. I fatti, gli eventi, insieme ai nomi. Cosentino, Caldoro, Bondi, Cicchitto, Granata, Verdini, Brancher, Calderoli, Maroni, Scajola, Formigoni, Bocchino, Lupi, Gasparri, La Russa. E, ancora, Fini, Schifani, Bossi, Tremonti. Berlusconi. Sempre gli stessi. Protagonisti, comparse e comprimari  -  a seconda delle occasioni  -  di conflitti incrociati. Perenni. Che si riproducono lungo linee di demarcazione non troppo rigide, non sempre chiare. Perché, in politica, da tempo tutto avviene dentro i confini della maggioranza. L'altro versante resta perlopiù nell'ombra. Al massimo partecipa ai conflitti del centrodestra. Tifa per Fini oppure asseconda le polemiche interne al PdL. Dove tutto evoca una vita spericolata, per citare un noto osservatore della vita politica e sociale, Vasco Rossi. "Ognuno a rincorrere i suoi guai. Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso e ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi."

In questo Paese, dove la virtù più praticata è l'arte di arrangiarsi, dove ognuno antepone a tutto il resto gli interessi personali e della propria famiglia, del proprio borgo, della propria fazione e frazione. Nessun dubbio. Questa maggioranza costituisce l'unica, vera rappresentanza possibile. Più che il PdL, il PIL. Più Che il Popolo della Libertà: un "Popolo in Libertà".

(28 luglio 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/07/28/news/se_il_pdl_diventa_il_pil-5890563/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - I due partiti di una persona sola
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2010, 08:28:38 pm
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I due partiti di una persona sola

di ILVO DIAMANTI

Il premier non può accettare il dissenso, le correnti, le divisioni. Dentro il "suo" partito. Il senso della rottura con Fini sta tutto in questo problema. L'impossibilità, per Berlusconi, di affrontare un confronto fra posizioni diverse (dalle sue) dentro il (suo) partito. E  -  con l'eccezione della Lega  -  anche dentro alla "sua" maggioranza. Il premier, il leader del primo partito italiano lo ha ripetuto spesso, negli ultimi mesi, con crescente frequenza e fastidio. Chi non si adegua alle sue scelte se ne deve andare. Gianfranco Fini, insieme ai suoi fedeli, peraltro, non ha fatto molto per evitare il conflitto.

Semmai, il contrario. Difficile sorprendersi, allora, della frattura avvenuta negli ultimi giorni. Largamente annunciata e perfino cercata. Comunque, inevitabile, vista la genesi del partito, Forza Italia (rinominata Pdl, dopo l'annessione di An). Un'invenzione di Silvio Berlusconi. Un "partito personale" (per evocare una nota definizione di Mauro Calise), creato come (e da) un'azienda. "All'italiana". Cioè: a base familiare e personale. Un'azienda e allo stesso tempo un prodotto, da vendere sul mercato elettorale. Berlusconi ne ha affidato la gestione ai suoi esperti, ai suoi consulenti legali e fiscali. Ai suoi specialisti di marketing e comunicazione. Tutti al suo servizio. Un partito "personale" con una base elettorale di massa, per quanto instabile. Un PMM  -  Partito Mediale di Massa. Che, al posto dell'organizzazione, della partecipazione e dell'ideologia, usa il management aziendale, i media e il marketing. Centralizzato come pochi altri.

Il paragone con il "centralismo democratico" del Pci, però, non regge. Perché il Pci aveva un'organizzazione forte, meccanismi di reclutamento e di selezione della classe dirigente rigidi, ma efficienti. Una leadership centralizzata, ma non "personale". Poi aveva una ideologia. Il dibattito politico, le correnti: esistevano. Solo che non erano espliciti e, comunque, alla fine si riallineavano.
(Con qualche importante eccezione, come nel caso del Manifesto, nel 1968.)

Dentro Forza Italia e il Pdl, invece, tutto ciò non è possibile. Perché l'origine e il (la) fine del partito coincidono con una persona. Lui. Contestarlo, peggio, prenderne le distanze, significa (va) semplicemente aggredire l'albero alle radici, la casa alle fondamenta. D'altronde, un'azienda "personale" non può sopravvivere quando se ne mette in discussione la guida "personale". L'azienda non è un organismo democratico. La sua arena è il mercato. Che non è democratico. Forza Italia, però, è "anche" un partito. Agisce nell'arena elettorale, dove, per vincere, occorre prendere più voti degli avversari. Se non da soli, insieme ad altri. Così ha dovuto allearsi. Dal 1994 in poi: con An, la Lega, i neo-democristiani. E altre formazioni minori. Lui, afflitto dalla "sindrome del padrone" (la definizione è di Edmondo Berselli), incapace di pensare in termini istituzionali, "pubblici" (per citare Carlo Fusaro): ha vissuto con crescente insofferenza la necessità di confrontarsi con "altri poteri", non elettivi ma "costitutivi" della democrazia. Il Presidente, i magistrati, la Corte Costituzionale. E con quelli eletti: gli avversari e, peggio, gli alleati politici. Così ha trascorso gli ultimi 16 anni a combattere. Contro le istituzioni di controllo, che pretendevano di ribaltare la "volontà del popolo". Contro gli alleati che osavano sfidarne la leadership, costretti ad andarsene oppure "licenziati". È successo a Follini, nel 2006. A Casini, nel 2007. E  -  nei giorni scorsi  -  a Fini. Casini e Fini: convinti di succedergli, un giorno. Senza considerare che, in Italia, gli imprenditori si riproducono per via familiare. E trascurando il fatto che il premier si ritiene eterno.

Per ridurre, almeno, la complessità interna al suo campo, Berlusconi, negli ultimi anni, ha lanciato un'Opa su An e l'Udc. Quest'ultima, che pretendeva di restare autonoma, è stata espulsa dall'orbita di Berlusconi. An è stata assorbita. Fini, per questo, non era neppure un socio di minoranza. Al massimo, un dirigente aziendale. L'unico soggetto ad aver mantenuto autonomia e identità, in questo gioco, è la Lega. Non a caso. Non solo perché il suo radicamento territoriale nel Nord rende molto rischioso sfidarla. (Berlusconi l'ha sperimentato a proprie spese nel 1996.) È che la Lega, per quanto sostanzialmente diversa da FI (pardon: il Pdl), è, anch'essa, un partito personale. Dove la leadership di Bossi è indiscutibile, non esistono correnti né dissensi personali, da oltre 15 anni. La Lega. Un partito dinastico, se non imprenditoriale. In caso di successione, Bossi ha già espresso la sua preferenza per il figlio Renzo. Berlusconi, dunque, riconosce l'autonomia della Lega perché non può fare altrimenti. E perché è un partito personale, come il "suo" Pdl. Per decidere gli basta andare a cena con Bossi, una volta alla settimana.

Se questo è il modello di partito dominante espresso dai partiti dominanti  -  ed esemplari  -  della nostra democrazia, allora diventa difficile eludere un quesito. Anzi, "il" quesito (posto, peraltro, ieri da Eugenio Scalfari). Quale democrazia? Dove il dissenso è insostenibile, la selezione della classe dirigente dettata dall'obbedienza assoluta. Quale democrazia? Dove i congressi (meglio, le convention) si celebrano solo per annettere altri partiti. Dove i canali di comunicazione sono "controllati" da un solo e unico leader  -  di impresa, partito e di impresa-partito. Dove le istituzioni di garanzia sono considerate nemiche. Quale democrazia? Ci rendiamo conto che la questione non riguarda solo il Pdl e la Lega, modelli di successo imitati dagli altri partiti (con minore successo). Ma questo non ci rassicura. Al contrario. Perché riteniamo sia difficile edificare la democrazia su attori politici  -  i partiti  -  che la escludano al proprio interno.

Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, ha parlato di "anomalia berlusconiana" ("oggi fattore, più che altro, di instabilità"). Ma noi abbiamo il dubbio che l'anomalia, nella concezione di Berlusconi, sia proprio la democrazia.

(02 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/02/news/mappe_2_agosto-6007118/


Titolo: ILVO DIAMANTI - La paura di votare non conviene al Pd
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2010, 10:05:26 am
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La paura di votare non conviene al Pd

Se i democratici si presentassero con questo gruppo dirigente e questa coalizione, perderebbero.

La loro insicurezza costituisce la principale fonte di sicurezza per l'attuale maggioranza di governo.

Visto che anch'essa ha molto da temere da nuove elezioni

di ILVO DIAMANTI


L'IPOTESI di elezioni anticipate sembra preoccupare soprattutto il Centrosinistra. In particolare, il Pd. Per ragioni di numeri, anzitutto. Se si presentasse con questo gruppo dirigente e con questa coalizione - l'asse con l'IdV di Di Pietro - perderebbe. Poi, perché dovrebbe affrontare i propri dubbi, irrisolti, circa le alleanze, gli obiettivi, i valori. L'insicurezza del Pd - e del Centrosinistra - costituisce la principale fonte di sicurezza per l'attuale maggioranza (si fa per dire...) di governo. Visto che anch'essa ha molto da temere da nuove elezioni.

Come farebbe Berlusconi a giustificare una crisi, in tempi così difficili per l'economia? La defezione di Fini e dei suoi fedeli, inoltre, modificherebbe sostanzialmente l'identità territoriale di questa maggioranza. Se si votasse davvero in novembre, il Centrodestra si presenterebbe con i volti della triade Berlusconi, Bossi e Tremonti. Vero partito forte: la Lega. Principale prodotto di bandiera: il federalismo. Insomma: un'alleanza politica "nordista". Berlusconi e il Pdl avrebbero concreti motivi di temere il voto. Perché in Italia, per vincere le elezioni (governare, ovviamente, è un altro discorso), bisogna disporre di un elettorato "nazionale". Distribuito sul territorio in modo non troppo squilibrato. Come la Dc, nella prima Repubblica, e Forza Italia, nella seconda. I principali baricentri, non a caso, dei governi del dopoguerra.

Il Pci, invece, nella prima Repubblica ha conosciuto fasi di grande espansione, ma è sempre rimasto ancorato alle regioni "rosse" dell'Italia centrale. Quanto al Centrosinistra, nella seconda Repubblica, in quindici anni di esperimenti, non è riuscito a superare i vincoli territoriali - ma anche politic  - ereditati dal passato. Il progetto dell'Ulivo, guidato da Prodi, dopo il 1995 ha viaggiato sospeso fra Ulivo dei partiti e Partito dell'Ulivo. Ha, comunque, delineato un soggetto politico di tipo italo-americano. Dove coabitassero posizioni politiche e culturali molto diverse e perfino lontane tra loro. Come i Democratici negli Usa e la Dc in Italia (un esempio evocato spesso da Parisi). L'Ulivo, erede dei partiti di massa (democristiani e comunisti, soprattutto), ma "nuovo", per identità e metodo di selezione del gruppo dirigente e dei candidati. Le primarie ne sono divenute il marchio. Un'alternativa all'organizzazione tradizionale e, nel contempo, al partito mediatico e personale, imposto da Berlusconi.

L'Ulivo di Prodi evoca un soggetto politico di coalizione, "largo" ed eterogeneo. Ha vinto due volte - o, forse, una volta e mezzo. Nel 1996 e nel 2006 (quando al Senato ha perso quasi subito la maggioranza). Ma si è rivelato incapace di garantire stabilità e coesione. Da ciò, nel 2007, il passaggio al Pd, guidato da Veltroni. Partito riformista, sorto con l'obiettivo di "attrarre" gli elettori dell'area di sinistra e soprattutto di centro, senza troppi compromessi e mediazioni. Correndo contro Berlusconi e il Pdl "da solo". O quasi. Un unico alleato, l'IdV. In risposta al PdL, che si apparenta con la Lega. Le primarie, parallelamente, non servono più a scegliere il candidato premier. Dunque, non sono aperte all'intera coalizione (come nel 2005). Diventano, invece, una sorta di competizione congressuale per scegliere il gruppo dirigente e il segretario. Il problema è che il Pd non solo ha perso le elezioni del 2008 (esito prevedibile). Ma, in due anni, ha cambiato tre segretari, mentre la sua base elettorale si è ridotta sensibilmente.

Pdl e Pd, nel frattempo, si sono indeboliti - parecchio - rispetto ai partner (Lega e IdV). E ciò ha ridimensionato l'idea del bipolarismo "bipartitico", sostenuta da Veltroni e Berlusconi nel 2008. Oggi, infatti, ci troviamo di fronte a un bipolarismo frammentato, che neppure Berlusconi riesce a controllare e pone al Pd serie difficoltà. Il bacino elettorale alla sua sinistra, nel frattempo, si è prosciugato. Oltre tre milioni di elettori: spariti. Esuli. In sonno. Oppure intercettati dall'Idv. Mentre al centro si fa spazio un nuovo aggregato che ambisce a fargli concorrenza. (Anche se l'attuale legge elettorale scoraggia ogni ipotesi di "terzo polo"). Per cui il Pd, quando evoca un governo istituzionale, che scriva una nuova legge elettorale e gestisca l'emergenza economica, più che alle difficoltà del Paese pare rispondere alle proprie. L'ipotesi, peraltro, non appare praticabile. Osteggiata dalla maggioranza, troverebbe in disaccordo anche le opposizioni. (C'è dissenso sulla legge elettorale fra Pd, Udc, Sinistra...)

Meglio - molto meglio - che il Pd si prepari alle elezioni. Senza scorciatoie. Con le attuali regole. E dica, quindi, "come" e "con chi" le intenda affrontare. Da solo o con pochi amici: non può. Perderebbe. Insieme all'IdV, oggi, il Pd potrebbe giungere intorno al 35%. Il Pdl, con la Lega, otterrebbe almeno 8 punti percentuali in più. Poi c'è l'incognita dell'astensione, che ha colpito pesantemente anche il centrosinistra, negli ultimi anni. Il Pd, per questo, deve chiarirsi e chiarirci. Con chi intende presentarsi? Quali formazioni e quali leader? L'esperienza del passato suggerirebbe la ricerca di intese molto larghe, senza pregiudizi. A sinistra e al centro. Attorno ad alcuni obiettivi di programma. Pochi e precisi. Relativi all'economia e al lavoro, alla legalità, alle regole istituzionali, al rispetto dell'unità nazionale, alla legge elettorale. Insomma: proponendo il programma delineato per il governo istituzionale alla verifica elettorale.
Un'alleanza che, come l'Ulivo nel 2005, scelga il candidato - i candidati - con il metodo delle primarie. Ma senza vincitori annunciati. Primarie aperte. Dove possano competere - e vincere-  Bersani, Di Pietro, Letta, Chiamparino. Ma anche Vendola, Casini, Rutelli, Tabacci. E altri candidati ancora, noti e meno noti.

L'ipotesi non è entusiasmante e si presta, ovviamente, a critiche. Una su tutte. Si tratterebbe di un collage antiberlusconiano e antileghista. Osservazione fondata, che non ci scandalizza. D'altronde, questa legge elettorale non l'abbiamo voluta noi. E l'asse Berlusconi-Bossi oggi costituisce un metro di misura e di riferimento  -  politico e istituzionale - non eludibile.

Tuttavia, da parte del Pd, ogni ipotesi, ogni idea - anche diversa da questa - è meglio dell'attuale afasia. Non temiamo le elezioni - per noi, anzi, sono ottime occasioni di lavoro. Temiamo, assai più, l'assenza di alternative e di speranze. Questo bipolarismo imperfetto tra un centrodestra che non ci (mi) piace e un centrosinistra (oppure centro-sinistra) che non c'è.

(09 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/09/news/mappe_diamanti_voto-6165692/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Chi ha paura del lavoro
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2010, 04:34:05 pm
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Chi ha paura del lavoro

di ILVO DIAMANTI

C'ERA una volta il lavoro... Garanzia di reddito, riconoscimento, posizione e mobilità sociale. Dava senso e speranza nel futuro. Principio istituzionale e costituzionale su cui si fonda la Repubblica, ha fornito lo statuto della nostra identità pubblica e privata. Il lavoro. Bisognerà ripensarci e ripensarlo, perché oggi non è più in grado di assolvere a questi fini. Non solo perché ormai è volatile e globalizzato come l'economia. Spostare la produzione  -  e l'occupazione  -  in Serbia, Romania, Cina o Tunisia è questione di costi e benefici. E non da oggi. La delocalizzazione non l'ha certo inventata la Fiat di Marchionne. È che si è creato un divario troppo largo fra il significato e la realtà.

Fra il ruolo attribuito al lavoro nell'organizzazione e nell'etica  -  sociale e personale. E ciò che sta diventando ed è divenuto. Nei fatti. Possiamo insistere sulle virtù  -  e sulla ragionevole esigenza  -  della flessibilità. Tuttavia, genitori e figli, giovani e adulti continuano a preferire il posto fisso. Per il 60% degli italiani: uno dei due requisiti privilegiati nella ricerca del lavoro (Demos, Gli Italiani e lo Stato, Novembre 2009).  Peraltro, il 47% delle persone (Demos per Unipolis, Osservatorio sulla sicurezza, Maggio 2010) oggi considera la disoccupazione  -  cioè: la perdita oppure l'assenza di lavoro  -  la prima preoccupazione. Nel 2007 questo problema era ritenuto prioritario da poco più del 20% dei cittadini (Demos, Gli Italiani e lo Stato, Novembre 2007).

Non si tratta di una paura localizzata, che tocca le aree più vulnerabili del Mezzogiorno. La disoccupazione, infatti, è in testa anche alle preoccupazioni della popolazione di Vicenza. Mitico cuore del mitico Nordest. Dove si rilevano da decenni i minimi indici di disoccupazione. Ebbene, nel Vicentino, 1 persona su 2 (per la precisione: il 49,2 %) considera la disoccupazione la prima emergenza da affrontare (Demos per Associazione Industriali e Fondazione Palazzo Festari, 1300 interviste, Maggio 2010).  Nel 2003: 13,2%. Nel 2001: 8,1%. La paura di perdere il lavoro, cioè, fra i vicentini è aumentata del 600% in meno di dieci anni. Il che, ovviamente, si giustifica, in parte, con la "disabitudine" a un problema, in precedenza, irrilevante. Tuttavia, anche per questo, il lavoro appare indebolito nella gerarchia dei valori personali. D'altronde, non gratifica più come una volta. Si dice, infatti, soddisfatto del lavoro il 56,8% dei vicentini. Dieci anni fa era l'80,8%. E se ciò succede a Vicenza, una società totalmente coinvolta nel lavoro, figurarsi altrove.

Anche in questo modo si spiega lo slittamento verso il basso della posizione sociale ed economica percepita dalla popolazione. Oggi,  infatti, il 49% degli italiani dichiara di appartenere ai ceti popolari oppure alla classe operaia. Sì, proprio alla "classe operaia". Così si definisce ancora il 37% degli italiani. Anche se gli operai, notoriamente, non esistono più. Sono scomparsi insieme al lavoro. E per dimostrare la propria esistenza debbono ricorrere a proteste clamorose. Fino ad allestire un'Isola dei Cassintegrati all'Asinara. Rischiando di passare per giapponesi che continuano la guerra. Senza sapere che la guerra è finita. Da tempo.

Tuttavia, un italiano su due oggi si sente classe operaia o popolare: 10 punti percentuali più rispetto al 2006. Mentre il 44% si colloca fra i ceti medi. (Era il 53% solo 4 anni fa, quando la società italiana era davvero "media".) Il residuo 5-6% (costante nel tempo) si sente e si dichiara "borghesia, classe dirigente".  Lo ripetiamo: c'è uno squilibrio ampio tra il significato e la realtà del lavoro. Il lavoro continua ad avere un ruolo prevalente nel definire non solo la condizione, ma anche la posizione sociale, le aspettative e gli orientamenti delle persone. Lo stesso Berlusconi utilizza la propria biografia "professionale" come esemplare. La prova che "tutti ce la possono fare". Partire dal nulla e arrivare in cima al mondo (o, almeno, fino ad ora: all'Italia).

Eppure l'italian dream, che egli interpreta ed esibisce, oggi non funziona più. Se il lavoro genera solo - o prevalentemente  -  preoccupazione. Se, invece che un "ascensore sociale", diventa uno "scivolo". Che spinge quote crescenti di popolazione nella "classe operaia". Cioè: nell'oblio, visto che la classe operaia è stata cancellata. Mentre gli attori che ne rappresentano gli interessi appaiono sempre più periferici. Gli stessi sindacati godono (si fa per dire...) della fiducia di circa un quarto della popolazione. E di poco più del 20% tra i lavoratori. D'altra parte, la loro base di iscritti è in maggioranza composta da pensionati.

Intanto, quasi 2 italiani su 3 ritengono che negli ultimi 5 anni la loro posizione sociale sia peggiorata. Un destino che interessa il 72% di coloro che si sentono classe operaia. Difficile, dunque, non porsi qualche dubbio sul nostro futuro, se il fondamento della nostra carta costituzionale, cioè il Lavoro: a) non offre certezze durature e tanto meno stabilità, al Sud, al Centro, al Nord e perfino nel Nordest; b) diventa il principale fattore di preoccupazione sociale e familiare; c) non genera mobilità sociale, se non verso il basso; se, ancora, d) metà della popolazione si sente classe  operaia (e popolare) ma si insiste a negarne l'esistenza.

Se tutto ciò è vero e riguarda tutte le fasce di popolazione (ma soprattutto i più giovani) allora resta da capire se vi sia una soluzione o, almeno, un rimedio. Per affrontare, o almeno, sopportare il declino del lavoro. E di tutto ciò che rappresenta, sotto il profilo fattuale e simbolico, materiale e normativo. L'unico riferimento possibile è, sicuramente, la "famiglia". Considerata, insieme all'arte di arrangiarsi, il marchio specifico dell'identità italiana dagli italiani stessi. Le vicende del nostro tempo non possono che accreditare questa idea. Vista l'importanza assunta dai legami familiari nelle attività economiche, nelle carriere professionali. E  -  in questi tempi  -  nelle vicende politiche. Tuttavia, a maggior ragione, temiamo il declino (l'eclissi?) del lavoro. Temiamo coloro che non lo temono. Ne temiamo gli effetti economici ma anche - e anzitutto -  "ideologici". Ebbene sì: il ritorno trionfale  del "familismo" ci spaventa.

(15 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/15/news/mappe_diamanti-6297736/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sogno di un giorno di fine estate
Inserito da: Admin - Agosto 17, 2010, 09:25:10 pm
Sogno di un giorno di fine estate

di Ilvo Diamanti

Io mi ammalo raramente. Lo dico e procedo subito al rituale gesto scaramantico. Però quando capita, diciamo una volta ogni dieci anni, capita sempre in ferie. Tra Natale e Capodanno, a Pasqua. O a Ferragosto, appunto. Come quest'anno.

Quando, normalmente, mi rifugio a Urbania, città ducale, ai confini con Urbino, dove insegno. Così, tanto per non perdere l'abitudine, visto che io mi affeziono ai luoghi. A Urbania faccio vita di paese, come quando, da ragazzo, vivevo a Bra, poi a Vado Ligure. Sempre al seguito di mio padre, che faceva il militare. Infine, quand'ero adolescente, si stancò di viaggiare,  e ci riportò tutti a casa (sua). A Isola Vicentina (per la precisione: a Castelnovo).

A Urbania mi sento come allora. Come quand'ero adolescente. Anche se, chiaramente, non ho più l'età. Per cui faccio cose scapestrate. Tiro tardi (tardi) a discutere dei destini del mondo con il sindaco e i miei colleghi. Con il barista. Con gli urbaniesi (di cui spesso, dopo tanti anni, non conosco il nome). Esercito il "cazzeggio estivo", come lo chiama Aldo Grasso (ma per me è una nobile arte). Poi, ancor più tardi, ma davvero tardi, prendo il mio schnautzer nano, e giro per il paese.  Eddy Berselli diceva che è un mostro. Diciamo che esagerava. Il cane ha personalità. E poi è piccolino. Ma, per sicurezza, conviene uscire quando c'è poca gente in giro.

Urbania è un microcosmo tradizionale. Dove ho tracciato una scia biografica lunga decenni. Punteggiata di eventi familiari e personali. Spesso lieti, qualche volta dolorosi. Qui ho coltivato rapporti solidi. Torno anche per incontrare gli amici. Alcuni ogni tanto mi lasciano. (Quest'anno mi manca Mario. Non mi dimenticherò mai di lui.) Così, per qualche settimana vivo come una volta. Così, a volte scordo che non ho più l'età. Uscire la notte con Mambo (lo schnautzer), quando piove e fa freddo, lo potevo fare 40-45 anni fa. Ora no. Se no mi ammalo. Soprattutto se sono "rilassato", le difese abbassate, gli anticorpi in vacanza.

Così eccoci qui: a letto, con la bronchite e 39 di febbre. A scrivere per passare il tempo, dopo aver letto troppo. A volte il sonno mi prende. E faccio sogni assolutamente folli. Come si conviene ai sogni. Oggi pomeriggio, per esempio, ho sognato che "arrivavano i nostri".
I nostri. Pierluigi, Max, Walter, Nichi, il Chiampa, Cacciari, Dario, Matteo. Insieme a Pieferdi, Luca C. d. M.   Tutti  insieme. Guidati da Tex Willer. (Quello vero, non le molte imitazioni non autorizzate). E ho sognato che "gli altri" tornavano a casa loro. Al lavoro.

A fare chi il commercialista di Berlusconi, chi l'avvocato di Berlusconi, chi il consulente fiscale di Berlusconi, chi l'avvocato di Berlusconi, chi l'esperto di immagine e comunicazione di Berlusconi, chi l'avvocato di Berlusconi. E poi quel tale, di cui mi sfugge il nome. Quello che "Napolitano ha tradito la Costituzione". Avvocato anche lui. Magari la Gelmini lo rimanda a studiare.

E lui, Silvio, finalmente impegnato a lavorare per sé e non per noi. A curare i fatti suoi invece dei nostri. In fondo, abbiamo già dato (a lui).  Peccato che si tratti solo di sogni febbrili. Però, lo confesso, il risveglio non è stato doloroso. Non saprei perché. Per citare il Filosofo della notte: "La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?". Risposta: boh... Preferisco ricorrere alla lezione di un altro filosofo, un po' più profondo (se il Filosofo della notte non si offende): "La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è come vivere. Sfogliarli a caso è sognare". Oggi, sarà perché sono in ferie o perché ho la febbre, ma io preferisco sognare.

(17 agosto 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/08/17/news/sogno_estate-6329849/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Perché il Cavaliere teme le urne
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2010, 05:53:49 pm
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Perché il Cavaliere teme le urne

di ILVO DIAMANTI

NON è una novità, il protagonismo di Bossi. Esibito anche in passato, quando la Lega contava molto meno. Tuttavia, Bossi (e, di riflesso, la Lega) raramente è apparso così determinato. Oggi, infatti, è lui a dettare i tempi e i temi della crisi. Senza preoccuparsi di nulla e nessuno. Nei confronti di Fini e dei suoi amici: "Bisogna cacciarli. Fini è invidioso e rancoroso". Il dialogo è tempo sprecato: "Meglio andare a votare subito".

Cioè: "A fine novembre, al massimo ai primi di dicembre". Lo ha ripetuto più volte, negli ultimi giorni. D'altronde, non c'è spazio per altre maggioranze, oltre a questa. Di fronte a governi tecnici il Nord insorgerebbe. È già campagna elettorale. E Bossi non perde occasione per riproporre i temi dell'agenda leghista. In primo luogo, il "mitico" federalismo. Poi, la sicurezza (i soliti immigrati, il cui numero e la cui pericolosità sociale salgono e calano a comando. Magari a tele-comando. Secondo l'urgenza politica del centrodestra). Poi il Sud. Dove, secondo Bossi, Fini - il nemico di Tremonti - "vuole sprecare i soldi dello Stato".

Il protagonismo di Bossi ha reso lo stesso Berlusconi quasi un comprimario. Un partner livido e imbarazzato. Mosso da istinti e interessi personali più che da ragioni politiche - non diciamo "pubbliche". Accecato dal risentimento verso Fini, il traditore. Deciso a fargliela pagare, a sputtanarlo. Quel moralista immorale che pretende di dar lezioni di pubblica morale.

Così Berlusconi, spinto dall'alleato e dall'istinto, ha imboccato la strada che porta a nuove elezioni. Che sembrano, francamente, inevitabili. Lo ha ripetuto ieri lo stesso premier. Nonostante i 5 punti posti a Fini e ai suoi fedeli, come condizioni non negoziabili. Tuttavia, non comprendiamo i motivi per cui Berlusconi e il Pdl debbano augurarsi nuove elezioni, al più presto. Anzi, nell'attuale situazione, vediamo 5 buone ragioni per cui Berlusconi, secondo noi, dovrebbe semmai temere il voto. E lavorare, almeno, per allontanarne la data.

1. La prima riguarda l'intera maggioranza. Richiama il rischio della delusione. Il malumore degli elettori di fronte a una coalizione incapace di garantire al Paese governo e stabilità. Dopo aver vinto nettamente le elezioni e conquistato una larga maggioranza parlamentare. Solo due anni fa. Una crisi politica nazionale dagli effetti imprevedibili, nel mezzo di una crisi economica internazionale profonda. Gli elettori, compresi quelli di centrodestra, potrebbero leggere in questi eventi i segni di un fallimento. Che coinvolge il progetto - ma anche la leadership - di Berlusconi. Il quale, insieme a Bossi, tenta di scaricarne per intero la colpa su Fini. Ma Fini è il socio fondatore del Pdl. Il partner di Berlusconi. Da 16 anni partecipe del medesimo progetto.

2. La seconda ragione riguarda il Pdl. Un partito cresciuto fragile. Gli elettori di An non l'hanno mai percepito totalmente come "proprio". Il calo registrato dai sondaggi condotti in luglio ne riflette, in parte, il disorientamento. Per ora tende a tradursi in "non-voto potenziale", che induce molti elettori del Pdl a non dichiarare la loro scelta. Così il partito si è attestato, nelle stime, intorno al 30% (secondo alcuni analisti anche meno). Cioè: quel che aveva ottenuto Forza Italia - da sola - nel 2001.

3. La terza ragione riguarda l'impianto territoriale del Pdl. Come ha gridato Bossi, Fini vuole fondare il "partito del Sud". Il che significa: levare la terra sotto i piedi al Pdl. Unico partito "nazionale". Erede - in questo - della tradizione democristiana e dei partiti di governo della prima Repubblica. Come può, il Pdl, immaginare di "tenere" su base nazionale, se si vede succhiare il bacino elettorale a Nord dalla Lega e al Sud da Fini, oltre che dall'Udc, Lombardo e magari Micciché?

4. La quarta ragione, coerente, è che questo governo ha assunto una chiara identità "nordista". È il governo di Bossi, Tremonti e Berlusconi. Garante del federalismo. Una riforma che nel Mezzogiorno è percepita, da un terzo dei cittadini, come un "pericolo". Così, a Nord e a Sud, il Pdl rischia di essere considerato gregario della Lega. Mentre il vero premier appare Tremonti.

5. La quinta e ultima ragione è conseguente - e palese. Oggi il vero avversario, la vera minaccia, Berlusconi e il Pdl ce l'hanno lì, vicino a loro. È la Lega. È Bossi che, non a caso, continua a dare buoni consigli - per sé - che si traducono in altrettante insidie per Berlusconi. Regala il Sud a Fini (e ai Centristi). Al Senato, soprattutto, potrebbe costare molto caro. Destabilizza il governo e la maggioranza, gridando: "Al voto! Al voto!".
D'altra parte, paradossalmente, la Lega continua ad apparire - ai suoi elettori - opposizione e governo al tempo stesso. Sta al governo, indubbiamente. Ma solo per "difendere il Nord". Quasi un agente infiltrato a Roma, al servizio degli interessi padani. Bossi, agli occhi dei suoi elettori, non appare l'amico fidato di Berlusconi. A cui ha sempre garantito sostegno leale. In tutte le vicende giudiziarie, anche le più imbarazzanti. Ma, al contrario, un "controllore". Un garante.

Così, Bossi, soffia sul fuoco. Qualsiasi cosa succeda, ritiene che la Lega possa guadagnarci. I sondaggi la stimano intorno al 12%. E, quindi, più del doppio nel Nord. Dovesse rivincere il Centrodestra, la Lega ne uscirebbe più forte. Anche perché, presumibilmente, il PdL ne uscirebbe più debole (soprattutto, ma non solo, al Sud). Dovesse perdere il centrodestra (ipotesi da non escludere), la Lega avrebbe di fronte altre opzioni. La più attraente e al tempo stesso inquietante: diventare il polo dell'opposizione. Non solo politica, ma allo Stato. Il Polo Nord. In fondo, governa già: in 2 Regioni (Veneto e Piemonte), in 14 province e in oltre 350 comuni. Ottenesse una ulteriore investitura politica, nell'anno del 150enario dell'Unità d'Italia, si rischierebbe uno strappo di proporzioni difficilmente prevedibili.

Tuttavia, non bisogna mai sottovalutare il Cavaliere. Fare i conti come fosse "fuori gioco". Lui: non si arrende mai. Cade e si rialza. E in campagna elettorale dà il meglio di sé. La differenza dal passato è che, questa volta, non deve guardarsi dagli altri. Dagli avversari. Ma dai suoi alleati. E da se stesso.

(23 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/23/news/perch_il_cavaliere_teme_le_urne-6442734/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quel Porcellum sciagurato e resistente
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2010, 04:25:36 pm
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Quel Porcellum sciagurato e resistente

La riforma della legge elettorale osteggiata da Pdl e Lega. Contraria anche l'Udc.

E nel Pd le posizioni sono differenti: difficile quindi trovare un'intesa

di ILVO DIAMANTI

LA LEGGE elettorale è argomento di dibattito politico ormai da vent'anni. Con alterne fortune. In questo momento fa discutere in modo particolarmente acceso. Tanto che il Pd ha proposto, se non un governo istituzionale, un'alleanza parlamentare larga intorno a questo esplicito obiettivo. Scrivere una legge elettorale migliore del Porcellum, come la definì Giovanni Sartori (ispirato dallo stesso autore, il ministro Calderoli). Un'impresa semplice, nei contenuti, perché è difficile immaginare un dispositivo altrettanto sgangherato e precario. Ma, in effetti, assai complicata. Perché, in un sistema politico fazioso come il nostro, il bene comune viene decisamente dopo quello del partito e degli uomini politici. E, nonostante tutto, non sono pochi a considerare il Porcellum vantaggioso. Non per il Paese, ma per se stessi.

Anzitutto (ma non solo, come si dirà più avanti), nella maggioranza. Se si fa riferimento al formato della competizione elettorale del 2008, PdL e Lega continuano a prevalere sull'intesa Pd-IdV. Certo, il PdL appare in difficoltà, viste le tensioni interne  -  e, infatti, com'era prevedibile, Berlusconi ha congelato la scadenza elettorale. Per ora. Mentre Bersani ha aperto al "nuovo Ulivo", che, tradotto in termini pratici significa allargare la coalizione oltre l'IdV, come nel 2006. Si tratta, comunque, di lavori in corso. Per cui il PdL, ma soprattutto la Lega, non hanno alcuna intenzione di cambiare il sistema elettorale. Se non dopo aver calcolato bene la propria convenienza,
come nell'autunno del 2005.

Allora, in vista delle elezioni dell'anno successivo, decisero di abolire la competizione uninominale (dove si eleggevano i tre quarti dei parlamentari), a favore di quella proporzionale (dove il centrodestra otteneva risultati molto migliori). Con tre innovazioni, importanti e significative. L'attribuzione di un premio di maggioranza alla "coalizione" e non al partito vincente. L'indicazione del candidato premier. L'introduzione delle liste bloccate e la conseguente abolizione delle preferenze. In questo modo, il centrosinistra perdeva il suo vantaggio. Mentre il dominus diventava il leader capace di fare coalizione. E, soprattutto, di costringere gli alleati a rispettarla, con le buone o le cattive (cioè: Berlusconi assai più di Prodi e dei successori). Mentre la probabilità di venire eletti, per i candidati, dipendeva dalla loro posizione in lista. Con l'esito di aumentare enormemente il potere delle segreterie centrali e dei "padroni" dei partiti, che detenevano e detengono il controllo delle candidature.

Da ciò i diversi ostacoli  -  e i diversi nemici  -  di fronte a ogni cambiamento di questa legge. Vi si oppongono il PdL e la Lega. Soprattutto di fronte alla prospettiva di una legge, come l'uninominale di collegio, che li penalizzi. Ma è difficile immaginare una larga convergenza, su questa prospettiva, in Parlamento, anche fra i partiti di opposizione. L'Udc, anzitutto, che ispirò l'attuale legge. In nome del proporzionale. Non è pensabile che accetti un'alternativa ancor più maggioritaria.

Nel Pd si incontrano posizioni diverse e lontane. Vi sono componenti disponibili a ipotesi proporzionali, magari di tipo tedesco (i gruppi dirigenti maggiormente ancorati all'esperienza dei vecchi partiti, Popolari e Ds). Mentre altre sono attaccate al principio maggioritario e bipolare, se non più bipartitico (i veltroniani, i prodiani "puri", come Parisi). Morale: costruire una maggioranza parlamentare intorno a una legge elettorale continua ad essere molto complicato.

Tanto più perché i "riformatori" pensano a reintrodurre il principio di responsabilità "personale", attraverso le preferenze, nel voto di lista, oppure attraverso l'uninominale di collegio, che rende più stretto il rapporto fra candidati ed elettori. E sottrarrebbe, in parte, ai gruppi dirigenti nazionali il controllo sul partito. Una ragione sufficiente per ritenere non solo utile, ma necessaria una nuova legge elettorale. Che restituisca maggior potere agli elettori e al territorio.

Per questo merita attenzione il progetto di riforma, in senso uninominale, promosso da un comitato di politici e studiosi autorevoli. Dove, peraltro, prevalgono i politici del Pd ma, anzitutto, i radicali. Poi, i finiani. Mentre gli esponenti del PdL sono pochi (ne abbiamo contati 6-7 su 40, perlopiù di impronta liberale e radicale).

Ma se i parlamentari sono tiepidi, neppure gli elettori sembrano sensibili a questa materia. Mobilitarli è sempre più difficile, visto che, da oltre 15 anni, i referendum elettorali non raggiungono il quorum. Da ultimo, quello organizzato nel 2009 (mirava ad attribuire al partito il premio di maggioranza previsto per la coalizione). Vi partecipò il 23% degli elettori. L'affluenza più bassa della storia repubblicana.

Prova inequivocabile che le leggi elettorali, da sole, non riescono più a scaldare il cuore. Tuttavia, fondano la democrazia rappresentativa. Possono valorizzare o scoraggiare la responsabilità dei leader politici di fronte ai cittadini. Accentuare o vanificare le possibilità di comunicazione e di controllo della società nei confronti dei leader. Se l'attuale legge garantisce alle oligarchie di partito e ai leader nazionali un potere senza verifica, il problema è spiegarlo ai cittadini. Farne un obiettivo condiviso e "significativo".

Coinvolgendo gli attori che, da tempo, conducono campagne civili, a livello nazionale e globale. Oltre che nella società: sulla rete e attraverso i media. Il problema è dare significato politico e sociale alla tecnicalità istituzionale. Farla uscire dalla cerchia degli addetti ai lavori. Come nei primi anni Novanta, quando i referendum elettorali divennero il simbolo della lotta contro il vecchio sistema e i vecchi partiti. Oggi, quel sistema non c'è più, neppure quei partiti. Ma le cose, nel rapporto fra i cittadini e la politica, non sono cambiate molto. Anzi: nella società la delusione ha preso il posto dell'indignazione. Per mobilitare di nuovo i cittadini occorre convincerli che cambiare la legge elettorale significa cambiare davvero. Non sarà facile. Ma vale la pena di provarci.

(30 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/30/news/diamanti-6613930/


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'identità divisa: se la mia banca minaccia la mia squadra
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2010, 09:56:17 am
L'identità divisa: se la mia banca minaccia la mia squadra

Ilvo Diamanti


Le squadre di calcio e le banche: due riferimenti importanti dell'identità, in tempi di crisi delle identità. Per quel che riguarda il calcio, è noto. Metà degli italiani tifano per una squadra, il 18% in modo militante. Tra i tifosi, la metà tifano contro un'altra squadra, diversa dalla loro. Proprio come nella politica ai tempi belli. Tra i più giovani, peraltro, il tifo calcistico conta più di ogni altra fede, compresa quella religiosa. Insomma, il calcio offre solide ragioni di appartenenza. Com'è noto. Mentre immagino che l'appartenenza "bancaria" possa sollevare molti più  dubbi e qualche ironia. D'altronde le "banche" sono tra gli organismi che suscitano maggiore diffidenza. Difficile attendersi altro, dopo gli scandali e le crisi in cui sono state coinvolte negli ultimi anni.

Tuttavia, occorre fare attenzione e distinguere. Se solo 2 italiani su 10 esprimono molta o abbastanza fiducia verso le "banche in generale", oltre metà di essi nutre fiducia verso la "propria" banca. Verso l'agenzia dove ha depositato i "propri" risparmi. Verso i funzionari e gli esperti che consulta spesso, per avere informazioni e consigli. D'altronde, non potrebbe essere altrimenti, verso coloro a cui affidi i tuoi risparmi, i tuoi mutui, i tuoi investimenti e i tuoi fondi, piccoli o grandi che siano. In un Paese dove la quota dei risparmiatori tra le più alte del globo. Forse la più alta. Perché da noi  il risparmio è ancora
considerato un valore e il debito un peccato (e un rischio). Così, può succedere che  si generino conflitti di identità, che attraversano e dividono le stesse persone. Visto che ciascuno di noi ha molte appartenenze, molte identità (religiose, politiche, territoriali, di genere e di generazione). E costa  impegno a tenerle insieme. A farle coabitare, soprattutto quando diventano contraddittorie.

Ad esempio, essere rossoneri e di sinistra allo stesso tempo. Non è facile. Ed è divenuto difficile, per me, far convivere i due riferimenti dell'identità  di cui ho parlato prima. La banca e la squadra di calcio. Mi spiego. Io, come sanno alcuni che mi leggono e tutti quelli che mi conoscono, sono molto bianconero. Juventino. Dall'infanzia e forse dapprima. Come molti immigrati e i figli di immigrati che vivono (vivevano) nella provincia piemontese. I torinesi veri, invece, tifavano e tifano Toro. Questione di "integrazione": i gruppi sociali periferici, per integrarsi, cercano canali diretti e "vincenti". Una giustificazione ex post: io non mi sono mai chiesto perché sono juventino. Lo sono e basta. Anche se da qualche tempo - io e la Juve -  non vinciamo più. Anzi. Dopo il passaggio in serie B e l'illusione breve di un rapido ritorno ai fasti del passato, arranchiamo. Alla ricerca dei successi perduti. Con molta delusione. Il nostro peso fra i tifosi, intanto, sta calando. Difficile tifare per chi perde. Mentre è in crescita il tifo nerazzurro. Non sospettavo che fossero così numerosi. Ma da qualche tempo mi trovo circondato da interisti. Effetto band wagon, in una certa misura. Perché il carro dei vincitori è sempre carico. (Unica, triste, consolazione: l'Inter ha rubato alla Juve anche lo scudetto della squadra più odiata. Me lo sarei tenuto volentieri).

Ma il malessere che mi accompagna non accenna a declinare. Penso alla campagna del calcio-mercato appena conclusa. Nella quale abbiamo cambiato quasi tutti, dal Direttore sportivo e dall'allenatore in giù. Se ne sono andati tanti. Alcuni mi piacevano molto. Diego e Giovinco, non li avrei ceduti mai. Mentre sono arrivati giocatori costosi di cui prima sapevo poco (Krasic: chi è costui?). Mentre di altri, arrivati gratis, mi sfuggiva l'esistenza (Rinaudo: sarà un brasiliano?). Ho assistito, ancora, a fatti che, in passato, non avrei mai immaginato. Giocatori che hanno rifiutato il passaggio alla Juve. Per fedeltà ai colori (Di Natale, ma anche Burdisso). Mentre altri, come Borriello e Kaladze, non sono arrivati, pare, per scelta personale. Di interesse: economico ma anche di competitività. Evidentemente, oggi la Juve, per un giocatore ambizioso, ha meno appeal della Roma e dello stesso Genoa. Anche se tra Grosso e Kaladze (uno scontro fra titani) mi tengo Grosso. E tra Borriello e Amauri non vedo distanze enormi (a meno che non si metta sul piatto Belen, che però, mi dicono, da molto tempo  veleggia altrove).

Tuttavia, non nego di essere a disagio. Con me stesso. Perché io sono un correntista Unicredit. Ho miei risparmi depositati nell'agenzia di Isola Vicentina, dove abitavo al tempo dei miei primi stipendi. Mi hanno sempre trattato bene, con riguardo e attenzione. Ieri e anche oggi. Eppure, un poco, mi disturba che Burdisso e Borriello siano stati ingaggiati dalla Roma  -  invece che dalla Juve  -  grazie al consenso e alla garanzia finanziaria di Unicredit. Proprietaria, di fatto, della Roma. O meglio, del suo debito enorme. Mi disturba. Non perché ci tenessi molto a Borriello (a Burdisso un po' di più). Ma perché la mia identità ne esce contrastata. Come posso affidarmi a una banca che combatte contro il mio tifo? Che usa (anche) i miei soldi (una goccia nell'oceano, lo so) contro di me? Come posso restare, al tempo stesso, bianconero e  di Unicredit senza sentirmi dissociato? Il conflitto fra banca e tifo. Da matti. Un non-problema, del tutto inesistente, diranno tutti (o quasi). Un altro segno di questi tempi tristi, senza fede e senza ideologia, senza politica e senza valori. Però una cosa è certa: io la squadra non la cambio.

(02 settembre 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/09/02/news/bussola_juventus-6694804/?ref=HREC1-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - La dottrina Zen del Cofondatore
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2010, 10:11:18 pm
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La dottrina Zen del Cofondatore

di ILVO DIAMANTI

C'E' ATTESA per quel che dirà Gianfranco Fini a Mirabello. Oggi, nel discorso di chiusura della festa Tricolore. Un'occasione singolare e significativa. Dove si celebra la tradizione della Destra dissolta nel contenitore politico di Berlusconi. Fini: fondatore e ultimo presidente di An, erede di Almirante. Il cofondatore del PdL. E oggi Grande Antagonista. Il Nemico di Silvio Berlusconi, che non sopporta l'opposizione, le contestazioni, le correnti.

All'interno del «suo» partito. Berlusconi e i «suoi» – consulenti, discepoli, assistenti – vorrebbero che, infine e finalmente, si esponesse. E divenisse, infine e finalmente, il capo di un nuovo partito. Leader dei futuristi. Oppure si opponesse alle condizioni poste da Berlusconi. I 5 punti. Così potrebbe, infine e finalmente, cacciarlo via. Meglio: Fini si porrebbe automaticamente fuori. Dalla maggioranza. Così il Padrone del Pdl potrebbe elaborare una strategia. Decidere, infine. Se andare a nuove elezione e quando. Come e con chi. Oppure tentare di convincere una parte dei parlamentari di Fli a rientrare a casa. (Lui sa essere generoso con gli amici, come ha rammentato ieri).

Non a caso, Berlusconi – e i suoi giornali – agitano sondaggi che danno Fli, il partito di Fini, intorno al 2%. Cioè: quasi nulla. In realtà, altri sondaggi gli attribuiscono almeno il doppio di quei consensi: tra il 4 e il 5%. Meno di qualche mese fa. Ma non poco, visto che Fini da mesi è «fermo» e il partito è solo un'ipotesi. Una voce. Mentre il Pdl è valutato intorno al 30%, come in luglio (e alle regionali) e la Lega continua a crescere. Al di là del 10-11%. Peraltro, non è possibile fare stime, in assenza di un'offerta politica chiara. Senza sapere cosa farà Gianfranco Fini. Con chi si presenterà il suo ipotetico partito, se davvero nascesse? Da solo contro tutti? Con il NMC (Nuovo Mitico Centro)? Oppure con la SAA-B (Santa Alleanza Anti-Berlusconiana)?

Di certo Fini, personalmente, preferirebbe il Centrodestra. Perché il suo bacino elettorale di provenienza e di vocazione è lì. Lui si considera un neo-gollista, un uomo della Destra democratica e liberale. Presidenzialista e laico. Ma Berlusconi, ovviamente, non lo vorrebbe mai con sé. E lui, Fini, non vorrebbe mai stare con Berlusconi. Troppo profonda l'ostilità personale. Da tempo. Si sa. Fini non ha mai sopportato che Berlusconi lo tenesse, eternamente, in panchina. Insieme a Casini. Ad attendere una successione senza garanzie né scadenze. Tantomeno ha sopportato le interferenze con la sua vita personale. Da parte dei media amici di Berlusconi. Così, le ragioni politiche e quelle private si sono mischiate. D'altronde, questa è una democrazia personale e personalizzata. Dove i fatti privati sono pubblici e viceversa. Non a caso Fini è stato al centro di una campagna, martellante e quotidiana, per gli affari della sua compagna; o meglio: del fratello e della famiglia Tulliani. Almeno 30-40 prime pagine. Piene. Anche se, dopo la saga berlusconiana (moglie, affari, amiche, amici, residenze estive e invernali, ragazze, escort e quant'altro), è difficile che qualcosa possa davvero scandalizzare gli italiani.

D'agosto, poi, sotto l'ombrellone. Con le notizie e le foto che rimbalzano tra le riviste di gossip e di infotainment, la stampa d'informazione e Dagospia. Diventa quasi un tormentone estivo, a uso di un popolo mitridatizzato. Per questo, oggi c'è attesa. Che Fini parli, dica, decida. Faccia lui. Qualcosa di chiaro. Uno strappo o un segno di buona volontà. Dichiarandosi indisponibile o leale verso il programma dettato da Berlusconi. Tuttavia, è altamente improbabile – diciamo pure: impossibile – che Fini faccia qualcosa di tutto ciò. Liberando Berlusconi dall'incertezza che lo logora. Infine e finalmente. Molto più facile che decida, come fin qui, di stare fermo. In tutti i sensi. Fermo: nel suo ruolo istituzionale. Disponibile a sostenere il programma, ma non contro la Costituzione, non contro la legalità. Disponibile a restare non solo nella maggioranza, ma perfino nel PdL, da cui non se n'è mai andato. Ma fermo. Sui principi e sulle regole.

Più reticente sui contenuti – che lo potrebbero «schierare» in modo deciso. Fermo. Senza reagire, più di tanto, neppure agli attacchi personali e agli scandali cresciuti intorno a lui. D'altronde, la fiducia personale nei suoi confronti è calata, ma resta ancora elevata. Certo, è cresciuta al centro e a sinistra, ma, a destra, Fini continua a godere di un buon livello di simpatie. Non fosse altro che per nostalgia. Per cui è guardato – con attenzione ma anche timore – da Casini, Rutelli, perfino da Bersani. E, nel centrodestra, da Bossi e dai leader leghisti. I quali, dopo tanti attacchi, nelle ultime settimane, hanno iniziato a manifestare stima nei suoi confronti. Bossi, in persona, si è proposto di ricucire i rapporti con Berlusconi. E, nei giorni scorsi, ha garantito per lui: Fini non farà strappi. Una svolta che non deve sorprendere.

Fini e i finiani – finché restano nella maggioranza – indeboliscono il Pdl e Berlusconi 2 volte. Perché gli levano parlamentari e voti. Perché lo rendono più vulnerabile nel Sud. Bossi e la Lega, peraltro, non possono accettare che Berlusconi dialoghi con l'UdC. Che ridurrebbe la forza contrattuale della Lega nella coalizione. Tanto più che il bacino elettorale dell'UdC, nel Nord, è coerente (ex DC) e dunque concorrente con quello della Lega. Per questo, oggi, l'unico ad agitarsi, nervosamente, è proprio Berlusconi. In bilico. Non può decidere. Qualsiasi scelta rischia di danneggiarlo. E non vuole essere lui a dare alibi agli altri. Ad aprire la crisi. A cacciare Fini. Magari per ragioni di «conflitto di interessi». Per questo a Fini conviene muoversi (e muovere) molto. Ma rimanendo Fermo. Secondo i principi della dottrina Zen.


(05 settembre 2010)

http://www.repubblica.it/politica/2010/09/05/news/fini_zen-diamanti-6769405/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La bella economia, testamento di Berselli
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2010, 10:35:15 am
IL LIBRO

La bella economia, testamento di Berselli

L'ultimo saggio per una società più giusta

Nel libro scritto durante la malattia l'intellettuale scomparso ad aprile affronta il futuro del capitalismo.

Con una ricetta sorprendente.

di ILVO DIAMANTI



Prima di lasciarci, pochi mesi fa, Edmondo Berselli ha scritto questo saggio, denso e acuminato. Diverso, in qualche misura, diverso dai suoi libri precedenti.

Dagli articoli che ha continuato a pubblicare, fino alla fine. Diverso, perché "essenziale", nello stile e nei contenuti. Mentre Berselli ha coltivato  -  per metodo e filosofia  -  l'essenzialità dell'inessenziale. Occupandosi di sport, musica, gossip, vita quotidiana. In modo strettamente contestuale alla cultura (sedicente) alta, alla politica, all'economia, alle imprese, agli affari. Scivolando fra Liga (bue) e Lega, tra i Post-italiani e Forza Italia, fra "il più mancino dei tiri" (di Mariolino Corso) e gli svarioni dei "sinistrati" (politici). Attraverso uno stile in-imitabile. Dove, appunto, nulla è divagazione. E tutto lo è. Perché, in questo "paese provvisorio", nulla è essenziale. Quanto il fatuo. Ebbene, in questo saggio Berselli sceglie uno stile asciutto. Ma, come sempre, vitale. Forse perché la vita, mentre scriveva, lo stava lasciando. E lui lo sapeva, anche se mai  -  mai  -  si è arreso. E mai  -  mai  -  ha rinunciato a vivere. Cioè a scrivere. Fino in fondo. Ma il tempo stringeva e, complice (come sempre) sua moglie Marzia, ha colpito al cuore una questione che gli stava a cuore  -  da sempre. L'economia giusta, che distribuisce le risorse in modo "equo". Dove le differenze di reddito e di condizione non sono abissali come adesso. "Nella società fordista veniva considerato equo che il presidente o l'amministratore delegato di una grande impresa guadagnasse trenta volte lo stipendio di un usciere. Oggi, o soltanto fino a ieri, si considerava normale che il reddito del grande manager ammontasse da tre a quattrocento volte la retribuzione di un impiegato di basso livello". Berselli ricostruisce  -  con approfondita cura analitica, bibliografica e critica  -  l'ascesa e il declino dell'"economia giusta", come ideale e progetto. Partendo da Marx e Leone XIII per giungere fino ad oggi. Ma traccia anche la parabola  -  molto più rapida  -  della "economia libera" (e iniqua). Una superstizione di successo. All'origine di leggende, fiorite e sfiorite in fretta. Con esiti devastanti, per le borse, le banche e i mercati globali. E per una moltitudine di poveretti, divenuti ancor più poveri.

Il saggio di Berselli è un atto di accusa spietato. Verso il liberismo monetarista che ha venduto illusioni, spacciando superstizioni per verità ("i soldi che generano soldi", a prescindere dall'economia). Ma anche verso il riformismo socialdemocratico e democratico-cristiano. Verso i soggetti  -  politici e culturali  -  che hanno immaginato la "società giusta", cercando di progettare e di realizzare l'economia sociale di mercato, che lega insieme impresa, individuo, comunità. E Stato. Ma poi si sono arresi al "pensiero unico" del monetarismo, quasi senza combattere. Oggi il turbo-capitalismo e il globalismo finanziario sono bersaglio di critiche spietate. Da parte della sinistra, della Chiesa (Berselli cita, al proposito, i ripetuti interventi di Benedetto XVI). E perfino di esponenti della destra (?) di governo (si pensi a Tremonti). Le alternative, però, non si vedono. I profeti dell'economia sociale e i critici della superstizione monetarista oggi appaiono disarmati.

Berselli offre, al proposito, due spiegazioni controcorrente. E impopolari. Come nel suo stile.

La prima è "culturale". "I maestri latitano, di questi tempi. Sono dispersi anche gli ideologi, quegli intellettuali che avevano la formula per tutto, per qualsiasi problema e soluzione di problema". Cioé: mancano le idee e gli idealisti. Manca, in altri termini, la "cultura politica". Senza la quale la politica stessa diventa sterile.

La seconda spiegazione è conseguente. Per progettare un'alternativa occorre mettere in discussione una convinzione comune alle socialdemocrazie e al neoliberismo. A Confindustria e a molti esponenti della sinistra. L'idea della "crescita", condizione irrinunciabile di sviluppo e benessere. Ebbene, scandisce Berselli, a conclusione del saggio, non è "più" così. Al contrario: "Dovremo abituarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l'abitudine". D'altronde, l'alternativa è tra impoverirsi senza ammetterlo, peggio: senza accorgersene. Oppure affrontare il declino del benessere, l'impoverimento (se vogliamo usare una formula meno aspra, la "minore ricchezza") in modo consapevole. In modo "giusto".

È l'ultima lezione di un intellettuale vero (che sentendosi definire tale si ritrarrebbe inorridito). Edmondo Berselli. Non ha mai temuto di sfidare le convenzioni e i luoghi comuni.
In questi tempi pesanti, senza ironia e senza vergogna, ci mancano (personalmente: molto) il suo sguardo leggero, il suo anticonformismo ironico e autoironico. Le sue idee, destinate a far discutere a lungo. Come questo saggio, che non va considerato una "eredità". Un lascito postumo. Ma un contributo "vivo" e attuale al dibattito sul nostro futuro. 

(10 settembre 2010) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/economia/2010/09/10/news/il_testamento_di_berselli_per_una_societ_pi_giusta-6926764/?ref=HREC1-8


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sondaggi: Il Pdl sotto il 30% a sinistra i giochi sono aperti
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2010, 04:00:37 pm
Atlante politico

Sondaggi: Il Pdl sotto il 30% a sinistra i giochi sono aperti

Sfiducia record per il premier. Nel centrosinistra cresce la concorrenza. E la Lega comincia a logorarsi.

L'Udc tiene ma non cresce e non pare in grado d'imporre l'alternativa di Centro

di ILVO DIAMANTI


L'ORIENTAMENTO degli italiani, in questa fase, appare piuttosto disorientato. Riflesso del disordine che attraversa il sistema politico. Il sondaggio dell'Atlante politico di Demos condotto nei giorni scorsi fornisce, al proposito, molte tracce interessanti.

E una chiave di lettura: l'origine del disordine è, soprattutto, Silvio Berlusconi. Da 16 anni punto di riferimento  -  attrazione e divisione - del sistema partitico e degli atteggiamenti sociali. Oggi appare in difficoltà, insieme al PdL. Non solo in Parlamento, dove i numeri non garantiscono più la maggioranza (certa) alla maggioranza. Anche fra gli elettori. Il PdL, infatti, aveva conquistato il 37% alle elezioni del 2008.

Ora, nelle stime di voto, è sceso appena sotto al 30%. Così il Pd, attestato un poco oltre il 26%, in questa corsa all'indietro fra i partiti maggiori, ha ridotto il distacco. Lega e IdV, gli alleati-concorrenti, non si sono rafforzati. La Lega si mantiene intorno all'11%. Ma, rispetto alla precedente rilevazione di giugno, appare in lieve calo. Mentre i consensi all'IdV, negli ultimi mesi, si sono ridotti in modo vistoso (circa 3 punti rispetto a giugno). Il fatto è che sul mercato elettorale si sono affacciati altri leader e partiti, che, secondo l'Atlante, ottengono consensi crescenti. Fini, Vendola e Grillo. FLI, SEL, il Movimento 5 stelle.

Così il gioco politico è divenuto più competitivo. E, come abbiamo detto, più instabile. Prima causa, il declino elettorale del PdL e il parallelo appannarsi dell'immagine di Berlusconi. La cui condotta, in questa fase, è giudicata almeno "sufficiente" (con un voto pari o superiore a 6) dal 37,6% degli italiani. Si tratta della valutazione peggiore nella storia di questo governo: 5 punti meno di tre mesi fa, 10 rispetto alla rilevazione dello scorso febbraio.

I dati dell'Atlante di Demos suggeriscono, al proposito, alcune spiegazioni.

1. Le difficoltà del PdL e di Berlusconi, in questo momento, riflettono, anzitutto, la crescente sfiducia nel governo. Oggi ha l'approvazione del 30% degli elettori: 11 punti meno di tre mesi fa. Il minimo da quando è cominciata la sua esperienza. Certo, neppure l'opposizione gode di buona salute. Ma questa non è una novità. Semmai un'aggravante, per la maggioranza. Peraltro, anche il giudizio nei confronti delle politiche del governo è negativo. Soprattutto riguardo alle tasse, al federalismo ma in particolare alla disoccupazione. Vero fattore di depressione sociale. Migliore appare il giudizio sull'azione di contrasto alla corruzione (forse per "merito" delle dimissioni di alcuni ministri) e alla crisi economica. Ciò giustifica il consenso verso Tremonti. Il quale ha perduto oltre 6 punti di gradimento negli ultimi mesi, ma resta, comunque, il più apprezzato, tra i leader politici. Molto più del premier.

2. Il sostegno a Berlusconi e al PdL è complicato anche dal conflitto con Fini e con FLI. Certo, Fini ha perduto molta della fiducia di cui disponeva in passato. Ma è, comunque, ancora molto popolare (41,7% di giudizi positivi). E la sua formazione politica, il FLI, nelle stime elettorali, ha superato il 6%. Attingendo voti da centro-sinistra, ma anche da destra. Dove intercetta il consenso di molti "vecchi" elettori di AN che non hanno mai accettato l'ingresso nel PdL. Il partito del premier, dunque, paga la delusione dei settori più tiepidi della propria base e il disamore dei nostalgici di AN. Non a caso, il PdL pare tornato al livello di consensi elettorali ottenuti nel 2001 da Forza Italia. Da sola.

3. Sulla sfiducia verso il premier e il principale partito di governo pesa anche la sensazione di instabilità politica, in un momento particolarmente grave per l'economia. Infatti, la maggioranza (per quanto ridotta) degli elettori pensa  -  realisticamente  - che la legislatura finirà prima della scadenza. Per colpa di Berlusconi.

4. Parallelamente, si percepisce un certo fastidio per il divario abissale tra i problemi della società (soprattutto il lavoro) e i temi del dibattito politico - imposti dal governo e dal premier. La polemica con Fini, il conflitto infinito con la magistratura. Verso cui, non a caso, cresce sensibilmente la fiducia dei cittadini. Mentre il consenso nei confronti del Presidente Napolitano (80%) testimonia quanto sia ampia, nella società, la domanda di stabilità e di moderazione. In questa fase precaria ed esagerata.

5. La Lega, per la prima volta dopo tanto tempo, perde qualcosa nelle stime elettorali. La tecnica di presentarsi come partito di opposizione e di governo, praticata dalla Lega con grande abilità, forse, comincia a logorarsi. E a logorare. D'altronde, è difficile partecipare a un governo impopolare senza venirne, in qualche misura, contagiati. Chiamarsi dentro e fuori, a seconda del momento. Reclamare il voto un giorno sì e l'altro anche. Senza far seguire alle minacce comportamenti coerenti. Rischia di far perdere credibilità. Anche il federalismo, evocato e invocato, dalla Lega. Non si sa quando e se arriverà. Ed è visto come un pericolo da metà del paese. Il Sud. Dove la Lega non prende voti. Ma il PdL sì.

6. Questo clima di instabilità coinvolge anche il resto dello schieramento politico. L'Udc tiene. Ma non cresce. Non pare in grado di imporre l'alternativa di Centro. Perché il Centro, da solo, non è ancora alternativo. Costruire il Partito della Nazione, insieme a FLI, API e altri soggetti, come ha annunciato Casini, potrebbe allargare la concorrenza, invece dei consensi.
Anche a Centrosinistra il gioco è aperto. Soprattutto a Sinistra. Dove il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo e il Sel di Nichi Vendola fanno concorrenza soprattutto a Di Pietro. Il quale, per la prima volta, dopo molti anni, perde consensi, nelle stime elettorali.

7. Nel centrosinistra, la competizione si è aperta anche per quel che riguarda la leadership. Bersani, tutto sommato, tiene. Ma in testa alle preferenze degli elettori di Centrosinistra oggi troviamo Vendola e Chiamparino. Praticamente alla pari. A ridosso di Tremonti (anch'egli candidato alla leadership. Del Centrodestra). Un buon segnale in vista delle primarie annunciate, in caso di elezioni. Se saranno primarie vere...
In generale, come diceva qualcuno prima di noi, c'è grande disordine sotto il nostro cielo. Annuncia grandi cambiamenti. Non è detto che le cose, in seguito, andranno meglio. Ma peggio di così ci pare francamente difficile.
 

(13 settembre 2010) © Riproduzione riservata


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'eterno ritorno dal trasformismo
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2010, 09:13:52 am
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L'eterno ritorno dal trasformismo

di ILVO DIAMANTI

VIVIAMO tempi di grande cambiamento. Di grande trasformazione. Anzi: trasformismo. E dunque di grande continuità, nel Paese di Depretis, del Gattopardo, della Dc e del "consociativismo". Dove da settimane si assiste al tentativo di formare un nuovo gruppo parlamentare, che entri nella maggioranza di governo. Il reclutatore è l'onorevole Nucara, (sedicente) repubblicano (col tempo, si sa, le antiche sigle, anche le più gloriose, perdono significato), su incarico del premier.

Il quale, per primo, aveva sollecitato la transumanza di parlamentari di altri gruppi verso la maggioranza. Garantendo riconoscenza e ricchi premi. Cioè, la ricandidatura e la rielezione. Magari qualche carica di sotto-governo. Alcuni parlamentari contattati parlano di altri incentivi, più concreti e diretti. Insomma, si è aperto una sorta di mercato. Anzi, forse esiste da sempre, visto che pressioni del genere pare ce ne siano state anche al tempo del governo Prodi. Il premier, riferendosi alle nuove reclute, ha obiettato che non si tratterebbe di pentimento  -  o di trasformismo. Le conversioni più numerose, infatti, riguarderebbero parlamentari già eletti con la maggioranza. In questo caso, però, non si capirebbe perché vi sia bisogno di reclutarli. Se non perché nel centrodestra sono confluiti gruppi locali e personali, uniti da interessi puramente elettorali. Oggi, però, il gruppo dei "responsabili"  -  così si definiscono, con molta autoironia inconsapevole, i convertiti  -  è divenuto utile, per neutralizzare l'azione di Fini e Fli. I quali appaiono, al premier, "irresponsabili". Anzi: "dissennati", come li ha definiti sabato. Anche se sono alleati del Pdl e di Berlusconi. Fino a prova contraria.

Insomma, siamo in uno "Stato di confusione". Fondato sul "voto di scambio". Così, Arturo Parisi e Gianfranco Pasquino, oltre 30 anni fa, definirono la conquista  -  e l'acquisizione  -  degli elettori attraverso l'offerta di benefici individuali. Solo che oggi il "voto di scambio" si è trasferito dalla società al Parlamento, dove si pratica e si professa apertamente. Non vogliamo, in questa sede, fare esercizio di sdegno. Peraltro utile e salutare, in tempi nei quali lo sdegno sembra divenuto un atteggiamento démodé. Ci interessa invece indicare, succintamente, i fattori che hanno accelerato la trasformazione trasformista del Parlamento.

1. La prima causa riguarda, ovviamente, il sistema politico italiano. Incapace di generare maggioranze stabili, in grado di governare. E opposizioni forti, in grado di proporre e garantire l'alternativa. La coalizione di centrodestra guidata da Berlusconi ha conquistato la maggioranza parlamentare più ampia nella storia della seconda Repubblica. Non è bastato, se due anni dopo è alla caccia di nuovi deputati e senatori. Per bilanciare Fini, peraltro eletto nel partito di maggioranza relativa, il Pdl, che non c'è più. Non lo dice solo Fini. La pensa così circa un terzo dei suoi elettori, secondo i quali sarebbe meglio tornare ai partiti di prima: Forza Italia e An (Sondaggio Demos, 7-10 settembre, 1176 casi).

2. Il premier, peraltro, non ha intenzione di aprire la crisi. Teme che si formino altre maggioranze a sostegno di altri governi (cosiddetti tecnici). Ma soprattutto teme il voto anticipato. Così, invece di ri-conquistare gli elettori, preferisce conquistare nuovi parlamentari. Con il voto di scambio.

3. Ovviamente, questo gioco è reso possibile dalla debolezza dell'opposizione. Non riesce a fare opposizione a questa iniziativa e, in genere, all'azione di governo. Nella fase di maggior divisione del Pdl e di Berlusconi, non trova di meglio che dividersi a sua volta.

4. Tra i fattori più importanti di questa degenerazione c'è, sicuramente, l'assenza del principio di "responsabilità" degli eletti. I quali non sono e non saranno mai chiamati a "rispondere" direttamente e personalmente del proprio operato. Questa legge elettorale ha abolito ogni tipo di legame fra eletti ed elettori. Non ci sono le preferenze, non ci sono collegi uninominali, dove il rapporto con il territorio e la società è diretto. Il destino dei parlamentari è in mano ai leader e alle segreterie nazionali. A cui spetta la costruzione delle liste. Naturalmente bloccate.

5. È, inoltre, difficile dimenticare la debolezza dei valori, dei programmi, dei progetti su cui si fondano i partiti. Ridotti, perlopiù, a oligarchie distanti dalla società. O ad aggregati al servizio di un leader. Privi di fondamento dal punto di vista sociale, territoriale e dell'identità. Per chi ne fa parte, i vincoli etici e di rappresentanza rischiano di contare meno degli interessi e delle convenienze personali.

Questa fase di trasformazione trasformista produce alcune conseguenze significative. Ne indichiamo due.
a. La prima agisce sul piano civico e sociale. Gli italiani: non hanno mai avuto grande fiducia nella politica e nei politici, nello Stato e nelle istituzioni. Questa deriva trasformista non fa che accentuare questo atteggiamento. Non ci si scandalizza quasi più di nulla. In particolare, si è affermata la convinzione che tutto sia lecito, pur di governare. Che le maggioranze si possano fare e disfare a piacimento. È solo questione di prezzo. Che le elezioni non servano. Tanto poi, in Parlamento, tutto si fa e si disfa. Maggioranze e partiti. Al di fuori di ogni responsabilità politica e personale. È solo questione di prezzo.

b. La seconda richiama direttamente l'ambito politico. Questo mercato dei parlamentari, nel caso il governo dovesse cadere, giustifica la ricerca di maggioranze diverse. Magari a sostegno di governi tecnici e di emergenza. (Lo ha affermato anche Casini a Sky, intervistato da Maria Latella.)

Infine, una considerazione.
Se il Parlamento rappresenta i cittadini, se la maggioranza di governo rappresenta la "volontà popolare". E se la rappresentanza, in fondo, è come uno specchio. Allora è meglio che lo specchio vada in mille pezzi. In altri termini: occorre cambiare questa legge elettorale, che alimenta l'irresponsabilità degli eletti. Con ogni mezzo. Per non perdere gli occhi e l'anima guardandosi allo specchio.

(20 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/20/news/trasformismo_diamanti-7239161/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Un governo che non fa ma che "dice" di fare
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2010, 04:02:45 pm
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Un governo che non fa ma che "dice" di fare

di ILVO DIAMANTI

"A questo punto è cambiato tutto. Nessuno può pensare che il quadro politico resti a lungo lo stesso". Per Gianfranco Fini si è tratto di un vero e proprio "day after". Il videomessaggio di sabato è stato vissuto come un momento di passaggio.

È sottinteso che i politici sono gli altri: nemici e traditori, perché lui - si sa - non è un politico, ma un imprenditore. Che fa politica da 17 anni, ma per il bene comune. Il Premier parla come se intorno a lui nulla fosse accaduto, in questi due anni e mezzo. Un silenzio rotto da scandali e polemiche, che si susseguono senza soluzione di continuità. Ultimo atto, per ora, le dichiarazioni di Fini sull'appartamento di Montecarlo. Video-registrate e trasmesse sul web. Fini, in verità, non ha chiarito molto, circa le vicende che lo riguardano. Ha ribadito la propria buona fede e ha inveito, a sua volta, contro lo spettacolo della politica. Deprimente. (Nessuno, davvero, che ammetta di farne parte). Pronto a dimettersi, se le accuse nei suoi confronti venissero confermate. Fini si è scagliato, anch'egli, contro l'aggressione mediatica. Solo che, in questo caso, si tratta dei media vicini al Premier e al governo.

Sorprende, quindi, che il Premier rivendichi il silenzio, come stile di lavoro, mentre intorno a lui il rumore si fa sempre più forte. D'altronde, più che "fare", questo governo "dice". E i fatti che, in questi due anni e mezzo, ha esibito, come esempi di concretezza ed efficacia, sembrano, in molti casi, ancora "da fare". Rammentiamo. Il governo ha usato, come prove di "rendimento" della propria azione, le emergenze affrontate. Associate a luoghi noti. Devastati. Città sconvolte. Paesaggi stravolti. Napoli sepolta dall'immondizia. L'Aquila distrutta dal terremoto. E poi, la crisi economica. La disoccupazione in crescita. Anche in questo caso: un'emergenza concreta, visibile, come gli operai senza lavoro e le imprese che chiudono. Questioni drammatiche, puntualmente risolte.

Oggi gli stessi luoghi ritornano. Ma offrono un'immagine poco diversa da allora. Napoli ancora sepolta dai rifiuti. Le discariche stracolme, i camion bruciati. All'Aquila, gli abitanti che protestano per una ricostruzione che tarda a venire (o partire?). Un anno e mezzo dopo la tragedia, la città è ancora disseminata di rovine. Molti residenti: confinati altrove. Gli scandali hanno gettato sospetti pesanti sulla Protezione Civile. Mentre la confusione aumenta. Al punto da indurre il sindaco dell'Aquila, Cialente, vicecommissario vicario alla ricostruzione, a dimettersi. In polemica con la sovrapposizione di nomine e i ritardi negli interventi. Provocando la reazione di Berlusconi. Che ha definito la scelta di Cialente inopportuna. Contraria alla filosofia del "fare" che ispira il Premier. Costretto, invece, a dire e a polemizzare. Contro il sindaco di una città-simbolo. Contro i media che non ammettono e non "dicono" quanto di buono abbia fatto il governo. E contro Confindustria, che per bocca della presidente, Emma Marcegaglia, ha affermato di aver quasi perduto la pazienza. Perché è venuta "l'ora di agire". Dopo tante parole: dal governo si attendono i fatti. E Bossi le replica che "in questo Paese molti parlano e pochi sanno cosa fare". Appunto.

A metà legislatura, si parla molto dei fatti. Ma è difficile capire a cosa ci si riferisca. Anche perché i luoghi di cui si discute, si sono spostati altrove. Lontano dall'Aquila e da Napoli. Oggi le polemiche si concentrano su altre città, che evocano altri problemi. Montecarlo e Santa Lucia. Che non è un quartiere di Napoli, ma un'isola (e uno stato) dei Caraibi. Se ne occupano i politici - e i media - della maggioranza per incalzare Fini, presidente "abusivo" della Camera. Indegno e traditore. A capo di una corrente, forse un partito. Che, tuttavia, appartiene alla maggioranza. Fino a prova contraria.

Così, il dibattito politico, da mesi, insiste su un appartamento che un tempo era di An. Acquistato non si sa da chi. Forse dal cognato di Fini. Forse no. Mentre prima tutto girava intorno al tema delle intercettazioni. Sgradite al Premier. Al "governo del fare", alla maggioranza silenziosa - che "fa in silenzio" (ma, in compenso, parla anche troppo al telefono). E non si perde in polemiche sterili. Ma va alla conquista di nuovi volti e nuovi voti in Parlamento. Per rendere ininfluente il sostegno di Fli. Perché altrimenti la maggioranza, questa maggioranza, rischia di non essere tale. Cioè: maggioranza. Ma questa maggioranza, la più larga della storia della Seconda Repubblica (ma, al tempo stesso, divisa come le precedenti), due anni dopo le elezioni, si interroga, un giorno sì e l'altro anche: se sia il caso di aprire la crisi, di votare di nuovo. Altrove, quando il governo arranca e "dice" di fare - invece di fare piuttosto che dire. Quando spende tante parole per dire che preferisce il silenzio. Quando trascorre il tempo a dividersi e a combattersi all'interno. Normalmente, l'opposizione avanza. Ci guadagna. Sfidata, semmai, da soggetti antipolitici. Qui, però, non avviene. L'opposizione la fanno Fini e Confindustria. Tuttavia, il Centrosinistra deve rassegnarsi alle elezioni. Non tarderanno troppo. Perché - per usare le parole del Premier - la politica è un disastro, la stampa nemica e Fini un traditore. E non c'è peggiore opposizione di quella amica. Per cui il Centrosinistra, l'Ulivo, oppure il Centro-Sinistra-con-il-trattino, a seconda degli scenari, si deve preparare. Presto. Deve provare a scrivere una nuova legge elettorale - con chi ci sta. Se è possibile. E se non lo fosse, deve, comunque, costruire un'alternativa credibile. Al di là dei programmi e dei progetti, al di là delle critiche al governo e al Premier (per quello ci sono già i loro alleati): basterebbe proporre una leadership condivisa. Un candidato comune. Presto. Sappiamo bene che non è poco. Che siamo monotoni. Ma a noi non dispiace ripeterci, se è utile. E non ci rassegniamo. A questa narrazione irreale della realtà.

(27 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - Alla sinistra della delusione
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2010, 12:03:59 pm
L'ANALISI

Alla sinistra della delusione

di ILVO DIAMANTI


A SINISTRA del centrosinistra i consensi crescono. Ormai si aggirano intorno all'11%. Più che di una novità, si tratta di un ritorno. Alle elezioni politiche del 2006, infatti, le formazioni a sinistra della sinistra (da qui: Sinistra) avevano, infatti, superato il 10%. In termini assoluti: circa 3 milioni e 900mila voti. Alle consultazioni del 2008, però, quest'area si riduce al 3%. Tutti compresi: Rc, Comunisti Italiani, Verdi, più le nuove formazioni uscite dai Ds dopo la nascita del (e la confluenza nel) Pd. Il che significa: 7 punti percentuali e 2 milioni e settecentomila voti meno del 2006. Più che un calo: un tracollo. Le cui ragioni sono diverse e, in parte, note.

1. In primo luogo, la strategia del Pd di Veltroni, che  -  come Berlusconi - interpreta il bipolarismo in senso bipartitico - o quasi. Da un lato il Pdl insieme alla Lega, dall'altro il Pd alleato con l'Idv di Antonio Di Pietro. La legge elettorale, che premia la coalizione vincente, spinge molti elettori della Sinistra  -  per non "sprecare" il voto  -  a scegliere il Pd e (in maggior numero) l'Idv. Ma, soprattutto, ad astenersi.

2. La Sinistra, inoltre, paga la posizione ambigua assunta durante il governo Prodi. Sempre in bilico tra maggioranza e defezione.

Rispetto al 2006, il Pd cresce di 2 punti e, in termini assoluti, di neppure 200 mila voti. Mentre l'Idv supera il 4% e aumenta di 700 mila voti. In sintesi: dal bacino elettorale di centrosinistra scompaiono circa 2 milioni di elettori di Sinistra.

Oggi, due anni dopo, la Sinistra sembra ritornata oltre il 10%. Rifondazione e i Comunisti Italiani, in realtà, non vanno oltre  il 2%. Ma Sinistra e Libertà (Sel), guidata da Nichi Vendola, raggiunge il 5%. E il Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo, supera il 4%. Si tratta di tendenze rilevate dai principali istituti demoscopici. Parallelamente, i maggiori partiti di centrosinistra appaiono in difficoltà. Il Pd sembra sceso sotto la soglia critica del 26%. Anche l'Idv, però, ha smesso di crescere e si è attestata intorno al 6-7%.

Il ritorno della Sinistra, trainato da SeL e dal Movimento 5 Stelle, sembra favorito, soprattutto, da due motivi.

a. Hanno, entrambi, una (sola) leadership: forte e personalizzata, anche se espressa da figure molto diverse. Nichi Vendola ha una lunga storia politica e di partito. Viene dalla Figc, ha militato nel Pci e in Rc. È presidente di Regione. Mentre Beppe Grillo è un outsider della politica. Uomo di spettacolo, anch'egli una lunga esperienza alle spalle. Entrambi figure di "rottura". Vendola, comunista e omosessuale, ha fatto della sua diversità un elemento "normale", perché non esibito. Ma per questo più provocatorio, politicamente. Ha ulteriormente legittimato la sua "diversità" sfidando il gruppo dirigente del Pd che non lo voleva candidato alla guida della Puglia. Grillo, da tempo, agisce "in proprio". Al tempo stesso attore e predicatore, riempie le piazze e i teatri, mettendo in scena la denuncia all'establishment politico, economico e finanziario. È un grande comunicatore. Come Nichi Vendola, in grado di parlare al "popolo". Non solo di sinistra.

b. Entrambi dispongono di un'efficiente comunicazione post-politica (per citare Berselli). Condotta attraverso Internet, accompagnata da mobilitazioni tematiche. Grillo: riferimento di una rete di blog e MeetUp tra le più frequentate al mondo. Promuove manifestazioni affollate e di grande visibilità. Da ultimo, la Woodstock 5 Stelle che si è svolta a Cesena una settimana fa. Vendola: a sua volta, ispiratore di una lunghissima e frequentatissima catena di blog e di pagine su Facebook. La sua Fabbrica (echeggia quella di Prodi) è diffusa sul territorio nazionale.

c. Entrambi  interpretano la personalizzazione mediatica della politica, imposta da Berlusconi. In modo, ovviamente, antagonista. Non indulgono alle mediazioni politiche e linguistiche. Non ne hanno bisogno (per ora).

d. Entrambi i partiti  dispongono di una base di militanti e di elettori molto diversa da quella del Pd e di Idv. Più giovane e istruita, maggiormente addensata nei centri urbani. Quanto a Sel: spostata a Sud.

Peraltro, le differenze tra i due soggetti sono significative. Nichi Vendola considera il centrosinistra la sua "casa". Il Pd l'interlocutore naturale. E gli elettori del Pd, peraltro, lo guardano, a loro volta, come un possibile leader della coalizione. Mentre il Movimento 5 Stelle ha, come riferimenti, i comitati del No (Tav, Dal Molin, Global, ecc...). Oltre a settori sociali apertamente anti-politici (ammesso che il termine abbia un significato). Non a caso, quasi un terzo dei suoi simpatizzanti si pone "fuori" dallo spazio Destra/Sinistra. Non a caso, peraltro, alcuni "militanti" di 5 Stelle si sono resi protagonisti di contestazioni clamorose durante la Festa nazionale del Pd, a Torino.

Questo scenario pone, peraltro, significativi problemi: ai principali partiti di Centrosinistra ma anche a quelli della Sinistra.

1. Sel e 5 Stelle appaiono pericolosi concorrenti per l'Idv. A sua volta, un partito personale  -  o, almeno, molto personalizzato. Che ha fatto dell'antagonismo a Berlusconi il distintivo.

2. Al Pd, invece, l'esempio della Sinistra  rammenta ciò che gli manca, in questa fase difficile. Anzitutto, una  -  "una" - leadership personale forte e condivisa. Poi: temi chiari  -  "chiari" - intorno a cui comunicare la proposta politica. (Per comunicare in modo efficace, occorre sapere "cosa" comunicare.) Ancora: un'organizzazione aperta e flessibile. In grado di  mobilitare. Perché "personalizzazione" non significa scomparsa delle persone e della società.

3. Quanto alla Sinistra, il problema principale riguarda la "tenuta". 5 Stelle viaggia sulla rete. Sel è strutturata per esperienze diffuse, ma ancora poco radicate. E presenti soprattutto nel Sud. Per garantirsi stabilità, però, occorre stare sul territorio. Le mobilitazioni fondate sul No (-B) non bastano. Talora (come quella Viola, di sabato) neppure mobilitano troppo.

4. C'è, infine, la questione delle alleanze. Riguarda tutti: Sinistra e Centrosinistra. Oggi e soprattutto domani. Quando (presto, immaginiamo) si andrà a  nuove elezioni. Con quali alleanze? Perché se il Centrodestra è diviso, il resto dello spazio politico rischia di esserlo molto di più. Con questa legge elettorale: premessa di sconfitta sicura. Gli spazi  -  e i seggi  -  rischiano di ridursi per tutti. Anzitutto per il Pd. Ma il Centrosinistra e la Sinistra sono disponibili a cercare e a costruire alleanze, tra loro e, se necessario, con i partiti di Centro e la "Cosa" di Fini? La questione, probabilmente, non interessa Grillo e 5 Stelle. Ma avrebbe conseguenze anche per loro. Fare  -  comunque, apparire -  un'opposizione sterile, come il Pd in questa fase, è frustrante. Ma la tentazione  -  diffusa nella Sinistra - di fare opposizione "a prescindere", non per vincere e governare. Alla lunga  -  e forse anche alla breve  -  logora. E rischia di fare apparire la Sinistra - ai suoi stessi elettori - "inutile".

(04 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - Paura del silenzio
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2010, 11:11:42 pm
Paura del silenzio

Ilvo Diamanti

Ieri ho partecipato al funerale di un amico di famiglia. Se n'è andato dopo una malattia lunga e penosa, per sé e per i propri cari. La Chiesa era molto affollata, visto il giorno e l'ora. Nei paesi, d'altronde, la gente si conosce bene. I riti che scandiscono vita e morte sono ancora seguiti. Un segno di coesione sociale. Comunque, un tentativo di riprodurre la comunità. A fine cerimonia, mentre la bara attraversava la Chiesa, spinta dai necrofori, è scattato l'applauso. Immancabile. Ormai, fa parte, anch'esso, della cerimonia. È un rito. L'applauso dopo la morte, nell'ultimo tratto di percorso prima della sepoltura. Invece del silenzio di un tempo: un applauso lungo. Quasi caloroso, per smorzare il clima rigido. E grigio. È come non ci fosse più indulgenza per il silenzio. Neppure di fronte alla morte. Nessuna tolleranza, neppure per la tristezza. Occorre sopirla in fretta, rompere il silenzio. Con l'applauso. Che, certo, fa sentire l'affetto dei presenti ai familiari. Ma serve anche e, forse, soprattutto, a consolare gli altri. Noi. Incapaci di sopportare il silenzio e la tristezza. Così ci immerge in mezzo ai suoni e al fragore. Dovunque e in ogni momento del giorno. Anche quando si cammina: le cuffie e l'iPod ci isolano dagli altri. Sperduti nella musica che gira intorno.

La morte, il dolore: diventano accettabili solo come spettacolo. Come avviene, da giorni, per il caso della povera Sarah Scazzi. Su cui tutti si interrogano Davanti alla tv. Aprendo i giornali. A ogni ora del giorno. La morte altrui:
esorcizzata trasformandola in un feuilleton. Un'inchiesta noire, a cui milioni di persone assistono in diretta. Minuto per minuto. Entrano nella casa dell'assassino  -  presunto. Scrutano nel volto dei parenti delle vittime. Si interrogano sui moventi e sui movimenti. La "morte in diretta" (e  -  più ancora - "in differita", come ha scritto Aldo Grasso) permette a tutti di esorcizzare la morte. Lo "spettacolo del dolore" permette a tutti di esorcizzare il dolore. Così, la televisione diventa "la nuova terra del rimorso" (per citare Francesco Merlo). Dove il rimorso è un'eco debole e lontana.  Un suono sottile in mezzo al rumore. Dove il dolore privato genera inquietudine. Per cui viene "messo in scena": diventa pubblico. Esibito in mezzo a persone che diventano, a loro volta, "pubblico". Così, in Chiesa, alla fine del rito funebre, si applaude.  Per paura del silenzio. Lo spettacolo è finito. Andate in pace.

(21 ottobre 2010)
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Titolo: I. DIAMANTI - 55% pensa che il peso di Berlusconi sui media danneggi la libertà
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2010, 05:25:14 pm
MAPPE

Tv, la "vita indiretta" degli italiani a picco la fiducia in Tg1 e Tg5

Secondo il sondaggio Demos-Coop sull'informazione vanno bene Sky e La7.

Ballarò il talk show più affidabile.

Il 55% pensa che il peso di Berlusconi sui media danneggi la libertà

di ILVO DIAMANTI


ORMAI è difficile distinguere fra media, politica e vita reale. È quasi un luogo comune. Tuttavia, è inevitabile, soprattutto in questi giorni. Mentre infuria il dibattito sulla censura ai programmi e ai giornalisti in televisione. Sui giornali-partito oppure al servizio dei partiti (personali). Mentre imperversa lo spettacolo quotidiano del dolore. Il sondaggio annuale sugli "italiani e l'informazione", condotto dall'Osservatorio Demos-Coop, d'altronde, offre una raffigurazione perfino "spettacolare" di questo Paese sospeso tra realtà e rappresentazione.

Ne isoliamo gli aspetti, a nostro avviso, più significativi.
1. Il primo riguarda, non a caso, il ruolo (ancora) dominante della televisione. Oltre 8 italiani su 10 continuano, infatti, a informarsi quotidianamente in tivù, attraverso i canali nazionali. È stabile, rispetto all'anno scorso, la quota di persone - una su tre - che ricorre regolarmente ai quotidiani. Lo stesso discorso vale per internet. Mentre gli ascoltatori assidui della radio non solo tengono, ma crescono perfino un poco (43%: tre punti in più). Dunque, si profila uno scenario stabile. Nell'insieme, però. Perché all'interno si colgono cambiamenti molto significativi.
2. La variazione più evidente rispetto allo scorso anno coincide con il sensibile calo di fiducia subìto dai maggiori telegiornali di Rai e Mediaset. Ormai condividono lo stesso destino, come una sola, unica impresa: MediaRai. La fiducia verso il Tg 1 si attesta al 53%. Cioè, 10 punti meno di un anno fa, ma addirittura 16 rispetto al 2007. Il Tg 5 considerato "affidabile" dal 49% degli italiani: 8 in meno dell'anno scorso. Anche gli altri telegiornali di MediaRai calano. Ad eccezione del Tg 3, che mantiene un consenso molto elevato (63%) e, ancor più, dei Tg regionali Rai. I più apprezzati.

Cresce, invece, il gradimento verso i Tg de La 7 (ora diretto da Mentana), Sky e Rai news 24 (quest'ultima, presumibilmente, trainata dal Tg 3, che spesso ne diffonde le edizioni). Il che spiega, in parte, l'andamento deludente dei principali notiziari di MediaRai, confermato anche sul piano degli ascolti Auditel. La concorrenza è favorita anche da altri fattori. Sky e La 7, in particolare, sono ritenuti, non a torto, meno condizionati politicamente. Il posizionamento politico penalizza, inoltre e non a caso, soprattutto il Tg 1, la cui identità, presso il pubblico, appare sensibilmente cambiata. Era al centro, anzi: il Centro. Un Tg ecumenico. Oggi, invece, appare sempre più spostato verso destra. Visto che ottiene il massimo della fiducia tra gli elettori del Pdl e della Lega. Il "nuovo centro", invece, appare Sky Tg 24. Anche se occupa uno spazio più ridotto. Come quello politico, d'altronde.

3. Al contrario dei notiziari, i programmi di dibattito e approfondimento politico e sociale non sembrano soffrire. Ballarò si conferma la trasmissione più affidabile per gli italiani. Ma Anno Zero, di Michele Santoro, nell'ultimo anno, ha visto crescere molto il gradimento del pubblico. Come, d'altronde, Report di Milena Gabanelli. Trasmissioni apprezzate soprattutto dal pubblico di centrosinistra, rivelano il paradosso di questo Paese, schifato dalla politica, che, tuttavia, sente bisogno di politica. E si rivolge, per questo, alla televisione. Non a caso, cresce il gradimento dei due programmi de La 7: Otto e mezzo, condotto da Lilli Gruber (6 punti in più nell'ultimo anno, addirittura 11 negli ultimi tre) e L'Infedele di Gad Lerner (anch'esso 6 punti in più nell'ultimo anno). Contribuiscono al successo della rete, dettato, soprattutto, dal ruolo attribuito all'informazione. Porta a Porta e Matrix vedono scendere, di poco, la fiducia nei loro confronti. Forse perché si tratta di programmi spostati, sempre più, in direzione dell'infotainment.
Un terreno battuto, in modo esplicito, da altre trasmissioni, che, anzi, antepongono l'intrattenimento e, talora, la satira. Con risultati molto significativi. Striscia e le Iene, ma anche il salotto di Fazio risultano molto graditi e ottengono ascolti super. Il che precisa ulteriormente il paradosso precedente. La politica e i politici sollevano il disprezzo ma anche l'interesse popolare. Fanno spettacolo. Raccontano i fatti nostri (e vostri).

4. Oggi, d'altronde, è difficile anche distinguere tra spettacolo e vita. Nell'omicidio di Sarah Scazzi, in particolare, i confini sono invisibili. La scena, ormai, è unica. Confusa. Affollata da personaggi numerosi e indistinti. I familiari e i congiunti della vittima, insieme a quelli dei presunti assassini e complici. Insieme ai conduttori e ai sedicenti opinionisti dei programmi del pomeriggio e della seconda serata. Poi i giornalisti. Gli inviati ad Avetrana. Embedded. Parte delle stessa rappresentazione. Certo: i programmi del pomeriggio hanno un pubblico ben definito. Donne, casalinghe, anziani e pensionati. Quelli che passano più di 4 ore davanti alla tivù ogni giorno. Ma abbiamo l'impressione che Avetrana sia divenuta teatro di uno spettacolo su cui tutti gettano lo sguardo, con attenzione diversa e intermittente.

5. L'importanza della tivù non deve fare dimenticare le trasformazioni prodotte dalle nuove tecnologie della comunicazione. Internet, i Social Network, Twitter e Facebook, Skype. D'altra parte, il 40% degli italiani - soprattutto giovani e istruiti - è, ormai, connesso quotidianamente in rete. Dove si informa, chatta, compra, vende, partecipa, "si mostra". È la comunità in Rete, che forza i confini della società ridotta a una platea di spettatori.

6. Eppure, mentre si assiste all'avvento dei nuovi media, il sondaggio dell'Osservatorio Demos-Coop sottolinea l'importanza dei media "tradizionali". Magari "innovati" e ibridati dalle nuove tecnologie, come avviene per i quotidiani online. Il che riproduce - e ripropone - l'immagine dell'Italia come un Paese, anzi: un "paese" raccolto davanti alla tivù. Dove si mette in scena lo spettacolo della vita, del dolore e del divertimento, della politica e della compassione. A cui tutti, o quasi, vorrebbero - e cercano di - partecipare. Se non da protagonisti, almeno da comparse. Di cui tutti si sentono parte. Per questo anche noi, come il 55% degli italiani, riteniamo che la posizione dominante di Berlusconi sui media danneggi la libertà di informazione. E, come il 62% degli intervistati, pensiamo che condizioni la vita politica nazionale. Tuttavia, siamo convinti che non basteranno leggi e regole nuove a ridimensionare l'influenza del Cavaliere. Perché viviamo in un paese mediale plasmato da lui. Pensiamo di assistere alla vita in diretta. E invece viviamo una vita indiretta.

(25 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - L'Italia che si aggrappa alla famiglia
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2010, 11:58:25 am
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L'Italia che si aggrappa alla famiglia

E' l'unico ammortizzatore sociale

di ILVO DIAMANTI

SENZA famiglia: cosa sarebbe l'Italia? Eppure, al di là delle promesse e dei proclami, continua ad essere dimenticata dalla politica e dalle politiche. Anche se resta il principale attore e ammortizzatore sociale. Pensiamo al lavoro. O meglio: al non-lavoro, che sta assumendo proporzioni preoccupanti. Soprattutto fra i giovani. Il tasso di disoccupazione giovanile, infatti, in Italia, supera il 26%: 6 punti più della media europea (dati Eurostat). Ma nel Mezzogiorno un giovane su tre è senza lavoro.

Diciamo cose note, non solo agli esperti. Non a caso, in Italia, la disoccupazione è in testa all'agenda dei problemi, secondo oltre metà della popolazione (Demos per Osservatorio europeo sulla sicurezza, settembre 2010). Eppure, il grado di reazione e di protesta sociale è ancora limitato. Soprattutto fra i giovani. Niente a che vedere con la Francia, dove l'innalzamento dell'età pensionabile da 60 a 62 anni ha provocato un ciclo di scioperi ampio e generalizzato, che paralizza il Paese da settimane.  Coinvolgendo i lavoratori di ogni settore, ma anche numerosi studenti  -  soprattutto dei licei. Preoccupati non tanto delle pensioni, ma del proprio incerto futuro. D'altronde, in Francia e ancora più in Italia, le prospettive dei giovani sono inquietanti. Per riprendere un'osservazione di Edmondo Berselli (nel saggio "L'economia giusta", pubblicato da Einaudi), "si è interrotto il ciclo galbraithiano, quel processo che permetteva a
ogni generazione di migliorare la propria condizione rispetto a quella precedente". Oggi, infatti, circa il 60% degli italiani ritiene, realisticamente, che i giovani avranno una posizione sociale peggiore rispetto a quella dei genitori.

Eppure i giovani non si ribellano. E neppure i loro genitori. Certo: la società è scossa da una sfiducia cronica.  Profonda e generalizzata. Verso tutto e tutti. Politica e politici, governo e opposizione, banche e banchieri, sindacati e associazioni di categoria. Stato e istituzioni. Gli italiani hanno perso fiducia perfino nella Chiesa. Tiene solo il Presidente della Repubblica. Di qualcuno bisogna pure fidarsi, d'altronde, visto che non ci si fida neppure degli "altri". Che ci potrebbero fregare  -  come pensano, in cuor loro, due persone su tre (Demos-Coop, 2009).  Eppure, per quanto affondati in un oceano di delusione, gli italiani sopportano. Perché? La spiegazione  -  non l'unica, ma certo la principale - è piuttosto semplice, ancorché non semplicistica. Visto che in Italia c'è un solo riferimento capace di sostenere e di tenere insieme una situazione tanto precaria e traballante.

La Famiglia. Sottoposta a tensioni demografiche, etiche, organizzative. Non è più quella di una volta. Però, nonostante tutto, il 90% degli italiani la considera ancora il riferimento più affidabile. Ne è soddisfatto quasi il 100% (indagini Demos-Coop: 2006-7). Se i giovani non si ribellano, pur navigando a vista, tra disoccupazione e precarietà, affrontando cicli scolastici e universitari dagli sbocchi sempre più incerti, è perché la famiglia li protegge. Per il futuro professionale: i giovani contano sull'aiuto dei parenti e dei familiari (per il 40% di loro, il fattore di successo nel lavoro più importante: indagine laPolis per Coop Adriatica, dicembre 2009). Gli stessi imprenditori, per affrontare il passaggio di generazione preferiscono "mantenere la proprietà e la gestione dell'azienda all'interno della famiglia". Come sostiene il 47% del campione intervistato quest'anno nell'ambito di una ricerca per Confindustria (Demos, gennaio 2010). Un anno prima la pensava in questo modo il 29%.

La crisi, evidentemente, ha rafforzato i legami più stretti. Anche perché il mondo della finanza e dei manager, diciamolo pure, non ha dato grande prova di sé in questi tempi. La famiglia. Di fronte al ridursi della spesa pubblica, ha aumentato il suo ruolo di welfare alternativo e sostitutivo rispetto allo Stato. Continua ad assumersi il peso principale nell'assistenza agli anziani (magari con la collaborazione delle badanti: ormai circa un milione, tra regolari e irregolari. Cfr. i dati Inps e le stime della Caritas e della Bocconi). Ma resta anche la principale rete di sostegno ai più giovani. Ai figli, che restano in casa sempre più a lungo; fin oltre i trent'anni. Anche se sono sempre di passaggio: fra studio, lavoro precario, stage, esperienze all'estero. E quando vanno ad abitare per conto proprio, perlopiù, si trasferiscono nell'appartamento di fronte, nella casa accanto, nella via poco più in là. Quasi tutti restano nei dintorni. Così i nonni si occupano dei nipoti e, a loro volta, vengono assistiti dai figli, quando ne hanno bisogno. Sono le "famiglie grappolo", di cui parlano i demografi Francesco Billari e Gianpiero Dalla Zuanna (La rivoluzione nella culla. Il declino che non c'è, Ed. Bocconi, 2008). Reti familiari dove si scambiano aiuti, tempo, risorse e servizi, in modo continuativo.

Ebbene, questa famiglia appare ormai sovraccarica di compiti e di funzioni, che affronta con crescente fatica. Anche al proprio interno. I figli lamentano che i genitori hanno perso autorità. Che gli anziani chiudono loro gli spazi di autonomia e di affermazione, nella vita, nella società, nel lavoro. Tuttavia, non si possono ribellare, visti i legami di reciproca dipendenza e necessità (ma anche di affetto). Sempre più stretti. Peraltro, la famiglia esercita, inevitabilmente, un'influenza "conservativa" sul piano sociale. Ciascuno protegge e favorisce i figli: nel lavoro, nella professione, nella carriera.

La famiglia: in Italia, più che altrove, è utilizzata come bandiera e ideologia dai soggetti politici. Ma, come sottolineano Daniela Del Boca e Alessandro Rosina (Famiglie sole, Il Mulino 2009), è, più che altrove, abbandonata dalle politiche sociali. Pochi servizi sociali alle donne che lavorano. Sul piano fiscale, poca (nessuna) attenzione per chi ha figli - e magari coniuge  -  a carico. È una famiglia "stressata", come ha rilevato l'ultimo rapporto del Censis. Impegnata a resistere con crescente difficoltà. Il filo residuo della tela logora di questo Paese logoro. Si sta logorando a sua volta. E rischia di spezzarsi.

(01 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - L'alluvione a Vicenza cronaca di una tragedia minore
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2010, 11:26:34 am
L'alluvione a Vicenza cronaca di una tragedia minore


Ancora non mi capacito. Di come il Bacchiglione abbia potuto allagare Cresole, località di Caldogno  -  casa mia. E le strade, le piazze del centro di Vicenza, proprio sotto al mio studio. Allagare, peraltro, è un eufemismo. Visto che si è trattato di un'alluvione disastrosa. Che ha provocato danni immensi. Alcune vittime. Migliaia di persone con la casa danneggiata, spesso in modo molto serio. Abitazioni affondate nel fango. Insieme a ciò che contenevano. E uffici, garage, automobili. Ieri, quando mi sono mosso da casa, un paio di chilometri dai luoghi alluvionati, ancora non me ne rendevo conto. Ma era impossibile circolare. Tutte le strade che percorro, quotidianamente, per recarmi a Vicenza oppure per raggiungere l'autostrada, a Dueville, bloccate.

E ancora non mi rendo conto di come possa essere accaduto. Il Bacchiglione - il fiume  che ha travolto tutto, da Vivaro a Vicenza, passando per Cresole e Rettorgole, località di Caldogno - io lo conosco bene. Quando ho tempo e il tempo lo permette, lo risalgo in bici, lungo il greto. Vi entro al confine con Vicenza, il Ponte del Marchese, al confine con il Dal Molin, l'area dove, un giorno dopo l'altro, con rapidità sorprendente (e inquietudine immutata), vedo sorgere la base americana.

Da lì risalgo. Da una parte il corso d'acqua, dall'altro la campagna. Arrivato a Cresole, attraverso la strada e proseguo ancora, fino a Vivaro. Poi, di nuovo, passo la strada e continuo, in mezzo ai campi, costeggiando il Bacchiglione. Che definire "fiume" è sicuramente esagerato. Lì è un torrente che puoi attraversare in molti, diversi punti. A piedi. Visto che l'acqua è poca. Consumata dai campi. Cambia nome spesso, il Bacchiglione. Quando si avvicina a Vicenza si chiama Livelòn. In alcuni punti, d'estate, diventa Livelòn Beach, dove molti vicentini vengono a bagnarsi  -  fare il bagno è un po' impegnativo. E a prendere il sole. Non riesco davvero a rendermi conto di come possa essere successo. Cosa abbia potuto trasformare il mio percorso salutista  -  che mi permette di stare per un poco solo con me stesso - in un fiume killer. Capace di travolgere tutto e tutti. Non è la valle del Nilo. Non ci sono colline che franano, intorno. Anche se sotto c'è un bacino di falde acquifere fra i più ampi d'Europa. Due giorni di pioggia improvvisa, battente e ininterrotta, insieme allo sciogliersi rapido delle nevi nelle montagne vicine (complici lo scirocco e un veloce rialzo della temperatura. Tutto ciò ha trasformato un torrente nel Nilo in piena. Inimmaginabile, per me. Anche se, in questi anni, ho visto  -  e raccontato  -  cose che voi umani...

Un territorio verde: urbanizzato senza limiti e senza regole. Caldogno, da quando sono arrivato, negli anni Ottanta, è passato da 4 a oltre diecimila abitanti. Nei prossimi anni dovrebbe superare il 20 mila. È la previsione che orienta le scelte urbanistiche. (Forse si attende l'arrivo degli americani.) Le strade, punteggiate di rotatorie, sempre più numerose. Spesso in punti incomprensibili: in mezzo ai campi  -  indicano che lì nascerà, presto, una nuova entità immobiliare. Un nuovo non-luogo abitato da stranieri. (Perlopiù "italiani"; ma stranieri perché estranei l'un l'altro.) E poi capannoni, zone artigianali e commerciali. E piscine, centri sportivi. Il territorio scompare, o comunque si nasconde. Non per caso avevo scelto quel torrente per i miei giri in bici. Ormai si tratta dell'unico percorso sicuro e tranquillo. Poche le piste ciclabili e sulle strade normali, anche le più periferiche, andare in bici è da pazzi. Io stesso, quando viaggio in auto, ne ho paura. E li "investo" ... di male parole. Difficile chiedere troppo ai fiumi  -  e alle loro imitazioni. Difficile chiedere ai torrenti di fare gli straordinari, di affrontare prove e sfide straordinarie. Di domare l'irruzione di piene improvvise e imprevedibili. Gli argini, spesso, non ci sono più. E, comunque, i campi intorno non tengono. Anche perché, in molti casi, "livellati" dai cavatori. Le case sono lì a due passi. Sempre più vicine. L'acqua, uscita dagli argini, arriva in un attimo. E quando scende verso Vicenza, sempre più tumultuosa, non incontra più l'ultimo rifugio, l'ultimo sfogo. Il Dal Molin. È  impermeabilizzato, messo in sicurezza. Oggi più che mai. Così l'onda scivola via. Prosegue sempre più grossa. E si abbatte su Vicenza senza ostacoli, senza freni, senza limiti. Gli amici di Vicenza che abitano presso Ponte degli Angeli dicono che tutto è avvenuto in fretta. Troppo in fretta. Quando hanno capito che l'acqua stava davvero uscendo dall'argine, scavalcava il ponte, invadeva piazza Matteotti, Santa Lucia e i dintorni. Era troppo tardi. Troppo tardi. Così come troppo tardi avevano capito quel che stava succedendo. Ora tutti cercano i colpevoli e si rimpallano la responsabilità,  ma nessuno poteva immaginare l'inimmaginabile. E nessuno poteva immaginare che l'ambiente era lì, pronto a chiedere il conto di tanti decenni di incuria. In modo tanto clamoroso e violento.

L'inimmaginabile, peraltro, resta ancora oscuro per gran parte degli italiani che abitano altrove. Perché i giornali "nazionali" ne hanno parlato poco  -  a pagina 20 della cronaca. Perché le tv "nazionali" hanno guardato la catastrofe con un certo stupore. Ma senza rendere l'effettiva drammaticità degli avvenimenti. Tanto che i miei amici, i miei colleghi che abitano nel mondo  -  e ancor più in Italia  -  non si sono resi conto di quel che è successo. Non saprei dirne la ragione vera. Forse perché, in fondo, si lamentano sempre, quelli del Nordest. Così, quando ce n'è davvero il motivo, non vengono presi sul serio. Se te la prendi sempre con Roma ladrona, Roma si vendica.  E quando chiami non ti sente. Forse perché resiste il mito del post-terremoto friulano; o del Vajont. Quelli abituati a fare da soli. Ad aggiustare i propri conti con le sfide del mondo e della natura senza chiedere aiuto agli altri. Così gli altri, quando ci capita qualcosa di grosso, non si accorgono di noi. Tanto siamo campioni dell'arte di arrangiarci.

Forse perché Vicenza, il Veneto, il Nordest sono terre lontane. Da Roma, ma anche da Torino e Milano. Periferia romana e padana. E poi, vuoi mettere i rifiuti di Napoli? Così, le grida si sentono poco. Echi lontani. E qualche ripresa. Qualche immagine. Persa tra le foto di Ruby, le avventure erotiche e le barzellette sconce di Berlusconi, le polemiche dell'opposizione, le inchieste infinite da Avetrana. L'alluvione di Vicenza. Un servizio a pagina 20 sui quotidiani e una notizia dopo dieci minuti di tigì, il giorno in cui avviene. Poi sparisce.

In fondo si tratta di una tragedia minore che si consuma in una provincia minore. Non merita un'inchiesta. Al massimo una cronaca. Minore.

(04 novembre 2010)


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Nordest resta una periferia
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2010, 05:56:20 pm
L'analisi

Il Nordest resta una periferia

Politica ed economia non hanno riscattato il territorio

di ILVO DIAMANTI


CONTINUA a piovere nel Veneto. A Caldogno, Cresole, Rettorgole Lobbia. E a Vicenza. Dove il Bacchiglione è esondato a Ognissanti. Ha sommerso case, botteghe, aziende, garage. L'acqua è arrivata improvvisa, violenta e limacciosa. Ha fatto danni pesanti.
Alle abitazioni, alle attività, alle cose. Alcune persone sono morte. Migliaia di sfollati. Al proposito ho scritto una Bussola (su Repubblica. it) quasi una settimana fa. In tempo reale. Come alcuni sanno, io abito a Caldogno, anche se il lavoro mi porta spesso - anzi: prevalentemente - lontano. L'alluvione mi ha sfiorato. Si è fermata a pochi chilometri da me. La strada che attraversa Rettorgole e si dirige a Vicenza ora è transitabile. Ma ai lati, ammassate, vi sono ancora le cose - mobili, elettrodomestici e altri oggetti - abbandonate dai residenti. Distrutte dall'acqua e dal fango.

La strada per Cresole, invece, è ancora chiusa. Vi transitano solo i residenti e i mezzi della protezione civile. Prima di arrivare a Ponte Marchese, al confine tra Caldogno e Vicenza, sulla destra si scorge il presidio dei No Dal Molin. Il Bacchiglione non l'ha risparmiato. "Presidia" la base americana, che, intanto, cresce a vista d'occhio.
Oggi quell'area, a differenza di un tempo, non funziona più da bacino dove si scaricano le acque del Livelon (così si chiama il Bacchiglione da queste parti) quando è in piena. È impermeabilizzata, per motivi di sicurezza. Così la "grande onda" è scivolata via, sempre più gonfia. E si è abbattuta su Vicenza senza ostacoli, senza freni, senza limiti. Quando si è capito che l'acqua stava davvero uscendo dall'argine, scavalcava il Ponte degli Angeli, invadeva piazza Matteotti, Santa Lucia e i dintorni: era troppo tardi per difendersi.

Ancora oggi il centro di Vicenza è sottosopra. Più sotto che sopra. Al di là dei danni - enormi - alle case e alle cose, l'inondazione ha inferto ferite profonde alle persone. Più che fuori: dentro. I vicentini: hanno perduto tranquillità e sicurezza. Oggi hanno paura dell'acqua. Cioè: di se stessi, del proprio mondo di vita. Perché anche Vicenza, Verona, Padova, Treviso - non solo Venezia - sono città d'acqua. Attraversate da fiumi, rogge, canali. Vicenza e l'area colpita dall'alluvione: galleggiano su un bacino di falde fra i più grandi d'Europa. L'alluvione della settimana scorsa ha suscitato inquietudine. Non che non ce ne siano state altre, prima. Molti ricordano - ed evocano - quella del 1966. Che ha provocato danni minori. E allora aveva piovuto molti giorni, dal 28 ottobre fino al 4 novembre. Questa volta sono state sufficienti 36 ore di pioggia improvvisa, battente e ininterrotta, insieme allo sciogliersi rapido delle nevi nelle montagne vicine (complici lo scirocco e un veloce rialzo della temperatura). Il Livelòn si è trasformato nel Nilo in piena. Inimmaginabile, per me - come per molti vicentini. Anche se, in questi anni, ho visto cose che voi umani...

Un territorio verde: urbanizzato senza limiti e senza regole. Le strade, punteggiate di rotatorie, sempre più numerose. Spesso sorgono isolate, in mezzo ai campi - indicano che lì nascerà, presto, una nuova entità immobiliare. Un nuovo non-luogo abitato da stranieri. (Perlopiù "italiani"; ma stranieri perché estranei l'un l'altro.) E poi capannoni, zone artigianali e commerciali, piscine, centri sportivi. Difficile chiedere ai torrenti di domare piene improvvise e imprevedibili. In molti punti, gli argini non ci sono più. I campi intorno non tengono. Non drenano. Anche perché, di frequente, sono stati "livellati" dai cavatori.

I vicentini temono che un evento come questo possa ripetersi ancora. Se son bastati due giorni di pioggia... Sanno, d'altronde, che, in parte, è il prezzo del successo. Meglio poveri e negletti, in un territorio sicuro e ameno - come trent'anni fa - o ricchi e famosi, ma anche più insicuri e in un ambiente deteriorato - come oggi? Il dilemma non è nuovo. Mai come ora, però, è divenuto tanto evidente, invadente e devastante.
C'è, però, un altro aspetto che ha sorpreso - e spiazzato - i vicentini (e i veneti). Il fragoroso silenzio dei media e della politica nazionale sul disastro che si abbatteva su di loro (noi). Il mitico Nordest. Nei giorni critici: relegato a pagina 20 dei quotidiani e a metà telegiornale. In coda ad Avetrana, ai rifiuti di Napoli, Ruby e gli scandali di Silvio. Per scomparire in fretta, all'indomani.

Così i veneti e i vicentini hanno scoperto che la loro immagine, il loro rilievo - in una parola: la loro "rappresentanza" - non sono migliorati negli ultimi 20 anni. Nonostante siano divenuti la capitale della piccola impresa e del lavoro autonomo. Il modello dell'"Italia che lavora e che produce". Nonostante siano andati al governo, insieme ai loro partiti di riferimento: il PdL e soprattutto la Lega. Nonostante abbiano eletto governatore Luca Zaia, con il 60% dei voti. Un plebiscito. Per diventare indipendenti come la Catalogna e la Baviera. Nonostante tutto questo, Vicenza, il Veneto, il Nordest non fanno notizia. L'alluvione (scrivevo una settimana fa su Repubblica. it) appare una "tragedia minore che si consuma in una provincia minore. Non merita inchieste. Al massimo una cronaca. Minore."

Alcuni lettori mi hanno scritto per lamentare altre tragedie rimosse. L'Italia è costellata di tragedie minori - dimenticate. Ma il Nordest, il Veneto, Vicenza: pensavano di essere diventati grandi. Un Centro. Non è così. Sono ancora Periferia. Romana e padana. Dove i leader romani e padani - Berlusconi e Bossi - si recano (oggi) quando tutto è finito. Quando l'acqua è rientrata nei fiumi. (Per ora.) Resta il fango nelle strade e nelle case. Rammenta che siamo ancora una terra di confine.
 

(09 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/11/09/news/veneto_analisi_diamanti-8903378/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - È finita la colla del Cavaliere
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2010, 10:03:03 am
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È finita la colla del Cavaliere

di ILVO DIAMANTI


Dietro al declino di Silvio Berlusconi si scorgono una maggioranza a pezzi e un Paese in briciole. Senza colla e senza cornice.
Perché Berlusconi era e resta l'unica colla e l'unica cornice per il suo partito, la sua maggioranza.

Per la base sociale che, per tanti anni, si è identificata in lui. La sua maggioranza. È a pezzi. Ormai da tempo. Da quando si è rotta l'intesa  -  fragile  -  con Gianfranco Fini. Che non ha mai accettato l'annessione di An. L'ha subìta, facendo buon viso a cattivo gioco. Ma il patto si è spezzato, ormai da mesi. Per ragioni politiche e personali  -  ormai impossibili da scindere in questa democrazia dell'opinione. Così oggi la maggioranza non ha più una maggioranza. La nascita di Fli, prima come gruppo parlamentare e poi come partito vero e proprio, ha ridotto il Pdl a un ex-partito. Spezzato. La maggioranza di governo: non c'è più. La regge solo la Lega. Finché le conviene. Pochi mesi, poche settimane, pochi giorni. Finché non riterrà la crisi di governo più costosa, politicamente, della mancata riforma federalista. Cioè, ancora per poco, immaginiamo. Ma già ora la Lega agisce come un partito esterno alla maggioranza di Silvio Berlusconi. Non risponde a lui. Non l'ha mai fatto, d'altronde. Ma ora ne prende apertamente le distanze.
E non accetta  -  ci mancherebbe  -  di vedersi ridimensionata dall'ingresso nel governo dell'Udc. La sua vera antagonista.

È a pezzi anche il Pdl, diviso all'interno. Dove Tremonti è percepito, ormai, come il vero premier. Riferimento per possibili maggioranze alternative. Gradito alla Lega, accettato dai centristi e da una parte del PD.

Ma il Pdl è diviso anche alla base. Nel Nord: soppiantato dalla Lega. Nel Mezzogiorno: incalzato da Fli. E dalle nuove leghe meridionali, soprattutto in Sicilia. Le stime elettorali più recenti (da ultime, quelle dell'Ipsos di Pagnoncelli e dell'Ispo di Mannheimer) sottolineano il declino del Pdl: ormai ben al di sotto del 30%. E suggeriscono che la maggioranza di centrodestra rischierebbe di non essere tale neppure alla prova del voto. PdL e Lega, infatti, non raggiungerebbero il 40%. Mentre i partiti di centro  -  Udc, Fli, Api, con il rinforzo di Montezemolo  -  otterrebbero intorno al 18%. Il PD  -  per quanto in affanno - e l'Idv, alleati alle sinistre, potrebbero perfino prevalere. Alla Camera. Mentre al Senato nessuna maggioranza appare possibile. Motivo che ha spinto Berlusconi ad avanzare la singolare idea, in un sistema a bicameralismo perfetto, di votare solo per la Camera. Tanto per dividere ancora di più le rappresentanze e le istituzioni.

Il fatto è che Berlusconi non è solo il leader di Fi, del Pdl e dell'attuale maggioranza di centrodestra. Ne è l'inventore. E l'unica colla. Senza di lui, questo progetto e questo soggetto politico non stanno insieme. Come non sta insieme l'Italia a cui egli ha dato rappresentanza ed evidenza. Perché Berlusconi, va ribadito, non ha vinto "solo" per merito delle televisioni e della sua capacità di usare  -  prima e meglio degli altri - il marketing in politica. Ma anche perché ha interpretato il cambiamento sociale  -  profondo  -  avvenuto in Italia negli anni Ottanta e Novanta. L'irruzione dei piccoli imprenditori del Nord, veicolata dalla Lega. A cui  Berlusconi  ha garantito cittadinanza politica e accesso al governo, ancora nel 1994. L'affermazione del capitalismo di "produzione dei beni immateriali" (per citare Arnaldo Bagnasco): finanza, comunicazione, assicurazioni. Queste tendenze che hanno imposto la logica del "mercato" negli stili di vita e nei modelli culturali, promuovendo l'avvento di una società di individui, orientati dai consumi e dai media. Berlusconi, a questa realtà sociale ed economica, ha offerto linguaggio, immagine, ideologia. Luoghi e canali di espressione e di comunicazione. In altri termini: rappresentanza e rappresentazione.

Oggi questa Italia non si riconosce più in lui. Né  Berlusconi è in grado di offrirle identità comune. D'altra parte, la crisi globale ha tolto credibilità al sistema del credito e della finanza. Non solo, ne ha acuito il contrasto con i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori. E poi la paura: generale e generalizzata, generata dalla crisi economica e dall'incombere della disoccupazione. La domanda di Stato sociale, di sostegno pubblico. Tutto ciò ha indebolito il ruolo di Berlusconi. La sua offerta di rappresentanza. La sua "ideologia del fare"  -  peraltro, puntualmente smentita dai fatti. Ha reso impopolare la sua interpretazione festosa e fastosa dell'uomo-che-si-è-fatto-da-sé. Così, si è assistito alla presa di distanza, nei suoi confronti, da parte degli ambienti che lo avevano, fin dall'inizio, guardato con favore.  Le associazioni imprenditoriali, alcune  organizzazioni di categoria e parte del mondo cattolico. Mentre si è allargato il disincanto sociale, sottolineato dal grado di fiducia verso di lui, sceso  -  oggi - ai minimi storici. Anche per questo assistiamo a un Paese che si sbriciola. Dove prevalgono i risentimenti sociali. Contro gli statali fannulloni, gli insegnanti impreparati, i baroni senza morale, i medici incapaci (e criminali). Mentre si è logorato il mito dell'italiano in grado di reagire a tutto, maestro dell'arte di arrangiarsi.  A cui  piace vivere bene, in un ambiente estetizzato da secoli di arte e di cultura. Più che a vivere, oggi, gli italiani - molti italiani - sono impegnati a sopravvivere.  Alla crisi economica. I giovani: alla precarietà. In un ambiente che cade a pezzi. Peraltro, mentre si celebrano i 150 dell'unità d'Italia, le tensioni territoriali crescono. Tra Nord, Roma, il Sud. Nel Nord e nel Sud.

A tutto ciò Berlusconi non sa e non riesce più a dare risposte unificanti. Non solo per ragioni "politiche" congiunturali. Anche perché sono in crisi la struttura sociale e il sistema di valori che egli ha interpretato per oltre 15 anni. Il problema è che le alternative  -  sociali, ma anche politiche  -  faticano ad emergere.  Per cui ci scopriamo spaesati, in un paese sbriciolato. Affollato di individui soli e vulnerabili. L'uscita dal berlusconismo - anche senza Berlusconi  -  si annuncia lunga e faticosa.

(15 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/15/news/diamanti_mappe-9119587/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'Ulivo sorpassa il Pdl e Fini raggiunge l'8%
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2010, 12:23:49 pm
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L'Ulivo sorpassa il Pdl e Fini raggiunge l'8%

Nonostante i proclami di Berlusconi, la fiducia nei suoi confronti è la più bassa da due anni: il 32%.

E oggi il Pdl vale meno di Forza Italia nel 2001. Per questo il Cavaliere non vuole davvero le elezioni

di ILVO DIAMANTI


SILVIO Berlusconi non ha mai pensato di aprire la crisi, in queste condizioni. Venire "sfiduciato" dalla Camera, per chi è stato eletto con una larghissima maggioranza, appena due anni fa. Come spiegarlo agli elettori? Ma c'è un problema ulteriore e forse maggiore. Aggiungere alla sfiducia della Camera quella dei cittadini. Anche se Berlusconi continua a dire che il 60% degli italiani "è con lui", a noi  -  e non solo a noi  -  risulta un dato assai diverso: 32%. Meno di un terzo degli italiani. È ciò che emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos, condotto negli ultimi giorni. Un grado di fiducia inferiore a quello di Bersani, ma anche di Tremonti, Casini, Fini. Solo Bossi è meno "amato" di lui. Ma il leader della Lega è, da sempre, uomo di "fazione" e di "frazione". Più che unire, divide.

Si tratta, per Berlusconi, del livello più basso negli ultimi due anni. Dalle elezioni politiche che lo hanno visto trionfatore, a capo del centrodestra. Per questo la prospettiva della crisi lo preoccupa. Teme la trappola dei "governi tecnici" e delle "larghe intese". Anche se invoca nuove elezioni, in caso di crisi, in realtà non le vuole. Non per ora, almeno. Le ritiene rischiose. A ragione, viste le stime elettorali di Demos. Che vedono il Pdl ridotto al 26%. (Meno di Forza Italia  -  da sola  -  nel 2001.) Mentre la Lega frena, pur superando il 10%. Insieme il centrodestra supererebbe di poco il 37%. Mentre il Pd, fermo alla soglia del 25%, insieme all'Idv, Sel (entrambe intorno al 7%) e alle altre formazioni di sinistra (Rc e Pdci), toccherebbe il 40%. Con questa legge elettorale, quindi, un centrosinistra "formato Ulivo" potrebbe perfino vincere (grazie al cedimento altrui), conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. Alla Camera, almeno. Un'ipotesi, fino a poco tempo fa, comica più che irrealistica.

Al Senato, invece, il sistema elettorale non permetterebbe a nessuna coalizione di ottenere la maggioranza dei seggi. Vista l'ampiezza raggiunta, secondo le stime elettorali, dal Polo di Centro. Circa il 16%, contando, oltre all'Udc, il partito di Fini (e altre formazioni minori: Mpa e Api). Fli, in particolare, continua a crescere. Oggi è intorno all'8%. A (e con) dispetto del Cavaliere e dei suoi uomini. Soprattutto, i reduci di An. Fini, il "traditore". In grado di ridimensionare il Pdl e l'attuale  -  presunta  -  maggioranza. I dubbi sull'esito del voto, peraltro, si fanno strada anche fra gli elettori. Benché il 50% ritenga ancora probabile la vittoria del centrodestra e solo il 34% quella del centrosinistra. Un divario di 16 punti. Ma due mesi fa la distanza era ben più ampia: 33 punti (e gli elettori che scommettevano sul successo del Centrodestra erano il 57%).

Naturalmente, i sondaggi non sono elezioni. Ma, in effetti, Berlusconi li sa interpretare  -  e usare  -  molto bene. Magari li comunica "a modo suo". D'altronde, siamo in tempi di campagna elettorale permanente. E i sondaggi, oltre a rilevare le opinioni, talora le orientano. Ma oggi gli consigliano di attendere. Cercando di riconquistare la maggioranza. Intanto alla Camera, attraverso una pressante campagna acquisti. Poi, anche presso gli elettori. Preoccupati dall'andamento dell'economia. Delusi dai risultati del governo. Il federalismo annunciato e non ancora ottenuto. I "fatti" annunciati  -  senza grandi effetti. Le immondizie a Napoli: sparite in dieci giorni. E ricomparse dopo altri cinque. La ricostruzione dell'Aquila. Di cui i residenti non sembrano essersi accorti. E poi, la passione di Berlusconi per le donne e le ragazzine, ammessa senza scuse. Ma, anzi, rivendicata con un certo orgoglio (e un cenno di intesa. Come dire: in fondo voi siete come me, anche se non avete il coraggio di ammetterlo). I due terzi degli italiani la considerano un elemento di debolezza, per un leader. Anzi: il Leader. Il presidente del Consiglio.

Per questo, Berlusconi cerca di tirare avanti. Di allontanare  -  di un mese  -  la prova della verifica parlamentare, E spostare il voto a primavera, almeno. Intorno alla sua maggioranza, ormai minoritaria, le opposizioni si preparano. E lavorano: alla ricerca di alleanze e di leadership. Nel centrosinistra  -  soprattutto nel Pd  -  è ampia la voglia di ampie intese. Da sinistra fino al centro. Una Santa Alleanza per cacciare il tiranno. Ma, dovendo scegliere, fra gli elettori prevale nettamente l'ipotesi di ricostruire l'Ulivo. Cioè: di allearsi con le sinistre. In particolare con la Sel di Nichi Vendola. La maggioranza degli elettori di centrosinistra (30%), peraltro, vorrebbe il governatore della Puglia leader della coalizione. Un po' più ridotto (25%) il gradimento per Bersani, il quale resta, comunque, il leader di gran lunga preferito dalla base del Pd. L'alleanza privilegiata con il polo di Centro  -  secondo i dati dell'Atlante Politico  -  appare, invece, scarsamente apprezzata dagli elettori di Centrosinistra.

Reciprocamente, gli elettori di Centro non sembrano attratti da un'intesa con il Centrosinistra. Preferiscono di gran lunga l'autonomia. Correre da soli. Fare il Terzo Polo. Alla guida di Casini oppure di Fini. In misura molto più limitata, di Luca Cordero di Montezemolo (apprezzato, anche da una quota significativa di elettori del Pd).
Insomma, il sistema politico appare incerto e aperto, come mai lo era stato negli ultimi anni. Almeno dal 1994-96. Tutto appare in movimento. Le alleanze, le leadership e di conseguenza anche gli elettori. Un po' disorientati, di fronte a un'offerta politica fluida e instabile. Dove i partiti maggiori, due anni fa perni di un bipolarismo bipartitico, appaiono più provati degli altri. Il Pdl, fiaccato dalla defezione di Fini e dai dolori del (sempre) giovane Berlusconi. Mentre il Pd è in preda a una crisi deleteria, in parte incomprensibile. È troppo impegnato a macerarsi all'interno, a logorare ogni leader possibile, presente e futuro. A coltivare la propria eterna vocazione minoritaria e perdente. Così non si accorge che potrebbe diventare maggioranza e  -  perfino  -  vincere.
 

(18 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/18/news/l_ulivo_sorpassa_il_pdl_e_fini_raggiunge_l_8_-9229980/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - C'era una volta l'Italia dei Comuni (e delle Regioni)
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2010, 05:35:25 pm
C'era una volta l'Italia dei Comuni (e delle Regioni)


È sorprendente il divario, diciamo pure: l'abisso, fra il discorso pubblico e la realtà reale nell'Italia dei nostri tempi. Il Paese dei Comuni, delle cento (mille) città. Al tempo del federalismo, dell'autonomia del Nord, della Padania, del Partito del Sud  -  e, prima di tutto, della Lega Nord). Ebbene: da oltre vent'anni, mai come oggi si è avuta la sensazione del declino della dimensione locale. Dal punto di vista delle risorse e dei poteri. I Presidenti di Regione, più che Governatori, sembrano Direttori di ASL alle prese con i conti del settore sociosanitario  -  il 70-80% dei bilanci regionali. I Sindaci: costretti a rispondere ai loro compiti, alle domande dei cittadini (crescenti, in tempi di crisi), visto che le risorse calano, di anno in anno. D'altronde, i tagli della manovra finanziaria gravano, in larga misura, proprio su di loro: (sedicenti) Governatori e Sindaci. Regioni e Comuni. I Governatori: senza quasi più risorse per gestire la spesa sociale e i trasporti. Ma anche le attività produttive. I Sindaci, costretti a fare i conti con il taglio dell'Ici sulla prima casa. Promessa mantenuta da Berlusconi, al tempo della campagna elettorale (una delle poche cose effettivamente fatte dal governo del fare). Una perdita sensibile, che lo Stato compensa con trasferimenti, che arrivano in puntuale ritardo. Un anno e oltre. Mentre i decreti che dovrebbero attuare il federalismo fiscale attribuiscono ai
comuni poteri impositivi sull'edilizia poco chiari. E, comunque, in tempi poco chiari. Di certo, ne faranno dei grandi esattori, con regole e ripartizioni (con lo Stato centrale) piuttosto rigide, oltre che ipotetiche.

Oggi, intanto, i comuni sono costretti a tagliare sull'assistenza, sulla cultura, sul "sociale", sul volontariato. Il che è lo stesso, perché la cultura e l'assistenza, oltre, ovviamente, all'integrazione sociale, sono affidate, ormai in larga misura, al "volontariato" e, in senso lato, al Terzo settore. Il "patto di stabilità", peraltro, costringerà le amministrazioni virtuose, quelle che avevano risparmiato negli ultimi anni per investire nei prossimi, a pagare duramente il proprio impegno virtuoso. A "risparmiare", forzatamente, anche in futuro. Il federalismo fiscale, la Terra Promessa dalla Lega ai cittadini del Nord: procede a zig-zag. Se tutto andasse secondo le previsioni, entrerebbe a regime nel 2019. Cioè, "troppo tardi", rispetto agli obiettivi e ai problemi a cui dovrebbe rispondere (agirebbe come un farmaco scaduto e inefficace, ha osservato, di recente, Luca Ricolfi su "la Stampa").

L'Italia dei Comuni, delle Autonomie, oggi, è un Paese altamente centralizzato. E altamente frammentato. A molte e diverse velocità, dove ognuno corre per conto proprio, anche se con molti vincoli e molti ostacoli. Perché dipende da Roma, cioè dallo Stato centrale. La stessa Padania  -  per quanto virtuale - è un Paese che prevale  -  in modo reale  -  sui governi locali. Regioni e soprattutto Comuni. La capitale della Padania è, infatti, a Roma, dove operano i ministri  -  e leader  -  della Lega. Maroni, Calderoli. E soprattutto Bossi. Come gli altri partiti, d'altronde. Tutti "romani". Partiti personalizzati e centralizzati. Il PdL, o ciò che ne resta: una protesi di Berlusconi e dei suoi consulenti. Tanto che nel listino del Governatore della Lombardia, alle recenti elezioni, è stata inserita -  e quindi eletta  -  "l'estetista dentale" (professione di cui mi sfuggiva l'esistenza) del premier. Lo stesso PD: è governato dai gruppi dirigenti "nazionali", la cui influenza, sulla formazione delle liste  -  a livello locale e regionale  -  è determinante. Ma, in fondo, anche l'IdV: è la Lista Di Pietro (o di Di Pietro). E sul marchio di FLI campeggia il nome di Fini. L'Udc: è la Lista casini. SEL: cosa sarebbe (e cosa era) senza Vendola?

Così, mentre si discute dell'Italia delle Regioni e dei Comuni, mentre si parla di fratture e divisioni fra Nord e Sud, mentre la "questione meridionale" ritorna  al centro della scena pubblica, insieme alla "questione settentrionale", assistiamo a un mesto, ma inesorabile declino della dimensione territoriale, dello spazio "locale". Tanto rivendicato a parole, quanto schiacciato nei fatti. Sarebbe utile, almeno, rendersene conto. Riconoscerlo. Senza fingere. Rinunciando alla retorica, fastidiosa oltre che mistificante, del "Paese dei paesi" - e delle città. I paesi d'Italia, in questo clima di incertezza normativa e di certezza pratica (in merito alla povertà di mezzi e di risorse), scompariranno presto, avvolti nella nebbia.
 
(01 dicembre 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/12/01/news/c_era_una_volta_l_italia_dei_comuni_e_delle_regioni_-9721847/


Titolo: ILVO DIAMANTI - I giovani si sentono senza futuro ecco che cosa ha acceso ...
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2010, 09:10:40 am
L'INCHIESTA

I giovani si sentono senza futuro ecco che cosa ha acceso la scintilla

La riforma Gelmini ha innescato il risentimento degli studenti.

Contro una scuola e un'università che funzionano sempre peggio.

Lo spiegano i dati Demos-Coop. Il disagio è profondo e generalizzato. E va ben oltre il ddl

di ILVO DIAMANTI

UN DISAGIO profondo e generalizzato. Che va ben oltre i contenuti della riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo. Ecco cosa c'è al fondo della protesta degli studenti. Il rinvio del voto al Senato, in attesa della fiducia (o della sfiducia) al governo, il prossimo 14 dicembre, non ha fermato la protesta contro la riforma dell'Università, firmata dal ministro Gelmini. In molte città, le occupazioni continuano. Nelle sedi universitarie ma anche nei licei e negli istituti superiori. Non intendiamo entrare nel merito della riforma, ma valutare il sentimento verso le politiche del governo, sull'università e sulla scuola. Parallelamente, ci interessa l'atteggiamento della popolazione nei confronti delle manifestazioni e delle polemiche che, da settimane, agitano il mondo studentesco. A questi argomenti è dedicato il sondaggio dell'Osservatorio sul Capitale Sociale di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi.

I dati suggeriscono che, al fondo della protesta, vi sia un disagio profondo e generalizzato. Che va oltre, ben oltre i contenuti e i provvedimenti previsti dalla riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico nell'insieme, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo.

Circa il 60% del campione, infatti, ritiene che negli ultimi dieci anni l'università italiana
sia peggiorata. Lo stesso giudizio viene espresso dal 70% (circa) riguardo alla "scuola" nel suo complesso. In entrambi i casi, meno del 20% della popolazione sostiene il contrario. Che, cioè, scuola e università negli anni 2000 sarebbero migliorate. Metà degli italiani, peraltro, ritiene che la riforma delineata dal ministro Gelmini peggiorerà ulteriormente la situazione, un terzo che la riqualificherà.

Naturalmente, i mali del sistema scolastico hanno radici profonde e una storia molto lunga. Quanto all'università, è appena il caso di rammentare che, dalla riforma avviata dal ministro Berlinguer, alla fine degli anni Novanta (quindi da un governo di centrosinistra), è stata sottoposta a un processo di mutamento continuo e non sempre coerente. Che ha prodotto una moltiplicazione dei corsi di laurea e delle sedi assolutamente incontrollata. È da allora che gli studenti - e, in diversa misura, anche gli insegnanti - hanno cominciato a mobilitarsi. Oggi, però, il disagio ha superato il limite di guardia. E la protesta si è riprodotta per contagio, un po' dovunque. Per ragioni che vanno oltre la riforma stessa, lo ripetiamo. Perché è diffusa e prevalente l'impressione che l'università e la scuola, nell'insieme, ma soprattutto quella pubblica, abbiano imboccato un declino senza fine e senza ritorno.

La fiducia nella scuola, negli ultimi dieci anni per questo, più che calata, è crollata: dal 69% al 53%. Sedici punti percentuali in meno. Un quarto dei consensi bruciato in un decennio. Per diverse cause e responsabilità, secondo i dati dell'Osservatorio Demos-Coop. Due su tutte: la mancanza di fondi e di investimenti (32%), lo scarso collegamento con il mondo del lavoro (22%).

In altri termini: la scuola e l'università non attirano risorse e non promuovono opportunità professionali. Anche i "baroni", secondo gli italiani, hanno le loro colpe. Ma in misura sicuramente più limitata (9%) rispetto a quanto vorrebbe la retorica del governo e del ministro. Peraltro, le responsabilità dei "baroni" appaiono ulteriormente ridotte, nel giudizio degli studenti e di coloro che hanno, in famiglia, uno o più studenti. Il che (lo dice un "barone", personalmente, senza quarti di nobiltà e con pochi poteri) appare fin troppo generoso.

Perché le colpe del corpo docente, all'Università, sono molte. Una fra tutte: non aver esercitato un controllo di qualità nel reclutamento. E nella valutazione dell'attività scientifica e didattica. Anzitutto della propria categoria. (Anche per queste ragioni, forse, oggi appaiono perlopiù silenziosi, di fronte alla riforma).

Ma ridurre il problema dell'Università - e della scuola - alla stigmatizzazione dei professori, oltre a essere ingeneroso verso coloro - e sono molti - che hanno continuato a operare con serietà e, spesso, con passione, risulta semplicistico e deviante. Basti considerare, semplicemente, le risorse pubbliche destinate all'Università e alla ricerca. Le più basse in Europa. Basti considerare che, a questo momento, mentre sta finendo il 2010, il governo non ha ancora stabilito (non si dice erogato) il finanziamento (FFO) alle Università del 2010. Non è un errore di battitura. Si tratta proprio dell'anno in corso, o meglio, tra poco: dell'anno scorso. Difficile, in queste condizioni, discutere seriamente della riforma universitaria.

A non crederci, per primi, sono gli italiani. Anche così si spiega il largo sostegno alla protesta contro la riforma Gelmini - maggioritario, nella popolazione. Espresso dal 55% degli italiani, ma dal 63%, tra coloro che hanno studenti in famiglia. E dal 69% fra gli studenti stessi. Il consenso alla protesta studentesca diventa, non a caso, quasi unanime in riferimento alla carenza di fondi alla ricerca (81%). Mentre è più circoscritto (per quanto maggioritario: 53%) riguardo alle occupazioni. È significativa, a questo proposito, la minore adesione che si osserva fra gli studenti universitari stessi. Attori della protesta, ne sono anche penalizzati. Vista la difficoltà di svolgere l'attività didattica e quindi di "studiare".

La riforma Gelmini, per queste ragioni, più che l'unico motivo della protesta giovanile, appare la miccia che ha acceso e fatto esplodere un risentimento profondo, che cova da tempo. Nelle famiglie, tra gli studenti, tra coloro che lavorano nella scuola e nell'università (in primo luogo, fra i ricercatori, categoria a esaurimento, secondo la riforma). "Risentimento" e non solo "sentimento", perché scuola e Università sono un crocevia essenziale per la vita delle persone. A cui le famiglie affidano la formazione e la "custodia" dei figli. Dove i giovani passano una parte della loro biografia sempre più lunga. Dove coltivano amicizie e relazioni. La scuola e l'università: che dovrebbero prefigurare il futuro professionale dei giovani. Non sono più in grado di svolgere questi compiti. Da tempo. E sempre meno. Abbandonate a se stesse. In particolare quelle pubbliche. Anche se solo una piccola quota di italiani vorrebbe privatizzarle maggiormente. (Come emerge dal XIII Rapporto su "Gli Italiani e lo Stato", di Demos-la Repubblica, sul prossimo numero del Venerdì). C'è questo ri-sentimento alla base della protesta e del dissenso profondo verso le politiche del governo nei confronti della scuola e dell'università.

Da ultimo: la riforma Gelmini. Non è un caso che i più reattivi non siano gli universitari, ma i liceali. Gli studenti che hanno meno di vent'anni e frequentano le superiori. Si sentono senza futuro. Una generazione sospesa. Precaria di professione. Professionisti della precarietà. Tanto più se nella scuola, nell'Università e nella ricerca si investe sempre meno. Questi studenti (secondo una recente ricerca dell'Istituto Cattaneo e della Fondazione Gramsci dell'Emilia Romagna) oggi appaiono spostati più a destra rispetto ai giovani degli anni Settanta. E, quindi, ai loro genitori. Ma, sicuramente, sono molto più incazzati di loro. A mio personale avviso, non senza qualche ragionevole ragione.

(06 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/scuola/2010/12/06/news/sondaggio_scuola-9870278/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La democrazia dell'irresponsabilità
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2010, 04:05:53 pm
L'ANALISI

La democrazia dell'irresponsabilità

di ILVO DIAMANTI

DOMANI andrà in scena il rito della fiducia al governo. Annunciato da tempo e poi rinviato. Messo in dubbio e infine ribadito. Perché la fiducia è una cosa seria. Anche se è una merce rara, in politica come nella vita quotidiana. Ma è necessaria in Parlamento: per verificare l'esistenza di una maggioranza, più che di un legame di "fiducia".

Alla base del sostegno a un governo, a un partito o a un premier ci possono essere, infatti, diversi motivi. Spesso personali. Ostilità e solidarietà, simpatia e antipatia. Ma anche interesse e utilità. Perché nella democrazia rappresentativa non si può ricorrere al "mandato imperativo", che vincola l'eletto alla fedeltà verso i suoi elettori. Per cui gli eletti dispongono di un buon grado di autonomia individuale nelle proprie scelte. Possono, cioè, decidere con una certa libertà come agire, nelle singole questioni, ma anche in quelle più importanti. Fino a dissociarsi dalle posizioni del partito o dello schieramento nelle cui liste sono stati eletti. Non solo: fino al punto di uscire da un partito o da uno schieramento per scivolare in un altro. È sempre avvenuto, in realtà. Senza andare troppo indietro nel tempo, basti pensare alla rapida conclusione del governo Prodi, nel gennaio 2008. Affondato dal "voto amico".

 In questa legislatura, però, il fenomeno ha assunto proporzioni ampie e inattese. Tanto da mettere in crisi - comunque vada la verifica di domani - la maggioranza larga di cui disponeva il centrodestra dopo le elezioni del 2008. A causa, anzitutto, della frattura nel Pdl, seguita al distacco insanabile di Fini e dei suoi "fedeli" (?) da Berlusconi e il suo Popolo (della Libertà). Nelle ultime settimane, in particolare, i "distacchi" e i "ripensamenti" si sono alternati e allargati, in modo frenetico. Ispirati da logiche diverse. Dove gli interessi hanno preso il sopravvento sui valori. Dove i fini politici e la morale hanno imboccato percorsi divergenti - come ha scandito con forza Eugenio Scalfari ieri. Dove la morale si è perduta, all'ombra di calcoli assai più venali. Tanto che si è parlato - e si continua a parlare - di "mercato" dei voti. E dei parlamentari. Di cui sta occupando perfino la magistratura.

 Sarebbe, peraltro, poco utile - a mio avviso - circoscrivere questi comportamenti dentro i confini dell'indignazione (anch'essa una merce molto rara, in questi tempi).

Gli slittamenti di partito e schieramento, oggi, avvengono sulla spinta di incentivi diversi - seppure, talora, eguali - rispetto a quelli che alimentano la "fedeltà" politica. Cioè: i vantaggi di carriera, di reddito, di potere, di visibilità legati al ruolo di parlamentare. D'altronde, la coerenza con i principi e i fini assoluti - nel linguaggio di Max Weber: "l'etica della convinzione" - non ha mai avuto una credibilità così bassa, in politica. I legami ideologici e associativi, perfino di categoria, si sono indeboliti e quasi dissolti, insieme ai partiti e alle grandi organizzazioni di interesse. Oggi, in fondo, i parlamentari a chi rispondono? I partiti praticamente non ci sono più. Salvo la Lega. E, comunque, sono tutti centralizzati e personalizzati. Compresa la Lega. Per cui diventano - sono divenuti - canali di mobilitazione individuale. Metodi per affermarsi e riprodurre la propria posizione. Certo, Berlusconi ha diviso il mondo in due: tra se stesso e i comunisti. Fra la libertà e la barbarie. In questo modo è riuscito a restituire un senso a una politica che aveva perduto senso. Nonostante sia lecito e legittimo interrogarsi: se abbia senso una politica fondata su questa alternativa. Ma tant'è. Di fronte a uno spettacolo politico tanto desolante (in un'epoca nella quale non c'è distanza fra politica e spettacolo), si ripropone la questione posta all'inizio. L'autonomia degli eletti e dei parlamentari rispetto agli elettori. Fino a che punto può spingersi? E quando, come in questa fase, produce comportamenti del tutto dissociati rispetto alla volontà degli elettori, si può parlare ancora di democrazia - anche se rappresentativa?

 Il fatto è che nella democrazia rappresentativa il principio dell'autonomia degli eletti deve essere bilanciato da quello della "responsabilità". Ricorrendo di nuovo alla lezione di Max Weber: l'etica del politico è "responsabile" in quanto considera le conseguenze delle proprie scelte sul piano pubblico. Ma anche sul piano elettorale. (Come sottolinea Bernard Manin, nei "Principi del governo rappresentativo", pubblicato da "il Mulino")

In altri termini: gli eletti possono anche passare a un gruppo - magari uno schieramento - diverso. Proclamare l'interesse pubblico, praticando in realtà quello privato - e familiare. Però poi ne devono rispondere ai propri elettori. E agli elettori - in generale. Razzi oppure Calearo (ma solo chi lo ha candidato nel Pd poteva ignorare che non marcia a sinistra neppure quando guida in Inghilterra): dovranno rispondere delle loro posizioni e del loro operato alle prossime - più o meno imminenti - elezioni. Tuttavia, ciò difficilmente avverrà. Anzi: non avverrà di certo. Non solo perché la memoria, in politica, è sempre corta. E dal 15 dicembre, cioè: dopodomani, i "mercanti della fiducia" - finito il loro momento di gloria - probabilmente torneranno nell'ombra. Ma soprattutto perché gli elettori hanno perduto ogni potere di scelta "personale". Cioè, "personalmente", non possono esprimersi sulle "persone" che li rappresentano. In base a valutazioni retrospettive sull'azione degli eletti.

Considerando gli effetti di ciò che essi hanno fatto durante il loro mandato: per noi, la nostra categoria, la nostra zona.
In riferimento ai valori in cui crediamo. Perché non esistono possibilità di verifica e di controllo diretto da parte degli elettori, con questo sistema elettorale, centralizzato, senza preferenze, a liste bloccate, che premia le coalizioni. Che attribuisce alle leadership di partiti personali oppure oligarchici il potere di scegliere e decidere. Chi eleggere e dove. Chi candidare, ricandidare oppure escludere. Questa democrazia, sempre meno rappresentativa. Sicuramente "irresponsabile". E poco democratica. Riproduce e promuove un'etica dell'irresponsabilità: civile e personale.
 

(13 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/13/news/la_democrazia_dell_irresponsabilit-10122724/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Silvio Berlusconi, una geopolitica molto personale
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2010, 05:16:27 pm
Limes 6/2010 Berlusconi nel mondo

Silvio Berlusconi, una geopolitica molto personale

di Ilvo Diamanti

Tappe, obiettivi ed esiti della strategia territoriale del Cavaliere.

Dall’uso delle etichette geopolitiche nelle elezioni del 1994 alla retorica dei fatti e dei luoghi, ormai evaporata.

Il proliferare delle Leghe. La personalizzazione come boomerang.


Può sembrare paradossale riflettere sul legame di Silvio Berlusconi con il territorio. Descriverne l’identità geopolitica «nazionale». Farne oggetto di analisi specifica e approfondita.


Silvio Berlusconi, infatti, appare come l’inventore e l’attore protagonista della «politica come marketing», mediatizzata e personalizzata. Dunque: una politica senza territorio. Che ha come spazio la comunicazione e, in particolar modo, la televisione.


Eppure, l’identità politica di Berlusconi è stata elaborata, promossa, sviluppata dal suo artefice in modo consapevole e accurato, porgendo grande attenzione al territorio. Sotto il profilo dell’organizzazione, ma anche – e prima ancora – della rappresentazione.


Il Cavaliere, infatti, ne ha fatto argomento esplicito – marchio e parola – della comunicazione politica. Il che non deve sorprendere più di tanto.


Perché non c’è discontinuità, nella strategia di Berlusconi, fra la politica mediatica e personalizzata, da un lato, e il riferimento al territorio, dall’altro. In particolare se si considera quanta importanza abbia avuto il territorio, negli ultimi trent’anni. E quale valore mantenga ancora oggi, sul mercato elettorale.


Dal punto di vista simbolico, ma anche organizzativo: come bandiera e come tema dell’agenda politica. Berlusconi, per questo, ne ha fatto largo uso in campagna elettorale. Cioè: sempre. Visto che si vota praticamente sempre. E comunque viviamo in campagna elettorale permanente.


Il territorio come marchio e come network


Silvio Berlusconi ha adottato il territorio come argomento di marketing, ma anche come fattore di aggregazione e di coalizione. Cioè: come network. Fin dall’inizio della sua esperienza politica, in occasione della campagna elettorale del 1994. Le prime elezioni della (cosiddetta) Seconda Repubblica.


Una fase di svolta, durante la quale il sistema partitico e istituzionale è in piena crisi, in pieno sfaldamento. Sottoposto a molteplici, laceranti tensioni. Non ultima, anzi tra le più importanti, quella territoriale, interpretata dalla Lega Nord. Soggetto politico che si muove tra rivolta economica e protesta politica. La sua proposta – anzitutto simbolica ed emotiva – si riassume nella lotta «contro Roma e il Sud».


Riflette, quindi, una duplice domanda di cambiamento: socio-economico e geopolitico. Roma, infatti, appare e viene polemicamente rappresentata come la capitale del sistema partitocratico e della corruzione politica. Luogo del centralismo statale e dell’intervento pubblico assistenziale.


Il Sud costituisce, invece, il principale beneficiario della spesa pubblica, a cui Roma – lo Stato centrale – destina una quota spropositata delle risorse prodotte soprattutto nel Nord. D’altronde, gran parte della base elettorale dei partiti di governo della Prima Repubblica (la Dc, anzitutto, ma anche il Psi), dopo gli anni Settanta si era prevalentemente spostata nel Mezzogiorno. Accompagnata e sostenuta – appunto – dalla spesa pubblica e dalla protezione dello Stato.


Anche Silvio Berlusconi, peraltro, è molto caratterizzato dal punto di vista territoriale. È un imprenditore di Milano, capitale del «nuovo» Nord. Epicentro della ribellione contro il sistema partitocratico della Prima Repubblica.


È la città di Mani Pulite, l’alternativa a Roma, ma anche a Torino, capitale del «vecchio» Nord, che si regge(va) sulla grande industria protetta dalla politica e dallo Stato. Milano, invece, è il baricentro del capitalismo di produzione dei beni immateriali. Finanza, servizi, comunicazione.


Berlusconi ne riflette l’immagine. E a sua volta contribuisce a definirla. In una certa misura, è un altro Nord. Diverso da quello rappresentato da Torino e dalla Fiat. Diverso anche dal Nord della Lega. Che rappresenta il neocapitalismo rampante, espresso dalla piccola e piccolissima impresa, che si sviluppa soprattutto nelle province non metropolitane.


Pedemontane, più che padane. E corre dal Nord-Est al Nord della Lombardia, fino a toccare alcune province del Nord-Ovest, periferiche rispetto a Torino (Cuneo, in primo luogo). È l’erede della Dc, dal punto di vista della base elettorale. Ma se ne distacca per molti altri versi. La Lega è, infatti, diversa e opposta alla Dc per stile, linguaggio, proposta.


Berlusconi, dunque, interpreta un altro Nord: non di sinistra, ma neppure leghista. Per tradizione e storia, sicuramente anticomunista. Per biografia e geografia, contiguo e concorrente al Nord leghista. Tuttavia, per interesse politico ed elettorale, oltre che imprenditoriale, non può fare la guerra a Roma e al Sud.


Significherebbe, tra le altre cose, rinunciare a vincere. Condannarsi ad essere minoranza.


Come il Pci e la sinistra, che non avevano mai governato, in Italia, non solo per il vincolo internazionale, ma anche perché rinchiusi in una larga ma delimitata riserva di caccia elettorale. L’enclave della zona rossa, che circoscrive le – ed è circoscritta dalle – regioni dell’Italia centrale.


Per questo Berlusconi, in vista delle elezioni del 1994, allestisce una coalizione che rammenta un catalogo di etichette territoriali. Aggrega, in un unico cartello elettorale, oltre alla Lega Nord, anche Alleanza nazionale.


Partito post-fascista, gemmato dal Msi proprio in vista del voto. Per base elettorale, una sorta di Lega Sud. Associa, inoltre, anche i neodemocristiani del Ccd.


Complemento della Lega nel Nord e di An nel Sud. In questo modo, peraltro, oppone il Nuovo (le emergenti identità territoriali) al Vecchio (i partiti di ex e di post: comunisti, democristiani eccetera).


Insomma, Berlusconi convoglia in un unico contenitore (il Polo) contesti – sociali, economici e anzitutto simbolici – largamente inconciliabili. Fin dal nome: il Nord e la nazione (ancorata a Roma e nel Sud, patrie di An).


Berlusconi li riconcilia e li riassume, fornendo loro una cornice comune, definita dal suo «partito personale». Il quale, non per caso, si chiama Forza Italia. Un nome significativo.


Più che evocare la nazione raffigura la Nazionale di calcio. Richiama il paese delle passioni, che si identificano nella maglia dei calciatori. Azzurra, come la bandiera di Forza Italia. Come la casacca dei militanti forzisti. Gli «azzurri».


L’Italia di Berlusconi evoca, inoltre, la televisione, di cui egli è il più importante e potente imprenditore privato. Non solo in ambito nazionale. Quella che egli interpreta e raffigura è un’Italia «senza territorio», appunto.


Ma è un network capace di connettere e di tenere insieme i diversi territori – altrimenti inconciliabili e contrapposti – rappresentati dalla Lega e da An.


La sua immagine personale, la sua costruzione mediale di «italiano medio», in grado di vincere e di raggiungere il successo in ogni campo, gli consentono di offrire una colla ai pezzi di un paese spezzato dalla politica, oltre che dall’economia. Peraltro, la sua capacità di comprendere e maneggiare le logiche della nuova legge elettorale semi-maggioritaria gli permette di costruire un cartello vincente, evitando i contrasti fra attori politici e territoriali tanto lontani.


Così costruisce un’alleanza distinta: a Nord con la Lega; al Centro-Sud con An. Lega Nord, Lega Sud. Entrambi uniti da Forza Italia. L’unico e il solo partito in grado di presentare una distribuzione del voto «nazionale»; comunque, non circoscritta e marcata territorialmente. A differenza degli alleati, ma anche dei partiti di centro-sinistra.


Così la Seconda Repubblica nasce insieme all’Italia mediatica e personalizzata di Silvio Berlusconi. Capace di sostituire con il marketing la perdita di forza dell’ideologia. E di personalizzare questo «paese di compaesani», come lo definisce Paolo Segatti.


Questo paese di paesi. Proponendo se stesso come modello. Il sogno americano all’italiana. Visto che gli italiani (non tutti, ovviamente, ma una parte rilevante di essi) sono dei «Berlusconi più poveri» (per echeggiare una felice formula di Massimo Gramellini).


La «geopolitica nazionale» di Berlusconi, dunque, è una costruzione personale e personalizzata. Opera abile e complessa, mediale e narrativa. Diplomatica e organizzativa. Perché solo lui è in grado di tenere insieme i partiti e i leader che rappresentano le diverse Italie. Bossi, Fini, Casini. E solo lui è in grado di imporre confini territoriali stretti e invalicabili agli avversari, ai «nemici» del centro-sinistra.


La parola e lo stigma «comunista», che Berlusconi usa senza sosta e come mai era avvenuto nella Prima Repubblica, quando i comunisti esistevano davvero, costringe il centro-sinistra dentro allo storico recinto delle regioni rosse del Centro Italia. Lo riduce a una sorta di Lega di Centro (come la definisce Marc Lazar).

La retorica dei fatti e dei luoghi


Un secondo, importante uso che Berlusconi fa del territorio è di tipo narrativo. Se ne serve, cioè, come esempio e raffigurazione del suo stile di azione e di attore. Concreto, operativo, diretto. Poco abituato alle chiacchiere, ai discorsi vuoti e fini a loro stessi dei «politici professionali». Alle parole, Berlusconi oppone i fatti. Alle utopie (per definizione: luoghi ideali) egli oppone i luoghi concreti. Berlusconi: è «l’uomo del fare» che guida il «governo dei fatti».


Nel 2001, in campagna elettorale, nel salotto di Bruno Vespa, traccia (letteralmente: con un pennarello su un tabellone) il suo decalogo, dove campeggiano «grandi opere» che segnano (talora devastano) il territorio. Grandi reti autostradali e ferroviarie ad «alta velocità», che segnano la mappa del paese.


Ancora: il ponte sullo Stretto di Messina. E nel 2006, alla vigilia del voto dove appariva sconfitto predestinato, riesce quasi a rovesciare il pronostico, promettendo, nel faccia a faccia con Prodi, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa. Ossia il taglio della tassa che colpisce la quasi totalità degli italiani «a casa loro». Nel luogo in cui abitano e vivono con la loro famiglia.


Infine, alle elezioni del 2008, dove esce trionfatore con la sua coalizione, imposta la sua campagna sull’immagine dei rifiuti di Napoli.


Le cataste di immondizie che si ammassano nelle strade di uno dei luoghi-simbolo del governo di centrosinistra. La città e la Regione di Bassolino. Artefice di una stagione di speranze e di rinascita. Berlusconi punta sul «miracolo illusorio» della sinistra. E promette che lì, proprio lì, le cose cambieranno «in modo visibile». Napoli liberata dalle immondizie è «il luogo» che testimonia dell’efficienza dell’Imprenditore dedito alla politica per il bene comune.


Così, un anno dopo, L’Aquila devastata dal terremoto gli permette di affermare nuovamente il suo stile e il suo esempio. L’uomo del fare. Che agisce nel paese reale. E libera il territorio coperto di macerie. Da cui risorgerà la città. I «luoghi» permettono a Berlusconi di mettere in scena la sua azione politica. Per ancorare le sue parole a un territorio. A un contesto. Illuminato dai media. E dunque reale.


Le fratture inattese dell’unificazione personale del paese


Il nesso con il territorio, dunque, è in grado di spiegare molte ragioni del successo di Berlusconi. Ma ne annuncia anche la debolezza. Altrettanti motivi di instabilità. Intuibili fin dall’inizio della sua vicenda politica, che dura ormai da sedici anni, oggi sembrano divenuti palesi e difficilmente sostenibili. Li riassumiamo rapidamente.


A) La prima ragione richiama la difficoltà di ricomporre interessi e identità territoriali tanto contrastanti su basi «personali».


Un problema che emerge subito, quando, nel 1994, dopo pochi mesi di governo, la Lega di Bossi rompe con la maggioranza e quindi con Berlusconi. Perché Berlusconi e Forza Italia, più che alleati, sono divenuti concorrenti della Lega.


Ne hanno eroso i consensi e la rappresentanza nel Nord. Per cui la Lega se ne va e corre «da sola contro tutti». Ma soprattutto contro di lui: Berlusconi. E alle elezioni del 1996 lo sconfigge.


O meglio, vince l’Ulivo guidato da Prodi, ma solo perché nel Nord la Lega batte nettamente il Polo delle Libertà, dove Berlusconi ha riunito accanto a Forza Italia Alleanza nazionale e i neo-dc. Legittimando la propaganda polemica di Bossi contro il Polo di Roma e del Sud. Perché la «rappresentazione» è diversa dalla «rappresentanza».


Berlusconi può dare «immagine» al Nord, ma non dispone di radici forti e stabili che gli permettano di formare una base politica ed elettorale solida. Non a caso, nel 2000, Berlusconi ricuce il rapporto con Bossi e la Lega.


Fiaccati, a loro volta, da un antagonismo «rivoluzionario» che li fa apparire «poco produttivi» agli elettori del Nord. Ai quali, assai più della secessione, interessa ottenere – da Roma – risorse e potere.


Berlusconi e Bossi, insieme, tornano a vincere. Nord e (Forza) Italia: di nuovo uniti. Lo stesso problema, peraltro, emerge nel rapporto con il Mezzogiorno, do- ve Forza Italia deve misurarsi con la concorrenza di An, i neo-dc e le altre formazioni regionali e locali (Udeur, Mpa eccetera). Tanto più forte quanto più esplicita diventa l’azione politica della Lega.


E quanto più il peso politico della Lega diventa rilevante, nella Casa delle libertà. Cioè nel polo di centro-destra. Allora, la mediazione politica di Berlusconi diventa faticosa. E la sua immagine stenta, a sua volta, a unificare – o almeno a mediare – i diversi paesi del paese. Le diverse Italie che compongono l’Italia.


B) Questa tensione diviene lacerante dopo le elezioni del 2008. Quando il progetto unificante e unitario di Berlusconi sembra raggiungere il livello di suc- cesso più elevato.


Non solo perché conduce la coalizione alla conquista di una maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato. Ma perché unifica An e Forza Italia. Il partito nazional-meridionale e quello nazional-personale sotto un’unica bandiera. La sua.


L’alleanza con la Lega, peraltro, riproduce lo schema originario: l’intesa fra il Nord e l’Italia. Unico garante: lui. Insieme al suo amico e complice: Umberto Bossi.


L’Italia fondata sui legami personali. Una cornice che non regge. Non tiene più. Perché l’Italia «mediale» deve fare i conti con quella «reale». E i conti dell’Italia reale sono critici. Fissati dalle regole e dai vincoli internazionali. Fiaccati dalle crisi economiche e finanziarie globali.


Non è facile, anzi: è impossibile soddisfare Nord e Sud. Allo stesso tempo. Tanto più – tanto meno – servendosi, come strumenti privilegiati, dell’immagine. Della narrazione. Della personalizzazione.


L’immagine e la narrazione di Berlusconi non bastano più. Soprattutto nel Mezzogiorno. Dove le paure – e le conseguenze – della crisi sono difficili da accettare. E le politiche del Nord – riassunte nel federalismo – fanno paura.


Tanto che la maggior parte dei cittadini del Sud le considerano strategie secessioniste. Contro gli interessi del Mezzogiorno. Mentre i cittadini del Nord, in misura crescente, considerano il Sud semplicemente «un peso per lo sviluppo del paese» e un costo senza benefici per il Nord.


C) Ancora: la rappresentanza «personale» della politica e dei territori produce, come conseguenza imprevista e indesiderata, il trasferirsi dei conflitti e delle fratture dal piano personale a quello geopolitico.


Così, la frattura tra Berlusconi e Fini non produce solo la scomposizione del Pdl, ma anche la scomposizione tra Nord e Sud. Visto che Bossi, per primo, elegge Fini – insieme a Casini – portabandiera degli interessi del Sud.


Il che, peraltro, ottiene, come ulteriore conseguenza, a cascata, la scomposizione interna ai territori. Fa emergere altre tensioni, che promuovono altri partiti, altri leader – locali. Soprattutto nel Mezzogiorno e in Sicilia.


Infine, la «localizzazione» della politica, della comunicazione e della comunicazione politica. Trasforma la «retorica del fare» in retorica tout court.


Perché se l’immondizia ritorna periodicamente a sommergere Napoli, se le macerie continuano a seppellire il centro dell’Aquila, allora i fatti diventano semplici parole. Contraddette dalle immagini. Mentre i luoghi diventano metafore.


Di un’Italia immaginaria e illusoria. Raccontata e inesistente. Una favola, più che una parabola. Il racconto di un paese che non c’è. Neppure come raffigurazione.


I limiti della geopolitica personale


Così la geopolitica nazionale di Silvio Berlusconi si trasforma in limite. L’imprenditore politico che ha inventato e costruito la Seconda Repubblica, nell’anno in cui si celebra il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia rappresenta un’Italia divisa.


Dove le fratture territoriali originarie non si sono saldate, ma anzi riemergono, moltiplicate e amplificate dalla logica mediatica e personale di quest’epoca. A riflettere il fallimento di un progetto di unificazione nazionale e (meta)territoriale. In fondo: del progetto (geo)politico personale di Silvio Berlusconi.

(13/12/2010)
http://temi.repubblica.it/limes/silvio-berlusconi-una-geopolitica-molto-personale/17788?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La metamorfosi di Silvio uomo dell'emergenza
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2010, 02:46:36 pm
MAPPE

La metamorfosi di Silvio uomo dell'emergenza

Il presidente del Consiglio non è l'uomo della Provvidenza perché la Provvidenza regola gli avvenimenti verso il futuro.

Mentre il Cavaliere racconta il futuro per affrontare il presente immediato

di ILVO DIAMANTI


LA VERIFICA parlamentare del 14 dicembre non ha garantito la fiducia al governo. Semmai: la non-sfiducia. Per questo non ha prodotto cambiamenti significativi nel clima d'opinione. Tutto è rimasto, più o meno, come prima sulla scena politica. Instabile e incerta, senza copioni a guidare le scelte degli attori. Neppure un canovaccio che permetta loro di recitare a soggetto. Questa crisi, tutta interna alla maggioranza, non ha restituito legittimazione e consenso alla leadership di Silvio Berlusconi. Presso gli elettori, nel centrodestra e, in fondo, nel sistema politico italiano. Dove prevale e persiste un grande senso di precarietà. Il che costituisce una novità, nella biografia politica di Berlusconi. Scandita da numerose "sfide" per la vita. E per la morte (politica). Puntualmente vinte.

Sedici anni trascorsi a sfidare il sistema politico italiano, dopo averlo modellato a propria immagine e somiglianza. Il muro di Berlino sostituito da quello di Arcore. Che ha diviso il nostro piccolo mondo in due. Fra berlusconismo e comunismo. O, simmetricamente: tra antiberlusconismo e anticomunismo (senza il comunismo). Una lotta altamente personalizzata, esaltata dai media. Cercata e comunque sfruttata dal protagonista. Al centro di ogni sentimento e di ogni risentimento. Lui, il vero cemento culturale e ideologico del nostro tempo.
Senza ideologia e senza tempo. Senza futuro. Silvio Berlusconi non è l'Uomo della Provvidenza, ma dell'Emergenza. Perché la Provvidenza regola gli avvenimenti verso il futuro (previsto da Dio).

Mentre Berlusconi racconta il futuro per affrontare il presente immediato. Le emergenze. Dà significato politico "generale" alle sfide "personali", che lo riguardano direttamente. A partire dalle inchieste dei magistrati: un attacco politico contro le istituzioni di governo, contro il popolo sovrano che lo ha incoronato.

Nel 1994: ha sfruttato l'emergenza prodotta dal crollo della Prima Repubblica. Silvio Berlusconi, più di tutti, ne ha beneficiato.
Ha imposto la politica come marketing, le persone al posto dei partiti, i media e la comunicazione al posto della partecipazione.
Ha costruito una coalizione di marchi territoriali - il Nord, l'Italia, la Nazione - al posto dei riferimenti ideologici tradizionali.
Ha abolito la parola "partito". Sostituita da Polo, Casa, Popolo. Ha vinto la sfida del momento. Senza riuscire a governare.
Perché - lo ha scritto Ezio Mauro qualche giorno fa - Berlusconi non sa governare (né gli interessa). Sa solo comandare. Il che, ovviamente, non è poco. Perché Berlusconi è stato in grado - unico in Italia - di tenere insieme gli opposti. Lega Nord e Alleanza Nazionale.
Soggetti politici nuovi e neodemocristiani. Nord e Sud. L'unico a disporre di argomenti adeguati ed efficaci per "costringerli" a stare insieme. Con la forza dei media, delle risorse, con la minaccia di escluderli dai centri del potere.

L'Uomo dell'Emergenza ha sempre cercato - e vinto - le sfide decisive della lotta per la vita e per la sopravvivenza. Anche - e tanto più - quando veniva considerato "finito". Sconfitto alle elezioni politiche del 1996: ha vinto le europee del 1999, le regionali del 2000.
E le politiche del 2001. Dopo aver firmato un "patto per l'Italia". Mai rispettato. Ha perduto tutte le elezioni intermedie, punito dalla "delusione" dei suoi stessi elettori. Fino alle elezioni del 2006, considerate il "capolinea", l'ultimo atto della sua storia politica.
Dai suoi stessi alleati. Quasi da solo, ha risalito la china, in pochi mesi. Trasformando la sconfitta annunciata del Centrodestra in un quasi-pareggio. Cioè, per il Centrosinistra (di cui era stato previsto il trionfo), una quasi-sconfitta. Premessa al successo alle elezioni politiche del 2008. Dove ha conquistato la maggioranza parlamentare più larga della Seconda Repubblica. Senza riuscire a gestirla.
Visto che oggi, due anni e mezzo più tardi, la sua coalizione appare spaccata e divisa. Come il suo nuovo "partito personale", il Pdl.
Come la sua intesa con Gianfranco Fini. Perché Berlusconi non sa "provvedere" al futuro, ma neppure al presente, in modo "normale".
Forse neppure lo vuole.

La normalità del governo quotidiano lo annoia. La costruzione di un futuro troppo lontano: lo interessa poco. Per cui procede a strappi. Alla ricerca di battaglie da vincere e di avversari da sconfiggere. Così, da ultimo, ha trasformato la frattura con Fini e i suoi fedeli, la conseguente nascita di Fli, il voto di sfiducia in una opportunità. Un'altra sfida personale. Da vincere, per risalire la china. Come il barone di Munchausen che, caduto in una palude, riesce a sollevare se stesso e il proprio cavallo da solo, tirandosi su per il codino (cioè, per i capelli: questa sì un'impresa impossibile anche per il Cavaliere...).

Il problema è che passato il 14 dicembre e incassata la non-sfiducia nulla è cambiato. L'Uomo dell'Emergenza resta nell'emergenza.
Come il Paese. Instabile e precario. Come la sua maggioranza. Ipotetica. Non per altro oggi, il Terzo Polo è divenuto tanto importante, per Berlusconi. Lui, l'Uomo dell'Emergenza, ha bisogno di un'ancora a cui aggrapparsi per sopportare il maremoto dell'emergenza. Per lo stesso motivo, la Lega vuole elezioni al più presto. Perché la debolezza di Berlusconi rafforza la Lega. La coabitazione con l'Udc la minaccia.

Così, di crisi in crisi, di emergenza in emergenza, la capacità di reazione e di ripresa di Berlusconi, si è consumata. E oggi appare quasi esaurita. Dopo le discese ardite, le risalite seguono sempre più faticose. La sua vittoria contro Fini, oggi, appare un episodio circoscritto. Non gli ha restituito la "fiducia" del Paese (come potrebbe?). Mentre quella della Camera dipende da un mercato dei voti più volatile di quello finanziario. Berlusconi: è l'Uomo del Giorno  -  per giorno. Annunciarne il declino: non serve. È già declinato.

Il problema è che per batterlo non bastano astuzie tattiche ed elettorali. Finché prevarrà l'emergenza come orizzonte culturale e politico, oltre che economico. Berlusconi ne resterà lo specchio fedele. E, al tempo stesso, l'interprete più efficace.

(20 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/20/news/berlusconi-10402618/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Pd e il grande equivoco delle primarie.
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2011, 04:40:22 pm
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Il Pd e il grande equivoco delle primarie. La scelta che cambia il futuro del partito

Non è un passaggio solo tecnico, ma nel centrosinistra assume un forte carattere simbolico.

Eppure tra gli elettori di sinistra solo un terzo le giudica indispensabili.

Parisi le definì "il mito fondativo dell'Ulivo". In 4 milioni scelsero Prodi.

L'utilizzo però è stato à la carte: sì per Veltroni e Bersani, no per Franceschini


di ILVO DIAMANTI


Da qualche tempo, nel Pd, la passione per le primarie sembra in declino. Nel gruppo dirigente, perlomeno.
Lo stesso Bersani, di recente, ne ha messo in dubbio il ricorso in caso di alleanza con il Terzo Polo (di Centro). Al quale le primarie - per usare un eufemismo - non piacciono.
D'altronde, l'atteggiamento verso le primarie è sempre stato contraddittorio. Basti pensare al caso della Puglia, in vista delle Regionali di un anno fa, quando alcuni dirigenti del Pd (D'Alema e Letta, in particolare) tentarono di bloccarle. Per impedire la ricandidatura di Vendola. Senza esito. Anzi, con l'effetto opposto: rafforzare Vendola. Trionfatore delle primarie e ri-eletto Governatore. Tuttavia, non solo in Puglia, ma anche altrove, per esempio a Firenze e, di recente, a Milano, si sono imposti candidati diversi da quelli indicati dal Pd.
Da ciò la crescente insofferenza dei suoi dirigenti verso le primarie. Con l'argomento che mobilitano soprattutto i "militanti". E, in questo modo, favoriscono la scelta di candidati maggiormente caratterizzati. Ma, per lo stesso motivo, meno rappresentativi degli orientamenti degli elettori. Soprattutto, di quelli più moderati.

In effetti, il dibattito sulle primarie è rivelatore di una questione più ampia. Che riguarda, direttamente, l'identità e il progetto del Centrosinistra in Italia.
Oltre che del Pd, che ne costituisce il riferimento. Le primarie, infatti, non hanno un significato semplicemente "tecnico". Assumono, invece, una grande importanza simbolica.
Arturo Parisi, che (accanto a Prodi) ne è stato - se non il primo - uno dei primi sostenitori, le ha definite il "mito fondativo" dell'Ulivo. Soggetto politico a vocazione maggioritaria, destinato ad accogliere le istanze e le componenti più diverse del Centrosinistra. In altri termini: il modello dell'Unione, sperimentato alle elezioni del 2006. In vista delle quali si svolsero le primarie, nell'autunno del 2005, che designarono Romano Prodi candidato premier. Si trattò, in effetti, di una investitura. A cui, tuttavia, parteciparono oltre 4 milioni e 300 mila elettori - dei diversi partiti della coalizione. Non solo l'Ulivo, ma anche l'IdV, l'Udeur, i Verdi. Segno di una domanda effettiva e particolarmente ampia nel Centrosinistra.

Si tratta, peraltro, dell'unica occasione in cui le primarie siano state utilizzate, in ambito nazionale, per il loro fine naturale (come rammenta spesso Gianfranco Pasquino).
Cioè: selezionare il candidato a una carica monocratica. In questo caso: il Presidente del Consiglio. Successivamente, nel 2007 e nel 2009, hanno, invece, funzionato da surrogato - o da complemento - ai congressi di partito. Mediante cui eleggere i segretari - e gli organismi - del Pd. Che, nel frattempo, aveva sostituito l'Ulivo. Seguendo il modello americano del bipartitismo. Non più Unione, ma Partito Unico dei riformisti. Nell'autunno del 2009, in particolare, l'elezione del segretario e degli organismi avvenne attraverso un percorso complesso. Prima i Congressi - a livello di circolo e di provincia - riservati agli iscritti, con il compito di eleggere la Convenzione (e l'Assemblea nazionale). Poi le primarie, aperte agli elettori (dichiarati). Poi ancora l'Assemblea, a ratificare la scelta delle primarie. Un collage di modelli organizzativi, che riassume - ed enfatizza - l'incertezza progettuale alla base del Pd. In bilico fra "partito di massa" - dunque di "iscritti" - radicato a livello territoriale. E "partito di elettori", in formato maggioritario e americano. Fondato sulle primarie.

Un equivoco mai risolto. Che riemerge di continuo. E oggi diventa difficile da eludere e da rinviare.
Anche perché coinvolge gli stessi elettori. I cui orientamenti riflettono la medesima incertezza dei gruppi dirigenti. Come emerge dal sondaggio di Demos (condotto nelle scorse settimane), la maggioranza degli elettori di Centrosinistra continua a ritenere utili le primarie per scegliere i candidati Premier, Sindaci, Governatori e Parlamentari. Ma coloro che vorrebbero utilizzare questa procedura "sempre" - e in ogni occasione - costituiscono comunque una minoranza, per quanto ampia: il 30%. Questa posizione, peraltro, è espressa dal 42% degli elettori di Sel, ma da poco più di un quarto di quelli del Pd e dell'Idv. Per contro, è vero che solo una quota limitata (intorno al 20%) rifiuta le primarie "a prescindere". Tuttavia, fra gli elettori appare evidente un certo grado di confusione. Sulle primarie, sul partito, sul Centrosinistra.

Sulle primarie. Perché, fino ad oggi, sono state utilizzate "à la carte". Per eleggere i candidati alle cariche di governo - centrale e locale. Vi si è fatto ricorso per designare Prodi ma non Veltroni. Né, a Roma, per candidare Rutelli. Per eleggere gli organismi e i segretari di partito: Veltroni e Bersani, ma non Franceschini.

Sul partito. Sul Pd. I suoi segretari, i suoi organismi, la sua identità. La sua memoria. Hanno tratto legittimazione dalle primarie. Senza che, peraltro, questa procedura venisse regolata e istituzionalizzata.

Sul Centrosinistra. Di cui le primarie hanno definito gli incerti confini. In modo estensivo, nel 2006. Da Mastella fino a Bertinotti. In modo selettivo, nel 2007. Quando Veltroni ne ha riassunto il perimetro intorno all'asse Pd-Idv.

Oggi, nel gruppo dirigente del Pd tutti questi dubbi restano. Irrisolti. E si ripercuotono, evidenti, sulle intese e sulla leadership. Ma con le elezioni che continuano a incombere è meglio scioglierli. Presto. Bersani e il gruppo dirigente del Pd: decidano. Quali intese e quali candidati. E quale metodo di coinvolgimento della base. In altre parole: quale modello di partito. Ma senza reticenze. Le primarie non sono una religione. Restano, tuttavia, il "mito fondativo". Dell'Ulivo, del Pd. Non ultimo: sono la procedura attraverso cui è avvenuta l'elezione di Bersani e degli organi dirigenti del partito. Il rito che garantisce loro legittimazione. Discuterle è utile, perfino necessario. Consapevoli, però, che, nello stesso momento, si rimettono in discussione la leadership e il modello di partito. E anche questo mi pare utile, perfino necessario.

(03 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/sondaggi/2011/01/03/news/mappe_3_gennaio-10799142/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La democrazia provvisoria
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2011, 03:56:53 pm
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La democrazia provvisoria

di ILVO DIAMANTI


È DA almeno sei anni che siamo in campagna elettorale. Permanente. Non solo perché  -  nel regno dell'Opinione Pubblica  -  intorno a ogni decisione, il governo cerca di costruire il consenso e l'opposizione il dissenso.

Ma perché, effettivamente, si è votato sempre. Ogni anno o quasi. Nel 2004: le Europee. Nel 2005: le Regionali. Nel 2006: le Politiche. Silvio Berlusconi ne ha sempre contestato l'esito.
E, al Senato, la maggioranza di Prodi era, comunque, troppo esile per offrire speranza di (lunga) vita. Così la campagna elettorale è proseguita, senza soluzione di continuità, fino al 2008, quando si è tornati alle urne per ri-eleggere il Parlamento. Da allora è ricominciata la sequenza. Nel 2009: di nuovo le Europee. Nel 2010: ancora le Regionali. Insomma, le campagne elettorali non finiscono mai, per parafrasare Eduardo. Neppure quando le elezioni dovrebbero essere lontane nel tempo. Come nell'Italia d'oggi, dove il centrodestra nel 2008 ha conquistato una maggioranza parlamentare larghissima. Guidata da un Presidente del Consiglio che sostiene di essere il più amato di tutti, su scala Europea. E forse non solo. Per cui non dovrebbe aver problemi a governare il Paese fino al 2013, scadenza naturale della legislatura.

Non è così. Probabilmente Berlusconi non è il più amato dagli italiani, a leggere i dati di molti sondaggi (che egli considera, naturalmente, "tarocchi"). Di certo, però, la campagna elettorale prosegue.
Permanente. E dopo le Regionali dello scorso aprile è ripresa, più violenta che mai. Anche se a chiedere il voto anticipato non è l'opposizione. Il centrosinistra e il Pd, in particolare. Troppo impegnati a dividersi e a polemizzare, al loro interno.

È, invece, nella maggioranza che la richiesta  -  minaccia? -  di elezioni echeggia, senza sosta. Evocate come un mantra soprattutto dalla Lega. Un giorno sì e l'altro anche. In nome del Federalismo che verrà. L'unica vera bandiera che interessi alla Lega. Altro che il Tricolore. Se non arrivasse, tanto meglio: si voti subito. La Lega contro tutti. Il Nord contro tutti.
E soprattutto contro l'Italia, che non vuole il federalismo. Se poi il federalismo fiscale venisse davvero approvato, comunque, non produrrebbe effetti prima di qualche anno. E quali non è ben chiaro. Per cui, comunque, la Lega vuole andare a votare. Presto. Ma non vuole esserne la causa. O meglio: vuole una "giusta causa" da usare come arma. Il federalismo o l'Italia: un bel campo di battaglia elettorale.

Berlusconi, invece, teme le elezioni. Non tanto per paura di perderle. La coalizione di centrodestra resta avvantaggiata. Ma la vittoria, oggi, appare meno certa di prima. Molto dipende dalle coalizioni che riusciranno a costruire avversari e nemici. Il centrosinistra, il centro-sinistra, oppure il centro e la sinistra. Ma dipende, soprattutto, dall'esito al Senato, dove conquistare la maggioranza dei seggi, con questa legge elettorale, è una scommessa rischiosa. Comunque il Pdl  -  o come si chiamerà, visto che Berlusconi ha promesso di cambiargli nome  -  rischia di venire ridimensionato pesantemente. A Nord, dalla concorrenza  -  agguerrita  -  della Lega. Ma anche nel Sud, dall'azione di Fli, del Terzo Polo e delle altre Leghe meridionali che avanzano.

Comunque, anche Berlusconi ha bisogno di una "giusta causa" per licenziare il governo, in condizioni tanto precarie per la politica e l'economia. Visto che il Premier in pectore, Giulio Tremonti, continua ad agitare la crisi economica. Esattamente come la Lega il voto. La crisi, ha detto Tremonti, è come un videogame. Scompare e riappare. Abbatti un nemico e ne emerge un altro. Magari lo stesso. Ma Berlusconi è l'Uomo dell'Emergenza. Non può permettersi di andare al voto in condizioni di emergenza. Perché le emergenze Lui le risolve. Come i rifiuti a Napoli, il terremoto all'Aquila, la sfida della (s) fiducia parlamentare contro Fini. Come la crisi economica.

Appunto. E teme, Berlusconi, le Sante Alleanze. Contro o senza di lui. Allestite da nemici e amici. Per evitare il voto o per sostituirlo con Tremonti. In questo scenario di campagna elettorale permanente, il voto smette di essere uno strumento di partecipazione e di rappresentanza istituzionale. Diventa, invece, un elemento di propaganda. Invocato ora come minaccia, ora come necessità. Ora come ricatto. Esorcizzato, con paura o con fastidio.

In Francia, dove si voterà l'anno prossimo per le presidenziali, i candidati, i partiti e le coalizioni si preparano. In vista del voto che verrà. L'anno prossimo. Non nei prossimi mesi, in primavera, autunno. O chissà quando... Perché le elezioni non sono una procedura qualsiasi, ma il rito istituzionale che legittima la democrazia rappresentativa. E che garantisce senso e consenso ai governi e agli organismi "rappresentativi".

Appunto. Questo Paese in emergenza permanente, in campagna elettorale permanente, per motivi sempre nuovi e diversi, tali e tanti che i cittadini difficilmente vi si orientano.
Questo Paese, dove il voto europeo oppure regionale e municipale serve a smentire quello politico e legislativo. Dove ogni sondaggio equivale a un'elezione. Anzi ha più valore, perché è più attuale, si rinnova ogni giorno. Dove l'Opinione Pubblica  -  costruita dai sondaggi e dai media  -  ha rimpiazzato i cittadini e gli elettori. Dove non si riesce più a capire quando e perché  -  e se  -  si voti. È un "Paese provvisorio" (come lo definì Edmondo Berselli). Incapace di darsi prospettive e riferimenti stabili. Unica certezza: la provvisorietà.

Ma se le elezioni diventano un optional, un artificio retorico, un argomento polemico, un'ipotesi perenne: anche la democrazia diventa provvisoria. 

(10 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/10/news/la_democrazia_provvisoria-11032588/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - E se il Cavaliere uscisse di scena
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2011, 11:09:21 am
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E se il Cavaliere uscisse di scena

di ILVO DIAMANTI


E se domani Berlusconi uscisse di scena, travolto dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie, più che dall'opposizione politica. Lasciato solo dagli alleati. Dalla Lega, che ha già annunciato l'intenzione di andare subito al voto, se il federalismo si arenasse in Parlamento. Da Umberto Bossi, sempre più infastidito dallo stile di vita del Premier (a cui consiglia di "darsi una calmata").

Criticato dagli industriali, che considerano l'azione economica del governo insufficiente contro la crisi. (Lo ha ribadito anche ieri Emma Marcegaglia.) Dalla stessa Chiesa vaticana, fino a ieri indulgente seppure imbarazzata. Danneggiato dall'immagine internazionale, a dir poco logora. Infine, elemento definitivo e determinante, sfiduciato dagli italiani, dai suoi stessi elettori. (Nonostante i sondaggi degli ultimi giorni non suggeriscano grandi spostamenti elettorali. Segno di un'assuefazione etica molto elevata).

Anche in queste condizioni, Berlusconi, probabilmente, resisterebbe fino in fondo. ("Non mi piego, non mi dimetto, reagirò", ha ripetuto due giorni fa.) D'altronde, ha sempre dato il meglio (o forse il peggio) di sé di fronte alle emergenze. Sull'orlo dell'abisso. Come il barone di Münchausen, che riesce a sollevare se stesso e il proprio cavallo, tirandosi su per il codino.

Eppure "se"  -  e sottolineo "se"  -  all'improvviso Berlusconi uscisse di scena, messo all'angolo da coloro che hanno, da tempo, atteso (e preparato) questo momento. Ma anche da molti "amici" e cortigiani, come avviene sempre al potente, quando cade in disgrazia. Allora: cosa accadrebbe? In primo luogo, si sfalderebbe la maggioranza. Quel patto tra partiti e gruppi raccolti intorno a lui  -  e da lui  -  dal 1994 fino ad oggi. La Lega, An, i gruppi post e neodemocristiani che ancora non si sono allontanati da lui, confluendo nel Terzo Polo.

Il Pdl, in primo luogo. L'ha detto a "Ballarò" il ministro Angelino Alfano, tra i più vicini al Premier. Senza Berlusconi, il Pdl non potrebbe esistere né resistere. Perderebbe senso e fondamento. Identità, organizzazione e risorse. Come un ghiacciaio enorme, dove stanno un po' meno di un terzo degli elettori, ma una quota molto più ampia del sistema mediatico, della classe politica e amministrativa  -  centrale e locale: si scongelerebbe.

Poi, la Lega. Se ne andrebbe per conto proprio, attirando gli elettori, i gruppi economici e sociali, ma anche gli amministratori e i leader vicini alla sua proposta politica. Giulio Tremonti, per primo.

Nel complesso, si spezzerebbe quel puzzle fragile che Berlusconi aveva composto. Perché, va detto, Silvio Berlusconi è l'unico ad aver "unito" l'Italia, nella Seconda Repubblica. A modo suo, intorno a sé. Questa base elettorale e questo ceto politico, un tempo distribuito su base nazionale, nel passaggio da Fi al Pdl si sono meridionalizzati. Si disperderebbero. In che direzione? Nel Centro-Sud: un elettorato frammentato e instabile, largamente controllato da lobby locali, singoli leader, mediatori politici. Probabilmente si frazionerebbe ulteriormente, in tante piccole leghe meridionali. Nel Nord, invece, la Lega rafforzerebbe il suo radicamento e il suo peso elettorale. Non aderirebbe a una nuova alleanza di centrodestra con un partito rimasto senza leader. Ma, probabilmente, investirebbe, senza troppe remore, nell'indipendenza della "Padania". Approfittando della crisi economica e delle difficoltà dell'euro. Il centrosinistra, perduto il "nemico", si rifugerebbe nella sua fortezza di sempre. Le Regioni del Centro. Per non vedersi schiacciato dalla Padania, dal governo romano  -  di centrodestra  -  e dal Sud, fiaccato dalla crisi e dalla frammentazione.

Insomma, l'uscita di scena di Silvio Berlusconi accentuerebbe le divisioni del Paese, che egli, in questi anni, ha coltivato e dissimulato. E aprirebbe un vuoto di potere: politico e di senso. Visto che l'intera architettura di questa Repubblica è stata concepita da lui. E si regge su di lui. Perché Silvio Berlusconi è l'inventore della Seconda Repubblica. Colui che ha imposto la personalizzazione e il marketing in politica. Il format a cui si sono uniformati tutti i partiti, a destra e a sinistra. Berlusconi: ha alimentato l'anticomunismo e, in modo simmetrico, l'antiberlusconismo. Insieme al contrasto Nord-Sud e all'orientamento anti-romano, affermati dalla Lega, le fratture "ideologiche" più importanti degli ultimi 17 anni.

Se Berlusconi uscisse di scena ora, all'improvviso, non solo la maggioranza, ma anche l'opposizione di centrosinistra  -  il Paese stesso  -  si troverebbero spaesate. Il sistema politico italiano, scosso da conflitti politici e di leadership, perderebbe la bussola. Il corpo dello Stato, riassunto, insieme al corpo politico e sociale, rischierebbe di decomporsi, insieme al corpo del Capo, che li riassume tutti in sé. (Come ha evocato Mauro Calise, nella nuova edizione de Il Partito personale, edito da Laterza).

Lungi da me l'intenzione di legittimare l'esistente. Anche nelle "democrazie del pubblico" (come le chiama Bernard Manin, nel volume pubblicato dal Mulino), diffuse in Europa e in Occidente, Berlusconi costituisce un'anomalia. Per il grado di concentrazione dei poteri che ha realizzato. Lui, capo del governo, del partito maggiore, proprietario del più grande gruppo mediatico privato, ma influente anche sui media pubblici. È giusto superare questa anomalia, che condiziona da troppo tempo la nostra democrazia. Al più presto. Anche perché Berlusconi appare, da tempo, indebolito. Insieme a lui, si sono indeboliti: il sistema politico, il senso civico, per non parlare del rapporto con lo Stato e lo stesso Stato. Già tradizionalmente deboli, fra gli italiani. Si sono indeboliti anche i fragili legami di solidarietà che legano un Paese tanto diviso.

Tuttavia, occorre essere consapevoli che se Berlusconi abbandonasse la scena politica, per ragioni politiche o giudiziarie (o per entrambi i motivi), i problemi del Paese non si risolverebbero. All'improvviso. Ma si riproporrebbero seri e gravi. Non meno di adesso. Non ne usciremmo, non ne usciremo, senza realizzare le riforme annunciate ed eluse, dopo la fine della prima Repubblica. Ecco: se Berlusconi uscisse di scena, occorrerebbe ri-costruire, ri-formare e ri-fondare la nostra democrazia attraverso "un processo costituente condiviso". Rinunciando al vizio e al brivido dell'anomalia. Anche se una "democrazia normale" non è nelle nostre corde, nella nostra tradizione.

Ma, personalmente, mi sarei stufato degli effetti speciali.

(24 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/24/news/e_se_il_cavaliere_uscisse_di_scena-11577793/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Pronto, chi parla? Silvio Berlusconi
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2011, 05:59:28 pm
Pronto, chi parla? Silvio Berlusconi

Ilvo DIAMANTI

Ricordo come fosse ieri o forse oggi "Quelli della notte". "Notte", anche se, usando gli standard attuali della programmazione televisiva e biografica, si trattava solo di "seconda serata". Era la metà degli anni Ottanta. Nel circo mediatico  allestito e diretto da Renzo Arbore, in mezzo a D'Agostino (Dagospia), Marenco, Frassica, Ferrini, Laurito, Luotto e tanti altri personaggi colorati, acuminati e stralunati, piombò Lui. Il Presidente partigiano. Sandro Pertini. Una telefonata austera. Tutti sull'attenti, ci mancherebbe, perché nessuno dubitò che si trattasse di uno scherzo.

Infatti: era Paolo Guzzanti. Allora giornalista di Repubblica. Ma non se ne accorse nessuno. Perché nessuno avrebbe immaginato che qualcuno potesse osare tanto. Imitare il Presidente. E nessuno poteva immaginare che qualcuno potesse "trascinare" il Presidente in mezzo a una trasmissione scanzonata e ironica fino alla goliardia. A quell'ora della notte. Ieri sera, mentre seguivo le ultime battute dell'Infedele 1 ed è stata annunciata una telefonata del Presidente - del Consiglio, non della Repubblica - ho pensato la stessa cosa: è sicuramente lui. E tutto il pubblico dell'Infedele ha pensato lo stesso. È certamente lui. Anche se per ragioni opposte: perché Berlusconi è, da tempo, una presenza fissa dei talk di approfondimento politico della RAI.

In particolare,
di Ballarò, il programma di Floris, a cui è intervenuto in più occasioni, telefonicamente. (Anche se l'ultima volta Floris ha lasciato cadere 2 la sua telefonata.) In precedenza, nel 2007, telefonò anche a Santoro (il quale ai  primi insulti chiuse il collegamento.) È divenuto un ospite telefonico, un opinionista dei talk politici, il Presidente (del Consiglio).

Interviene spesso, per manifestare, immancabilmente, il suo sdegno verso le falsità pronunciate in studio dai suoi "nemici". Come all'Infedele, definito da Berlusconi, "spettacolo disgustoso, con una conduzione spregevole, turpe e ripugnante". Ma forse interviene e irrompe in tivù anche per richiamare gli "amici" a un maggior senso di appartenenza, a una maggiore lealtà.

Invece di adeguarsi al clima di delegittimazione che sale intorno a lui. Perché ciò che lo irrita maggiormente è la sindrome dell'accerchiamento. Che lo fa sentire solo e isolato. Da tutti.  Non solo i nemici "dichiarati", quelli che gli rivolgono "10 domande"  - a cui si rifiuta puntualmente di  rispondere; quelli che lo convocano nei tribunali di Milano per chiedergli conto della sua vita allegra e variopinta, con ragazze giovani e giovanissime; quelli che  lo spiano, lo ascoltano, lo intercettano nella sua vita privata - come se potesse avere una vita privata un uomo pubblico che ha esibito in pubblico il suo privato fin da quando è "sceso in campo".

Quelli, in fondo, sono "schierati". In modo aperto. Non fingono, per opportunismo o per convenienza, di essere suoi amici. Come tanti - troppi - intorno a lui. Che aspettano il momento opportuno per tradirlo, abbandonarlo, andarsene altrove, con gli altri. Quelli che gli stanno accanto, giurano fedeltà eterna, ma in realtà vorrebbero sostituirlo, stare al posto suo, anche a costo di mettersi d'accordo con i suoi nemici. Quelli che hanno ricevuto da lui regali, privilegi, potere. E sarebbero ancora laggiù, isolati, ai margini della politica. Esclusi e  irrilevanti.

Telefona, Silvio, per ri-chiamare gli amici che accettano di partecipare alle trasmissioni ostili, organizzate dai suoi nemici, affollate dai suoi nemici. Tanto più se, di fronte alle "tesi false e lontane dalla realtà" che lo riguardano,  non se ne vanno. Ma, nonostante il suo invito, restano lì, limitandosi a qualche protesta, anche violenta, non importa. In fondo la rissa in tivù rende, fa ascolto. Quanto le storie pruriginose intorno a Berlusconi.

Allora, il Presidente del Consiglio, al colmo dell'ira, afferra il telefono e chiama. Ri-chiama. Insulta. Alza la voce. Come esige il clima mediatico del tempo - di cui gli è il grande imprenditore. Alza la voce, dà sulla voce, senza ascoltare gli altri. E prosegue, insiste, senza pause, la voce alterata. Una raffica di insulti contro quelli che lo hanno diffamato. Contro il conduttore spregevole che guida quel "postribolo mediatico ripugnante". In fondo, anche contro quelli che passano per suoi amici ma restano lì. E con la loro presenza, legittimano le infamie nei suoi riguardi.

Telefona, Berlusconi, per difendersi e per attaccare. In fondo, non si fida degli altri. Non si fida di nessuno. Solo di se stesso.

Lui, solo contro tutti.

Lui, semplicemente: solo.

 

(25 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/01/25/news/pronto_chi_parla_silvio_berlusconi-11641744/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Lo Stato del pareggio
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2011, 06:06:24 pm
Lo Stato del pareggio

Ilvo DIAMANTI

Il voto della Commissione Bicamerale sul federalismo municipale è esemplare. Raffigura, meglio di molte altre immagini e analisi, lo Stato della politica. Della nostra democrazia. Del nostro Stato. Il "pareggio", infatti, non significa equilibrio. Al contrario. Il Parlamento, in questo caso, appare davvero rappresentativo di quel che avviene nella società e sul territorio. Di ciò che siamo davvero: un  Paese diviso. E sospeso: incapace di seguire un percorso chiaro e con-diviso.

Il pareggio, infatti, è frutto di una frattura politica profonda tra una maggioranza presunta e un'opposizione, a sua volta, incapace di "imporsi". Ma in grado, comunque, di "opporre" il suo voto, o meglio, il suo "veto" di fronte a questioni determinanti, dal punto di vista simbolico, prima ancora che pratico. Visto che, sinceramente, è difficile definire cosa sarebbe uscito, cosa uscirebbe  da questo provvedimento (se comunque proseguisse fino in fondo il suo iter). Passato attraverso mille incontri, mille negoziati, mille modifiche e mille emendamenti. Depurato, precisato e complicato da "milleproproghe". È difficile sapere cosa ne uscirebbe  -  ne uscirà  -  davvero.

Di certo, ha un significato  -  appunto  -  simbolico importante. Il Federalismo  -  senza altri aggettivi. È la bandiera brandita dalla Lega. Per  indicare la direzione e la missione  politica che persegue. Per dimostrare a tutti
- e agli elettori padani prima di tutti gli altri  - che la Lega c'è. E, a differenza di altri, degli stessi alleati, dello stesso Premier, non si limita a dire, ma fa. Oltre alle parole: i fatti. Anche se, per ora e per molto tempo ancora, si tratterebbe comunque e ancora di "parole". Visto che sarebbe stato  -  sarà -   efficace e operativo solo fra alcuni anni. Il pareggio, però, rende vane anche le parole. E ribadisce "fatti" molto evidenti. Il primo, ripeto ancora una volta: siamo un Paese diviso, governato (?) da una maggioranza che non è in grado di decidere e, comunque, di imporre le proprie scelte. Perché, in fondo, anch'essa, nel Paese, è divisa. Se la Lega è il Nord, il PdL è il Centro-Sud.

In secondo luogo, il pareggio significa che nessuno ha vinto e nessuno ha perso. Semmai, che hanno perso tutti. Anzitutto e soprattutto, il PdL e Berlusconi, che si confermano in-decisi a tutto. La Lega, che, in Parlamento, non è in grado di portare a termine neppure un simulacro di federalismo.  Ma anche l'opposizione di Centro e di Centrosinistra, unita, comunque, nell'opporsi. Ma non quando si tratta di "imporsi", intorno a un progetto (un soggetto, un leader) comune. Così, questo Paese diviso, si specchia e si riproduce in un Parlamento diviso: come la politica, la società, il territorio. È lo Stato del Pareggio. Dove tutte le sfide che contano finiscono in parità. Cioè, con un nulla di fatto. Oggi, in Commissione Bilaterale: quindici a quindici.

Ma, in effetti, si tratta di zero a zero. Sommati, i due punteggi e i due progetti si elidono reciprocamente.
Con un solo risultato. Zero.

 
(03 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/rubriche/bussole


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'anima romana della Lega
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2011, 12:03:31 pm
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L'anima romana della Lega

di ILVO DIAMANTI

Ha sorpreso l'atteggiamento della Lega di fronte al pareggio "subìto" dal provvedimento sul federalismo municipale in commissione Bicamerale. Invece di aprire la crisi, come aveva minacciato in precedenza, ha mantenuto l'appoggio al governo e al Premier.

Rinviando ancora l'ipotesi di elezioni anticipate. Tanto da indurre Massimo Giannini, su questo giornale, a parlare di una "Lega democristiana". Cioè: tattica e "politicante". Come i deprecati partiti della Prima Repubblica. DC in testa. È, peraltro, vero che la Lega riproduce fedelmente la geografia elettorale della DC delle origini. Forte nelle province periferiche del Nord. Soprattutto in Lombardia e Veneto. D'altronde, nel 1982, Antonio Bisaglia, allora leader influente della DC, in una intervista affermò che: "il Veneto sarebbe maturo per uno Stato federalista, ma questo Stato, centralista e burocratico, alla mia regione l'autonomia non la concederà mai". Un linguaggio leghista, prima che la Lega calcasse la scena politica. Bisaglia guidava i "dorotei", la corrente che aveva posto al centro della rappresentanza gli interessi locali. Il mestiere interpretato, in seguito, dalle Leghe regionaliste e, a partire dagli anni Novanta, dalla Lega Nord. Con altro linguaggio e altri mezzi. Ma con una "missione" molto simile: la rivendicazione nei confronti di Roma, il centro dello Stato centrale e del centralismo statale. E, parallelamente, la protesta contro il Sud assistito. In rappresentanza non più del Veneto o di singole regioni, ma del Nord tutto intero. Trasformato in Patria padana.

Il Federalismo è la bandiera che riassume tutte queste rivendicazioni. Più che un progetto definito, un mito. Una parola d'ordine. Potrebbe funzionare alla grande come slogan in caso di elezioni anticipate. Principale tema dell'agenda in campagna elettorale. Impugnato contro i nemici del Federalismo e quindi del Nord. In questo strano Paese, dove tutti - o quasi - sono federalisti. A parole. Assai meno nei fatti. (A conferma delle radici democristiane che affondano nel nostro retroterra.) Contro l'opposizione che si è opposta. E contro gli alleati del PdL, troppo meridionali per promuovere il federalismo in modo veramente convinto. Contro Berlusconi, incapace di "mantenere le promesse".

Tuttavia, le preoccupazioni della Lega, in caso di elezioni anticipate, non derivano dal risultato, ma dal "dopo". Come suggeriscono le precedenti "ondate" della storia elettorale leghista, ricostruite da Roberto Biorcio nel suo bel saggio dedicato alla "Rivincita del Nord" (pubblicato da Laterza, pochi mesi fa). Ai successi elettorali del 1992 e del 1996, infatti, è puntualmente seguita una fase di declino rapido e profondo. Nel 1994: la sua base di voti venne ridimensionata sensibilmente dall'ingresso sulla scena politica di Silvio Berlusconi - alleato e al tempo stesso concorrente. Per cui nel 1996 la Lega affrontò le elezioni da sola contro tutti - e in primo luogo contro Berlusconi - innalzando il vessillo della secessione. Anche per distinguersi, visto che, come oggi, tutti, o quasi, si definivano "federalisti". Ottenne un risultato clamoroso, oltre il 10% e 4 milioni di voti al maggioritario. In termini assoluti: il massimo della sua storia. Salvo ritrovarsi, tre anni dopo, marginale e debole. Dal punto di vista politico ed elettorale. (Alle Europee del 1999 scese al 4,5%, alle politiche del 2001 non raggiunse il 4%). Per la precisione: debole dal punto di vista elettorale perché marginale dal punto di vista politico. Gran parte dei suoi elettori, infatti, non erano interessati alla secessione. Ma votavano Lega per altre ragioni, molto più concrete. Come minaccia per contrastare il "centralismo" dello Stato e per ottenere risorse. Per pesare di più, non per andarsene. Una Lega "esclusa" dai centri del potere, ininfluente, dal punto di vista politico, diventava "inutile". Ebbene, lo stesso rischio si presenta oggi. Dopo la "terza ondata" elettorale, avvenuta nel 2008 (oltre l'8% dei voti validi) e proseguita nel 2009 (10,2%). Quando è tornata al governo, insieme a Berlusconi e al Pdl. Dopo le elezioni regionali del 2010, in cui ha conquistato due regioni: il Veneto e il Piemonte. È una Lega di governo che deve la sua forza elettorale, (cresciuta ancora, secondo i sondaggi, fino all'11-12%) proprio a questo ruolo. È il partito che governa nel Nord e in Italia. Il sindacalista della "questione settentrionale". Buona parte dei suoi successi dipendono da ciò. Il mito padano, la minaccia secessionista non vanno sottovalutati. Perché alimentano, a loro volta, divisione sociale, antagonismo verso lo Stato nazionale e le istituzioni. Ma la Lega li usa, anzitutto e soprattutto, a fini simbolici, per generare identità e appartenenza presso i militanti e la base del partito. Come il "federalismo", considerato una panacea nel Nord, ma un rischio nelle altre zone del Paese.

Tuttavia, se la Lega perseguisse davvero la secessione e l'indipendenza padana rischierebbe la risacca elettorale seguita alle ondate del 1992 e del 1996. Perché, come ha sottolineato ieri Eugenio Scalfari, larghissima parte degli elettori del Nord è totalmente indisponibile a questa prospettiva. Secondo il recente Rapporto su Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per "la Repubblica" (dicembre 2010), la quota di elettori delle regioni "padane" che considera utile dividere il Nord dal Sud non supera il 20%, ma sale al 37% fra i leghisti. Due terzi dei quali, dunque, rifiutano questa idea. Non solo: 8 elettori leghisti su 10 considerano l'Unità d'Italia un fatto (molto o abbastanza) positivo. La Lega deve la sua crescita elettorale soprattutto ad altri motivi. Perché interpreta le rivendicazioni locali. Perché si è radicata nel territorio, è al governo in numerose amministrazioni (fra l'altro, ha eletto circa 400 sindaci), occupa posizioni di potere nelle fondazioni bancarie e in altri enti (come ha rilevato Tito Boeri). Perché interpreta - e talora moltiplica - le paure. Più della Secessione, è il partito della Sicurezza (come difesa dalla criminalità e dall'immigrazione). Ciò che le ha permesso, fra l'altro, di sconfinare oltre i confini tradizionali, espandendosi nelle regioni rosse. La Lega: riesce a presentarsi come opposizione "nel" governo. Restando al governo. A gridare contro Roma. Con i piedi ben piantati a Roma. È una Lega nazionale, a cui la Padania va stretta, anche se la invoca. E difende Berlusconi, nonostante tutto, perché, al di là dei proclami, teme la secessione.

(07 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/07/news


Titolo: ILVO DIAMANTI - Berlusconi, fiducia a picco è tornato ai livelli del 2005
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2011, 12:22:13 pm
ATLANTE POLITICO

Berlusconi, fiducia a picco è tornato ai livelli del 2005

Metà degli italiani crede ai pm. Gli elettori spaesati guardano a Napolitano, l'80% è con lui: Lega e Pdl compresi.

Premier a parte, i leader aumentano i consensi, Tremonti il più gettonato nel centrodestra.

Pdl e Pd poco sopra il 50%, è la fine del bipartitismo

di ILVO DIAMANTI

Berlusconi, fiducia a picco è tornato ai livelli del 2005 Napolitano e Berlusconi

Silvio Berlusconi resiste. Nonostante le inchieste, gli scandali e le proteste.

Anzi, reagisce con violenza. Contro i nemici. La Magistratura, i giornali e i giornalisti della Repubblica Giudiziaria.

Perfino  -  anche se in modo meno esplicito  -  contro il Presidente della Repubblica.
Ma la sua posizione e la sua immagine ne hanno risentito sensibilmente.

(LE TABELLE DEMOS 1 su www.repubblica.it/politica)

Come mostra il sondaggio condotto nei giorni scorsi dall'Atlante Politico di Demos per la Repubblica. Oggi, infatti, la fiducia dei cittadini nei confronti di Silvio Berlusconi ha toccato il fondo. La quota di italiani che ne valuta positivamente l'operato (con un voto almeno sufficiente) è ridotta al 30%. Meno che nel settembre 2005, quando il Cavaliere sembrava avviato a una sconfitta pesante alle elezioni politiche dell'anno seguente. Il che suggerisce di usare cautela, prima di darlo per finito, visto come sono andate le cose in seguito. Tuttavia, gli avvenimenti recenti fanno sentire i loro effetti. Quasi metà degli italiani ritiene vere le accuse rivolte dagli inquirenti a Berlusconi. E pensa che il Premier si dovrebbe dimettere. Meno del 20% considera, invece, falsi i fatti che gli sono addebitati. Anche se oltre metà degli italiani ritiene che, per quanto colpevole, il Premier resterà "impunito". Come sempre. Anche per questo la fiducia in Berlusconi, oltre che limitata, appare in declino costante e precipitoso.
È, infatti, calata di 5 punti percentuali negli ultimi due mesi, ma di 12 rispetto allo scorso giugno e addirittura di 18 rispetto a un anno fa. I motivi di insoddisfazione degli elettori, d'altronde, vanno al di là delle feste e dei festini a casa del Premier. Solo un italiano su quattro, infatti, pensa che il governo Berlusconi abbia "mantenuto le promesse". Quasi metà rispetto a due anni fa.

Neppure gli elettori leghisti sembrano disposti ad ammetterlo. Da ciò la crescente in-credibilità di Berlusconi. Sempre più indebolito sul piano del consenso personale. Mentre tutti gli altri leader politici hanno migliorato la propria immagine presso gli elettori, negli ultimi due mesi. Nella maggioranza (e non solo), Tremonti resta il più apprezzato. Nel Terzo Polo, non solo Casini - di gran lunga il più stimato  -  ma anche Fini ha recuperato (un po' di) credibilità, dopo la battuta d'arresto subìta il 14 dicembre. Nel Centro-Sinistra, infine, Vendola si conferma il "più amato", per quanto anche Bersani abbia allargato la propria base di consensi. È significativo il seguito di una outsider come Emma Bonino. Nonostante il peso elettorale, limitato, del suo partito. A conferma del disorientamento di quest'epoca, senza riferimenti fissi. Senza baricentri. Come emerge, con chiarezza, dalle intenzioni di voto. Contrassegnate, anzitutto e soprattutto, dal calo sensibile dei due partiti principali. Il PDL, infatti, scende al 27%, il PD al 24%. Insieme: poco più del 50%. Alle elezioni politiche del 2008 superavano il 70%. Segno definitivo che l'illusione bipartitica è finita. Compromessa  -  se non finita  -  insieme alla capacità di Berlusconi di unire e dividere il mondo (politico) italiano. Con la conseguente frammentazione, che, più degli altri, premia la Lega, a destra, e SEL, a sinistra. È interessante osservare come il quadro cambi sensibilmente di fronte a scenari di coalizioni possibili. In primo luogo, si assiste a una riduzione consistente degli indecisi. I quali, praticamente, si dimezzano con effetti evidenti sugli equilibri politici.

Secondo le stime dell'Atlante Politico, infatti, l'attuale coalizione di governo, allargata alla Destra di Storace, perderebbe nettamente il confronto (57% a 43%) con una  -  ipotetica  -  "Grande Alleanza" di opposizione, che dal Terzo Polo arrivasse fino a SEL, passando per il PD e l'IdV. Ma appare sfavorita anche in una competizione tripolare. Il Centrosinistra (PD e IdV insieme a SEL) vincerebbe, infatti, in misura più larga rispetto a due mesi fa (6 punti percentuali in più). Aiutato, per un verso, dal voto di elettori incerti di centrosinistra; per altro verso, dalla crescita del Terzo Polo a spese del Centrodestra.

Si spiega così la resistenza del Premier di fronte a ogni ipotesi di voto anticipato. Assecondato, con malcelato disagio, dalla Lega. Si spiegano, allo stesso modo, le telefonate del Premier durante le trasmissioni "nemiche", la crescente pressione esercitata sui media. Ma anche la guerriglia condotta dagli uomini della maggioranza contro ogni sondaggio sfavorevole. Il Premier, il PdL, il centrodestra sono impegnati a modificare il clima d'opinione loro sfavorevole. Con ogni mezzo. E ad allontanare le elezioni anticipate. Visto che oggi il Centrodestra ha la maggioranza  -  ipotetica e incerta  -  in Parlamento, ma è minoranza nel Paese, fra gli elettori.

In questo Paese spaesato non può sorprendere la crescita costante e vertiginosa dei consensi nei confronti del Presidente, Giorgio Napolitano. Verso cui esprime fiducia oltre l'80% degli italiani. Lo "stimano" quasi tutti gli elettori del PD, ma anche l'80% (circa) di quelli del PdL e oltre due terzi dei leghisti. È che il Presidente offre una sponda nel vuoto politico e nella crisi che scuote le istituzioni. D'altronde, le mobilitazioni e le proteste sociali delle ultime settimane, al di là delle specifiche rivendicazioni (ieri le donne hanno riempito le piazze in nome della propria "dignità), denunciano anch'esse un "vuoto" politico. Un deficit di alternativa. Il PD, d'altronde, non è più in grado, da tempo, di "fare opposizione", da solo. Ma neppure di stabilire i confini e le condizioni di un'alleanza. Se promuovesse un'intesa esclusiva con il Centro, ad esempio, perderebbe, come mostra l'Atlante Politico. Il PD resta, comunque, determinante per costruire l'alternativa. Ma deve farlo in fretta.

Oggi, un'alleanza tra le forze di opposizione avrebbe grandi possibilità di rappresentare la "maggioranza"  -  dei cittadini ma anche degli elettori. È ciò che teme Berlusconi. È il motivo per cui non vuole interpellare il "popolo sovrano". Almeno in questa fase. Ma - per lo stesso motivo - il PD e gli altri partiti di opposizione dovrebbero rivendicare il ritorno alle urne. Al più presto. Indicando, fin d'ora, quale coalizione. Il programma è obbligato: ri-formare e ri-fondare questa Repubblica straordinaria, questa democrazia indefinita. In modo, per quanto possibile, condiviso. Anche se ci attenderebbe una campagna elettorale dura, durissima. In tempi duri, durissimi. Ma, come ha ammonito il Presidente della Repubblica, è meglio una battaglia a termine, per quanto aspra, di questa guerra quotidiana - senza fine e senza quartiere - fra Berlusconi e le istituzioni dello Stato. Da cui io, personalmente, mi sento ogni giorno di più, sconfitto.

(14 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: ILVO DIAMANTI - In che parte del mondo è la Libia?
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2011, 11:07:13 pm

Bussole

In che parte del mondo è la Libia?

Ilvo DIAMANTI

È una questione di geografia, di geopolitica. E di comunicazione globale. Il disorientamento di fronte a quel che capita nel Nord Africa. Davanti a noi. Poco più avanti. Due passi appena dalle nostre coste meridionali. Ma fatichiamo a renderci conto di quanto ci riguardi davvero. Quanto possa cambiare le nostre vite, la nostra vita. L'unica cosa che ci preoccupi davvero è l'ondata migratoria  -  incombente e imminente. Enorme, inutile nasconderlo. E noi, che, nel corso degli anni, abbiamo eretto un muro nel Mediterraneo, per difenderci dagli "altri". Dall'invasione dei "disperati". Noi, che abbiamo trasformato il Mediterraneo stesso in un muro, per fingerci inaccessibili. Una fortezza. Al sicuro dal mondo. Noi: ci siamo allontanati dalle sponde del Nord Africa e del Medio Oriente. Le abbiamo allontanate da noi. Le abbiamo "percepite" lontane. Un altro continente, appunto. Un'altra epoca. Un'ex colonia d'oltre mare, sperduta nello spazio e nel tempo. E le visite di Gheddafi a Roma non hanno fatto che rafforzare questa convinzione. Vista la determinazione estrema con cui il rais, nelle sue visite in Italia, ha provocato stupore e incredulità. In modo consapevole e volontario. Cammelli, vergini e guardie del corpo al seguito. Tutti accampati nel centro di Roma. Con la compiacente complicità del governo. Tutto per marcare le distanze da noi. Dalla nostra... cultura. Senza troppe speranze, perché ormai ci siamo abituati a ben altro. Figurarsi se ci possiamo sorprendere per qualche decina di ragazze
e una tendopoli di lusso in centro città.  Tuttavia, abbiamo rimosso la vicinanza della Libia, dell'Egitto. Dell'Africa del Nord. Più in generale, ci siamo allontanati dal Mediterraneo. Quasi fosse una condanna. Noi, che temiamo di "scivolare in Africa". Appunto. Come rammenta spesso Lucio Caracciolo,  abbiamo rinunciato al ruolo che ci deriva dalla nostra posizione geopolitica. Al centro del Mediterraneo. L'abbiamo - volutamente - negata. Nella visione della nostra classe dirigente, oltre che degli italiani: è stata accantonata. Spinta ai margini.

Non ci ha aiutato la globalizzazione. Al contrario. La riduzione dei tempi e dello spazio. L'allargarsi della rete e della comunicazione, in ogni luogo e in ogni momento della vita quotidiana. Hanno permesso a tutti di sapere tutto in tempo reale.  Con il paradossale esito che abbiamo perduto il senso delle distanze. Perché se tutto è qui, allora nulla è qui. La Tunisia e la Nuova Zelanda, la Libia e l'Iraq, Haiti e l'Egitto. L'Afghanistan e il Marocco. Ci riguardano e ci investono allo stesso modo. Perché le immagini della rivolta e della ribellione oppure della guerra e della devastazione passano in diretta, a tutto schermo, una dopo l'altra, una accanto all'altra. Davanti ai nostri occhi, a casa nostra.

Così ci sentiamo disorientati. Perché tutto ha lo stesso colore, lo stesso rumore, la stessa distanza. Altrove e qui, allo stesso tempo. I terremoti, le rivoluzioni, le carestie, le guerre. La Libia è vicina eppure lontana. Lontana anche se vicina. Come la Tunisia e l'Egitto. E se ciò che avviene in questi Paesi fosse davvero simile al crollo del muro di Berlino, nel 1989,  come ha osservato Vàclav Havel, ripreso da Gad Lerner  su Repubblica, noi faticheremmo, comunque, ad accorgercene. A vedere. Impegnati a erigere nuovi muri  -  invisibili e illusori - intorno a noi, abbiamo trasformato anche il Mediterraneo in un muro. Non servirà a difenderci dal mondo e da noi stessi. Perché la Libia è vicina. Praticamente: è qui.
 

(25 febbraio 2011) © Riproduzione riservata

da - repubblica.it/rubriche/bussole


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il fattore coalizione che stana gli astenuti
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2011, 03:29:27 pm
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Il fattore coalizione che stana gli astenuti

di ILVO DIAMANTI

Da qualche tempo il dibattito politico ha preso in considerazione le coalizioni, oltre ai partiti. O meglio: più ancora dei partiti. Soprattutto in prospettiva elettorale. Visto che le elezioni anticipate, anche se non appaiono probabili, restano, almeno, possibili.

Tuttavia, in una competizione tra coalizioni, la maggioranza di centrodestra perderebbe voti, mentre le aggregazioni alternative ne guadagnerebbero. Se utilizziamo, come base-dati di riferimento, il sondaggio dell'Atlante Politico di Demos di due settimane fa, in una competizione di tipo maggioritario a tre, il Centrodestra otterrebbe il 37% dei voti validi (circa 3 punti in meno rispetto alla somma dei partiti), il Centro salirebbe, invece, al 20% (oltre 6 punti in più) mentre il Centrosinistra raccoglierebbe quasi il 43% (4 punti in più). Diverso il risultato di una competizione a due. La "grande coalizione" tra il Centro con il Centrosinistra e la Sinistra si attesterebbe al 56%, mentre il Centrodestra salirebbe al 43%. L'attuale maggioranza, cioè, guadagnerebbe voti (rispetto alla somma dei partiti) ma perderebbe largamente lo stesso. Vincerebbe solo in caso di alleanza del Pd (da solo) con il Centro. Oppure se il Centrodestra trovasse, a sua volta, l'intesa con il Centro.

Da questo bilancio quantitativo, pedante e forse un po' noioso, emergono due indicazioni interessanti.

1) I partiti di opposizione riescono a essere competitivi quando si presentano in "coalizione". Se interpretano le elezioni in modo (semi) "maggioritario". D'altronde, prima del famigerato Porcellum del 2005, il Centrosinistra guadagnava nella competizione maggioritaria, il Centrodestra in quella proporzionale. (Motivo per cui il Centrodestra cambiò legge elettorale.)

2) Tuttavia, a questo esito contribuisce, in parte, il comportamento della "zona grigia" dell'elettorato, che comprende e riassume gli indecisi, i reticenti e quelli che si dicono intenzionati ad astenersi. Una componente molto ampia. Superiore a un terzo degli elettori. Secondo alcuni istituti, intorno al 40%. Ebbene, di fronte alla scelta fra coalizioni invece che fra singoli partiti, l'ampiezza della "zona grigia" quasi si dimezza. Oltre il 45% di quanti non voterebbero per un partito, infatti, voterebbero per una coalizione. (Il che significa oltre il 15% e 7 milioni di voti).

3) Se ne avvantaggerebbe, chiaramente, l'opposizione. In caso di competizione a tre: il 12,6% degli incerti sceglierebbe il Centrodestra, il 13,8% il Centro e il 20,6% il Centrosinistra. In caso di competizione a due, fra il Centrodestra, da una parte, e il Centro, il Centrosinistra e la Sinistra alleati, dall'altra parte, il 16% degli indecisi (e degli altri che non si esprimono) si schiererebbe con il Centrodestra, il 31,6% con il Centro-Centrosinistra.

Questi dati suggeriscono alcune considerazioni.

a) L'area degli indecisi risente dell'offerta politica. Cioè, delle alternative e delle regole della competizione elettorale. Il Centrodestra, fondato sull'alleanza fra Berlusconi e Bossi, tra Pdl e Lega, dispone di un'identità definita. Ciò lo rende abbastanza stabile, dal punto di vista elettorale, ma con pochi margini di ulteriore crescita. Per cui appare esposto alla "concorrenza", nel momento in cui gli avversari, invece di rassegnarsi a una logica proporzionale, si presentassero insieme. Perché non si vota solo per affermare un'identità. Ma anche per vincere.

b) D'altronde, il Pd, ormai, è ridotto al 24-25%, per effetto, soprattutto, degli "elettori scoraggiati". Evocano i "lavoratori scoraggiati", le fasce deboli del mercato del lavoro, che, nelle fasi di crisi, ne restano fuori. Allo stesso modo, gli "elettori scoraggiati" si parcheggiano fuori dal "mercato elettorale", quando le alternative, ai loro occhi, appaiono "scoraggianti". Come oggi. Gli elettori del Pd: delusi dal deficit di leadership, di progetto, di linguaggio del partito. Dal senso di impotenza di fronte a Berlusconi. Anche quando, come in questa fase, il Premier appare fragile e vulnerabile. Lo stesso sentimento deprime gli elettori a sinistra della Sinistra, che nel 2008 rinunciarono a votare, perché "esclusi" dalla soglia imposta dalla legge elettorale e dalla decisione di Veltroni di allearsi solo con l'Idv.

c) Questi elettori "scoraggiati", in parte, sono stati attratti dalle novità politiche "personalizzate" degli ultimi anni: Vendola oppure Di Pietro. In parte, semplicemente, si sono chiamati fuori. "Esuli". Cambierebbero atteggiamento di fronte a un'alternativa concreta, offerta da un'alleanza del Centrosinistra con la Sinistra. O a un'opposizione che comprendesse anche il Centro. Allora, potrebbero uscire dalla zona grigia, rientrare dall'esilio. Votare.

d) Sanno bene che si tratterebbe di una soluzione transitoria, perché hanno già sperimentato la difficoltà di "governare", dentro a coalizioni che comprendono gruppi e identità tanto eterogenee. Basti pensare all'esito rapido e infelice dell'Unione. Tuttavia, neppure la coalizione di centrodestra che governa ha messo in luce grande compattezza. Nonostante abbia stravinto le elezioni nel 2008, naviga a vista. Sopravvive grazie a sedicenti "responsabili" e ad altri parlamentari itineranti fra un gruppo e l'altro.

e) E poi, non è detto che le coalizioni debbano essere "per sempre". Si possono costruire a termine. Per conseguire specifici obiettivi. Ad esempio: una nuova legge elettorale, alcune riforme istituzionali. E anzitutto: per battere il Centrodestra guidato da Berlusconi. Per battere Berlusconi. Al di là delle sue vicende giudiziarie: con il voto.

f) Il problema è che le alleanze "alternative", per essere credibili, per attrarre gli elettori irriducibili e quelli scoraggiati, debbono essere dichiarate. Sottoscritte. Insieme agli obiettivi. E al candidato comune e condiviso.

g) Ma per uscire dalle simulazioni, ciò deve avvenire presto. Anzi: se non ora, quando?


(28 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'infinito corpo a corpo con i pm che divide destra e sinistra
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2011, 11:38:02 pm
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L'infinito corpo a corpo con i pm che divide destra e sinistra

Un'alternativa bipolare fra premier e giudici, trattati come "soggetto politico".

Dopo un calo di consensi, dal 2008 la fiducia nella magistratura è al 70% nel centrosinistra e al 20% per il Pdl

di ILVO DIAMANTI


TRA Silvio Berlusconi e i magistrati, ormai, è un corpo a corpo. L'attività del governo e del Parlamento, infatti, ruota intorno a un solo problema. Immunizzare il premier. Impedire che venga indagato, giudicato. Intercettato. D'altronde, oggi l'opposizione è afona e l'attacco portato dall'antico alleato, Gianfranco Fini, in Parlamento, pare neutralizzato.
L'unico vero "nemico" sembra essere rimasto il "partito dei Pm", alla guida della "Repubblica Giudiziaria". Tuttavia, non è stato sempre così. Anzi.

La "discesa in campo" del Cavaliere non sarebbe stata possibile senza Tangentopoli. Senza la "tabula rasa" prodotta da Mani Pulite nel sistema partitico e nella classe politica della Prima Repubblica. È in quel "vuoto" che si è imposto Silvio Berlusconi, insieme al suo "partito personale", Forza Italia.
La magistratura, all'epoca, più che la giustizia rappresenta il Grande Giustiziere, a cui gli italiani affidano il compito di affondare la Prima Repubblica, ormai delegittimata - e, dunque, di fondare la Seconda.
In quella fase paga un prezzo pesante. Falcone, Borsellino e la loro scorta cadono vittime dell'attacco della mafia contro l'unica istituzione che ancora rappresenti lo Stato legittimo. Per questo Berlusconi, al tempo del suo primo governo, nel 1994, cerca di reclutare la figura simbolo del pool di Milano: Antonio Di Pietro. Inutilmente. Anzi, la magistratura diviene rapidamente il Nemico, più che l'avversario.
Soprattutto dopo l'opposizione espressa, lo stesso anno, contro il decreto del governo che blocca la custodia cautelare per i reati di Tangentopoli. E dopo l'inchiesta nei confronti del premier, annunciata sui giornali in coincidenza con il G8 di Napoli.

GUARDA LE TABELLE 1 (su http://www.repubblica.it/politica/2011/03/07/news/mappe_magistratura-13273693/?ref=HREC1-2)

Gli effetti di questa "rottura politica" si riflettono, evidenti, nella percezione degli elettori. La fiducia nei magistrati, dopo il 1994, crolla: dal 67% (dati Ispo) scende al 41% nel 1997. E negli anni seguenti calerà ancora, fino al minimo del 34% (dati Demos). È spinta in basso dagli elettori di centrodestra. Ma diminuisce anche nella base del centrosinistra. Perché le inchieste giudiziarie colpiscono tutti gli attori politici. Di tutti gli schieramenti.

Tuttavia, la magistratura appare - ed esercita - un potere "autonomo" e politicamente sempre più rilevante. In quanto influenza la credibilità degli attori politici. In primo luogo perché nella "democrazia del pubblico e dell'opinione" l'ideologia conta poco. Conta invece - sempre più - la fiducia nella persona. Misurata dai sondaggi, rilanciata e legittimata dai media. Soprattutto dalla tivù. Di fronte all'opinione pubblica, i magistrati diventano i "custodi della convivenza e della virtù" (per usare le parole di Alessandro Pizzorno). Le loro inchieste e le loro iniziative possono de-legittimare un leader, un partito, un attore pubblico.

La seconda ragione riguarda la "presidenzializzazione" che, di fatto, si afferma in Italia (e non solo). E riunisce i "due corpi del Re" (per riprendere la "teologia politica" di Ernst Kantorowicz). In quanto il "corpo politico" si identifica nel "corpo" (naturale) del leader (come osserva Mauro Calise nella nuova edizione de "Il partito personale", pubblicata da Laterza). Per cui non c'è più distanza tra sfera politica e personale. I fatti privati diventano pubblici. E viceversa. Per un verso, esibiti, per l'altro, spiati e riprodotti sui media.
Così, Silvio Berlusconi si trova costantemente esposto e "minacciato". Il Cavaliere, d'altronde, non ha solo due corpi. Oltre al suo corpo naturale e a quello politico-statale (leader di partito e premier), ha un corpo mediale (e imprenditoriale). Il che moltiplica le interferenze e le connessioni fra privato e pubblico. E rende politicamente "sensibile" ogni iniziativa dei magistrati nei confronti del premier. Perché ne danneggia la fiducia personale e la legittimazione pubblica. Così, i magistrati vengono percepiti come il principale, se non l'unico, oppositore.

Tutti, perché Berlusconi generalizza all'intera magistratura le accuse e le polemiche che, in realtà, (come ha osservato Nando Pagnoncelli) riguardano principalmente le inchieste della procura di Milano. Trasformando i "suoi" problemi con la giustizia in un progetto di riforma della giustizia. Le sue questioni personali in una Questione Nazionale.

Peraltro, i livelli di fiducia verso i magistrati si dissociano, fra Destra e Sinistra, a partire dalla campagna in vista delle elezioni politiche del 2006. Ma la forbice si allarga a dismisura soprattutto dopo il ritorno di Berlusconi al governo, nel 2008. Da allora, infatti, il consenso verso la magistratura cresce sensibilmente, fino a sfiorare (nel 2011) il 50% degli elettori nell'insieme. Ma nel centrosinistra il grado di fiducia supera il 70%, mentre, nel centrodestra, scende quasi al 20%.

A questa tendenza concorrono alcune ragioni, in parte collegate.
a) La polemica costante condotta da Berlusconi contro i magistrati, volta a dare significato politico a ogni inchiesta lo riguardi.
b) L'indebolirsi dell'opposizione, in particolare dopo la fine del governo Prodi.
c) Il significato politico assunto da ogni inchiesta che riguardi la vita "privata" del premier.
d) L'importanza crescente attribuita dal Pd e, insieme, dal centrosinistra alla questione "legale" (e al tempo stesso "morale").
e) L'affermarsi dell'Idv. Cioè, il partito di Antonio Di Pietro. Che personalizza il ruolo della Magistratura - e della legalità - in politica. Ciò, ovviamente, non significa che la Magistratura si faccia "rappresentare" da Di Pietro. Ma è, comunque, vero che il 75% degli elettori dell'Idv sostiene i magistrati. E una quota simile di elettori del Pd esprime lo stesso sentimento. Mentre solo il 22% della base del Pdl dichiara fiducia nei magistrati e nella giustizia.

Così si delinea un'alternativa bipolare fra Berlusconi e i magistrati, trattati come "soggetto politico". Al Cavaliere non interessa "distinguere", ma generalizzare. Perché il suo intento è cambiare le regole e il sistema per "salvare" se stesso.
È un corpo a corpo, si diceva all'inizio. Berlusconi lo vorrebbe risolvere, a proprio favore - e in modo definitivo - scindendo il corpo della giustizia. Attraverso la separazione delle carriere e del Csm. Per non separare i "tre corpi del Re", che egli riassume nella propria persona.

(07 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - Se il Bacchiglione in piena minaccia il mito del Nordest
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2011, 05:05:27 pm

Bussole

Se il Bacchiglione in piena minaccia il mito del Nordest

Ilvo DIAMANTI

Non pensavo che mi sarei soffermato ancora sul Bacchiglione - e sui corsi d'acqua che solcano il territorio vicentino  e delle province vicine. Così presto. E invece eccomi di nuovo qui, insieme a molti altri, a osservare il cielo gonfio di pioggia. A scrutare il livello dell'acqua che sale pericolosamente. Sfiora il ponte degli Angeli, in centro a Vicenza. E lambisce gli argini, a volte li scavalca, nel tratto che precede il  Ponte del Marchese. Dove basta alzare gli occhi per vedere la base militare americana del Dal Molin. Che si allarga e cresce sempre più. Un giorno dopo l'altro, Ormai pare una metropoli nella metropoli, visto che questo territorio è una metropoli.

L'acqua continua a salire.  In molti punti ha invaso la campagna. E a Rettorgole, a Cresole - località di Caldogno - i residenti hanno già ammassato i sacchetti davanti alle case. In fondo a Corso Palladio vi sono numerose auto parcheggiate. Sul cruscotto, ben visibile, un foglietto avvisa: "Garage allagato".  Troppo vivo il ricordo dell'alluvione di quattro mesi fa, nei primi giorni di novembre. Chi abita da queste parti si è abituato al pericolo incombente. Questi corsi d'acqua. Fino a ieri li avevo sempre visti come torrenti innocui, rigagnoli senza pretese. In grado di ingrossarsi. Talora. Fino ad allagare i campi, intorno. Talora. Ma senza gravi conseguenze per le cose e soprattutto per le persone. Oggi non è più così. L'alluvione di novembre ha cambiato il nostro linguaggio e la nostra prospettiva. Al
posto di "allagare" abbiamo imparato a dire "esondare".  È più efficace ed espressivo. Dà l'idea dell'onda che irrompe. Non avevamo mai pensato che questi torrenti potessero diventare tanto cattivi. Aggredire le case e le strade. Distruggere. Aziende, mobili, auto. E perfino uccidere. Talora.

Quando è successo, quattro mesi fa, abbiamo pensato, qualcuno ha pensato, che fosse un caso estremo. Un'eccezione. L'insieme di condizioni ed eventi imprevedibili. Irripetibili. O, almeno, difficilmente ripetibili.  Giorni di precipitazioni violente e battenti. Un'ondata di caldo improvvisa che scioglie la neve sulle montagne vicine.  Poi, certo, anche l'ambiente. Deteriorato dall'urbanizzazione e dall'azienda diffusa. Un po' dovunque. Ma, insomma, qualche prezzo bisogna pur pagarlo al successo economico, al benessere.

Il prezzo, però, sta diventando, è diventato, molto caro. Una tassa esosa e frequente. Quasi un pizzo da pagare di continuo. A noi stessi, in fondo, che non cessiamo di logorare il nostro mondo locale. Il nostro futuro.

Questa volta l'acqua è uscita dai torrenti e dai fossi dopo mezza giornata di pioggia. Un giorno al massimo. È stato sufficiente. Gli uomini della protezione civile si sono disposti vicino ai ponti, in centro a Vicenza. I residenti hanno cominciato a sorvegliare i torrenti. Gli  argini. Pronti ad affrontare il peggio. Un giorno di pioggia appena. Manco si trattasse della valle del Nilo. Manco che il Bacchiglione fosse il Gange. Invece siamo nei dintorni di Vicenza. Lungo la strada che conduce a Verona. Dove, ormai, non c'è bisogno di eventi eccezionali, improvvisi per produrre effetti deleteri. È  l'abnorme normalità di un territorio ormai incapace di reagire a episodi naturali appena extra-ordinari.  Così è sufficiente un giorno di pioggia battente e il terreno si allaga, diventa un lago, una palude. Le case affondano. Il terreno non riesce più ad assorbire. Mentre i fossi, i torrenti, peraltro, non hanno più argini in grado di trattenerli. Le case sono lì, a poca distanza. Quando l'acqua esce, pardon: esonda, non ci sono spazi che ne frenino la marcia.

Spazi? Basta guardarsi intorno. Dove avanza una plaga immobiliare informe che si è dilatata in ogni direzione. Occupa ogni angolo del nostro sguardo. Tra case e capannoni, zone artigiane e residenziali punteggiate di rotonde.  Tutto è avvenuto e continua ad avvenire senza che ce ne rendessimo conto. Perché ormai non vediamo più. Non siamo più in grado di vedere. Solo di provare disagio e malessere. Così si cercano i responsabili all'esterno. Roma.  I partiti romani. Lo Stato. E, poi, la Regione, la Provincia, il Comune. Sempre più vicino a noi. Perché è difficile  ammettere che questa mutazione non è stata prodotta  -  solo - da cause e colpe lontane. Ma tutto è avvenuto sotto i nostri occhi. Un anno dopo l'altro, un giorno dopo l'altro. Con la nostra complicità. E con un consenso generalizzato. In fondo non solo a Venezia, ma anche a Milano, Torino e soprattutto a Roma oggi governano i "nostri". (Magari non i "miei". Ma generalizzo in senso figurato...) Così, guardiamo quel che ci sta capitando intorno  senza  vedere (anche) noi stessi, sullo sfondo. E se il Bacchiglione continuerà a uscire, noi continueremo a ricacciarlo indietro. Da soli. Come abbiamo sempre fatto. In fondo, il benessere ha un prezzo... Lo sviluppo ha un prezzo...  Siamo diventati la locomotiva d'Italia, il crocevia produttivo d'Europa. Il mitico Nordest.

Perché lamentarsi?

(17 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/rubriche/bussole


Titolo: DIAMANTI Dal Nord al Sud fieri del tricolore così vince l'orgoglio nazionale
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2011, 05:07:09 pm
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Dal Nord al Sud fieri del tricolore così vince l'orgoglio nazionale

L'indagine condotta da Demos ritrae una popolazione coesa, non condizionata dalle polemiche leghiste.

Solo il 7 per cento dei cittadini ritiene che l'unificazione amministrativa sia stata un errore.

Anche tra gli elettori del Carroccio il secessionismo non sfonda: in sette su dieci prevale lo spirito unitario.

Rispetto a 10 anni fa ci sentiamo più divisi e infelici. Perfino meno solidali

Ma fiduciosi nel futuro del Paese

di ILVO DIAMANTI


DOPO 150 anni l'Unità dell'Italia pare acquisita. Riconosciuta dagli italiani, senza grandi problemi, insieme ai simboli e agli avvenimenti storici che la contrassegnano. Non era scontato, anzi: le polemiche sollevate dalla Lega e - per riflesso - dalle frazioni "neoborboniche" del Sud, sembravano allargare le distanze che attraversano il Paese. Trasformando le differenze in divisioni. Ma i dati del sondaggio condotto da Demos (per Intesa Sanpaolo) disegnano un ritratto molto diverso. Quasi il 90% degli italiani (intervistati nel corso dell'indagine) considera in modo positivo la conquista dell'Unità. Più specificamente, il 56% la giudica "positiva" e il 33% "molto positiva". Solo il 7% guarda l'Unità italiana con atteggiamento di segno negativo. È un sentimento condiviso dovunque. Le differenze territoriali sono minime. Per cui lo spirito unitario appare meno esteso nel Nord. Ma solo "un po'". Anche tra gli elettori della Lega, per quanto più circoscritto, raggiunge il 70%. La ragione di un orientamento così positivo, nonostante le polemiche, probabilmente, sta proprio nelle polemiche. Nel dibattito acceso - e continuo - suscitato negli ultimi mesi intorno all'Unità e ai suoi simboli. Nella catena di provocazioni piccole e medie - lanciate dalla Lega e dai suoi amministratori. "Va pensiero" cantato nelle cerimonie invece dell'Inno di Mameli. I vessilli regionali invece del - o accanto al - Tricolore. Poi l'accostamento continuo del federalismo all'indipendenza del Nord.
Insomma, una sequenza di sfide e di piccoli strappi che hanno prodotto l'esito, non si sa quanto voluto, di rafforzare il sentimento unitario, insieme ai simboli che lo evocano. Agendo da spot emozionali e promozionali, invece che da disincentivi.

...

Un fenomeno molto simile si era verificato agli inizi degli anni Novanta, quando la Lega lanciò la sua campagna indipendentista, che sfociò, nel 1996, nella marcia "secessionista" lungo il Po. Per marcare il confine padano rispetto all'Italia. Ebbene, mai come allora l'orgoglio e l'identità nazionale assunsero proporzioni così ampie. E il sostegno all'unità italiana apparve largo come mai prima di allora. Lo stesso orientamento che emerge in questa fase, in questi giorni. Tutti gli italiani, o quasi, convinti dell'importanza della conquista unitaria. Convinti che sia importante riconoscersi italiani. Anche tre elettori della Lega su quattro. Evidentemente, leghisti senza essere padani.

Allo stesso modo e allo stesso tempo, è significativo il valore attribuito a eventi e simboli "unitari". Altrimenti e altre volte sottovalutati. Se non criticati apertamente. La Costituzione, il Risorgimento, perfino la Resistenza. E ancora, l'Inno di Mameli, il Tricolore. Gli italiani guardano con ammirazione i Padri della Patria: Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Mazzini e, per primo, Giuseppe Garibaldi. Spesso "deplorato" dai nordisti, dai sudisti, in qualche misura, anche dai papalini. Per aver "unificato" l'Italia. Il Nord e il Sud. Figura eroica, in camicia rossa. Ed è interessante osservare come l'ammirazione degli italiani si allarghi anche ad alcuni tra i "fondatori" e i leader politici della Prima Repubblica. Democristiani ma anche comunisti. Alcide De Gasperi ed Enrico Berlinguer, soprattutto. E, per primo, Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Br, anche (forse proprio) perché aveva perseguito - quasi raggiunto - lo "storico compromesso" fra i due partiti di massa che avevano fondato e accompagnato l'Italia repubblicana. Certo, non bisogna pensare che il disincanto nazionale, all'improvviso, sia scomparso. Rimpiazzato da un orgoglio inedito. Sarebbe troppo. Intanto, l'atteggiamento verso l'ultima fase della Prima Repubblica è molto più critico. Craxi, lo stesso Andreotti sono guardati con diffidenza. Associati a Tangentopoli. Percepita come una rivoluzione mancata, più che incompiuta.

La storia nazionale, per molti italiani, è come fosse finita allora. Da lì inizia il declino. Che riapre la frattura nei confronti delle istituzioni e della sfera pubblica. L'orgoglio nazionale, per questo, si indirizza, più ancora di un tempo, su aspetti che riguardano le tradizioni sociali e locali. La cultura e l'arte. Ci si dice orgogliosi del nostro patrimonio artistico, delle bellezze del nostro territorio, della nostra cucina, della moda, del cinema. Del nostro stile e del nostro modo di vita. Ma molto meno - anzi, quasi per nulla - della politica e dei politici. Insomma, gli italiani si sentono uniti dalla loro capacità di "fare" e inventare, di reagire alle difficoltà. Ma da soli. Senza lo Stato e senza le istituzioni. Di cui si apprezza la storia, non il presente. Da ciò il significato riconosciuto alla Costituzione, di cui si discute molto, oggi, ma che è stata scritta molto prima. Dopo la guerra. Da ciò, soprattutto, il grande valore riconosciuto alla ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta. Un periodo emblematico, quasi una bandiera. L'epoca in cui il Paese riuscì a risollevarsi dal baratro in cui l'aveva gettato la guerra. A "ricostruire", o meglio, a "costruire" un'economia che prima non esisteva. A conquistare lo sviluppo, prima, il benessere, poi. In altri termini: a inventare un futuro nuovo e diverso rispetto al passato. Oggi, invece, anche l'orgoglio suscitato dagli imprenditori e dall'economia appare timido. Conseguenza evidente di questa fase di crisi.

Insomma, echeggiando Spinoza, l'orgoglio nazionale appare una "passione triste". Rispetto a 10 anni fa, infatti, gli italiani, si sentono più divisi e infelici. Perfino meno solidali. Ammettono un ulteriore declino dello spirito civico. Eppure scommettono che fra 10 anni il Paese sarà ancora unito, in un'Europa ancora unita. Scommettono che si canterà ancora l'inno di Mameli. Che il Tricolore continuerà a sventolare. Nonostante lo Stato e le leggi. Nonostante la crisi economica. E se si sentono frustrati dal presente e dal passato recente. Se il futuro è fuggito. Allora si rifugiano nel privato e nella memoria. Nei miti della storia. Questo Paese disincantato e disilluso. E, nonostante tutto, unito. Questo Paese di "italiani nonostante". 

(17 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/03/17/news


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Belpaese si scopre diplomatico
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2011, 11:31:01 am
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Il Belpaese si scopre diplomatico

di ILVO DIAMANTI

La guerra è arrivata. A due passi da noi. Perché la Libia è proprio lì, appena al di là delle nostre coste. Lo sapevamo da tempo che il Nord Africa è in ebollizione. La Tunisia, l'Egitto, oltre all'Algeria. E poi la Libia. Ma fino a ieri avevamo immaginato  -  voluto immaginare  -  che si trattasse di "fatti loro". Movimenti, rivolte perfino rivoluzioni che esplodevano al loro interno. Ci sentivamo coinvolti anzitutto e soprattutto per le conseguenze sui flussi migratori. La prima  -  l'unica  -  preoccupazione espressa dal governo attraverso i suoi principali esponenti, all'inizio. Per gran parte degli italiani, però, si trattava  -  si è sempre trattato  -  di avvenimenti lontani, che interessano mondi lontani. Nel tempo e per cultura. Dunque: lontani e basta. Non importa che siano a un passo da noi. Noi li abbiamo sempre considerati "al di là del muro". Del nuovo muro che ci separa dai paesi più poveri. Di cui l'Africa costituisce il territorio più prossimo.

La comunicazione globale, paradossalmente, ha reso questi avvenimenti e questi luoghi più irreali. E più lontani. Perché le nuove tecnologie "hanno rotto il diaframma tra il tempo e lo spazio" (come ha osservato Innocenzo Cipolletta nel suggestivo, e quasi profetico, Banchieri, politici e militari, Laterza editore). Così le distanze e le differenze sfumano. Lo tsunami in Giappone, la rivoluzione che scuote la Tunisia e l'Egitto. Le ribellioni in Algeria e in Bahrain. E la rivolta in Libia. Tutto scorre sotto i nostri occhi, senza soluzione di continuità. È lo spettacolo della realtà. Che diviene per questo irreale, come un reality. Così abbiamo tardato a capire. A renderci conto che in Libia stava scoppiando una guerra. Che ci avrebbe coinvolti. Inevitabilmente.

La Libia. Un tempo "colonia d'oltremare". La quarta sponda. A noi appare la regione di un universo parallelo e irreale. Come il suo sultano, Gheddafi. Quello che è venuto in Italia, anche di recente, con al seguito una carovana di cammelli e centinaia di vergini da convertire. Quello che si è accampato nel centro di Roma, allestendo una tendopoli reale. Non può essere veramente reale. Anche se noi, ormai, non ci stupiamo più di nulla. Il "nostro" sovrano, d'altronde, ci ha abituati a uno stile di governo disinibito. Abolendo i confini tra comunicazione e realtà. Tra spettacolo e politica. E sui media la nostra politica estera  -  come, in parte, quella interna  -  è personalizzata e insegue Berlusconi, le sue relazioni private, i suoi affari.

La guerra. Fino all'ultimo, abbiamo preferito non crederci davvero. Ci siamo finiti in mezzo in modo quasi inconsapevole e involontario. Come spesso è avvenuto in passato. L'Italia: una portaerei, una base strategica, in posizione strategica. Fino alla caduta del Muro: avamposto lungo il confine orientale. Oggi: piattaforma nel cuore del Mediterraneo, zona critica del nuovo dis-ordine globale. Gli italiani non vogliono la guerra. Come la popolazione di tutti i paesi, d'altronde. Ma gli italiani in modo ancora più determinato. Senza rivisitare i luoghi comuni della nostra storia, a partire da Machiavelli, basta fare riferimento ai tempi recenti. L'atteggiamento nei confronti dell'intervento in Afghanistan, prima, e in Iraq, dopo. La schiacciante maggioranza dei cittadini contrari, senza se e senza ma. Pacifisti, per convinzione (anche per il peso della tradizione cattolica). Ma anche per sensibilità e timore. Personale e familiare. (I sondaggi hanno sempre sottolineato l'avversione significativa da parte delle donne e delle madri.) I nostri governi, anche per questo, hanno mostrato grande riluttanza nei confronti degli interventi armati. Senza, peraltro, evitare di parteciparvi. Costretti da ragioni geopolitiche e dai legami internazionali. Così, hanno seguito gli alleati nelle loro imprese, agendo "a supporto", in nome dell'impegno "umanitario" e a sostegno della pace. Tuttavia, è difficile affiancare eserciti in guerra in nome della pace. È difficile trattare in modo umanitario chi ti combatte, chi ti considera un esercito di occupazione. Così ci siamo trovati in guerra senza dirlo, senza deciderlo. Circa 8 mila militari impegnati nel mondo. Quasi metà in Afghanistan. E abbiamo celebrato e pianto, come eroi di pace, i nostri militari morti in zone di guerra. Con lo stesso atteggiamento ci siamo accostati al conflitto esploso in Libia. Contro il tiranno che abbiamo accolto come alleato e amico  -  non solo Berlusconi, anche i governi che l'hanno preceduto. Ma nessuno, prima, gli aveva baciato la mano con la stessa cordialità "guascona" del Cavaliere.

Oggi siamo l'avamposto strategico da cui partiranno gli attacchi al regime del Raìs. Decisi e guidati da Francia, Gran Bretagna e Usa, dopo la risoluzione 1973 dell'Onu. L'Italia si è adeguata. Fornisce le basi, è pronta a inviare i suoi aerei. Mentre gli italiani continuano a esprimere il loro dissenso verso l'intervento bellico. Anche in questa occasione. Come evidenzia un sondaggio svolto una settimana fa da Lapolis dell'Università di Urbino, nell'ambito di una ricerca sull'immagine della politica estera italiana, curata da Fabio Turato. Otto italiani su dieci (il 77,9%, per la precisione) ritengono che, per risolvere la crisi libica, converrebbe insistere con l'azione diplomatica. Ed evitare la via militare. Anche se l'Italia poco ha fatto in questo senso. Non ha imposto una soluzione diplomatica e, come altre volte  -  più di altre volte  -  si trova coinvolta in una guerra. Quasi per caso. In contrasto con la volontà di gran parte degli italiani. Una posizione che solo la Lega (insieme ai giornali di destra) ha sostenuto fino in fondo. D'altronde  -  come è solito ripetere il sociologo Paolo Segatti  -  la Lega è un partito radicalmente "italiano". Senza una specifica caratterizzazione geografica. Riproduce il "senso comune" nazionale, segnato dalla sfiducia nelle istituzioni, nelle regole pubbliche. Dalla tentazione di costruire piccole patrie, marcare i confini ed erigere muri. Vecchi e nuovi. Per difendersi dal mondo. Oggi: dal Maghreb e, soprattutto, dalla Libia. Ma il "localismo" nell'era della globalizzazione non allontanerà la Libia. Non ci allontanerà dalla guerra.

(21 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri


Titolo: ILVO DIAMANTI Votano Lega ma non vogliono la secessione: solo meno tasse
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2011, 05:46:35 pm
ILVO DIAMANTI «Votano Lega ma non vogliono la secessione: solo meno tasse»

17/03/2011

Ilvo Diamanti, politologo e docente di sociologia Più di otto persone su dieci nel Nordest esprimono il loro orgoglio di essere italiani: in sostanza la campagna leghista, che ha utilizzato le celebrazioni dell'Unità d'Italia per rivendicare il primato dell'identità padana e veneta, non ha sortito risultati considerevoli.

A sostenerlo, Ilvo Diamanti, vicentino, docente di sociologia dell'università di Urbino con cattedra anche all'università di Parigi 2 - Pantheon e da anni attento osservatore di movimenti politici e sociali

Professore i veneti non seguono la Lega: forse si vogliono riprendere il loro orgoglio nazionale?
Direi che ci sono due indicatori di segno opposto. Il primo riguarda il rapporto tra i leghisti e l'Italia e poi c'è una questione di fiducia, e quest'ultima dipende da chi ci governa.

Vuole dire che ci vergogniamo di essere italiani?
Diciamo che non siano nazionalisti allo stesso modo dei francesi o dei tedeschi, dove certi valori sono più radicati e condivisi dai cittadini. La nostra idea di nazione è timida e aperta. Tollerante, anche perché deve contenere e far convivere molte altre appartenenze territoriali, regionali, urbane. Peraltro, lo Stato è ritenuto da molti italiani, una proprietà di chi governa. Oggi della Lega e di Berlusconi. Ecco spiegato perchè gli elettori di centrosinistra hanno un atteggiamento tiepido nei confronti degli altri cittadini. Non sono particolarmente orgogliosi di essere italiani.

Diciamo che non ci sono motivi per essere orgogliosi?
Finchè Marine Le Pen viene applaudita a Lampedusa insieme a Borghezio e c'è chi propone di affondare i barconi dei disperati che fuggono dalla Libia, mi pare difficile parlare di orgoglio. La verità è che in questo Paese c'è spazio per ogni appartenenza, ogni localismo, ogni bandiera e atteggiamento

Quindi anche per la cultura secessionista e padana?
Mi pare che nessuno l'abbia messa fuori legge. È da vedere se avverrebbe lo stesso a parti invertite, se in una futura - per me improponibile e inaccettabile - patria padana sarebbe permesso a un sindaco di non esporre le bandiere verdi nelle celebrazioni ufficiali, oppure di far cantare l'inno di Mameli invece di "Va' Pensiero" nelle manifestazioni. Ho qualche dubbio, ma credo che gran parte degli elettori della Lega alla Padania non ci credano e non ci pensino proprio, visto che, in maggioranza diciamo i due terzi, considerano l'Unità d'Italia un fatto positivo.

Quindi non c'è molta convinzione?
Direi di no. Del resto anche i comunisti negli Anni Settanta non auspicavano certo il comunismo. Penso che, se si fosse realizzato visto l'esempio russo, sarebbero andati nelle colline e in montagna. Fuggiti per ingaggiare una nuova resistenza. Eppure hanno issato e sventolato le bandiere rosse. Alcuni lo fanno ancora oggi. Anche nei confronti della nazione fino a pochi anni fa prevaleva uno spirito cauto fra gli italiani, soprattutto, a sinistra. Perché, non lo dobbiamo dimenticare, la Repubblica emerge dopo l'esperienza di "costruzione" e di unificazione della nazione, in Italia, espressa dal fascismo.

Poi, abbiamo riscoperto lo spirito nazionale.
Certo, nei primi Anni Novanta, proprio grazie alla Lega, quando ha iniziato a mettere in discussione l'unità del Paese. La minaccia secessionista ci ha fatto valorizzare di nuovo il sentimento nazionale e abbiamo ripreso a sentirci italiani. Prima di allora il tricolore veniva usato per festeggiare l'Italia quando vinceva le partite dai mondiali di calcio. Quando la Lega, però, ha insistito con la mobilitazione secessionista, nel settembre 1996, lungo il fiume Po si sono ritrovati in quattro gatti e in due anni hanno perso quasi due terzi dei voti. E, dopo aver rivendicato la loro diversità e la loro solitudine, sono rientrati nell'alleanza accanto a Berlusconi. Il fatto è che gran pare degli elettori leghisti, ieri come oggi, votano per la Lega non perché vogliono la secessione, figuriamoci. Vogliono più autonomia locale: meno tasse, servizi migliori. Votano Lega perché hanno paura della globalizzazione, degli immigrati. Votano per protesta. D'altronde, la Lega padana governa in Veneto e in Piemonte, ma prima di tutto nel governo nazionale di Roma. E per questo sono orgogliosi. Più degli altri elettori.

Chiara Roverotto

da - ilgiornaledivicenza.it/stories


Titolo: ILVO DIAMANTI - Buongiorno? No, grazie
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2011, 06:00:13 pm
Ilvo DIAMANTI

Passeggiando con il cane, si arriva a scoprire un paesaggio che cambia. E con esso, le persone

Buongiorno? No, grazie

Da sempre ho l'abitudine di salutare, sempre, quando incontro qualcuno. L'ho appresa da bambino. Frutto di un'educazione tradizionale, si direbbe oggi. L'ho mantenuta fino ad oggi. Così,  nei miei percorsi quotidiani saluto tutte le persone che incrocio. Soprattutto, intorno a casa, a Caldogno, quando mi faccio guidare dal cane. (Lui  -  meglio: lei - sceglie l'tinerario mentre io leggo). Oppure a Vicenza, in centro. O ancora a Urbino o a Urbania. A volte anche altrove.

Quando incontro qualcuno, da solo, mi è difficile fingere di non vederlo. Distogliere lo sguardo. Ma poi perché? Allora saluto con un cenno, con un buongiorno. Un "ciao", quando si tratta di persona conosciuta. Serve a stabilire una relazione. Un legame. Nulla di vincolante. Ma la persona con cui hai "scambiato" il saluto  -  dopo - non è più un "altro". Diventa un "prossimo". Magari non troppo "prossimo". Perché il "prossimo" è qualcuno che ti sta vicino dal punto di vista della distanza non tanto (solo) fisica, ma emotiva e cognitiva. La persona che saluti diventa qualcuno che "ri-conosci" anche se non lo conosci. Qualcuno che, a sua volta, ti ri-conosce, per reciprocità. Un "quasi" prossimo. Un "non estraneo", Un cenno di saluto serve, dunque, a tracciare un perimetro dentro il quale ti senti maggiormente a tuo agio. Meno estraneo. Come avviene dovunque tu conosca o almeno riconosca qualcuno. Altrimenti, per quel che mi riguarda, mi sento spaesato. Fuori con-testo. Non dispongo, cioè, di un testo condiviso, di un linguaggio comune ad altri, anche se espresso senza parlare. Perché non c'è bisogno di parole per comunicare  con gli altri. Se non amici: non conoscenti. O, almeno, ri-conoscenti. Non è sempre facile, lo ammetto. Anzi, lo è sempre meno. Soprattutto da quando l'urbanizzazione ha stravolto i luoghi in cui vivo.
Dove abito. Da quando lo spazio intorno a casa si è condensato e al tempo stesso liquefatto. Sovraffollato. Si è trasformato in una plaga immobiliare, una non-città, dove sono affluite centinaia e centinaia di persone. Sconosciute. A me, ma anche tra loro. Non è facile salutare le persone (?) che incontro. D'altronde, è divenuto sempre più difficile trovare un po' di verde.

Guidato dal mio cane, allungo il percorso e mi sposto sempre più in là, sempre più lontano.  Anche se ormai gli spazi verdi sono quasi scomparsi. E i pochi rimasti sono destinati a scomparire presto. Inseguiti ed erosi da nuovi insediamenti residenziali, da nuove strade e da nuove rotonde. Così, mentre mi costeggio cantieri e prati residuali, case abitate e altre che verranno, incontro perlopiù altre persone che accompagnano i loro cani. O viceversa (come me). Ma è difficile rivolgere loro un saluto. Perché non mi vedono. Occupate, al cellulare, a parlare con altre persone lontane. Oppure isolate da tutti, soli con il loro iPod. Ed è difficile, altrettanto difficile, salutare gli altri ("altri"), quelli che escono di casa mentre passo. Non importa se a 100 metri o a un chilometro da casa mia. Tanto non conosco quasi nessuno, di questi nuovi arrivati (o magari è da parecchio tempo che abitano nel quartiere, ma è lo stesso, perché sono anonimi. Non hanno un  nome. Non li conosco e non si conoscono, neppure tra "vicini"). Quando li incontro e li saluto, con un buongiorno e (o) un cenno del capo, alcuni rispondono. Ri-cambiano. (Le donne, soprattutto). Altri si limitano a un gesto imbarazzato. Un po' sorpresi. Altri ancora non rispondono. Non dicono e non fanno nulla. Tirano dritto. Come non mi avessero visto. E forse è vero, è proprio così.

Abituati a stare e ad essere soli. Non si accorgono della mia presenza. O, comunque, preferiscono ignorarmi. (I più giovani, i ragazzi, in particolare.) Alcuni, infine, non rispondono ma mi guardano storto. Irritati più che stupiti. Percepiscono il mio saluto come un'intrusione. E si chiedono, mi chiedono, con lo sguardo, cosa io voglia da loro. E perché non me ne stia al mio posto. Cioè, lontano. Fuori dalla loro vista e dalla loro vita. Abitanti di questo mondo senza relazioni e senza società, guardano ma non vedono. E non ascoltano. Temono chi si avvicina troppo. (E non è un caso che gli "stranieri" suscitino imbarazzo e fastidio. Al di là di ogni altro problema: ci "avvicinano" e ci danno del tu).

Il prossimo, ha scritto Luigi Zoia, è morto da tempo. Sostituito da surrogati elettronici, che offrono mediazioni mediatiche infinite. Promuovono rapporti in-diretti e im-personali. Apatici invece che apatici.

Ma io non mi rassegno e continuo, continuerò a cercarlo. Il prossimo. A costruirlo, raffigurarlo. Intorno a me, almeno. Il prossimo. Anche se ridotto a un saluto, un cenno del capo. Non  rinuncerò a guardare gli "altri" in faccia. Per egoismo. Per non sentirmi circondato "solo" da "altri". Cioè, per sentirmi meno "solo".

(30 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Cavaliere ipercinetico
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2011, 11:04:01 am
MAPPE

Il Cavaliere ipercinetico

di ILVO DIAMANTI


È difficile star dietro agli eventi, ai messaggi, alle immagini che costellano la politica italiana. La quale, riflette, in parte, la turbolenza globale. In particolare, le rivoluzioni del Nord Africa, appena al di là delle nostre coste. Però da noi in Italia tutto assume un segno diverso. Per intensità, dinamica, sequenza. Basta concentrarsi sulle notizie degli ultimi giorni. "Leggendole tutte insieme... danno un senso di vertigine", ha commentato Corrado Augias, rispondendo a una lettrice nella sua rubrica. Già: un senso di vertigine.

Il capo del governo a Lampedusa promette che: in due giorni, non ci saranno più immigrati; candiderà Lampedusa al Nobel della Pace; si comprerà una villa proprio lì, davanti al mare. Lo stesso giorno, la Camera si trasforma in un Far West. Fra l'altro, il ministro La Russa. Il quale sfancula il presidente della Camera, Fini. Mentre una deputata disabile dell'opposizione viene insultata. In quanto disabile. Intanto, la rivolta popolare a Lampedusa non accenna a placarsi. Perché il flusso di disperati non cala. (Sarebbe bello che i "popoli oppressi" si ribellassero e liberassero da soli, senza poi pretendere aiuto da noi). Un'imbarcazione affonda davanti alle coste libiche, insieme a decine di persone (morte. Non daranno fastidio a nessuno). Il capo del governo parte per Tunisi, dove incontrerà le autorità tunisine. Obiettivo: controllare i flussi di migranti diretti verso le nostre coste; rimpatriare - parte - degli immigrati già
arrivati. Anche se le autorità tunisine non sembrano d'accordo. Intanto in Parlamento continuano - in modo, diciamo pure, convulso - i lavori per riformare la Giustizia. Cioè: per disinnescare i processi più critici, per il primo ministro. Soprattutto quelli a sfondo pruriginoso. Per neutralizzare l'alone sgradevole che produrrebbero (produrranno?). Tutto procede in modo nevrotico, sussultorio, intermittente, senza una direzione precisa.

Impossibile mettere in fila i fatti degli ultimi mesi, se ho già impiegato tanto tempo a raccontare quelli degli ultimi giorni. È difficile anche capire le forze in campo, in Parlamento: chi sta con chi. I sedicenti Responsabili: difficilmente possono garantire un consenso stabile. Come pretendere fedeltà e coerenza da chi è abituato a cambiare bandiera e partito (in cambio di privilegi)? D'altronde, a differenza di Fi e An, il Pdl è un non-partito. Scomposto da divisioni personali, locali e di gruppo. La debolezza dell'opposizione permette a questa maggioranza di proseguire. Senza sfaldarsi. Ma andare al voto, secondo i sondaggi, sarebbe molto rischioso per il Pdl. Per il centrodestra. Per Berlusconi.
Insomma: la vertigine.

Anche se viene il sospetto che vi sia un senso in questa rappresentazione apparentemente priva di senso. Dove tutto prosegue e si sussegue in modo asincrono. Come un "Blob" infinito e permanente. Rammenta l'idea di ipermodernità, tracciata da Gilles Lipovetsky. Un tempo dove tutto è iperbolico. Perché il tempo si snoda in una catena di istanti. Come un film che incatena una sequenza di istantanee. Dove tutti gridano, tutto è enfatizzato, tutto avviene in modo "estremo". Perché viviamo tempi estremi, dove la comunicazione mediale trasmette tutto in tempo reale. Ed esige spettacolo, messaggi forti. E, alla fine, nulla resta se non viene proposto in modo estremo e iperbolico. Viviamo nell'era della politica ipercinetica. Il cui signore indiscusso è Silvio Berlusconi. Iperbolico e cinetico come nessun altro. Sempre in movimento, sempre in viaggio, sempre sui media. Ogni giorno un evento, un messaggio, un proclama, un fatto (annunciato). Un luogo reale trasfigurato in metafora del cambiamento "concreto". Lui: l'uomo del fare. A Napoli. Dove le immondizie scompaiono e ricompaiono, per scomparire di nuovo. Dai media. All'Aquila. Dove le macerie sono scomparse e la ricostruzione procede bene. Lo garantisce la figurante che a Forum ha recitato la parte di una terremotata beneficiata dal governo. Oggi a Lampedusa. La popolazione - disperata - assediata dai disperati. Che alcuni autorevoli leader di governo invitano a ributtare in mare. (Con una iperbole forse involontaria). E Berlusconi. Un giorno a Milano, al processo, ad arringare la folla dal predellino. Il seguente, a Lampedusa, a consolare e galvanizzare i residenti. Di passaggio: a Palazzo Grazioli. Ad allietare i sindaci con barzellette osé. E poi: a Bruxelles, visibilmente defilato, perché a lui le chiacchiere non piacciono. In attesa di un vertice prossimo venturo con Sarkozy. Lui "fa".

In quest'era del vuoto (riprendendo Lipovetsky), lui satura ogni spazio, ogni angolo, ogni istante. (Volontariamente, come emerge dall'inchiesta di Alberto Ferrigolo sulla "Diabolica arma dei sondaggi", pubblicata sull'ultimo numero di Reset). Per cui diventa impossibile prescindere da lui. Nel vuoto di progetti e di idee. Nel vuoto dell'orizzonte politico vuoto. Lui "è". L'opposizione appare afona. Poco visibile. Certo alcuni lo imitano. Ma non c'è partita. In fondo è lui, Berlusconi, l'unico in grado di fare opposizione. A se stesso. Perché i messaggi iperbolici, gridati un giorno dopo l'altro e un istante dopo l'altro, possono dare un senso di movimento, anche se tutto resta fermo. Possono rimpiazzare le idee con spot a raffica. Possono generare assuefazione etica. Così che nulla, ma davvero nulla, riesce più a stupire - non si dice indignare. Ma a volte - qualche volta - le iperboli, ripetute senza soluzione di continuità, finiscono per cozzare l'una contro l'altra. Lui, indulgente e accogliente con Gheddafi. Come altri prima di lui, in Italia (e non solo). Ma unico a baciargli la mano. In modo iperbolicamente teatrale. E il giorno dopo schierato - a malincuore - con la coalizione che bombarda il raìs e ne vuole la testa. Lui, iperbolicamente, pronto a liberare Napoli dai rifiuti, l'Aquila dalle macerie, Lampedusa dagli immigrati. Gli italiani dalle tasse. Ieri, oggi. Ma anche domani. Perché i rifiuti, le macerie, gli immigrati - e le tasse - restano sempre lì. Lui, il leader ipercinetico di questa Destra ipercinetica. Costretto a correre. A cambiare scena e repertorio. Ogni giorno. Finché il fisico glielo permetterà. Finché l'iperbole riuscirà a colmare il vuoto della politica. Finché non ci stancheremo di rincorrere le iperboli.
Finché la cin-etica riuscirà a soddisfare l'eclissi etica.

(04 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/04/news


Titolo: ILVO DIAMANTI - E il figlio lo chiameremo "Atipico"
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 04:52:27 pm
E il figlio lo chiameremo "Atipico"

Ilvo DIAMANTI

Per accorgersi della crisi del lavoro non è necessario  -  né sufficiente  -  scorrere i dati del mercato del lavoro. Pure, drammatici. Il tasso di disoccupazione è oltre l'8% (in valori assoluti: più di due milioni). Ma tra i giovani sfiora il 30%. Il più alto della Unione Europea. Nelle regioni del Sud supera il 40%. Il tasso di disoccupazione, peraltro, è sempre un indice relativo, perché non tiene conto dei cassintegrati cronici, che non rientreranno più in azienda. E poi, anzi: prima: per essere disoccupati occorre essere alla ricerca di lavoro. Ma chi non ha speranza di trovare un'occupazione, neppure ci prova. E si rassegna a fare lavori e lavoretti. Naturalmente non "regolari". Per cui "statisticamente" non esiste.

Questi dati, peraltro, non dicono tutto. In particolare, non spiegano la crisi del lavoro sul piano sociale. Che è una crisi di senso e di identità, oltre che "materiale". Non spaventatevi: non voglio filosofare intorno a una questione così concreta. Tuttavia, è indiscutibile che il lavoro ha dato senso e identità alla nostra società. Identità: prendete il documento di riconoscimento. La "carta di identità", appunto. Fra le poche informazioni essenziali c'è la professione, preceduta dal nome e dal cognome. Ma il cognome, che definisce la nostra appartenenza  -  e quindi la nostra identità  -  familiare, spesso riflette una tradizione "professionale". Se mi guardo intorno, io che abito in un territorio con una lunga storia economica, mi trovo "circondato" da identità professionali intrecciate alla biografia personale  -  e familiare.

Per rammentare le tradizioni tessili del vicentino basti pensare a quanti Lanaro e Tessaro si incontrino, nella vita quotidiana. Ma anche Bordignon - spiegano i siti specializzati (come Cognomix) - in origine significava "colui che fila la seta". E poi Favaro, Favero, Favaron, Favaretto, Fabris: richiamano l'attività del Fabbro (lo scrivo con la maiuscola, perché si tratta di un cognome anch'esso diffuso. Così si chiamano alcuni miei amici). Ancora, echeggiano storie professionali:  Marangon (falegname), Munari oppure Munaro (il "mugnaio", che gestiva il mulino, evocato esplicitamente, in alcuni casi: Dal Molin), Fornaro (il fornaio). E Sartori, Sartor (il sarto), Boscolo (il boscaiolo), Masiero (il "mezzadro").

Il lavoro come marchio indelebile, trasmesso di generazione in generazione. Anche se, un tempo, il lavoro mancava. Ancor più di oggi, in certe fasi. Ma contava. Il lavoro manuale quanto quello intellettuale. Un lavoro per la vita, per tutta la vita. Era la speranza e l'ambizione condivisa. Perché chi lavora c'è. Esiste. Ha un volto. Una identità. Appunto.

Oggi, però, il lavoro non solo manca, ma, soprattutto, è incerto. I lavori manuali, anche quelli artigiani, li svolgono perlopiù  -  sempre più - gli immigrati. E poi, da tempo, abbiamo imparato che puoi fare soldi anche senza un lavoro chiaro e definito. C'è un sacco di gente che ostenta stili di vita e consumi "vistosi" (per citare Thorstein Veblen), ma non sai cosa effettivamente faccia. D'altronde, da tempo, abbiamo imparato che si può vivere bene anche senza produrre. Come rammenta Mickey Rourke, in "Nove settimane e mezzo". Quando a Kim Basinger, che gli chiede quale mestiere faccia, risponde, ironicamente: "I make money by money". Cioè: faccio soldi con i soldi. "L'epitaffio sulla tomba dell'economia reale", chiosa Eddy Berselli ("L'economia giusta", Einaudi).

Per cui, come pretendere che il lavoro generi un'identità? Come pretendere di legare la nostra biografia "familiare" a una professione? I cognomi che ho citato prima, se mi guardo intorno, mi sembrano echi di un lontano passato. Passato per sempre. Per trovare una traccia del lavoro, nei cognomi di chi incontro, dovrei procedere a torsioni lessicali arbitrarie e ardite. Dovrei correggere Piva, ad esempio. Basterebbe un punto: P. Iva . Cocco (ne conosco più di uno) andrebbe almeno modificato come segue: Co. cco. co oppure Co. cco. pro . D'altronde, per coerenza con questo tempo "liquido", il figlio (perlopiù unico) lo dovremmo chiamare Precario, Call, Atipico.
 

(07 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/rubriche/bussole/2011/04/07/news/


Titolo: Diamanti operato per un infarto. «E' fuori pericolo, ora dovrà riposare»
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2011, 11:53:37 pm
VICENZA

Diamanti operato per un infarto

«E' fuori pericolo, ora dovrà riposare»

Il politologo si è sentito male prima di un convegno.

Il primario del San Bortolo: «Le sue condizioni sono buone»


VICENZA - Ilvo Diamanti, politologo e docente all’Università di Urbino, è ricoverato da sabato mattina all’ospedale San Bortolo di Vicenza, dove è stato operato per un infarto. Ora le sue condizioni sono buone, ma deve osservare dieci giorni di riposo totale. «Le condizioni di Diamanti sono buone, è fuori pericolo, anche se le patologie infartuali sono sempre impegnative e la situazione si definisce sempre critica – spiega il primario del pronto soccorso del San Bortolo Vincenzo Riboni - Diciamo che, come anche in situazioni di ictus, anche con l'infarto, il fattore temporale di intervento è fondamentale: si evitano complicazioni o il mancato ripristino di funzioni».

Sabato mattina Diamanti, che risiede a Caldogno, sarebbe dovuto intervenire ad un convegno al Patronato Leone XIII di Vicenza. Ma, avvertendo un malore, ha avvertito il primario e amico Vincenzo Riboni. «E’ stato importante che lo vedessi subito, dopo che mi ha raccontato i sintomi – racconta Riboni - Ora ha bisogno di riposo, almeno 10 giorni di massima tranquillità: non deve avere stress né fisici né mentali, e lo dico tenendo conto di tutta la gente che lo conosce, e lo vorrebbe già vedere. Almeno per un po', Diamanti non deve avere sollecitazioni forti dall'esterno».

Giulio Todescan

11 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corrieredelveneto.corriere.it/vicenza/notizie/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quando il cuore si ferma
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2011, 05:38:33 pm
Quando il cuore si ferma

Ilvo DIAMANTI

L'ho sentito arrivare che stavo a casa mia, pronto a recarmi a un incontro, dove mi attendevano molte persone. A discutere di cambiamenti sociali, culturali, religiosi. Mi ha fermato un dolore muto. Più che un dolore, un senso di oppressione al di sotto della bocca dello stomaco. Tanto che ho pensato a un'indigestione  -  la sera prima, sul tardi, avevo mangiato la pizza con un amico. Non dovrei, perché la digerisco a fatica, ma mi piace. E a volte  -  poche - transigo. Sono rimasto lì ad ascoltare questo dolore muto, che non accennava a diluire, a perdere intensità, nonostante l'attesa. Nonostante qualche palliativo. Non l'avevo mai provato. Non richiamava il pericolo che tutti, alla mia età, temono. L'Incombente, che ti aspetta all'angolo della strada, in qualsiasi momento della tua vita. Ti aggredisce. All'improvviso. Non avevo dolori al torace, alle spalle. Solo questa pressione allo stomaco, che si allargava e si acuiva. Ma io sapevo, ne ero certo, che era lui. Stava arrivando. E non l'ho atteso.

Ho avvertito mia moglie: "Portami all'Ospedale subito. Sta arrivando". E lei, con il (suo) cuore in bocca, mi ha caricato in auto ed è partita. Mentre il senso di oppressione diventava più pesante e mi faceva male. Ha viaggiato di corsa, sempre più di corsa, azzardando sorpassi e manovre che mai aveva rischiato, nella sua vita. In un quarto d'ora siamo arrivati al Pronto Soccorso dell'Ospedale San Bortolo, dove il mio amico Vincenzo mi ha accompagnato dritto in sala operatoria. Pronta. Perché ne era appena uscito un'altra persona, un 40enne, colpito da infarto. Mi hanno operato subito, dopo che i test dedicati avevano confermato che avevo ragione.

L'Infarto: era arrivato. Appena arrivato. E io ero arrivato. Appena in tempo. Mentre la sonda risaliva l'arteria femorale destra, sul monitor ho visto, intuito il mio cuore trafitto. La coronaria sinistra chiusa. Riaperta. Ho visto il mio ventricolo sinistro, contrarsi. Ho sentito dolore. Un dolore non più muto, ma forte, violento. Come mai avevo provato. Un dolore senza un luogo, un punto specifico e definito. L'ho sentito defluire, insieme al sangue che attraversava di nuovo il mio cuore. Tutto finito, mi hanno detto. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto, mentre mi portavano all'Unità di Terapia Intensiva Coronarica. Dove sono rimasto sette giorni. Un altro intervento per liberare e cautelare la coronaria. Tre stent. Quasi un simbolo di status, mi hanno scritto molti amici. Il marchio di un club. Tutto passato. Il peggio. Mi hanno detto. E continuano a dirmi, via via che le mie condizioni migliorano. Tutto passato. Ma il presente è diverso. Sette giorni con me stesso. Accanto a me solo i medici, gli infermieri, le infermiere. Mia moglie. Sette giorni a guardarmi dentro. Ad ascoltarmi. A entrare dentro il mio cuore. Che, per definizione, è un muscolo involontario. Funziona a prescindere dalla nostra volontà. Per vivere dovremmo vivere come se. Non ci fosse. Ma c'è. Lo so. Per giorni, attaccato a un contropulsatore, gli occhi fissi sul monitor che  esplorava il mio cuore senza sosta, l'ho guardato. Cioè: mi sono guardato e ascoltato dentro.

Protetto dal mondo, che non doveva interferire con il rapporto fra me e il mio cuore. Fra me e me. Gli echi di quel che succede fuori mi sono arrivati, attraverso i giornali, una radiolina. Sgradevoli. Più sgradevoli di sempre. La nostra indifferenza nei confronti degli altri che abitano davanti a noi. Mi è parsa oscena.  La pagheremo. E poi il rumore di fondo, con quell'immagine sempre in movimento, la stessa, lo stesso, che si agita, strepita, sempre lui, sempre fermo, nello stesso punto. E il rumore mediatico che lo amplifica. Insopportabile.

L'Infarto mi ha cambiato. Mi ha fatto sentire solo e, al tempo      stesso, meno solo. Perché in un mondo di relazioni disattente e multiple tutto sembra uguale, in-differente. Durante e dopo l'infarto ti guardi dentro e intorno. E senti. L'importanza dei tuoi. La moglie, i figli. Mio padre, le mie sorelle. I legami stretti. Ma anche la rete delle persone che contano. E non sono poche.

L'infarto è un'occasione, se hai la fortuna di incontrarlo senza danni irreparabili. È un'occasione che ti è data. D'altronde, non può essere per caso. Che io lo senta, quando ancora non è arrivato. E che mi raggiunga a casa, e non in viaggio oppure lontano, come mi capita spesso e sempre più spesso. Che, di sabato, io trovi una sala operatoria preparata e una dottoressa, esperta pronta a operarmi. Come fossero lì, ad attendermi. Che tutto avvenga in una Unità terapeutica di eccellenza. Non può essere un caso. Per caso.

L'infarto è un'occasione, se lo accogli senza fingere. Che nulla sia cambiato. Che tutto continuerà come prima. Se non ti fai prendere dal panico e dalla paura. Dalla paura della paura.

L'infarto è l'occasione per ri-cominciare. Se ne sei capace. Per guardarti dentro e intorno. Perché domani, certo, è un altro giorno. Ma anch'io, oggi, sono un altro. Diverso da prima. E non sarò più lo stesso.

È il motivo per cui ho scritto queste cose. Non me le sono tenute dentro, per pudore e con paura. Ho raccontato i fatti miei. Ho esibito me stesso. (Sfidando il fastidio di molti a cui, sicuramente, dei fatti miei non interessa molto). Ma l'ho fatto - anzitutto e soprattutto - per me. Per non dimenticare.
Per impedirmi di ritornare. Indietro.   

(19 aprile 2011) © Riproduzione riservata
DA - repubblica.it/rubriche/bussole/2011/04/19/news/


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'orgoglio di essere italiani
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2011, 05:38:59 pm
INDAGINE DEMOS

L'orgoglio di essere italiani

Nella crisi torna la coesione

Delusi dalla politica, pronti a riunirsi nelle emergenze.

Metà dei cittadini afferma di avere un legame forte con la propria nazione, oltre i localismi.

La famiglia e il patrimonio artistico sono i punti di riferimento più saldi

di LUIGI CECCARINI e ILVO DIAMANTI


ROMA - Solo la crisi e gli attacchi portano l'Italia, paese dai mille campanili, a riscoprire l'orgoglio dell'unità nazionale.  È quanto emerge da una ricerca condotta da Demos per Intesa San Paolo.  Sul futuro del Paese permane un profondo pessimismo anche se  aver conquistato 150 anni fa l'unità della nazione viene considerato:"Un fatto estremamente positivo". Patrimonio artistico e famiglia sono i due valori principali che attraversano l'intera società italiana.

Uniti e divisi al tempo stesso. Sembra essere il paradosso che vivono gli italiani. Una condizione non nuova per la verità, ma in forte accentuazione nell'ultima fase. Nonostante tutto ciò, l'unità nazionale non appare in discussione. Anzi, proprio nei momenti di tensione più intensi, quando le fratture si allargano, gli italiani sembrano rivalutare l'importanza di essere uniti. Riscoprono il valore e i valori della coesione. Insomma, si sentono italiani. Italiani nonostante e contro chi ne mette in discussione l'unità. Ma anche disattenti e poco appassionati, in tempi normali. Normalmente divisi per storia e tradizione, geografia e politica. Uniti per istinto, abitudini e pratiche sociali.

...

Mai come in questo momento il nesso tra unità e divisione è apparso visibile. Forse perché il 150enario ha costretto tutti ad interrogarsi sulla questione, senza eluderla. La società e la politica si sono trovate di fronte ad un evento che ha offerto uno spazio inedito sia alle polemiche sia alle espressioni di solidarietà e di sostegno intorno ad un tema tradizionalmente messo fra parentesi.
Lo stesso, acceso, dibattito sulla riforma federalista ha contribuito inevitabilmente a richiamare il nesso fra coesione e divisione. Fra appartenenza nazionale e sentimento localista. L'in-decisione che ha accompagnato la decisione di proclamare il 17 marzo scorso giorno di festa (nazionale) è la testimonianza di questo clima incerto sul riconoscimento dei valori connessi alla questione nazionale.
In questo scenario il territorio è diventato un fattore sempre più forte nelle dinamiche rivendicative. Ed è utilizzato ormai non solo dalla Lega Nord, ma anche da altre formazioni politiche che ne hanno fatto una bandiera per dare spessore a identità, interessi e istanze particolari. È come se unità e divisioni si tenessero insieme, nel "carattere nazionale". Tutto ciò è possibile osservarlo anche attraverso i sondaggi di opinione, che rilevano gli orientamenti dei cittadini, quindi i loro giudizi e pregiudizi. In questa numero di LiMes facciamo riferimento alla ricerca "Gli italiani e l'Italia" svolta recentemente da Demos per Intesa Sanpaolo.

Italiani e...
Quando si chiede agli italiani a quale area territoriale si sentano emotivamente più vicini gli orientamenti appaiono piuttosto sfrangiati. Il contesto sub-nazionale raccoglie quasi la metà delle indicazioni (47%) che si dividono tra la città dove vivono (17%), la regione (12%) o la macroarea (Nord, Centro, Sud: 18%). Il legame con il contesto nazionale, l'Italia, viene segnalato dal 28% degli intervistati. Un'identità sovranazionale e di tipo cosmopolita segna invece un cittadino su quattro. Ma se consideriamo il totale delle due risposte che gli intervistati potevano indicare, emerge in modo piuttosto chiaro che il riferimento nazionale, l'Italia, è quello più segnalato in assoluto. Metà dei cittadini (49%) afferma di provare un legame forte, al punto che se non lo indica come primo lo esplicita come secondo.
Il localismo non costituisce dunque un'identità oppositiva alla dimensione nazionale. Anzi, negli orientamenti dei cittadini è largamente diffusa la tendenza a riassumere l'identità locale nella cornice di quella nazionale. L'Italia diventa così il principale dei contenitori di significato.
Per cui in Italia non ci si dice romani, vicentini, urbinati, torinesi, veneti, siciliani, napoletani, lombardi, milanesi, toscani, fiorentini, pugliesi... o italiani. Ma e italiani. Milanesi e italiani. Napoletani e italiani. Bolognesi e italiani. Marchigiani e italiani. Oppure, viceversa, italiani e romani, ... e catanesi, ... e milanesi. Al tempo stesso. Senza contraddizione. Locale e nazionale, in un'unica composizione. Un popolo di ... e italiani oppure di italiani e...

I fondamenti della appartenenza.
Ma il sentimento di appartenenza è qualcosa di ben più complesso di una semplice identificazione di tipo territoriale. Il territorio assume significato perché è il luogo delle relazioni, delle tradizioni, della cultura. È l'ambito in cui operano le istituzioni dello Stato. Ma la dimensione politico-istituzionale continua, nel suo insieme, ad essere un riferimento debole per l'identità nazionale. Offre, cioè, solo agganci marginali all'idea del "noi".
Se osserviamo la graduatoria dei caratteri che secondo gli intervistati distinguono meglio gli italiani rispetto agli altri popoli emerge un profilo ormai noto. La famiglia (43%), il patrimonio artistico (35%), l'arte di arrangiarsi (28%), la tradizione cattolica (23%) e la creatività nel campo dell'arte e dell'economia (20%). Scivolano verso il basso della classifica quei riferimenti che costituiscono le basi di una comunità politica, come l'adesione ai principi della democrazia (10%), il civismo e la fiducia nello Stato (6%).
L'orgoglio nazionale si indirizza, oggi ancor più che in passato, su aspetti che riguardano le tradizioni sociali e locali. La cultura e l'arte. Infatti, gli italiani si sentono "molto" orgogliosi del patrimonio artistico (75%), delle bellezze del territorio o della cucina (71%). Anche dell'Inno e del Tricolore (67%). Molto meno - anzi, quasi per nulla - della politica e dei politici (3%).
Insomma, gli italiani si sentono uniti dalla loro capacità di "fare" e inventare, di reagire alle difficoltà. Ma da soli. Insieme ai loro familiari, al loro piccolo mondo locale. Una nazione fatta di città, di paesi e di famiglie. Lontana dallo Stato e senza le istituzioni. Di cui si apprezza la storia, non il presente. Il Risorgimento, ad esempio, per l'86% degli italiani ha lasciato un segno positivo nella storia del Paese. E poi, soprattutto, il grande valore assegnato alla Ricostruzione degli anni '50 e '60 (85%). Un periodo emblematico, quasi una bandiera. L'epoca in cui il Paese riuscì a risollevarsi dal baratro in cui l'aveva gettato la guerra. A "ricostruire", o meglio, a "costruire" un'economia che prima non esisteva. A conquistare lo sviluppo, prima, il benessere, poi. In altri termini: a inventare un futuro nuovo e diverso rispetto al passato.

Italiani, nonostante tutto.
L'indagine rileva come nove cittadini su dieci ritengono che l'unità d'Italia, avvenuta 150 anni fa, sia stata un avvenimento positivo. Così un popolo che ha sicuramente motivi di divisione ha però trovato anche gli spunti per alimentare il sentimento unitario. La ragione di un orientamento così positivo, nonostante le polemiche, probabilmente, sta proprio nelle polemiche. Nel dibattito acceso - e continuo - suscitato negli ultimi mesi intorno all'unità e ai suoi simboli. Ma è anche il risultato di un lavoro lungo, di riscoperta della memoria nazionale, dei suoi miti, dei suoi riti, dei suoi protagonisti, che normalmente non esiste. Detto altrimenti: gli italiani "diventano" più italiani quando si profila una minaccia all'orizzonte. Anche perché in tale situazione, per una volta, ricordano e valorizzano queste radici. E se si sentono frustrati dal presente e dal passato recente. Se il futuro è fuggito. Allora si rifugiano nel privato, nella famiglia. Nella memoria e nei miti della storia. Questo Paese disincantato e disilluso. E, nonostante tutto, unito. Questo Paese di "italiani nonostante". Malgrado tutto, italiani.

(01 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/sondaggi/2011/05/01/news/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ma si può uccidere un'icona?
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2011, 06:00:16 pm
Ma si può uccidere un'icona?

Ilvo DIAMANTI

La notizia dell’uccisione di Bin Laden mi ha colto di sorpresa. Come quando scopro, dai notiziari, la morte di un personaggio pubblico del passato che, semplicemente, non sospettavo fosse ancora vivo. Perché scomparso dai media, da molto tempo. E, si sa, scomparire dai media, per un personaggio pubblico, significa morire. In questo caso si tratta del caso opposto. La morte di Bin Laden mi ha sorpreso perché non sospettavo che esistesse davvero. Perché in fondo non è importante. Lo percepivo e lo percepisco come una figura tenuta in vita per ragioni politiche e simboliche. (Come ad esempio, da qualche tempo, Fidel.) Ma in realtà, trasfigurato e trasferito in un’altra dimensione. Da tempo. Perché Osama Bin Laden è l’icona del terrorismo e della guerra al tempo della globalizzazione. Quando tutto è drammaticamente vero e drammaticamente fiction, al tempo stesso. Dove tutto accade sempre “qui”, in diretta. Le Torri Gemelle si sbriciolano sotto gli occhi di tutti, sotto i nostri occhi. Nel momento stesso in cui vengono colpite. Migliaia di vittime reali, esibite al mondo come trofei. Un videogame. Al Qaeda, d’altronde, è anch’essa, un’entità indefinita. Una rete informe e informale. Che agisce associando terrore reale e mediale. Dovunque colpisca, a Madrid, in Marocco oppure in India. Le vittime reali diventano gli attori e i comprimari nello spettacolo della guerra in diretta.

Parallelamente, la guerra lanciata dall’Occidente contro al Qaeda e il terrorismo globale ha bisogno di “luoghi” per rendere comprensibile e rappresentabile un “nemico” senza luogo. L’Afghanistan, l’Iraq. A loro volta spazi simbolici, come la guerra dei nostri tempi. Perché le “nuove” guerre globali corrono lungo il confine sottile tra visibile e invisibile. I missili lanciati da lontano e dall’alto. Da luoghi invisibili. Le bombe “intelligenti”, saranno anche intelligenti. Ma sono cieche. Uccidono alla cieca. E ci lasciano ciechi. Noi non vediamo. E se non vediamo non proviamo emozione. Dolore. Per questo sul terreno agiscono sempre più spesso i “droni”. Robot di guerra. Non provano sentimenti. Non distinguono. Le vittime delle nuove guerre e del terrorismo globale, d’altronde, sono soprattutto civili. Figure indistinte e senza volto. Comprimari. Per questo al Qaeda e i gruppi della sua rete “usano” gli ostaggi mediaticamente. La violenza simbolica deve essere esibita al mondo, per generare emozione.

Così, nell’era della violenza globale tutto si confonde. Vita, morte e fiction. Rappresentate e trasfigurate dalle tecnologie informatiche. Dalla comunicazione. Dalla rete. Dai social network.

Per questo mi ha sorpreso l’uccisione di Osama Bin Laden. Per me e per molti altri, in fondo, non era così “essenziale”, che fosse fisicamente “vivo”. Perché non è più un corpo, una persona, ma un’icona. Il guerriero con la lunga barba, il fucile brandito come una bandiera, accovacciato con le gambe intrecciate. La barba e il turbante. La voce metallica. Lancia, periodicamente, minacce all’Occidente. L’immagine e la voce che tornano, sui media, a ogni attentato, in Occidente. Un’icona. Come il mullah Omar, che fugge in motocicletta, in Afghanistan, inseguito dagli eserciti dell’Occidente. (È ancora vivo?). L’immagine del volto insanguinato di Bin Laden, trasmessa dalla tivù pachistana, d’altronde, è risultata falsa. E ogni altra foto, ogni altra immagina – del suo volto, del suo corpo - diffusa nei prossimi giorni, difficilmente potrà provare qualcosa. Perché anche le immagini “vere”, trasmesse sui media, assumono un significato – e un effetto - “mitico”. Metaforico. Così è difficile non leggere l’uccisione di Bin Laden come un “messaggio”. Il segnale della fine di un ciclo. “Un simbolo abbattuto”, come ha scritto Ezio Mauro.

Dieci anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle.

Simbolicamente: segna la fine della guerra condotta contro il terrorismo integralista islamico. E prelude all’abbandono, da parte dell’Occidente, dei teatri delle guerre globali nel Medio Oriente. Simbolicamente: annuncia la fine della parabola di al Qaeda. Le rivolte nei paesi arabi e islamici, d’altronde, oggi, usano parole d’ordine diverse. Evocano la domanda di democrazia, libertà, lavoro. Al Qaeda non compare in questo nuovo orizzonte.

Ma nell’era della violenza globale, la morte non è sufficiente per morire davvero. Osama Bin Laden, per morire davvero, dovrebbe scomparire davvero. Dai media e dalla rete. Essere dimenticato. Difficile che possa avvenire. Unica alternativa, per ucciderlo davvero e definitivamente: saturarne l’immagine. Svuotarne il significato. Trasformarlo in un consumo globale. Una statuetta, una figurina. Un’immagine impressa sulle magliette o sui posacenere. Sui poster. Un prodotto venduto e comprato sui mercatini di tutto il mondo.
Oppure su e-Bay. Tra il Che, Mussolini e Michael Jackson.

(03 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/rubriche/bussole/2011/05/03/news/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Com'è invecchiata la capitale del Nord
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2011, 06:31:42 pm
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Com'è invecchiata la capitale del Nord

A MIlano la sfida decisiva delle amministrative. Come dice Berlusconi, è un voto politico.

Perché lì è "scoppiata" la rivoluzione che ha affondato la Prima Repubblica

di ILVO DIAMANTI


HA ragione Berlusconi: il voto amministrativo di domenica prossima è un voto politico. Ma la sfida decisiva si svolge a Milano. Non perché le altre piazze non siano importanti. Torino, Napoli, Trieste, Cagliari, Bologna, solo per citarne alcune: sono città di primo piano. Però Milano ha un valore simbolico diverso, superiore alle altre. Lì è "scoppiata" la rivoluzione che ha affondato la Prima Repubblica e avviato la Seconda.

Della Seconda Repubblica Milano è, ancora oggi, la "capitale" reale. Il riassunto dei grandi "cambiamenti" economici, sociali, politici, territoriali degli ultimi vent'anni. A Milano, nel 1992, sono partite le inchieste della magistratura su Tangentopoli. D'altronde, Milano era la città di Craxi, il leader della Prima Repubblica nella fase del declino. Ha pagato per tutti: la sua caduta ha identificato la caduta dell'intero ceto politico tradizionale. Milano è la città dei magistrati, gli attori protagonisti del crollo della Prima Repubblica. La città dove echeggia, ancora, l'appello pronunciato nel 2001 dal procuratore generale Francesco Saverio Borrelli: "Resistere, resistere, resistere!". Come ripete, da qualche tempo, in modo ossessivo, anche Mister B: "Resistere!". Ai magistrati.

Milano è la città dove, alle elezioni amministrative del 1993, diventa sindaco il leghista Marco Formentini. Eletto direttamente dai cittadini, come prevedeva la nuova legge elettorale (L. 81 / 19 9 3 ). Milano: la città santa del Nord padano. Simbolo della rivoluzione che procede, rapida e inarrestabile, dalle province produttive del Veneto e della Brianza. Sfidante di Formentini, al ballottaggio, è Nando Dalla Chiesa. Candidato della Rete, un movimento che si logorerà in fretta. Insieme ai tentativi di innovazione politica a sinistra.

Milano è la città dove si è affermato Silvio Berlusconi. Prima, come imprenditore dei media e delle costruzioni. Poi come leader politico. Mister B è l'inventore del format che ha ispirato la Seconda Repubblica. Imitato da tutti e inimitabile. Mister B: ha imposto in Italia la "politica come marketing", che mixa personalizzazione e mediatizzazione. Insieme a Bossi e alla Lega, nel 1994 vince le elezioni politiche. Conduce Milano alla conquista di Roma. Berlusconi e, in parte, la Lega si impongono nel vuoto politico generato da Tangentopoli. Dalle inchieste dei magistrati di Milano. Grazie a Di Pietro e al pool di Mani pulite. Che diverranno, in seguito, i principali, se non unici, nemici di Mister B (e della Lega). Paradossalmente ma non troppo. Perché i magistrati, insieme a Berlusconi e alla Lega, sono i "costruttori" e i protagonisti della Seconda Repubblica, nata nel 1992. Indisponibili a farsi (mettere) da parte.

Prima dell'era della Lega e di Berlusconi, di Tangentopoli e della Seconda Repubblica, però, Milano era già "capitale". Al centro di un nuovo tipo di capitalismo, fondato sulla "produzione dei beni immateriali" (per dirla con Arnaldo Bagnasco). I servizi all'economia, alle persone, la finanza, la comunicazione, le nuove tecnologie. Il sistema immobiliare. Milano, capitale del Nord - e dell'Italia - alternativa alla metropoli dell'industria di massa. Torino, città della Fiat e degli Agnelli. Simbolo del compromesso con il sistema partitico romano. Negli anni Novanta, Torino e Roma: sono il "vecchio al governo". Milano alleata al Nordest e alla provincia del Nord, al "capitalismo di piccola impresa", interpretato dalla Lega: è il nuovo che avanza. La "nuova" capitale dell'Italia Nuova. Da quasi vent'anni.
Per questo è tanto importante ri-conquistarla. Vincere le elezioni amministrative. Soprattutto oggi che la parabola di Mister B appare in declino. Nonostante il Cavaliere resti un osso durissimo per tutti. Milano: è la capitale del suo regno. Non può permettersi di perdere. Per questo è sempre lì, un giorno sì e l'altro pure. Mister B ha trasformato la consultazione in un referendum pro o contro se stesso. Come, del resto, ha fatto in altre precedenti occasioni. Più di Pisapia e del centrosinistra, più di Manfredi Palmeri e del Terzo Polo, Berlusconi teme i pericoli che provengono dall'interno. Dalla sua maggioranza. Dal tessuto sociale ed economico della città.

Milano, infatti, è solcata da segni visibili di malessere. La maggioranza di centrodestra è plurale e incoerente. La Lega: vorrebbe guidare direttamente Milano. Perché non è possibile costruire la Padania senza governarne la capitale. C'è, poi, il governatore Roberto Formigoni, che rappresenta il sistema di valori e di interessi all'incrocio fra Cl e la Compagnia delle Opere. Un vero partito di massa, solido e radicato. La Lega e lo stesso Berlusconi hanno preferito tenerlo lontano da Roma. Ma ne temono il potere in Lombardia. E, soprattutto, a Milano.

Peraltro, la galassia fluida intorno a Mister B appare ancor più fluida da quando il Sovrano ha inventato il Pdl. Mister B oggi interpreta il sentimento "estremista di governo". Vorrebbe un partito di lotta - ai magistrati e ai comunisti: "Il cancro da estirpare". Vorrebbe, anch'egli, gridare: "Fuori le Br dalle procure", come Roberto Lassini.

Ma la vecchia borghesia milanese, che continua a sostenerlo, è sempre più a disagio di fronte a questa deriva. Per prima: Letizia Moratti, il sindaco uscente e ri-candidato. Figurarsi. Una Moratti. La stessa famiglia che "guida" l'Inter. Dunque, naturaliter, estranea al berlusconismo. Visto che il calcio - e il Milan - nella visione di Mister B non sono "altro" dalla politica. Ne sono, anzi, il modello. Tanto più oggi che il Milan è tornato a vincere.

Infine, Milano stessa, appare una capitale stanca. Le sue basi economiche - finanza e costruzioni su tutto - sono state scosse da crisi molto pesanti. Nella classifica della qualità della vita e del benessere calcolata da "il Sole 24 Ore", la provincia di Milano (di cui il capoluogo è gran parte) nel 2010 è scivolata intorno al 21° posto (nel 2005 era al 4° posto, insieme ad Aosta e Ravenna). Ma in quanto a tassi di insicurezza e di criminalità è praticamente in fondo. Il sindaco Letizia Moratti, nelle graduatorie definite da "il Sole 24 Ore" in base al gradimento dei cittadini, nel 2010 si è attestata al 73° posto in Italia. Una posizione di retroguardia.

Quando Mister B sostiene che il voto del prossimo 15 maggio è "politico" ha, dunque, ragione. Per questo lo teme. Per questo è sempre a Milano, ogni lunedì, davanti al Palazzo di Giustizia. Accompagnato dalla claque. Un'immagine vecchia e un po' consunta. Come il protagonista. Difficile riconoscere in essa "l'Italia che cambia". Al di là del risultato di domenica prossima - peraltro, importantissimo - evoca, invece, la fine di un ciclo. Di un'era.

(09 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/09/news/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Io, estremista per disperazione
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 12:21:11 am
Io, estremista per disperazione

Ilvo DIAMANTI

Il problema è il dizionario. Le parole: hanno perduto il significato di un tempo. Per cui parliamo senza capire e senza capirci. Non ci è chiaro neppure quel che diciamo noi stessi. Fra noi e le nostre parole c'è un distacco profondo. L'abbiamo detto altre volte: dovremmo ri-scrivere il dizionario della discussione pubblica, ma anche quello della vita quotidiana. Catalogare le parole perdute e le parole ritrovate. A loro volta diverse perché hanno un senso diverso.

Moderato, per esempio. Un tempo non esisteva. Quand'ero giovane, fra gli anni Sessanta e Settanta, le categorie di uso comune erano altre. Il mondo si divideva fra conservatori e progressisti. Tradizionalisti, riformisti, rivoluzionari. La moderazione era un'attitudine, un orientamento sociale e personale, uno stile di vita. Definiva quelli che bevevano, mangiavano, magari tifavano. Indulgevano a qualche vizio. Con moderazione. Cioè: senza esagerare. Oggi invece i "moderati" sono divenuti una categoria politica e culturale. Una (presunta) cultura politica. Il "fronte moderato", in particolare, è quello guidato dal Cavaliere.

Lui, Mister B, lo ripete sempre. I "moderati" sono i militanti e gli elettori del (sedicente) Centrodestra. Al di là e oltre ci sono soltanto i comunisti, i Magistrati e i loro servi. Quelli che perseguitano il Campione dei Moderati e lo vorrebbero eliminare, a dispetto della volontà popolare. Quelli vogliono far pagare le tasse. Quelli che vogliono uno Stato onnipresente e centralizzatore. Quelli che stanno per il Pubblico e odiano il Privato. Quelli che vorrebbero fare invadere l'Italia dagli stranieri e dagli islamici. Quelli brutti, o meglio: quelle brutte. Vuoi mettere il lato B delle parlamentari "moderate"? Quelli che non si lavano. Quelli che si scandalizzano per le gesta erotiche del Cavaliere  -  vere o presunte. Ma anche se fossero vere: che male c'è? Siamo un popolo di maschi guasconi. Chi si scandalizza (i comunisti e i Magistrati), in effetti, finge. Per invidia. È una frattura profonda e invalicabile. Da una parte i Comunisti, dall'altra  -  appunto  -  i Moderati. Quelli che i tunisini, i libici e i marocchini meglio cacciarli fora dai ball (o come si dice, non sono un esperto di lingue padane). Quelli che le BR abitano nelle procure. Quelli che nel pubblico sono fannulloni e la scuola (pubblica) non funziona per colpa dei Professori. Quelle che, nei faccia a faccia, si dichiarano moderate e di famiglia moderata. E attendono l'ultima parola, quando l'avversario non ha più possibilità di replica, per dargli del ladro di automobili (e voi comprereste un'auto da chi le ruba?). Peggio: del complice di estremisti violenti. Quelle che denunciano l'avversario (quando non ha più possibilità di replica) per essere stato condannato e amnistiato. E se il fatto non sussiste, se è palesemente falso, chissenefrega: era amico dei terroristi. Quarant'anni fa. Altro che moderato. E i moderati, si sa, sono decisivi per l'esito del voto. Soprattutto i "terzisti". Quelli che non stanno né di qua né di là. In caso di ballottaggio: non voteranno mica per i comunisti o per gli amici dei terroristi?

Il moderato. Una parola nuova e vecchia. Perduta e ritrovata. Perché oggi è di moda, ma ha cambiato senso, rispetto a un tempo. Perché se questi sono i moderati, il fronte moderato, i segni e i significati della moderazione. Allora io che da giovane non sono mai stato comunista e neppure marxista (al massimo, aclista). Io che nel Sessantotto, quando i miei compagni di liceo erano rivoluzionari, ero un giovane democristiano (e, prima ancora, repubblicano). Io che voto a sinistra (centrosinistra?) perché mi tocca. Non ho alternativa. Anche se, effettivamente, l'alternativa non c'è.  Io che non alzavo e non alzo la voce  -  se non alle partite di calcio e, qualche volta, con i miei figli. Io che ho sempre preferito i mezzi toni e le mezze misure. I colori tenui e il jazz da camera (avete presente Uri Caine?). Se questi sono i moderati, per disperazione, non posso non dirmi estremista. (Comunista proprio no. Mi spiace: ma è troppo).
 

(12 maggio 2011) © Riproduzione riservata
DA - repubblica.it/rubriche/bussole/2011/05/12/news/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quanto conta il voto nell'Italia delle città
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2011, 11:23:34 am
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Quanto conta il voto nell'Italia delle città

di ILVO DIAMANTI

Queste elezioni amministrative non eleggeranno "solo" i sindaci di circa 1300 Comuni - tra cui 23 capoluoghi - e i presidenti di 11 Province. In Italia, ogni elezione, di qualsiasi tipo e livello, ha rilievo nazionale. Serve a regolare i conti fra coalizioni, partiti, fazioni, leader. Non farà eccezione neppure questa scadenza, a cui tutti i protagonisti - e per primo Berlusconi - hanno esplicitamente attribuito significato politico. D'altronde, la lista dei Comuni al voto presenta numerose città "esemplari" per la storia della Seconda Repubblica.

1. Di Milano abbiamo scritto la settimana scorsa. È la capitale del Nord e - secondo la Lega - della Padania. La città di Tangentopoli e di Mani pulite, di Berlusconi e del centrodestra. La metropoli dell'economia finanziaria, dei servizi e della comunicazione. Quel che avverrà a Milano avrà riflessi rilevanti in ambito nazionale. Soprattutto nel centrodestra. Lo confermano le polemiche e le tensioni degli ultimi giorni, violentissime.

Tuttavia, si vota anche in altre città. Alcune di esse molto importanti, ai fini della valutazione di questa tornata elettorale.

2. Per prima Torino. L'antica capitale del Nord e dell'Italia produttiva è rimasta senza territorio. Alle regionali di un anno fa è stato eletto governatore il candidato leghista Cota. Una rivincita della periferia sul centro. Della provincia satellite sulla metropoli (fino a ieri) identificata con la Fiat. Il sindaco uscente, Chiamparino, è molto apprezzato
fra i cittadini e tra i più popolari in ambito nazionale. Il candidato di centrosinistra, Piero Fassino, è conosciuto. A sua volta, conosce bene Torino. Ma è, da tempo, un esponente della classe politica nazionale. Non sarà senza significato, il risultato di Torino. Soprattutto per il centrosinistra.

3. Come il voto di Bologna. Città-simbolo dell'Emilia rossa. In crisi dal 1999. Quando Giorgio Guazzaloca, candidato del centrodestra, divenne Sindaco. Un trauma, non solo a livello locale. Il segno di un cambio d'epoca, per la città. Dove continua a essere difficile riassumere e rappresentare insieme tradizione comunista e cattolico-democratica. Mentre il "compromesso socialdemocratico" (come lo ha definito Berselli) della sinistra con la borghesia urbana non funziona più. Il caso di Bologna, peraltro, ha riproposto la debolezza del Pdl. Incapace di esprimere un candidato autorevole. Costretto ad accettare la candidatura di Manes Bernardini. Un leghista di "terza generazione" (così lo ha definito Moris Gasparri su Limes). Una cessione di sovranità del Pdl nell'Italia (un tempo) rossa. Dove la Lega, da qualche anno, sta ottenendo notevoli successi.

4. Napoli. Una "città rossa", fino a ieri. La più importante del Centrosud, dopo la sconfitta di Roma, nel 2008. Capitale del Rinascimento del Sud, negli anni Novanta. Guidata da Bassolino. Il centrosinistra l'ha governata dal 1993 fino ad oggi. Fino ad essere coinvolto e travolto, negli ultimi anni, dall'immagine dei rifiuti che si accatastavano sulle strade. Berlusconi ne ha fatto uno spot elettorale ossessivo, nel 2008, alla vigilia delle elezioni politiche. In seguito i rifiuti sono ricomparsi. Hanno invaso di nuovo la città. Ma sui media non hanno trovato la stessa visibilità di prima. D'altra parte, avevano esaurito il loro compito. Oggi, Napoli, è il teatro di una contesa difficile, non solo per il Centrosinistra, lacerato all'interno. Come, d'altra parte, il Centrodestra. La candidatura di De Magistris amplifica la chiave di lettura della nostra storia recente imposta da Berlusconi. La frattura, in-finita, del 1993. Tangentopoli: simbolo dello scontro, mai risolto, fra Magistrati e Politica. Dove la Politica, oggi, viene interpretata da lui. Mister B.

5. Conviene, inoltre, considerare due capitali (geopoliticamente) "laterali", come Trieste e Cagliari. In passato, riferimenti importanti  -  in qualche misura originali - per l'Ulivo. Trieste, dove ha governato, dal 1993 fino al 2001, Riccardo Illy. Eletto, in seguito, governatore del Friuli Venezia Giulia. Cagliari, capitale della Sardegna, dove Renato Soru ha, anch'esso, governato la Regione, dal 2004 al 2009. Illy e Soru. Entrambi imprenditori di successo. Entrambi federalisti. Entrambi estranei ai partiti. Esponenti di un centrosinistra non viziato dal prefisso "post". Entrambi sconfitti, insieme alla loro esperienza. Oggi si capirà se in modo definitivo.

6. C'è, infine, un gruppo di Comuni medi e piccoli, soprattutto - ma non solo - del Nord. Da Gallarate a Montevarchi, da Oderzo a Cento, da Pinerolo a Olbia, da Montebelluna a Rho: dove la Lega, in questa occasione, si presenta da sola. Lo ha fatto anche in passato, soprattutto negli anni Novanta, quanto la solitudine ne marcava la vocazione antagonista. Ma oggi è Lega di governo, a Roma e nel Nord. Correre da sola nel suo territorio privilegiato  -  cioè, le città medie e piccole di provincia  -  ha un significato molto diverso. Suggerisce la "tentazione" (come l'ha definita Gad Lerner) di tenersi aperte soluzioni diverse. Alleanze diverse. Con o senza il Pdl. Riflette, ancora, la tendenza a consolidarsi sul territorio. Occupando amministrazioni, ma anche enti e organismi locali. Un po' come i partiti di massa della Prima Repubblica.

7. Altri soggetti politici attendono risposte importanti, da queste elezioni. Anche se non hanno città esemplari in cui misurarsi. I centristi del Terzo Polo, da un lato. Il Movimento 5 Stelle, dall'altro. Opposti, per vocazione e collocazione. Il Terzo Polo: deve dimostrarsi capace di giocare una parte decisiva, dove si andrà ai ballottaggi. Spostando gli equilibri in una direzione piuttosto che nell'altra. Peraltro: quale? Il Movimento 5 Stelle, al contrario, mira a rendere visibile l'elettorato "intransigente" (e, secondo il nuovo dizionario: "irresponsabile"). Che sta soprattutto, ma non solo, nel centrosinistra e a sinistra. Potrebbe produrre effetti vistosi (come, di recente, in Piemonte e, prima, nella stessa Bologna). D'altronde, nelle città maggiori, alle elezioni precedenti ha superato, spesso, il 3% (a Bologna, l'anno scorso, l'8%). Difficilmente resterà al di sotto di questa soglia.

Tra questa sera e domani, dunque, sapremo se "l'Italia delle città" avrà cambiato ancora volto all'Italia. Com'è avvenuto spesso nella Seconda Repubblica. Nel 1993, nel 1995, nel 2000, nel 2005. Quando le elezioni amministrative e regionali hanno annunciato e accelerato i cambiamenti politici. Stasera capiremo, cioè, se lo stagno stagnante in cui stagniamo da troppo tempo si muoverà.

(16 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/16/news/


Titolo: ILVO DIAMANTI - La destra scopre la paura, la sinistra batte lo "sconfittismo".
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2011, 11:31:23 pm
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Così è cambiato il clima d'opinione vacilla il mito del premier invincibile

La destra scopre la paura, la sinistra batte lo "sconfittismo".

La Lega ha mostrato segni di arretramento anche nella provincia padana.

Berlusconi aveva parlato di voto politico, ma dopo il primo turno ha cambiato slogan

di ILVO DIAMANTI


OGGI si rivota. Ed è diffusa la sensazione che queste elezioni amministrative non lasceranno le cose come prima. Non solo nelle città interessate. Anche a livello nazionale. Lo conferma il clima d'opinione (per usare il linguaggio di Elisabeth Noelle-Neumann), che appare in rapido e profondo mutamento. Lo ha colto, per primo, Silvio Berlusconi. Il quale, nelle ultime due settimane, ha cambiato "opinione" in modo rapido e profondo. Non a caso. Due settimane fa: il Cavaliere affermava che si sarebbe trattato di un voto "politico". Soprattutto a Milano. Arena del suo scontro "personale" contro tutti i nemici. In primo luogo: i Magistrati e la Sinistra. Per questo Berlusconi si era presentato come capolista del PdL. D'altronde, ripeteva, è impensabile che Milano cada in mano a un estremista. Alla sinistra senza cervello. Impensabile.

Due settimane dopo Silvio Berlusconi, ha cambiato opinione. Perché è cambiato il clima d'opinione. D'altronde, ogni turno elettorale è una nuova consultazione. Risente di quanto è avvenuto prima. E due settimane fa, nel primo turno, sono avvenute cose impreviste. Anche soprattutto da chi guida il governo da dieci anni (con una pausa di 18 mesi). Due settimane fa. Il Centrosinistra ha eletto il sindaco, al primo turno, in due città importanti del Nord. Torino e Bologna (dove non era scontato, visti i guai combinati dal Centrosinistra negli ultimi dieci anni). Due settimane fa. A Napoli, la capitale del Mezzogiorno, il candidato del Centrodestra, Lettieri,
ha ottenuto un risultato non esaltante. E rischia molto, nel ballottaggio che lo oppone a De Magistris. Magistrato. Leader dell'IdV. Specchio fedele dell'Italia di Berlusconi. (Il quale, non a caso, ha frequentato Napoli più di Milano, negli ultimi giorni).

 Due settimane fa. Il Centrodestra non ha chiuso la partita a proprio favore in alcune città importanti, dove era al governo. Cagliari e Trieste, in primo luogo. Due settimane fa: la Lega ha visto affievolirsi la spinta propulsiva degli ultimi anni. Rispetto alle elezioni regionali dell'anno prima, ha subito un declino elettorale significativo - in valori assoluti e percentuali. Si è ridimensionata in tutti i capoluoghi di provincia, ad eccezione di Bologna, dove però era trainata dal candidato - leghista - della coalizione.

Due settimane fa, infine e soprattutto, a Milano, Letizia Moratti, sindaco uscente, ri-candidata dal Centrodestra, veniva superata nettamente da Giuliano Pisapia, candidato del Centrosinistra. Silvio Berlusconi, capolista del PdL, dimezzava le preferenze rispetto a 5 anni prima. Ripeto in modo pedante e un po' noioso cose a tutti note non con intento didascalico. Mi interessa, invece, sottolineare la catena dei "cambiamenti" avvenuti due settimane fa. In modo ancora incompiuto. In grado, tutti insieme, di evocare un "cambiamento" più ampio. Due settimane fa: è cambiato il clima d'opinione, E, al tempo stesso, si sono incrinati i miti politici che lo hanno condizionato per molti anni.

A) Lo "sconfittismo" del Centrosinistra. "Sconfitto" dall'evidenza che buoni candidati, buone coalizioni - qualche buona idea - possono produrre buoni risultati. Che gli elettori non sono "naturaliter" destinati a votare per gli altri. Neppure a Milano.

B) Ma si è incrinato anche il mito del "Cavaliere invincibile". Capace di sollevarsi dalla palude dove stava affondando tirandosi su da solo per il codino, come il Barone di Munchausen.

Ora, mi guardo bene dall'affermare che, ai ballottaggi, i giochi siano già fatti. Sono troppo scaramantico e ne ho viste troppe, nella mia vita di analista politico ed elettorale. Mi limito a osservare quel che è evidente a tutti. Il clima d'opinione è cambiato. Nei discorsi pubblici e privati. Oggi nessuno dà per scontato che i candidati del Centrodestra abbiano già vinto e quelli di Centrosinistra, simmetricamente, perso. Semmai, si è fatta strada l'impressione contraria. Non è un caso che Silvio Berlusconi abbia cambiato "opinione".
Il risultato deludente del Centrodestra al primo turno, secondo il Cavaliere, è colpa della debolezza dei candidati del Centrodestra. Non sua, personale. A Milano sarebbe, dunque, colpa della Moratti. Che però è la stessa candidata di 5 anni fa, quando Berlusconi aveva ottenuto un numero doppio di preferenze personali.

Per la prima volta, dopo tanto tempo, Silvio Berlusconi si dimostra pessimista. Non lo era stato neppure nel 2005, dopo l'esito disastroso delle Regionali. In vista delle Politiche dell'anno seguente, il Cavaliere aveva remato contro ogni previsione. Contro gli avversari e contro la sfiducia degli amici. Fino a rimontare quasi tutto lo svantaggio accumulato. Trasformando il risultato del 2006 in una quasi-vittoria. Preludio a un rapido ritorno al governo, avvenuto nel 2008.

Oggi non è così. La campagna elettorale del Centrodestra nelle ultime due settimane è apparsa fiacca. I soliti slogan. Le solite battute.
Le solite promesse. Le pernacchie Bossi. Gli insulti di Berlusconi ai Magistrati e alla Sinistra. E un'affermazione ribadita troppe volte, per non sollevare dubbi. Opposta a quella precedente al primo turno. Questo voto non avrà conseguenze politiche. Neppure se - azzarda Berlusconi - il Centrodestra dovesse perdere. A Milano e a Napoli. E magari anche in altre piazze importanti. È "solo" un voto amministrativo. Un giudizio sull'azione dei governi e dei candidati "locali". Evidentemente deboli. Ma non c'è alternativa a questo governo. A questa maggioranza. Che però oggi rischia di ritrovarsi tale - cioè: maggioranza - solo in Parlamento. Maggioranza di Palazzo, ma minoranza nel Paese. Sul territorio. Nella società. D'altronde, come mostrano i flussi elettorali calcolati dall'Istituto Cattaneo di Bologna, il PdL, nelle maggiori città, ha perso voti in tutte le direzioni. Mentre la Lega ha mostrato segni di arretramento anche nella provincia padana.
La sua enclave.

Ma se - e sottolineo se - i timori espressi da Berlusconi si avverassero. Se, in particolare, il Centrodestra perdesse Milano. Se Pisapia divenisse sindaco. Allora, il mutamento del clima d'opinione subirebbe un'accelerazione brusca. E difficilmente questa maggioranza e questo governo potrebbero proseguire il percorso senza conseguenze. Sul piano dei rapporti tra le forze politiche. Ma anche sul piano della leadership. È il destino dei partiti "personali". Le sconfitte - come le vittorie - sono anch'esse "personali".
 

(30 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/sondaggi/2011/05/30/news/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il nord "tradisce" il centrodestra ...
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 06:05:04 pm
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Il nord "tradisce" il centrodestra il mito della Padania è al capolinea

I vecchi metodi di rassicurazione fondati sulla paura del mondo e degli stranieri non funzionano più.

E la figura dell'uomo che si è fatto da sé è insufficiente

di ILVO DIAMANTI


LE CONSULTAZIONI amministrative appena svolte hanno evocato un cambiamento profondo del clima d'opinione. Eppure, nel corso della Seconda Repubblica, il Centrosinistra aveva vinto e governato a lungo a livello locale. Non solo nelle tradizionali zone di forza - l'Emilia Romagna e le regioni del Centro. Ma anche altrove. In molte aree del Sud e del Nord. Solo che ce n'eravamo scordati. Perché dopo il 2006 - e ancor più dopo il 2008 - il centrosinistra è arretrato dovunque. Ma soprattutto nel Nord. "Espugnato" dalla Lega. Che alle Regionali del 2010 è penetrata anche nelle "zone rosse". Così si è imposto il mito del "Nord padano". Un concetto entrato nel linguaggio comune. E insieme si è affermata la convinzione che il centrosinistra sia troppo "romano" per essere accettato e creduto nel Nord. Un'idea, peraltro, non infondata. Che, però, indica una deriva. Non un destino.

Così, fra gli attori politici e gli elettori di centrosinistra, si è diffuso un inferiority complex nei confronti della Lega. Considerata come unica e ultima erede dei partiti di massa. In grado di "presidiare" il territorio. Il voto ha ridimensionato, in modo brusco, questi sentimenti. Soprattutto nel Nord. Dove i partiti di governo hanno subito le sconfitte più brucianti. Non che altrove le cose, per loro, siano andate meglio. A Napoli, in particolare. Dove però da quasi vent'anni governava il centrosinistra. Ma è nel Nord padano che sono avvenuti i mutamenti
più rilevanti. A partire da Milano, la capitale della Seconda Repubblica. Senza dimenticare Trieste, che solo Riccardo Illy, in passato, era riuscito a "sottrarre" alla destra. Oppure Novara, la capitale leghista, il feudo di Cota, governatore del Piemonte.

Ma il cambiamento del Nord sconfina ben oltre i luoghi simbolici del centrodestra e della Lega. Basti esaminare il bilancio dei comuni maggiori (con più di 15mila abitanti) dove si è votato: 133 a livello nazionale. In precedenza, 73 erano amministrati dal centrosinistra e 55 dal centrodestra. Gli altri da giunte di segno diverso. Ebbene, in queste elezioni il centrosinistra ne ha conquistate altre 10. Il centrodestra ne ha perse 17. Di cui 14 appartengono al Nord "padano" (con l'esclusione, cioè, dell'Emilia Romagna). Dove, tra le città al voto, il centrodestra ha fatto eleggere solo 8 sindaci, mentre prima ne aveva 22. Mentre il centrosinistra, parallelamente, è passato da 17 a 29.
Se analizziamo il risultato ottenuto dai partiti (al primo turno) questa impressione si rafforza ulteriormente. Nei comuni del Nord padano dove si è votato, infatti, il Pd ottiene il 27%. Come alle precedenti Comunali, ma con un incremento di 2 punti rispetto alle Regionali di un anno fa. Mentre i partiti di governo sono slittati vistosamente, rispetto al voto del 2010. La Lega di quasi 5 punti (si ferma al 10,9%). Il Pdl addirittura di 8. Oggi si è attestato sul 22,5%. Così, nelle città del Nord al voto, il Pd è divenuto il primo partito. Rispetto al passato recente, si tratta di una novità evidente.

Altro aspetto rilevante, il successo delle liste di sinistra - su tutte Sel. Non solo perché in grado di imporre il proprio candidato a Milano, ma perché, in generale, ha conseguito un risultato più che doppio rispetto alle Regionali (4,6%). Anche in termini assoluti. Inoltre, va segnalata la crescita elettorale del Movimento 5 Stelle, promosso da Beppe Grillo, che supera anch'esso il 4% dei voti validi. Questi dati certificano la pesante sconfitta del centrodestra e il parallelo successo del centrosinistra nel Nord. Ma, in assenza di analisi più approfondite, è difficile ricavarne significati chiari. Semmai, alcune ipotesi, che provo a tratteggiare di seguito.

1. Anzitutto, emerge il limite del "Nord padano". Definizione imposta dalla Lega per "unificare il Nord". Contro Roma e contro l'Italia. Torna, invece, a essere evidente come vi siano "diversi" Nord. Per retroterra sociale ed economico, ma anche per rappresentanza politica.

2. In particolare, si delinea l'orientamento specifico delle città maggiori. Hanno abbandonato il centrodestra. Tutte le capitali di regione (senza considerare Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta) oggi sono governate dal centrosinistra. Tutte. Compresa la capitale per eccellenza. Milano. E il centrodestra, in questa tornata elettorale, è arretrata anche nelle città medie e nei capoluoghi di provincia. Ma si può rappresentare e governare "un territorio" restando esclusi dalle capitali?

3. Il centrodestra soffre di una crisi di consenso per molti versi nuova. In passato, infatti, Lega e Pdl disponevano di un bacino elettorale comune. Edmondo Berselli lo aveva definito, con un neologismo efficace, "forzaleghismo". Così, le crisi della Lega corrispondevano alla ripresa di Forza Italia. E viceversa. Oggi non è più così. Quel bacino è esondato. E i due partiti hanno perduto entrambi.

4. Anche perché Forza Italia non c'è più. Al suo posto, il Pdl, che aggrega anche An. Ha una base elettorale in prevalenza centro-meridionale. La Lega, a sua volta, ha assunto un'identità governativa. Infatti, esprime i sindaci di centinaia di Comuni, i presidenti di 14 Province e 2 Regioni. E sta nel governo, a Roma. Insieme a Berlusconi. Usa un linguaggio da opposizione dura e comportamenti pragmatici e tradizionali. Anche a livello locale, dove, con i propri uomini, ha occupato enti amministrativi e finanziari. Ma la distanza fra comportamenti e parole è troppo stridente per non saltare agli occhi degli elettori.

5. Nel Nord è in atto una profonda trasformazione economica e sociale. Ha scosso alle fondamenta il sistema finanziario, la grande e la piccola impresa. Ha modificato le basi demografiche e gli stili di vita della società. Molte zone, che fino a poco tempo fa si consideravano al sicuro dalla crisi, oggi si sentono vulnerabili. I metodi di rassicurazione fondati sulla paura del mondo e degli stranieri non rassicurano più. E i miti della Padania e dell'Uomo-che-si-è-fatto-da-sé non bastano più a dare risposte e identità al Nord.

6. Anche per questo, dopo alcuni anni, il centrosinistra è tornato. Per limiti altrui, ma anche per meriti propri. Perché dispone ancora di leader locali credibili ed esperti. Perché ha legami con la società civile ed è stato in grado di mobilitare la realtà locale. Perché le sue parole in questa fase appaiono meno aliene di quelle del centrodestra. Altruismo, bene comune, solidarietà incontrano più attenzione, nel senso comune, rispetto a individualismo, paure, interessi. L'estremismo "moderato" e aggressivo di questi tempi, infine, ha stancato.

7. Circa l'eterogeneità delle coalizioni e il peso della cosiddetta sinistra radicale, conviene rammentare che raramente, in passato, queste differenze hanno provocato crisi locali. Perché sindaci e governatori sono eletti direttamente dai cittadini e dispongono di una legittimazione forte. E perché è più semplice trovare l'accordo sui temi concreti della società e del territorio che sui principi non negoziabili. La vita e la morte. La pace e la guerra.

8. Da questo passaggio elettorale, il centrosinistra esce rafforzato. Ma deve trarne le giuste indicazioni. In primo luogo: il Pd non può pretendere di essere partito dominante, né tanto meno unico. Ma è, indubbiamente, il riferimento obbligato di ogni coalizione. Non bisogna, poi, scambiare le consultazioni locali con quelle nazionali. Anche se l'Italia è un Paese di città e regioni.

E tutti i cambiamenti politici, sociali e culturali sono avviati e annunciati a livello territoriale. Infine: guai a rassegnarsi, al "complesso del reduce". Allo "sconfittismo". Se è possibile vincere a Milano e nel Nord, allora nulla è impossibile. Neppure a livello nazionale.

(01 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/06/01/news/mito_padano-17047386/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il dopo-voto e la svolta mite di un paese stanco delle urla
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:41:37 pm
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Il dopo-voto e la svolta mite di un paese stanco delle urla

Il dibattito su vincitori e sconfitti, l'insofferenza dei cittadini, il tramonto di un ciclo ventennale fondato su valori privati e mito dell'individuo: così è cambiato il clima d'opinione.

E ha favorito candidati normali

di ILVO DIAMANTI

È in pieno svolgimento il terzo turno di questa lunga stagione elettorale. Il dopo-voto. Coincide con la proclamazione dei vincitori e degli sconfitti. Il confronto politico, in questa fase, riguarda gli attori, ma anche le ragioni che hanno prodotto il risultato. Ebbene, sugli sconfitti, ci sono pochi dubbi. Berlusconi, il Pdl, la Lega. Mentre sui vincitori le interpretazioni appaiono meno convergenti. (Lo ha osservato anche Eugenio Scalfari, nel suo fondo di ieri).

In particolare, si è fatta largo una spiegazione extraparlamentare. Ben espressa, fra gli altri, da uno studioso autorevole come Luca Ricolfi, sulla Stampa. Il vero vincitore di queste elezioni, secondo questa lettura, sarebbe il "partito di Santoro". Dove militano gli ospiti eccellenti di "Annozero". Di Pietro e Vendola. Sullo sfondo: Beppe Grillo. Una spiegazione condivisa e rilanciata, immediatamente dallo stesso Berlusconi. Il quale ha attribuito la sconfitta ai media ostili. Che avrebbero silenziato il centrodestra (!). Se l'è presa, in particolare, con le trasmissioni faziose della Rai. Sopra tutte, "Annozero". Appunto.

Il risultato delle amministrative, in questo modo, viene ricondotto al paradigma dominante. Che tutto riassume nell'antagonismo tra il berlusconismo e il suo reciproco. L'anti-berlusconismo. Nell'onnipotenza dei media, del marketing. E della personalizzazione. Il solito film, insomma. Protagonisti, Berlusconi e Bossi contro Santoro accanto ai magistrati. Con il Pd e Bersani a far da portaborracce a Vendola e Di Pietro.
Perfino a Grillo.
Ammetto che questa narrazione non mi convince. Mi pare poco fondata. E inattuale. Nel teatro diretto da Santoro, negli ultimi mesi, hanno recitato in tanti. Con assiduità. La Russa e Gasparri, Castelli e Salvini. Stracquadanio e Cicchitto. E ancora: la Santanché, Belpietro e Sallusti. Cioè, gli sconfitti. "Annozero", inoltre, ha un pubblico molto ampio. Non solo di sinistra. Ma "fedele". E "politicizzato". Comunque consapevole. Sa già cosa e come votare. Santoro ne rafforza le convinzioni. E poi, se "Annozero" va in onda da anni, perché proprio oggi ha prodotto questi risultati?

Questa "spiegazione", insomma, non "spiega" le novità. Anzi, ne rifiuta l'esistenza. Mentre, a mio avviso, in questa occasione è andato in onda un film nuovo. Ispirato da un clima d'opinione profondamente diverso dal passato recente. Perché risente di una somma di atteggiamenti diffusi da tempo. Che, però, si sono cumulati, fino a giungere a un punto critico. Fino a produrre un brusco mutamento (come ha suggerito Francesco Ramella).

A) L'insoddisfazione sociale nei confronti del mercato e del lavoro. E di chi governa le politiche economiche da un decennio - con una breve pausa.

B) Il divario fra le preoccupazioni dei cittadini e le priorità del governo. Riassunte in una sola. I problemi di Berlusconi con (e contro) la legge.

C) Il fastidio verso il modo in cui vengono affrontate le crisi internazionali.

D) E verso le brillanti avventure di Berlusconi con le ragazze, più e meno giovani.

E) Mentre la crisi economica si acuisce.

All'indulgenza verso tutto ciò è subentrata una crescente insofferenza. E una crescente stanchezza. Verso la vita e la politica, sempre in diretta. Sui media.

Questo clima d'opinione è stato interpretato, quasi somatizzato, dai principali candidati di centrosinistra che si sono affermati. Pisapia: mite di aspetto e nelle parole. Definirlo estremista, agli elettori non viziati da pre-giudizi, è apparso ridicolo. E Fassino. Qualcuno si sentirebbe di definirlo un ultrà? Un gregario dei No Tav e della Fiom? Pare difficile perfino immaginare che sia stato comunista, in passato. Appare, invece, il giusto seguito di Chiamparino. Un sindaco apprezzato perché misurato. E realista. E Merola? Tanto poco pop da non sospettare che il Bologna calcio giocasse in serie A. Un amministratore sotto-traccia e quasi anonimo. Dopo l'esperienza di Cofferati e Delbono: un pregio. Roberto Cosolini, nuovo sindaco a Trieste. Proviene dall'associazionismo economico. È uno "normale". Non un super-imprenditore, come Riccardo Illy. Infine Massimo Zedda, nuovo sindaco di Cagliari. Un altro estremista (vendoliano), si è detto. Sarà. Ma a vederlo sembra Harry Potter. Tanto timido che da Santoro non aprirebbe bocca. Mentre da Floris, dove l'ho intravisto dopo l'elezione, la bocca non l'ha proprio aperta. (E anche per questo mi è piaciuto...)

Certo, c'è il caso De Magistris a Napoli. Ma Napoli è proprio un "caso". Un'iperbole. De Magistris: un leader senza partito. Certo, non è il gregario di Di Pietro, visto che i rapporti fra i due, per usare un eufemismo, non sono buoni. (Come quelli con Grillo, d'altronde.)

A me pare, insomma, che sia cambiato il clima d'opinione. Che si stia chiudendo un ciclo ventennale fondato, per evocare Albert Hirschman, sui valori privati. Sul mito dell'individuo, della competitività e del mercato. Su un linguaggio aggressivo, carico di paure. Dove parole come solidarietà e bene comune sono tabù. Sulla sfiducia e il distacco verso tutte le istituzioni e dallo Stato. Questo ciclo si sta chiudendo e forse si è chiuso. Per stanchezza e per fatica. In fondo, lo straordinario consenso di cui gode il presidente Giorgio Napolitano ne è prova. Testimonia una diffusa domanda di unità e di riconoscimento. Ma anche di dignità.

Non lo aveva capito il centrodestra. Ha gestito la campagna come uno scontro personale. Berlusconi contro tutti. Non lo ha capito la Moratti, a Milano. Lei, algida e blasée, nel faccia a faccia con Pisapia, si è berlusconizzata a sua volta. Così ha allontanato definitivamente i dubbiosi. E ha segnato la svolta, nella campagna elettorale. Non solo a Milano.

Quanto al presunto trionfo di Sel e dell'Idv, bisogna chiarire. Sel ha effettivamente ottenuto un risultato notevole (come le altre formazioni di Sinistra). Riportando al voto molti elettori delusi. Ma l'Idv ha subito un sensibile arretramento, rispetto alle Regionali dell'anno scorso. Nei comuni maggiori (oltre 15.000 abitanti) ha quasi dimezzato i voti: dal 7,5% al 3,8% (stime di Demos su dati Ministero Interni). A Bologna, Milano, Torino: non ha superato il 5%. Il Movimento 5 Stelle ha ottenuto un buon successo. Soprattutto nelle grandi città del Nord. Nel complesso, è salito dal 2,5% al 3,2%. I suoi elettori hanno votato "contro" tutti, nel primo turno. Non nel secondo. A dispetto dell'indicazione di Beppe Grillo, gran parte di essi ha sostenuto i candidati del centrosinistra. Il 93% a Napoli, il 75% a Milano (flussi elettorali calcolati dall'Istituto Cattaneo).

Infine il Pd. Mi pare francamente singolare il tentativo di ridimensionarne il risultato. In Italia e nel Nord, nei maggiori comuni al voto, oggi è il primo partito. Anche a Milano, fino a ieri capitale del Nord e del centrodestra, ha eguagliato il Pdl. Il capolista Stefano Boeri, sconfitto alle primarie, ha ottenuto un risultato personale importante. Il Pd oggi appare in grado di cementare la sinistra e di linkare con il Terzo polo. Il profilo basso, imputato a Bersani, la sua difficoltà di "fare il capo": è divenuta una risorsa. Anche la sua immagine mite. Certo, resta l'impressione di un partito incompiuto, che non ha risolto i suoi problemi, anzitutto interni. Ma in questa occasione il Pd ha dimostrato potenzialità indubbie - e perfino inattese. Ha promosso e sostenuto candidati propri ma anche quelli dei partiti alleati. Con successo. (Come sarebbe stata possibile la vittoria di Pisapia, Zedda e dello stesso De Magistris, altrimenti?) Senza rimetterci voti (salvo che a Napoli). Al contrario. A conferma della sua vocazione di asse "coalizionale".

Per queste ragioni, personalmente, penso che il risultato del voto amministrativo rifletta un cambiamento d'opinione. Maturato lontano da - e perfino "contro" - "Annozero", Santoro e le televisioni. Segno di una "svolta mite". Che ha reso inutili e perfino controproducenti i comportamenti "vistosi" che fino a ieri garantivano successo. Una "svolta mite". Riflette una domanda di normalità, interpretata da leader politici normali. Poco mediatici. Che non gridano e non urlano, non insultano e non minacciano. Una svolta mite. Confermarla non sarà facile né automatico. Tuttavia, per verificare se il clima d'opinione sia davvero cambiato, c'è un'occasione immediata. I referendum di domenica prossima. Il quarto turno di questa stagione elettorale di svolta.

(06 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/sondaggi/2011/06/06/news/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le due Leghe indecise a tutto
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 05:12:12 pm
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Le due Leghe indecise a tutto

Il partito di lotta e il partito di governo si sono fronteggiati a Pontida, uniti sotto l'icona di Bossi.

Ma tra le richieste di "secessione" della piazza e i ragionamenti di governo dei leader è difficiole trovare una sintesi

di ILVO DIAMANTI


A Pontida, ieri, si sono affrontate e specchiate le due Leghe che coabitano sotto lo stesso tetto. Dentro lo stesso partito. Spesso, dentro le stesse persone. Se ne è avuta una rappresentazione esplicita, quasi teatrale, osservando la scena della manifestazione. Da una parte, la Lega di lotta e di protesta. I militanti ammassati sul prato. A gridare, senza sosta: "Secessione! Secessione!". Dall'altra, sul palco, la "Lega di governo".

I leader. Chiamati, a uno a uno, per nome e cognome. E "per carica". Ministri, viceministri, presidenti di Regione e dei gruppi parlamentari. Da ultimo, il Primo. Il Capo. Umberto Bossi. L'icona che tiene unite le due Leghe.

Movimento e istituzione insieme, per usare le categorie weberiane rilette da Francesco Alberoni. Il "movimento rivoluzionario" indipendentista e il "partito normale", istituzionalizzato. Sempre più difficili da riassumere. Soprattutto oggi. Ne ha risentito anche la comunicazione del Capo. Normalmente semplice, fino all'eccesso. Ma chiara e netta. Stavolta meno del solito. Ha espresso i contenuti cauti, della Lega di governo con il linguaggio esplicito della Lega di lotta. Alla congiunzione fra le due Leghe, l'idea del Sindacato del Nord. Che tutela gli interessi "padani".

Da ciò l'attenzione, ampia e appassionata, dedicata da Bossi agli allevatori e alla loro lotta. Ma anche ai contadini. Testimoni della "terra", il mito che ispira la Lega e la sua fede padana. Da ciò anche la minaccia, più
che l'invito, al governo e a "Giulio" (Tremonti). Affinché abbassino le tasse che colpiscono soprattutto i "ceti produttivi" del popolo padano. Artigiani, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori. Anche la polemica di Bossi, rilanciata da Maroni, contro l'intervento armato in Libia, viene tradotta in questa chiave. Più delle ragioni umanitarie preoccupano le ragioni della sicurezza. Del Nord. Minacciato dall'invasione dei poveri cristi in fuga dai bombardamenti.

La Lega di lotta e di governo, tuttavia, faticano a stare insieme, a Pontida. Qualche volta stridono. Ai militanti di Pontida che gridavano "Secessione! Secessione!", Bossi ha risposto promettendo - più modestamente - di decentrare alcuni ministeri nel Nord. Più precisamente: a Monza. I dicasteri guidati da lui stesso e Calderoli, intanto. Invitando Maroni e lo stesso Tremonti ad aggregarsi. D'altronde, ha aggiunto, il ministero dell'Economia deve stare dove si produce. Non a Roma. Spostare i ministeri a Monza serve, infatti, a marcare il distacco dallo Stato Centrale. E a valorizzare, per contro, la Capitale del Nord. Che gravita intorno a Milano. D'altronde, dopo le elezioni amministrative, la Padania ha perduto la capitale. E la Lega è stata spinta ulteriormente in provincia.

Anche gli avvertimenti a Berlusconi - fischiato dai militanti ogni volta che ne veniva pronunciato il nome - rispondono al sentimento della "Lega di opposizione". Berlusconi - ha detto e ripetuto Bossi - non sarà necessariamente il candidato premier. D'altronde, i militanti, esibendo striscioni da stadio, inneggiavano a "Maroni premier".

Il messaggio è chiaro. Berlusconi, verrà sostenuto dalla Lega solo se rispetterà gli interessi e le rivendicazioni del Sindacato del Nord. Pensieri, parole - e parolacce - a cui, tuttavia, difficilmente seguiranno i fatti. Perché queste rivendicazioni del Sindacato del Nord, per quanto "moderate", appaiono poco praticabili.

Proporre di decentrare alcuni ministeri a Nord è ben diverso che minacciare la secessione. Ma si tratta, comunque, di un progetto difficile da realizzare. Significherebbe svuotare l'idea - e la realtà - di "Roma Capitale". Divenuta tale con un decreto votato dalla stessa Lega. Lo stesso discorso vale per la riforma fiscale e le altre iniziative volte ad alleggerire - o almeno controllare - il debito pubblico. Difficile immaginare che possano avvenire a spese, prevalentemente, dei ceti sociali e delle aree del Mezzogiorno. Roma Capitale e la Regione Lazio sono governate dal Pdl. Il Centrosud garantisce il bacino elettorale maggiore del Pdl. La Lega dovrebbe, a questo fine, rompere con Berlusconi e il suo partito, come nella seconda metà degli anni Novanta. Dovrebbe ascoltare il popolo di Pontida che grida: "Secessione! Secessione!". Impensabile. Perché incombe ancora la sindrome del '99. Quando la Lega secessionista, da sola, si ridusse a poco più del 3%. Abbandonata dai "forzaleghisti", come li definì Edmondo Berselli. Gli elettori che votano ora Lega ora Forza Italia (e ora Pdl) su basi tattiche.

Per questo Bossi lancia parole di lotta, ma poi usa argomenti di governo. Sorretti da ragioni ragionevoli. Guardate che non basta schiacciare un bottone per cambiare, ripete il Capo. Guardate che non possiamo fare cadere il governo e non possiamo neppure andare al voto. Oggi. Non conviene. Il "ciclo storico (ha detto proprio così) è cambiato. Ci è sfavorevole. Vincerebbe la Sinistra".

Ma poi, aggiungiamo noi, non sarebbe facile neppure a Bossi convincere il suo partito ad abbandonare il governo - e il sottogoverno. Per ragioni interne. Costringere alle dimissioni i suoi ministri e i suoi viceministri. E tutti i suoi uomini inseriti nelle istituzioni, nei centri di potere economico, finanziario, pubblico e radiotelevisivo. Sarebbe difficile perfino a lui, il Capo. Anche proclamare la secessione. Da Roma. Non solo perché la stragrande maggioranza degli elettori del Nord, compresi i suoi, non la accetterebbe. Ma perché la rottura della maggioranza a livello nazionale avrebbe rilevanti conseguenze locali. Visto che la Lega, nel Nord, governa in due Regioni, molte province e centinaia di comuni. Insieme al Pdl.

Difficile, infine, pensare che una Lega di governo, cresciuta tanto e tanto in fretta nel Nord, non sia attraversata da divisioni interne. Come avviene in tutti i partiti "normali". Che la proposta dei ministeri a Monza non abbia suscitato disagio nel Nordest e soprattutto in Veneto. Che le ovazioni a "Maroni premier" non abbiano messo di cattivo umore Calderoli. E magari anche qualcun altro.

Per questo le parole di Bossi e il rito di Pontida non hanno offerto indicazioni chiare sul futuro. La Lega di opposizione vorrebbe correre da sola. Contro tutti. La Lega di governo non ci pensa proprio. Il Sindacato del Nord pone alla maggioranza condizioni che il Pdl non può accettare. Nessuno è abbastanza forte per imporsi. Né per rompere. Così il governo - e il Paese - sono destinati a navigare a vista. Finché ci riusciranno.

(20 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/06/20/news/mappe_diamanti_lega-17940560/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il movimento che rende visibile il cambiamento del Paese
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2011, 05:41:54 pm
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Il movimento che rende visibile il cambiamento del Paese

di ILVO DIAMANTI


GRANDE è il disordine sotto il nostro cielo. Due mesi di consultazioni - elezioni amministrative e referendum - hanno rivelato un cambiamento profondo nel clima d'opinione. Ma non è ancora chiaro come e perché sia avvenuto. I dati dell'Atlante Politico, raccolti da Demos nel sondaggio condotto nei giorni scorsi, offrono al proposito molte indicazioni. Utili a decifrare i motori della svolta elettorale - e politica - di questa fase.

LE TABELLE 1

1. La prima causa è la delusione. Nei confronti del governo, di Berlusconi, ma anche della Lega. Il giudizio sul governo non è mai stato così negativo, da quando è in carica. Come, d'altronde, quello su Berlusconi. Apprezzato dal 26% degli elettori. Quasi 10 punti in meno rispetto a sei mesi fa. Perfino Bossi lo supera, seppur di poco. Tuttavia, i suoi elettori sono insoddisfatti. Tanto che, tra i motivi della partecipazione al referendum, i leghisti indicano la volontà di "punire il (loro) governo" in misura maggiore rispetto a tutti gli altri elettorati (43%; 10 punti in più della media generale). D'altronde, non è un caso che il leader più apprezzato sia Tremonti. Cioè: l'alternativa a Berlusconi.

2. La "delusione" verso il governo si riflette negli orientamenti elettorali. Il Pdl, infatti, è superato dal Pd. In generale, peraltro, il vantaggio dei partiti di centrosinistra su quelli della maggioranza supera ormai i 7 punti. D'altronde, Bossi l'ha detto chiaramente, a Pontida. Se si votasse oggi, la sinistra vincerebbe. Per cui conviene "resistere". Asserragliati nel Palazzo.

3. Tuttavia, il cambiamento del clima d'opinione ha altre ragioni, oltre la delusione. Anzitutto, la voglia di partecipazione, che ha spinto quasi il 60% degli elettori a votare, in occasione del referendum. Nonostante l'indifferenza o l'ostilità dei partiti di maggioranza. Nonostante il silenzio di MediaRai. O forse proprio per questo. D'altra parte, ha votato oltre un quarto degli elettori del Pdl, ma quasi metà (il 42%, per la precisione) di quelli della Lega. Un orientamento favorito dall'emergere di nuove domande e nuovi valori. Il quesito relativo al "legittimo impedimento" risulta, infatti, il meno importante, secondo l'opinione degli elettori. Scelto dal 13% dei votanti (intervistati da Demos). Molto più larga la componente di quanti attribuiscono maggiore significato ai quesiti sul "nucleare" e sulla "privatizzazione dell'acqua". Segno che la mobilitazione ha intercettato sentimenti che vanno ben oltre l'antiberlusconismo. C'era nell'aria una domanda di valori (e anche "timori") diversi da quelli propagati dal "pensiero unico" del nostro tempo. Il referendum ha fornito loro l'occasione di "rivelarsi" ed esprimersi.

4. Tuttavia, il clima d'opinione non cambia da solo. Non bastano la "delusione" e le "nuove paure" - relative all'ambiente, alla salute, al lavoro - a modificarlo. Ci vogliono nuovi "attori", in grado di ri-scrivere l'agenda pubblica. Imponendo all'attenzione dei cittadini nuovi temi. Ciò è avvenuto in occasione del referendum - e prima delle amministrative. In questo esatto momento è avvenuta la "scoperta del movimento". Formula semplice e un po' semplificatoria, attraverso cui si è cercato di definire la mobilitazione sociale - inattesa - alle amministrative e ai referendum. In effetti, non di "un" movimento, si tratta. Ma di una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate. Nella società e sul territorio. Hanno agito e scavato per - e da - molto tempo, in modo carsico. Oltrepassando l'area tradizionalmente "impegnata", prevalentemente composta da uomini, di età matura. I dati dell'Atlante politico di Demos tratteggiano, al proposito, una radiografia piuttosto precisa e chiara. Diversa dalla tradizione. Proviamo a ricostruirla, risalendo (o ri-scendendo), un ramo dopo l'altro, "l'albero della partecipazione".
a) Se il 57% degli elettori italiani ha votato al referendum, il 16% ha fatto campagna elettorale. Oltre un quarto dei votanti. Tanti, se si pensa agli stereotipi che vorrebbero la società amorfa e conformista.
b) In secondo luogo: quasi il 60% di chi ha partecipato alla campagna elettorale (il 9% dell'elettorato) non l'aveva mai fatto prima. Si tratta di una partecipazione "nuova", caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all'impegno politico. In primo luogo e in particolare, le donne e i giovani. Un terzo dei "nuovi" impegnati, infatti, ha meno di trent'anni. Una misura doppia rispetto a quel che si osserva nell'ambito degli impegnati di "lungo corso". Parallelamente, nell'area della "nuova" partecipazione appare molto ampio il contributo degli studenti - ma anche degli operai. La partecipazione "tradizionale", invece, è ancora animata da pensionati e impiegati pubblici.
c) Quanto alle modalità e ai canali di partecipazione, solo il 18% circa delle persone impegnate in campagna elettorale ha adottato modelli di "militanza" esclusivamente tradizionali. Partecipando a comizi, manifestazioni, distribuendo volantini, ecc.

Metà di coloro che si sono impegnati nel referendum, invece, ha praticato una sorta di "campagna leggera". Realizzata attraverso contatti personali. Con amici, genitori, nonni, zii, cugini. Parenti e conoscenti. Infine, la rimanente parte dei cittadini impegnati (circa un terzo) ha seguito un modello "reticolare". Ha, cioè, utilizzato le nuove tecnologie della comunicazione e in particolare la Rete. Si tratta di due modelli altrettanto importanti. Il primo perché penetra nelle pieghe della vita quotidiana. Plasma il senso comune. Coinvolge persone altrimenti escluse dai messaggi politici. L'altro modello, invece, sfida la - e si sottrae alla - comunicazione tradizionale. In particolare, al/la televisione e a/i suoi padroni. Pubblici e privati. Entrambe queste modalità di partecipazione, peraltro, sono poco visibili. E per questo non sono state colte per tempo. I "nuovi" protagonisti dell'impegno politico - donne, giovani e studenti - si sono caratterizzati per un elevatissimo utilizzo del modello "reticolare".

5. Quelli che hanno votato al referendum, quelli che si sono impegnati per militanza consolidata o per la prima volta. Hanno un orientamento politico trasversale. Prevalentemente di centrosinistra. Ma molti di essi sono di centro e di destra. Oppure incerti e disillusi. Canalizzarne il consenso: non sarà facile per nessuno. Non può venire dato per scontato da nessuno. Neppure nel centrosinistra. Dove si sono già accese le liti e le dispute - partigiane e personali. Per contendere il "nuovo" clima d'opinione. Per intercettare le molecole della "nuova" partecipazione. Largamente inattesa e invisibile. Anche al centrosinistra.

(27 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/06/27/news/atlante_diamanti-18265261/?ref=HREC1-9


Titolo: ILVO DIAMANTI - Di Pietro e il Cavaliere Due destini incrociati
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2011, 06:31:06 pm

Di Pietro e il Cavaliere Due destini incrociati

Ilvo DIAMANTI


Antonio Di Pietro ha mostrato, di recente, un atteggiamento indulgente, nei confronti di Silvio Berlusconi. Lui, l'avversario irriducibile, il portabandiera della Magistratura, che insegue il Presidente del Consiglio dovunque, da quando è "sceso in campo". Negli ultimi giorni appare più "mite", come vuole il sentimento dei tempi. E si dice preoccupato della solitudine del Cavaliere, verso il quale ha espresso "umana pietà". Da parte sua, Berlusconi, da qualche tempo ha indubbiamente una brutta cera. Sempre scuro in volto. I restauri quotidiani cui si sottopone non ne migliorano l'aspetto. Anzi. D'altronde, non è facile fare quella vita, sopportare tutti quegli impegni, tutte quelle preoccupazioni, tutti quei bunga bunga. Alla sua età. Tanto più dopo i duri colpi - elettorali  -  subiti di recente. Uno dopo l'altro. Amministrative e referendum. Due sconfitte politiche pesanti. Per la sua maggioranza, per il suo partito. Due sconfitte difficili da riassorbire, sul piano personale. Di Pietro, al contrario, esce da questa fase rafforzato. Da vincitore. Il suo partito ha ottenuto una vittoria importante, alle amministrative. A Napoli. Nonostante i suoi rapporti con De Magistris non siano splendidi. Ma si sa: due magistrati, due prime donne, pardon, due primi uomini, in un "partito personale", è difficile possano convivere senza problemi. Di Pietro e l'IdV, però, hanno ottenuto slancio soprattutto dai referendum. L'IdV: accanto ai comitati, unico partito del nucleo dei promotori. Da ciò la sensibile crescita dei consensi personali a Di Pietro, registrata dall'Atlante politico di Demos, nei giorni scorsi. E la ripresa dell'IdV, che, nelle stime elettorali, ha rimontato SeL di Vendola. Per questo ha suscitato sorpresa la simpatia per Berlusconi espressa, proprio ora, da Di Pietro. Lui, che non ha mai smesso la toga, soprattutto quando si rivolge al Cavaliere e a suoi uomini. Li ha sempre trattati da inquisiti, anzi: da colpevoli impenitenti. Alla ricerca continua di leggi "ad personam" e di altri espedienti per sottrarsi al giudizio dei magistrati. Così, mentre Giuliano Ferrara elogia l'atteggiamento responsabile di Di Pietro, i suoi elettori, i suoi militanti, i suoi alleati osservano  -  perplessi. E critici. Mentre i commentatori si interrogano sui motivi di questa svolta. L'ipotesi più accreditata è che Di Pietro cerchi di difendere e allargare lo spazio del suo partito (semi) personale. Minacciato e stretto dal PD, da SEL, dalla FdS e dal Movimento 5 Stelle. Così sgomita, provoca, polemizza. Con gli alleati e con i leader più vicini al suo elettorato. Poco "fedele" e piuttosto "tattico", come mostrano le oscillazioni elettorali cui è soggetto. Sceglie in base a calcoli contingenti. Di elezione in elezione. Di occasione in occasione. Così, il "Di Pietro irriducibile", dopo aver rivendicato da sempre il suo antagonismo genetico, nei confronti del Cavaliere, ora cambia registro. Diventa "moderato" per intercettare gli elettori "moderati" di centrodestra. Insoddisfatti dalla politica del governo. Delusi da Berlusconi. In pratica, Di Pietro agirebbe su criteri di marketing, rivolgendosi ai settori del mercato elettorale più contendibili, in questa fase.
Tuttavia, c'è un altro modo di interpretare la "svolta mite" di Antonio  Di Pietro nei confronti di Silvio Berlusconi. Richiama l'origine politica dei due personaggi. Che è contestuale. Speculare. Sono entrambi artefici della fine della Prima Repubblica e dell'avvio della Seconda. Anzi, Di Pietro, figura simbolo dell'inchiesta di Mani Pulite, ne è il portabandiera. Mentre Berlusconi, insieme alla Lega e più della Lega, è colui che ha sfruttato il "vuoto" politico creato da Mani Pulite e dalla scomparsa dei partiti di governo della Prima Repubblica. Berlusconi e i Magistrati: i principali protagonisti e antagonisti della Seconda Repubblica. Nella propaganda del Cavaliere, per questo,  Di Pietro e i Magistrati rappresentano, più  ancora dei Comunisti, l'emblema del Nemico. Quelli che non ti lasciano lavorare, che ti spiano, che si fanno i fatti tuoi, che pretendono di rovesciare la volontà democraticamente espressa dal popolo. Di Pietro, a sua volta, è il principale protagonista dell'anti-berlusconismo. Ma riproduce, a sua volta, il rapporto fra politica e società inventato e imposto da Berlusconi. Non a caso è fondatore e leader di un partito personale, l'IdV, a lungo definito con il suo stesso nome (Lista Di Pietro).  Inoltre, è particolarmente abile nel gestire la propria immagine ed il rapporto con i media. Il suo stesso linguaggio ruspante: risulta uno stile di comunicazione diretto ed efficace.
Le biografie politiche di Berlusconi e Di Pietro sono, dunque, speculari. Delineano due destini incrociati. Berlusconi e Di Pietro. I Duellanti. Difficile immaginare l'uno senza l'altro. Difficile scacciare il dubbio che la fine del Cavaliere potrebbe danneggiare lo stesso Di Pietro. E perfino metterlo fuori gioco. Da ciò un sospetto. Che l'indulgenza espressa da Di Pietro verso Berlusconi, in questo momento, non nasca solo da "altruismo".  Ma anche dall'istinto di sopravvivenza.
 

(29 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/06/29/news/bussole_29_giugno-18375064/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Napolitano diventa riferimento trasversale.
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2011, 10:15:01 am
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Da solidarietà a energia pulita il nuovo dizionario degli italiani

Sondaggio Demos-Coop: ecco le parole del nostro futuro.

Agli ultimi posti nella classifica di gradimento i partiti, la Padania e le Veline.

Berlusconi ormai ai margini, Napolitano diventa invece riferimento trasversale.

"Bene comune" era una formula fino a poco tempo fa indicibile: ora è tutto cambiato

di ILVO DIAMANTI


È CAMBIATO profondamente il linguaggio degli italiani. Anche se a uno sguardo distratto la mappa che raffigura il nostro Lessico potrebbe suscitare un senso di "dejà vu". Il successo attribuito a Internet, ma soprattutto al Bene comune, alla Solidarietà, all'Energia pulita, alla Partecipazione... Il trionfo dei buoni sentimenti.
Che tutti dichiarano e pochi praticano.

Una reazione comprensibile di fronte alla graduatoria delle parole elaborata da Demos-Coop 1 in base alle opinioni di un campione rappresentativo della popolazione. Tuttavia, i "buoni sentimenti" non hanno goduto di grande popolarità, fino a poco tempo fa. Al contrario. Basti pensare, per primo, al "bene comune", divenuto il manifesto del cambiamento sociale, annunciato dai referendum (anzitutto, sull'acqua pubblica).

NAVIGA Il grafico delle parole 2 (pdf) [su repubblica.it]

Ieri: era una formula indicibile per chi volesse avere successo. Il "bene" lo si faceva senza, però, dichiararlo. Tanto più se "comune". Attinente, cioè, alla sfera pubblica e comunitaria. Perché prevalevano altri riferimenti: l'individualismo, la furbizia, il cesarismo, il localismo. L'amorale pubblica e il cinismo, d'altra parte, sovrastavano largamente la morale e il civismo, tra i valori della società.
Dove l'anestetica - l'indifferenza - occupava un posto più importante dell'etica. Parola, quest'ultima, anch'essa impopolare.

Il Lessico degli italiani compilato nell'estate 2011 rivela che questo clima culturale è cambiato. Insieme al linguaggio.
E che il Bene comune, oggi, non occorre più farlo di nascosto. Come la Solidarietà. Pratiche diffuse, da tempo, nel nostro Paese, come dimostra la fitta rete di associazioni volontarie e la crescente propensione al consumo critico e consapevole. Oggi, invece, sono divenute parole di successo. Che "conviene" pronunciare - e vengono pronunciate - in pubblico e nella vita quotidiana.

Come, peraltro, Unità nazionale. Anch'essa elusa, fino all'anno scorso. Lasciando spazio alla retorica della "divisione".
Simboleggiata dalla Padania. Ebbene, oggi l'Unità nazionale - trascinata dalle celebrazioni del 150enario - è fra i termini In.
Mentre la Padania sta nel gruppo delle parole marginali. Considerate, dagli intervistati, scarsamente attraenti e, ancor più, senza futuro. Come i Partiti (una costante di lungo periodo, in Italia), le Veline. E Berlusconi.

Naturalmente, anche in questo caso occorre prudenza, nel valutare l'importanza delle Parole. È, infatti, probabile che molti italiani continuino a seguire le Veline - su Striscia e in altre trasmissioni televisive. Che continuino a guardare Berlusconi con indulgenza - e un po' di invidia. Sotto sotto. Senza confessarlo. Appunto. Mentre prima lo facevano apertamente. Senza vergogna né timidezza.

Nell'ultimo anno, dunque, è cambiata, la gerarchia delle "parole da dire" nel discorso pubblico e nei rapporti con gli altri. Berlusconi, in particolare, è sceso in fondo, ai margini del linguaggio. Ultima anche fra le parole "impopolari". Che conviene non pronunciare se non in contesti amici. Sorte comune ad altri termini di largo uso, fino a poco tempo fa. L'Apparire, l'Individualismo, la Furbizia. Perfino il Federalismo: l'anno scorso parola "emergente" e con un grande futuro davanti. Consumato in pochi mesi. Mentre il "Leader forte", simbolo della "democrazia del pubblico" (per citare Bernard Manin) è finito nel mucchio delle "parole comuni". Condivise e contese. Che non caratterizzano la nostra epoca.

Insomma, sta declinando il linguaggio dominante al tempo del berlusconismo e del leghismo. Con una sola "parola" (coniata da Edmondo Berselli, un virtuoso della disciplina): del forza-leghismo. Al contempo, si assiste alla diffusione di un lessico "mite", punteggiato di termini che evocano la qualità della vita e dell'ambiente, l'impegno per gli altri. Il riconoscimento delle competenze piuttosto che delle appartenenze di casta (Merito). Un lessico che rende palese la "domanda di cambiamento", espressa attraverso le generazioni (Giovani) e il genere (Quote rosa).

È interessante, peraltro, osservare come il linguaggio riproduca fedelmente le tendenze in atto nella comunicazione sociale. Per prima, l'ascesa irresistibile della Rete e il parallelo declino della Televisione. Ma il lessico degli italiani rende esplicita anche l'ambivalenza di alcuni sentimenti. L'atteggiamento verso l'economia, ad esempio, fa coesistere la Crescita e la Decrescita. Cioè, il sostegno allo sviluppo economico e finanziario. Ma anche la sobrietà nei consumi, il risparmio energetico e delle risorse (ambientali e territoriali).
La domanda, cioè, di allargare il PIL insieme al BIL (dove il Benessere sostituisce il Prodotto).

Anche l'alternativa fra Pubblico e Privato resta confusa. Perché il Privato ha deluso, ma il Pubblico continua a non soddisfare.
E l'Immigrazione resta sospesa. A metà fra l'oggettiva necessità di integrazione e le paure suscitate dai flussi che premono ai confini. Spinti da emergenze economiche e, ancor più, dalle rivolte e dalle guerre.

Tra gli attori istituzionali, spicca la posizione periferica della Chiesa. Soprattutto in rapporto al futuro. Segno di una certa perdita di rilievo, tra le bussole etiche e sociali della società. D'altro canto, si conferma l'importanza assunta dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Riferimento unitario e trasversale. Simmetrico rispetto alla posizione di Berlusconi. Marginale e di frattura.

Sono, peraltro, evidenti, alcune divisioni, marcate, soprattutto, dall'orientamento politico. Riguardano, in particolare, le parole e i temi della bioetica. Il Testamento biologico, ad esempio, suscita un atteggiamento positivo in larghi settori della popolazione. Ma specialmente fra gli elettori centrosinistra. I Matrimoni gay, invece, provocano un disagio "mediamente" ampio, ma ottengono un'adesione molto convinta nei settori di sinistra radicale.

Nel complesso, le principali parole in declino (Padania, Berlusconi, Veline...) si posizionano nello spazio politico di destra. Mentre quelle che hanno conquistato popolarità (Partecipazione, Bene comune, Partecipazione...) sono proiettate a sinistra e a centro-sinistra.

Ciò, tuttavia, non significa che gli attori politici di centrosinistra siano "destinati" ad affermarsi, "trainati" dal linguaggio e dai valori diffusi fra i loro elettori. Lo abbiamo detto altre volte e lo ripetiamo. Le parole hanno bisogno di attori capaci di "dirle", di tradurle in scelte e comportamenti. Coerenti e credibili. In modo nuovo e diverso dal passato.

Le parole, prive di contenuto, rischiano, altrimenti, di perdere significato. E di perdersi, a loro volta. Lasciandoci sperduti. Senza parole.

(18 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/07/18/news/nuovo_dizionario_italiani-19258877/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il male che si nasconde dentro di noi
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 12:18:56 pm
Il male che si nasconde dentro di noi

Ilvo Diamanti

E' difficile descrivere il senso di vertigine che assale di fronte alla carneficina di Oslo. Di fronte al massacro avvenuto nell'isolotto di Utoya. Le scene dei ragazzi, sparsi lungo le spiagge, morti oppure agonizzanti. A decine. In fuga dalla violenza cieca. Generano un senso di vuoto. Disorientamento. Al di là delle misure della tragedia. Al di là dell'orrore. Per almeno due ragioni ulteriori.


La prima ragione è dettata dal profilo delle vittime. Giovani e giovanissimi. Impegnati in politica. Deve avere un significato tutto ciò, per l'assassino. Per il fanatico artefice di questa esecuzione di massa. Giovane anch'egli. Pochi anni più delle vittime. Al di là di altre spiegazioni - di episodi peraltro inesplicabili. Al di là del colore politico. La chiave di lettura del romanzo di orrore scritto con il sangue da questo fanatico è riconducibile all'età delle sue vittime. Giovani. Quasi che si volesse estirpare il seme della passione politica dalla società. Soprattutto là dove cresce, ancora incorrotta, animata di valori. Là, tra i giovani, che hanno scoperto la politica, e la praticano, in quest'epoca senza politica. In quest'epoca pervasa dall'antipolitica e dalla violenza. I giovani. Protagonisti della protesta e delle mobilitazioni: nel Nord Africa e in Medio Oriente, in Spagna e in Gran Bretagna. In Francia e in Italia. I giovani disposti a partecipare a una scuola di impegno e formazione "politica", in Norvegia. E' come se il "giovane" Anders Behring Breivik avesse voluto sopprimere tutto questo. Agendo da braccio armato - e malato - di una volontà oscura, che anela ad annullare il futuro. A riportarci indietro, ad ancorarci al passato orrendo - e all'orrore del passato - che non passa mai. Ma ritorna di continuo.

L'altra ragione che rende più tragica e dolorosa questa tragedia è l'irragionevole. Perché questo episodio orrendo contraddice e sovverte le "nostre" ragioni. Anzitutto, il luogo dove è avvenuto. Il contesto, tratteggiato con dolente cura da Adriano Sofri 1. La Norvegia. Che rispetta la natura e non fa affari con i dittatori. Dove i poliziotti girano disarmati. Un Paese mite. Nel quale nessuno potrebbe immaginare, "ragionevolmente", un'esplosione di violenza tanto cieca, covata al proprio interno. Già: al "proprio interno". Perché è difficile rassegnarsi a questa evidenza. Visto che il "riflesso condizionato" degli osservatori e dei commentatori, di fronte a tanto orrore, ha reagito, dapprima e a lungo, cercando una spiegazione coerente - e in fondo rassicurante - con le proprie ragioni, i propri giudizi - e pregiudizi... Richiamando il fantasma delle cellule Qaediste, la Jiad. In altri termini: il Terrore Islamico che aizza lo Scontro di Civiltà. Il Nemico evocato, subito, sulle cronache delle edizioni on-line (talora, anche cartacee) dei giornali. Alcuni, in particolare, particolarmente riluttanti - e renitenti - a rassegnarsi, anche di fronte all'evidenza. Invece no. L'assassino, il Mostro, è un giovane norvegese. Biondo, cristiano fondamentalista, anti-islamico.

E' difficile sopportare il disagio e la vertigine prodotti da questa vicenda. Troppo incoerente e irragionevole di fronte alle nostre ragioni - e alla nostra ragione. Noi: costretti ad ammettere che l'Odio può esplodere dove si coltiva il bene comune. In modo più violento che altrove. E si può esprimere, in modo in-descrivibile, nel "nostro" mondo, per mano dei "nostri". Non dell'Altro: il "nemico" islamico e terrorista. 

Il Male che si nasconde - e cresce - dentro di noi. Non sopporta il futuro. Né il bene comune. Soffre i giovani che si impegnano per gli altri. Talora esplode, deflagra. Un furia cieca e sanguinaria. Contro di loro. Il bene comune, i giovani, il futuro.

(24 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/07/24/news/bussola_24_luglio-19543804/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La deriva del partito personale
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2011, 04:41:56 pm
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La deriva del partito personale

Il modello 'Berlusconi' ha incarnato il modo di fare politica nella Seconda Repubblica: il leader crea il partito e gli fornisce un senso. Come hanno fatto anche in parte la Lega, l'Idv, Sel e il Terzo polo. Ma ora lo Stato, diventato di fatto presidenziale, si trova di fronte a un futuro senza leader e senza partiti

di ILVO DIAMANTI


LA SECONDA Repubblica è ormai alla fine. Vent'anni dopo l'avvio, arranca faticosamente. Insieme agli attori che hanno contribuito a fondarla e a plasmarla. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, per primi. In particolare, appare logoro il modello berlusconiano, imperniato sulla personalizzazione iperbolica del partito e del governo. Enfatizzata dall'uso dei media.

La Seconda Repubblica: ruota intorno al partito di Berlusconi. "Personale" e non personalizzato. Perché, a differenza di quel che avviene nelle altre democrazie occidentali, il partito non agisce come una macchina per selezionare e sostenere il leader. Viceversa, è il leader a creare il partito. A fornirgli regole e valori. Identità e organizzazione. Un "partito personale", riassunto nel corpo del Capo (come ha precisato Mauro Calise nella nuova edizione del suo saggio, edito da Laterza nel 2010).

Ne asseconda le scelte e gli interessi. Ne riflette il destino. Un modello vincente, riprodotto da tutti. In base alla diversa disponibilità di risorse - simboliche, mediali e, naturalmente, economiche e finanziarie. Per prima la Lega, l'altra "madre" della Seconda Repubblica. Partito dei ceti medi privati, della provincia produttiva del Nord. Anticentralista e antiromano. Ha ereditato il retroterra elettorale della Dc, assumendo una forma organizzativa simile al vecchio Pci.

Un partito carismatico e personale a basi di massa. Che ha bisogno di Bossi per "stare insieme". Perché Bossi ne incarna l'identità e la storia, l'immagine e il linguaggio. Anche dopo la malattia. Tanto più dopo la malattia. Bossi ha portato con sé la sofferenza fisica e l'ha esibita come un simbolo. L'icona della Padania promessa (per citare Biorcio).

La Seconda Repubblica fondata da - e su - Berlusconi, nel vuoto politico prodotto da Tangentopoli, è cresciuta a immagine e somiglianza del Cavaliere. Oggi, se ci guardiamo intorno, vediamo solamente imitazioni. Partiti personali, più o meno riusciti. Più o meno realizzati. Non solo la Lega di Bossi. Ma anche l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, cofondatore della Seconda Repubblica, in quanto figura simbolo di Mani Pulite. E Sel. Cosa era e cosa sarebbe senza l'affermazione di Nichi Vendola? D'altronde, la Federazione della Sinistra, la stessa Rc, dopo il "ritiro" di Bertinotti, sono divenute invisibili. Scivolando verso il Terzo Polo: come scindere l'Udc da Casini? Tanto meno l'Api da Rutelli, anche perché è rimasto ormai quasi solo (Tabacci fa storia a sé. Figura di valore, all'inseguimento ostinato della Prima Repubblica proporzionale). Anche Fli: è la Lista Fini. I Radicali, d'altra parte, per primi, hanno importato il modello americano, presentandosi negli anni Ottanta come lista personale, incarnata da Pannella e, poi, dalla Bonino.

Resta il Partito democratico, ultima stazione del viaggio del centrosinistra all'inseguimento di Berlusconi. Condotto, prima, attraverso l'Ulivo di Prodi e Parisi, sostenitori dell'Unione tra diverse culture politiche. Una sorta di Nuova Dc spostata a sinistra. Fino al Pd di Veltroni. Partito "esclusivo" e maggioritario. Fondato sulle primarie, usate non solo per selezionare i candidati alle cariche istituzionali - nazionali e locali. Ma per eleggere le cariche del partito. Una sorta di riproduzione dei vecchi congressi. Necessaria a regalare un'investitura popolare e di massa a "un" leader.

Ebbene, tutti questi esperimenti, realizzati con maggiore o minore successo, oggi appaiono gusci svuotati di senso e consistenza. Per la de-composizione del modello, che segue la crisi del fondatore. D'altronde, se l'identità e la coerenza del partito dipendono dalla figura e dal "corpo" del Capo, come pensare che il partito possa sopravvivere al suo declino? Ciò appare evidente nel caso del Pdl, un non-partito-personale. La scomparsa di Berlusconi - praticamente introvabile da settimane, mentre infuria la crisi interna e globale - ha s-travolto il Pdl. Non basterà l'investitura di Angelino Alfano a salvarlo. Perché è impensabile un partito personale senza l'unica persona che gli dia senso e risorse.

Diverso il discorso della Lega, che dispone di un'organizzazione diffusa sul territorio e di una classe politica sperimentata, a livello centrale e locale. Tuttavia, è attraversata da differenze interne profonde. A livello territoriale, ma anche di identità e cultura. E ancora: personali. È, probabilmente, questo il principale motivo per cui la leadership di Bossi - per quanto vissuta con crescente insofferenza all'interno - non viene ancora contestata apertamente e in modo diretto. Per timore del big bang. Tuttavia, se Berlusconi uscisse di scena, anche Bossi ne seguirebbe la sorte. Non solo, ma in questo caso, l'intero sistema dei partiti personali verrebbe centrifugato. Perderebbe il baricentro.

In fondo, è per questa ragione che il Pd ha dimostrato capacità di ripresa e di reazione, negli ultimi mesi. Perché resta un partito incompiuto e im-personale. Privo di un'organizzazione solida - leggera o pesante, non importa - e di una leadership condivisa. Semmai, divisa. Un partito in-definito, anche dal punto di vista della prospettiva. I recenti scandali, peraltro, ne hanno logorato la legittimazione morale. La pretesa "diversità", rivendicata, trent'anni fa da Berlinguer, come ha rammentato nei giorni scorsi Eugenio Scalfari.

Da ciò la crisi profonda che scuote e disorienta il sistema politico e le istituzioni di questa Repubblica, modellata da Silvio Berlusconi a propria immagine e somiglianza. Ora che il motore è inceppato, l'intero universo appare disassato. Perché il declino dei leader avviene dopo che la personalizzazione ha logorato i partiti. Così ci avviamo a un futuro-prossimo-già-iniziato: senza leader e senza partiti. Ciò spiega il ruolo assunto dal presidente Napolitano. L'unico leader che goda di fiducia - in questo sistema privo di leader e di partiti. Per propri meriti "personali", ma anche perché non ha partito.

Da ciò il paradosso della nostra Repubblica - fondata dai partiti e ridisegnata dai partiti "personali". Oggi è divenuta una Repubblica presidenziale. Di fatto.

Non dobbiamo pensare, tuttavia, a una deriva inevitabile. La crisi dei partiti personali ha, infatti, sollecitato la reazione di molte "persone", che agiscono nella società civile e sul territorio, ma anche alla periferia dei partiti. Ne abbiamo avuto esempio in occasione delle amministrative e dei referendum. Da ciò la speranza - e qualcosa di più. Che le persone di buona volontà e i mille segmenti del movimento invisibile cresciuto in questi mesi non si rassegnino.   

(01 agosto 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/08/01/news/mappe_diamanti_partito_personale-19857170/?ref=HREC1-5


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'arte di arrangiarsi non ci salverà
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 07:47:11 am
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L'arte di arrangiarsi non ci salverà

di ILVO DIAMANTI

TEMO che il piano del governo per rispondere alla bufera dei mercati non produrrà gli effetti sperati. Non solo per i limiti relativi alle politiche annunciate, né per le turbolenze globali. Oltre a tutto ciò, c'è un altro problema: noi. Gli italiani. E lui. Berlusconi.
Insieme al governo "eletto dal popolo". In definitiva: il rapporto fra gli italiani e chi li governa. In parte, si tratta di una novità.

Gli italiani, infatti, nel dopoguerra, hanno sempre reagito alle emergenze, interne ed esterne. Basti pensare alla Ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta. Quando l'Italia divenne uno dei Paesi più industrializzati al mondo. Gli italiani conquistarono il benessere, l'accesso all'istruzione di massa e ai diritti di cittadinanza sociale. Anche in seguito il Paese continuò a crescere. Soprattutto negli anni Novanta, grazie alle aree e ai settori in precedenza considerati "periferici". Le piccole imprese, il lavoro autonomo, le province del Nord, il Nordest. In quegli stessi anni, gli italiani reagirono alla crisi - economica e politica - affidandosi ai governi guidati da Amato e Ciampi, all'intesa tra il governo e le parti sociali. Gli italiani, allora, affrontarono manovre finanziarie il cui costo complessivo superò largamente i centomila miliardi di lire. E pagarono molto anche tra il 1996 e il 1998, quando al governo erano Prodi e (ancora) Ciampi. Per entrare nell'Europa dell'Euro. Per non restare esclusi dall'Unione - peraltro ancora incompiuta. Pagarono caro, tra molte proteste, comprensibili. Ma pagarono. Perché compresero che non c'era alternativa, se volevano mantenere il benessere e lo sviluppo conquistati con tanti sacrifici. Oggi - lo ripeto - dubito seriamente che riusciremmo nella stessa impresa. Che saremmo - saremo - in grado di affrontare gli stessi costi e gli stessi sacrifici. Con gli stessi risultati.

Ci ostacola, anzitutto, la nostra identità sociale. Il nostro "costume nazionale". Gli italiani, infatti, si sentono uniti dalle differenze, locali e sociali. Sono - siamo - un Paese di paesi: città, villaggi, regioni. L'Italia è, al tempo stesso, un collage, una "casa comune", dove coabitano molte famiglie. Appunto. Perché gli italiani si vedono diversi e distinti da ogni altro popolo proprio dall'attaccamento alla famiglia. E ancora, dall'arte di arrangiarsi. Cioè, dalla capacità di adattarsi ai cambiamenti e di rispondere alle difficoltà. E, ancora, dalla creatività e dall'innovazione. Un popolo di creativi, flessibili, attaccati alla propria famiglia, al proprio contesto locale. E, puntualmente, lontano dallo Stato, dalle istituzioni, dalla politica, dal governo. Una società familista, in grado di affrontare le difficoltà "esterne" di ogni genere. In grado di crescere "nonostante" lo Stato e la Politica. Si tratta di una cornice condivisa, come ha dimostrato il consenso ottenuto dalle celebrazioni del 150enario. Ma è ancora in grado di "funzionare" come in passato? Penso di no.

Il localismo, la struttura familiare e quasi "clanica" della nostra società: sono limiti alla costruzione di una società aperta, equa, fondata sul merito. Ostacoli a ogni tentativo di liberalizzare. Gran parte degli italiani, d'altronde, sono d'accordo sulle liberalizzazioni. Ma tutti, o quasi, pensano di trasmettere ai figli non solo la casa e il patrimonio, ma anche la professione, l'impresa e la bottega. E molti (soprattutto quelli che non hanno un lavoro dipendente) vedono nell'elusione e nell'evasione fiscale una legittima difesa dallo Stato inefficiente, esoso e iniquo. Il quale, da parte sua, non fa molto per allontanare da sé questo ri-sentimento.

Difficile, in queste condizioni, rilanciare la crescita, abbassare il debito pubblico, imporre il pareggio di bilancio. Anche se venisse imposto per legge. Anzi: con norma costituzionale.
Eppure - si potrebbe eccepire, legittimamente - in passato questo modello ha funzionato. Già: in passato. Quando eravamo (più) poveri. Quando dovevamo conquistare il benessere e un posto di riguardo, nella società. Per noi e i nostri figli. Quando la nostra economia e il nostro Paese dovevano guadagnare peso e credibilità, sui mercati e nelle relazioni internazionali. A dispetto dei sospetti e dei pregiudizi nei nostri confronti. Ma oggi non è più così. Non abbiamo più la rabbia di un tempo. Semmai: la esprimiamo nei confronti dello Stato e degli altri. Gli stranieri. E in generale: verso gli altri italiani. Sempre più stranieri ai nostri occhi.

Poi, soprattutto, è da vent'anni che il localismo, il familismo e il bricolage sono andati al potere. Interpretati dal partito delle piccole patrie locali: Nord, Nordest, regioni, città e quant'altro. E dal Partito Personale dell'Imprenditore-che-si è-fatto-da-sé. È da 10 anni almeno che lo Stato è stato conquistato da chi considera lo Stato un potere da neutralizzare. Da chi ritiene le Tasse e le Leggi degli abusi. È da 10 anni almeno che il pessimismo economico è considerato un atteggiamento antinazionale, un sentimento esecrabile che produce crisi. È da 10 anni almeno che "tutto va bene", l'economia nazionale funziona, la disoccupazione è più bassa che altrove (non importa se è sommersa nell'informalità). E se oggi la nostra borsa e la nostra economia arrancano affannosamente - certo, insieme alle altre, ma molto, molto più di ogni altra - la colpa non è nostra, figurarsi. Ma degli altri: i mercati e gli speculatori - cioè, lo stesso. Perché non ci capiscono. Non tengono conto dei nostri "fondamentali", solidi e forti.

Così dubito che gli italiani siano davvero in grado di affrontare la sfida di questo momento critico. Al di là delle colpe altrui, anche per propri limiti. Perché non hanno - non abbiamo - più il fisico e lo spirito di una volta. Perché oggi essere familisti, localisti, individualisti - e furbi - non costituisce una risorsa, ma un limite. Perché la sfiducia nello Stato e nelle istituzioni, oltre che nella politica e nei partiti: è un limite. (E non basta la fiducia nel Presidente della Repubblica a compensarlo.) Perché l'abbondanza di senso cinico e la povertà di senso civico: è un limite. Perché se a chiederti di cambiare è un governo fatto di partiti personali e di persone che riproducono i tuoi vizi antichi: come fai a credergli?

Perché, in fondo, questo Presidente Imprenditore - e viceversa - in campagna elettorale permanente, quando chiede sacrifici, rigore, equità, non ci crede neppure lui.
Strizza l'occhio, come a dire: sacrifici sì, ma domani... Basta che paghino gli altri. Peccato che domani - anzi: oggi - sia già troppo tardi.
E gli altri siamo noi. L'arte di arrangiarsi stavolta non ci salverà. Tanto meno Berlusconi.

(08 agosto 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/08/08/news/mappe_diamanti-20164891/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La democrazia e la Piazza (Affari)
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2011, 05:41:15 pm
La democrazia e la Piazza (Affari)

Ilvo DIAMANTI

"No Taxation without Representation", recita un detto diffuso nelle democrazie liberali. (Dal tempo della Rivoluzione americana, nel XVIII secolo, contro il colonialismo inglese.) Se così fosse, se così è, come dubitare del sostegno popolare alle pesanti manovre imposte dai governi ai cittadini delle democrazie colpite dalla lunga e reiterata crisi dei mercati globali? Come dubitare che i cittadini ne possano, potranno capire i motivi? I cittadini globali: si sentono naturalmente rappresentati  -  e anzitutto informati. Sanno bene che il PIL il termometro che misura la salute delle nostre economie. La "nostra" salute. Il PIL. Guai se non cresce abbastanza. Se stagna o peggio: declina. E i listini delle Borse (iniziale maiuscola), come possono ignorarli, i cittadini? Tutti, naturalmente, edotti sul significato del Nasdaq, sull'importanza del Ftse Mib, del Ftse All Share, per non parlare del Ftse Star. Quando ci si incrocia per strada, la prima domanda è: come va Dow Jones? E poi è scontato: la "gente comune" è sempre lì, davanti al computer e alle reti satellitari, a seguire l'andamento dei listini. Dovunque nel mondo. Perché le Borse non chiudono mai. C'è sempre una borsa che opera, nel mondo, mentre un'altra chiude. Taiwan, Seul, Sidney, Tokio, Kuala Lumpur Bangkok. Wall Street. Le piazze europee. Una Borsa tira  -  e trascina  -  l'altra.

La "gente comune", a cui si chiede di coprire il debito e il deficit nazionale - e di mantenere la speculazione globale - pagando le tasse, è sempre lì. Per essere sempre informata, per andare sul sicuro, si danno i turni, in famiglia. Davanti alle reti satellitari e ai pc. La "gente comune" si sente rappresentata: dalla classe politica, ma, più ancora, dagli agenti di borsa, dagli operatori di mercato. Dagli speculatori.

I cittadini, naturalmente, "sanno": che il problema è originato dalla solvibilità degli Stati. O meglio, dalla in-solvibilità del debito accumulato da "alcuni" Stati. Tutti conoscono il significato di "insolvibilità". Figurarsi. Provate a chiederlo al nonno, alla zia, al vostro anziano  -  ma anche giovane -  genitore. Al vicino di casa che lavora in fabbrica. Al compagno di ufficio e di scuola.  Vi risponderanno con prontezza e competenza. Sul debito della Grecia, dell'Irlanda e del Portogallo. Su quello della Spagna. A maggior ragione, su quello dell'Italia. D'altronde, tutti, ma proprio tutti, ormai, conoscono Trichet. Quello che, per conto della BCE, annuncia l'acquisto di BTP e BOT. Con effetti espansivi per le mitiche Borse. La BCE. Lo sanno tutti cosa sia e quanto conti per la nostra vita. Trichet: uno di casa. Come Draghi, d'altronde. Tanto più Strauss-Kahn. Proprio lui, Direttore del FMI, fino a poche settimane fa. Personaggio del Jet set, ne hanno parlato tutti i rotocalchi, tutti i TG, perfino il TG 1. Dominique Strauss-Kahn, confidenzialmente DSK, come lo chiamano normalmente mia suocera, mio padre e i miei vicini di casa. Proprio lui. Quello che, tra una crisi finanziaria e l'altra, inseguiva le cameriere degli hotel, perché, come dice un importante Uomo di Stato italiano, bisognerà pure far fronte agli stress continui, in questo mondo eternamente in crisi...  DSK. Uno di famiglia. Come altri stranieri di cui, invece, abbiamo imparato a diffidare un po'. Morgan Stanley, ma soprattutto Standard & Poor's. Per gli amici: S&P. Fratelli coltelli. Che si divertono a terrorizzare le nostre Borse, minacciando di togliere la tripla A. Peggiorando il Rating ora di questo, ora di quello. Ogni mattina, in effetti, noi ci alziamo, ci guardiamo allo specchio e, prima di lavarci il viso, ci stropicciamo gli occhi e ci chiediamo: come sarà il mio Rating, oggi? E il mio Spread? Perderò la tripla A? Di che umore saranno i fratelli S&P?  E quel vecchio marpione di Morgan Stanley?

Per cui, bando ai dubbi e alle preoccupazioni sullo stato del nostro Stato e della nostra Democrazia. Ciò che avviene sui mercati globali è comprensibile e compreso da tutti i cittadini. I quali si sentono pienamente rappresentati da chi li governa. Altrimenti non pagherebbero i costi di questa crisi globale. Che in alcuni Paesi risultano particolarmente pesanti. Per fare un esempio a caso: nel nostro. Sempre il peggiore, secondo il PIL e gli indici di Borsa. Anche se fino a ieri si era detto  -  lo aveva garantito il nostro governo  -  che non abbiamo nulla da temere. Perché la nostra economia, la nostra credibilità sui mercati, lo stato dell'Italia, il PIL, il MIB, la BCE, il FMI: tutto ok. Per cui bisogna aver fiducia, essere ottimisti. Certo: c'è il problema dello Spread tra il Bund tedesco e il Btp decennale italiano, che non smette di crescere. Ma ci metteremo una pezza. Ce l'abbiamo sempre fatta. Ce la faremo anche stavolta, di fronte a questa crisi. Im-prevedibile (per il saggio Tremonti).
 Intanto cerchiamo di affrontare la sfida della Tobin Tax, che, appena annunciata da Sarkò e la Merkel, ha generato tanta inquietudine fra gli operatori di Borsa e spinto gli indici al ribasso.

Insomma, tutto è chiaro e trasparente in questa economia globale. Possiamo stare tranquilli. Le democrazie non corrono rischi. E possono continuare ancora a lungo a colpi di taxation, senza problemi di representation. Come si sa, la credibilità del ceto politico e delle classi dirigenti, oggi, è saldissima. Le proteste "indignate", le esplosioni violente dei giovani, il crescente peso dei populismi: un raffreddore  per l'organismo sano della nostra Democrazia. Dove i cittadini, come nell'Atene di Pericle, si incontrano e discutono del presente, ma soprattutto del futuro, pardon: dei futures. Insieme, riuniti nell'Agorà. Cioè, nella Piazza.
Affari.

(18 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - Alla ricerca dell'autorità perduta
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2011, 04:21:51 pm

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Alla ricerca dell'autorità perduta

di ILVO DIAMANTI

VIVIAMO un passaggio d'epoca. Questa crisi, infatti, non scuote solo le Borse, l'economia, la condizione di vita della gente. Ha aggredito, con violenza, anche il principio di autorità. Il Potere stesso, che a differenza dell'Autorità, non ha bisogno di legittimità e di consenso. Dovunque, si assiste alla rapida e diffusa caduta di ogni autorità. E di gran parte dei "poteri" che regola(va)no il nostro mondo. Anzi, il mondo, in generale. Lasciamo per ultimo il nostro Paese. È sempre stato una "periferia", che oggi, però, appare priva di "centri".

A partire dall'Europa dell'euro, una moneta senza Stato. E senza politica. Mentre l'Unione europea è un tavolo dove i governi nazionali si confrontano. In un gioco a somma negativa, perché nessuno, appunto, ha sufficiente potere per imporsi agli altri. Neppure i più forti. Si veda l'esito del vertice tra Sarkozy e la Merkel. Meno di nulla. D'altronde, Sarkozy e la Merkel, a casa loro, sono in profonda "crisi" di popolarità. Come i principali capi di governo europei. Senza parlare di noi, basti pensare a Zapatero, che ha indetto le elezioni per il prossimo autunno, annunciando che non si ripresenterà. Lo stesso Cameron, da un anno premier inglese, sta attraversando più di un problema. Per sedare le violenze esplose due settimane fa, a Londra e in altre città, ha dovuto mobilitare 16mila agenti. Lo stesso numero, più o meno, dei "tumultuosi". Cameron: ha usato la forza (pubblica), ma i tagli alla spesa ridurranno gli organici della polizia. E, per questo, è in polemica aperta con Scotland Yard. Esempio significativo del conflitto fra i poteri  -  e dunque dell'autorità  -  dello Stato (e che Stato!). Lo stesso Cameron, d'altra parte, ha accusato le famiglie di aver ceduto, se non perduto, la propria "autorità" rispetto ai figli. Per l'incapacità di dettare regole e valori. Ma per dettare valori e ancor più regole occorre Autorità. O almeno, potere. Meglio entrambi, insieme. Oggi chi è in grado di esercitarli? Allargando lo sguardo al mondo, chi comanda? Gli Usa? Certamente non più. Viviamo in un mondo multipolare. E gli Usa, oggi, sono coinvolti nella crisi finanziaria "globale", esattamente come gli altri Paesi dell'area di mercato.

Anzi, la loro stessa debolezza ne è una causa. Un moltiplicatore. Il che ha eroso, rapidamente, la popolarità, dunque il "consenso" e la legittimità del presidente Obama, appena un anno fa, considerato il portabandiera di una stagione di rinnovamento globale. Oggi in difficoltà, quasi im-potente, dentro e fuori gli Usa. Nonostante sia investito di "poteri" ben più rilevanti rispetto ad altre democrazie, come la nostra. Dove in molti vagheggiano il modello presidenzialista (all'americana).

I "nuovi" potenti del mondo, per prima la Cina, agiscono, anch'essi, attraverso i "mercati" e le Borse. Controllano il debito pubblico americano. Ma ne sono, per questo, vincolati. La Cina, però, sconta un deficit di autorità. Perché non può costituire un "modello" internazionale, dal punto di vista dei diritti e dei valori che ne orientano il regime, sul piano interno.

La crisi finanziaria che scuote l'economia globale, d'altronde, riflette un'evidente incertezza di "poteri" e di regole condivise. Nessuno che sia in grado, davvero, di prevedere e di orientare il corso dei mercati  -  e delle Borse. La relazione tra finanza ed economia è debole (per usare un eufemismo). La politica ancor di più. Si dice, anzi, che la debolezza della politica e degli Stati sia causa della crisi delle Borse. Prive, a loro volta, di metri e, soprattutto, "autorità" in grado di regolarle. Le agenzie di Rating, con i loro "voti", possono produrre (e hanno prodotto) effetti pesanti. Ma sono, a loro volta, poco credibili, dopo la pessima prova offerta nel 2008, al tempo della crisi dei subprimes. Il Nobel dell'Economia, Paul Krugman, sul New York Times le ha definite, impietosamente, "clown". E ha riproposto, come prima causa della crisi finanziaria, la debolezza della politica e degli Stati (Uniti). Una crisi di autorità, insomma.

D'altronde, dal punto di vista geopolitico, è da mesi che poteri senza autorità, come quelli espressi dai regimi del Nord Africa e del Medio Oriente, sono stati investiti da potenti contestazioni - protagonisti soprattutto i giovani. Fino ad essere rovesciati. Dove, però, come in Tunisia e in Egitto ha contribuito l'esercito a rovesciare il "potere" precedente. Altrove, invece, (Libia e Siria, in particolare) si assiste a rivoluzioni ancora incompiute. Guerre civili. Rivolte represse nel sangue. Eppure irriducibili.

La crisi del Potere e - soprattutto - dell'Autorità, infine, è particolarmente visibile in Italia. Dove la Politica è debole, più ancora della Finanza e dell'Economia. Dove i leader di governo cercano di non dar nell'occhio. Si affidano alla supplenza di altri poteri (relativamente) più autorevoli, come la Bce. Mentre l'opposizione stenta a trasformare l'impotenza della maggioranza in potere. A guadagnare autorità. Il nuovo moto di insofferenza contro la casta non deriva solo dal riprodursi di un sistema di privilegi  -  e di corruzione  -  che, in effetti, non è mai cessato. Ma dall'assoluta perdita di autorità della classe dirigente. Soprattutto dei leader che governano il Paese da 10 anni, in modo quasi ininterrotto. Quelli che, fino a un anno fa, avevano trasformato Villa Certosa nella rutilante capitale estiva del Paese. Affollata di veline e velinari. Quelli che parlano di politica con un linguaggio antipolitico. Usano il turpiloquio come linguaggio pubblico. E alzano il dito non per mostrare la luna ...

Come immaginare che possano riscuotere "prestigio" e deferenza tra i cittadini? Se riproducono i vizi e le debolezze del popolo, perché dovrebbero ottenere privilegi e riconoscimento da parte del popolo? Oggi che la crisi minaccia la condizione economica e sociale, la vita quotidiana di tutti?
Questa fase mi pare particolarmente insidiosa. Difficile da superare. È frustrata da un grande deficit di autorità  -  e di potere. Da una grande povertà di riferimenti etici e di comportamento. Un problema aggravato, (non solo) in Italia, dalla scarsità di attori e persone credibili. In grado di "dire" le parole necessarie a esprimere il sentimento del tempo. (Ne abbiamo tracciato una "Mappa", un mese fa, su Repubblica). Ma, soprattutto, di tradurle in pratiche coerenti. Di dare il buon esempio.

Eddy Berselli, prima di lasciarci, ha rammentato, profeticamente, (L'economia giusta, Einaudi) che "dovremo abituarci ad essere più poveri". Ma, a maggior ragione, diventa importante chi e come ce lo propone. Insomma: è una questione di autorità.

(22 agosto 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/08/22/news/autorit_perduta-20718490/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Non studiate!
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2011, 08:40:55 am
Non studiate!

di Ilvo DIAMANTI

CARI RAGAZZI, cari giovani: non studiate! Soprattutto, non nella scuola pubblica. Ve lo dice uno che ha sempre studiato e studia da sempre. Che senza studiare non saprebbe che fare. Che a scuola si sente a casa propria.
 
Ascoltatemi: non studiate. Non nella scuola pubblica, comunque. Non vi garantisce un lavoro, né un reddito. Allunga la vostra precarietà. La vostra dipendenza dalla famiglia. Non vi garantisce prestigio sociale. Vi pare che i vostri maestri e i vostri professori ne abbiano? Meritano il vostro rispetto, la vostra deferenza? I vostri genitori li considerano “classe dirigente”? Difficile.

Qualsiasi libero professionista, commerciante, artigiano, non dico imprenditore, guadagna più di loro. E poi vi pare che godano di considerazione sociale? I ministri li definiscono fannulloni. Il governo una categoria da “tagliare”. Ed effettivamente “tagliata”, dal punto di vista degli organici, degli stipendi, dei fondi per l’attività ordinaria e per la ricerca.

E, poi, che cosa hanno da insegnare ancora? Oggi la “cultura” passa tutta attraverso Internet e i New media. A proposito dei quali, voi, ragazzi, ne sapete molto più di loro. Perché voi siete, in larga parte e in larga misura, “nativi digitali”, mentre loro (noi), gli insegnanti, i professori, di “digitali”, spesso, hanno solo le impronte. E poi quanti di voi e dei vostri genitori ne accettano i giudizi? Quanti di voi e dei vostri genitori, quando si tratta di giudizi – e di voti – negativi, non li considerano pre-giudizi, viziati da malanimo?

Per cui, cari ragazzi, non studiate! Non andate a scuola. In quella pubblica almeno. Non avete nulla da imparare e neppure da ottenere. Per il titolo di studio, basta poco. Un istituto privato che vi faccia ottenere in poco tempo e con poco sforzo, un diploma, perfino una laurea. Restandovene tranquillamente a casa vostra. Tanto non vi servirà a molto. Per fare il precario, la velina o il tronista non sono richiesti titoli di studio. Per avere una retribuzione alta e magari una pensione sicura a 25 anni: basta andare in Parlamento o in Regione. Basta essere figli o parenti di un parlamentare o di un uomo politico. Uno di quelli che sparano sulla scuola, sulla cultura e sullo Stato. Sul Pubblico. Sui privilegi della Casta. (Cioè: degli altri). L’Istruzione, la Cultura, a questo fine, non servono.

Non studiate, ragazzi. Non andate a scuola. Tanto meno in quella pubblica. Anni buttati. Non vi serviranno neppure a maturare anzianità di servizio, in vista della pensione. Che, d’altronde, non riuscirete mai ad avere. Perché la vostra generazione è destinata a un presente lavorativo incerto e a un futuro certamente senza pensione. Gli anni passati a studiare all’università. Scordateveli. Non riuscirete a utilizzarli per la vostra anzianità. Il governo li considera, comunque, “inutili”. Tanto più come incentivo. A studiare.

Per cui, cari ragazzi, non studiate. Se necessario, fingete, visto che, comunque, è meglio studiare che andare a lavorare, quando il lavoro non c’è. E se c’è, è intermittente, temporaneo. Precario. Ma, se potete, guardate i maestri e i professori con indulgenza. Sono una categoria residua (e “protetta”). Una specie in via d’estinzione, mal sopportata. Sopravvissuta a un’era ormai passata. Quando la scuola e la cultura servivano. Erano fattori di prestigio.

Oggi non è più così. I Professori: verranno aboliti per legge, insieme alla Scuola. D’altronde, studiare non serve. E la cultura vi creerà più guai che vantaggi. Perché la cultura rende liberi, critici e consapevoli. Ma oggi non conviene. Si tratta di vizi insopportabili. Cari ragazzi, ascoltatemi: meglio furbi che colti!

(01 settembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/09/01/news/non_studiate_-21096938/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quei giovani fuori dal bar
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 09:51:21 am
Quei giovani fuori dal bar

Ilvo DIAMANTI


FATICO a capire i giovani, nonostante che io me ne occupi da quand'ero giovane. Cioè da molto, troppo tempo. Certo, ho la fortuna di frequentarli spesso e con regolarità, da genitore e professore. Tuttavia, mai come in questa fase stento a riconoscerli, perché mi è, comunque, difficile misurarmi con essi. Certo, i tempi sono cambiati da quand'ero giovane anch'io. Secoli, millenni. Non c'è bisogno di rammentare le distanze cosmiche dal punto di vista delle tecnologie e dei metodi di comunicazione a livello personale e sociale. Però alcuni riferimenti, alcuni luoghi del paesaggio che compone la nostra vita quotidiana sono rimasti gli stessi. Anche se nella pratica non sono più gli stessi. Sono divenuti "altro".

I bar, ad esempio. Ci sono ancora, come quando io ero giovane. A volte sono negli stessi luoghi, con gli stessi nomi. Però è cambiato l'uso che se ne fa. Il posto che hanno nella giornata e nella vita dei giovani. Ai miei tempi (che impressione usare questa formula. Segno che sono davvero invecchiato) i bar erano luoghi e centri sociali. Ci passavi le sere. Le domeniche. Uscivi di casa e andavi là, dove incontravi gli amici. Il barista era una figura leader della formazione giovanile. Veniva dopo i genitori, gli insegnanti e gli amici stretti. Andavi al bar. Poi decidevi dove recarti. Al cinema, a una manifestazione, a una festa, a zonzo. E ci tornavi più tardi. Peró potevi anche scegliere di rimanere lì. Di passarci la sera a giocare a biliardo, a calcetto, a carte. A bere, chiaccherare, tirare tardi. E, comunque e soprattutto, la vita del bar si svolgeva inevitabilmente dentro. Dentro. Il bar, come ho detto, era un luogo e un centro sociale in sè. E, in particolare, "un" bar. Dove si trascorreva gran parte del tempo libero.

Ora non è più così. Basta girare per le città per vedere che i giovani si ammassano "fuori". Davanti e intorno al bar. Occupano uno spazio ampio, variabile. Il marciapiede, l'intera strada. In piedi, appoggiati ai muri, seduti sull'asfalto... Sono tanti, tantissimi. Alle ore più diverse. Prima di cena, per lo spritz. O a cena, per il kebab, il piatto pronto. Dopo cena o comunque a tarda sera (e notte). A volte, anzi, spesso, sono avvolti da musica tecno a volume variabile. Dipende dall'ora, dalle ordinanze e dai regolamenti comunali, dal grado di sopportazione dei residenti. Ma si tratta sempre di un brulichio, una folla mobile. Gli addensamenti giovanili non sono stabili, ma in costante evoluzione. Perché loro, i giovani, si spostano di continuo. Individualmente o in gruppo. Arrivano, parlano, mangiano, bevono, fumano. E se ne vanno. Con alcuni amici, in gruppo oppure da soli. Vanno altrove. Incontrano altri amici, ascoltano altra musica, beccheggiano altri spuntini. Cambiano bar e dunque compagnia oppure attività. Poi magari ri-passano. Ma restano sempre "fuori". Raramente entrano.

Ovviamente, di conseguenza, sono cambiati anche i bar, che si sono adattati a fare altre cose. E a volte hanno innovato, promuovendo nuove abitudini. Si pensi all'happy hour, che ha rimpiazzato, talora, la cena, tante sono le proposte alimentari che i diversi locali associano al drink (i noti spuntini ipercalorici). Ma i bar qui mi interessano soprattutto in relazione ai giovani e ai loro stili di vita. Le loro abitudini. I bar. Sono divenuti stazioni di passaggio di una vita itinerante. Di una generazione itinerante, sempre in movimento, sempre in viaggio. Perché costretta - o meglio, indotta - a vivere un eterno presente. Precario. Una generazione di passaggio. Alla ricerca di un luogo dove fermarsi, finalmente. Tra un bar e l'altro.

(29 agosto 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/08/29/news/bar-21001766/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Un Paese senza guida
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2011, 11:08:18 am
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di ILVO DIAMANTI

UN PAESE senza governo e senza guida. Nel mezzo di una crisi di sfiducia politica e istituzionale, che evoca quella dei primi anni Novanta. Con l'aggravante che non si vedono sbocchi e scarseggia la speranza. È l'immagine senza luce che emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos condotto nei giorni scorsi su un campione rappresentativo della popolazione nazionale.

1. Un Paese senza governo. Le stime elettorali confermano il declino dei partiti di maggioranza. Il PdL scende al 25,5%. Ma, rispetto a giugno, cala anche la Lega (sotto il 10%), che non riesce più a fare l'opposizione di governo. Insieme, PdL e Lega, secondo le stime di Demos, raggiungerebbero poco più del 35%. Meno di quanto ottenne da solo il PdL nel 2008. Nove punti percentuali meno dell'asse di Centrosinistra: PD-IdV-SEL. D'altra parte, circa metà degli elettori prevede che una coalizione di Centrosinistra guidata dal PD di Bersani vincerebbe le elezioni. Quasi il doppio di chi, invece, scommette sul successo del Centrodestra guidato da Berlusconi. Il declino del berlusconismo sembra ormai di "senso comune".

2. Un Paese senza guida. E senza "guide". La Seconda Repubblica, ispirata da Berlusconi, è fondata sui "partiti personali" - e comunque, personalizzati. Ma le "persone" che "guidano" i partiti di governo - e il governo - dimostrano un serio deficit di consenso. Anzitutto i Capi. Berlusconi e Bossi, entrambi in fondo alla graduatoria dei leader, compilata in base al giudizio degli elettori.
Poco più del 20% degli italiani (compresi nel campione) attribuisce loro la sufficienza. Alfano, segretario del PdL per volontà di Berlusconi, raggiunge il 30%, ma cala di tre punti e mezzo rispetto a due mesi fa. Resta Tremonti, cardine del governo e guida dell'economia nazionale, ma anche il vero "oppositore" interno di Berlusconi. Oggi ottiene la fiducia di circa il 38% degli elettori, cioè: circa 17 punti meno di due mesi fa. Un vero crollo. Prodotto dal disorientamento suscitato dalla manovra finanziaria, non solo dolorosa, ma soprattutto confusa - riveduta e corretta di giorno in giorno. Un crollo. Accentuato dal discredito sollevato dallo scandalo che ha coinvolto il suo sottosegretario Milanese. Di cui era "inquilino" (in nero). Da ciò la perdita di legittimazione "personale" sui mercati e presso le istituzioni internazionali. Ma anche nell'opinione pubblica nazionale. Maggioranza e governo appaiono, così, senza guide e riferimenti.

3. Oggi, d'altronde, quasi otto italiani su dieci affermano che il governo non ha mantenuto le promesse. Lo pensa anche la maggioranza dei leghisti e quasi metà degli elettori del PdL. Sette elettori su dieci, inoltre, considerano la manovra finanziaria negativamente. Iniqua, a spese soprattutto dei pensionati e dei dipendenti pubblici. Mentre metà degli italiani la giudica un ostacolo all'attuazione del federalismo.

4. Un Paese senza governo e senza guida. Che, tuttavia, non sembra disporre di alternative credibili. Certo, se si votasse oggi, secondo le stime di Demos, il Centrosinistra prevarrebbe nettamente. Ma il giudizio degli elettori sull'operato dell'opposizione risulta anche peggiore di quello verso il governo. Quanto ai leader, il consenso nei confronti di Bersani e Vendola appare in calo, negli ultimi mesi. Il segretario del PD è danneggiato dalle inchieste sulla corruzione che hanno coinvolto Penati, ma anche Tedesco. Figure importanti nell'ambito del partito. Non solo a livello locale.

5. L'opposizione sociale, interpretata dallo sciopero generale di domani promosso dalla CGIL, in effetti, divide il Paese. Circa metà degli italiani non è d'accordo. Ma il 45% si dice a favore. Nel centrosinistra, comunque, il consenso appare ampio. Sei italiani su dieci, peraltro, sostengono che non parteciperebbero a una manifestazione contro le politiche economiche del governo. Nonostante non le condividano. Per timore, presumibilmente, di drammatizzare la situazione del Paese. Il che conferma la difficoltà di fare opposizione senza un governo di fronte, in questi tempi di crisi.

6. Non è un caso che il solo leader che abbia visto crescere la fiducia personale, negli ultimi mesi, sia Antonio Di Pietro. Oggi risulta il più "stimato" dagli elettori e il suo partito sembra averne beneficiato notevolmente. Due le ragioni principali del favore per Di Pietro. A) È ritenuto fra i protagonisti del successo del Centrosinistra alle amministrative dello scorso maggio e del grande risultato ottenuto dai referendum di giugno. B) La sua identità richiama la stagione di Tangentopoli, di cui è stato e resta la "figura simbolo".

7. L'analogia con gli anni di Tangentopoli appare, infatti, molto stretta agli occhi degli italiani. Quasi metà degli intervistati ritiene che oggi la corruzione politica sia altrettanto diffusa rispetto ad allora. Un ulteriore 36% la considera perfino cresciuta. Due italiani su tre, peraltro, ritengono che nessuno, da destra a sinistra, possa rivendicare una "diversità" etica.

Da ciò la profonda differenza rispetto alla stagione di Tangentopoli. Allora, mentre crollava il Muro, insieme alla Prima Repubblica, era diffusa la convinzione che ci attendeva un futuro migliore. Che il cambiamento avrebbe fatto bene al nostro sistema politico malato e alle nostre istituzioni, inadeguate. Inoltre, in quegli anni erano presenti soggetti e riferimenti importanti - nuovi e meno nuovi. La Lega, Berlusconi, i magistrati. In seguito l'Ulivo di Prodi. Oggi non è così. Dietro alla crisi si stenta a vedere la luce. Il Movimento invisibile e reticolare, emerso nei mesi scorsi, ha espresso una domanda di cambiamento, fin qui ancora in attesa di rappresentanza. Mi pare difficile che possa venire soddisfatta dai nomi che circolano in questi tempi. Largamente esterni alla società civile. Banchieri, finanzieri e capitani di industria. Lo stesso Montezemolo, molto presente nelle cronache politiche di questa fase, secondo i dati dell'Osservatorio Politico di Demos è fermo al 38% dei consensi. Tre punti in meno di giugno, ma oltre dieci in meno rispetto a febbraio. Il fatto è che viviamo un'epoca di sfide speciali. Richiedono persone e soggetti politici speciali. Sarà la mia miopia, ma, echeggiando Machiavelli e Pareto, in giro io non vedo né volpi né leoni.

(05 settembre 2011) © Riproduzione riservatA

DA - http://www.repubblica.it/politica/2011/09/05/news/paese_senza_guida-21229686/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quei film sugli immigrati nel Paese di Terraferma
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2011, 03:55:21 pm
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Quei film sugli immigrati nel Paese di Terraferma

L'intento è di sfidare la paura dell'altro come tema per conquistare il consenso e l'audience televisiva.

Ma il divario tra l'agenda mediatica e le preoccupazioni dei cittadini resta elevatissimo

di ILVO DIAMANTI

Quei film sugli immigrati nel Paese di Terraferma Una foto di scena del film di Crialese "Terraferma"
Al Festival di Venezia, quest'anno, il Cinema italiano, dopo tanti anni, è stato protagonista. Il Premio della Giuria, assegnato a "Terraferma" di Emanuele Crialese. Migliore Opera prima: "Là-bas", di Guido Lombardi. I due film hanno un soggetto comune: gli immigrati. Il film di Crialese: l'esodo dei disperati in fuga dal Nord Africa, visto con gli occhi dei pescatori siciliani.

Il film di Lombardi: le drammatiche storie degli immigrati in rivolta a Castelvolturno, nel 2008. Ma le opere presentate a Venezia da registi italiani, sull'argomento, sono molto numerose. In tutte le sezioni. Oltre una decina. Ne citiamo solo alcune. "Cose dell'altro mondo" di Francesco Patierno, che ipotizza la (disastrosa) scomparsa degli immigrati in una zona del Nordest. E ancora: "Storie di schiavitù" di Barbara Cupisti, "Io sono Li", di Andrea Segre (fra gli interpreti: Marco Paolini), "Villaggio di Cartone", scritto e diretto da un maestro: Ermanno Olmi. Fino a "L'ultimo terrestre", di Gipi, che narra dell'arrivo degli alieni fra noi. Dove gli alieni sono "gli altri, che evidenziano la nostra vulnerabilità. Il nostro sentimento di perifericità".

Gli inviati di Le Monde (Jacques Mandelbaun e Philippe Ridet), al proposito, hanno osservato che l'immigrazione, per il Cinema italiano, è divenuto "un genere in sé". E hanno realizzato, al proposito, un commento molto ampio, dal titolo, assolutamente esplicito: "L'immigrato, vedette americana della Mostra di Venezia". D'altronde, è difficile, impossibile, trovare, in Europa - e altrove  -  un'attenzione tanto acuta  -  quasi ossessiva  -  come quella espressa verso gli stranieri dal Cinema italiano. Per quanto animato da sentimenti "civili" e solidali, non riesce a dissimulare il disagio diffuso, in un Paese di emigranti dove l'immigrazione è giunta all'improvviso. Ed è cresciuta, in poco più di dieci anni, del 1000%. Oggi si aggira, infatti, intorno al 7% (in valori assoluti: circa 5 milioni, secondo Caritas-Migrantes), ma tocca anche il 20% nelle zone più industrializzate del Centro e del Nord (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Nordest). Eppure le "misure" reali del fenomeno non bastano a spiegare tanta sensibilità da parte dei registi e degli autori del cinema. Intellettuali e specialisti  -  talora artisti - della comunicazione. La cui attenzione è dettata, sicuramente, dal "materiale" offerto dal problema. Le biografie e le "storie" degli immigrati, l'incontro con le comunità locali, con gli "italiani".

Ma conta, altrettanto e forse di più, l'intento di "sfidare" il Pensiero Unico veicolato dai media e propagandato dal populismo di destra - influente nella maggioranza di governo. La Paura dell'Altro come tema per conquistare il consenso  -  e l'audience. Basta scorrere i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (curato da Demos, l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis). Nei telegiornali pubblici di prima serata di alcuni importanti Paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Germania e Gran Bretagna), nel corso dei primi quattro mesi del 2011, le notizie relative all'immigrazione hanno occupato il 3% del totale. Più in particolare: su France 2 hanno rappresentato l'1,6%, su ARD (rete pubblica tedesca) lo 0,6%, sulle altre perfino di meno. Nel Tg1, invece, il 13,9%. (La stessa percentuale si ottiene, peraltro, considerando anche gli altri principali tg italiani, pubblici e privati). Naturalmente, l'Italia è il Paese dove le "rivoluzioni" nordafricane e, soprattutto, l'intervento in Libia hanno avuto maggiore impatto. Con la differenza che altrove, in Europa, questi avvenimenti sono stati trattati come fatti ed episodi di guerra. Mentre in Italia sono stati affrontati, in modo specifico, dal punto di vista dell'immigrazione. O meglio (forse: peggio), dell'invasione. Il primo e principale argomento utilizzato dalla Lega a sostegno della propria opposizione all'intervento in Libia.

Tuttavia, nonostante gli sbarchi e le guerre sull'altra sponda mediterranea, il divario fra l'agenda mediatica e le preoccupazione dei cittadini, infatti, resta elevatissimo. Basta consultare, di nuovo, i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, concentrandoci, in questo caso, sulla percezione sociale. L'immigrazione, infatti, è indicata come la preoccupazione principale dal 6% degli italiani (del campione rappresentativo intervistato da Demos nel giugno 2011). Le cui angosce sono, invece, attratte, in larghissima misura, dai temi legati all'economia, l'occupazione, il costo della vita (55%). Lo sguardo mediale sugli immigrati appare, dunque, asimmetrico rispetto a quello della popolazione. Lo stesso avviene riguardo alla criminalità, che resta al centro dell'informazione televisiva (55% delle informazioni di prima serata), mentre preoccupa una quota molto più ridotta della popolazione (10%). Si tratta di una conferma della "costruzione" politica e mediale dell'insicurezza, che induce a enfatizzare la "paura degli altri" e a ridimensionare l'incertezza per motivi economici e (dis)occupazionali. (D'altronde, il pessimismo economico è comunista e anti-italiano, ha ripetuto il Presidente del Consiglio, anche di recente).

Ma in questa fase mi pare che "gli altri" non si risolvano negli immigrati che giungono in Italia, spinti dalla necessità o dall'emergenza. In condizioni difficili, talora drammatiche. Oggi, in Italia, si sta diffondendo una sindrome dell'accerchiamento più estesa e indefinita. Ci sentiamo minacciati dall'esterno, da ogni fronte e da ogni direzione. Dalle rivolte e dalle guerre che avvampano nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Ma anche dall'Europa e, soprattutto, dalla Germania. Che non credono nella nostra economia, ma soprattutto, nel nostro sistema politico. E minacciano di non coprire il nostro debito pubblico, di non acquistare i nostri titoli di Stato. Ci sentiamo minacciati dalle Borse e dai Mercati, dallo Spread e da S&P. Noi, che abbiamo coltivato, a lungo, un'identità nazionale fondata sull'arte di arrangiarsi, sulla capacità di adattarsi e di reagire. Noi che ci siamo considerati una società "vitale" - nonostante il governo, nonostante lo Stato. Oggi ci scopriamo spaesati. Orfani di un governo che sappia governare e di uno Stato in cui aver fiducia. Così ci sentiamo stranieri a casa nostra. Da ciò la ragione, almeno: una ragione importante, di tanti film italiani sugli immigrati quest'anno, a Venezia.

In realtà, parlano di noi. Sperduti e spaesati nel Paese di Terraferma.

(12 settembre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - Piuttosto della crisi è meglio invocare la secessione
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2011, 12:03:48 pm
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Piuttosto della crisi è meglio invocare la secessione

Bossi torna ad agitare lo spettro della separazione del Nord.

Per via democratica, attraverso un referendum. Ma dubitiamo che alle parole seguiranno fatti concreti.

Che davvero la Lega possa e voglia perseguire quell'obiettivo

di ILVO DIAMANTI


UMBERTO Bossi, ieri, a Venezia ha concluso la manifestazione che, da 15 anni, celebra la secessione padana. Il mito che mobilita e fornisce identità alla Lega e ai suoi militanti. L'ha fatto invocandola, puntualmente. La secessione. Unica via di uscita per una democrazia in pericolo. Dove, anzi, "il fascismo è tornato con altri nomi e altre facce". Parole sorprendenti, in bocca al ministro delle Riforme istituzionali per il Federalismo. Al leader di un partito che governa da 10 anni, salvo una breve pausa - meno di due anni. La "Lega di governo", ben insediata a Roma. Soggetto forte della maggioranza e alleato affidabile di Berlusconi, anche in tempi cupi come questi. Bossi torna ad agitare lo spettro della secessione, per via democratica. Attraverso un referendum. Ma abbiamo motivo di dubitare che alle parole seguiranno fatti concreti. Che davvero la Lega possa e voglia perseguire la secessione - seppure per via democratica.

In primo luogo, perché rischierebbe di trovarsi da sola, con poche persone al seguito. Come avvenne nel settembre del 1996, quando la marcia per l'indipendenza padana, promossa dalla Lega, andò largamente deserta. Poche decine di migliaia di militanti. Un po' pochi per marcare il "confine naturale" del Nord padano. D'altronde, basta ragionare sui dati
elettorali (come ha fatto ieri Francesco Jori su Il Piccolo e su altri quotidiani del Nord). Nel 1996, quando la Lega raggiunse il risultato più ampio fino ad oggi, nelle regioni del Nord padano si fermò, comunque, al 23%. Nel 2008 al 19%. Alle Regionali del 2010 nel Lombardo-Veneto, dove è più forte e radicata, si è attestata al 30% (dei voti validi. Cioè, molto meno se si considera la popolazione intera). In ogni caso: una "larga minoranza" dei cittadini del Nord  -  e pure del Lombardo-Veneto. Tuttavia, ricondurre "tutti" gli elettori leghisti al verbo secessionista è improprio e, anzi, largamente sbagliato. Basti pensare a quel che avvenne dopo il 1996, quando la Lega, da sola, proseguì nel progetto indipendentista. Riducendosi a poco più del 3% alle Europee del 1999. Ciò che la indusse a rientrare a casa. Meglio: nella Casa delle Libertà. Accanto a Berlusconi. D'altronde, ancora nel 2006, la Lega raggiungeva appena il 4% in Italia, ma restava di poco sotto al 10% nel Nord. Il fatto è che il successo della Lega dipende da ragioni che poco hanno a che fare con la secessione.

Come dimostrano numerosi sondaggi condotti sull'argomento. In un'indagine recente 3 (Atlante Politico di Demos, giugno 2011), la quota di elettori che si dice d'accordo con l'affermazione: "Il Nord e il Sud dovrebbero dividersi e andare ciascuno per conto suo" è del 12% in Italia, sale al 14% nel Nord Ovest e al 26% nelle regioni del Nord Est (esclusa l'Emilia Romagna, altrimenti il dato medio si abbasserebbe). Fra gli elettori leghisti risulta elevata: intorno al 40%. Cioè, di nuovo, una "larga minoranza". Che resta, però, minoranza. Per contro, l'85% degli elettori del Nord padano e oltre il 70% di quelli leghisti considerano l'Unità d'Italia una conquista "molto o abbastanza positiva" (Demos per Limes, marzo 2011). Mentre oltre l'80% degli elettori del Nord (padano) e della Lega si sentono "orgogliosi di essere italiani". Infine, più di otto persone su dieci, tra gli italiani ma anche fra gli elettori del Nord, ritengono che fra 10 anni l'Italia sarà ancora unita. E fra i leghisti questa convinzione appare solo un po' meno diffusa: 77%.

Insomma, la "via democratica alla secessione" non porterebbe lontano la Lega. Perché non piace al Nord ma neppure alla maggioranza degli elettori leghisti, che si sentono molto più italiani che padani. Allora perché Bossi continua a richiamarla, come un mantra? Anzitutto, per contrastare il malessere dei suoi elettori. I più fedeli e, a maggior ragione, quelli "tattici", molto numerosi nelle aree economicamente più dinamiche. I quali la votano per manifestare contro Roma e il Sud. Contro l'inefficienza dello Stato e la pressione fiscale, troppo alta. Contro i privilegi della casta e del sistema politico. "Romano". La usano, cioè, come una sorta di sindacalista del Nord. Che oggi, però, rischia di risultare inefficace. Altri dati di sondaggi recenti (Demos, settembre 2011 4) dicono, esplicitamente, che la manovra finanziaria del governo non piace né al Nord (circa 70% di giudizi negativi e 23% positivi) né ai leghisti (49% di giudizi negativi e 42% positivi). Agli elettori leghisti, in particolare, non piace Berlusconi, grande alleato della Lega e di Bossi. Solo un terzo di essi ne valuta l'operato con un voto "sufficiente".

Insomma, la "Lega di governo" è in difficoltà di fronte al suo elettorato, fedele e "tattico". Cerca, per questo, di riproporre le parole d'ordine della "Lega di protesta". E secessionista. Anche se fa specie che sia il Ministro delle Riforme istituzionali a presentarsi come portabandiera dell'opposizione. Ma il leader della Lega agita la minaccia secessionista anche per sopire le divisioni che attraversano i dirigenti del suo partito. Coinvolti, com'è stato osservato, assai più che dalla "secessione", dal tema della "successione". Che vede in Roberto Maroni il candidato più accreditato. Ma anche il più osteggiato. Esempio più evidente e recente di queste tensioni: il servizio appena pubblicato da Panorama, dove si accusa la moglie di Bossi di "guidare" il partito insieme a un "cerchio" ristretto di uomini fedeli al Senatur. Raccoglie voci note da tempo. Con la differenza - e la novità - che a rilanciarle è un periodico della galassia editoriale di Berlusconi. Il che suggerisce quanto le tensioni siano, ormai, ineludibili. Indifferibili. Nella Lega e nel Centrodestra.

Da ciò, l'ultima spiegazione. La Secessione, come la Padania, è un mito fondativo, una sorta di orizzonte proiettato lontano nel tempo. Mentre la manovra finanziaria, che appare a 8 italiani su 10 inaccettabile, è reale. Attuale. Come il crollo di consensi che ha travolto il governo e, anzitutto, il Presidente del Consiglio. La Lega e Bossi, in primo luogo, potrebbero staccare la spina. Se volessero fare Lega d'opposizione. Proporre altri candidati premier. Oppure nuove elezioni (com'è avvenuto in Spagna). In questo caso, però, dovrebbero rinunciare alla posizione dominante che il Carroccio occupa nel governo e in molte amministrazioni. Rischiare l'emarginazione, come dopo il 1996. Ma, soprattutto, se Berlusconi uscisse di scena, Bossi potrebbe seguirne la sorte. E senza Bossi nella Lega si aprirebbe una guerra di successione. Dall'esito incerto. Anche per la Lega, di cui Bossi costituisce tuttora l'Icona Unificante. Per cui sempre meglio minacciare e poi rinviare. La crisi di governo, le elezioni. Meglio, tanto meglio, invocare la Secessione. La Padania. Ma più in là. Domani è un altro giorno. Si vedrà.

(19 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: ILVO DIAMANTI - Se i figli trentenni se ne andassero di casa
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2011, 11:53:35 am

Bussole

Ilvo DIAMANTI


Se i figli trentenni se ne andassero di casa

Ha fatto rumore l'episodio dei genitori di Mestre che si sono rivolti a un'associazione di consumatori per indurre il figlio ad andarsene di casa. Non ce la facevano più ad accudirlo. A garantirgli il tetto, i pasti, la biancheria pulita. Ha fatto rumore perché lui, il figlio, ha 41 anni. Ed è "sistemato". Uno stipendio sicuro, un buon lavoro nella pubblica amministrazione. Ma forse la ragione di tanta eco sui media è diversa. Perché, in fondo, il sedicente giovane non è il solo in questa condizione, alla sua età. Al contrario. Visto che l'età media in cui i figli escono dalla casa materna (e paterna), in Italia, è di 31 anni. E circa un terzo di coloro che hanno 34 anni  vive ancora con i genitori. D'altronde, le ragioni di questa convivenza lunga sono molte e si collegano al differimento continuo dell'uscita dalla giovinezza. Che viene spostata sempre più avanti, sempre più in là. Insieme all'autonomia, che costituisce il "distintivo" dell'età adulta.

Perché il lavoro per i giovani manca. È, comunque, intermittente e precario. Perché gli studi durano a lungo. Dopo i licei: l'università senza fine. Tre più due, più altri periodi trascorsi a frequentare master, stage, corsi di formazione. In giro per l'Italia e, ancor più, all'estero.
Perché c'è una componente ampia di giovani "sospesi". Secondo l'Istat, due milioni che non studiano e non lavorano. Hanno finito gli studi e non trovano lavoro. Oppure, se lo trovano, si accontentano, si debbono accontentare, di lavoretti informali.

Così la giovinezza si allunga  -  e l'età adulta si allontana.  Sempre di più. Insieme alla dipendenza dalla famiglia. Che offre una sponda, un appiglio. Fra un corso e l'altro, fra un lavoro e l'altro, fra un'esperienza e l'altra. La giovinezza, un tempo, era apprendistato. Serviva a imparare il mestiere di adulto. Le logiche e le regole del vivere sociale. (Oltre ai "valori" del sistema.)
Metter su famiglia e casa, fare figli,  lavorare... Non ci sono più "riti di passaggio". Non solo il lavoro, anche i valori, la famiglia, i figli. Non è più come una volta. Oggi è tutto instabile, precario. Così la casa paterna (e materna) diventa un porto, una stazione, in cui rientrare, fermarsi un poco. Per poi ripartire. Fra un passaggio e l'altro della biografia incerta e indefinita che contrassegna la gioventù del nostro tempo.

Certo, il caso del sedicente giovane di Mestre può apparire diverso. Perché ha più di 40 anni, non è un precario, ma lavora.
Ha un impiego sicuro e stabile. Se non se ne va dalla casa dei genitori è per motivi utilitari. Non per necessità. Però, a pensarci bene, anche i giovani più giovani, quelli che studiano sempre più a lungo, quelli che lavorano a intermittenza, quelli che viaggiano per studio e lavoro. Lo fanno per necessità, certo, ma anche per opportunità. Perché, in questo modo, possono "condividere" il rischio e l'instabilità della vita con i genitori. Allungare la propria "giovinezza", cioè, il proprio apprendistato. Alla ricerca  -  e nell'attesa - di un porto e di un posto migliore. In Francia, invece, i giovani escono di casa da giovani, davvero. Cioè, intorno ai 25 anni. Lo stesso, più o meno, negli altri Paesi Centro e Nord europei. Dove, però, lo Stato li sostiene maggiormente. Nonostante la crisi del Welfare.

In Italia, invece, il sostegno pubblico è tutto a favore delle generazioni più anziane. E l'istituzione che si accolla i costi della formazione e dell'apprendistato biografico delle generazioni più giovani è, soprattutto, la famiglia. I genitori, che affrontano l'assistenza dei "nonni", con il ricorso alle badanti. E offrono asilo (è il caso di dirlo) ai figli, sempre più a lungo. Anche quando mettono su famiglia e fanno a loro volta figli. E vanno ad abitare al piano di sotto o nell'appartamento di fronte. Così da poter affidare i figli ai nonni. Per questo nel caso del quarantunenne allontanato di casa dai genitori non stupisce tanto la"resistenza" del figlio-adulto, ma, semmai, la ribellione dei genitori. In questa società senza più confini generazionali, dove il passaggio tra giovinezza - età adulta e anziana  -  vecchiaia avviene in modo fluido e in-definito, i genitori raramente si ribellano. Non tanto perché è difficile - i figli sono sempre figli. Ma perché ai genitori, in fondo, non conviene spezzare il legame con i figli. Anche se li mantengono a lungo, la casa è  un porto  e un posto di passaggio, senza orari e senza programmi. Però, non sono solo i figli ad aver bisogno dei genitori. È vero anche il contrario. Se i figli unici se ne andassero davvero. A trent'anni e anche prima. Se "abbandonassero" i genitori. I genitori che farebbero? Perderebbero il  "controllo" sui figli e sulla loro biografia. Si ritroverebbero soli - o peggio: insieme ai nonni, poco autosufficienti.

Per questo il caso del quarantunenne di Mestre ha suscitato tanto interesse, ma anche tanta preoccupazione. Tra i gli adulti.
Cosa succederebbe se il contagio si propagasse? Se molti altri "giovani" trentenni se ne andassero? Non per costrizione, ma per attrazione. Sedotti dal richiamo del Pifferaio di Hamelin, che li guida verso la Terra dell'Autonomia e dell'Indipendenza. Senza di loro, i genitori si scoprirebbero soli. E vecchi. All'improvviso. Senza più alibi. Aggrediti dalla noia e dalla tristezza.

(23 settembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/09/23/news/figli_casa-22095165/?ref=HREC2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Aspettando le elezioni nel Deserto dei Tartari
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 05:17:12 pm
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Aspettando le elezioni nel Deserto dei Tartari

di ILVO DIAMANTI


ANCHE IERI si è ripetuto il logoro copione che si recita in Italia, da oltre un anno e forse più. Bersani ha invocato un governo di emergenza. Gli hanno fatto eco Fini e Casini, invocando nuove elezioni. Ma Berlusconi ha ribadito che non ha nessuna intenzione di dimettersi.

Né di anticipare il voto, senza la sfiducia del Parlamento. Anche se ormai la sua parabola è alla fine. O, forse, proprio per questo. Se uscisse di scena, a differenza del passato, stavolta difficilmente riuscirebbe a rientrare in gioco. Parallelamente, nel Pdl, pochi  -  oltre a Pisanu  -  sembrano disposti ad accantonare il proprio leader-padrone. A parte il fatto che nessuno ne avrebbe la forza, tutti si rendono conto che senza Berlusconi il Pdl resterebbe privo di identità e organizzazione. La stessa Lega vive con disagio crescente l'alleanza con Berlusconi. Soprattutto i militanti e la base, sempre più insofferenti. Ma Bossi e suoi fidi esitano a staccare la spina.

Il destino dei due leader è reciprocamente legato. Se Berlusconi cadesse, la posizione di Bossi verrebbe compromessa. Senza il Pdl e senza Berlusconi (per non dire senza Bossi), lontano dal governo: la stessa Lega, rischierebbe la marginalità politica e il declino elettorale. Come avvenne dopo la svolta secessionista del 1996. Una prospettiva insopportabile per un partito che ha da difendere (e da perdere) molti posti di governo  -  e di sottogoverno. Nella pubblica amministrazione e nella finanza. A livello nazionale e locale.

Così
Berlusconi e il centrodestra "resistono" in Parlamento. Dove dispongono ancora di una maggioranza precaria. Sufficiente a garantire la "fiducia" quando è necessario. Mentre tra gli elettori oggi sono una minoranza, largamente "sfiduciata" dai cittadini.

Ciò rende il ricorso a elezioni anticipate assai improbabile. Anche se l'ipotesi echeggia, un giorno sì e l'altro pure. Ma le elezioni non le vuole nessuno. Anzitutto nella maggioranza. Figurarsi. Oggi, per il centrodestra, significherebbe perderle. Anche se Berlusconi dà il meglio di sé in campagna elettorale, quando è dato per spacciato. Ma stavolta è diverso. La sua stagione è finita. I valori e i modelli su cui ha fondato il proprio successo: logori e inattuali. La sua immagine non attrae più. Semmai avviene il contrario. La sua "base sociale" l'ha abbandonato. Gli imprenditori piccoli e grandi: ne chiedono le dimissioni da mesi. Ai loro congressi basta inveire contro il governo e il presidente del Consiglio per sollevare grandi boati di approvazione. La stessa Chiesa appare tiepida. Anche se le gerarchie mantengono un atteggiamento fin troppo prudente di fronte ai modelli e agli stili di vita proposti da chi guida il Paese.

Insomma, si tratta del momento peggiore per andare al voto, dal punto di vista di Berlusconi e del Pdl. Ma anche dal punto di vista della Lega, in evidente difficoltà nel recitare la parte dell'opposizione, dopo aver sostenuto fedelmente Berlusconi, da dieci anni in qua. Bossi lo ha detto esplicitamente a Pontida. È cambiato il "ciclo politico". A favore della Sinistra. E allora, perché votare? Tanto più che neppure a sinistra  -  nonostante il vento favorevole  -  si coglie molta voglia di andare al voto presto. Il Pd non si sente pronto. È diviso sulla questione delle alleanze. L'idea del Nuovo Ulivo, insieme all'Idv e a Sel, a Di Pietro e Vendola, dispiace a una parte del Pd, che preferirebbe la Grande Coalizione con il Terzo Polo. E teme di spingere l'Udc in braccio al centrodestra. A ragione, visto che le sorti della competizione elettorale diverrebbero altamente incerte.

Peraltro, la prospettiva del voto avvicinerebbe le primarie. Su cui nel Pd non c'è armonia di vedute. Quando e come farle? Primarie di partito o di coalizione? Oppure entrambe? Perché le primarie al gruppo del Pd piacciono quando l'esito è scontato. Non se sono davvero "aperte".

Infine, c'è la questione della "legge elettorale". Votare presto costringerebbe a utilizzare il famigerato Porcellum. Proprio mentre l'iniziativa referendaria, promossa da Parisi, volta ad abrogarlo e ristabilire il sistema elettorale precedente, ha ottenuto un massiccio sostegno popolare. Viaggia ben oltre le 500mila firme. Non a caso Alfano, a nome di Berlusconi, nei giorni scorsi, si è detto pronto a riformare l'attuale legge. Presumibilmente, per prendere tempo. E per evitare un nuovo referendum. Rischioso come il precedente, per il centrodestra. Mentre al Terzo Polo non piacciono né il Porcellum né il Mattarellum.

Mi rendo conto che questa ricostruzione, pedante e un po' prolissa, può apparire noiosa e scontata. Persino banale. Tuttavia, mi è parso utile proporla. Non solo a memoria futura  -  e presente. Ma perché dà il senso di quel che sta capitando nel nostro sistema politico. Mentre tutto intorno ci crolla addosso. Mentre le vicende politiche e i mercati globali richiederebbero  -  e, anzi richiedono  -  un governo che governi e un presidente del Consiglio credibile  -  o almeno non squalificato. Sostenuto da una maggioranza che sia tale non solo in Parlamento  -  e spesso neppure lì. Ma anche tra i cittadini e gli elettori.

In Italia, invece, viviamo un tempo di elezioni e dimissioni imminenti. Sempre possibili e da molte parti auspicate. Ma puntualmente scongiurate e rinviate. È come fossimo perennemente in crisi di governo. In campagna elettorale permanente. Quando non è possibile decidere nulla, perché è importante inseguire e conquistare ogni segmento di opinione pubblica. Ogni frammento del mercato elettorale. Un giorno dopo l'altro. Un momento dopo l'altro. Così tutto si agita, nel nostro piccolo mondo. Ma tutto resta uguale. Mentre fuori infuria la bufera (politica, monetaria, economica, finanziaria...).

Verrebbe da evocare la fortezza Bastiani, dove l'ufficiale Giovanni Drogo, insieme alla sua guarnigione, attende l'arrivo del nemico. Che non arriva mai. Nel Deserto dei Tartari narrato da Dino Buzzati. Ma si tratterebbe di una citazione troppo nobile, per il nostro povero Paese. Per il penoso spettacolo offerto dalla nostra scena politica. Che mi rammenta, piuttosto, un tapis roulant. Dove cammini e corri, con continui cambi di velocità e di pendenza. Ma resti sempre fermo. Nello stesso posto. Nella tua stanza. Senza una meta. Senza un orizzonte. Mentre il mondo fuori incombe.

(26 settembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/09/26/news/aspettando_elezioni_diamanti-22223163/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Appunti di un giovane pessimista e "abbastanza felice"
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 04:53:17 pm
Appunti di un giovane pessimista e "abbastanza felice"

Ilvo DIAMANTI

Mi chiamo Gianluigi e ho 35 anni. Mi sono laureato in Scienze economiche e specializzato in Studi aziendali. In realtà, non sono mai riuscito a fare un lavoro affine ai miei studi. Per la precisione, non ho mai fatto un lavoro vero. Perlomeno, secondo l'idea che ne ha mio padre. Un lavoro stabile, da "laureato", come quand'era giovane lui. Ma ho fatto un po' di tutto, in modo rigorosamente temporaneo.  Sei mesi qui, un anno là, a progetto, a termine, part time. Come mia sorella Martina, d'altronde, che è un po' più giovane di me e si è messa in testa di fare la giornalista. Ha preso la laurea in Scienze della Comunicazione e poi ha fatto Corsi e Scuole  di Giornalismo - dovunque e di qualunque indirizzo. Per le aziende private, per la Pubblica Amministrazione, per i New Media. Mai più di due mesi nello stesso posto - di lavoro. Cioè: non riesce a trovare una soluzione stabile. Un giornale, un'azienda, un ente, un'agenzia che le dia un contratto per un periodo decente. Fortuna che abbiamo un tetto e un punto di riferimento. A casa dei nostri. Che non ce lo fanno pesare, perché, in realtà, a loro non dispiace averci vicino. Di tenerci, comunque, legati a loro. Per il resto, facciamo la nostra vita, abbiamo i nostri amici, le nostre relazioni. (Niente di troppo impegnativo, però. Non ce lo possiamo permettere e comunque non ci interessa.) Ci muoviamo spesso. Si viene e si va. Per motivi di aggiornamento, lavoro, amicizia ma anche per sfuggire al controllo domestico.

Insomma, la precarietà, per me, è la regola. Un po' faticosa, ma mi ci sono adattato. Non so cosa farò in futuro e in realtà non ricordo bene neppure cosa intendessi fare all'inizio. Sono passati troppi anni, troppi corsi, troppe occupazioni. Ma forse un'idea precisa non ce l'avevo neppure allora. Seguivo il vento di quegli anni, quando il mito del Nordest (dove abito) era in ascesa e c'era grande fiducia nel futuro delle imprese e dell'economia locale.

Ora, però, confesso che fatico a essere ottimista sul futuro professionale. Non solo il mio, personale. Anzi, se allargo lo sguardo, il pessimismo cresce. Quel che vedo non mi piace. La politica mi deprime. Uso un eufemismo, perché, per educazione, sono abituato a non esagerare neppure nel linguaggio. Però, il ceto politico, gli uomini di governo non mi ispirano nessuna fiducia. Li reputo incapaci e moralmente discutibili. Responsabili del disastro in cui siamo affondati. Da cui non riusciamo a uscire perché l'economia mondiale e quella del Paese sono in condizioni pessime. E non si vedono spiragli. La speranza è debole. La crisi, questa crisi, è destinata a durare ancora a lungo. Quanto? Chi lo sa. E chissà se il nostro sistema, la nostra economia, il nostro mercato riusciranno a resistere senza collassare. Ne dubito molto. Insomma, non mi attendo nulla di buono, sul piano personale e su quello pubblico.

Ne parlavo ieri sera con i miei amici, al bar. Mentre ci facevamo uno spritz. Come capita la sera. Quando ci ritroviamo insieme. E la tiriamo lunga. Per non rientrare a cena. Ieri, tutti, più o meno, raccontavano vicende e impressioni simili. Alle mie. Capita spesso che ci perdiamo in discorsi come questi Noi, giovani-adulti, d'altronde, abbiamo biografie e sentimenti che si rispecchiano. Poi, a un certo punto, qualcuno - non ricordo di preciso chi - si è detto e ci ha detto:  "Però, nonostante tutto, mi sento felice. Insomma: abbastanza felice. Almeno, nel mio piccolo". E tutti gli altri, tutti noi, abbiamo annuito. Echeggiato. "Sì. È vero, siamo abbastanza felici. Nel nostro piccolo". Anch'io: quando sono a casa mia, insieme a voi, nella mia vita quotidiana. Mi sento abbastanza felice. Tanto più se fuori piove e fa freddo. Il mio piccolo mondo privato mi fa sentire protetto. E se il domani è incerto, beh... meglio attendere. Domani è un altro giorno. Si vedrà. 


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* Il 19% degli italiani intervistati nel corso di un recente sondaggio si dice "molto felice", il 65% "abbastanza". In totale, si tratta dell'84% della popolazione. Le maggiori percentuali riguardano: i più giovani, fra 15 e 24 anni: 98%; i "giovani-adulti", fra 25 e 34 anni: 87%. Le persone con maggiore istruzione e gli studenti: oltre il 90%  (Demos & PI., settembre 2011, campione nazionale di 1.326 casi).

(06 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: ILVO DIAMANTI - La repubblica del presidente
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 05:11:01 pm
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La repubblica del presidente

di ILVO DIAMANTI

Giorgio Napolitano non era mai stato così duro nei confronti della Lega Nord, prima. Ne aveva, anzi, sostenuto le rivendicazioni principali. In tema di federalismo ma anche di fisco e burocrazia. La Lega, d'altra parte, aveva offerto al Presidente una sponda utile, nella maggioranza, in occasione dei ricorrenti conflitti con il Premier, alla continua ricerca di vie di fuga dai propri guai giudiziari.

Ieri questo rapporto si è spezzato, in modo difficilmente recuperabile. Perché la condanna di Napolitano ha colpito i miti e i riti dell'identità leghista, proprio nel momento in cui vengono rilanciati. La secessione, ma, soprattutto, il "popolo padano". Liquidato insieme alla manifestazione di Pontida. Un "prato", dove si alzano le grida di "una certa parte di elettori".

Un intervento così esplicito si spiega con il drammatico momento che attraversa il Paese. E con il ruolo assunto da Napolitano, soprattutto nell'ultimo anno. Il garante e il portabandiera  -  tricolore  -  dell'Unità. Nazionale e Politica.

Non molti avrebbero scommesso sul successo delle celebrazioni in occasione del 150enario dell'Unità d'Italia. D'altronde, l'Italia è un Paese di paesi, Regioni, città. Imprese e famiglie. Gli italiani. Orgogliosi del patrimonio artistico, della cucina, del paesaggio, delle tradizioni locali. Molto meno delle istituzioni. Per nulla della politica. La Lega ne aveva approfittato per rilanciare la Padania e la secessione. I miti fondativi. Ma anche per rispondere alla disaffezione degli elettori e dei militanti. Insoddisfatti della "Lega di governo" saldamente insediata a Roma. Delusi dagli esiti della riforma federalista, frustrata dalla pesante perdita di risorse e, quindi, di autonomia dei governi locali.

Tuttavia, le celebrazioni del 150enario hanno reso visibile e, anzi, amplificato il sentimento nazionale. Mentre le minacce leghiste hanno contribuito a rinsaldarlo ulteriormente. Facendo emergere, anzi, significative divisioni nella stessa Lega. Visto che la maggioranza dei suoi elettori si sente "italiana" assai più che "padana". Come, d'altra parte, alcuni importanti dirigenti leghisti del Lombardo-Veneto. Per esempio: il sindaco di Verona, Tosi, e il vice-sindaco di Treviso, Gentilini.

Giorgio Napolitano ha, così, impersonato l'Unità nazionale e ne ha alimentato il sentimento, girando per l'Italia. Ne ha tratto, a sua volta, legittimazione e consenso. Oggi è la figura istituzionale che gode di maggiore fiducia tra gli italiani. Senza paragone, visto che oltre l'80% esprime grande stima nei suoi riguardi. Per questo ha deciso di rompere ogni indugio e ogni prudenza tattica. Proprio oggi. Mentre le celebrazioni del 150enario si avviano alla conclusione. Per delegittimare ogni accenno alla secessione e alla Padania. E sancire il valore con-diviso dell'Unità nazionale, in modo in-discutibile. Tuttavia, l'intervento di Napolitano ha, indubbiamente, anche un significato politico.

In primo luogo, come ha scritto ieri Ezio Mauro, perché costringe la Lega a uscire dall'ambiguità.

Un partito di governo, che occupa ruoli di prioritaria importanza nelle istituzioni nazionali e locali: non può sostenere apertamente la secessione. L'inesistenza della Nazione italiana, in nome di altre Nazioni  -  inesistenti. Per proprie ragioni politiche.
Deve, altrimenti, trarne le conseguenze. "Uscire dalla legalità costituzionale". E anzitutto dal governo.

In secondo luogo, l'intervento di Napolitano riflette la preoccupazione  -  e una certa angoscia  -  nei confronti di questa crisi. Economica, finanziaria, sociale. E, ancora: istituzionale e politica. Una crisi di legittimità e di rappresentanza, che investe la classe politica e soprattutto il governo.

Con pesanti e pericolose conseguenze, sul piano economico e finanziario internazionale. Visto che la sfiducia dei mercati è, in gran parte, prodotta dalla in-credibilità del nostro governo e del suo leader. Con pesanti e pericolose conseguenze anche sul piano interno, nel rapporto con la società civile. Non è un caso che l'intervento di Napolitano venga all'indomani delle aperte critiche espresse dalle associazioni imprenditoriali e dalla Cei. Nello stesso giorno in cui i promotori del referendum contro l'attuale sistema elettorale annunciavano che le firme avevano superato un milione e duecentomila. Ben oltre le previsioni più ottimistiche. Segnale inequivocabile, come ha sottolineato il Presidente, della sfiducia dei cittadini verso questo sistema elettorale, che "produce" un Parlamento e una classe politica "irresponsabili". Senza collegamento con il territorio e con gli elettori. Da ciò l'auspicio a favore di una nuova e diversa legge elettorale, che faciliti "il ritorno della fiducia nelle istituzioni".

Difficile non trarre le implicazioni "politiche" di queste considerazioni "politiche".

Il Presidente, infatti, teme il protrarsi ulteriore di una crisi ormai degenerata, ma che non trova sbocco. A causa di un sistema politico paralizzato e di un governo isolato e diviso. Troppo debole per governare, ma anche per cadere. Di un Parlamento a sua volta troppo debole per far cadere il governo. Di istituzioni delegittimate e sfiduciate dai cittadini. Napolitano. Spinge, da tempo, per una soluzione rapida. Ma teme una consultazione elettorale troppo ravvicinata. Perché avverrebbe in un clima avvelenato, che potrebbe produrre ulteriori lacerazioni nel tessuto civile. Mettere a rischio la stessa democrazia. Perché, inoltre, si svolgerebbe con questa legge elettorale, messa in mora dal referendum. Scomunicata da Napolitano, avversata da molti esponenti politici - di opposizione ma anche di governo. Il Presidente dell'Unità nazionale: vorrebbe un governo di Unità nazionale. Composto da tecnici autorevoli, sostenuta da una larga maggioranza  -  politicamente trasversale  -  del Parlamento. Guidato da una figura di prestigio, sopra le parti. Un governo a termine, per scrivere una nuova legge elettorale. Per restituire credibilità alle istituzioni e all'Italia. Presso i governi e i mercati internazionali. Presso i cittadini.

Giorgio Napolitano, in nome dell'Unità nazionale, agisce come il Capo di una Repubblica presidenziale  -  di fatto. Per evitare il decomporsi di questa Repubblica preterintenzionale. Prima che sia troppo tardi.

(02 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - Ragazzi, studiate!
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 05:41:04 pm
Ragazzi, studiate!

Meglio precari oggi che servi per sempre

Ilvo DIAMANTI

La settimana prossima riprenderò a insegnare. A Urbino. Dopo molti mesi di assenza forzata. Insegnare, d'altronde, è un privilegio.
Come leggere e studiare. Molte persone lo fanno "gratuitamente". Per curiosità, interesse. E per piacere. Io vengo stipendiato, per farlo. E ho la fortuna di incontrare i giovani - ogni anno diversi. (Spesso, mi viene in mente il protagonista de "Il Sipario ducale", scritto da Paolo Volponi. Ambientato a Urbino. Un anziano intellettuale anarchico, che, a volte, attendeva l'uscita degli studenti del liceo e si perdeva in mezzo a loro. Per sentirsi giovane. E libero).

Dedicherò il mio corso, come avviene da alcuni anni, al tema dell'opinione pubblica. In particolar modo, al rapporto tra opinione pubblica e democrazia rappresentativa. Mi interrogherò, dunque, sulla coerenza e sulla concorrenza fra i sondaggi e le elezioni. Tra il marketing politico e la partecipazione. Argomenti, mi rendo conto, che non offriranno agli studenti competenze utili, spendibili, sul mercato del lavoro. Non serviranno loro a cercare e a trovare un impiego, domani. Neppure a farsi largo nel mercato politico. Gran parte del ceto politico non è certo stato reclutato in base alla competenza. Né alla conoscenza dei meccanismi e delle regole della democrazia. Eppure, mi sento di dire che studiare queste cose, al pari delle altre che si insegnano all'università e a scuola, è importante. Lo dico echeggiando l'esortazione  -  l'invettiva  -  amara che ho lanciato oltre un mese fa 1.

Cari ragazzi e ragazze, cari giovani: studiate. Soprattutto  -  anche se non solo  -  nella scuola pubblica. Ma anche quando non siete a scuola. Quando siete a casa vostra o in autobus. Seduti in piazza o ai giardini. Studiate. Leggete. Per curiosità, interesse.
E per piacere. Per piacere. Anche se non vi aiuterà a trovare un lavoro. Tanto meno a ottenere un reddito alto. Anche se le conoscenze che apprenderete a scuola vi sembreranno, talora, in-attuali e im-praticabili. In-utili. Nel lavoro e anche fuori, spesso, contano di più altre "conoscenze" e parentele. E i media propagandano altri modelli.  Veline, tronisti, "amici" e "figli-di"...  Studiate. Gli esempi diversi e contrari sono molti. Non c'è bisogno di rammentare le parole di Steve Jobs, che esortava a inseguire i desideri. A essere folli.
Guardatevi intorno. Tanti ce l'hanno fatta. Tanti giovani  -  intermittenti e flessibili  -  sono convinti di farcela. E ce la faranno. Nonostante i giovani  -  e le innovazioni  -  in Italia facciano paura.

Studiate. Soprattutto nella scuola pubblica. Anche se i vostri insegnanti, maestri, professori non godono di grande prestigio sociale.
E guadagnano meno, spesso molto meno, di un artigiano, commerciante, libero professionista... Anche se alcuni di loro non fanno molto per farsi amare e per farvi amare la loro disciplina. E, in generale, l'insegnamento. Anche se la scuola pubblica non ha più risorse per offrire strumenti didattici adeguati e aggiornati. Anzi, semplicemente: non ha più un euro. Ragazzi: studiate. Nella scuola pubblica - che è di tutti, aperta a tutti. Studiate. Anche se nella vita è meglio furbi che colti. Anzi: proprio per questo. Per non arrendersi a chi vi vorrebbe più furbi che colti. Perché la cultura rende liberi, critici e consapevoli. Non rassegnatevi. A chi vi vorrebbe opportunisti e docili. E senza sogni. Studiate. Meglio precari oggi che servi per sempre.

(12 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - Italia, un paese sospeso tra indignazione e sfiducia
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2011, 05:17:44 pm
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Italia, un paese sospeso tra indignazione e sfiducia

Il governo tira avanti anche se gli elettori giudicano conclusa la parabola berlusconiana.

La fiducia nel Cavaliere è ai minimi. Il centrosinistra sembra poter vincere ovunque.

La partita delle alleanze del centro. E la frustrazione diventa un impegno collettivo

di ILVO DIAMANTI


QUESTA LEGISLATURA resiste. Malgrado che, da mesi, tutti ne evochino la fine. Invocata dall'opposizione, esorcizzata dalla maggioranza. Malgrado che gran parte degli elettori (oltre il 70%) ritenga la parabola di Berlusconi ormai conclusa. Non credono alla risalita del Cavaliere neppure gli elettori del Pdl (45%), tantomeno i leghisti (20%).

Tuttavia, si prosegue. O meglio, si staziona. Mentre la sfiducia dei cittadini cresce, insieme all'incertezza nel futuro. I dati dell'Atlante Politico di Demos, raccolti attraverso un sondaggio condotto durante la scorsa settimana, descrivono, infatti, uno scenario statico e pressoché stagnante, sul piano elettorale.

I due principali partiti confermano il loro debole primato nella coalizione. Il Pd, in lieve calo, si attesta intorno al 28%. Il Pdl, in lieve crescita, raggiunge il 26%. Insieme superano di poco il 54%. Alle politiche del 2008 erano oltre il 70%. Una conferma di più che la prospettiva bipartitica è ormai illusoria. Ma, soprattutto, un segno di crisi del bipolarismo così come l'abbiamo conosciuto.

D'altronde, gli alleati dei due partiti maggiori - IdV e SEL, a centrosinistra, la Lega, a centrodestra - occupano uno spazio rilevante. Ma non possono svolgere un ruolo aggregante. Non ne hanno la vocazione e tanto meno il peso. La Lega, peraltro, appare in calo sensibile.

Gli scenari elettorali tracciati in base alle possibili coalizioni confermano le tendenze dell'ultimo anno. Il Centrosinistra - impostato sull'alleanza fra PD, IdV e SEL - sembra in grado
di prevalere comunque. Da solo, in una competizione a tre, contro il Centrodestra e il Centro. A maggior ragione, se alleato con il Centro. Ma anche messo di fronte al Centrodestra allargato al Centro. Il quale conferma la sua difficoltà coalizionale. Perché i suoi elettori soffrono ogni spostamento; verso sinistra, ma anche verso destra. Mentre da solo il Terzo Polo allargherebbe i consensi molto al di là della somma del voto attribuito ai partiti che ne fanno parte  -  UdC, API, FLI.

Le stime di voto si riflettono nelle previsioni degli elettori. Quasi il 50% di essi pensa che se si votasse oggi vincerebbe il Centrosinistra, il 37% il Centrodestra, per il quale significa 10 punti in più rispetto a un mese fa. La ripresa del Centrodestra, nella percezione degli elettori è favorita, forse, dal successo alle Regionali in Molise, per quanto stentato. Ma è, soprattutto, un segno che si respira aria di elezioni anticipate. Non a caso si è ridotta la quota di coloro che, al proposito, non esprimono un'opinione. D'altronde, è diminuita sensibilmente anche la "zona grigia" dell'incertezza e dell'astensione elettorale. Oggi non supera il 25%: circa 10 punti percentuali meno di un mese fa.

Eppure, l'orizzonte resta pervaso dall'incertezza. Di fronte alla crisi politica attuale, infatti, gli elettori si dividono in modo eguale fra le tre soluzioni proposte: un governo di emergenza, guidato da una figura autorevole (l'ipotesi preferita, anche se di poco: 34%); nuove elezioni nei prossimi mesi; oppure tirare avanti, con questo governo, fino al 2013. Insomma, come si è detto, questa legislatura sfinita non si decide a finire. Anche se la stanchezza del governo è evidente e riflette, anzitutto, la stanchezza della leadership.

La fiducia nei confronti di Silvio Berlusconi, infatti, è ai minimi (22%, quasi come il mese scorso). Più basso di lui, solo Bossi, il fedele alleato. I due appaiono saldamente legati, nella buona e nella cattiva sorte.
Tuttavia, questa palude di sfiducia rischia di inghiottire tutto e tutti. Non solo i partiti e gli uomini della maggioranza.

Basta guardare gli indici di fiducia nei confronti dei leader politici. Tutti in calo. In testa è tornato Tremonti, con il 37% di consensi. Ma solo perché, nell'ultimo mese, ha perso meno degli altri. Un anno fa, tuttavia, il credito verso il ministro dell'Economia era superiore di 10 punti percentuali. Il leader del PD, Bersani, ottiene la fiducia del 34% degli elettori: 7 punti meno di un anno fa. L'indice di fiducia verso Vendola, rispetto al novembre 2010, è sceso addirittura di 15 punti. Ora è al 33%.

Perfino Beppe Grillo - che, sulla sfiducia verso "tutti" i partiti, ha fondato la propria fortuna - nell'ultimo anno ha perso 8 punti di consenso. Di Pietro, restando fermo al 35% come un anno fa, è quasi in testa alle preferenze. Il fatto è che la fiducia si è rarefatta. Basti pensare che nella graduatoria costruita in base agli indici di fiducia personale, nel novembre del 2010, il leader posizionato al 5° posto, cioè a metà, otteneva il consenso del 39% degli intervistati. Oggi la fiducia verso il leader che occupa la medesima posizione è scesa al 30%.

La sindrome della sfiducia affligge tutti gli attori politici. I partiti per primi: "stimati" (si fa per dire) da meno del 5% dei cittadini. Ma anche le istituzioni. Lo Stato (il cui l'indice di fiducia si è ridotto al 20%), la stessa magistratura (42%: 7 punti meno di un mese fa). L'onda grigia lambisce perfino il presidente della Repubblica, che dispone di un consenso cosmico, rispetto a tutti gli altri. Il 70% dei cittadini esprimono "molta/moltissima" fiducia nei suoi confronti. Il che significa, però, 4 punti in meno di un mese fa.

D'altronde, la sfiducia nel futuro (62%) non è mai stata così alta, negli ultimi dieci anni.

Anche per questo motivo non sorprende che la maggioranza degli italiani esprima sostegno gli "indignati" che hanno manifestato il 15 ottobre a Roma. Nonostante le violenze che ne hanno funestato lo svolgimento  -  le cui responsabilità, tuttavia, sono attribuite prevalentemente ad altri soggetti. Non è solo perché è difficile disconoscere le buone ragioni degli "indignati".

La frustrazione dei giovani, privati del futuro, costretti a un eterno presente, naturalmente precario. Il fatto è che l'indignazione è, ormai, un esercizio collettivo. Tutti si sentono - e sono - indignati. Contro le istituzioni pubbliche, contro lo Stato, gli statali, i partiti, i politici. Contro la Casta. Perfino i politici e la Casta si sentono indignati. Reciprocamente e contro chi si indigna con loro.

Da ciò il rischio. Che l'indignazione smetta presto di essere una virtù rivoluzionaria. E diventi un riflesso condizionato.
Una parola alla moda. L'ultima beffa verso coloro che hanno tutti i motivi per dirsi "Indignati". Non gli hanno rubato solo il Futuro e il presente. Ma perfino l'Indignazione.

(24 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: ILVO DIAMANTI - Chi ha paura del referendum elettorale
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2011, 05:20:39 pm
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Chi ha paura del referendum elettorale

di ILVO DIAMANTI

IL REFERENDUM per abolire l'attuale legge elettorale incombe e incute molti timori tra i dirigenti e i parlamentari dei partiti.
In modo trasversale. D'altronde, il cosiddetto Porcellum attribuisce ai gruppi dirigenti un grande potere nella scelta delle candidature. Il che significa: nella scelta degli eletti, visto che attualmente gli elettori non hanno la possibilità di votare per i candidati, ma solo per le liste e per le coalizioni.

Il che spiega la resistenza dei parlamentari nei confronti di un referendum che li costringerebbe a stabilire un rapporto con la società e il territorio, divenuto, quantomeno, accessorio. Per la stessa ragione, tuttavia, questo referendum interessa molto agli elettori.
Lo dimostra, in primo luogo, il numero delle firme raccolte dai promotori: oltre 1 milione e 200 mila. Senza una adeguata visibilità sui media  -  semmai il contrario. E senza che i maggiori partiti mobilitassero, a questo fine, la loro organizzazione  -  semmai il contrario. Ma il consenso per il referendum, oggi, appare molto esteso fra i cittadini, come emerge da un sondaggio condotto da Demos alcuni giorni fa. Quasi metà degli elettori (intervistati) - per la precisione: il 46% - afferma, infatti, di essere d'accordo sull'abrogazione dell'attuale legge elettorale. Intenzionato, al tempo stesso, a votarlo. Un ulteriore 18% ne condivide l'obiettivo, ma è ancora incerto se votarlo. Nel complesso, circa i due terzi degli elettori sono d'accordo con il quesito referendario, mentre quasi la metà appare già
in questa fase disposta a partecipare alla (eventuale) consultazione. Si tratta di un orientamento molto chiaro, indicativo di un sentimento ampiamente condiviso fra i cittadini. Tanto più se si tiene conto che il referendum costituisce ancora una prospettiva, un'ipotesi, per quanto sentita dagli elettori.

D'altronde, la disponibilità dei cittadini a intervenire direttamente su questioni di grande interesse pubblico è già emersa esplicitamente in occasione dei referendum dello scorso giugno. A cui ha partecipato oltre il 57% degli elettori. Sollecitati dai temi della consultazione, che riguardavano aspetti importanti relativi al "bene comune". L'acqua, i servizi locali, la tutela dell'ambiente, il nucleare. Questa partecipazione inattesa, tuttavia, riflette anche l'insoddisfazione verso le forze politiche di governo. E non solo di governo. Ma, soprattutto, rivela una domanda di partecipazione e di impegno diretto nella vita pubblica largamente diffusa nella società. Tuttavia, il consenso verso i due referendum ha confini sociali in parte differenti. Fra coloro che affermano di aver votato al referendum sui "beni comuni" dello scorso giugno, infatti, circa il 63% sostiene che voterà anche per abrogare il Porcellum. Oltre un terzo, dunque, al proposito, esprime dubbi oppure dissenso.

Tuttavia, il 24% di coloro che avevano disertato la consultazione dello scorso giugno afferma che voterà contro l'attuale legge elettorale. Segno che, oltre alla "domanda" di partecipazione, contano le "domande" che la ispirano. Per questo motivo il profilo degli elettori si differenzia, in qualche misura, in base alle questioni e ai quesiti sollevati dai referendum. Rispetto agli elettori che avevano partecipato al referendum dello scorso giugno, quelli favorevoli al referendum elettorale appaiono, infatti, maggiormente concentrati: a) nelle classi di età centrale e matura (30-60 anni), b) tra i liberi professionisti, i dirigenti, i tecnici e i ceti medi intellettuali. Mentre, a giugno, la partecipazione maggiore (rispetto alla media) si era verificata tra i giovani e i giovanissimi e tra gli studenti.
Il sostegno ai referendum elettorali, inoltre, appare maggiormente esteso a centrosinistra e a sinistra. In particolare, fra gli elettori del Movimento 5 Stelle (80%) di Sel (73%) e del Pd (64%). Mentre i referendum di giugno avevano ottenuto un consenso più trasversale.
Tuttavia, lo ripetiamo, quasi i due terzi degli elettori che hanno partecipato ai referendum sui "beni comuni" affermano che voterebbero anche contro l'attuale legge elettorale. Calcolati sull'intero corpo elettorale, questi "referendari" convinti sono circa il 36%.
Oltre un terzo degli elettori. Tra di loro assumono un peso maggiore, rispetto alla media, gli elettori di sinistra e di centrosinistra.
Ma sono presenti in misura significativa anche quelli di centro e di centrodestra. Li accomuna la disponibilità a impegnarsi e a mobilitarsi per "cambiare". Non solo e non tanto una legge, per quanto importante. Ma il sistema politico e le istituzioni. Per questo si sentono molto vicini alle ragioni e alle manifestazioni degli "indignati" (70%). Mentre esprimono grande insoddisfazione nei confronti del governo, ma anche verso l'opposizione di centrosinistra (meno del 30% dei referendari la valuta positivamente). Per questo motivo sono percepiti come un pericolo dai gruppi dirigenti dei partiti principali. In primo luogo, dai leader delle forze politiche di governo. Perché i referendum hanno, spesso, costituito dei punti di svolta critici. Da ultimi: i referendum elettorali del 1991 e del 1993 hanno accelerato il crollo della Prima Repubblica e avviato il passaggio alla Seconda.

È comprensibile che questo nuovo referendum elettorale, spinto da quello dello scorso giugno, susciti grande apprensione tra chi teme una svolta definitiva. Oltre il berlusconismo. Ma anche oltre l'antiberlusconismo. Perché decreterebbe la crisi definitiva della leadership del governo di centrodestra. Ma metterebbe in discussione anche quella dell'opposizione di centrosinistra. In particolare, nel Pd, dove Pippo Civati, una settimana fa, e soprattutto Matteo Renzi, ieri, hanno apertamente contestato le "vecchie burocrazie di partito".
D'altronde, il gruppo dirigente del Pd, verso i referendum di giugno, ha espresso un sostegno tardivo. Quasi fuori tempo massimo.

Mentre verso il Porcellum ha manifestato un orientamento diffidente e reticente. In contrasto con l'atteggiamento convinto dei militanti e degli elettori. Ma c'è da dubitare che il Pd possa battere Berlusconi e il centrodestra conducendo la sua lotta asserragliato nelle aule del Palazzo. Scommettendo sul passaggio da uno schieramento all'altro di parlamentari (sedicenti) "responsabili". Piuttosto che puntare sulla "sfiducia" del Parlamento è meglio investire sulla "fiducia" nella società. E nel movimento "invisibile" che, quando ne ha l'occasione, come in questi referendum, non esita a mobilitarsi. A diventare "visibile".

(31 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/31/news/referendum_elettorale-24171999/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Anche la democrazia colpita dalla crisi a livello record chi...
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 11:04:00 pm
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Anche la democrazia colpita dalla crisi a livello record chi non ha più fiducia

Il 23% la equipara ai sistemi autoritari.

Tra le cause il governo in tilt. Tre anni fa il dato era inferiore di ben sette punti.

Tra giovani, elettori di Pdl e Lega lo scetticismo più marcato

di ILVO DIAMANTI

NEL PAESE si percepisce un diffuso disincanto politico. Investe non solo i partiti e i loro leader, ma anche le istituzioni dello Stato. Ad eccezione del Presidente Napolitano, com'è noto, la sfiducia dei cittadini non risparmia nessun soggetto e nessun attore pubblico.

Non sorprende che questo sentimento stia erodendo il consenso nei confronti delle istituzioni rappresentative. Verso la stessa "democrazia". È ciò che sta capitando, secondo un sondaggio di Demos di alcuni giorni fa. Certo, la gran parte degli intervistati (oltre due terzi) resta convinta che "la democrazia è preferibile a qualsiasi altra forma di governo".

LE TABELLE 1 (le trovi in - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/07/news/disincanto_democrazia-24564472/?ref=HREC1-2).

Se ne desume, però, che circa un italiano su tre la pensa diversamente. In particolare, il 23% del campione accetta l'idea che: "autoritario o democratico non c'è differenza". Si tratta del dato più alto registrato negli ultimi dieci anni. Nel 2001 questa posizione era, infatti, condivisa dal 16% degli intervistati. La stessa percentuale rilevata nel 2008.

Il disincanto democratico sembra, dunque, essere cresciuto sensibilmente negli ultimi anni. In particolare, si è diffuso fra i più giovani (18-29 anni). Ma risulta condiviso, soprattutto, nell'elettorato di centrodestra: il 31% tra gli elettori del Pdl, addirittura il 34% tra i leghisti.

Difficile sorprendersi. La democrazia rappresentativa non
sta offrendo grande prova di sé, in questa fase. In Italia, ma non solo.

Basti pensare a come è stata affrontata la crisi economica e finanziaria. L'agenda: dettata dalla Ue, in particolare dalla Bce e dal Fmi. Cioè: da istituzioni finanziarie e monetarie, non elettive. Nell'ambito della Ue, peraltro, le scelte comunitarie - in particolare, le nostre - sono state imposte da due Paesi su tutti: Francia e Germania. Da due leader su tutti: Sarkozy e Merkel. Eletti dai cittadini dei loro Paesi, non dagli europei, nel loro insieme. Tanto meno dagli italiani.

Peraltro, mentre i mercati dettano le regole e i vincoli ai governi, il rapporto tra mercato e democrazia non appare più stretto e automatico come un tempo. Leonardo Morlino, sull'ultimo numero dell'Espresso, mostra come il tasso di crescita del Pil nei regimi autoritari (4,9%) sia decisamente superiore a quello dei Paesi democratici e liberi (2,3%).

Questa tendenza si spiega, in parte, con il basso punto di partenza dei regimi autoritari. Tuttavia, non sorprende troppo, vista l'influenza esercitata sulle economie occidentali da Cina e Russia (sistemi peraltro molto diversi). Visto il peso della Libia (e della famiglia) di Gheddafi nell'economia italiana fino a un anno fa. Prima dell'intervento armato, deciso e guidato da Usa, Gb e, anzitutto, dalla Francia (di nuovo). A nome e per conto della Comunità Internazionale (Italia compresa).

Il disincanto democratico degli italiani, però, è condizionato, in misura rilevante, dalle vicende interne. La sfiducia nel governo eletto nel 2008, in un'altra epoca: oggi solo il 20% degli elettori lo considera adeguato al compito. Stesso giudizio nei confronti dell'opposizione. Ma il consenso verso il governo è crollato in breve tempo.

Il Presidente del Consiglio ottiene, a sua volta, una valutazione sufficiente da due soli elettori su dieci. D'altra parte, un governo e un Presidente del Consiglio che, per sopravvivere, ricorrono alla fiducia una volta alla settimana, non possono che ri-produrre la sfiducia. Tanto più se si assiste a passaggi continui di parlamentari, tra uno schieramento e l'altro. In queste ore, ad esempio, Berlusconi sta contattando, ad uno ad uno, i "dissidenti" del Pdl.

Per ricomporre, una volta di più, la maggioranza, in vista del voto di domani. Allargando ancora, se necessario, il numero dei sottosegretari e dei vice-ministri (se ne è perso il conto, oramai). Difficile riconoscere il marchio della "volontà popolare" a una maggioranza sempre in bilico, tenuta insieme e rattoppata mediante incentivi personali continui. Anche perché non è per "sanare" i problemi giudiziari né i conflitti di interesse di Berlusconi che gli elettori, nel 2008, avevano garantito al Centrodestra una maggioranza parlamentare larga come mai prima, nella Seconda Repubblica.

Le preoccupazioni degli italiani, ormai segnate dalla crisi economica, hanno reso insopportabili i costi della politica. I privilegi di cui godono i parlamentari e gli amministratori pubblici. E hanno alimentato un clima "antipolitico", sostanzialmente diverso da quello dei primi anni Novanta. Perché allora rifletteva la rottura con il "vecchio" sistema politico. Evocava una domanda di cambiamento, proiettata nel futuro. Mentre oggi l'antipolitica riflette la frustrazione suscitata da un sistema politico esausto, prigioniero del presente - e del passato. Anche per questo la "fiducia" nella democrazia, in Italia, appare in declino.

Tanto più fra coloro che diffidano dei partiti. D'altra parte, a fidarsi dei partiti, ormai, è una quota residua: il 5% degli italiani. Non a caso i soggetti che raccolgono maggiore consenso fra i cittadini sono "esterni" ai partiti. Non solo il Presidente, Napolitano. Ma anche imprenditori, finanzieri, leader di organizzazioni economiche, tecnici. Gli stessi ai quali fanno riferimento quanti vedono in un governo di unità nazionale l'unica soluzione a questa crisi - politica ed economica.

Ma Berlusconi e gli altri leader della maggioranza, in caso di sfiducia parlamentare, invocano il ritorno alle urne. Ogni diversa soluzione sarebbe "un golpe", ha denunciato, sabato scorso, il ministro Calderoli. Responsabile della legge elettorale attualmente in vigore, in base alla quale è stato eletto questo Parlamento. Secondo lo stesso Calderoli: una "porcata", che impedisce ogni controllo sugli eletti da parte degli elettori. Contro questa legge elettorale sono state raccolte, in un mese e mezzo, oltre 1 milione e 200 mila firme.

Per promuovere un referendum abrogativo, che riscuote il consenso di gran parte degli elettori (come ha mostrato la "Mappa" della scorsa settimana). Questa legge elettorale - ogni legge elettorale - è, per definizione, principio e fondamento della nostra democrazia rappresentativa. Visto che la "rappresentanza" democratica è realizzata mediante le elezioni. Per questo occorre prendere sul serio il disincanto della società italiana. Perché mina la "legittimità" della nostra democrazia. Alla radice.
 

(07 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/07/news/disincanto_democrazia-24564472/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Così crisi e promesse deluse hanno spazzato via il feuilleton
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2011, 07:35:20 pm
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Così crisi e promesse deluse hanno spazzato via il feuilleton

In tre anni il consenso di Berlusconi precipitato dal 46,4 per cento al 22,4 per cento, Anche la retorica del "fare" ha funzionato nel breve periodo, poi gli si è rivoltata contro e la maggioranza di governo è diventata minoranza nel Paese

di ILVO DIAMANTI

Così crisi e promesse deluse hanno spazzato via il feuilleton Silvio Berlusconi circondato dalla scorta (ansa)
L'EPILOGO del governo Berlusconi è stato celebrato con soddisfazione da quanti lo hanno vissuto come una iattura  -  civile e politica  -  per il Paese. Tuttavia, più che un successo delle opposizioni, va considerato, anzitutto, una sconfitta di Berlusconi e del berlusconismo. Intendendo con questo termine, (ab)usato in modo perlopiù indefinito, l'insieme dei valori e di riferimenti culturali, ma anche il modello di rappresentanza - e di alleanza - politica che egli ha espresso. Le dimissioni di Berlusconi, in altri termini, sono l'esito della delusione sociale e dell'implosione politica prodotte da Berlusconi stesso.

LE TABELLE 1 su  repubblica.it

Il "berlusconismo" come "clima d'opinione" era in declino da tempo. Lo dimostrano i sondaggi (di Demos, pubblicati in queste pagine) che riproducono il calo della fiducia nei suoi confronti, crollato poco sopra il 20%, pur avendo superato il 50% nel maggio del 2009, dopo il terremoto in Abruzzo. Lo sottolinea, soprattutto, la depressione del sentimento sociale che egli aveva interpretato. Berlusconi, infatti, si è affermato perché impersonava l'imprenditore venuto dal nulla. In grado di guardare al futuro con ottimismo irriducibile. Perché, comunque, "noi ce la faremo". Nonostante lo Stato, le regole, il pubblico, il fisco. Oggi questo modello è im-proponibile. La crisi lo ha reso impopolare. Funziona a rovescio anche la sua strategia di immagine, promossa attraverso il marketing e i media. L'ottimismo come ideologia, la vita esagerata, fra residenze private trasformate in sedi pubbliche, e ruoli pubblici usati a fini privati. Fra leader del mondo e ragazzine disponibili. Sotto gli occhi di tutti. Come un feuilleton senza fine. In tempo di crisi, tutto questo è divenuto insopportabile alla "gente comune". Peraltro, egli non è riuscito a "onorare" i "contratti con gli italiani" sottoscritti in tv. I "mercati", gli imprenditori, le categorie economiche, che pure gli avevano concesso un'ampia apertura di credito, lo hanno abbandonato. Sono divenuti suoi aspri oppositori, da amici indulgenti quali erano.

Anche la retorica del "fare", alla fine, gli si è rivoltata contro. La promessa di ripulire le immondizie di Napoli - in due tre settimane. O di ricostruire L'Aquila terremotata. Nel "breve" hanno funzionato, in seguito gli si sono rivoltate contro. Perché le immondizie a Napoli - e altrove - ci sono ancora. E il centro storico di L'Aquila resta sepolto dalle macerie. Così l'Uomo-del-fare si è trasformato nell'Uomo delle-promesse-non-mantenute. Sul piano politico, il berlusconismo coincide con il modello del "partito personale", che dipende dal suo "patrimonio", dalla sua identità, dal suo stesso "corpo". E per questa stessa ragione non sopporta altri leader concorrenti né, tanto meno, oppositori. Il passaggio da Fi al Pdl ha indebolito questo modello. Perché l'integrazione (annessione?) di An ha reso il Pdl meno omogeneo e "governabile" dal punto di vista organizzativo e territoriale. La rottura con Gianfranco Fini e la successiva creazione di Fli è costata molto, al Pdl e a Berlusconi, dal punto di vista elettorale e politico. Ben oltre il peso limitato assunto da Fli. Il Pdl, inoltre, è stato indebolito anche dal crescente spazio conquistato dalla Lega. In grado di condizionare l'agenda di governo, in cambio del sostegno fedele alle uniche questioni rilevanti per Berlusconi. Quelle, appunto, più "personali".

Così la maggioranza di governo è divenuta minoranza nel Paese. Incalzata da movimenti di opposizione in grado di affermare nuove e diverse domande, mobilitando la società

Il Pdl si è ridotto al 25% degli elettori. Il centrodestra e Berlusconi si sono asserragliati in Parlamento. Una fortezza assediata da un'opinione pubblica ostile e dalla crisi economica globale. Dove il governo ha resistito a colpi di "fiducia" che alimentavano, in realtà, la "sfiducia", dentro e fuori il Parlamento. La maggioranza stessa, d'altronde, è divenuta composita e fluida. Ostaggio, come ha lamentato ieri Berlusconi, di tanti "piccoli ricatti".

Da ciò l'implosione. Il berlusconismo ha perduto il consenso sociale. E il centrodestra, minoranza nel Paese, è divenuto tale anche in Parlamento. Berlusconi ne ha preso atto. Tuttavia, questa crisi ha natura, in parte, "extraparlamentare". A costringere Berlusconi alle dimissioni, infatti, non è stata solo l'opposizione di centro e di centrosinistra, ma anche quella dei mercati e dei leader europei. Non è stata - soltanto - la sfiducia dei parlamentari, ma anche quella delle Borse, della Bce e della Ue. Che hanno espresso la loro "opinione" non attraverso il voto e neppure i sondaggi, ma attraverso il crollo delle Borse e dei titoli di Stato - italiani. In più: attraverso il collasso delle azioni di Mediaset. L'azienda del Premier Imprenditore. Senza dimenticare il ruolo svolto da molte voci critiche che si sono espresse nella sfera pubblica e sui media. Da ciò due ulteriori considerazioni, importanti per riflettere sul futuro dell'Italia e della nostra stessa democrazia.

La prima riguarda l'incapacità del nostro sistema politico e istituzionale di auto-riformarsi. La Seconda Repubblica è finita com'era nata: in seguito a un trauma esterno. Era sorta fra il 1991 e il 1993, a causa dell'incalzare di Tangentopoli e, prima ancora, per gli effetti della caduta del muro di Berlino. La Seconda Repubblica (per alcuni prolungamento della Prima, per altri la Terza), fondata "da" e "su" Berlusconi, è chiusa per implosione. E, di nuovo, per un collasso esterno: la crisi globale dei mercati e l'impatto sulle economie più vulnerabili. La nostra in particolare. Per l'incapacità del nostro sistema politico di dare risposte all'emergenza economica, ma anche perché irriformato e irriformabile. Non è un caso che l'Italia si sia trasformata, di fatto, in una "Repubblica presidenziale", guidata, in questa fase, dal presidente Napolitano. La figura istituzionale dotata del maggior grado di fiducia, presso gli elettori ma anche in ambito internazionale (e sui mercati). Ciò gli ha consentito di orientare la crisi. Ha scoraggiato le elezioni anticipate - che avrebbero lasciato per mesi il Paese senza risposte all'emergenza, in preda a conflitti laceranti. Ha, invece, sostenuto (e imposto) un governo tecnico, a largo sostegno parlamentare - esterno ed estraneo alle pressioni politiche e dell'opinione pubblica. In grado, per questo, di redigere e soprattutto realizzare provvedimenti efficaci ma anche impopolari.

La scelta di Mario Monti riflette questa logica ed è stata possibile solo perché orientata da Napolitano. Il quale ha trasferito sull'economista - in precedenza poco noto - la propria dote personale di popolarità e fiducia (come ha rilevato Nando Pagnoncelli a Ballarò, sabato sera).
Da ciò la seconda considerazione - e il secondo problema. Questa crisi (extra-parlamentare) è stata affrontata almeno in parte in condizioni di "eccezione" democratica. Su pressione di poteri "esterni" alla nostra democrazia: la Bce, il Fmi, la Ue. Con la regia del presidente Napolitano, garante della Costituzione, ma eletto dai parlamentari (della precedente legislatura) e non dai cittadini. La formazione del governo è stata affidata a una figura prestigiosa, Monti, alla guida di una compagine di tecnici. Al pari di lui, non eletti, non "politici". Scelti proprio per questo motivo: perché insensibili ed esterni alla "volontà del popolo sovrano". Tutto ciò, naturalmente, avviene in una crisi di sistema, a sua volta riflesso della crisi del berlusconismo e di Berlusconi. In condizioni di emergenza economica e politica. Mentre la stessa fiducia nella democrazia, fra i cittadini, mostra segni preoccupanti di cedimento (come ha mostrato la Mappa della settimana scorsa). Potremmo riprendere, per questo, un paradosso (apparente) avanzato, alcuni anni fa, da un intellettuale francese, Emmanuel Todd. A volte, per difendere la democrazia, occorre difendere la democrazia da se stessa.

(14 novembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/14/news/fine_seconda_repubblica-24969051/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Politici per caso
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2011, 11:25:44 am


Ilvo DIAMANTI

Questo governo "tecnico", composto di "tecnici". Professori universitari, avvocati, banchieri, finanzieri, prefetti, dirigenti pubblici e di Onlus. Non Professionisti Politici e/o della Politica ma Tecnici. Perlopiù sconosciuti ai più. D'altronde, nel governo Monti l'anonimato è un marchio di qualità. Un segno di discontinuità rispetto al passato. È presumibile  -  auspicabile - che verrà mantenuto e rivendicato a lungo. Immagino  -  nel mio cuore: spero  -  che i nuovi ministri non affolleranno i talk-show televisivi. Immagino  -  e spero  -  di non vederli aggredire e aggrediti - a parole  -  per alzare lo share del salotto o della piazza mediale di cui sono ospiti (fissi). E per conquistarsi, a loro volta, visibilità. Anche per questo motivo essi  -  Monti in testa - sono stati  "ingaggiati" dal Presidente Napolitano. Per "fare" senza "dire" e, per quanto possibile, senza apparire. Per ricostruire - in minima parte, almeno -  la fiducia dei Cittadini verso lo Stato  -  di cui i Politici sono i testimonial. Visto che i Partiti e tutto ciò che evoca, anche lontanamente, la Politica oggi provoca rigetto nella cittadini. Così i Politici e i Partiti hanno accettato di mettersi da parte. Di restare, almeno per un po' e almeno un po', lontani dagli schermi e dalle pagine dei giornali. Anche se li immaginiamo in astinenza. Insofferenti e impazienti di rientrare in pista, sotto i riflettori.

I "tecnici", invece, non sono professionisti della politica. Il loro consenso deriva, quindi, da ragioni antipolitiche, insomma. Berlusconi, d'altronde, ha sostenuto che il governo durerà "finché lo vogliamo noi" (cioè, lui). Ma, prima di staccare la spina, ha lasciato intendere che controllerà i sondaggi. I "tecnici" resisteranno finché disporranno di un consenso ampio. Finché i "politici"  -  e soprattutto lui e il PdL  -  risulteranno  impopolari come adesso. Poi si vedrà. Insomma, Berlusconi valuta il governo tecnico secondo i criteri del marketing politico. Come si trattasse, a pieno titolo, un governo "politico". Non ha tutti i torti. L'esercizio del governo  -  dunque del potere - è l'essenza stessa del "politico". Soprattutto quando sono in gioco materie strategiche per il futuro e per la condizione di un Paese. L'economia, la moneta, il fisco, il lavoro, la previdenza. Il sistema elettorale. Questo governo tecnico: per governare ha bisogno della fiducia del Parlamento, composto dagli stessi politici di prima. E dovrà prendere decisioni difficili, mantenendo il consenso dei cittadini, Per amore o, più probabilmente, per forza. Per necessità. Anche l'impoliticità che ne caratterizza l'immagine, peraltro, è una risorsa comunicativa "politicamente" utile e attraente, presso l'opinione pubblica, nell'era della sfiducia verso la politica e dei politici. Quando per "fare politica" e agire da "politici"  occorre negarlo. In fondo, era avvenuto così anche in passato. Agli inizi degli anni Novanta, quando, in piena crisi di sistema, la guida del governo venne affidata a Carlo Azeglio Ciampi. Quando, la Febbre del Nuovo spingeva gli attori politici in campo a negare ogni affinità con i politici di professione. Per cui si dichiaravano imprenditori, artigiani, volontari impegnati per il bene comune....  Tutto meno che "politici". Al massimo: "prestati alla politica" (per sempre). Berlusconi stesso ha sempre negato di essere un Politico.

Oggi, contro i politici e gli antipolitici, nessuno osa dichiarare l'impegno di riqualificare la politica come missione e come professione (per citare Weber). Così, "squalificati" i Professionisti della  Politica, sono scesi in campo i Professionisti  -  e basta. Fanno politica anch'essi, ma non lo dicono e, forse, non lo sanno. Comunque, non lo ammettono  -  neppure a se stessi.  Sono "politici per caso".

(18 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/11/18/news/politici_per_caso-25213240/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Otto su dieci promuovono Monti
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 11:22:41 am
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Una fiducia da record per il premier

Otto su dieci promuovono Monti

Pdl al 24%. L'Udc vola al 10%, il Pd oltre il 29%. Il consenso personale del Professore, secondo i dati Demos, raggiunge addirittura l'84 per cento. Ok anche dal 60 per cento degli elettori leghisti. Due su tre considerano il nuovo esecutivo una "eccezione democratica", ma per l'80 per cento deve durare fino a fine legislatura

di ILVO DIAMANTI

Una fiducia da record per il premier Otto su dieci promuovono Monti 
È bastata una settimana perché il clima d'opinione svoltasse dalla depressione all'euforia. Lo dimostra, in modo eloquente, il sondaggio realizzato da Demos mentre le Camere votavano la fiducia al governo "tecnico", guidato da Mario Monti. Con una maggioranza senza precedenti nella storia repubblicana. Ma non molto più larga di quella espressa dalla popolazione. Quasi 8 italiani su 10 (nel campione intervistato di Demos) manifestano un giudizio positivo nei confronti del governo. Ma il consenso "personale" del nuovo presidente del Consiglio è ancora più ampio: 84%. Paragonabile solo al sostegno popolare di cui dispone il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

Ispiratore e protagonista della formazione del governo Monti. Naturalmente, c'è una relazione stretta fra la "misura" della fiducia parlamentare e popolare. Una maggioranza politica tanto larga e trasversale ha, infatti, favorito il consenso dei cittadini verso il governo, in modo trasversale. Si va, infatti, dal 90% circa fra gli elettori del PD a un po' meno del 60% tra quelli della Lega e del Movimento 5 Stelle. Tuttavia, un'ondata di fiducia politica di queste proporzioni non si spiega solo con il sostegno dei partiti. Anzi, semmai è vero il contrario: la nascita del governo ha, in parte, riconciliato i cittadini con la classe politica. Come dimostra la crescita generalizzata dei giudizi positivi nei confronti dei leader. Tutti, compresi Berlusconi (che risale di alcuni punti: dal 22% al 29%) e Bossi (dal 20% al 24%). Anche se in testa, ovviamente ben al di sotto di Monti, incontriamo Corrado Passera, fino a ieri AD di Intesa Sanpaolo, oggi ministro dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. (Pur considerando che circa un quarto degli intervistati ancora non lo conosce.)

Questa inversione del clima d'opinione ha, dunque, altre cause.

In primo luogo, l'angoscia generata dalla crisi globale dei mercati, che ha investito, con particolare violenza, il nostro Paese. Ritenuto politicamente "debole", incapace di garantire le misure richieste dalla UE e dalle altre autorità economiche e monetarie internazionali. Il governo guidato da Monti appare ai cittadini una scialuppa di salvataggio nel mare in tempesta.

Questa svolta del clima d'opinione, in secondo luogo, riflette la fine dell'epoca di Berlusconi. Ormai consumata da tempo. Il governo Monti ne ha sancito e sanzionato la fine. L'ha resa possibile e visibile. Solo il 22% degli elettori (poco più di metà rispetto a un anno fa) pensa, infatti, che l'esperienza politica di Berlusconi potrebbe durare ancora a lungo.

È, peraltro, indubbio che il grande consenso per il governo Monti  -  composto da "tecnici" - sia prodotto, in parte, dal sentimento "antipolitico" alimentato dal declino di Berlusconi e dalle difficoltà dell'opposizione. La fiducia nei partiti, infatti, resta ancorata al 5%. E quasi 8 elettori su 10 ritengono giusta "l'esclusione dei politici dalla squadra di Monti". Il governo, d'altronde, secondo i due terzi degli intervistati (o quasi), non è né di destra né di sinistra. E neppure di centro. Non ha colore politico. Un aspetto evidentemente molto apprezzato dai cittadini.

Anche per questo i calcoli "elettorali" di parte passano in secondo piano. D'altronde, se la scadenza delle elezioni si allontana, le questioni di leadership e coalizione diventano meno urgenti. E la polarizzazione risulta meno lacerante. Non è un caso che le stime di voto premino, in misura ridotta il PD (29,4%), ma soprattutto, l'UdC, che supera il 10% (3 punti di crescita in un mese). Nel momento in cui i partiti maggiori si coalizzano, a sostegno del governo, il "Terzo Polo" diviene, infatti, ancor più "centrale". E strategico. Ne risente, in particolare, il PdL (che scende dal 26% al 24%). Penalizzato dal declino del suo leader ma anche dall'attrazione dell'UdC. Anche la Lega (sotto l'8%) e SEL (scesa al 5,2%) sembrano penalizzate dalla posizione distinta o distante rispetto al governo.

L'unica "opposizione" che sembra beneficiare di questo clima è il Movimento 5 Stelle (4,6%), vicino a Grillo. Proprio perché  -  a differenza della Lega e di SeL  -  appare estraneo al sistema partitico.
In poche settimane si è, dunque, verificata una svolta negli atteggiamenti e nelle opinioni degli italiani. Impressa dalla formazione del governo Monti. Accolto dagli elettori di centrosinistra come una liberazione, da quelli di centrodestra come una pausa di sospensione (di fronte alla crisi di Berlusconi). Percepita da tutti (o quasi) i cittadini come una risposta alla crisi economica globale e alla crisi politica nazionale.

Tuttavia, gran parte degli italiani (due su tre) considera questo governo tecnico una "eccezione democratica" necessaria per aiutare  -  se non proprio "salvare"  -  la democrazia, in una fase critica. Non prorogabile all'infinito, ma comunque a lungo. L'80% degli intervistati, infatti, ritiene necessario che il governo Monti resti in carica fino alla fine della legislatura. E tre italiani su quattro pensano che i suoi compiti non possano limitarsi all'emergenza economica e dei mercati. Ma debbano estendersi anche alle riforme istituzionali e alla nuova legge elettorale. D'altronde, questo governo, tanto atteso, appare caricato di tante attese. L'85% degli italiani lo ritiene in grado di "portare l'Italia oltre la crisi". Di guidarci fino alla Terra Promessa (la Crescita, il Pareggio di Bilancio). Come Mosé al di là del Mar Rosso.

Da ciò derivano i rischi, per questo governo e per Monti. Accolti dal più elevato livello di fiducia misurato nell'era dei sondaggi.

1) Perché attese tanto elevate espongono alla delusione e alla frustrazione. Suscitano impazienza. Mentre problemi tanto seri - che hanno radici lontane e aggravati nel corso dei decenni - non si risolvono in tempi brevi. Né possono produrre effetti visibili immediati.

2) Perché problemi tanto seri richiederanno costi sociali elevati. Ed è difficile giustificare costi sociali elevati senza effetti sociali ed economici visibili, nel breve periodo.

3) Perché, quando si parte dall'80%, anche il 70% di fiducia rischia di apparire un "calo" di consensi.

4) Perché questo governo "tecnico" ha compiti profondamente "politici" e dipende dal consenso "politico" di un Parlamento dove operano partiti deboli (anche se in diversa misura).

5) Perché, infine, ci siamo lasciati alle spalle la Seconda Repubblica, ma (per citare Berselli) di fronte c'è una "Repubblica indistinta". Il governo tecnico, guidato da Monti, non può disegnarne il modello istituzionale. Non è suo compito. D'altronde, un'eccezione democratica non può diventare normale. Può, tuttavia, proporre almeno un diverso stile di governo e di comportamento "personale".
Traghettarci oltre la "politica pop". In una Terra dove la competenza e la decenza abbiano cittadinanza.

(20 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/20/news/una_fiducia_da_record_per_il_premier_otto_su_dieci_promuovono_monti-25296580/


Titolo: ILVO DIAMANTI - La maggioranza in incognito
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2011, 08:59:53 am
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La maggioranza in incognito

di ILVO DIAMANTI


SORPRENDONO non poco le acrobazie dei partiti che sostengono il "governo tecnico" per dissimulare ogni confronto. Così si racconta di incontri notturni tra i segretari di Pd, Pdl e Terzo Polo insieme a Monti. A Palazzo Grazioli, dove i convitati convergerebbero clandestinamente, per vie segrete. Per negare l'evidenza. Che Pd, Pdl e Terzo Polo costituiscono i riferimenti di una "maggioranza" parlamentare. Anche la composizione della "squadra" dei viceministri e dei sottosegretari è ancora in sospeso. Saranno tutti tecnici. Ci mancherebbe. Per ribadire il carattere transitorio e im-politico di questo governo. Difficile non sorridere di fronte a tanta reticenza. Non fosse che si tratta di cose fin troppo serie. Eppure, è difficile negare che questo governo è altamente (lo dico non a caso) "politico".

Come ogni governo che governi, d'altronde.

a) È politico: perché è stato votato dal Parlamento con una maggioranza larghissima, la più ampia nella storia della Repubblica. Sostenuto dai principali partiti presenti e "rappresentati" in Parlamento. In una Repubblica la cui "forma" di governo, almeno dal punto di vista "formale", è ancora "parlamentare".

b) È "politico": perché gli impegni che è chiamato ad affrontare e gestire - con il voto del Parlamento - sono "politici". Dalle pensioni alla patrimoniale, dalla flessibilità del lavoro alle liberalizzazioni, dal fisco alla vendita delle proprietà demaniali.

c) È "politico": perché i ministri, e soprattutto il primo ministro, Mario Monti, hanno compiti di rappresentanza e responsabilità, a livello internazionale, raramente tanto importanti e decisivi, come in questa fase. Perché la "fiducia" internazionale, in tempi di depressione economica e volatilità dei mercati, è una risorsa "politica" determinante. Il governo precedente non era più credibile.
E non a caso è caduto.

d) È "politico": perché non esistono "tecnici" scelti ad assumere ruoli e compiti "pubblici", in enti e organismi di indirizzo, gestione e controllo, a livello nazionale e internazionale, senza legittimazione "politica". E se anche non avessero un'identità politica, dopo l'esperienza direttiva in un organismo "pubblico" la assumerebbero.

D'altra parte, è arduo non attribuire una "connotazione politica" a Mario Monti, per dieci anni commissario europeo, su indicazione di due governi di segno differente (Berlusconi e D'Alema). Mentre fra gli altri ministri vi sono "tecnici" di rango, già eletti in Parlamento. Altri "vicini" a un partito, un'associazione culturale, un centro studi. Altri ancora che hanno svolto funzioni importanti a livello ministeriale e nelle istituzioni dello Stato. Negli enti locali. Difficile definirli tecnici-e-basta.

È, tuttavia, significativa l'enfasi che sottolinea la distinzione fra tecnici e politici. (Ne ho parlato anche in una recente Bussola su Repubblica.it). I "tecnici", oggi più che mai, sono definiti proprio in opposizione ai "politici di professione." Quando Bossi ironizza sul fatto che il presidente Napolitano "ha dato mandato di capo cordata a uno che le montagne le ha viste solo in cartolina", in effetti, tesse l'elogio dei "professionisti politici" opposti ai tecnici-e-basta. In una fase nella quale, però, i "politici professionisti" sono delegittimati. Mentre i "tecnici-che-fanno politica" (senza ammetterlo) sono ritenuti competenti e credibili. Dai cittadini, ma anche dalle autorità e dai poteri che contano, in questa fase. Cioè: i leader internazionali, da un lato, gli organismi e le agenzie che controllano e orientano i mercati, dall'altro.

Naturalmente, i "governi tecnici" costituiscono una anomalia, nelle democrazie occidentali. Ma non i "tecnici al governo". I quali, però, sono espressi dai partiti. Senza problemi e senza reticenze. In Francia, ad esempio, gran parte dei leader politici e delle figure istituzionali provengono dall'Ena e dalle altre Grandes Écoles. Anche in Germania oppure in Inghilterra (per non parlare degli Usa) al governo i "tecnici" non mancano. Ma sono espressi direttamente dai presidenti-premier, cancellieri. E non sono "estranei" ai partiti. Per cui suona strano, altrove, parlare di un "governo tecnico". Tuttavia, come si è detto, anche in Italia, a mio avviso, i "governi tecnici" sono "politici". Ma se non vengono definiti tali è per ragioni "politiche". Basti pensare alle precedenti occasioni in cui sono stati insediati. Da gennaio 1995 a maggio 1996: il governo guidato da Lamberto Dini, dopo la caduta del primo governo Berlusconi (di cui era ministro). Ma, anche se composto in parte da ministri politici, possiamo inserire sicuramente in questa categoria anche il governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi (primo presidente del Consiglio nella storia della Repubblica non eletto in Parlamento), da aprile 1993 a maggio 1994.

In entrambi i casi, i presidenti del Consiglio provenivano dai vertici della Banca d'Italia. Vennero chiamati a governare in una fase di crisi economica e politica. Con il sostegno di un ampio arco di partiti, tradizionalmente alternativi. Nel caso di Ciampi: la Dc e il Pds postcomunista. Nel caso di Dini: il centrosinistra e la Lega Nord. Ciò suggerisce che i governi tecnici, in Italia, svolgano i compiti assolti, altrove (tra l'altro: in Germania ma anche in Austria e in Israele), dalle grandi coalizioni. Quando, cioè, l'emergenza costringe le forze politiche più importanti a superare le tradizionali divisioni e a coalizzarsi. In nome del bene comune. Da noi questo non è possibile e neppure pensabile. Perché, per parafrasare il generale Carl von Clausewitz, in Italia la politica è "la prosecuzione della guerra - civile - combattuta con altre armi".

Così, nella Prima Repubblica si è praticato il "consociativismo" - cioè, il compromesso implicito. Mentre nella Seconda si ricorre ai "governi tecnici". I quali, a differenza delle Grandi Coalizioni degli altri Paesi, non sono governi di "collaborazione". Ma di "costrizione". Subìta, in questo caso, dal Pdl e da Berlusconi. Infatti, secondo gli elettori (come emerge dall'Atlante Politico di Demos 1), la nascita del governo Monti avrebbe rafforzato, anzitutto, il Pd (23% degli intervistati) e l'Udc (12%). Mentre avrebbe indebolito soprattutto, il Pdl (41%) e la Lega Nord (16%). Non è un caso che Berlusconi, proprio ieri, abbia ribadito l'intenzione di "raddoppiare l'impegno - pur restando dietro le quinte - a combattere coloro che ieri erano e oggi, nel loro profondo, restano: comunisti". Per questo tanta cautela nel confrontarsi apertamente, come normalmente avviene tra i partner di una maggioranza. Il fatto è che questo governo non segna una fase di "intesa", per quanto transitoria. Ma una "tregua". In attesa di nuove, furibonde, battaglie. Pardon: elezioni

(28 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/sondaggi/2011/11/28/news/maggioranza_incognito-25708451/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La crisi del N-euro
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2011, 11:07:58 am
La crisi del N-euro

Ilvo DIAMANTI

C'è un che di inquietante, in questa crisi. Al di là delle ragioni finanziarie, monetarie, politiche che l'hanno prodotta e la alimentano. Tanto rilevanti - queste ragioni - da aver prodotto l'impensabile: una maggioranza di unità - o almeno: di non belligeranza - nazionale, dove coabitano, da separati in casa, Centrosinistra e PdL. Un governo di tecnici a far politica al posto dei politici. C'è un che di inquietante, in questa crisi, perché ci fa sentire vulnerabili - noi italiani. Colpiti alla radice della nostra identità nazionale. Noi, abituati a reagire a ogni avversità, a ogni sfida. Ogni rovescio. Noi: abbiamo sempre individuato, alla base dei nostri caratteri specifici, "l'arte di arrangiarsi". La capacità di tradurre i nostri limiti in risorse. Di adattarci a ogni trasformazione e a ogni difficoltà. Senza subirle. Il nostro attaccamento alla famiglia, al territorio e alla realtà locale, al lavoro, insomma il nostro "specifico" antropologico e culturale: ci ha permesso di affrontare gli ostacoli e di superarli. "Nonostante" lo Stato, le istituzioni. "Nonostante" la politica. Il nostro localismo, il nostro dinamismo diffuso ci hanno aiutato. Oggi però questi "caratteri nazionali" non sembrano sufficienti a sfidare la crisi globale. O, almeno, a farvi fronte, a resistere. In una certa misura, al contrario, ci espongono ulteriormente. Penso, ad esempio, alla nostra vocazione al risparmio. (Anch'essa fiaccata dalla crisi. Visto che le famiglie hanno dato fondo ai loro "risparmi" per resistere in questa fase.) Certo: ha garantito maggiore solidità al sistema bancario. Ma ora che le banche appaiono gravate dal peso del debito pubblico e dalla speculazione internazionale, le famiglie appaiono inquiete. E non capiscono che stia succedendo.

Perché non riescono a parlare il linguaggio delle borse e dei mercati. Lo spread, i btp, i bund, il nasdaq, S&P, l'FMI, la BCE e Fitch. Simboli e fonemi ignoti ai più. Per cui gran parte della popolazione non capisce neppure quel che sta succedendo. Non riesce a spiegarsi la crisi. Da dove arriva - e perché. Ed è difficile affrontare quel che non si riesce a spiegare, ma neppure a "dire". A "nominare". Lo ha messo in luce anche il Censis, nel 45° "Rapporto sulla situazione sociale del Paese nel 2011" 1, presentato proprio oggi. La società italiana, sottolinea il Censis, dispone di una "cultura dell'adattamento" che ha origine nel suo "scheletro contadino". Una realtà "in cui vigono il primato dell'economia reale e il primato della lunga durata". Indeboliti e, prima ancora, inibiti da fenomeni e processi fluidi e improvvisi. Im-prevedibili. Bolle che si gonfiano ed esplodono. Non governabili e non intellegibili dalla società, dalle persone. Da qui le ragioni che rendono  questa crisi peggiore, molto peggiore delle altre che abbiamo affrontato nel dopoguerra. Perché non c'è un nemico da combattere, una calamità da cui difenderci, una catastrofe da cui risollevarci "con le nostre mani". E se non è chiaro dove siano i pericoli che ci minacciano - e come sia possibile combatterli - allora gli appelli a "fare presto", ai "sacrifici" diventano difficili da comprendere e quindi da ascoltare. "Fare presto", "sacrifici": perché? Per difendersi da che? Ma soprattutto: per andare dove? È questo il problema: l'invisibilità e l'innominabilità della "minaccia" che incombe, ma anche della "prospettiva" di salvezza a cui si tende. Perché la minaccia non ha volto e non ha nome. Cosa significa e che faccia avrà il  "default"? Quanto alla "prospettiva": com'è possibile evocarla in una società dove i giovani sono una razza in via di estinzione e il futuro si chiama "pensione"? 

Il problema, o almeno, "un" problema, è che - per riprendere le conclusioni del Censis - la "dialettica politica sembra prigioniera del primato, anche lessicale, della regolazione finanziaria di vertice".  Che contamina e deforma anche il sillabario della vita quotidiana. L'euro, ad esempio, oggi si traduce e si pronuncia "neuro"...

(02 dicembre 2011) © Riproduzione riservat
da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/12/02/news/crisi_n_euro-25969326/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Anche se alza la voce non è più Lega di lotta
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2011, 10:57:25 am
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Il parlamento padano scende in campo e auspica la secessione in stile cecoslovacco.
Ma il Carroccio, ormai partito d'opposizione, non può più permettersi di fare combattere fuori dal parlamento.
E non è un caso che parli di una via consensuale, non rivoluzionaria, all'indipendenza

di ILVO DIAMANTI


IL SEDICENTE - e intermittente - "parlamento padano", riunito da ieri a Vicenza, non ha detto cose nuove rispetto al passato.
Bossi e Calderoli, in particolare, hanno ribadito i principali punti del tradizionale programma della Lega.

A) La secessione, in primo luogo. Proposta in chiave Ceco-Slovacca. Cioè: in modo consensuale. La Padania (non meglio definita: dove comincia e dove finisce?) e l'Italia, cioè Roma e il Sud (anche in questo caso: dove comincia e dove finisce?), dovrebbero negoziare la reciproca indipendenza.

B) Poi, la lotta (e siamo al punto B) a ogni ipotesi di riforma del sistema pensionistico. Un provvedimento contro il quale la Lega ha annunciato una iniziativa referendaria.

C) Sullo sfondo, la polemica contro l'Europa dell'euro. E quindi contro la natura di questo governo. Non votato dal popolo, ma voluto dalle banche e dai banchieri.

Temi e messaggi che hanno marcato, da sempre, l'identità - e il ruolo - di opposizione della Lega. Anche quando - quasi ininterrottamente, negli ultimi dieci anni - la Lega ha governato. Da ciò la prima novità e diversità, rispetto al passato.

Oggi la Lega è davvero all'opposizione. Unica forza politica presente in Parlamento apertamente contraria al governo Monti. Senza se e senza ma. Il che le permette di rimediare, almeno in parte, alle ambiguità degli
ultimi anni. Durante i quali aveva associato un linguaggio di lotta a una posizione - sempre più centrale - nel governo.

Ora, semmai, la Lega ha il problema di far dimenticare che fino a ieri è stata il perno della maggioranza. E, insieme al governo Berlusconi, ha condiviso, seppur con molte reticenze, il pacchetto di misure - imposte dalla Ue e dalla Bce - che ieri Monti e i suoi ministri cosiddetti "tecnici" hanno (ri)presentato. Tuttavia, anche se sta all'opposizione, la Lega non può fare il "partito di lotta". Non se lo può permettere.

1. Anzitutto, perché sono passati gli anni Novanta, quando la parola d'ordine era che l'indipendenza era necessaria, perché in Europa ci poteva entrare la Padania, ma non l'Italia gravata dai debiti. Oggi, invece, in Europa ci siamo. Ed è proprio il "direttorio europeo" a chiedere all'Italia, Padania compresa, di sanare il debito pubblico e di mettere a posto i conti.

2. Poi, ci sono valutazioni di tipo elettorale. La Lega ha ottenuto i suoi maggiori successi a partire dal 2008. Da quando, cioè, è tornata al governo (romano), comportandosi da "sindacalista del Nord". Per trasferire risorse e benefici a favore delle aree e dei gruppi sociali presenti nel Nord. Per primi, gli imprenditori e gli operai delle aree di piccola impresa.

A queste componenti, però, non interessa un soggetto politico "antagonista", che spinga fuori dall'Europa. Semmai il contrario. Tant'è vero che le associazioni di rappresentanza degli imprenditori e dei lavoratori autonomi hanno espresso apertamente il loro malumore verso la (op) posizione leghista. Era già avvenuto in passato, proprio dopo la marcia secessionista del 1996. Quando la Lega era crollata, dal punto di vista elettorale, sotto il 4%, alle Europee del 1999. Difficile che intenda rischiare ancora.

3. Anche perché, inutile nasconderlo, la "Lega di lotta" non c'è più. Oggi è al governo. Alla guida di 2 Regioni, 16 Province, circa 400 Comuni. I suoi uomini stanno dentro ai consigli di amministrazione e negli organismi direttivi di istituti pubblici, finanziari, bancari. E, ancora, negli organigrammi dei mezzi d'informazione. A livello locale, regionale e nazionale. Da "soli contro tutti", chiusi dentro i confini padani, difficilmente potrebbero mantenere tanto potere.

E poi, non è possibile fare i sindacalisti del Nord e la Lega di governo, almeno a livello territoriale, rifiutando il gioco politico "nazionale". Non a caso Cota e Zaia, dopo aver rifiutato di partecipare all'incontro del governo con le Regioni, per la concomitanza con il parlamento del loro partito, hanno chiesto e ottenuto un confronto. (Anche se si sono dovuti "accontentare" del ministro Giarda, al posto di Monti.) Ma Cota e Zaia governano due Regioni italiane, non padane.

4. La Lega di Opposizione, oggi, non è più Lega di lotta. Perché ambisce di tornare al governo. Non della Padania. Ma dell'Italia. Così lancia proposte e iniziative molto meno laceranti del passato. L'indipendenza padana per via negoziale e consensuale. Non per via rivoluzionaria. Ma neppure referendaria. (Si rischierebbe di scoprire che si tratta di un sentimento marginale...).

Il referendum, semmai, lo annuncia contro una legge dello Stato. Seguendo l'esempio di altri partiti su altri temi (la legge elettorale, il nucleare...). L'opposizione della Lega contro il governo, per molti versi, appare meno accesa di quella di altri soggetti economici e sociali. Per prima: la Cgil.

Quando Bossi annuncia (con parole diverse dalle mie) che Maroni incalzerà Monti, attribuisce al più "istituzionale" dei leader leghisti il ruolo di capo dei gruppi parlamentari. Sposta, dunque, in Parlamento il luogo della "lotta".
D'altronde, in questo momento, alla Lega fa comodo stare all'opposizione. Per sanare le sue divisioni interne. Per ritrovare la "spinta propulsiva". Ma, al contempo, si guarda bene dal riproporre la Lega antagonista.

Usa la Padania come un mito, una bandiera. La "secessione" come una prospettiva in-attuale, da perseguire per via contrattuale. Perché teme di venire spinta fuori dal sistema. Ha preso le distanze da Berlusconi e dal Pdl. Per purificarsi. Ma lavora in vista delle prossime elezioni. Anticipate. Al più presto possibile. Da affrontare insieme al Pdl. Perché la solitudine politica, a volte, serve. Ma alla lunga logora. Anche i padani più duri.

(05 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/05/news/mappe_diamanti_lega_lotta-26099699/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le sofferenze di un "cuore rosso"
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2011, 10:53:54 pm
Le sofferenze di un "cuore rosso"

Ilvo DIAMANTI

Ho quasi 50 anni.  Vivo in Val d'Elsa. "Cuore rosso" d'Italia. Sono nato e cresciuto in pieno miracolo economico. Quando questa terra si trasformava a vista d'occhio. Fabbriche e fabbrichette un po' dovunque. Anche se il paesaggio intorno a me era  -  in parte è   -  ancora verde. (Non come in Veneto, dove il cielo quasi non si vede.) Ma il mio cuore era rosso. Senza troppi dubbi. Ero comunista. Iscritto al Pci. Votavo per il Pci. Frequentavo la Casa del Popolo. Ero iscritto all'Arci e alla Cgil. Anche se i miei facevano i commercianti. Gestivano una piccola bottega di alimentari. Ora non c'è più. I miei vecchi sono troppo vecchi per occuparsene ancora. E a noi non interessava. Mio fratello Carlo se n'è andato a Firenze, dopo il matrimonio. È fuggito. Io mi sono laureato in Scienze Politiche e, da vent'anni, insegno al Liceo. A Siena. Vado e vengo. Vengo e vado. In città, ho un appartamento in affitto. Lo uso quando è tempo di scrutini, compiti in classe, ricevimenti. Ma continuo a risiedere in Val d'Elsa, non lontano dai miei genitori. Un po' per assisterli, un po' per pigrizia. Abito per conto mio, da solo. D'altronde, non ho mai retto relazioni troppo impegnative. Con dispiacere dei miei, che avrebbero voluto vedermi sposato e con figli. Però, ogni volta che venivo a casa con qualche ragazza, le facevano la radiografia. Chi sei, cosa fa fai, chi sono e cosa fanno i tuoi? Ma anche: cosa voti, che cosa pensi del governo?  Non avrebbero sopportato, in casa, una democristiana. O una di destra. (Cioè, lo stesso...) Per non dire dei miei nonni. Nonno Mario e nonna Anna, finché sono vissuti, sempre a chiedermi. "Francesco, ma cosa aspetti a trovarti una brava ragazza?". Cioè: seria, laboriosa, che sappia occuparsi della casa, dei figli. E poi: comunista. O almeno: di sinistra. Mio fratello, più giovane di qualche anno, se n'è andato anche per questo. Stanco delle pressioni dei genitori e dei nonni. Stanco di chiedere alle ragazze con cui stringeva una relazione, prima di portarle a casa, da che parte stessero. Politicamente. Stanco di suggerire loro di mentire con i miei, nel caso avessero idee diverse da quelle di famiglia.

Certo, da allora è passata una vita. È cambiato secolo, millennio. È cambiato tutto. Il Pci non c'è più. Quelli che insistono a dirsi Comunisti sono quasi una setta. Non un "partito di popolo", come ai miei tempi. Insieme al muro, sono cadute le bandiere che davano senso alla vita. Alla "mia" vita, almeno. E io, da allora, mi sento confuso. Prima sono diventato Progressista e Pidiessino. Poi Diessino, Ulivista e Democratico. Non è stato facile. Non è facile. Stare insieme ai miei avversari di ieri. I Democristiani. Anche se i peggiori di loro se ne sono andati. Figurarsi: mettersi con i Comunisti. Però un po' di disagio i miei genitori lo provano quando mio fratello viene a trovarli insieme al figlio (Arnaldo). Allora chiedono a loro (e mio) nipote (ventenne) se abbia una ragazza. E timidamente aggiungono... "Com'è?". Cioè, non solo e non tanto di aspetto e carattere. Ma "politicamente". Difficile descrivere il loro disagio, quando mio nipote risponde loro: "Chissenefrega... della politica". D'altronde hanno faticato, molto più di me, ad accettare il cambiamento. Costretti a stare insieme agli "altri". I Democristiani di ieri. A rinunciare alle bandiere. Hanno sofferto. Ho fatto  -  faccio  -  fatica anch'io.

Però ci ha aiutato Berlusconi. A spiegarci che noi esistiamo ancora. A dividere il mondo in due. Lui e i suoi, da una parte. E i Comunisti, dall'altra. Ci ha aiutato molto. Ci ha dato un senso. Mi ha messo d'accordo con la mia biografia. Per questo ora sto male. Ora che Berlusconi è uscito di scena. O almeno, si è spostato nel retroscena. Al momento, ho gioito. Non mi pareva vero. Ma ho sentito subito un vuoto. Non è che ne abbia nostalgia. Ci mancherebbe. Ma mi manca il mio cuore rosso. Mi manca la bandiera. Mi mancano i confini. Stare con i democristiani di sinistra: passi. Almeno sono, erano: di sinistra. Ma stare con Berlusconi e, peggio, con Cicchitto, Gasparri, Sacconi, La Russa. Con i democristiani, i fascisti e i forzisti  di ieri. In Italia e in Val d'Elsa. Quelli che oggi sostengono il governo insieme a noi. Mi disorienta. Mi fa stare male. Monti mi ha liberato da Berlusconi, almeno per ora. Ma mi ha costretto a stare insieme a lui e ai suoi. Al Cavaliere e ai suoi servi. Contestato, per questo dai "compagni" che insistono a dirsi "Comunisti" e perfino dai dipietristi. Mi ha costretto al silenzio, massimo: al mugugno, di fronte alla riforma delle pensioni, senza un accenno di patrimoniale.  Monti. Mi ha liberato  -  e ha liberato i teleschermi - da Berlusconi e dai suoi servi. Ma  poi si è presentato da Vespa, "faccia a faccia", anzi: "porta a porta". A spiegarci il suo "contratto con gli italiani". Come Berlusconi 10 anni fa. Con la differenza, rispetto ad allora, che questo verrà rispettato. Purtroppo. Senza che noi lo si possa impugnare né strappare.

Così oggi me ne sto in mezzo. Come la mia Val d'Elsa. Stretta e costretta fra il Nord forza-leghista e Roma.
Il mio "cuore rosso" ha perduto troppo sangue. Quasi non batte più.
 

(09 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2011/12/09/news/le_sofferenze_di_un_cuore_rosso-26348221/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'Italia sfiducia i Tg Rai-Set e cerca libertà su internet
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2011, 06:16:41 pm
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L'Italia sfiducia i Tg Rai-Set e cerca libertà su internet

Sempre più si cerca un'informazione indipendente. I tg della tv pubblica e quelli di Mediaset perdono audience. A vantaggio del web.

Ecco il sondaggio Demos-Coop sul gradimento dei media

di ILVO DIAMANTI

DOMANI il Cda della Rai si riunirà in seduta straordinaria. All'ordine del giorno: l'avvicendamento (anticipato) di Augusto Minzolini alla direzione del Tg1. Rinviato a giudizio per peculato, a causa delle spese sostenute con la carta di credito aziendale. Un motivo, per la verità, strumentale. La ragioni vere, infatti, sono altre. Una fra tutte: la fine della stagione governata da Berlusconi, contrassegnata dall'intreccio fra televisione, politica e affari. Che ha tradotto il duopolio Rai-Mediaset nel monopolio MediaRai (o RaiSet, secondo i punti di vista). Così il Tg1, da organo istituzionale, attento agli equilibri politici, si è trasformato nel portavoce del governo. Meglio: del suo premier. Con effetti sensibili: sul piano degli ascolti (penalizzati anche per altri motivi), ma, soprattutto, della "in-credibilità".

Una tendenza confermata dal sondaggio dall'Osservatorio di Demos-Coop pubblicato oggi. La fiducia nel Tg1, presso il pubblico, infatti, oggi si ferma al 50 per cento: 3 punti in meno di un anno fa. Ma nel 2007 (direttore Gianni Riotta) il Tg1 era considerato affidabile dal 69% degli italiani (intervistati). Lo stesso livello, più o meno, del 2002. Insomma: un crollo. Subìto in meno di tre anni. Lo affianca il Tg5, il cui grado di fiducia è intorno al 49%. Cioè: 11 punti in meno del 2007. Il declino della fiducia accomuna, dunque, gli emblemi dell'informazione a reti unificate. Sensibile agli interessi politici (e non solo) del governo.
Colpisce, soprattutto, il Tg1. Pubblico, istituzionale. Tradizionalmente prudente e, comunque, non "fazioso".

Nel 2007 appariva saldamente ancorato al "centro". I suoi estimatori si dividevano equamente tra elettori di maggioranza e opposizione. In seguito è scivolato a centrodestra (oggi: 20 punti sopra il centrosinistra). Ha "tradito" la sua missione. Anche per questo il Tg1 è stato largamente superato, negli indici di fiducia, dal Tg3 (il più apprezzato) e perfino dal Tg2, i cui "pubblici" sono politicamente coerenti con l'identità dei notiziari. La performance più rilevante, però, è stata realizzata dal Tg di La7.

Enrico Mentana ne ha fatto un notiziario prevalentemente dedito alla politica, quando gli altri imboccavano la strada della cronaca, soprattutto nera. Per evitare argomenti scomodi (la crisi economica, soprattutto). Inoltre, ha fatto informazione critica. Così, ha conquistato la fiducia del 52% degli italiani: 6 punti in più dell'anno scorso, ma 17 più del 2007. Ha intercettato un pubblico soprattutto di centrosinistra, imponendosi come una sorta di Tg di "opposizione", quando l'opposizione politica appariva afona.

Un marchio condiviso dall'intera rete, con esiti vantaggiosi. "L'Infedele", di Gad Lerner, è infatti il programma di approfondimento e dibattito politico che guadagna maggiormente negli ultimi anni. Oggi si attesta al 39%: 6 punti in più dell'anno scorso, ma 13 rispetto al 2007. Anche "Otto e mezzo", condotto da Lilli Gruber, ha consolidato i consensi dell'anno scorso: 35%. Cioè 10 punti in più del 2007, quand'era diretto da Giuliano Ferrara, meno affine all'orientamento politico del pubblico. Il canale di riferimento per i programmi di dibattito politico e di inchiesta, tuttavia, resta la Terza rete. "Ballarò", condotto da Giovanni Floris, continua a primeggiare largamente (55% di fiducia). Seguito da "Report", di Milena Gabanelli (48%). Mentre "Porta a Porta", di Bruno Vespa, e "Matrix", di Alessio Vinci, collocati in seconda serata, stazionano più in basso intorno al 40%. Sostanzialmente stabili rispetto al 2010.

Lo stesso grado di fiducia attribuito a "Servizio Pubblico", il nuovo programma di Michele Santoro. Una base di credito molto ampia per un programma "senza rete" (di riferimento), dopo l'uscita (allontanamento?) da Rai 2. Infine, resta alto il livello di gradimento e affidabilità riconosciuto ai pop-talk e ai programmi di satira. "Striscia la Notizia", "Che tempo che fa", "Le Iene". Ma anche "Italialand".

In generale, l'evoluzione del rapporto fra società e informazione, proposta dall'Osservatorio Demos-Coop, mostra alcune tendenze piuttosto chiare.

1. La perdita di spazio della radio ma soprattutto dei giornali in edizione cartacea. Compensata dal ruolo assunto da internet, di cui si serve, quotidianamente, il 39% degli italiani (4 anni fa erano il 25%). Contribuiscono, a questo orientamento, i blog specializzati, ma soprattutto le edizioni online dei quotidiani che dispongono di un pubblico, in parte, specifico rispetto alle edizioni cartacee.

2. L'informazione via internet, peraltro, è ritenuta dagli italiani la più libera e, quindi, la più credibile.

3. L'affermarsi dei canali di informazione continua. Diffusi, fino a ieri, dalle reti satellitari, oggi anche da quelle digitali. È il caso di Sky Tg24 (la più equilibrata, per orientamento politico del pubblico). Ma anche di RaiNews 24. Queste reti godono di un grado di fiducia elevato, se si tiene conto dell'ampia quota di persone che ancora non le conoscono. E dispongono, inoltre, di un pubblico competente.

4. Il principale canale di informazione resta, tuttavia, la televisione, a cui accede, ogni giorno, l'84% della popolazione. Gli italiani, dunque, si fidano poco della tv e per questo, ricorrono ad altri media e altri canali. Quasi tutti, però, continuano a "consultarla". Oltre un quarto di essi, peraltro, si informa "solo" attraverso la tv. Si tratta, per lo più, di donne, anziani, pensionati, con livello di istruzione e ceto sociale medio basso. Queste persone trascorrono davanti allo schermo oltre 4 ore della loro giornata. Oltre ai tg, seguono assiduamente i programmi pomeridiani, che ricostruiscono la "vita" e, soprattutto, la morte "in diretta". Sono politicamente incerti, distaccati. E per questo, strategici dal punto di vista elettorale.

La televisione resta, dunque, uno spazio importante per la formazione dell'opinione pubblica. Nonostante 4 persone su 5 non la ritengano uno spazio "libero e indipendente". E quasi 3 su 4 dubitino che la fine del governo Berlusconi restituisca un sistema radiotelevisivo più aperto e trasparente. Gli italiani, cioè, dubitano che il "berlusconismo" sia davvero finito. Uno scetticismo fondato. Se si pensa all'assegnazione "gratuita" (e senza gara di appalto) a Rai e Mediaset delle nuove frequenze digitali, prevista dal precedente governo. Una scelta che, se confermata, rafforzerebbe il monopolio MediaRai. E indebolirebbe ancora la fiducia nel sistema radiotelevisivo. Questo squilibrio: rende in-credibile l'informazione del servizio pubblico. Va risolto in fretta.

(12 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/12/news/informazione_reti_unificate-26456246/?ref=HREC1-4


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'aristocrazia democratica tra limiti e virtù
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2011, 04:51:58 pm
L'aristocrazia democratica tra limiti e virtù

di ILVO DIAMANTI


QUESTA manovra non piace agli italiani, ma la fiducia nel governo  -  e soprattutto nel premier - resta ancora alta. È ciò che emerge dai sondaggi condotti dai principali istituti demoscopici in questa fase. La manovra appare poco equa, per non dire iniqua, alla maggioranza della popolazione.

Nell'insieme ma anche nel dettaglio: considerando i singoli provvedimenti. Soprattutto quelli che riguardano le pensioni, l'aumento dell'Iva e l'Irpef. Nel complesso: troppe tasse e pochi interventi che favoriscano la crescita. Le liberalizzazioni, la patrimoniale; anche gli interventi sui costi della politica e dei politici: rinviati a un secondo momento. Con il dubbio che il rinvio divenga permanente. Come altre volte  -  troppe volte  -  è già successo, in passato.

Nonostante tutto, però, la fiducia nel "governo dei tecnici", fra i cittadini, è ancora molto elevata. Intorno al 50%, se si rilevano solo i giudizi più positivi (come fa l'Ispo di Mannheimer). Superiore al 60% se si calcolano anche le valutazioni comunque "sufficienti" (secondo le stime dell'Ipsos di Pagnoncelli). La fiducia "personale" nei confronti del presidente del Consiglio, peraltro, risulta ancora superiore, di quasi 10 punti percentuali. Certo: rispetto ai giorni della fiducia al governo l'indice di soddisfazione è sceso. Ma il sentimento sociale, allora, era condizionato dal timore  -  per certi versi, dal panico  -  suscitato dai mercati. Dall'impotenza dimostrata dal governo Berlusconi, che ne avevano accentuato ulteriormente l'impopolarità. Ora le paure persistono. E, in aggiunta, è stata varata una manovra "costosa", sul piano sociale. Discutibile e discussa. Accolta dalle proteste del sindacato. Dall'opposizione della Lega e dell'Idv. Sostenuta dal Pd e ancor più dal Pdl con molte riserve. Senza che la credibilità del governo e di Monti sia stata compromessa. Anzi.

Provo a indicare alcuni motivi di questo contrasto.

1. C'è, anzitutto, la percezione del "male necessario". La manovra non piace, ma i mercati  -  meglio: i Mercati  -  e i governi europei più influenti (Bce compresa) la chiedono.
Anzi, la esigono. Va inghiottita come una medicina amara. Poi, prevale fra i cittadini il sentimento del "sacrificio finalizzato". Come negli anni Novanta, quando gli italiani pagarono, senza lamentarsi troppo, finanziarie onerosissime. Per non essere esclusi dalla Ue. Per entrare nell'Unione monetaria. Amato e Ciampi, "responsabili" di quelle manovre, non vennero sfiduciati dai cittadini. Perché erano ritenuti "credibili". Come Monti e i suoi "tecnici", oggi.

2. È questo il secondo motivo. La "credibilità" riconosciuta a persone ritenute in grado di mettere gli interessi del Paese davanti ai propri e a quelli di partito. In grado, anche per questo, di riqualificare l'immagine dell'Italia  -  e degli italiani  -  in Europa (e non solo). Deteriorata fino alla caricatura dall'esperienza precedente.

3. La "credibilità" dei tecnici al governo è enfatizzata dal confronto con i soliti noti. Quelli che governavano prima. Quelli che stanno in Parlamento. I "politici". Mai tanto impopolari come oggi. Il clima antipolitico che pervade il nostro tempo ha agito, cioè, da fattore favorevole per il governo Monti. Gli stessi limiti delle scelte effettuate da questo governo, le marce indietro, i compromessi: vengono imputati ai "politici". Ai partiti e alle lobbies, che legano le mani ai professori. Le resistenze del Parlamento nei confronti del taglio dei vitalizi sono interpretate come un'ulteriore conferma del paradigma antipolitico. Hanno fatto della "casta" il capro espiatorio ideale della frustrazione sociale. Così, mentre la fiducia nel governo resta molto alta, la credibilità dei partiti è scesa ulteriormente. Ai minimi storici. Le stime elettorali, non a caso, premiano ancora il Pd, ritenuto il partito più "coerente" con l'esperienza del governo. Ma registrano anche la tenuta della Lega e dell'Idv: collettori del malumore sociale. A cui sarebbe difficile, però, affidare la missione "costruttiva" di guidare il Paese.

4. Il dibattito parlamentare sulla manovra ha allargato il contrasto fra tecnici e politici, agli occhi dei cittadini. L'immagine del ministro Giarda che legge la dichiarazione del governo, basito e attonito, di fronte a un Parlamento ridotto a una bolgia dalla plateale protesta leghista, è emblematica. Come la replica, pedante e puntigliosa, di Monti. Indisponibile a sentirsi definire "disperato". E impotente, come chi lo ha preceduto. Questione di stile. Ma anche di sostanza. In tempi dominati dalla "politica pop", dove per anni - e da anni - i politici hanno inseguito gli umori sociali, riproducendone vizi e debolezze, in modo iperbolico. Il governo "tecnico" appare, invece, un'icona della "normalità". Dove governano persone grigie (anche quando vanno in tivù). Ma competenti. Più di noi. (Altrimenti perché ci dovrebbero governare?).

Da ciò il paradosso di un governo che, per ora, non paga il prezzo "politico" delle sue scelte "politiche". Perché non sono considerate "politiche". Ma "tecniche". E dunque: ineluttabili. Semmai, condizionate dai "politici". Un governo "premiato" dalla differenza rispetto agli uomini politici e di governo del passato recente. Reclutati in base alla fedeltà. Titolari, agli occhi dei cittadini, di privilegi immeritati. (Se non sono migliori di noi, perché mai dovrebbero godere di trattamenti particolari?)

Naturalmente, questo "stato di emergenza" non può durare all'infinito. Questo governo, composto da tecnici, non potrà "scaricare" a lungo sul Parlamento e sui partiti l'insoddisfazione sociale sollevata dalle conseguenze della crisi. Né la frustrazione prodotta dalle politiche economiche e fiscali. Inoltre, difficilmente potrà promuovere interventi a favore della crescita e delle liberalizzazioni, senza il sostegno del Parlamento e dei partiti. Particolarmente sensibili agli interessi e alle pressioni di categorie sociali grandi ma anche piccole. Per la stessa ragione, gli riuscirà difficile realizzare, se non riforme istituzionali, almeno quella elettorale. Necessaria per restituire ai cittadini un maggiore controllo sugli eletti.
Questa sorta di "aristocrazia democratica". Non può durare all'infinito. Ma può servire. Non solo ad affrontare l'emergenza economica. Ma a restituire fiducia e dignità alle istituzioni.

A rivalutare la competenza, i comportamenti, la credibilità, lo stile come virtù democratiche. E non come meri accessori "tecnici". Di secondaria importanza per la politica e il governo.

(19 dicembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/19/news/aristocrazia_democratica_diamanti-26847173/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Tanti auguri da un "tardivo digitale"
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2012, 11:51:08 am
Bussole

Ilvo DIAMANTI

Tanti auguri da un "tardivo digitale"

Durante queste festività ho ricevuto meno messaggi augurali, rispetto agli ultimi anni. Quasi metà, in confronto all'anno scorso.
Alla ricerca di spiegazioni accettabili, ho escluso subito che possa trattarsi di ragioni che mi riguardano direttamente.
La mia rete di relazioni  -  pubbliche e private  -  è la stessa degli ultimi anni.

Ho pensato, allora, che si stia consumando, rapidamente, la "fine degli auguri". Coerente con la nostra era secolarizzata, senza santi e senza sacro. Ma si tratta di una tendenza in atto da tempo. Perché mai dovrebbe produrre questi effetti proprio ora? Stessa obiezione all'ipotesi che il rito degli "auguri" sia frustrato dalla paura del futuro. L'anno appena iniziato, d'altronde, non promette niente di buono: Ma lo scenario degli ultimi due anni non era molto più rassicurante. E allora perché questo calo improvviso?

Ho trovato una spiegazione più plausibile guardando chi mi sta intorno, per primi i miei figli, "nativi digitali". Protesi a tempo pieno sul loro smartphone. Da ciò l'idea. Che il problema non sia il clima del tempo, sempre più cupo. Né l'esaurirsi della mia, personale, rete di relazioni. Ma il "medium". Il canale attraverso cui corrono gli auguri.

Non mi riferisco agli auguri per via postale. Ormai sono quasi estinti. Li inviano, perlopiù, soggetti e figure istituzionali.
Oltre a qualche persona che dà ancora significato e importanza al messaggio scritto e firmato "a mano". O, ancora, li inviano gli amici artisti, che incidono e imprimono carte raffinate, in poche copie numerate. In effetti, io li apprezzo entrambi. Molto. (Anche se, per pigrizia o per mancanza di tempo, spesso non riesco a ricambiare gli auguri. Tanto meno con biglietti all'altezza.)

Ma si tratta, appunto, di residui del passato. Icone di un'epoca trascorsa, riprodotte da pochi sopravvissuti. Che non si rassegnano ai linguaggi e ai media del tempo.

La gran parte degli auguri, invece, io li invio - e ricevo - via sms ed email. E sconto i problemi, che ho segnalato in altre occasioni. Gli auguri via email sono standardizzati, visto che vengono inviati a mailing list ampie e spesso indifferenziate. Dove coabitano persone affini e diverse. Così, paghi uno e compri 10, 100, 1000. È un meccanismo a palla di neve, che si srotola e rotola. A valanga. Perché ciascuno dei destinatari può reinviare il messaggio  -  spesso una cartolina online, rutilante di colori e di luci - a tutti. Con un clic. Così gli auguri arrivano in fretta dovunque e a chiunque. Come una circolare di servizio, un invito a dibattiti, convegni, spettacoli. In questo modo, ovviamente, si perdono le relazioni ma anche le attenzioni "personali".

Diverso è il discorso degli sms. Anch'essi strumenti standard, inviati spesso ai destinatari in agenda. Un clic e arrivi dappertutto, in un istante. Però gli sms permettono di personalizzare i messaggi  -  anche quelli standard. Basta cambiare di volta in volta il nome, nel testo augurale- Seguendo l'esempio nelle lettere "stampate", dove si scrivono "a mano" il nome del destinatario e la firma.
Così l'sms diventa (quasi) equivalente a una chiamata diretta. Un messaggio "dedicato", dove c'è il "tuo" nome ("Caro Ilvo, tanti auguri..).

Per chiarire che quel messaggio è destinato proprio "a te". A fine sms, la firma di chi l'ha inviato, limitata al solo nome. Così è più diretto, familiare.

Il problema è che, a volte, quel nome non richiama "una" persona nota. Magari, anzi, certamente, lo è. Si tratta di un conoscente che incontri spesso. Un compagno di viaggio o di lavoro. Ma tu hai cambiato cellulare  -  perché hai perduto quello precedente, oppure si è scassato. E non hai salvato l'agenda. Per cui non riconosci il numero. Io, comunque, mi sono trovato di fronte a 3-4 casi di "amici" ignoti. "Un abbraccio e tanti auguri. Roberto". Roberto chi? Ne conosco 5 o 6. E ancora: Filippo, Lucio, Massimo, Giorgio. Chi saranno? Certo, nel dubbio, rispondo subito: "Un affettuoso augurio anche a te, Roberto, , Luca, Paolo... carissimo. A presto. Ilvo". Però l'incertezza resta. E mi rode.

Tuttavia, quest'anno questi casi si sono rarefatti. Insieme agli auguri via sms - dimezzati. Mentre quelli via email sono quasi scomparsi. Come i biglietti postali.

Non per colpa della mia improvvisa impopolarità, né del pessimismo del tempo. Ma per cause di tipo "tecnologico". Perché le email e gli stessi sms sono metodi desueti. Invecchiati in fretta, da un giorno all'altro. Oggi si comunica con Facebook e Twitter. Che permettono di "personalizzare" i messaggi. Perché ti presenti con il tuo profilo. E puoi "postare" foto, video e impressioni da condividere con i "tuoi" amici. In diretta. Oppure "twittare" in un'agorà a cui molti, moltissimi  -  amici e non - hanno accesso immediato. Si è sempre connessi, sempre in contatto. Non c'è bisogno di auguri "dedicati" e inviati a persone specifiche. Fai gli auguri a tutti gli amici e conoscenti in una volta sola. Nella tua pagina. E gli altri ricambiano. Con lo stesso mezzo e allo stesso modo.

Si tratta di una svolta in rapida e continua progressione. Favorita e, anzi, trainata dai nuovi strumenti tecnologici di comunicazione inter-personale. Gli smartphone, i tablet che permettono di accedere direttamente alla propria pagina sui Social Network. Io dispongo di entrambi  -  tablet e smartphone. Oltre che di alcuni PC  -  desktop e portatili. Ma non utilizzo i Social Network. Non per paura o per diffidenza. Ma per prudenza. E per timore. Perché sono "cronofagi" e "cronovori". Divorano tempo. Io ne ho poco. Sempre meno. Anzi, non ne ho più. E non uso le segretarie per sbrigare la corrispondenza. Per comunicare con amici e conoscenti. Me ne occupo da solo. E quando vedo i miei figli eternamente connessi, impegnati a dialogare a tempo pieno e a flusso continuo con non so chi, di qua e di là dell'oceano, su FB, mi passa la voglia.

È certamente per questo che ho ricevuto meno auguri dell'anno scorso. Meno auguri dei miei figli. Per lo stesso motivo l'anno prossimo ne riceverò anche meno. È che sono "tecnologicamente" meno aggiornato. Anzi, attardato. Perfino arretrato. In altri termini: sono più vecchio. Destinato a invecchiare rapidamente. Perché non sono un "nativo digitale". Semmai: un "tardivo digitale". Destinato, in pochi anni, a restare escluso dal rito degli auguri. Eppure, lo confesso, l'idea non mi inquieta. E neppure mi dispiace troppo. Me ne farò una ragione.
 

(03 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/01/03/news/tanti_auguri_da_un_tardivo_digitale-27522937/


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'arcipelago della Lega nell'orbita di Berlusconi
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2012, 03:51:28 pm
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L'arcipelago della Lega nell'orbita di Berlusconi

La leadership del Carroccio costretta a reinventarsi dopo più di un decennio di stretta alleanza con il Cavaliere.

Così si spiega la libertà di coscienza lasciata sul caso Cosentino.

Ma anche le difficoltà del gruppo dirigente a tornare forza di lotta e non di governo

di ILVO DIAMANTI


La Lega è sempre stata abile ad agitare la bandiera del governo e dell'opposizione, al tempo stesso. Ne ha fatto un fattore di successo.
Ma ora che dal governo è passata all'opposizione sembra soffrire. Costretta a recitare una parte cui non è abituata. Che non le è più congeniale.

Anche per questo l'insofferenza del gruppo vicino a Bossi  -  o che se ne fa scudo, per promuovere i propri interessi - è esplosa, nel corso dell'ultima settimana. Contro Roberto Maroni, il leader che ha spinto il partito lungo la strada  dell'opposizione. "La Lega: unica opposizione al governo Monti", come ha scandito lo stesso ieri sera a Che tempo che fa 1.

Al governo, ma anche al Pdl. E, ovviamente, a Berlusconi. Che è lo stesso. Certo, il tentativo di emarginare Maroni dal partito  -  in pratica: di metterlo fuori  -  impedendogli di partecipare a incontri e iniziative sul territorio risponde anche alla "guerra di successione". Che nella Lega, oggi, appare più aspra rispetto a quella di "secessione".

Tuttavia, il problema principale del Carroccio, in questa fase, è di tipo politico piuttosto che personale. Come tornare alla "lotta" dopo tanti anni di  "governo"? Con un gruppo dirigente  -  centrale e locale  -  che non vi è più abituato? Come riscoprirsi anti-berlusconiani, dopo tredici anni di fedele alleanza con Berlusconi? A una parte significativa del gruppo dirigente leghista, infatti, la strategia di opposizione risulta sopportabile finché viene esercitata contro il governo tecnico. E il suo sponsor: il Presidente della Repubblica. Finché non entra in collisione con Berlusconi e il Pdl. In modo diretto.

Votare contro la manovra finanziaria e contro le politiche del governo, d'altronde, non produce effetti concreti. La maggioranza parlamentare di cui dispone il governo tecnico è larga. Non solo: la Lega fa apertamente quel che molti parlamentari ed elettori del Pdl pensano oppure dicono, senza poter far seguire i fatti alle parole.   

Ma il discorso cambia sostanzialmente quando entrano in gioco gli interessi diretti di Berlusconi e della sua cerchia di fedeli. Come nel caso di Cosentino. Allora la scelta della Lega e di Maroni di fare opposizione "sul serio" diventa lacerante. E insostenibile. Non solo per Berlusconi, ma anche per una parte della Lega. Da ciò il dietrofront di Bossi, costretto dal Cavaliere a cambiare posizione, lasciando "libertà di coscienza" ai leghisti in occasione del voto in Parlamento. Cioè: permettendo  -  e indicando  -  loro di agire diversamente dalla linea imposta da Maroni in Commissione.

Per spiegare questo rovesciamento di atteggiamento si è evocata la capacità di "ricatto" esercitata da Berlusconi nei confronti di Bossi. Tuttavia, non c'è bisogno di richiamare pressioni e interessi personali per spiegare il sostegno di Bossi e di una parte dei parlamentari leghisti alle richieste di Berlusconi. Il fatto è che la Lega appare, da tempo, un'isola dell'arcipelago berlusconiano. La corrente nordista e antistatalista del forza-leghismo (come lo definì Edmondo Berselli).

Un partito che, negli ultimi anni, ha puntato sulla polemica anti-europea e, soprattutto, sulla questione della sicurezza e dell'immigrazione. Riuscendo a crescere molto e in fretta, dal punto di vista elettorale e istituzionale. È la  "terza ondata" (come l'ha definita Roberto Biorcio), durante la quale la Lega, attestata intorno al 4% nel 2006, ha scavalcato l'8% alle politiche del 2008, il 10 %, alle europee del 2009 e il 12% alle regionali del 2010.

Di conseguenza, la Lega si è inserita  -  in modo ampio e rapido  -   nei luoghi di governo, a livello locale e centrale. Ma anche nei consigli  di amministrazione e nelle direzioni di enti statali e locali, fondazioni bancarie, aziende a partecipazione pubblica. È, così, cresciuto un "ceto politico" leghista meno sensibile al richiamo dell'identità e dei valori. E più attento alla logica degli interessi.

Tanto che Maroni, ieri sera, a Fabio Fazio che gli chiedeva quale idea ispirasse la sua azione, ha evocato "la Lega degli onesti". Contrapposta alla "Lega degli intrallazzi e dei conti all'estero". Quella attuale, insomma. Corrotta dal potere.

È, tuttavia, difficile rassegnarsi all'opposizione per un partito che si è insediato  -  e abituato  -  al governo, in molte parti del Nord  -  e ora anche in alcune zone del Centro. È, quindi, difficile, rompere con il Pdl. Con cui è alleata da 13 anni. Senza perdere capacità competitiva alle elezioni. A partire dalle prossime elezioni amministrative (parziali) di primavera. Alle quali, secondo Maroni, (lo ha sostenuto ieri sera da Fazio) la Lega dovrebbe correre da sola. Coerentemente con la sua attuale posizione  politica.

La "terza ondata" ha, dunque, allargato le distanze fra elettori, militanti e dirigenti. Ha favorito il coesistere di un linguaggio di opposizione con  le pratiche di (sotto)governo. Ha, inoltre, reso inattuale e inadeguato il modello carismatico di massa, su cui il partito si è retto fin dalle origini.

Perché il leader storico, Umberto Bossi, stenta ormai a suscitare passione e identificazione personale. La sua malattia gli rende più difficile comunicare. Tanto  più controllare l'organizzazione del partito. Il suo carisma non è più indiscusso né indiscutibile, come un tempo. La sua dipendenza dalla cerchia di politici e familiari che lo circonda appare evidente. E ne indebolisce l'immagine. Mentre è cresciuta la popolarità di Roberto Maroni. (Tanto più dopo l'operazione censoria, di questi giorni.) Anche se non al punto di oscurare l'immagine del Capo.

Dai sondaggi di Demos (giugno-novembre 2011) emerge , infatti, come, il leader preferito, per il 33% degli elettori leghisti, sia Umberto Bossi, per il 29% Roberto Maroni. Tutti gli altri leader, praticamente, non contano. (Calderoli, Zaia, Cota e Salvini ottengono, ciascuno, circa il 3% di preferenze). Da ciò l'impossibilità di imporre "una" leadership.

Così, al gruppo degli amici e dei familiari di Bossi non è possibile emarginare Maroni, come si è visto in questa occasione. Ma è difficile anche per Maroni subentrare a Bossi, senza il sostegno di Bossi  -  o, peggio, contro di lui. D'altronde, gran parte dei sostenitori di Maroni (9 su 10) nutre fiducia in Bossi. Una conferma, come ha osservato ieri Gad Lerner su questo giornale, che si tratta di due figure non alternative e competitive, ma complementari. Il populista e il governativo. Costretti a recitare in ruoli innaturali e contraddittori.

Bossi, la maschera "populista", recita la parte del partner fedele e leale di Berlusconi. Verso cui è cresciuta l'insofferenza dei militanti. Mentre Maroni, il "governativo", recita la parte di leader della "Lega d'opposizione"  -  e, soprattutto, "di lotta".

È francamente difficile immaginare che orientamenti, componenti, leader così diversi e contrastanti possano coesistere  -  ancora a lungo  -   in queste condizioni. Sotto lo stesso tetto.

(16 gennaio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/16/news/arcipelago_lega-28197969/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Giovani senza luogo e senza età
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2012, 10:14:21 am
Giovani senza luogo e senza età

Ilvo DIAMANTI

I giovani sono la categoria sociale più definita e per questo più in-definita del nostro tempo. Oggetto di una molteplicità di tentativi di catturarli con una formula, una parola, un titolo. E quindi oscurati da una nebbia lessicale e semantica. Io stesso ho partecipato a questo inseguimento, nel passato più o meno recente. Ma ora tutte le definizioni, tutte le formule, tutte le parole, tutti i titoli vertono su un solo aspetto: il lavoro, o meglio, il non-lavoro. E sulla variante della precarietà. D'altronde, l'Istat stima oltre il 30% il tasso di disoccupazione giovanile (che sale al 50% nel Mezzogiorno). Il più alto dell'Eurozona. Le statistiche ufficiali, inoltre, valutano il peso dei lavoratori atipici e irregolari oltre il 30% tra i giovani (e intorno al 15% nella popolazione). Anche se aggiungono - nell'ultimo anno pare che, in Italia, anche il lavoro atipico sia diminuito. E non è una buona notizia, ma il segno - e la conseguenza - della crisi, che sta riducendo l'occupazione di tutti i generi: formale o informale, stabile o flessibile, tipica o atipica che sia.

Per questo, il fenomeno più adatto a raffigurare la posizione dei giovani del nostro tempo, probabilmente, è quello dei "Neet" (l'acronimo che riassume la definizione inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che "non" lavorano e "non" studiano. E non sono neppure impegnati attività di "formazione" e "apprendistato". Una sorta di  generazione "non". Priva, per questo, di identità. Perché se "non" sei studente e neppure lavoratore, semplicemente, "non" esisti. Resti sospeso nell'ombra. Senza presente né futuro.

Ebbene, i giovani (tra 15 e 29 anni) che si trovano in questa posizione - ambigua e periferica - sono oltre 2 milioni e 200 mila. Il 22%. Pesano particolarmente fra le donne e nel Sud. Ma disegnamo, comunque, un'area multiforme, per profilo socio grafico e motivazionale. Dove coabitano diverse componenti. Soprattutto e anzitutto, giovani "costretti" a restare sulla soglia, in bilico. Perché hanno concluso gli studi e non trovano un lavoro, neppure precario. Giovani che hanno perduto il lavoro  -  più o meno precario  -  e non ne trovano un altro  -  né tipico né atipico. Ma anche giovani che, finiti gli studi, preferiscono guardarsi intorno  -  fare esperienze, viaggiare, fermarsi a pensare - prima di entrare nel mercato del lavoro. Prima, magari, di ri-entrare nel sistema formativo. E altri ancora che preferiscono fermarsi  -  almeno per un poco. In attesa  -  e nella speranza - che qualcosa cambi. Visto che l'offerta del "mercato" non li soddisfa nemmeno un poco. Anzi...

È la generazione del "non". Una "non" generazione. (Ma per carità, non usatela come un'altra definizione. È una "non" definizione). Una generazione "accantonata", provvisoriamente, dagli adulti che non sanno come comportarsi con i giovani. I loro figli. Per quanto possibile, li tutelano e li proteggono. E, al tempo stesso, li controllano, frenano la loro voglia di rendersi autonomi. È una generazione di giovani che faticano a crescere. Perché gli adulti e gli anziani (ammesso che qualcuno sia ancora disposto a dichiararsi tale) li vogliono così: eterni adolescenti. E i giovani - una parte di loro, almeno - si adeguano a questo status. A questo limbo. A questa in-definitezza. Così, un giorno, davanti allo specchio, rischiano di scoprirsi già vecchi.

O meglio: anziani.
Pardon: senza età.
Sospesi. In un tempo senza tempo e in un luogo senza luogo.

Questa Bussola, con qualche variazione, è stata scritta per "UniurbPost" (numero otto, gennaio 2012), magazine online d'Ateneo dell'Università di Urbino "Carlo Bo"

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/01/20/news/giovani_senza_luogo_e_senza_et-28479606/


Titolo: ILVO DIAMANTI - I padroncini della mobilità
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2012, 10:13:00 am
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I padroncini della mobilità

di ILVO DIAMANTI


È INQUIETANTE, ma anche significativa, la condizione di questo Paese, in questo momento. Paralizzato, letteralmente. Città e autostrade, inagibili. Bloccate dalla protesta dei tassisti e dei camionisti. È significativa del paradosso in cui viviamo. Noi, cittadini globali di un mondo globalizzato, dove le distanze spazio temporali sono vanificate, perché avvengono per via "immateriale". Attraverso la Rete, la comunicazione internautica, satellitare, digitale.

Mentre il movimento delle persone   -  da casa al lavoro, scuola, alla palestra, al cinema (e viceversa)  -  avviene su strade, autostrade, rotaie: vie assolutamente "materiali". Che è facile bloccare, interrompere, ostruire. Con conseguenze devastanti in un Paese, l'Italia, divenuto ormai una grande unica conurbazione. Una grande azienda diffusa, sparsa in larghe aree del Centro e del Nord. Ma anche nel Sud. Un Paese difficile da attraversare, perché occupato, per larghi tratti, da catene montuose. E perché le politiche, almeno fino agli anni Settanta, hanno badato agli interessi dell'industria dell'auto e del trasporto privato assai più che a quelli pubblici. Per questo oggi è divenuta strategica la questione della "mobilità" (come ha osservato, già alcuni giorni fa, Gigi Riva sul "Piccolo"). O, forse dell'im-mobilità. Per questo è difficile capire e adattarsi, molto più di ieri. Perché, nel frattempo, ci siamo abituati a vivere e convivere
con le tecnologie della comunicazione.

Per primi i giovani e le persone più istruite. Ma, progressivamente e rapidamente, anche gli altri. Perché tutti ormai hanno e usano un cellulare, mentre gran parte della popolazione ha un computer e comunica in rete. E molti, moltissimi, vivono in simbiosi con l'iPhone e l'iPad. Stanno in contatto fra loro attraverso i Social Network, esternano il loro pensiero mediante Twitter. Le aziende operano in rete. Così gli enti pubblici, le scuole. Produttori e clienti, professori, studenti e famiglie. In rete. Tutti in movimento, pur restando fermi. E tutti in relazione, pur restando soli. Per questo la protesta dei tassisti e degli autotrasportatori ci ha colti impreparati. Perché, appunto, non ce l'aspettavamo. Di essere vincolati in modo così stretto dalla nostra dimensione fisica. Materiale. Dalle autostrade piuttosto che dalle infostrade. Dalle vie urbane piuttosto che da quelle digitali. Dai tassisti invece che dagli hacker. Non ce l'aspettavamo di venir bloccati a casa o per strada e di scoprirci fermi. Noi che ci immaginiamo sempre in viaggio e sempre insieme agli altri.

È, dunque, un problema di dissonanza cognitiva a rendere difficile comprendere e accettare quel che avviene in questi giorni. Prima ancora di affrontarlo. Al contrario di coloro che ci "bloccano". Tassisti, camionisti, autotrasportatori. Ben consapevoli della nostra "dipendenza" dalle loro azioni e coazioni. Perché controllano il movimento "fisico" personale. E l'economia nazionale. Per loro, il numero non è un vincolo. Non sono "masse" ma le loro lotte hanno effetti di massa. Ventimila tassisti possono bloccare le città. Gli autotrasportatori sono molti di più, visto che in Italia operano circa 90.000 imprese (dati Eurostat), ciascuna con circa 5 veicoli. Facile per loro bloccare l'intero Paese. Non solo gli spostamenti delle persone. Ma  -  anche e anzitutto  -  quelli delle merci, che essi stessi (auto) trasportano. Peraltro, si tratta di un modello di lotta sperimentato, adottato, in passato, da altre categorie, anch'esse addette  -  non a caso  -  alla "mobilità". Il personale delle ferrovie e dei trasporti urbani. I controllori di volo. In grado di bloccare  -  in poche decine  -  l'intero traffico aereo non solo di un Paese. E, ancora, i benzinai. "Padroni" del carburante da cui dipende la nostra mobilità personale.

Si tratta, in gran parte dei casi, di figure professionali che non temono di intraprendere forme di lotta aspre e impopolari. Abituati, come sono, a un lavoro duro e usurante. Loro sì, sempre in viaggio, sulla strada. "Da soli". Sempre in viaggio, sempre in movimento, sempre in rete. Da sempre (i camionisti, prima e più degli altri, hanno costruito una costellazione di CB). Sempre in contatto tra loro. Per esigenze di lavoro, ma anche per combattere la solitudine. Difficile coltivare legami di solidarietà con gli altri in questa condizione nomade. Anche se è loro chiaro quanto gli altri, la comunità, i cittadini dipendano da loro. Dal loro lavoro, dai loro servizi. Essi, d'altronde, hanno sperimentato la loro capacità di pressione da molto tempo e in molti contesti. Per non allontanarci troppo: in Francia, in Spagna e in Grecia. In Italia, però, c'è la complicazione di una rappresentanza frammentata in nove associazioni, quando negli altri Paesi ce ne sono al massimo due. In queste condizioni, il senso di responsabilità sociale e civile, la gravità del momento economico e politico non costituiscono argomenti particolarmente sentiti. Al contrario, il disagio sociale diventa un elemento di pressione politica particolarmente incisivo. In grado di influenzare pesantemente il clima d'opinione e il consenso. E nell'era dell'opinione pubblica, le lotte più efficaci sono quelle che colpiscono non tanto gli imprenditori e i produttori, ma i cittadini e i consumatori. I quali diventano vittime e ostaggi di ogni protesta.

Le liberalizzazioni, peraltro, sono difficili da realizzare e da attuare, da noi più che altrove. Perché cozzano contro una società stratificata e frammentata in un collage di appartenenze professionali e di mestiere, albi, ordini, gruppi, associazioni di categoria. Le liberalizzazioni, cioè, pretendono di slegare i legami di una società legata insieme da mille interessi: i familismi, i localismi, i particolarismi, le eredità. Dove molte persone  -  oltre e prima che "cittadini"  -  si sentono tassisti, farmacisti, camionisti, giornalisti, avvocati, notai, benzinai, politici, artigiani, banchieri, dirigenti, commercianti, commercialisti, consulenti, cambisti... Titolari di interessi di entità molto diversa. Più o meno piccoli, più o meno grandi. A cui, però, non intendono rinunciare.

È difficile immaginare che un cambiamento tanto profondo possa avvenire senza "spargimento di sangue". (Parlo, ovviamente, in modo figurato e metaforico.) E a chi ritenga necessario "slegare" l'Italia  -  per rendere la società più equa e l'economia più aperta  -  la protesta dei Tir e dei tassisti è lì a rammentare che la lotta sarà lunga e dura. Prepariamoci. Ce n'est qu'un début...

(24 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/24/news/diamanti_padroncini-28657882/


Titolo: ILVO DIAMANTI Gli italiani di lotta e di governo promuovono Monti e le proteste
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 12:03:10 pm

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Gli italiani di lotta e di governo promuovono Monti e le proteste

Il centro-destra e il centro-sinistra soffrono entrambi di una crisi di rappresentanza.

Gran parte dei cittadini teme la caduta dell'esecutivo per paura di "tornare indietro".

I risultati dell'indagine Demos & Pi

di ILVO DIAMANTI

Gli italiani di lotta e di governo  promuovono Monti e le proteste

VIVIAMO strani tempi. Come, d'altronde, il governo Monti (secondo la definizione dello stesso premier). Tempi instabili e sussultori. Una settimana dopo l'altra, un giorno dopo l'altro: protestano tutti. Tassisti e camionisti, avvocati e farmacisti, benzinai e giornalai, operai e notai. Protestano i Padani e i Forconi. Oltre ai No-Tav. Gli stessi "professori" - e gli studenti - non apprezzano il ridimensionamento dei titoli di studio - e delle lauree. Tutte, non solo quelle conseguite dagli "sfigati", per usare l'eufemismo del viceministro Martone 1.

Non sorprende, quindi, che la maggioranza degli italiani sia d'accordo con le manifestazioni e gli scioperi contro i provvedimenti del governo e le liberalizzazioni. Oltre il 56%, secondo il sondaggio condotto da Demos (per Unipolis) nei giorni scorsi.

LE TABELLE Il giudizio su governo e proteste 2 (su repubblica.it)

Tuttavia, solo una frazione della popolazione (circa il 5%) afferma di avervi partecipato, mentre si dice disposta a parteciparvi una componente, comunque, molto limitata (13%).

D'altra parte, in questo strano Paese, il governo ottiene un consenso largo quanto le proteste contro le sue politiche. Anzi, un po' più ampio, visto che quasi il 58% degli italiani (intervistati da Demos per Unipolis) giudica positivamente l'azione del governo Monti
(con un voto da 6 a 10).

Non solo, ma le liberalizzazioni, nonostante le proteste, continuano ad essere apprezzate dalla maggioranza assoluta della popolazione (secondo l'IPSOS).

Le "ragioni" di atteggiamenti così contrastanti sono diverse ma, perlopiù, molto "ragionevoli".

1. La prima richiama la profonda diversità delle categorie coinvolte dai provvedimenti, che, non a caso, sono valutate in modo differente dai cittadini (come hanno segnalato i sondaggi IPSOS). L'indulgenza verso la protesta dei camionisti e dei tassisti, in particolare, risulta molto superiore rispetto a quella espressa verso i notai, gli avvocati e i farmacisti. Perché si tratta di figure sociali ritenute "popolari", che svolgono attività usuranti.

2. La seconda ragione è stata espressa, con chiarezza, dallo stesso Monti nei giorni scorsi, quando ha osservato che "per decenni si è coltivato e rispettato più l'interesse delle singole categorie che l'interesse generale". Anche se questo duplice sentimento attraversa tutti. Così, l'attenzione all'interesse generale ci fa apprezzare Monti e le politiche del governo, comprese le liberalizzazioni. Ma l'interesse di categoria ci spinge a reagire con insofferenza. Visto che tutti - o, almeno, molti - sono (siamo): tassisti, notai, avvocati, pensionati, avvocati, benzinai, commercianti, camionisti, professori, ecc. (Senza trascurare le differenze sociali, di reddito, posizione, fatica fra queste professioni.) Intendo dire che dentro di noi convivono e confliggono diversi interessi e diverse condizioni. Che dividono l'identità civica e quella di categoria.

3. Da ciò il dualismo di sentimenti che coabitano in noi. Da un lato, il consenso - di proporzioni larghe - verso Monti e verso il governo. Dall'altro, il peso, altrettanto esteso, del dissenso e delle proteste verso le politiche governative. Perché gran parte dei cittadini si rende conto che molte scelte di Monti sono obbligate e necessarie. Anche se criticabili e migliorabili. E gran parte dei cittadini, inoltre, teme la caduta del governo. Non solo per paura di "tornare indietro". Al passato politico che incombe, come una minaccia. Ma perché si rischierebbero la ripresa delle guerre politiche e del conflitto sociale. Tuttavia, ciò non impedisce agli specifici interessi e alle specifiche rivendicazioni - sociali, economiche e locali - di emergere ed esprimersi. In modo talora acceso.

4. C'è, infine, una ragione più generale. Meno evidente e meno evocata, nel dibattito pubblico. Ma forse la più pericolosa - a mio parere. Perché riguarda - e mette in discussione - la nostra stessa democrazia. Se oggi si assiste al proliferare di conflitti e di proteste puntiformi e senza soluzione è anche - soprattutto - perché tra la società, gli interessi e il governo - lo Stato - c'è il vuoto. Non c'è rappresentanza, ma neppure "composizione" e "aggregazione" delle domande e degli interessi. Un mestiere che spetta alle grandi organizzazioni economiche, ma, soprattutto e in primo luogo, ai partiti. I quali hanno "delegato" a Monti i compiti che essi non si sentono in grado di affrontare, anche - forse soprattutto - per timore delle conseguenze elettorali.

Un problema che lacera il centrodestra - particolarmente sensibile al richiamo degli interessi dei lavoratori autonomi e delle professioni. Ma che inquieta anche il centrosinistra, in difficoltà ad affrontare i temi della mobilità (del lavoro). Non è un caso che gli unici soggetti ad agire apertamente sulla scena politica, oggi, siano coloro che "moltiplicano" e amplificano le proteste di categoria, invece di ri-comporle. La Lega, in primo luogo. Ma anche l'IdV e Sel, per quanto in modo reticente.

Ne esce il quadro - in frantumi - di una "democrazia immediata" (per riprendere la definizione del marchese di Condorcet, nella Francia rivoluzionaria del Settecento). In duplice senso.

A) Perché ogni domanda e ogni spinta sociale si rovescia "immediatamente" sulla scena pubblica. Visto che non solo i media tradizionali (per prima la Tv), ma Internet, i cellulari e i palmari, FB e Twitter danno visibilità e rilevanza "immediata" a ogni rivendicazione e a ogni protesta. Mentre ogni rivendicazione e ogni protesta può, comunque, produrre conseguenze pesanti a livello pubblico e sociale, quando sia in grado di interrompere la comunicazione e la mobilità - strade, autostrade, città, aerei, ferrovie.

B) Ma questa democrazia appare, d'altronde, im-mediata, in quanto priva di "mediazioni" e di "mediazione". Per il deficit di rappresentanza politica espresso dai partiti. Per la tendenza e la tentazione di affidare l'unica forma di mediazione ai "media".

Questa democrazia im-mediata e iper-mediata (dai media), al tempo stesso, può, forse, piacere a coloro che celebrano l'antipolitica e auspicano la morte della politica, dei politici e dei partiti. Ma rischia di compromettere le sorti della democrazia rappresentativa.

Fondazione Unipolis si basa su un sondaggio condotto nei giorni 18-27 gennaio 2012 da Demetra (metodo CATI). Campione rappresentativo della popolazione italiana di età superiore ai 15 anni (margine di errore 2.1%). Documentazione completa su www.sondaggipoliticoelettorali.it


(30 gennaio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/30/news/italiani_lotta_governo-28993174/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Nevone del febbraio 2012 a Urbino
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2012, 12:16:04 am
Il Nevone del febbraio 2012 a Urbino

Ilvo DIAMANTI

La nevicata del 1956 non la ricordo. Allora avevo 4 anni, abitavo nella periferia di Cuneo. Ero troppo piccolo e, a mia memoria, nevicava sempre tanto. Comunque, data la mia statura a quell'età, la neve mi pareva altissima. Conservo una foto nella quale, a pochi mesi di vita, fasciato come una crisalide, me ne sto, dritto come un fuso, piantato nella neve. Cosa non si sarebbe fatto, allora, per una foto memorabile! Ricordo molto meglio, invece, la nevicata del 1985. Era gennaio. Mi sorprese a Fiesole, all'Istituto Europeo. Lasciai l'auto lassù e rientrai a casa in treno (abitavo già a Caldogno). Un giorno di viaggio. I treni che arrivavano e ripartivano senza orari previsti e stabiliti.  Ovviamente. Arrivato a Vicenza, ad attendermi c'era un amico. Marco. Mi accompagnò a casa in auto. Nel sedile dietro teneva una pala. Ogni tanto si fermava: a una curva, oppure in un vicolo. Afferrava la pala, scendeva e spianava gli ostacoli. Davanti a casa mia non si vedevano più i muri di recinzione  -  oltre un metro. E neppure il mio cane. Che visse, per qualche giorno, nella scala di accesso al mio appartamento. Dopo allora ricordo altre nevicate. Ma nessuna epica. Le più rilevanti, mi sorpresero a Urbino. Per la posizione e l'altitudine, predisposta a precipitazioni nevose rapide e cospicue. D'altronde, a Urbino, nulla è normale. Ricordo, due anni fa, in febbraio. La neve scese imponente e coprì tutto in fretta. E rammento il rientro, in auto. In silenzio, da solo  -  la neve ti fa sempre sentire solo. E ti avvolge in una cappa di silenzio. Molte ore di viaggio, prima di rientrare a casa.

Niente a che vedere con l'evento di questi giorni, però. La nevicata del febbraio 2012, mese bisestile di un anno bisestile. Il "Nevone", come lo chiamano, da queste parti. Me lo sono perso. Per caso. Fermato da un'influenza, martedì 31 gennaio, mentre mi preparavo per andare a Urbino. Dove mi attendeva una sessione di esami. Ma avevo 38° di febbre. Che sarebbero saliti, nei giorni seguenti. Oppresso da una bronchite che mi faceva sentire chiuso come un palombaro nello scafandro. Per cui mi sono fermato sulla soglia di casa. Sono rientrato e mi sono infilato a letto. Dove sono rimasto per molti giorni. Ho ripreso a uscire di casa solo oggi. Sfatto. Dopo dieci giorni di antibiotici, mucolitici e altri medicinali.

La neve che scendeva copiosa a Urbino l'ho vista  -  e sentita  -  di lontano. Me l'hanno raccontata gli amici e i colleghi. I primi giorni: sorpresi e un po' indignati. Perché i riflettori erano tutti puntati su Roma, paralizzata da qualche centimetro di neve  -  diciamo, al massimo, 15-20. Mentre a Urbino e nei dintorni  -  Urbania, il Montefeltro, l'entroterra di Rimini  -  ne era scesa più di un metro. E molta, moltissima ne sarebbe scesa ancora. Per limitarci alle ultime ore, nella notte e nella prima parte della giornata, è sceso oltre mezzo metro di neve, ancora. E la neve continua a scendere, senza rallentare. Tuttavia, l'atteggiamento dei media è cambiato in fretta. E da molti giorni abbiamo tutti, davanti agli occhi, le immagini di Piazza del Rinascimento e di Piazza della Repubblica, trasformate in alpeggi d'alta montagna. Il Palazzo Ducale, innevato come la Cattedrale di Sant'Isacco, a San Pietroburgo, d'inverno. E l'angolo tra via Raffaello e via Santa Margherita, vicino a casa mia, sepolto da cataste di neve. Altissime. La città ducale sepolta e isolata dalla neve. L'ha narrata Jenner Meletti, alcuni giorni fa, su "la Repubblica", in un viaggio epico (come quello di Paolo Rumiz nei dintorni de l'Aquila). L'hanno documentata, con insistenza, i principali programmi e canali di news. Ma, soprattutto, l'hanno rappresentata, aggiornata e rivisitata, di continuo, gli studenti dell'IFG. La Scuola di giornalismo, che ha sede a Urbino da decenni. Il sito del loro giornale, "Il Ducato" 1, è divenuto un riferimento critico e strategico, per chi abiti a Urbino e ma anche per chi sta altrove, ma sia interessato a quel che avviene, nella città ducale, in questa emergenza.

Gli studenti dell'IFG hanno scoperto, essi per primi, l'importanza e il brivido della "professione" giornalistica. Ancora oggi. Al tempo della Rete. Hanno fatto inchiesta, cronaca, servizio. In una città che non ha un "proprio" giornale. Hanno raccontato e aggiornato l'evolvere della situazione. Un giorno dopo l'altro. Un'ora dopo l'altra. Indicando i punti critici, narrando storie. Hanno operato da rete di comunicazione per la città. E da schermo, amplificatore, oltre che medium, all'esterno. Per l'Italia e il mondo. In questo modo hanno, inoltre, dato risposta al problema su cui si interroga da tempo  -  anzi, da sempre - Urbino. Come molte altre città "universitarie". La relazione e la coabitazione tra Università e Città. Fra la Città degli Urbinati  -  i residenti  -  e la Città degli Studenti, ma anche dei docenti - oltre dei tecnici e degli amministrativi (peraltro, in larga misura urbinati). Visto che gli Urbinati hanno abbandonato (o quasi)  il Centro storico agli Studenti  -  e all'Università. Con tutti i problemi e le tensioni che derivano, per una Città abitata da abitanti temporanei e di passaggio. Anche se un'indagine recente, realizzata dal LaPolis e dal CIRSFIA per l'Università di Urbino, dimostra che la confidenza reciproca, in effetti, è alta. Che gran parte degli urbinati affida all'Università le proprie prospettive future  -  non solo economiche. E gran parte degli studenti considera un vantaggio e un'opportunità vivere e studiare a Urbino. Il Nevone del 2012 ha rafforzato questo legame. Ha visto gli Urbinati e gli Studenti lavorare vicino. Enti locali e Università. Condividere l'emergenza. Con l'intervento "esterno" dei militari, in alcuni momenti critici. Ma a Urbino, lontana dal mondo, la vita è continuata. La gente si è "arrangiata". Insieme agli studenti: hanno spalato neve, liberato stade, aperto varchi. Insieme: ce l'hanno fatta. A rendere agibile la città. Nonostante i supermercati vuoti e i distributori esauriti. Senza lamentarsi troppo.

Gli studenti, l'Università, inoltre, hanno dato occhi e voce a quel che avveniva. Hanno messo in comunicazione le persone e le istituzioni, sul territorio. Mostrando "al mondo" la città, prima e dopo il Nevone. Ne hanno fatto un'icona "ideale". (Che spettacolo la città sotto la neve! Senza auto. Le poche rimaste: invisibili. Sepolte dalla neve.)

Così mi resta il sollievo e un po' di rimpianto. Il sollievo di aver scampato il Nevone del 2012. Di non essere finito sotto la tormenta e sotto la febbre. Il rimpianto di non averlo visto e vissuto di persona. Di non poter conservare memoria di questo evento non come un'immagine - che rimbalza sui media e sulla rete. Ma come un'esperienza eccezionale. Perché Urbino è eccezionale in condizioni normali. Tanto più in condizioni eccezionali.

(10 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/02/10/news/il_nevone_del_febbraio_2012_a_urbino-29681820/


Titolo: ILVO DIAMANTI - La falsa leggenda dei ragazzi bamboccioni
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2012, 11:34:02 am
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La falsa leggenda dei ragazzi bamboccioni

di ILVO DIAMANTI

La falsa leggenda dei ragazzi bamboccioni Mario Monti (ansa)
NON È CHIARO cosa sia successo ai giovani. Divenuti, all'improvviso, impopolari. Bersaglio di battute acide e ironiche. Da quando, nel 2007, Tommaso Padoa-Schioppa, allora ministro dell'Economia e delle Finanze nel governo Prodi, invitò le famiglie a mandarli fuori di casa.

I  "bamboccioni". Incapaci di crescere, di assumersi responsabilità, di conquistarsi l'autonomia. I giovani. Fino a ieri simbolo del futuro, del progresso, del domani che è già qui. Motore dell'economia: consumo e consumatori. Sono passati di moda, molto in fretta.

Sulla scia di Padoa-Schioppa, nelle ultime settimane, altri "professori" e altri "tecnici di governo" li hanno presi di punta. Un vice-ministro ha definito "sfigati" gli studenti  -  o sedicenti tali  -  che, a 28 anni, non si sono ancora laureati. Mentre il Presidente del Consiglio ha affermato che i giovani devono scordarsi il lavoro fisso a vita. Perché, fra l'altro, è "monotono". E la ministra Cancellieri ha recriminato sui giovani che pretendono "il posto fisso nella stessa città, vicino a mamma e papà".

Così i giovani hanno smesso di rappresentare il "futuro" e sono divenuti simbolo della resistenza al cambiamento e alla modernizzazione. Al pari di altre categorie. I tassisti e i notai. I pensionati e le pensioni. I sindacati e il famigerato articolo 18. I "politici".

I giovani: sono invecchiati in fretta, nella rappresentazione
pubblica. Un freno alla modernizzazione. Nel discorso tecnocratico. Ma anche nella retorica mediale, trainata dai talk show e dall'infotainment. Le loro proteste, nelle scuole e nelle piazze, per questo, vengono etichettate come battaglie di retroguardia. I giovani: gli irriducibili del posto fisso. Eredi del sistema di garanzie ottenute negli anni Settanta. Divenute, oggi, vincoli.

Tuttavia, non è chiaro di cosa siano, davvero, responsabili. Di quali colpe si siano macchiati. I giovani. A guardare dati e statistiche, a leggere le loro storie, molte "accuse" nei loro riguardi appaiono, francamente, prive di fondamento.

I giovani devono scordarsi la monotonia del posto fisso, si dice. E il 30% dei giovani, in effetti, vorrebbe un lavoro sicuro (Demos-Coop, maggio 2011. Un dato analogo a quello proposto da Mannheimer ieri sul Corriere). Ciò significa, però, che il rimanente 70% antepone altri requisiti. Non ritiene il lavoro fisso una priorità. Peraltro il 65% dei giovani occupati (Demos-Coop, maggio 2011) considera il proprio lavoro "precario" oppure "temporaneo". E il 60% pensa che, fra uno-due anni, avrà cambiato lavoro.

D'altronde, il "posto fisso", per loro, di fatto non esiste. Anzi, per molti giovani, non esiste neppure il lavoro. L'Istat, nelle settimane scorse, ha stimato il tasso di disoccupazione giovanile oltre il 30%. Il più alto dell'Eurozona. (Ma è molto più elevato tra le donne e sale al 50% nel Mezzogiorno).

Le statistiche ufficiali, inoltre, valutano il peso dei lavoratori atipici e irregolari oltre il 30% tra i giovani (e intorno al 15% nella popolazione). Ma il fenomeno più significativo è riassunto dai "Neet" (acronimo della definizione inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che "non" lavorano e "non" studiano. Sono oltre 2 milioni e 200 mila. Sospesi. Sulla soglia, fra studio e lavoro. Senza riuscire a entrare né di qua né di là.

Difficile considerarli "partigiani del posto fisso". Visto che di fisso hanno solo la precarietà. Ma anche l'indisponibilità a lasciare la famiglia e la casa di origine mi pare una leggenda.

Tutti quelli che possono, durante il percorso universitario, se ne vanno lontano. Svolgono un periodo di studi (utilizzando il programma Erasmus) in Università straniere. Svolgono stages, dottorati, corsi di formazione e perfezionamento in diverse città italiane, europee. Americane. D'altronde, 6 persone su 10 ritengono, ragionevolmente, che per ottenere un lavoro adeguato alle proprie competenze e per fare carriera, i giovani debbano andarsene dall'Italia (Demos-Coop, maggio 2011).

Una convinzione che cresce particolarmente fra i più giovani. Alcuni anni fa (Demos 2004), oltre quattro giovani su dieci, residenti nel Mezzogiorno, si dicevano pronti a trasferirsi nel Nord o all'estero, pur di trovare lavoro. Difficile trattare da "bamboccioni" i giovani italiani. Che, al contrario, si sono ormai abituati a una vita da precari, al lavoro "temporaneo". Ma proprio per questo utilizzano la famiglia e la casa di famiglia come una risorsa. Un salvagente. Una stazione di passaggio.

Peraltro, non è facile staccare i giovani da casa, allontanarli dalla famiglia, in un Paese "immobiliare" come il nostro. Dove quasi 8 famiglie su 10 hanno la casa in proprietà. E il 20% ne ha almeno due. Dove il mercato degli affitti è limitato e caro. Basti pensare al costo di un posto letto per gli studenti universitari.

Per questo non è chiaro perché a "liberare" l'Italia dal peso del passato debbano essere proprio loro. I giovani. Quegli "sfigati".

Come se la società e il mercato del lavoro fossero davvero "aperti", regolati dal merito. Non è così. Lo dimostrano molte ricerche. Dalle quali emerge che, secondo 7 italiani su 10, le diseguaglianze sociali dipendono, soprattutto, dalla famiglia e dalle amicizie (Demos per Unipolis, gennaio 2012). D'altronde, lo pensano anche gli imprenditori, cioè, i "datori" di lavoro (Demos per Confindustria, gennaio 2010). I quali, per primi, tendono a riprodursi per via familiare. (Come le "classi dirigenti", d'altronde: professori universitari, giornalisti, politici, liberi professionisti....).

Perché prendersela con i giovani, "questi" giovani? In via di estinzione, dal punto di vista demografico. Perché non hanno futuro: 8 persone su 10 si dicono certe che i giovani non miglioreranno la posizione sociale dei loro genitori. Ancora: il 50% dei giovani (ma di più, tra gli studenti universitari) pensa che sia necessario stipulare un'assicurazione integrativa, perché non disporrà mai di una pensione (Demos per Unipolis, gennaio 2012).

Questi giovani "sfigati". Senza pensione. Per molto tempo, per sempre, faranno un lavoro atipico e precario. Sicuramente non "monotono". E, per pagare il debito pubblico accumulato da decenni, dovranno sopportare grandi sacrifici. Per molto tempo ancora.

Forse, il motivo di tanto accanimento è proprio questo. Perché se il mercato del lavoro è chiuso, il debito pubblico devastante, il sistema pensionistico in fallimento, il futuro dei giovani un buco nero, non è per colpa loro, ma delle generazioni precedenti. Dei loro padri e dei loro nonni. Della generazione di Monti, Fornero e Cancellieri. Della "mia" generazione. Forse è per questo che ce la prendiamo tanto con i giovani.
Per dimenticare e far dimenticare che è colpa nostra.

(13 febbraio 2012) © Riproduzione riservatA
DA - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/13/news/leggenda_bamboccioni_diamanti-29782504/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Una terza Repubblica contro i partiti?
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2012, 11:07:59 am
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Una terza Repubblica contro i partiti?

di ILVO DIAMANTI

NON E' FACILE prevedere che ne sarà dei partiti e del sistema partitico italiano, dopo il governo Monti. (Mi accontento di prevedere il passato. E non sempre mi riesce bene.) Tuttavia, mi sentirei di avanzare un'ipotesi. Facile. Nulla resterà come prima. L'esperienza del governo tecnico, infatti, sta mettendo a dura prova la tenuta dei principali partiti, ma anche  -  soprattutto  -  delle alleanze e delle coalizioni precedenti.

Oggi, d'altronde, appare in crisi la legittimazione stessa dei partiti in quanto tali. La fiducia nei loro confronti è, infatti, scesa a livelli mai toccati in passato (4%: Demos, gennaio 2012). D'altronde, non può essere privo di conseguenze, il fatto che la gestione della crisi sia stata affidata a un governo di "tecnici". Segno dell'incapacità dei partiti di assumere responsabilità  -  di governo ma anche di opposizione  -  di fronte agli elettori. Da ciò deriva la "popolarità" di questo governo (una settimana fa l'Ipsos la stimava intorno al 60%), in grado di prendere decisioni "impopolari". Mentre i partiti sostengono le decisioni del governo tecnico  -  oppure vi si oppongono  -  al "coperto". Dietro le quinte. In Parlamento. Nulla resterà come prima, nei partiti e nel sistema partitico, dopo Monti. Perché questa fase di "sospensione" ne accentua le difficoltà.

Quanto alla dimensione organizzativa e al rapporto con la propria base, basti osservare
quel che sta succedendo nei principali partiti  -  Pdl e Pd. Il Pdl ha avviato una fase congressuale per affrontare il dopo-Berlusconi. Ma ciò che sta avvenendo in numerose province  -  sia del Sud che del Nord (in Veneto e a Vicenza, ad esempio)  -  dimostra quanto il partito sia esposto alle pressioni  -  non sempre lecite  -  di lobby locali. Non a caso il segretario del partito, Angelino Alfano, alcuni giorni fa, ha dovuto precisare  -  e minacciare  -  che "non faremo svolgere i congressi se si riscontrano situazioni gravi, nelle quali non vediamo chiaro".

D'altra parte, nel Pd, le tensioni e le divisioni, a livello nazionale e locale, sono diffuse ed evidenti. E hanno prodotto effetti non desiderati  -  per quanto prevedibili. Soprattutto nella selezione dei candidati alle prossime elezioni amministrative, mediante le "primarie". Le quali continuano ad essere utilizzate "à la carte". Talora a livello di partito, altre volte di coalizione. Con il risultato, in alcuni casi, da ultimo a Genova (e prima in Puglia, a Milano e a Cagliari), di favorire il candidato di un altro partito (seppure alleato). Da ciò il paradosso. Le primarie, "mito fondativo del Pd", secondo Arturo Parisi (forse il primo a concepirle), hanno legittimato leader di altri partiti  -  alleati ma anche concorrenti. E indebolito, di conseguenza, la leadership del Pd nel Centrosinistra. Locale e nazionale.

Ma altrettanto critica appare la questione dei rapporti e delle alleanze tra i partiti. Nell'attuale maggioranza, solo l'Udc e il Terzo Polo appaiono "organici" al governo Monti. Voluto e imposto dal Presidente Napolitano. I principali partiti della maggioranza, Pdl e Pd, considerano questa coabitazione "necessaria", quasi "coatta". Ma incoerente con la loro base elettorale e con la loro storia politica.

Elettori e dirigenti del Pdl, in particolare, vedono il governo Monti come il soggetto che ha "scalzato" il Centrodestra, guidato da Berlusconi. Per questo stesso motivo il governo Monti piace agli elettori del Pd. I quali, tuttavia, ne avversano alcune importanti scelte  -  dalle pensioni al mercato del lavoro e all'art. 18. Le considerano coerenti con le politiche del Centrodestra. Pdl e Pd, inoltre, si vedono "sfidati" dai loro tradizionali alleati  -  la Lega a centrodestra, Idv e Sel, a centrosinistra. I quali, a loro volta, da soli, rischiano di divenire periferici. Alle elezioni amministrative che incombono. Tanto più in quelle politiche, del prossimo anno.

Da ciò emerge una serie di conseguenze rilevanti, in prospettiva futura.

1. Se i partiti della Seconda Repubblica si sono personalizzati, la leadership personale dei partiti si sta rapidamente indebolendo. L'unico leader che mantenga un alto livello di consensi, tra gli elettori, infatti, è Monti  -  intorno al 60%. Tutti i leader di partito, da metà gennaio ad oggi, hanno, infatti, perso consensi e si posizionano molto più in basso.

2. Anche i partiti maggiori, però, hanno perduto consensi. Il Pdl, in particolare, ridotto al 22%. Mentre il Pd, da gennaio (quando aveva superato il 29%), sta declinando, seppure lentamente.

3. Se si valuta la posizione degli elettori sullo spazio politico, però, emerge con chiarezza come la struttura delle coalizioni non sia cambiata. In particolare, la distanza tra gli elettori del Pdl e del Pd si è allargata, per reazione alla coabitazione "coatta".
Tuttavia, i giudizi sulle specifiche questioni politiche e sulle scelte politiche del governo appaiono meno condizionate dall'appartenenza di partito e più dettate dal merito. Quindi meno distanti fra loro.

4. In altri termini, l'esperienza del governo Monti ha ridimensionato la frattura pro-antiberlusconiana. (Anche perché Berlusconi, per ora, se ne sta sullo sfondo.) Ma sta delineando una nuova frattura, o meglio, "distinzione". Pro-antimontiana. Che sta indebolendo i partiti maggiori a favore degli alleati di ieri  -  oggi all'opposizione. Peraltro, incapaci, da soli, di costruire una vera alternativa.

Da ciò la tentazione del Pd e del Pdl: difendersi dalla concorrenza degli alleati  -  oggi all'opposizione  -  con una legge elettorale che renda loro difficile correre da soli. Tuttavia, se i partiti  -  di maggioranza e opposizione  -  non dessero soluzione al loro deficit di rappresentanza sociale e di leadership, difficilmente potrebbero  -  potranno  -  riprendere la guida del Paese. Andare oltre l'emergenza.

Soprattutto se il governo Monti ottenesse i risultati sperati, dal punto di vista economico e istituzionale. Se svelenisse davvero il clima sociale e d'opinione. Allora fra un anno diverrebbe un "soggetto politico" forte. E potrebbe coltivare l'idea di proseguire l'esperienza "in proprio". Oppure, qualcun altro potrebbe occuparne lo spazio, raccoglierne l'eredità. Tecnica ed extra-politica. Cercando autonomamente il consenso elettorale, con il sostegno di una parte, almeno, dell'attuale maggioranza. Dove non mancano coloro a cui non spiacerebbe continuare questo esperimento.
In un Paese che ha conosciuto 50 anni di democrazia bloccata, intorno alla Dc e ai suoi alleati. E che arranca da vent'anni, inseguendo un bipolarismo sin qui ir-realizzato. Si tratterebbe di una Terza Repubblica che, per alcuni aspetti, rammenta e ridisegna la Prima. Con una differenza importante. Non sarebbe fondata "da" e "su", ma "contro" i partiti.

(20 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/20/news/terza_repubblica_partiti-30176429/?ref=HREC1-27


Titolo: ILVO DIAMANTI - C'è democrazia senza i partiti?
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2012, 05:42:10 pm
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C'è democrazia senza i partiti?

La prescrizione di Silvio Berlusconi nel processo Mills fa tornare alla ribalta il ruolo del Cavaliere sulla scena politica.

Ma per ora l'esperienza del governo tecnico non fa male all'ex premier.

Perché gli permette di riorganizzare le fila in un periodo politicamente difficile, per lui e per il Pdl

di ILVO DIAMANTI


Il proscioglimento di Silvio Berlusconi dall'accusa di corruzione nel caso Mills, per prescrizione del reato, ha sollevato, inevitabilmente, polemiche. E un sottile senso di inquietudine. Non solo perché, in questo modo, il Cavaliere è riuscito a sottrarsi, di nuovo, al giudizio.

Ma soprattutto perché ha rammentato a tutti che Berlusconi non se n'è andato, ma è sempre lì. Anzi, qui. Con gli stessi vizi di sempre. Da ciò l'altro motivo di preoccupazione (o, per alcuni, di speranza). Potrebbe rientrare in scena. Da protagonista. Visto che il ruolo di comprimario al Cavaliere non si addice. D'altronde, Berlusconi resta il leader del Pdl. Tuttora il primo partito in Parlamento. E, insieme, la principale forza politica della maggioranza che sostiene il governo Monti.

Tuttavia, anche questa vicenda suggerisce che il vento è cambiato. Che il tempo di Berlusconi e del berlusconismo è finito.

Anzitutto, l'attenzione intorno al caso appare meno accesa rispetto al passato. Quando Berlusconi era il capo del governo o dell'opposizione. Quando era il dominus della scena politica. Il conflitto di interessi che si portava - e si porta dietro - appariva, allora, insopportabile, sul piano pubblico. Oggi è altrettanto intollerabile, ma la posizione politica del Cavaliere, passato dalla ribalta al retroscena, ha sdrammatizzato le tensioni. Peraltro, i principali attori politici (e istituzionali) che sostengono il governo temono episodi e fratture che possano minare la tenuta della legislatura.

Un'eventualità avversata, per primo, da Berlusconi. Al quale conviene che Monti governi almeno fino alla scadenza naturale della legislatura. E magari oltre. Per una ragione su tutte le altre: se si votasse oggi, il centrodestra non avrebbe speranze. Il Pdl (citiamo le stime di Ipsos dell'ultima settimana) galleggia intorno al 22%. L'alleanza con la Lega, inoltre, appare complicata, logorata dal sostegno di Berlusconi al governo Monti. E, comunque, i partiti del centrodestra (Pdl, Lega e Destra), tutti insieme, sono accreditati di poco più del 33% dei voti. Quattro punti meno del centrosinistra (Pd con Idv e Sel).

Ma in una competizione a tre, con il Terzo Polo in campo (stimato intorno al 20%), la distanza fra i due poli principali salirebbe a 10 punti percentuali. Troppi per rischiare il ricorso anticipato alle urne in questo momento. Tanto più perché, da quando ha avuto avvio il governo Monti, il divario fra centrodestra e centrosinistra si è stabilizzato e, anzi, un po' ridotto. Morale: l'esperienza del governo tecnico non fa male a Berlusconi. Gli permette di riorganizzare le fila. In un periodo politicamente difficile, per lui e per il Pdl.

Ma il ritorno di Berlusconi è improbabile soprattutto perché è cambiato il clima d'opinione. Il berlusconismo è fuori moda, inattuale. Come Berlusconi. Verso il quale il grado di fiducia dei cittadini è basso quanto mai, in passato. Poco sopra il 20%. Come i consensi verso il Pdl. Il suo partito "personale".

È arduo, d'altronde, distinguere e dissociare il destino del partito da quello dell'inventore. Lo testimoniano le difficoltà del Pdl in questa fase congressuale. Lacerato da tensioni e accuse interne: di corruzione, tessere false, condizionamenti. A Sud e a Nord. D'altronde: quale identità può assumere un partito identificato "da" e "in" Berlusconi senza Berlusconi alla testa?

Il mutamento del clima d'opinione riflette, a sua volta, il mutamento sociale. Berlusconi ha interpretato e impersonato una fase "affluente" della società italiana. A cui ha imposto, con l'amplificatore dei media, la propria biografia e la propria immagine come riferimenti e modelli. Ha, così, accompagnato e segnato una fase, lunga quasi vent'anni. Ben raffigurata dall'infotainment televisivo. I programmi che mixano informazione e intrattenimento, nei quali ogni distinzione di ruoli è saltata. Politici, cuochi, personaggi della fiction, ballerine, calciatori, veline, criminologi e criminali. Tutti insieme. Appassionatamente. A parlare di tutto.

Quella stagione è finita. La crisi ha spezzato il legame tra immagine e realtà. Ha reso l'immagine in-credibile. Il mondo rutilante e a-morale espresso da Berlusconi è divenuto troppo lontano rispetto al senso comune. I suoi valori: in contrasto con gli interessi degli elettori. Soprattutto e tanto più per quelli, fino a ieri, attratti da Berlusconi. In larga misura appartenenti ai ceti popolari. Si pensi alla crescente impopolarità dell'evasione fiscale, socialmente tollerata, negli anni scorsi  -  e giustificata dallo stesso Berlusconi. Ma guardata - oggi - con ostilità. Perché la crisi ha trasformato la furbizia in un vizio dannoso: per i conti dello Stato e per i bilanci delle famiglie.

La crisi ha, inoltre, delegittimato il modello del politico-senza-qualità. Non migliore di noi ma come noi. Anzi: peggio di noi. Reclutato per meriti estetici, piuttosto che etici. O per fedeltà al capo.

Per questo è difficile  -  a mio avviso improponibile  -  un ritorno di Berlusconi. Il quale è, semmai, alla ricerca di uno spazio nel quale "difendersi". Negli affari ma anche nelle questioni giudiziarie in cui è ancora coinvolto.

Il Paese, d'altronde, ha voltato pagina. L'esperienza di Monti  -  "promossa" da Napolitano - ha rivelato e trainato una domanda di rappresentanza politica diversa. Non parlo dei contenuti della sua azione di governo  -  per alcuni versi discutibili, a mio avviso. Parlo, invece, dello "stile". Che in quest'epoca, è "sostanza". Monti esprime un nuovo modello: il Tecnico che fa Politica. E viceversa: il Politico Competente. Che si misura con i partiti ma non ne fa parte. Ne è fuori e, al contempo, al di sopra. Monti annuncia e interpreta il post-berlusconismo, che si traduce in una sorta di "Populismo Aristocratico". Dove il premier si rivolge e risponde agli elettori direttamente, attraverso i media. In modo sobrio. Mentre i partiti  -  e i loro leader - restano sullo sfondo. Defilati. Monti: è un leader di successo, i cui consensi appaiono in continua crescita. Oggi superano il 60%.

Berlusconi non tornerà: perché il berlusconismo è finito. Ma anche l'antiberlusconismo lo è. Il che induce a spostare le nostre preoccupazioni "oltre" Berlusconi.

In questo Paese: dove i partiti  -  privi di credito  -  contano molto meno dei leader. E dove i leader dei partiti dispongono di un livello di fiducia molto scarso. La questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.

Io ne dubito. Anzi: lo escludo. Neppure se al berlusconismo succedesse il montismo.

(27 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/27/news/democrazia_senza_partiti-30559326/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Val di Susa, Italia
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2012, 12:25:31 pm
Val di Susa, Italia

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di ILVO DIAMANTI

NON SARA' facile sbloccare i lavori della Tav in Val di Susa. Per fattori "ambientali" non indifferenti. Le opere richiederanno anni.
Come realizzarle in un contesto tanto ostile? Ma, soprattutto, perché le strategie adottate dai comitati No Tav hanno imposto la Val di Susa sulla scena nazionale. Costringendo le forze politiche nazionali - e lo stesso governo - a esprimersi, a "prendere parte". E a dividersi, al di là delle attuali alleanze.

La prima e principale ragione di questo "successo" - perché di tale si tratta - riguarda la strategia "mediatica" dei No Tav. Anzi: la scelta dei media come "campo" (utilizzo volutamente la definizione di Bourdieu) del confronto e dello scontro. Ogni loro iniziativa e azione, infatti, produce effetti rilevanti sul piano della comunicazione. Per scelta consapevole.

Quando la protesta si svolge nella valle: la ricerca del contatto diretto con le forze dell'ordine, il tentativo di superare ogni limite e ogni confine "di sicurezza" imposto. Testimoniata e ripresa da telecamere e giornali. Talora con effetti indesiderati, come nel caso delle provocazioni del militante No Tav contro il carabiniere (impassibile, di fronte agli insulti). Ma la protesta ha grande impatto - sociale e mediale - soprattutto quando la scena si trasferisce altrove. In teatri scelti accuratamente. Milano e Roma, in primo luogo. Le Capitali del Paese. Dove sono avvenute iniziative che hanno prodotto grande disagio ai cittadini e all'economia. Il blocco di linee ferroviarie e di autostrade. Manifestazioni in pieno centro, tali da provocare conseguenze clamorose sul traffico e, quindi, sulla vita quotidiana delle persone. Forme di protesta analoghe a quelle condotte nelle scorse settimane dai tassisti e dai camionisti. Che hanno paralizzato per giorni le principali città e alcune tra le maggiori arterie di comunicazione autostradale.

I No Tav hanno agito - continuano ad agire - allo stesso modo. In questo modo le loro proteste sono rimbalzate immediatamente sui media. Non solo sui blog e sui Social Network. Dove le immagini e le ragioni della protesta sono state rilanciate, grazie al sostegno dei movimenti critici e dei circoli antagonisti, che hanno grande confidenza con la Rete. Perché l'Altra Comunicazione non basta ai Comitati No Tav, ai quali interessa molto entrare sui media tradizionali: giornali, radio e soprattutto la tv. Attraverso cui si informa la maggior parte della popolazione (l'83%, secondo l'Osservatorio Demos-coop dicembre 2012). In questo modo, la Val di Susa è uscita dai confini locali ed è divenuta un caso "nazionale".

Ineludibile per i partiti e i soggetti politici più importanti. Tanto più perché l'opinione pubblica, al di là dei giudizi di merito, tende a mostrare comprensione verso le proteste di ceti e settori popolari, com'è avvenuto nei confronti dei camionisti e dei tassisti. E quasi metà della popolazione (il 44%, per la precisione), secondo l'Ispo di Mannheimer (per il Corriere della Sera), approva le rivendicazioni dei No Tav. I quali hanno riprodotto il repertorio della protesta "non convenzionale", condotta dalle categorie "minoritarie". Non solo i blocchi ferroviari, stradali e autostradali. Ma anche le iniziative individuali estreme, condotte da figure sociali altrimenti dimenticate (e dunque invisibili): i disoccupati che salgono sulle gru e i cassintegrati che si trincerano nel carcere dell'Asinara.

I No Tav, cioè, non solo cercano, ma "esigono" l'attenzione dei media. (E per questo hanno manifestato di fronte alla sede di Repubblica). Per far diventare il caso della Val di Susa di "pubblico interesse". In senso letterale: di interesse "del pubblico". Nazionale. A differenza di quel che è avvenuto per il Dal Molin. La nuova base militare americana, alle porte di Vicenza. Concessa - in segreto - dal governo Berlusconi e confermata dal governo Prodi nel 2007. Contro la volontà della maggioranza della popolazione, che partecipò ad alcune manifestazioni di massa. (Ho marciato anch'io, più volte). E votò un referendum, come quello proposto oggi da Sofri. Promosso nel 2008 con il consenso della nuova amministrazione di centro-sinistra (nonostante l'opposizione del Consiglio di Stato). Senza esiti concreti, visto che la base Usa, ora, è praticamente finita. Appariscente e inquietante, nella sua "grandezza" immobiliare. Tuttavia, a differenza della rivendicazione No Tav, il movimento No Dal Molin - tuttora attivo - è rimasto ancorato alla realtà locale. Lontano dagli occhi e dal cuore dell'Opinione Pubblica italiana, lontano dai centri del potere nazionale.

La protesta della Val di Susa, invece, ha rimesso in discussione le decisioni in merito alla Tav. Nonostante il governo e le forze politiche della maggioranza ribadiscano che la Tav verrà realizzata. Nel rispetto degli accordi presi in sede Ue. Tenendo conto dei colloqui e delle discussioni precedenti con i sindaci e i governi territoriali. Tuttavia, queste precisazioni suggeriscono come il caso sia stato comunque riaperto. Perché è "politicamente" e "mediaticamente" rilevante. In una fase, come questa, segnata dalla debolezza dei partiti. E da un governo (sedicente) "tecnico", che ha bisogno di garantirsi il consenso sociale bypassando i partiti. Dunque, riservando grande attenzione ai media.

È significativo, a questo proposito, come i partiti "esterni" alla maggioranza tentino di sfruttare la situazione a proprio favore. A costo di contraddire se stessi. L'Idv sostiene la protesta, anche se Antonio Di Pietro, quand'era ministro dei Lavori pubblici, aveva approvato la Tav. La Lega, al contrario, anche se sta all'opposizione, si associa alla maggioranza. E chiede, anzi, intransigenza contro la protesta dei No Tav. Per motivi tattici, anche in questo caso. Perché il movimento No Tav mette in discussione il monopolio della Lega nella rappresentanza delle rivendicazioni territoriali nel Nord. Anzi, la fa apparire "ostile" verso le domande dei cittadini del Piemonte, governato dalla Lega.

Così, i No Tav e la loro rivendicazione hanno assunto rilievo politico e mediatico nazionale. O viceversa. Il che è lo stesso. Perché la comunicazione - nuova e prima ancora tradizionale: la rete insieme ai giornali e alla tv - è ancora il vero "campo" dove avviene il confronto politico. E mentre gli attori e i leader politici, travolti dall'impopolarità, se ne stanno nascosti nel retroscena oppure passano il tempo nei salotti, sulla ribalta emergono nuovi interpreti. Da un lato: i "tecnici", che usano la "competenza" come risorsa di legittimazione politica e mediatica. Dall'altra: i movimenti e le comunità, impegnati a trasformare storie locali in romanzi popolari di grande impatto emotivo.

(05 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2012/03/05/news/val_susa_italia-30960003/?ref=HREC1-6


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Repubblica fondata sull'insicurezza
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2012, 04:28:40 pm
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La Repubblica fondata sull'insicurezza

Sempre più italiani si dichiarano preoccupati per il rischio di perdere il lavoro.

E quasi 9 persone su 10 pensano che i giovani occuperanno una posizione sociale peggiore dei genitori.

La crisi del lavoro costringe ad abituarsi all'incertezza. Ipotecando il futuro.

di ILVO DIAMANTI

La Repubblica fondata sull'insicurezza Il segretario della Cgil Susanna Camusso (ansa)
È IL LAVORO la questione intorno a cui ruota il dibattito politico di questa fase. L'articolo 18, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, il futuro dei giovani, il posto fisso, i mammoni.  Angelino Alfano ha indicato al governo tre priorità: "Lavoro, lavoro e lavoro". Apostrofato da Bersani: "L'ha scoperto solo ora (per non parlare delle frequenze tivù)".

Il lavoro e il suo reciproco: il non-lavoro attraggono, dunque, l'interesse degli attori politici e del governo. Ma, forse, non abbastanza rispetto a quanto avviene nella società. La disoccupazione, infatti, è il problema più sentito dai cittadini, in Italia, da almeno due anni, come emerge dai dati dell'Osservatorio sulla sicurezza in Europa (curato da Demos 1, l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), a cui facciamo riferimento in questa Mappa.

Una persona su due, infatti, si definisce "frequentemente" preoccupata  -  per sé e i propri familiari - di perdere il lavoro (gennaio 2012). Circa dieci punti in più rispetto a un anno fa. D'altronde, nel campione rappresentativo della popolazione italiana, il 35% dichiara che, nell'ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha cercato lavoro, senza trovarlo. Il 22%, che (in famiglia) qualcuno è stato messo in mobilità o in cassa integrazione. Il 19%, infine, che qualcuno, in famiglia, ha perduto il lavoro. In definitiva, quasi una famiglia su due sta sperimentando gli effetti della crisi sul piano dell'occupazione.

Un problema comune al resto d'Europa, dove si rileva un grado di inquietudine analogo. Con una differenza significativa. L'85% degli italiani ritiene che i giovani, nel prossimo futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai genitori. Quasi 10 punti in più rispetto a Francia e Gran Bretagna, ma circa 20 più che in Germania e Spagna.

In altri termini: l'incertezza e la precarietà del lavoro si riflettono nell'incertezza e nella precarietà del futuro dei giovani. Anzi, nell'incertezza del futuro, semplicemente. D'altronde, il 56% degli italiani non vede sbocco a questa crisi. Non riesce a immaginare quando finirà. Certamente non prima di due anni.

Il lavoro  -  incerto, precario e perduto  -  alimenta l'insicurezza economica. Un sentimento che contagia il 73% degli italiani e trascina le altre dimensioni dell'insicurezza. Non a caso le paure relative alla globalizzazione e alla criminalità risultano molto più elevate fra coloro che si sentono maggiormente minacciati dalla disoccupazione.

È come se, insieme all'incertezza del lavoro, fosse cresciuto un diffuso e crescente senso di "insicurezza ontologica", per usare il linguaggio di Zygmunt Bauman. Che, cioè, scuote alle radici il nostro sistema di riferimenti sociali e personali. Mette in dubbio la nostra identità. E ci schiaccia nel presente, lasciandoci senza ancore né legami. Da ciò la differenza da un tempo, quando il lavoro ci forniva relazioni, prospettive, senso. Anche quando era una "materia scarsa", quanto e più di oggi.

Basti pensare alla rappresentazione  -  cruda e disincantata - di Luigi Meneghello, in "Libera nos a Malo": "C'è invece l'espressione 'bisogna', nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la 'dòna', per 'el me òmo', per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare. Bisogna lavorare, non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre....". Il lavoro, come necessità. Dura e senza fine. A cui affidare la propria condizione e quella della propria famiglia. Ma anche la propria identità, la propria immagine e il proprio riconoscimento, di fronte agli altri.

Oggi, però, quel modello si è dissolto. Perché se è vero che "lavorare bisogna" occorre aggiungere: "Se possibile". Ma soprattutto "senza certezze e senza continuità". Il che scardina il fondamento stesso della nostra società "laburista". Dove se lavori esisti ed esisti se lavori. Dove le divisioni sociali e politiche si sono formate intorno alla posizione occupata nei rapporti di lavoro. Operai, impiegati, imprenditori. Lavoratori "dipendenti" e "autonomi".

Non è un problema di "lavoro fisso", ma di "lavoro certo". E di professione, a cui si collegano il reddito e la posizione sociale. Ma se il mercato del lavoro e il welfare diventano "liquidi" (per echeggiare ancora Bauman), allora anche il futuro tende a liquefarsi. Allora le relazioni sociali, i valori e, a maggior ragione, i riferimenti politici e istituzionali: tutto diventa liquido e relativo.

E la sindrome dell'insicurezza si diffonde. Non tanto fra i giovani, ma soprattutto fra le generazioni adulte e anziane. I genitori e i nonni. Gli indici più bassi di insicurezza economica, infatti, emergono tra i giovani fra 15 e 25 anni. I più elevati: tra le persone intorno ai 30 anni e, soprattutto di età centrale (45-54 anni). I fratelli maggiori e genitori. Lo stesso si osserva in relazione al futuro dei  giovani. I più pessimisti sono gli adulti e gli anziani. I meno preoccupati proprio loro: i giovani più giovani. Anche se pochi a quell'età lavorano.

Non si tratta di incoscienza giovanile. È che ormai si sono abituati all'in-certezza. All'assenza di luoghi e riferimenti certi. Si sono abituati al lavoro intermittente, assente e perfino alla transizione infinita. Senza stazioni di passaggio e senza destinazioni. Si sono abituati a fare affidamento sui genitori e la famiglia  -  finché dura. E su se stessi. Si sono abituati a un'idea del futuro senza progetti e senza percorsi programmati. Idealisti con realismo. L'angoscia, invece, è tutta nostra. Colpisce la società adulta e anziana. Coloro che hanno impostato la loro vita sul  futuro. E l'idea stessa di futuro sui giovani. Sul passaggio da una generazione all'altra. E sul lavoro  -  e il suo complemento: lo sviluppo, anch'esso sinonimo di futuro.

Ma se il lavoro diventa liquido e in-definito. Senza regole e senza prospettive. Insicuro: senza sicurezza del futuro. Senza "previdenza". Soprattutto per i giovani, intermittenti (nel lavoro) e imprevidenti (senza pensione). Allora, rischiamo di trovarci non solo senza lavoro e senza pensione. Ma senza futuro. E senza presente.
Il problema può, forse, apparire astratto, dal punto di vista "tecnico".  Ma non dal punto di vista"politico". E dal punto di vista "personale" mi inquieta molto.


(12 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/12/news/repubblica_insicurezza-31377643/?ref=HREC1-7


Titolo: ILVO DIAMANTI - Un presidente senza partiti
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2012, 10:38:00 pm
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Un presidente senza partiti

Secondo l'Atlante Politico realizzato da Demos per Repubblica ha fiducia nel governo il 62 per cento, il dato più alto dopo la fase di avvio di novembre. Una eventuale lista Monti sarebbe il primo partito e otterrebbe il 24 per cento dei voti

di ILVO DIAMANTI

SULLA scena politica italiana del nostro tempo si confrontano partiti senza leader (autorevoli) e un leader senza partiti. Quest'immagine è emersa nei primi quattro mesi del governo guidato da Mario Monti. e appare largamente confermata  -  e precisata - dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos 1, realizzato nei giorni scorsi.

1. La fiducia nel governo Monti, anzitutto. Espressa (con un voto pari o superiore al 6) da quasi il 62% del campione della popolazione. Il dato più alto dopo la fase di avvio, in novembre. Insieme all'auspicio, condiviso da circa 7 italiani su 10, che la sua attenzione non si limiti ai temi strettamente economici ma si allarghi a tutte le questioni importanti del Paese. Riforma elettorale, giustizia e sistema radiotelevisivo compresi. Il 27% degli intervistati, inoltre, vorrebbe che Monti, dopo le prossime elezioni, succedesse a se stesso. Indipendentemente dal risultato.

2. Ancora più elevato è il grado di considerazione "personale" verso il Premier e i suoi ministri più conosciuti. Nella classifica dei leader, Monti è saldamente in testa, con il 67% di giudizi positivi (espressi con un voto pari o superiore a 6). Lo seguono (a debita distanza) i ministri Elsa Fornero (51%) e Corrado Passera (49%). Gli altri leader  -  istituzionali e di partito  -  sono dietro. Sensibilmente lontani. Bersani, Alfano, Di Pietro, Vendola, Casini e Fini. Tutti in calo, soprattutto gli ultimi due. (Un segno che il governo e Monti stanno occupando lo spazio del Terzo Polo.) In fondo alla classifica: Berlusconi e Bossi, i leader del precedente governo. Bossi, in particolare, è largamente sopravanzato da Maroni (40%). Nella popolazione. Ma anche nell'elettorato leghista. Tra gli elettori della Lega, infatti, il 50% valuta positivamente Bossi, il 73% Maroni. Segno che il peso di Maroni nella "Lega di opposizione" si è rafforzato ulteriormente.

3. Di certo, oggi è in crisi la legittimità del "politico di professione" mentre si rafforza la credibilità dei "tecnici". Come Monti, appunto. Insieme ai suoi ministri. Oltre il 60% degli italiani, infatti, ritiene i tecnici più adatti a governare rispetto a "politici esperti".

4. È interessante osservare come questi atteggiamenti risentano in misura - ancora - limitata delle valutazioni di merito, nei confronti di specifici provvedimenti. Che sollevano, in alcuni casi, grande insoddisfazione. In particolare, una larga maggioranza di persone si dice contraria a modifiche sostanziali dell'articolo 18. Ma ciò non è sufficiente a modificare in modo sostanziale il giudizio sul governo dei tecnici, sui tecnici e sul Tecnico per eccellenza. Monti. Almeno per ora.

5. L'impopolarità dei leader di partito riflette la  -  e si riflette nella - sfiducia nei partiti (solo il 4% del campione esprime "molta fiducia" nei loro confronti). Dal punto di vista elettorale, tuttavia, non si rilevano grandi variazioni negli ultimi mesi. Il PD si attesta circa al 27% e il PdL al 24%. Insieme arrivano al 50%. Venti punti meno che alle elezioni del 2008. La Lega si conferma al 10%, come l'UdC. L'IdV all'8%. Mentre SEL è più indietro, intorno al 6%. Avvicinata dal Movimento 5 Stelle di Grillo. L'unica opposizione davvero extra-parlamentare. Movimentista. La No Tav come bandiera. Forse anche per questo premiata, in questa fase. L'esperienza del governo Monti ha, dunque, congelato gli orientamenti elettorali, ma li ha anche frammentati. Complicando le alleanze  -  precedenti e future.

6. Il PD, che all'inizio aveva beneficiato dell'esperienza del governo Monti, ora sembra soffrirne. Più dei partiti della vecchia maggioranza di Centrodestra, in lieve ripresa, nelle stime di voto. Gli elettori del PD, d'altra parte, continuano a garantire un alto grado di consenso al governo Monti. (Ha il merito di aver "sostituito" Berlusconi). Tuttavia, nella percezione degli italiani, ha mutato posizione politica. Certo, la maggioranza degli elettori (57%) continua a considerarlo "al di fuori e al di sopra" degli schieramenti politici. Ma una quota ampia e crescente di essi (20%) lo ritiene prevalentemente orientato a centro-destra.

7. Il PD risente, inoltre, del conflitto interno fra i partigiani dell'alleanza con le forze di Sinistra e i sostenitori dell'intesa con il Centro. Ma i suoi elettori appaiono turbati anche dalla tentazione di tradurre l'attuale Grande Coalizione di governo in un progetto più duraturo. Un'ipotesi che, tradotta sul piano elettorale, si fermerebbe al 47%. Cioè, circa 13 punti in meno rispetto ai consensi di cui sono accreditati i partiti dell'attuale maggioranza. Per contro, la Lega salirebbe al 19% e la Sinistra oltre il 33%. A pagare il prezzo più caro di questa ipotetica intesa sarebbe, appunto, il PD. Visto che oltre metà dei suoi elettori si sposterebbe sulla coalizione di Sinistra oppure si asterrebbe.

8. Non sorprende, allora, che, una "ipotetica" Lista Monti in una "ipotetica" competizione con gli attuali partiti, nelle intenzioni di voto degli intervistati, sia accreditata di oltre il 24% dei voti. Il che significa: il primo partito in Italia. Davanti al PdL, che, in questo scenario, otterrebbe il 19%. Il PD, terzo con il 18%, risulterebbe il più penalizzato. Perderebbe, infatti, oltre un quarto della base elettorale a favore della lista Monti. La quale, peraltro, intercetterebbe consensi trasversali. Ma, soprattutto, convincerebbe quasi un terzo degli elettori ancora incerti oppure orientati all'astensione. Sul totale degli elettori: circa il 10%.

9. Naturalmente, si tratta di una simulazione. Influenzata, peraltro, dalla popolarità di Monti in questo specifico momento. Conferma, però, lo scenario delineato all'inizio. Evoca, cioè, una Terza Repubblica che oppone Presidenti e Partiti (come suggerì, alcuni anni fa, Mauro Calise in un saggio pubblicato da Laterza). Mentre il Berlusconismo aveva imposto il modello del "Partito personale", che oggi è in declino, insieme alla Persona che lo aveva incarnato.

10. Il Montismo ne ha modificato sostanzialmente il modello. In particolare, nello "stile personale": ha affermato la Tecnica e la Competenza al posto dell'Imitazione-della-gente-comume. L'aristocrazia democratica al posto della democrazia populista. Tuttavia, Monti non si può definire un Presidente "contro" i Partiti, perché i partiti (maggiori) lo sostengono. Anche se qualcuno scorge, alle sue spalle, l'ombra di un nuovo "Partito personale", egli appare, in effetti, un "Presidente senza partito". Legittimato dal "voto" dei mercati, dal "vuoto" della politica  -  e dalla conferma dei sondaggi. Ma anche dalla sua distanza dai partiti. Il che sottolinea l'ultimo paradosso post-italiano (per echeggiare Eddy Berselli). Una Repubblica dove coabitano due Presidenti forti, molti partiti deboli. E un Parlamento quantomeno fragile. Una Repubblica bi-presidenziale.

(19 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/19/news/presidente_partiti-31797464/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Nevone del febbraio 2012 a Urbino
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 03:24:14 pm
Il Nevone del febbraio 2012 a Urbino

Ilvo DIAMANTI

La nevicata del 1956 non la ricordo. Allora avevo 4 anni, abitavo nella periferia di Cuneo. Ero troppo piccolo e, a mia memoria, nevicava sempre. Tanto. Comunque, data la mia statura, a quell'età la neve mi pareva altissima. Conservo una foto nella quale, a pochi mesi di vita, forse 5, fasciato come una crisalide, me ne sto, dritto come un fuso, piantato nella neve. Cosa non si sarebbe fatto, allora, per una foto memorabile! Ricordo molto meglio la nevicata del 1985. Era gennaio. Mi sorprese a Fiesole, all'Istituto Europeo. Lasciai l'auto lassù e rientrai a casa in treno (abitavo già a Caldogno). Impiegai un giorno di viaggio. I treni arrivavano e ripartivano senza orari previsti e stabiliti.  Ovviamente. Arrivato a Vicenza, ad attendermi c'era un amico. Marco. Mi accompagnò in auto. Nel sedile dietro teneva una pala. Ogni tanto si fermava: a una curva, oppure in un vicolo. Afferrava la pala, scendeva e spianava gli ostacoli. Davanti a casa mia non si vedevano più i muri di recinzione  -  oltre un metro. E neppure il mio cane. Che visse, per qualche giorno, nella scala di accesso al mio appartamento. Dopo allora ricordo altre nevicate. Ma nessuna epica. Le più rilevanti, mi sorpresero a Urbino. Per la posizione e l'altitudine, predisposta a precipitazioni nevose rapide e cospicue. D'altronde, a Urbino, nulla è normale. Ricordo, due anni fa, in febbraio. La neve scese imponente e coprì tutto in fretta. E rammento il rientro, in auto. In silenzio, da solo. La neve ti fa sempre sentire solo. E ti avvolge in una cappa di silenzio. Molte ore di viaggio, prima di rientrare a casa.

Niente a che vedere con l'evento di questi giorni, però. La nevicata del febbraio 2012, mese bisestile di un anno bisestile. Il "Nevone", come lo chiamano, da queste parti. Me lo sono perso. Per caso. Fermato da un'influenza, martedì 31 gennaio, mentre mi preparavo per andare a Urbino. Dove mi attendeva una sessione di esami. Ma avevo 38° di febbre. Che sarebbero saliti, nei giorni seguenti. Oppresso da una bronchite che mi faceva sentire come un palombaro chiuso nello scafandro. Per cui mi sono arrestato sulla soglia di casa. Sono rientrato e mi sono infilato a letto. Dove sono rimasto per molti giorni. Ho ripreso a uscire di casa solo oggi. Sfatto. Dopo dieci giorni di antibiotici, mucolitici e altri medicinali.

La neve che scendeva copiosa a Urbino l'ho vista  -  e sentita  -  di lontano. Me l'hanno raccontata gli amici e i colleghi. I primi giorni: sorpresi e un po' indignati. Perché i riflettori erano tutti puntati su Roma, paralizzata da qualche centimetro di neve  -  diciamo, al massimo, 15-20. Mentre a Urbino e nei dintorni  -  Urbania, il Montefeltro, l'entroterra di Rimini  -  ne era scesa più di un metro. E molta, moltissima ne sarebbe scesa ancora. Per limitarci alle ultime ore, nella notte e nella prima parte della giornata, è sceso oltre mezzo metro di neve, ancora. E la neve continua a scendere, senza rallentare. Tuttavia, l'atteggiamento dei media è cambiato in fretta. E da molti giorni abbiamo tutti, davanti agli occhi, le immagini di Piazza del Rinascimento e di Piazza della Repubblica, trasformate in alpeggi d'alta montagna. Il Palazzo Ducale, innevato come, a San Pietroburgo, la Cattedrale di Sant'Isacco d'inverno. L'angolo tra via Raffaello e via Santa Margherita, vicino a casa mia, sepolto da cataste di neve. Altissime. La città ducale sepolta e isolata dalla neve. L'ha narrata Jenner Meletti, alcuni giorni fa, su "la Repubblica", in un viaggio epico (come quello di Paolo Rumiz nei dintorni de l'Aquila). L'hanno documentata, con insistenza, i principali programmi e canali di news. Ma, soprattutto, l'hanno rappresentata, aggiornata e rivisitata, di continuo, gli studenti dell'IFG. La Scuola di giornalismo, che ha sede a Urbino da decenni.
Il sito del loro giornale, "Il Ducato", è divenuto un riferimento critico e strategico. Per chi abita a Urbino, ma anche per chi sta altrove ed è interessato a quel che avviene nella città ducale, in questa emergenza.

Gli studenti dell'IFG hanno potuto scoprire il brivido della "professione" giornalistica. Ancora oggi. Al tempo della Rete. Hanno fatto inchiesta, cronaca, servizio. In una città che non ha un "proprio" giornale. Hanno raccontato e aggiornato l'evolvere della situazione. Un giorno dopo l'altro. Un'ora dopo l'altra. Indicando i punti critici, narrando storie. Hanno operato da rete di comunicazione per la città. E da schermo, amplificatore, oltre che da medium, all'esterno. Per l'Italia e il mondo. In questo modo hanno, inoltre, dato risposta al problema su cui si interroga da tempo  -  anzi, da sempre - Urbino. Come molte altre città "universitarie". La relazione e la coabitazione tra Università e Città. Fra la Città degli Urbinati  -  i residenti  -  e la Città degli Studenti, ma anche dei docenti - oltre dei tecnici e degli amministrativi (peraltro, in larga misura urbinati). Un rapporto complicato, visto che gli Urbinati hanno abbandonato (o quasi)  il Centro storico agli studenti  -  e all'Università. Con tutti i problemi e le tensioni che derivano, per una Città abitata da abitanti temporanei e di passaggio. Tuttavia, un'indagine recente, realizzata dal LaPolis e dal CIRSFIA per l'Università di Urbino, ha mostrato come la confidenza reciproca, in effetti, sia alta. Come gran parte degli urbinati affidi all'Università le proprie prospettive future  -  non solo economiche. E, d'altronde, gran parte degli studenti consideri un vantaggio e un'opportunità vivere e studiare a Urbino. Il Nevone del 2012 ha rafforzato questo legame. Ha visto gli Urbinati e gli studenti lavorare vicino. Enti locali e Università: condividere l'emergenza. Con l'intervento "esterno" dei militari, in alcuni momenti critici. Ma Urbino, lontana dal mondo, ha continuato a vivere. La gente si è "arrangiata". Ha reagito. Urbinati e  studenti, insieme: hanno spalato neve, liberato strade, aperto varchi. Insieme: ce l'hanno fatta. A rendere agibile la città. Nonostante i supermercati vuoti e i distributori esauriti. Senza lamentarsi troppo.

Ma gli studenti e l'Università hanno, inoltre, dato occhi e voce a quel che avveniva. Hanno messo in comunicazione le persone e le istituzioni, sul territorio. Mostrando "al mondo" la città, prima e dopo il Nevone. Ne hanno fatto un'icona "ideale". (Che spettacolo la città sotto la neve! Senza auto. Le poche rimaste: invisibili. Sepolte dalla neve.)

Così mi resta il sollievo e un po' di rimpianto. Il sollievo di aver scampato il Nevone del 2012. Di non essere finito sotto la tormenta e sotto la febbre. Il rimpianto di non averlo visto e vissuto di persona. Di non poter conservare memoria di questo evento non come un'immagine - che rimbalza sui media e sulla rete. Ma come un'esperienza eccezionale. Perché Urbino è eccezionale in condizioni normali. Tanto più in condizioni eccezionali.

(10 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/02/10/news/il_nevone_del_febbraio_2012_a_urbino-29681820/


Titolo: ILVO DIAMANTI - I quattro dilemmi che lacerano il Pd
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2012, 06:36:19 pm
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I quattro dilemmi che lacerano il Pd

Obiettivi, alleanze, primarie, leadership: il Partito democratico affronta l'Italia post-berlusconiana in una situazione di disagio.
Da cui rischia di uscire dissociato. Un soggetto politico "impersonale" in un mondo di partiti personali e di Presidenti senza partito.
Che ora è costretto a fare i conti con i nodi rinviati e risolti al suo interno

di ILVO DIAMANTI


IL PARTITO Democratico è attraversato da un disagio profondo. Difficile da dissimulare, ma anche da sopportare a lungo.
Rischia di uscirne dissociato. Insieme a questo governo di "tregua nazionale".

E al sistema politico di questa Repubblica, post-berlusconiana. Montiana. Sono quattro le questioni - meglio sarebbe dire "dilemmi" - che lacerano il Pd. Gli obiettivi, le alleanze, le primarie e la leadership. In questa sede mi limito a tematizzarle in modo schematico.

GUARDA LE TABELLE 1 (su repibblica.it)

1) Anzitutto, gli obiettivi, l'orizzonte strategico. Il Pd oggi è diviso. Non solo al proprio interno, ma "intimamente". Nel senso che leader, militanti ed elettori con-dividono i medesimi orientamenti. Contrastanti. Sospesi e stressati fra laburismo e liberismo. Basti pensare, in primo luogo e soprattutto, al controcanto (contraddizione?) fra l'atteggiamento verso il governo e le sue politiche.

Gli elettori del Pd valutano le scelte del governo Monti, nell'ambito economico e del lavoro, in modo largamente negativo. Le considerano, eufemisticamente, poco eque. Sul provvedimento relativo all'art. 18 (come emerge dai dati del sondaggio di Demos) il dissenso degli elettori Pd è netto (67% contrari). Superiore a quello della popolazione (59 % circa).

Essi, tuttavia, sono al contempo, i più convinti sostenitori del governo (80%: quasi 20 punti più della media generale). Stimano Monti (84%: + 17 punti della media generale) ma anche i suoi ministri. Fornero (60%: 9 punti in più della media generale) e Passera (65%: addirittura 15 punti sopra la media generale). Insomma, la base del Pd e animata da sentimenti "lab" ma si affida a una squadra di "lib" convinti.

Peraltro, il 44% degli elettori Pd esprime "molta fiducia" nella Cgil, circa 20 punti in più rispetto alla media della popolazione. Mentre il credito verso Cisl e Uil scende al 27% (6 punti sopra la media) e verso le associazioni degli imprenditori scivola al 19% (2 punti meno della media). Difficile che uno sguardo così strabico non provochi malessere.

2) Un problema accentuato dalla questione delle alleanze. Pur di favorire la nomina di Monti al governo e, insieme, le dimissioni di Berlusconi, il Pd ha accettato di allearsi con l'Udc e, soprattutto, con il Pdl. Una "grossa coalizione". All'italiana - cioè: non ammessa e non dichiarata. In contrasto con l'intesa di centrosinistra, coltivata negli ultimi anni insieme a Idv e Sel. E sperimentata con successo, seppure con qualche sofferenza, alle amministrative del 2010.

Tuttavia, alle prossime elezioni (che dovrebbero svolgersi nel 2013, secondo regola) non sarà facile per il Pd (e per il suo gruppo dirigente) scegliere le alleanze. Certamente non potrà riproporre la "grossa coalizione" con il Pdl e l'Udc. Oltre metà degli elettori non lo seguirebbe. Preferirebbe, piuttosto, votare per la Sinistra. Oppure astenersi.

Ma neppure un'intesa "esclusiva" con l'Udc, quindi un patto di Centro-Sinistra, garantirebbe l'unità interna al Pd. La sua base elettorale si spezzerebbe. Un terzo opterebbe, egualmente, per la Sinistra. Con il risultato che prevarrebbe il Centrodestra (Pdl-Lega).

Resta, quindi, l'alleanza con la Sinistra. Con l'Idv e Sel. La più condivisa dagli elettori. Ma non priva di rischi. Perché, inoltre, accentuerebbe il peso degli orientamenti laburisti e di sinistra. Alimentando il disagio della componente "popolare" e "moderata" nel Pd.

3) C'è poi la questione delle Primarie. Non un semplice metodo di selezione del candidato alle elezioni (a diverso livello: nazionale e locale), ma un vero "mito fondativo", secondo la definizione di Arturo Parisi. Utilizzate anche per eleggere il leader del partito. Una procedura di mobilitazione degli elettori e dei simpatizzanti, progettata al tempo dell'Ulivo, soggetto politico "inclusivo" che mirava all'aggregazione delle forze politiche di centro-sinistra, sotto lo stesso tetto. Come l'Unione nel 2006.

Ma nel Pd, "partito" maggioritario ed "esclusivo", le Primarie, dopo il 2008, si sono trasformate in un metodo per scegliere il candidato di "un altro" partito. Nell'ultimo anno, è già avvenuto a Milano, Cagliari, Genova. Da ultimo a Palermo. E prima in Puglia. Naturalmente, il problema non è tanto le Primarie, quanto il Pd. Le cui divisioni si trasferiscono nelle Primarie. Occasione per regolare i conti interni, fra leader e componenti. Il che favorisce, ovviamente, i candidati di altre forze politiche.

Tuttavia, gli elettori di centrosinistra e del Pd si sono, ormai, "abituati" alle Primarie. Principale, se non unico, canale di partecipazione alle scelte del partito. Per cui, non a caso, i due terzi degli elettori del Pd si dicono disponibili a votare alle Primarie. Peraltro, il 35% le vorrebbe solo di partito. Una componente superiore (di circa 10 punti) a quella che si osserva nella base di Sel e Idv.

Il problema è che il Pd deve decidere cosa vuol diventare da grande. Un "cartello nazionale", in grado di aggregare molte forze diverse, come l'Ulivo. Oppure un Partito che mira ad attrarre gli elettori dell'area di centrosinistra, come il Pd nel 2008. Un'alternativa che condiziona l'ambito delle Primarie. A livello di partito o di coalizione.

4) Questi dilemmi si riflettono nella questione della leadership. Divenuta fondamentale al tempo della "democrazia del pubblico" (così definita da Bernard Manin), personalizzata e maggioritaria. Oggi, non esistono partiti senza leader che li impersonino. Semmai è vero il contrario. Presidenti senza partiti e, perfino, contro i partiti. È il lascito del Berlusconismo. E della sua crisi, colmata dal ruolo assunto da Napolitano e da Monti.

A questo proposito, è interessante notare come il leader che gode dei maggiori consensi, in vista delle prossime elezioni, fra gli elettori di centrosinistra, sia l'attuale segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Il quale prevale nettamente sugli altri possibili candidati. Degli altri partiti e dello stesso Pd. Bersani. Nonostante sia considerato un leader debole. Forse perché è, comunque, ritenuto competente. In grado di guidare il Governo meglio del partito. O forse perché proprio la sua "debolezza" lo rende adatto a interpretare i dilemmi del Pd.

Più che un soggetto coerente e strutturato: un aggregato politico, che raccoglie molte diverse storie, identità e culture. Senza riassumerle. Il che non gli ha impedito di divenire primo partito in Italia - per debolezza altrui. Ma gli ha permesso, anzi, di aggregare, con successo, altre forze politiche, in diverse occasioni recenti. Magari senza imporsi alla guida. Senza imporre la propria guida. Agli altri.

Un "partito impersonale", in mezzo a molti "partiti personali" e a due Presidenti senza partito. Può essere "impersonato", anzitutto e soprattutto, da una persona anti-carismatica. Un leader di buon senso. Un Bersani, insomma. (Detto senza ironia, né, tanto meno, con sufficienza.)

Ciò, semmai, solleva un altro dilemma. Riguarda il rinnovamento della classe dirigente. Tanto evocato quanto, fin qui, eluso e deluso. Impensabile e im-pensato dagli stessi elettori del Centrosinistra.

Il dubbio è se il Pd possa avvantaggiarsi della debolezza altrui - e propria - evitando di fare i conti con i suoi dilemmi, sin qui rinviati e irrisolti. Fino a quando gli sarà possibile? Non molto a lungo, penso.

(26 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/26/news/i_quattro_dilemmi_che_lacerano_il_pd-32207204/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La community degli individui che parlano da soli
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2012, 10:28:50 pm
La community degli individui che parlano da soli

Ilvo DIAMANTI

Dovunque, intorno a noi, persone che parlano da sole. Passeggiano e non guardano nessuno, gli occhi puntati di fronte a loro. Discutono, ridono, corrugano la fronte, alzano la voce. Ascoltano, rispondono piccate oppure divertite. Come fossero da sole. Perché effettivamente lo sono. Fisicamente. Sole in mezzo agli altri che sciamano intorno a loro. Ma insieme ad altre persone lontane, che parlano con loro. Anch'esse, sole. Con gli auricolari o i dispositivi blue tooth alle orecchie. Camminano. In centro o in periferia, per strada o in ufficio. Oppure se ne stanno a casa loro. Isolate dal resto della famiglia. Unite ad altre persone dal portatile. Dallo smartphone. Parlano oppure diteggiano. Mandano sms.

Da qualche tempo, sempre più spesso, sempre più numerosi: tweettano, inviano al mondo i loro messaggi, rigorosamente brevi e sincopati. Individui famosi e anonimi, senza differenze di classe, genere, ceto. Se hanno un po' di spazio, estraggono il tablet o il micropc, tanto micro da confondersi con un libro tascabile. E scrivono email. Si connettono a internet. Entrano nella loro "rete sociale". Su FB o altrove.
Non una Comunità, ma una Community. Dialogano attraverso un blog. Oppure partecipano a una riunione di lavoro. Tre, cinque, venticinque persone: distanti l'una dall'altra. Ciascuna in una città diversa, magari in un paese diverso. Dialogano in chat. Accedono a Skype e si guardano in faccia. Il viso slavato, le voci e le immagini che tremano un poco.

Un tempo, poco tempo fa, erano soprattutto i giovani a frequentare questa forma di community individualizzata. I ragazzi: maghi della comunicazione a distanza, attraverso il cellulare. Quando non erano in contatto con i loro pari, indossavano le cuffie e ascoltavano musica con l'iPod. Tanto per non rischiare il rapporto diretto con chi stava intorno a loro. Ma oggi le frontiere generazionali sono svanite.
Dovunque sciamano persone che parlano ad alta voce da sole, oppure dialogano con gli altri e con il mondo per sms. Le cuffie alle orecchie, non sentono e non vedono. Gli altri. Solo musica, magari un film.  Senza differenze né limiti d'età. Persone di ogni generazione.
Di ogni ceto. Affollano ogni luogo e ogni spazio. Le piazze, le strade, gli uffici, i treni, gli autobus. Una società autistica. (Con grande rispetto per gli "autistici" veri.) Dove  l'altro è una presenza lontana. Una voce incerta e intermittente. Un dito che batte su una tastiera. Una frase, qualche rigo, poche parole. Un volto sfocato e una voce asincronica. Un profilo. L'Altro: ipotetico e simulato.

(29 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/03/29/news/la_community_degli_individui_che_parlano_da_soli-32430154/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il principio del montismo
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2012, 05:04:29 pm
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Il principio del montismo

di ILVO DIAMANTI


NON HO mai pensato che il governo Monti fosse catalogabile come "governo tecnico", senza altri aggettivi. È un governo "politico".
Non solo perché ogni governo è, naturalmente, politico. Tanto più se, come in questo caso, è chiamato a gestire la crisi economica più grave del dopoguerra e la crisi politica più seria dopo il 1992. Ma soprattutto perché le ragioni che hanno portato al governo Monti e i tecnici sono "politiche". Legate alla fine di un ciclo durato quasi vent'anni: il Berlusconismo. Mario Monti, d'altronde, appare del tutto consapevole della propria "missione". Gad Lerner, nei giorni scorsi, ha parlato, non a caso, di ideologia" politica. Anzi, "biopolitica". E ha fatto riferimento, per questo, al "brutale disincanto" che connota la comunicazione di Monti. Alla cifra "liberal-liberista" della sua visione politica.

Poi, a una certa insofferenza spressa dal governo (cosiddetto) tecnico verso le logiche della concertazione e della mediazione. Tutto ciò è sicuramente vero. Tuttavia, Monti interpreta, prima ancora, l'insofferenza dei cittadini verso i soggetti della rappresentanza. I partiti, ma anche i sindacati. Lo fa in modo esplicito e consapevole.

E lo dichiara apertamente. Come a Tokio, alcuni giorni fa, quando ha rammentato che nei sondaggi "il governo ha un alto consenso e i partiti no". Un'affermazione difficile da contestare. Che può venire estesa anche ai sindacati e alle associazioni imprenditoriali. In primo luogo Confindustria. Le proposte di riforma del mercato del lavoro e in particolare dell'articolo 18 hanno modificato questi orientamenti, riducendo il consenso verso il governo. Ma sicuramente non hanno alimentato la fiducia nei partiti e nei sindacati. Peraltro, secondo Ipsos di Pagnoncelli, l'azione del governo è tuttora valutata in modo positivo da oltre il 56% degli elettori. Una misura simile a quella rilevata dall'Ispo di Mannheimer: 54% (in risalita nell'ultima settimana). Un livello mai raggiunto dal governo Prodi dal 2006 al 2008, ma neppure dal governo Berlusconi negli anni successivi. Personalmente, inoltre, Mario Monti gode della fiducia del 60% dei cittadini. In altri termini: nonostante le scelte e le politiche del governo  -  ritenute poco eque, dal punto di vista sociale  -  abbiano suscitano l'insoddisfazione di ampi settori della popolazione, il sostegno verso Monti e il suo governo resta molto ampio. La maggioranza assoluta degli elettori si fida di lui assai più che degli altri leader politici. Del governo più che dei partiti e delle organizzazioni di categoria. Si fida, cioè, di figure non elette (anche se "votate" dal Parlamento) assai più che dei rappresentanti dei cittadini e degli interessi economici e sociali. Ciò solleva alcuni dubbi sulla legittimità della democrazia rappresentativa, in questa fase. D'altronde, mai come oggi sono apparsi tanto evidenti i limiti  della sovranità degli stati nazionali e delle istituzioni "democratiche" che li governano. Costretti ad adeguarsi ai vincoli imposti dai mercati e alle decisioni assunte dalle autorità sovranazionali. Politiche e istituzionali, ma soprattutto monetarie ed economiche. Mai come oggi gli "esperti" hanno assunto potere, a livello globale.

I partiti, d'altronde, risultano largamente "sfiduciati", anche perché essi, per primi, non riescono ad  autoriformarsi. Ma appaiono, invece, ulteriormente usurati da scandali e casi di corruzione che si ripetono. Mentre faticano a frenare la deriva oligarchica che li affligge. Infine, il rito fondativo delle democrazie rappresentative, le elezioni, appare anch'esso discusso e criticato. Vista l'insofferenza generalizzata verso l'attuale sistema elettorale. Vista la difficoltà di approvarne un altro, diverso, che restituisca ai cittadini maggiore possibilità di scelta e di controllo. Sugli eletti e sulle loro iniziative. Il risultato è che la sfiducia oggi intacca la legittimità dei partiti in quanto tali. Tanto che la maggioranza assoluta degli italiani (intervistati in un sondaggio Demos, marzo 2012)  -  per la precisione, il 52%,  -  approva l'idea che "la democrazia può funzionare anche senza i partiti". Cioè: 10 punti più di un anno e mezzo fa. Immaginare una democrazia senza partiti, però, significa mettere in dubbio l'utilità della democrazia rappresentativa, tout-court. D'altra parte, oltre il 60% dei cittadini, infatti, si dice favorevole a rinviare le elezioni del 2013, per far continuare Monti "fino a quando la crisi sarà risolta". Cioè: a proseguire con un governo non eletto, senza andare al voto. Fino a data da destinarsi. In ciò mi pare consista il segno essenziale del Montismo. Che va oltre lo "stile di azione e di governo". Al di là ell'ideologia delle politiche economiche e sociali intraprese. Il Montismo (come ho già scritto) mi sembra anzitutto una sorta di "aristocrazia democratica". "Democratica", perché dotata di consenso popolare e, comunque, sostenuta dal voto del Parlamento. Perché, inoltre, è temporanea e non ambisce a "riprodursi", come ripete spesso il suo artefice.

Tuttavia, si tratta indubbiamente di Aristocrazia. Perché la legittimazione di Monti e dei suoi ministri dipende da ragioni esterne al Parlamento e alla politica. Deriva dalle loro competenze "personali", adatte affrontare l'emergenza economica. Dalla credibilità loro riconosciuta presso le istituzioni economiche e monetarie internazionali. Presso gli altri governi. Deriva, al tempo stesso, dalla loro "diversità"  -  e alterità  -  rispetto ai partiti e ai politici "democraticamente" eletti. Per questo, quando sostiene che il "montismo non esiste" che, dopo le prossime elezioni, lui stesso sparirà, e torneranno governi "politici", Monti è sincero. Ma non per questo afferma il vero. Perché il "montismo" va oltre la sua persona e il suo governo. Al di là e oltre le intenzioni di Monti, il Monti riflette un sentimento popolare, in parte, antipolitico. Sicuramente antipartitico. L'assicurazione del premier che l'anno prossimo al governo torneranno i "politici", più che una promessa, a molti cittadini, appare una minaccia. Perché Monti e il Montismo, con le debite distanze e differenze, sono percepiti e concepiti da un'ampia parte degli elettori, come Tangentopoli vent'anni dopo. Cioè: uno strumento per "liberarsi" del sistema politico precedente. Allora: la Prima Repubblica. In questo caso: il Berlusconismo (e l'anti-Berlusconismo). Le logiche e gli attori che hanno guidato la Seconda Repubblica. Il Montismo, il "potere in mano ai tecnici", senza la mediazione dei partiti e senza la legittimazione elettorale, riflette, quindi, il disagio dei cittadini verso la nostra democrazia rappresentativa. Indica una domanda  -  confusa  -  di cambiamento, largamente condivisa. "Liberarsi" di Monti: eleggere un nuovo Parlamento e un nuovo governo, con queste regole, questi partiti, questi leader politici. Non basterà a superare il Montismo. Ma rischia di alimentare quella stanchezza della democrazia che si respira nel Paese.

(02 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/02/news/principio_montismo-32601764/?ref=HREC1-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - Avanza l'Uomo Multitask
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2012, 03:34:55 pm

Bussole

Avanza l'Uomo Multitask

Ilvo DIAMANTI


AMMETTO che da qualche tempo, rileggendo le mie Bussole, mi scopro - di Bussola in Bussola - invecchiato. Perché vi leggo lo spaesamento.
Il "mio" spaesamento. Di fronte ai mutamenti che hanno stravolto il territorio e impoverito le relazioni sociali. Ma anche di fronte agli effetti sociali e soggettivi prodotti dall'innovazione. Insomma: ho difficoltà ad accettare il cambiamento.

Preciso: spaesamento non significa in-comprensione. Conosco - e in larga misura utilizzo - i nuovi strumenti dell'elettronica e della tecnologia comunicativa. Ne sono un consumatore affezionato e aggiornato. Da trent'anni almeno (per ragioni professionali, anzitutto.) Tuttavia stento ad accettarne l'impatto. Sul piano ambientale, sociale e della vita quotidiana. Ripeto: mi trovo anacronistico. Fuori tempo. Insomma: invecchiato.

Per esempio, io sono abituato a fare una cosa alla volta. Leggere o scrivere. Andare in bicicletta in mezzo alla campagna, al più, guardandomi intorno. Pensare. Preparare o ripetere, mentalmente, la mia lezione. Oppure il testo che intendo scrivere. E quando scrivo un testo, non riesco a fare altro che quello. E quando  sono a pranzo o a cena, posso, al massimo, dialogare con i miei familiari, con gli amici. O sbirciare il giornale  -  aiuta a non "affogarsi", a fare le cose con calma.

Dire: "sono" abituato, però, non è corretto. Meglio: "ero". Perché anch'io, ormai da tempo, ho cambiato abitudini. Perché sto diventando, a mia volta, un "Uomo Multitask". Per mimetismo con gli strumenti  -  tecnologici  - di cui mi servo. O che si servono di me. Come lo smartphone che mi accompagna fedele. Oggetto  -  e Soggetto  -  multimediale. E multi funzionale. Che fa, anzi: "è" molte cose, tutte insieme. Video e foto-camera, macchina fotografica, PC, riproduttore MP3, navigatore GPS, consolle per videogame, torcia elettrica, agenda, lettore di libri, sveglia, radio, tivù ...  E molte altre applicazioni, sempre nuove e sempre diverse, che si possono scaricare e installare con lo stesso mezzo. Attraverso lo smartphone. Con il quale è possibile, ogni tanto, anche telefonare (lo fanno solo i più anziani, appunto, come me) e inviare sms.

L'Uomo Multitask, coerentemente, è in grado di fare e di gestire molte cose insieme. All'ora - pardon: la mezz'ora - di pranzo con una mano mangia il panino più o meno caldo, o qualcos'altro, con l'altra scorre il giornale, mentre con lo smartphone e il blue tooth parla con qualcuno. Senza rinunciare a dare un occhio alle notizie che passano in tivù. I più virtuosi  riescono a utilizzare le due orecchie per funzioni diverse: ascoltano musica, oppure la radio e, insieme, telefonano magari accompagnando, con la voce, il ritmo della musica.

Allo stesso modo, nessuno corre, fa footing oppure va in bici senza fare, insieme, due o tre di queste attività. Telefonare, chattare, ascoltare musica, inviare sms, bere un integratore, mangiucchiare una barretta energetica... Alcuni, i più spericolati e pericolosi, per sé e soprattutto per gli altri, si dedicano a più attività anche quando guidano. Li vedi passare con una mano sul volante e l'altra che impugna il telefonino. Quando va bene. Perché a volte hanno due telefonini, due smartphone. E li usano contemporaneamente. Magari con uno messaggiano e con l'altro telefonano. Senza, ovviamente, viva voce né auricolare. Per cui li vedi passare "senza mani" sul volante. Lo orientano, nel caso, con i gomiti. Ogni tanto danno un'occhiata al giornale, appoggiato sul sedile accanto. Oppure alla tivù, che nelle auto più avanzate e lussuose è installata sul cruscotto. Insieme alla radio e al dispositivo USB per ascoltare musica. Sempre attivi.

L'Uomo Multitask segna una decisa svolta nel rapporto fra le persone e il mondo intorno. (D'altronde, l'Human Multitasking è un'area sviluppata da tempo in diversi settori scientifici). Senza pretendere di spiegare quel che io stesso stento a capire, mi pare però che da questa tendenza emerga (e si propaghi) un soggetto flessibile, sempre connesso. Naturalmente in grado di combinare luoghi, relazioni, attività differenti. Senza soluzione di continuità. Senza fermarsi. Senza fissarsi su uno specifico punto e su una specifica pratica per più di qualche minuto. In grado, per questo, di fare molte cose e nessuna in particolare. Con il rischio, per questo, di essere meno "connesso" con il mondo intorno. Di apparire e di sentirsi sempre di passaggio. Come se fosse lì per caso.

È ciò che provo anch'io, perché anch'io sto diventando così. Solo che, mentre cerco di gestire molti compiti e  molte funzioni, nello stesso momento, mi sento - e sono - imbranato. A disagio. Perché io resto, tendenzialmente, Unitask. Agire da Multitask mi costa fatica. Come muovermi in mezzo al cyberspazio immobiliare e sociale che mi circonda. Lo comprendo, lo conosco. Ma non mi ci riconosco.

(06 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/04/06/news/avanza_l_uomo_multitask-32834930/


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Repubblica provvisoria
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2012, 12:02:59 pm
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La Repubblica provvisoria

Lo scandalo che ha travolto il Carroccio, la fine del berlusconismo segnano la fine di un'epoca.

Che lascia la 'questione settentrionale' senza rappresentanza. E che necessità una legislatura costituente

di ILVO DIAMANTI

È FINITA un'epoca. Ripeterlo, come un mantra, serve a evitare di appiattirsi sulla cronaca (giudiziaria o di colore). Che ogni giorno riserva novità. Ieri le dimissioni del figlio del Capo  -  Renzo Bossi  -  dal Consiglio regionale della Lombardia. Oggi chissà.

Ma gli scandali che hanno travolto il milieu familiare  -  forse meglio: familista  -  di Bossi, insieme alla leadership della Lega (in parte coincidenti), rammentano quanto già si conosceva. Che la Lega è divenuta, da tempo, un partito come gli altri. Per alcuni versi: più esposto degli altri alle logiche di sotto-governo.

Perché ha occupato una catena infinita di posti di potere, centrale e locale, in tempi molto rapidi. E la sua classe politica è stata reclutata in base a criteri di fedeltà ai leader, non di coerenza con la "missione" del partito. Tanto meno di qualità.

Tuttavia la Lega non è - o almeno: non era - un partito come gli altri. È il soggetto politico che ha rovesciato la "Questione nazionale", storicamente identificata con il Mezzogiorno - l'area dello "sviluppo dipendente". Ha, invece, interpretato la cosiddetta "Questione Settentrionale". Espressa dalle province pedemontane del Lombardo-Veneto. Protagoniste, dopo gli anni Settanta, della crescita impetuosa della piccola e media impresa. La Lega ne è divenuta portabandiera. Ha interpretato la domanda di rappresentanza dei lavoratori autonomi
e dipendenti che popolano questo territorio di piccole città e di piccole aziende. La Pedemontania.

La crisi della Lega è avvenuta all'indomani delle dimissioni del Cavaliere. Non a caso. Perché Berlusconi ha rappresentato l'altra faccia della "Questione Settentrionale". Milano e il capitalismo dei "beni immateriali" (per citare Arnaldo Bagnasco): media, comunicazione, assicurazioni, finanza, servizi. Naturalmente complementare alla politica, per ragioni di "mercato", spazi, concessioni.

Due Nord alternativi al capitalismo metropolitano della grande produzione di massa. Alla Fiat, insediata a Torino e alleata con Roma. Milano e la Pedemontania erano destinati a incontrarsi. A stabilire un rapporto di reciproco interesse, per quanto concorrenziale. Com'è avvenuto. Dal 1994 fino a ieri. Con alterne vicende. La vittoria e l'esperienza di governo, insieme, nel 1994 e, dopo pochi mesi, la rottura. Berlusconi all'opposizione e la Lega verso la secessione. In caduta: dal 10% nel 1996 a poco più del 4% nel 1999.

Destinati, dunque, a tornare insieme. Per vincere, nel 2001, e governare per 10 anni, quasi ininterrotti. Insieme. Berlusconi e Bossi, l'Imprenditore e il Territorio. Milano e la Pedemontania: a Roma. Per cambiare l'Italia. Per riformarla a misura del loro popolo, dei loro elettori. Che chiedevano - e chiedono - di essere "liberati": dalle tasse, dalla burocrazia, dal peso del pubblico, dai privilegi della classe politica - "romana" e "meridionale". Dal centralismo.

Nulla di tutto ciò si è avverato. La pressione fiscale è cresciuta. Il federalismo: approvato a parole. Mai tradotto in regole e strutture amministrative efficienti. I privilegi politici: mantenuti e moltiplicati. Insieme alla corruzione. Infine, la crisi globale - a lungo negata dal governo del Nord - ha colpito pesantemente l'Italia. Ma anche il Nord. Il piccolo Nord, il Nord dei piccoli: punteggiato dai suicidi di artigiani che non ce la fanno. Il Nord di Berlusconi, dei media e dei servizi: alla ricerca crescente di protezione politica. (Il leader: impegnato a proteggere se stesso e le proprie imprese).

Così la Lega, da Sindacato del Nord, si è trasformata in un partito come gli altri. Centralizzato e personalizzato. Senza più guida e senza controlli, dopo la malattia del Capo. In balia di colonnelli, caporali e parenti. Mentre il Pdl, ultima versione del partito personale di Berlusconi, si è meridionalizzato. Il declino del Capo l'ha lasciato senza identità e senza missione.

Così è s-finita l'avventura dei partiti del Nord alla conquista di Roma. Anche se la decomposizione della leadership leghista non significa, necessariamente, scomparsa della base elettorale. Fino a ieri era stimata intorno al 10%. E il suo elettorato più stabile e fedele, circa il 4%, dagli anni Novanta ad oggi appare insensibile a ogni rovescio. Né, d'altronde, le dimissioni di Berlusconi significano la scomparsa del suo elettorato. Quel 25% di elettori che l'hanno votato per oltre 15 anni dove e a chi si rivolgerà?

Il Centrosinistra, che pure ha governato per circa 7 anni, appare, da sempre, attraversato da profonde divisioni interne. In grado di competere, nel Nord, alle elezioni amministrative. Molto meno alle elezioni politiche. Tuttavia, la rappresentanza dei partiti del Nord oggi si presenta molto indebolita.

Così si chiude l'epoca del Grande Imprenditore e del Piccolo Nord. Senza riforme memorabili. Quelle promesse di vent'anni fa ce le siamo dimenticate. Questo "Paese eternamente provvisorio" (per citare Berselli) oggi è provvisoriamente affidato a un Grande Tecnico. Nominato dai partiti (maggiori) per garantire i mercati internazionali e l'opinione pubblica nazionale. Contro se stessi. Cioè: contro la minaccia dei partiti.

Tuttavia, è impossibile immaginare un futuro per questo Paese, senza riforme profonde. In grado non solo di controllare i "costi" della politica. Ma di ridisegnare lo Stato e le istituzioni. E di ricostruire la Politica e i Partiti. Perché senza Politica e senza Partiti non è possibile riformare lo Stato e le Istituzioni. Inutile illudersi che Monti e i suoi Tecnici (perlopiù del Nord) ce la possano fare, da soli.

Basti pensare alle difficoltà incontrate nel modificare l'articolo 18. Figurarsi cosa avverrebbe se si affrontasse una revisione costituzionale sostanziale. Non è un caso che Monti continui a citare i sondaggi - per legittimarsi. Come un Berlusconi qualsiasi. Ma la democrazia rappresentativa non può fondarsi sul verdetto dei sondaggi. Sostituendo il corpo elettorale con un campione di persone intervistate dagli istituti demoscopici.

Così, la fine dell'epoca di Berlusconi e di Bossi non risolve i problemi di questa "Repubblica provvisoria". Li lascia sospesi. La "questione settentrionale": senza rappresentanza. E, prima ancora, la "questione nazionale". In attesa di riforme che il governo del Nord non è riuscito a fare. E che il governo dei Tecnici non è in grado di realizzare. Questo Parlamento non glielo permetterebbe. Appartiene al passato. Bisogna, per questo, attendere nuove elezioni. Un nuovo Parlamento. E, a mio avviso, una nuova "Assemblea costituente".

 
(10 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/10/news/la_repubblica_provvisoria-33032730/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Paese degli ultrà
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2012, 04:27:45 pm


Ilvo DIAMANTI

Naturalmente, non tutti i tifosi sono ultrà. Al contrario, rispetto ai tifosi, gli ultrà sono una frazione. Quelli violenti, poi, sono pochi, pochissimi. A Genova: poche decine, al massimo un centinaio. Ma domenica scorsa hanno paralizzato l'intero stadio. Tenuto in ostaggio molte migliaia di persone. Imposto ai giocatori di svestire la maglia del club. La divisa, la bandiera. Davanti al pubblico di tutta Italia. Rilanciati più volte. In ogni rete, a ogni ora, in ogni trasmissione di informazione. Perché lo spettacolo dell'indignazione retrospettiva funziona sempre in Italia. La ricerca dei responsabili. Ma solo dopo l'evento. I giocatori, le società sportive, le federazioni, le forze dell'ordine, gli "altri" tifosi  -  pavidi. Tutti colpevoli, dunque nessun colpevole. Come tante altre volte, in tante altre occasioni. Difficile dimenticare il derby Roma-Lazio, nel 2004, sospeso a Roma, per volontà dei tifosi, in seguito alla morte di un bimbo, appena fuori dello stadio. Non era vero. Ma tant'è. Impossibile fermare la foll(i)a, quando esplode nei campi di gioco. Invece, era vero il sangue di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio, ucciso da un proiettile sparato, in una piazzola di sosta autostradale, da un agente. Ed è vera la selvaggia guerriglia scatenata a Roma, in  serata, da centinaia di ultrà. Per celebrare il loro povero compagno.

 Ma gli episodi simili, piccoli, medi e grandi, sono molti. Troppi. In molti stadi italiani, di ogni area, di ogni serie. Al punto che quando capitano non ci sorprendiamo neppure più. Tanto in Italia non paga mai nessuno. I tifosi violenti condannati, al massimo, a guardare la propria squadra da casa. (Ma non giurerei che non riescano ad aggirare il DASPO.)  Le società "costrette" a giocare un paio di partite a porte chiuse. (D'altronde, anche quando sono aperte, gli stadi sono largamente vuoti.) Mentre le federazioni e la Lega sono troppo impegnate ad azzuffarsi per i diritti televisivi per perdere tempo dietro inezie come queste. E i calciatori che si levano la maglia poi tornano in campo, la settimana dopo. Con la stessa maglia. Negli stessi stadi. Davanti allo stesso pubblico. Senza pagare pegno.

Gli ultrà. Sono pochi, magari non pochissimi. L'1,8% si dichiara tale  -  secondo l'Osservatorio sul tifo di Demos-coop (nell'ultima rilevazione, del settembre 2011). Peraltro, non tutti "violenti", ci mancherebbe. Quelli che minacciano, sparano fumogeni in campo, cantano cori infami, esibiscono striscioni che mescolano razzismo, nazismo e idiozia: sono la minoranza minima di una minoranza. D'altronde, gli ultrà sono infiltrati da frazioni politiche estremiste, a cui interessa conquistare visibilità. Per sé e i propri odiosi messaggi di odio. Viceversa, vi sono ultrà che si infiltrano in manifestazioni violente, a sfondo politico. Così, per tenersi allenati. O perché i due estremismi si congiungono.

Il fatto è che il calcio, ormai, tutto è diventato meno che uno sport. È uno spettacolo e un gioco  -  ma d'azzardo. Un'arena dove si misurano, incontrano e scontrano minoranze. Allo stadio, d'altronde, non ci va quasi più nessuno. Tutti davanti alla TV. A vedere partite il cui risultato è sempre in dubbio. Nel senso che ti resta il dubbio: se l'incontro a cui hai assistito sia reale oppure taroccato.

Ma tutto ciò avviene dentro a una società connivente o comunque indifferente. Gli ultrà: sono il 2% ma il 33% li considera utili allo spettacolo (uno spettacolo nello spettacolo, come domenica scorsa).  Magari ne condanna le "intemperanze", ma con molta indulgenza.

D'altra parte, in Italia, il 50% si dicono tifosi. Tre quarti di essi:  caldi e militanti. In gran parte: ritengono gli scandali che da anni investono il calcio fondati. Il 55% dei tifosi, quando gli arbitri sbagliano, pensa alla malafede. Due tifosi su tre, inoltre, considerano "Calciopoli" un caso di giustizia sportiva viziata da molti errori. Oppure palesemente ingiusto. Quanto allo "scandalo scommesse", i due terzi dei tifosi ritiene che abbia coinvolto molti giocatori e molte società. Gran parte dei tifosi, quindi, ritiene l'ambiente del calcio inquinato. In-credibile. Ma ciò non costituisce un argomento sufficiente a squalificarlo. Ad abbandonarlo. Quel che conta, par di capire, è vincere, non partecipare. E se anche il calcio fosse davvero inquinato da scommesse, corruzione, condizionamenti arbitrali, intese tacite, ebbene, in Italia così fan tutti. Dappertutto. In politica, negli affari, nel lavoro.

Perché scandalizzarsi? Così è la vita.   
 

(26 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/04/26/news/il_paese_degli_ultr-33960332/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Paese dei penultimi
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2012, 10:10:28 pm

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Il Paese dei penultimi

di ILVO DIAMANTI

IL PRIMO maggio, quest'anno, rischia di essere una festa triste per i protagonisti. I lavoratori. Ma anche il lavoro. Come fonte di reddito. Come riferimento dell'identità e come risorsa di promozione sociale. Il lavoro. Principio della Repubblica, sancito dalla Costituzione. Oggi è divenuto incerto. Insieme alla struttura sociale, di cui è base e fondamento.

L'Osservatorio su Capitale Sociale di Demos-Coop 1, infatti, rileva come oltre metà degli italiani (il 53%) percepisca la posizione sociale della propria famiglia "bassa" o "medio-bassa". Il che significa: oltre 11 punti in più rispetto a un anno fa. E soprattutto: quasi il doppio rispetto al 2006. Detto in altri termini, in pochi anni, l'Italia è divenuto un Paese di "ultimi". O, al massimo, di "penultimi". Dove il 37% delle persone insiste a considerarsi parte della "classe operaia" (e il 15% delle "classi popolari"). Anche se pare che gli operai non esistano più.

La fine del berlusconismo ha, dunque, decretato anche la fine della grande illusione. Che tutti gli italiani potessero diventare come Lui. Il Cavaliere. Con molta fortuna e altrettanta spregiudicatezza, un po' di senso cinico al posto di quello civico. Gli italiani: un popolo di partite Iva e di imprenditori. Di ceti medi pronti a salire ancora nella scala sociale. Il "sogno italiano", interpretato per quasi un ventennio da Berlusconi,
sembra finito in modo brusco. Perfino violento. Gli italiani che si sentono "ceto medio" sono, infatti, calati dal 60%, nel 2006, al 44% di oggi. Mentre il "mito dell'imprenditore" appare in rapido e profondo declino. Solo 2 italiani su dieci, per sé e i propri figli, ambiscono a un lavoro in proprio. Nel 2004 erano il 31%. Ancor meno, il 16%, sperano in una carriera da liberi professionisti. Un anno fa erano quasi il 23%.

Parallelamente, ha recuperato un grande appeal l'impiego pubblico. In testa alle aspirazioni del 34% degli italiani: 5 punti in più dell'anno scorso. È il mito del posto fisso che si fa largo e resiste. Nonostante che, nell'ultimo anno, solo il 30% delle persone dichiarino di aver lavorato "regolarmente tutti i mesi". O forse proprio per questo. Cioè: perché in un mondo instabile, la flessibilità, se è priva di prospettive e di tutela, sconfina nella precarietà. Alimenta incertezza. Per questo il 55% degli italiani si accontenterebbe di un lavoro di qualsiasi tipo, ma stabile. Non importa che piaccia, a condizione che sia sicuro.

Insieme al berlusconismo pare svanito anche il suo complemento psicologico: l'ottimismo. Fino a un anno fa, era l'ideologia del tempo. Un obbligo e un imperativo "nazionale". Dirsi pessimisti significava dichiararsi anti-italiani. E, quindi, (almeno un po') comunisti.

Nel 2003, circa il 40% degli italiani si diceva soddisfatto della condizione economica personale e di quella del Paese. Oggi quelli che esprimono la medesima convinzione sono poco più del 10%. In confronto all'anno scorso: la metà. D'altronde, nell'ultimo anno, il 45% degli italiani afferma di aver tirato avanti a fatica, con il proprio reddito, senza riuscire a metter da parte nulla. Oltre il 40% dichiara, anzi, di aver dovuto attingere ai propri risparmi oppure di aver fatto ricorso a prestiti. Insomma: di essersi impoverito. Non a caso, negli ultimi due anni, il 62% delle persone (intervistate da Demos-Coop) ritiene che la propria condizione economica sia "peggiorata".
Questo Paese, più che perduto, appare, dunque, popolato di "perdenti". Gli "ultimi", coloro che si sentono di posizione sociale bassa. I più colpiti dalla crisi. Insieme ai "penultimi", quelli che si dichiarano di classe medio-bassa. Il che significa, soprattutto, i lavoratori dipendenti privati, i pensionati, le casalinghe. La popolazione del Mezzogiorno. Rispetto a qualche anno fa, il ritratto tracciato dall'Osservatorio di Demos-Coop descrive un altro Paese. Un Paese smarrito. Dove la maggioranza delle persone ritiene troppo rischioso investire nel futuro. Dove la fiducia negli altri è, ormai, una merce rara. Espressa da due persone su dieci. Dove, di conseguenza, ci si sente stranieri, perché il "prossimo" si è eclissato e gli "altri" ci appaiono minacciosi. Stranieri fra stranieri.

Da ciò la differenza sostanziale dalle altre crisi che abbiamo affrontato, nel dopoguerra. Ieri - e ancor più ieri l'altro - credevamo in noi stessi e investivamo nelle virtù, ma anche nei vizi, del nostro carattere nazionale. Il lavoro, la famiglia, il risparmio. L'arte di arrangiarsi. Eravamo sicuri che ce l'avremmo fatta, comunque. Noi, che quando il gioco si fa più duro, abbiamo sempre dato il meglio. In grado di utilizzare come una risorsa perfino la povertà di senso civico, alimentata da un sistema pubblico poco efficiente. O meglio: un segno coerente con la storia del nostro Paese. Dove la società è tradizionalmente più forte dello Stato. Ed è sempre stata capace di affrontare sfide ed emergenze, con mezzi leciti e talora illeciti. Attraverso l'economia formale e quella sommersa. Il lavoro ufficiale e quello nero. La pressione e l'evasione fiscale. Oggi questo modello sembra in seria difficoltà. Perché i suoi fondamenti e i suoi meccanismi rischiano di logorarsi. La famiglia e il familismo, il risparmio, il localismo: non garantiscono più le stesse "prestazioni" di una volta. L'arte di arrangiarsi: non appare più reattiva come prima. Siamo meno convinti che, comunque, "ce la faremo" da soli. Con o senza lo Stato. La stessa riluttanza verso le regole, la fuga nel sommerso: appaiono, sempre più, un costo e perfino un danno sociale. E suscitano, per questo, insofferenza. Non a caso quasi 6 italiani su 10 considerano l'evasione fiscale un comportamento deprecabile. D'altronde, i controlli a sorpresa condotti dalla Guardia di Finanza in alcuni contesti particolarmente visibili, con finalità esemplari e spettacolari, hanno registrato largo consenso, nella popolazione.

Ma, soprattutto, ci penalizza il deficit di futuro e di comunità. L'incapacità di vedere lontano, di costruire relazioni con gli altri. Nessuno come noi, in Europa, guarda con sfiducia il futuro delle giovani generazioni. Forse perché nessuno come noi, in Europa, è invecchiato tanto e tanto in fretta. Così rischiamo di perderci. Perché la fiducia nello Stato, nel sistema pubblico e nella politica resta bassa. E, anzi, continua a calare. Ma le nostre tradizioni e le nostre istituzioni sociali non ci soccorrono più.

(30 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/30/news/diamanti_paese_penultimi-34201386/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Paese degli ultrà
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2012, 10:25:34 am
Il Paese degli ultrà

Ilvo DIAMANTI

Naturalmente, non tutti i tifosi sono ultrà. Al contrario, rispetto ai tifosi, gli ultrà sono una frazione. Quelli violenti, poi, sono pochi, pochissimi. A Genova: poche decine, al massimo un centinaio. Ma domenica scorsa hanno paralizzato l'intero stadio. Tenuto in ostaggio molte migliaia di persone. Imposto ai giocatori di svestire la maglia del club. La divisa, la bandiera. Davanti al pubblico di tutta Italia. Rilanciati più volte. In ogni rete, a ogni ora, in ogni trasmissione di informazione. Perché lo spettacolo dell'indignazione retrospettiva funziona sempre in Italia. La ricerca dei responsabili. Ma solo dopo l'evento. I giocatori, le società sportive, le federazioni, le forze dell'ordine, gli "altri" tifosi  -  pavidi. Tutti colpevoli, dunque nessun colpevole. Come tante altre volte, in tante altre occasioni. Difficile dimenticare il derby Roma-Lazio, nel 2004, sospeso a Roma, per volontà dei tifosi, in seguito alla morte di un bimbo, appena fuori dello stadio. Non era vero. Ma tant'è. Impossibile fermare la foll(i)a, quando esplode nei campi di gioco. Invece, era vero il sangue di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio, ucciso da un proiettile sparato, in una piazzola di sosta autostradale, da un agente. Ed è vera la selvaggia guerriglia scatenata a Roma, in  serata, da centinaia di ultrà. Per celebrare il loro povero compagno.

 Ma gli episodi simili, piccoli, medi e grandi, sono molti. Troppi. In molti stadi italiani, di ogni area, di ogni serie. Al punto che quando capitano non ci sorprendiamo neppure più. Tanto in Italia non paga mai nessuno. I tifosi violenti condannati, al massimo, a guardare la propria squadra da casa. (Ma non giurerei che non riescano ad aggirare il DASPO.)  Le società "costrette" a giocare un paio di partite a porte chiuse. (D'altronde, anche quando sono aperte, gli stadi sono largamente vuoti.) Mentre le federazioni e la Lega sono troppo impegnate ad azzuffarsi per i diritti televisivi per perdere tempo dietro inezie come queste. E i calciatori che si levano la maglia poi tornano in campo, la settimana dopo. Con la stessa maglia. Negli stessi stadi. Davanti allo stesso pubblico. Senza pagare pegno.

Gli ultrà. Sono pochi, magari non pochissimi. L'1,8% si dichiara tale  -  secondo l'Osservatorio sul tifo di Demos-coop (nell'ultima rilevazione, del settembre 2011). Peraltro, non tutti "violenti", ci mancherebbe. Quelli che minacciano, sparano fumogeni in campo, cantano cori infami, esibiscono striscioni che mescolano razzismo, nazismo e idiozia: sono la minoranza minima di una minoranza. D'altronde, gli ultrà sono infiltrati da frazioni politiche estremiste, a cui interessa conquistare visibilità. Per sé e i propri odiosi messaggi di odio. Viceversa, vi sono ultrà che si infiltrano in manifestazioni violente, a sfondo politico. Così, per tenersi allenati. O perché i due estremismi si congiungono.

Il fatto è che il calcio, ormai, tutto è diventato meno che uno sport. È uno spettacolo e un gioco  -  ma d'azzardo. Un'arena dove si misurano, incontrano e scontrano minoranze. Allo stadio, d'altronde, non ci va quasi più nessuno. Tutti davanti alla TV. A vedere partite il cui risultato è sempre in dubbio. Nel senso che ti resta il dubbio: se l'incontro a cui hai assistito sia reale oppure taroccato.

Ma tutto ciò avviene dentro a una società connivente o comunque indifferente. Gli ultrà: sono il 2% ma il 33% li considera utili allo spettacolo (uno spettacolo nello spettacolo, come domenica scorsa).  Magari ne condanna le "intemperanze", ma con molta indulgenza.

D'altra parte, in Italia, il 50% si dicono tifosi. Tre quarti di essi:  caldi e militanti. In gran parte: ritengono gli scandali che da anni investono il calcio fondati. Il 55% dei tifosi, quando gli arbitri sbagliano, pensa alla malafede. Due tifosi su tre, inoltre, considerano "Calciopoli" un caso di giustizia sportiva viziata da molti errori. Oppure palesemente ingiusto. Quanto allo "scandalo scommesse", i due terzi dei tifosi ritiene che abbia coinvolto molti giocatori e molte società. Gran parte dei tifosi, quindi, ritiene l'ambiente del calcio inquinato. In-credibile. Ma ciò non costituisce un argomento sufficiente a squalificarlo. Ad abbandonarlo. Quel che conta, par di capire, è vincere, non partecipare. E se anche il calcio fosse davvero inquinato da scommesse, corruzione, condizionamenti arbitrali, intese tacite, ebbene, in Italia così fan tutti. Dappertutto. In politica, negli affari, nel lavoro.

Perché scandalizzarsi? Così è la vita.   
 

(26 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/04/26/news/il_paese_degli_ultr-33960332/


Titolo: ILVO DIAMANTI - C'era una volta il Paese dei sindaci
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2012, 10:52:39 am
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C'era una volta il Paese dei sindaci

di ILVO DIAMANTI


Oggi sono chiamati a votare oltre 9 milioni di elettori, intorno al 20% del totale. Per eleggere i sindaci di quasi mille comuni, di cui 157 sopra i 15 mila abitanti, compresi 26 capoluoghi di provincia. Potrebbe apparire una consultazione minore. Ma in Italia nessuna elezione lo è.

Perché tutte le elezioni - e soprattutto quelle comunali - servono a cogliere e a dare segnali circa il cambiamento sociale e politico. Una considerazione tanto più vera per questa scadenza. La prima consultazione dopo vent'anni di berlusconismo. Mentre il sistema partitico e il rapporto tra politica e società appaiono logori. Marcati da fratture molteplici.

Da questo appuntamento elettorale ci attendiamo indicazioni su quattro diverse questioni.

1. La prima fa riferimento alla tradizionale divisione tra partiti e schieramenti, emersa nella Seconda Repubblica. Centrodestra e centrosinistra, con il Centro, a sua volta, oscillante fra i due poli. All'elezione del 2007, quando vennero eletti gran parte dei sindaci e dei consigli oggi in scadenza, il centrosinistra subì un pesante arretramento. Nei comuni (superiori a 15 mila abitanti) dove si votava allora, governava in 80 comuni, venti più del centrodestra. Oggi, nell'Italia al voto, il rapporto è rovesciato. Il centrodestra amministra 95 comuni (di cui 12 leghisti), il centrosinistra 53. Da qui in poi, faccio riferimento ai dati dell'Osservatorio Elettorale LaPolis-Demos. ll risultato del 2007 annunciò - e accelerò - il profondo mutamento del clima d'opinione, che avrebbe condotto al governo Berlusconi e la Lega, un anno dopo. Non a caso, dopo quelle amministrative, sorge il Pd di Veltroni. Il progetto del partito unico o, comunque, dominante, del centrosinistra. Imitato dal Pdl di Berlusconi, a centrodestra.

Quella stagione è finita. Da un lato, il centrodestra non è più maggioranza. Lo dicono i sondaggi. Ma, soprattutto, lo hanno dimostrato le elezioni amministrative di un anno fa. Quando il centrosinistra ha vinto nelle principali città dove si è votato. Fra le altre: Milano, Napoli e Cagliari. Dove sono stati eletti sindaci espressi da forze diverse dal Pd. Da ciò la spinta, moltiplicata dai referendum, che ha contribuito alla crisi della maggioranza di centrodestra e alla caduta del governo Berlusconi. Alla fine del berlusconismo, in altri termini. E alla conseguente debolezza del Pdl ma anche del Pd. Incapaci di imporsi come soggetti dominanti dei due schieramenti.

2. Oggi, peraltro, insieme ai principali partiti, anche le alleanze di prima sono divenute fragili. Scardinate dal "montismo", che ha gestito il post-berlusconismo. Sostenuto da una maggioranza di governo che associa i tradizionali oppositori, Pd e Pdl, insieme al Terzo polo. Mentre gli alleati di prima oggi stanno all'opposizione. Ciò si riflette sulle coalizioni che si presentano nei comuni. Ma solo in parte. La Lega, coerentemente con l'attuale (op)posizione, si presenta da sola quasi dovunque. Ma gli esempi di "Grande coalizione" sono solo un paio. Mentre il Pdl appare disorientato. Si presenta da solo, talora insieme all'Udc. Spesso diviso in diverse liste. L'Udc stessa, peraltro, si presenta autonomamente in circa 70 Comuni, mentre nei rimanenti si divide equamente fra il Pd o il Pdl. Il Pd, in circa 90 Comuni, riunisce tutte le forze di centrosinistra nella stessa coalizione - allargata in 20 casi all'Udc. Ma in molti Comuni si presenta diviso da almeno uno degli altri partiti di sinistra. Come a Palermo. Ma in altri 20 Comuni è alleato all'Udc, in competizione con Sel e/o l'Idv. Questa consultazione diventa, quindi, un'occasione per testare la tenuta dei partiti, ma anche delle coalizioni prevalenti. O, forse, per avere conferma della frammentazione partitica e della scomposizione delle alleanze, in atto.

3. La terza questione riguarda la frattura fra partiti e società, riassunta, un po' semplicisticamente, nella formula dell'antipolitica. È sottolineata dal moltiplicarsi delle "liste civiche", utilizzate, spesso, per mascherare i partiti, oltre che per proporre formazioni effettivamente autonome e locali. Non-partitiche. Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti al voto, infatti, si presentano 2.636 liste - in media, quasi 17 per Comune - e 991 candidati sindaci - oltre sei per Comune. In queste elezioni amministrative scende in campo anche il Movimento 5 Stelle, di Beppe Grillo. Soggetto politico che ha coltivato la protesta antipartitica. Accreditato, dai sondaggi, di un grande risultato, si presenta in poco meno della metà dei Comuni maggiori e in 20 dei 26 capoluoghi. Quasi dovunque corre da solo. Contro tutti.

Ma questa consultazione costituisce una verifica particolarmente importante anche per la Lega. Esprime i sindaci di 12 Comuni con oltre 15 mila abitanti - di molti altri più piccoli - tra quelli dove si vota. Era il principale imprenditore politico del malessere contro lo Stato centrale e contro il sistema dei partiti. Fino a ieri. Occorrerà verificare se gli scandali e le divisioni interne degli ultimi mesi ne abbiano intaccato la credibilità e il radicamento.

4. L'ultima questione riguarda i protagonisti della consultazione. I sindaci. Quasi vent'anni fa, nel 1993, la legge sull'elezione diretta li rese artefici della stagione seguente alla caduta della Prima Repubblica. Interpreti della domanda di autonomia del territorio e della società. Capaci di compensare il crollo di legittimità dello Stato e del sistema politica presso i cittadini. Vent'anni dopo, però, essi si ritrovano soli. Perlopiù sopportati - quanto poco "supportati" - dai partiti. Che li hanno sempre considerati un ostacolo alle proprie logiche oligarchiche e centraliste. I sindaci. Dagli anni Novanta in poi, hanno rivendicato e ottenuto competenze e responsabilità. Ma dispongono di risorse scarse e di poteri inadeguati. Oltre che in costante declino. Berlusconi e la Lega, negli ultimi dieci anni, hanno esibito un "federalismo a parole". Il governo tecnico, legittimato - e spinto - dall'emergenza e dai mercati, non finge neppure di valorizzare il ruolo delle autonomie locali e dei sindaci. Ai quali viene, invece, chiesto di trasformarsi da "attori" a "esattori". Ammortizzatori del dissenso. Addetti a riscuotere tasse impopolari - e a ricucire il rapporto con la società - per conto terzi. Con l'esito di vedersi delegittimati: dallo Stato e dai cittadini.

Da ciò il duplice rischio. Che questa elezione non indichi solo una svolta politica o antipolitica. Ma segni - anche e soprattutto - la fine della "Repubblica dei Sindaci".

(06 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/06/news/paese_sindaci-34533169/?ref=HREC1-7


Titolo: ILVO DIAMANTI - C'era una volta il Paese dei sindaci
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2012, 10:46:21 pm
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C'era una volta il Paese dei sindaci

di ILVO DIAMANTI


Oggi sono chiamati a votare oltre 9 milioni di elettori, intorno al 20% del totale. Per eleggere i sindaci di quasi mille comuni, di cui 157 sopra i 15 mila abitanti, compresi 26 capoluoghi di provincia. Potrebbe apparire una consultazione minore. Ma in Italia nessuna elezione lo è.

Perché tutte le elezioni - e soprattutto quelle comunali - servono a cogliere e a dare segnali circa il cambiamento sociale e politico. Una considerazione tanto più vera per questa scadenza. La prima consultazione dopo vent'anni di berlusconismo. Mentre il sistema partitico e il rapporto tra politica e società appaiono logori. Marcati da fratture molteplici.

Da questo appuntamento elettorale ci attendiamo indicazioni su quattro diverse questioni.

1. La prima fa riferimento alla tradizionale divisione tra partiti e schieramenti, emersa nella Seconda Repubblica. Centrodestra e centrosinistra, con il Centro, a sua volta, oscillante fra i due poli. All'elezione del 2007, quando vennero eletti gran parte dei sindaci e dei consigli oggi in scadenza, il centrosinistra subì un pesante arretramento. Nei comuni (superiori a 15 mila abitanti) dove si votava allora, governava in 80 comuni, venti più del centrodestra. Oggi, nell'Italia al voto, il rapporto è rovesciato. Il centrodestra amministra 95 comuni (di cui 12 leghisti), il centrosinistra 53. Da qui in poi, faccio riferimento ai dati dell'Osservatorio Elettorale LaPolis-Demos. ll risultato del 2007 annunciò - e accelerò - il profondo mutamento del clima d'opinione, che avrebbe condotto al governo Berlusconi e la Lega, un anno dopo. Non a caso, dopo quelle amministrative, sorge il Pd di Veltroni. Il progetto del partito unico o, comunque, dominante, del centrosinistra. Imitato dal Pdl di Berlusconi, a centrodestra.

Quella stagione è finita. Da un lato, il centrodestra non è più maggioranza. Lo dicono i sondaggi. Ma, soprattutto, lo hanno dimostrato le elezioni amministrative di un anno fa. Quando il centrosinistra ha vinto nelle principali città dove si è votato. Fra le altre: Milano, Napoli e Cagliari. Dove sono stati eletti sindaci espressi da forze diverse dal Pd. Da ciò la spinta, moltiplicata dai referendum, che ha contribuito alla crisi della maggioranza di centrodestra e alla caduta del governo Berlusconi. Alla fine del berlusconismo, in altri termini. E alla conseguente debolezza del Pdl ma anche del Pd. Incapaci di imporsi come soggetti dominanti dei due schieramenti.

2. Oggi, peraltro, insieme ai principali partiti, anche le alleanze di prima sono divenute fragili. Scardinate dal "montismo", che ha gestito il post-berlusconismo. Sostenuto da una maggioranza di governo che associa i tradizionali oppositori, Pd e Pdl, insieme al Terzo polo. Mentre gli alleati di prima oggi stanno all'opposizione. Ciò si riflette sulle coalizioni che si presentano nei comuni. Ma solo in parte. La Lega, coerentemente con l'attuale (op)posizione, si presenta da sola quasi dovunque. Ma gli esempi di "Grande coalizione" sono solo un paio. Mentre il Pdl appare disorientato. Si presenta da solo, talora insieme all'Udc. Spesso diviso in diverse liste. L'Udc stessa, peraltro, si presenta autonomamente in circa 70 Comuni, mentre nei rimanenti si divide equamente fra il Pd o il Pdl. Il Pd, in circa 90 Comuni, riunisce tutte le forze di centrosinistra nella stessa coalizione - allargata in 20 casi all'Udc. Ma in molti Comuni si presenta diviso da almeno uno degli altri partiti di sinistra. Come a Palermo. Ma in altri 20 Comuni è alleato all'Udc, in competizione con Sel e/o l'Idv. Questa consultazione diventa, quindi, un'occasione per testare la tenuta dei partiti, ma anche delle coalizioni prevalenti. O, forse, per avere conferma della frammentazione partitica e della scomposizione delle alleanze, in atto.

3. La terza questione riguarda la frattura fra partiti e società, riassunta, un po' semplicisticamente, nella formula dell'antipolitica. È sottolineata dal moltiplicarsi delle "liste civiche", utilizzate, spesso, per mascherare i partiti, oltre che per proporre formazioni effettivamente autonome e locali. Non-partitiche. Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti al voto, infatti, si presentano 2.636 liste - in media, quasi 17 per Comune - e 991 candidati sindaci - oltre sei per Comune. In queste elezioni amministrative scende in campo anche il Movimento 5 Stelle, di Beppe Grillo. Soggetto politico che ha coltivato la protesta antipartitica. Accreditato, dai sondaggi, di un grande risultato, si presenta in poco meno della metà dei Comuni maggiori e in 20 dei 26 capoluoghi. Quasi dovunque corre da solo. Contro tutti.

Ma questa consultazione costituisce una verifica particolarmente importante anche per la Lega. Esprime i sindaci di 12 Comuni con oltre 15 mila abitanti - di molti altri più piccoli - tra quelli dove si vota. Era il principale imprenditore politico del malessere contro lo Stato centrale e contro il sistema dei partiti. Fino a ieri. Occorrerà verificare se gli scandali e le divisioni interne degli ultimi mesi ne abbiano intaccato la credibilità e il radicamento.

4. L'ultima questione riguarda i protagonisti della consultazione. I sindaci. Quasi vent'anni fa, nel 1993, la legge sull'elezione diretta li rese artefici della stagione seguente alla caduta della Prima Repubblica. Interpreti della domanda di autonomia del territorio e della società. Capaci di compensare il crollo di legittimità dello Stato e del sistema politica presso i cittadini. Vent'anni dopo, però, essi si ritrovano soli. Perlopiù sopportati - quanto poco "supportati" - dai partiti. Che li hanno sempre considerati un ostacolo alle proprie logiche oligarchiche e centraliste. I sindaci. Dagli anni Novanta in poi, hanno rivendicato e ottenuto competenze e responsabilità. Ma dispongono di risorse scarse e di poteri inadeguati. Oltre che in costante declino. Berlusconi e la Lega, negli ultimi dieci anni, hanno esibito un "federalismo a parole". Il governo tecnico, legittimato - e spinto - dall'emergenza e dai mercati, non finge neppure di valorizzare il ruolo delle autonomie locali e dei sindaci. Ai quali viene, invece, chiesto di trasformarsi da "attori" a "esattori". Ammortizzatori del dissenso. Addetti a riscuotere tasse impopolari - e a ricucire il rapporto con la società - per conto terzi. Con l'esito di vedersi delegittimati: dallo Stato e dai cittadini.

Da ciò il duplice rischio. Che questa elezione non indichi solo una svolta politica o antipolitica. Ma segni - anche e soprattutto - la fine della "Repubblica dei Sindaci".

(06 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/06/news/paese_sindaci-34533169/?ref=HREC1-7


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Terza Repubblica che non sa dove andare
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2012, 03:12:44 pm
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La Terza Repubblica che non sa dove andare

Pdl e Lega senza leader e identità. Il Pd tiene, Grillo forte sul territorio. Il Carroccio resiste ma a fatica. La valenza politica del Movimento 5 Stelle. Eccoli, i verdetti del voto per le comunali. Con effetti politici importanti sul piano nazionale

di ILVO DIAMANTI

SI TRATTA solo di amministrative. Elezioni che hanno coinvolto una quota ridotta di popolazione e di Comuni. Un test, in fondo, limitato. Peraltro, molti giochi sono ancora aperti, visto che in tre quarti dei Comuni maggiori si andrà al ballottaggio. Eppure, i risultati del primo turno sono destinati a produrre effetti politici significativi sul piano nazionale.

Le prime elezioni nell'era del Montismo hanno, anzitutto, suggerito che, insieme a Berlusconi, stia uscendo di scena anche il suo "partito personale". Quasi per conseguenza automatica e naturale. Il Pdl. In caduta, dovunque. Da Nord a Sud passando per il Centro. Non è facile decifrare i dati di elezioni specifiche, come quelle amministrative. Caratterizzate dalla presenza di molte liste civiche.

Tuttavia, nei Comuni capoluogo, rispetto alle elezioni amministrative precedenti, il Pdl ha dimezzato il suo peso elettorale: è passato dal 30% al 14% (media delle medie). Governava in 95 Comuni (maggiori), insieme alla Lega. Al primo turno ne ha perduti 45 (inclusi quelli in cui è escluso dal ballottaggio). Ne ha mantenuti 5, conquistandone uno solo di nuovo. Negli altri 45 andrà al ballottaggio. In 16 Comuni, però, è in sensibile svantaggio.

A livello locale, peraltro, il Pdl non aveva mai avuto basi solide e radicate. Ma senza Berlusconi ha perduto identità, senso.
In qualche misura, speranza. Così ha travolto, nella slavina, anche il retroterra di An. Che, invece, fino a ieri, disponeva di una presenza diffusa in molti contesti. Soprattutto nel Sud.

2. La Lega resiste. Ma a fatica. Il risultato di Verona si deve, esclusivamente, a Tosi. È un voto "personale". Per molti versi, espresso "contro" la Lega di Bossi. Tosi, infatti, è il principale alleato di Maroni, come ha ribadito anche in questi giorni. Verona, d'altronde, non è una roccaforte storica della Lega, che si è insediata in città (e nell'area) solo nell'ultimo decennio. Prima era una zona di forza della Destra, da cui Tosi ha attinto molti consensi. Allargandoli in misura ampia, con la sua azione. E amministrazione.

Altrove, però, la Lega non ha fatto bene. Complessivamente, nei Comuni dov'era presente, la Lega ha perduto poco rispetto alle amministrative del 2007, ma ha dimezzato la percentuale del voto rispetto alle politiche del 2008 e le europee del 2009. Fra le 12 città maggiori al voto dove il sindaco uscente era leghista, la Lega ha perduto in 5 e in altrettante è al ballottaggio. Oltre a Verona, al primo turno ha vinto solo a Cittadella. Una roccaforte nel cuore del Veneto. Luogo quasi simbolico. Evoca la Lega che non è scomparsa, come alcuni ipotizzavano (e auspicavano). Ma "resiste" all'assedio. Ha reagito meglio nei Comuni più piccoli, inferiori a 15 mila abitanti (secondo l'analisi dell'Istituto C. Cattaneo).

Tuttavia, le sarà difficile, su queste basi, riproporsi come "partito del Nord". Tanto più perché perdere sindaci e peso nelle amministrazioni locali significa perdere radicamento nella società e nel (suo) territorio.
Dove oggi appare un soggetto politico minoritario.

3. Ne deriva che il Pdl e la Lega, al di fuori dell'alleanza di centrodestra, risultino perdenti. Su base locale e non solo. D'altronde, anche un anno fa, alle amministrative, anche se alleati, avevano subito un notevole arretramento e alcune sconfitte pesanti. Per prima: Milano.

Ma oggi, che Pdl e Lega corrono ciascuno per conto proprio, e anzi, uno contro l'altro, il loro futuro appare quanto meno difficile. D'altronde, solo Berlusconi era riuscito a coalizzarli, a farli stare insieme. Con argomenti efficaci. Per forza e/o per interesse. Il rapporto fra i due partiti, peraltro, era molto "personalizzato". Fondato sulle relazioni dirette fra Berlusconi e Bossi. Ma oggi il ruolo dei due leader si è ridimensionato e anche il legame fra i partiti si è sensibilmente allentato.

In concreto, nel centrodestra si è aperto un vuoto di rappresentanza politica che non è chiaro come e da chi possa venire colmato.

4. Nel centrosinistra la situazione appare migliore. Soprattutto perché i partiti che ne fanno parte hanno, perlopiù, confermato l'alleanza. Anche se con geometrie variabili. Punto fisso: il Pd, che ha costruito intorno a sé diverse intese. In prevalenza, con la sinistra, ma anche insieme all'Udc.

Al primo turno, nei capoluoghi di provincia ha tenuto, passando (in media) dal 19% al 17%: 2 punti in meno. Inoltre, nei 53 Comuni dov'era al governo, prima di queste elezioni, dopo il primo turno ne ha riconquistati 14 e altri 11 li ha strappati al Centrodestra. Eppure è indubbio che anche in quest'area emergano segni di sofferenza. Nel Pd - ma anche nel centrosinistra. Il quale non riesce a capitalizzare il crollo del centrodestra.

Subisce, nelle sue aree, il peso dell'astensione. Che raggiunge non a caso il massimo nelle zone rosse: in Toscana, in Emilia Romagna, nelle Marche.

E, ancor di più, è incalzato dalla concorrenza del Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo. La sorpresa di questa consultazione. Dove i suoi candidati sono al ballottaggio in 5 Comuni oltre 15 mila abitanti (tra cui Parma). A Sarego, piccolo comune in provincia di Vicenza, è riuscito a fare eleggere il suo candidato sindaco. Il risultato del Movimento 5 Stelle, però, appare rilevante soprattutto per il livello dei consensi ottenuti un po' dovunque. Oltre il 10%, in media, nei Comuni capoluogo. Il 9% nell'insieme dei Comuni dove è presente. In alcuni contesti, peraltro, ha ottenuto performance importanti. Intorno al 20%.

5. La tendenza - e la tentazione - diffusa è di etichettarlo come un fenomeno "antipolitico". Equivalente e alternativo rispetto all'astensione. Una valutazione che mi sembra poco convincente.

A) Perché è comunque un soggetto "politico" che ha partecipato a una competizione democratica chiedendo e ottenendo voti. Facendo eleggere i propri candidati.

B) Poi perché il suo successo deriva, sicuramente, dalla critica contro il sistema di Grillo, ma anche dal fatto che il Movimento ha coagulato gruppi e leader attivi a livello locale. Impegnati su questioni e temi coerenti con quelli affrontati nel referendum di un anno fa. Collegati alla tutela dell'ambiente, ai beni pubblici. Alla lotta contro gli abusi. Progetti di "politica locale" promossi da persone a interessi privati e a lobby. Per questo credibili, in tempi scossi da scandali e polemiche sulla corruzione politica.

C) Infine, perché i loro elettori sono tutto fuor che "impolitici". Mostrano un alto grado di interesse per la politica (sondaggio Demos, aprile 2012). Certo, un terzo di essi, alle elezioni politiche del 2008, si è astenuto. Ma il 25% ha votato per il Pd e il 16% per l'Idv. Il Movimento 5 Stelle, per questo, rivela il disagio verso i partiti. Soprattutto fra gli elettori dell'area di centrosinistra. Ma non solo: un'analisi dei flussi elettorali condotta dall'Istituto Cattaneo sul voto di Parma, infatti, rileva una componente di elettori sottratti alla Lega (3% sul totale, rispetto alle regionali del 2010). Il Movimento 5 Stelle, dunque, offre a una quota di elettori significativa una rappresentanza, che può non piacere, ma è "politica".

Io, comunque, sono sempre convinto che sia meglio un voto, qualsiasi voto, del vuoto. Politico.
Nell'insieme, questi risultati rafforzano l'impressione che il Paese sia ormai oltre la Terza Repubblica, fondata da - e su - Berlusconi e il Berlusconismo. Ma non sappia dove andare.

Con questi partiti, questi leader, questi schieramenti, queste leggi elettorali e con questo sistema istituzionale: temo che passeremo ancora molto tempo a discutere di antipolitica. Per mascherare la miseria della politica.
 

(09 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: ILVO DIAMANTI - Che senso ha morire per il lavoro
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2012, 04:10:20 pm
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Che senso ha morire per il lavoro

di ILVO DIAMANTI

VIVIAMO tempi violenti, pervasi, come ha affermato ieri Mario Monti, da una "profonda tensione sociale". Di cui è indice - e fattore - il riemergere del terrorismo. Che usa la vita e ancor più la morte come un messaggio. Uno spot da proiettare nel circuito  -  e nel circo  -  mediatico. Senza il quale e al di fuori del quale: nulla esiste. Lo stesso avviene, d'altronde, nel mondo del lavoro. Dove togliersi la vita fa notizia. Molto più che perderla lavorando. I morti sul lavoro, infatti, sono un fenomeno antico, esteso e in costante aumento. (Ce lo rammenta la preziosa opera di documentazione e informazione svolta dall'Osservatorio Indipendente di Bologna di Carlo Soricelli). E, tuttavia, quasi invisibile, se non in casi eccezionali  -  quando muoiono in tanti in un colpo solo. Come nel caso della Thyssen Krupp di Torino, nel 2007.

I suicidi, invece, suscitano grande attenzione ed emozione, in questi tempi. I media li inseguono, giorno dopo giorno. Offrono l'immagine di un'onda anomala e senza fine. Anche se i dati raccontano una storia diversa. Infatti, come osserva Marzio Barbagli, sulla base delle statistiche dell'Istat: "I suicidi in questa categoria sociale c'erano anche negli anni passati, più o meno con la stessa frequenza". Anzi, dal 2009 ad oggi, sarebbero diminuiti. Tuttavia, la visibilità mediale di un fenomeno non è mai casuale. Basti pensare allo spazio riservato dai media alla criminalità comune, trattata come un serial, sceneggiato e riprodotto dai Tg
e dai talk del pomeriggio e della sera. Senza soluzione di continuità. Al di là di ogni variazione statistica del fenomeno, riflette, soprattutto, la passione dei media per la cronaca nera tradotta in "romanzo criminale". Basti pensare, ancora, allo spazio riservato dall'informazione all'immigrazione, negli anni fra il 2007 e il 2009. In seguito ridimensionato drasticamente. Una tendenza dettata da ragioni  -  e pressioni  -  politiche più che da mutamenti quantitativi dei flussi migratori. Penso, invece, che la visibilità riservata ai suicidi, in questa fase, oltre che dalla drammaticità dei singoli episodi, più che da ragioni "politiche", sia dettata  -  e moltiplicata  -  dall'angoscia prodotta dalla crisi economica. Il principale e vero motivo della "tensione sociale", a cui ha fatto riferimento il Presidente del Consiglio.

Per riprendere i dati dell'Osservatorio sull'In-Sicurezza (curato da Demos, l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), le "paure economiche" sono considerate la principale emergenza dal 60% degli italiani (aprile 2012). Un sentimento degenerato in pochi anni. Insieme al senso di declino sociale. Rammentiamo: nel 2005 la quota di persone che si "sentiva" di classe sociale bassa o medio-bassa era il 25%. Oggi il 53%. I suicidi dei lavoratori e ancor più dei piccoli imprenditori "drammatizzano", in senso emotivo ma anche narrativo, questa "tensione sociale". Sul piano professionale e geo-economico. Lo "sciame dei suicidi" ri-prodotto dalle cronache, infatti, sembra inseguire le zone forti dello sviluppo degli ultimi decenni. Le province del Nordest e, in generale, del Nord. Le aree che, dopo gli anni Settanta, hanno conosciuto una crescita economica violenta. Dove si è affermato una sorta di "capitalismo dell'uomo qualunque", come l'ha definito Giorgio Lago. Un modello "postfordista" (per citare Arnaldo Bagnasco), che ha coinvolto e mobilitato la società in modo estensivo.

Perché, a differenza di altrove, le aspettative di reddito e di carriera non erano affidate al lavoro dipendente  -  nella grande fabbrica o nel pubblico impiego. Ma al lavoro in-dipendente. Al passaggio da operaio ad autonomo. "Paroni a casa nostra", in Veneto, non significa solo indipendenza territoriale. Ma vocazione all'indipendenza personale e familiare. Gran parte delle aziende, d'altronde, sono sorte e si sono sviluppate attraverso rapporti personali. Tra persone che si conoscono e si frequentano, prima durante e dopo il lavoro. Aspirano a migliorare la propria posizione e condizione, con lo stesso obiettivo. Diventando, a loro volta, "paroni a casa propria". Il passaggio da operaio a piccolo imprenditore, in questo mondo, è breve. La fatica, il rischio: gli stessi. Cambia il ruolo sociale. Come rammenta la vicenda dell'artigiano-muratore, raccontata da Gigi Copiello, che sul furgone da lavoro scrive: Bruno da Cittadella, dottore in malta. (Titolo del libro appena uscito per Marsilio). Cioè, artigiano, ma anche specialista. Per usare un termine di moda: tecnico.

Il successo leghista, negli anni Novanta, in queste zone e fra queste categorie professionali, si spiega anche così. Con la capacità della Lega di dare visibilità e voce a soggetti e territori divenuti, in breve, economicamente centrali, ma ancora politicamente periferici. Guardati  -  anche sui media  -  con sufficienza e ironia. L'enfasi suscitata  -  oggi molto più di ieri  -  dai suicidi dei piccoli imprenditori e nelle aree di piccola impresa riflette la sensazione, per alcuni versi la paura, che questo modello sia in declino. Oltre metà degli italiani, nel 2006, ambiva, per sé e i propri figli, a un "lavoro in proprio o da libero professionista". Oggi questa componente è scesa a poco più di un terzo (Demos-Coop, aprile 2012).

Le cause "materiali": la disoccupazione, il peso schiacciante delle tasse e la caduta dei mercati, dunque, alimenta sicuramente l'angoscia sociale che si respira. Ma c'è di più. C'è la paura del baricentro sociale, un tempo imperniato sulla grande fabbrica, spostatosi, poi, sul lavoro autonomo e sulla piccola impresa. Un modello fondato, comunque: sul "lavoro". Riferimento dell'identità e della coesione sociale, prima che fonte di reddito. Mi torna in mente la reazione di Giorgio Lago a un articolo nel quale, dieci anni fa, registravo la crescente stanchezza fra i lavoratori e i piccoli imprenditori del Nordest. Alla ricerca di altri motivi di soddisfazione, oltre il lavoro. Rispose, allora, Lago (sul Mattino di Padova): "Se sono stanchi si riposino. Vadano a dormire prima, la sera. E poi riprendano il lavoro. Perché senza il lavoro, senza la fatica: non hanno speranza. Non hanno futuro".

È questo che oggi rende così visibile ciò che fino a ieri non lo era. "Morire per il lavoro". In qualche misura, poteva essere un prezzo accettato e perfino necessario, per una civiltà laburista.

Ma se il lavoro e la fatica non bastano più: cosa terrà insieme la società? E, prima ancora, che "senso" ha la vita?

(14 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/14/news/morire_lavoro-35092435/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Chi rappresenta il male del Nord
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2012, 03:44:30 pm
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Chi rappresenta il male del Nord

Le amministrative dimostrano la fine del blocco nordista formato da Lega e Berlusconi, ma rilanciano la questione settentrionale sotto nuove forme: quello di una rappresentanza politica largamente insoddisfatta. Una richiesta che il Movimento 5 Stelle riesce a interpretare

di ILVO DIAMANTI


I RISULTATI di queste elezioni "amministrative" segnano, in modo definitivo, la fine della Seconda Repubblica e del sistema partitico su cui si è fondato. Indicano, in particolare, la fine del "blocco nordista", l'asse forza-leghista (come l'ha definito Berselli), fondato sull'intesa e la contiguità elettorale tra la Lega e Berlusconi.

TABELLE I FLUSSI ELETTORALI NEI BALLOTTAGGI 1 (su repubblica.it)

Infatti, se osserviamo il bilancio dei comuni maggiori dove si è votato in Italia, il rapporto fra i due principali schieramenti, appare rovesciato a favore del Centrosinistra. Lega e Pdl escono, dunque, chiaramente sconfitti, da queste elezioni. Dal Pd e dal Centrosinistra. Ma anche dal malessere e dalla domanda di cambiamento, a cui ha dato visibilità particolare il Movimento 5 Stelle, guidato da Beppe Grillo.

È la fine della "questione settentrionale" alle origini della Seconda Repubblica. Ma, al tempo stesso, questo voto la rilancia, come specchio di una domanda di rappresentanza politica, largamente insoddisfatta.

1. La Lega esce ridimensionata. Nelle città maggiori (sopra i 15 mila abitanti) dove si è votato, prima di queste elezioni, aveva 12 sindaci. Ne mantiene solo 2. Tra cui Verona, conquistata al primo turno: da Flavio Tosi, più che dalla Lega. Nei comuni maggiori del Nord cosiddetto "Padano" (al
di sopra del Po), al primo turno, le sue liste hanno ottenuto il 7% dei voti, 12 punti in meno delle Regionali del 2010, meno della metà rispetto alle politiche del 2008. Se allarghiamo lo sguardo all'intera "zona rossa", dove la Lega era cresciuta molto negli ultimi anni, il crollo è più vistoso. Oggi, infatti, nel Centro-Nord, in queste elezioni ha totalizzato il 5,8%, ma aveva ottenuto quasi il 13% alle politiche del 2008 e oltre il 17% alle regionali del 2010.

2. Il PdL, ultima versione del partito personale di Silvio Berlusconi, va anche peggio. Dal punto di vista dei governi locali, anzitutto. Nei comuni maggiori del Centro-Nord, da 49 a 20 per il Centrodestra, dopo questo voto, si passa a 44 a 12 per il Centrosinistra. Ma lo sfaldamento appare ancor più sensibile dal punto vista elettorale. Il PdL, infatti, si attesta al 12-13%, nel Nord e nel Centro-Nord, mentre aveva ottenuto circa il 28% alle Regionali di due anni fa e il 33% alle Politiche del 2008.

3. Ne esce un quadro del Nord e del Centro-Nord largamente ri-disegnato. In un paio d'anni, ha quasi perduto i colori dominanti: il Verde e l'Azzurro. D'altronde, oggi i partiti del Centrodestra  -  o di quel che ieri si chiamava così  -  non governano in nessun capoluogo di regione nel Centro-Nord. Gli ultimi  -  Milano e Trieste  -  li hanno perduti un anno fa.

Uno scenario analogo emerge anche se consideriamo i capoluoghi di provincia. Prima del 2010, 22 capoluoghi del Centro-Nord erano governati dal Centrodestra, 16 dal Centrosinistra. Oggi 21 sono amministrati dal Centrosinistra e 14 dal Centrodestra (1 dalla Lega da sola e 2 da giunte di altro colore). Gli attori politici che avevano "inventato" la "questione settentrionale" oggi sono minoranza  -  e quasi periferici  -  nel Nord.

4. Parallelamente, è cresciuto il Centrosinistra, intorno al Pd. Che oggi è il primo partito: del Nord "Padano" e, a maggior ragione, nel Centro-Nord. Ma i suoi successi dipendono soprattutto dalla capacità di fare coalizione. Il Pd ha, infatti, perduto peso elettorale, rispetto alle Politiche e alle Regionali. Mentre in alcune fra le città più importanti ha contribuito, con i suoi voti, a eleggere sindaci espressi da Sel. Come Doria a Genova. E, un anno fa, Pisapia a Milano.

L'antico Triangolo Industriale, Milano-Torino-Genova, dunque, oggi è governato dal Centrosinistra. Ma (come ha osservato Gad Lerner) da uomini e soggetti politici, in prevalenza, "esterni" al Pd. In altre città, il candidato del Pd e del Centrosinistra è stato sconfitto da altre coalizioni. A Belluno, ad esempio, si è affermato il candidato sostenuto da liste civiche di Sinistra. A Cuneo il candidato del Terzo Polo.

5. Lo stesso è avvenuto in alcuni comuni dove lo sfidante era espresso dal Movimento 5 Stelle. Anzitutto a Parma, ma anche in altre città. Come Mira e Comacchio. Il risultato elettorale del Movimento 5 Stelle appare rilevante soprattutto nel Nord e nelle zone rosse del Centro. Dove si presenta, infatti, supera, mediamente, l'11% (alle Regionali del 2010 si era attestato intorno al 3-4%).

In una certa misura, il "partito di Grillo" è l'attore politico che oggi interpreta, più di altri, il "male del Nord" (ma anche del Centro). Espresso dalle aree territoriali e dalle componenti sociali coinvolte dalla crisi economica, dopo decenni di crescita. Soffrono di un profondo deficit di rappresentanza politica. Le promesse di Berlusconi e della Lega sono rimaste tali. Promesse, slogan. Mentre il Centrosinistra, imperniato sul Pd, è rimasto, a sua volta, coinvolto nel clima di insofferenza verso il sistema partitico. Afflitto dal vizio oligarchico e dal deficit etico.

6. Il successo del Movimento 5 Stelle sfrutta, dunque, il malessere generato dal governo, a livello centrale e locale. Ma intercetta anche la diffusa domanda di rinnovamento del ceto politico. E la crescente sensibilità intorno a temi legati alla tutela dell'ambiente e dei beni pubblici.

Naturalmente, una cosa è affermarsi su base locale. Altra è competere su base nazionale. Il bello  -  e le difficoltà  -  per il "partito di Grillo" cominciano ora. Perché dovrà governare, a livello locale. E dovrà organizzare la propria presenza nazionale, in vista delle prossime elezioni. Programmi, candidati, strategie e  -  perché no?  -  alleanze. Oggi, però, a nessuno è concesso di liquidare questo Movimento come antipolitico. Perché agisce da attore politico, sul mercato elettorale. Dove si sta ritagliando uno spazio molto ampio (alcuni sondaggi lo stimano, già ora, intorno al 20%).

7. Questa "piccola" consultazione amministrativa ha mutato profondamente le basi della "questione settentrionale". Nel Nord, infatti, si fanno strada domande di segno nuovo. Che non emergono da centrodestra ma da centrosinistra e, anzi, da sinistra. Esprimono istanze critiche verso il neoliberismo e i valori imposti dai "mercati" (finanziari) globali.

8. Dietro al voto, si scorge un Paese in cerca di rappresentanza politica. Se la Seconda Repubblica è finita, la Terza non è ancora cominciata.
 

(22 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: ILVO DIAMANTI - L'appuntamento mancato di Montezemolo
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2012, 11:06:20 am
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L'appuntamento mancato di Montezemolo

di ILVO DIAMANTI

MAI COME oggi lo spazio politico, in Italia, è apparso tanto aperto. Almeno dai primi anni Novanta, quando la Prima Repubblica affondò. travolta dalla caduta del Muro di Berlino e da Tangentopoli. Così, mentre si consuma il declino di Berlusconi, molti soggetti politici premono alle porte, per fare il loro ingresso ufficiale sulla scena politica. Tra essi, Luca Cordero di Montezemolo. Una novità relativa, perché la sua "discesa in campo", in effetti, era attesa e annunciata da tempo. Da 5-6 anni almeno. Montezemolo, da parte sua, non aveva mai negato. Anzi. D'altronde, erano in tanti ad attenderlo. Da (centro) destra a (centro) sinistra. Oltre che, ovviamente, al centro (senza parentesi). La questione, mai chiarita, era se sarebbe sceso in campo da solo, come leader, al servizio di un governo o di una coalizione. Oppure alla guida di una formazione. Ha sempre rinviato. Per prudenza o per tattica. O per entrambi i motivi. Ha valutato che i tempi non fossero maturi. Che il rischio fosse troppo elevato. Nel frattempo, ha promosso un'associazione, Italia Futura, attraverso cui ha espresso  -  e marcato  -  la propria presenza sulla scena politica nazionale.

Ora, però, la (lunga) attesa sembra finita. Berlusconi si è spostato ai margini del gioco. Per scelta e, prima ancora, per costrizione. A centro-destra, così, si è creato un vuoto simile a quello del 1992. Perché nessuno, nel Pdl, è in grado di rimpiazzare Berlusconi. Mentre a centro-sinistra il territorio è, comunque, controllato dal Pd. E più in là non c'è spazio, per la sua offerta. Visto che, francamente, non ce lo vedo Montezemolo a contendere i voti a Vendola e Diliberto. Il centro, infine, resta uno spazio elettorale angusto. Peraltro, presidiato da leader politici  -  Casini e Fini su tutti  -  ben decisi a non cedere il comando a qualcun altro. Per quanto popolare, come Montezemolo. Il quale guarda, anzitutto, agli orfani del Pdl. Dispersi e sperduti, dopo il declino di Berlusconi. Ma anche ai "disorientati" di centro e agli insoddisfatti del Pd. Conta, dunque, sull'inadeguatezza di un sistema partitico imperniato su "imprenditori politici" incapaci di soddisfare la domanda del mercato elettorale. Come hanno dimostrato le recenti elezioni amministrative, segnate da alti tassi di astensione. Come, peraltro, segnalano, da tempo, i sondaggi, che rivelano l'esistenza di una quota di indecisi molto ampia. Pari a quasi metà degli elettori. Perlopiù, ma non solo, di centrodestra.

Tuttavia, ho l'impressione che l'annuncio di Montezemolo  -  peraltro non ancora ufficiale  -  arrivi comunque tardi. Non perché i concorrenti, nei settori del mercato elettorale a cui intende rivolgersi, siano più credibili di lui. Non è così, a mio avviso. Il problema è un altro. È finito il tempo dei "politici imprenditori". E degli "imprenditori politici" come alternativa ai "politici di professione". I quali sono, sicuramente, fuori gioco, in questa fase. Delegittimati dalla pessima immagine che hanno dato  -  e continuano a dare  -  di sé. Mai tanto impopolari fra gli elettori. Tuttavia, mi pare conclusa anche l'era degli imprenditori a capo dell'Azienda-Italia. Mito e modello di un Paese che aveva conquistato il benessere, ma anche un ruolo importante sui mercati internazionali. Berlusconi, prima e meglio di tutti, ha interpretato quella fase. Per quasi vent'anni. Il Signore dei media e dei sondaggi: si è rivolto agli italiani  -  molti, moltissimi  -  che sognavano di diventare come lui. Titolari di imprese, piccole e piccolissime. Oppure di partita Iva. Lavoratori autonomi e lavoratori tout-court. Ha attratto il consenso della gente "comune", che si identificava in lui. Nelle virtù ma anche  -  forse soprattutto  -  nei suoi vizi. Guardati, comunque, con indulgenza. (Perché siamo tutti peccatori... ).

Quei tempi sono finiti. Non è solo una questione di stile. Ma di rappresentanza. Ho l'impressione, infatti, che l'imprenditore non costituisca più un modello sociale  -  praticabile e realista. Ma neppure un riferimento, com'era nel passato recente, in tempi di economia affluente. Perché il tempo della crescita e delle attese di crescita infinita è finito. La crisi ha azzerato ogni attesa. E chi le aveva alimentate e incarnate contro ogni evidenza. Fino all'ultimo. Il declino di Berlusconi si spiega anzitutto così. Prima e più ancora che per motivi politici (e) personali. Perché è finita l'era delle promesse e dei partiti personali, guidata dagli Imprenditori Politici. Questo è il tempo degli imprenditori im-politici. È l'epoca degli "esperti". Dei governi tecnici e "senza passione". Come Monti. Algido interprete dell'emergenza dettata dai Mercati. Ma è anche l'epoca dei "Tribuni". Non in senso spregiativo, ma letterale (e storico): coloro che esercitano la rappresentanza delle domande  -  e delle insoddisfazioni  -  popolari. Che mobilitano le passioni "contro" i poteri politici ed economici. Come ha fatto Beppe Grillo. Il quale ha aggiunto, di proprio, una grande competenza nella comunicazione  -  nuova, ma anche tradizionale. Fra i primi ad andare nella Rete. Fra i più efficaci nel mobilitare le piazze e nel riempire i teatri. Grillo, infatti, non ha replicato la "forma partito" tradizionale. Ma neppure quella, recente, del "partito personale". Ha, invece, "personalizzato" e messo in comunicazione gruppi, esperienze e leader locali, attivi sulla rete e sul territorio. (Certo, per lui le difficoltà cominciano ora. Ma, intanto, ha imposto un marchio e un modello.)

Certo, Montezemolo è un imprenditore atipico. Alla guida di un'azienda storica e innovativa, al tempo stesso, come la Ferrari. Di grande appeal. Per non parlare della sua ultima impresa: Italo. Il treno ad alta velocità che sfida il Monopolio dello Stato. Egli, tuttavia, mi pare legato all'epoca precedente, quando ha fatto il presidente di Confindustria. Al tempo di Berlusconi. Di cui è apparso  -  di fronte agli imprenditori, ma anche agli elettori  -  un'alternativa possibile e verosimile. Per stile e retroterra economico. Montezemolo. Poco Pop. Legato alla tradizione della grande impresa industriale torinese. L'Anti-Berlusconi. Venne spiazzato dallo showdown di Vicenza, al convegno del 18 marzo 2006, vigilia del voto. Quando Berlusconi tornò ad essere il Caimano. E si riprese la piazza. Contro Prodi. Ma anche contro chi, come Montezemolo, pensava di isolarlo dal "suo" popolo. Gli imprenditori.

Ecco: penso che Montezemolo fosse adatto a interpretare, al meglio, l'alter-berlusconismo al tempo del berlusconismo. Ma al tempo del post-berlusconismo: mi sembra fuori tempo.

(28 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/28/news/diamanti_mappe_montezemolo-36043240/?ref=HREC1-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - La vita insicura di un uomo sicuro
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2012, 11:07:28 am
La vita insicura di un uomo sicuro

di ILVO DIAMANTI


Mi chiamo Massimo, Per gli amici: Max. Ho quasi sessant'anni. Sono sposato e ho due figli. Ma vivo da solo, in una cittadina nei pressi di Verona. Mia moglie se n'è andata da tempo. Ha raggiunto sua sorella, che risiede vicino a Gallarate. Anche lei separata. Le due sorelle: possono con-vivere solo fra loro. I miei figli, invece, abitano per conto proprio. Anche se, formalmente, risiedono ancora con me. Giulia, la più vecchia (si fa per dire: ha meno di trent'anni), sta a Londra, dove è rimasta, dopo la laurea. Vi si era recata per un Master in Economia. Ha deciso di fermarsi là. Più che lavorare, fa lavori. Ma ha rapporti professionali con un'agenzia di Borsa. Fa esperienza. (E che esperienza, visti i tempi!) E poi a Londra sta bene. Ha un compagno, credo. Anche se con me parla poco della sua vita privata. Giacomo, il più giovane, ha poco più di vent'anni. Studia ancora. Ha quasi 25 anni. Vive a Bologna, dove frequenta il DAMS. Non so a che gli servirà. Ma si diverte. Ogni tanto passa per casa. Da me. Altre volte va da sua madre. Non pare intenzionato a tornare. E neppure a laurearsi troppo in fretta. Concludere gli studi ora significherebbe diventare improvvisamente precario. Così, invece, è "in formazione". In cammino. Instabile per scelta. Dal punto di vista dell'identità, pubblica e personale, è sicuramente meglio.

Per questo, "formalmente", risiedo con i miei figli. Ma, in realtà, sono solo. Quasi sempre. Nella casa dove risiedo. Una villetta a schiera, in un quartiere residenziale.  Dove svolgo la mia attività  -  consulente del lavoro. Certo, ho amici e amiche. Molto spesso passano e magari si fermano. Qualche giorno, qualche notte. Ma non di più. Non voglio vincoli, né rapporti impegnativi. D'altronde, io così sto bene. Convivo con me stesso senza troppi problemi. In effetti, proprio solo non lo sono mai. Oltre ai clienti, gli amici, i figli, ci sono i cani. Tre. Un meticcio, di taglia piccola, che scorrazza per casa. Mi fa compagnia. E due mastini  -  per la precisione, due rottweiler -  in giardino. Passano il tempo liberi. D'altronde, il mio giardino è chiuso. Inaccessibile. Non possono fuggire né creare fastidi agli altri. Ai passanti. Però mi fanno sentire sicuro. Più sicuro. In fondo, ripeto, vivo da solo. Quasi tutti i giorni. Quasi tutto il giorno. E la notte. Per cui qualche precauzione va presa. Meglio essere prudenti. Qui, nel mio quartiere residenziale, se ne sentono tante. Furti in abitazione, qualche scippo per strada. D'altra parte, è un quartiere tranquillo, ma agiato. Un bel bersaglio per i malintenzionati. Così mi sono attrezzato. Ho alzato ulteriormente il muro di recinzione e l'ho reso impraticabile, per chi intendesse scavalcarlo. La ringhiera, sopra il muro, è irta di punte aguzze. Poi, all'interno, il giardino è protetto da un sistema di allarme efficiente. Come, d'altronde, gli ingressi e le finestre. Quando scende il buio, si attiva un sistema di illuminazione sensoriale. Non resta un angolo buio. Salvo i "rifugi" dei miei mastini. È così dappertutto, nel mio quartiere. Perché così fan tutti. Per sicurezza. E per lo stesso motivo, nel quartiere, abbiamo ingaggiato un servizio di Security. Guardie giurate che passano, regolarmente, quasi ogni ora. Di giorno e di notte.

I miei vicini: praticamente non li conosco. E neppure li vedo. Manco li saluto, quando li incrocio. Perché dovrei salutarli? Non li conosco. E quasi non li vedo. Esco direttamente in auto. L'unica persona che incontro, con qualche frequenza, è il "delegato" di quartiere. Abita due strade più in là. Non mi ricordo neppure il nome della via. (E, per la verità, neppure il suo cognome.) Nel quartiere tutte le vie hanno nomi di musicisti. Un casino pazzesco. Il "delegato" si occupa dei problemi - piccoli e grandi - dei residenti. Sicurezza compresa. Anzi, la sicurezza prima di tutto. Perché io non nascondo di provare un po' di paura. In fondo, vivo quasi sempre da solo. E se ne sentono tante, nelle tivù e sui giornali locali. A volte, qualche vicino, fuori dal portone del garage, mi ferma un attimo per raccontarmi di qualche furto tentato, nei dintorni. Per fortuna sono al sicuro. Sì, al sicuro. Con la casa e la recinzione schermate da sistemi di allarme e telecamere, a ogni entrata e uscita, i due mastini che girano sempre per il giardino, ogni punto e ogni centimetro esterno illuminato, appena si fa sera  -  manca solo un fosso con gli alligatori e il ponte levatoio, all'uscita (ma ci sto pensando). E le strade intorno battute, con ritmo incessante, dalle Guardie Giurate (e armate). Come si fa a non sentirsi sicuri? E controllati?
Sto a casa mia, ma è quasi come abitare ad Alcatraz.

(29 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/05/29/news/uomo_sicuro-36110790/?ref=HREC1-5


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il vento del cambiamento e la sordità delle oligarchie
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2012, 09:35:07 am

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Il vento del cambiamento e la sordità delle oligarchie

I 5 Stelle promossi per guidare le città.

Ma 7 su 10 convinti che non saprebbero governare il Paese

di ILVO DIAMANTI

È UN Paese sospeso, quello che emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos. Un Paese spaesato, in cerca di prospettive politiche ancora incerte. E per ora, comunque, insoddisfacenti. Il governo, dopo il sensibile calo di fiducia subìto fra marzo e aprile (circa 20 punti in meno), sembra aver recuperato consenso, fra i cittadini. Oggi il 45 per cento degli italiani ne valuta positivamente l'operato. Una quota elevata, se si pensa alle difficoltà economiche e sociali del periodo. E al malessere suscitato dalle politiche fiscali, in particolare dall'Imu, giudicata negativamente dal 70 per cento degli intervistati. Se si pensa, inoltre, che quasi il 50% degli italiani giustifica le proteste - talora clamorose - contro Equitalia. Nonostante tutto ciò, una consistente maggioranza della popolazione (60%) continua a credere che, alla fine, il governo "ce la farà" a condurci fuori dalla crisi. E per questo, probabilmente, ne sopporta le scelte, per quanto con insofferenza.

D'altronde, Monti stesso, personalmente, è giudicato positivamente da oltre il 50% degli intervistati. E si conferma, quindi, il leader "politico" più affidabile, presso gli italiani. Molto più di qualunque altro leader di partito o aspirante tale. Da Bersani a Di Pietro, passando per Fini, Casini e Montezemolo. Mentre la popolarità
di coloro che avevano guidato la maggioranza di governo per circa un decennio, Berlusconi e Bossi, è scesa ai minimi storici. La perdita di credibilità personale - e familiare - di Bossi ha coinvolto tutta la Lega. Compreso Maroni. Da ciò la crisi che ha affondato il centrodestra, attualmente privo di leadership ma anche di riferimenti politici.

Gli orientamenti di voto riflettono questo senso di spaesamento, rivelato - e accentuato - dalle recenti amministrative. Segnalano, in particolare: a) lo sfaldamento del Pdl, ormai dimezzato, rispetto alle elezioni politiche del 2008; b) la frana della Lega scivolata poco sopra il 4%, come 10 anni fa; c) Mentre il Pd e l'Idv tengono bene, anche se non riescono a intercettare lo sfarinamento dei partiti di centrodestra. Il Pd, in particolare, si conferma primo partito in Italia. D'altronde, secondo gli intervistati, è la formazione politica che si è rafforzata maggiormente, in seguito alle elezioni amministrative. d) Insieme, ovviamente, al Movimento 5 Stelle (M5S), promosso e ispirato da Beppe Grillo. Il quale, dal punto di vista elettorale, è stimato oltre il 16%, poco al di sotto del Pdl. Il successo alle recenti amministrative ha contribuito ad allargare ulteriormente la sua base elettorale. Il M5S è divenuto, infatti, il collettore privilegiato dell'insoddisfazione sociale verso il sistema partitico. Un sentimento generalizzato, che non dà segni di rallentamento.

Oltre il 40% degli intervistati, infatti, vede nella "protesta contro i partiti" la principale ragione di successo del Movimento. Una valutazione condivisa anche dal 27% degli elettori del M5S, i quali, però, danno maggiore importanza ad altri argomenti: l'estraneità dei candidati alle logiche di potere e la concretezza dei programmi proposti ai cittadini. Resta, comunque, l'incognita sulla capacità del Movimento di "tenere" la scena politica, oltre a quella elettorale. Soprattutto, oltre i confini locali. Infatti, quasi metà degli italiani (la maggioranza) ritiene il M5S in grado di "amministrare" le città e il territorio. Ma quasi 7 persone (e 4 elettori del M5S) su 10 non lo considerano capace di governare, a livello nazionale.

Da ciò l'impressione di un Paese sospeso. In attesa di un cambiamento ancora incompiuto. A cui Grillo e il M5S hanno offerto una risposta, uno sbocco. Sfruttato da molti elettori che, in un primo tempo, non li avevano presi in considerazione. Non è un caso se, rispetto a un mese fa, l'elettorato del M5S ha modificato sensibilmente il profilo sociopolitico. In particolare, al suo interno sono aumentati: a) gli elettori dei comuni medio-piccoli; b) le persone di età medio-alta; c) le componenti di centro-destra; d) gli elettori provenienti dalla Lega e dal Pdl. In altri termini: il M5S ha intercettato il disagio diffuso fra gli elettori. L'ha canalizzato, dandogli visibilità. Ma senza risolverlo.

La domanda di cambiamento politico, infatti, resta molto estesa, al punto che circa un terzo degli elettori sostiene che, se si presentasse un partito "nuovo", guidato da un leader "nuovo" e "vicino alla gente": lo voterebbe "sicuramente". Si tratta di un orientamento trasversale. Particolarmente accentuato nella base elettorale dei soggetti politici che in precedenza detenevano il monopolio della rappresentanza del "nuovo", come la Lega. Ma anche l'Idv e Sel. Tuttavia, questo orientamento appare ampio anche fra gli elettori dell'Udc, alla ricerca, da tempo, di un modo - e di uno sbocco - per uscire dal "centro", che rischia di trasformarsi in un ghetto. Schiacciato da destra, sinistra e, ora, anche dal M5S.

Siamo, dunque, in una fase fluida. Il "mercato elettorale" è instabile, in cerca di un'offerta politica adeguata. Che stenta a delinearsi. Così cresce la voglia di "nuovo". Anche se per gran parte degli elettori (quasi sette su dieci) il "nuovo" è il "vecchio" rivisto e ri-qualificato. Per cui si traduce, anzitutto, nella domanda di "rinnovamento" degli attuali partiti. Ma il "rinnovamento", per la grande maggioranza degli elettori (il 61%), significa "ricambio e svecchiamento" della classe dirigente. D'altra parte, fra i motivi che hanno favorito il M5S alle recenti amministrative, un ruolo importante è stato sicuramente giocato dalla figura e dall'immagine dei candidati. Giovani e preparati. Estranei a lobby e interessi. In grado di esprimere opinioni competenti sulla realtà locale. Senza slogan e senza retorica. Ciò suggerisce che, per rispondere all'insofferenza verso i partiti, che si respira nell'aria, non sarebbero necessarie grandi rivoluzioni - politiche e antipolitiche.
Basterebbe che i principali partiti attualmente presenti sulla scena politica fossero in grado di rinunciare alle logiche oligarchiche e centralizzatrici che li guidano.

Basterebbe che offrissero maggiore spazio e ruolo ai dirigenti e ai militanti giovani, presenti e impegnati sul territorio. (Ce ne sono molti, nonostante tutto, ma vengono puntualmente scoraggiati).
Basterebbe. Ma non ne sono capaci. Così, avanza la richiesta del Nuovo-a-ogni-costo. Ormai, un mito, più che una rivendicazione. Travolge tutto. E rende la "nostra" Democrazia: "provvisoria". La Politica e i partiti: inattuali.

(03 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/03/news/il_vento_del_cambiamento_e_la_sordit_delle_oligarchie-36446888/?ref=HREC1-6


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sulle macerie nascono i fior
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2012, 05:00:31 pm
Sulle macerie nascono i fior

Ilvo DIAMANTI


IL TERREMOTO in Emilia ha provocato danni immensi. E, soprattutto, molte vittime. Ma ha mobilitato, al tempo stesso, il sentimento altruista e solidale degli italiani. Che hanno risposto alle iniziative di sostegno alle popolazioni e ai paesi colpiti dal sisma in modo massiccio e generoso. D'altronde non c'è trasmissione in tv che non raccolga fondi, al proposito. In modo diretto, ma anche indiretto. Attraverso sms e telefonate a numeri dedicati. Mentre le manifestazioni di sostegno si moltiplicano e proseguiranno ancora a lungo. Con grande partecipazione popolare.

Gli italiani non si nascondono mai, in queste occasioni. Il dolore e l'altruismo si succedono, in stretta e sincera connessione. Le popolazioni, i paesi, i lavoratori delle aree colpite, d'altronde, hanno reagito, a loro volta. Per primi. Con prontezza. Hanno ripreso a vivere, lavorare, dopo aver scavato tra le macerie. E già ora hanno cominciato a ricostruire.

La solidarietà, in Italia, si manifesta di fronte a ogni disastro naturale. Di fronte a ogni terremoto, alluvione, inondazione, esondazione, frana, slavina, smottamento. Di fronte a ogni tragedia. In Friuli, in Irpinia, in Basilicata, nel Belice, a Firenze, a Messina, nelle Marche, in Umbria, a Sarno, nel Vicentino, a L'Aquila, a Genova, in Piemonte, nelle Cinque Terre. E poi - o prima? - il Vajont. Narrato da Marco Paolini.

Recito a memoria, ma l'elenco potrebbe essere molto più lungo. Infinito. Perché siamo il Paese delle tragedie annunciate. E sempre inattese. D'altronde, il nostro territorio è instabile e precario. Ad alto rischio sismico e idrogeologico. Ma ce ne dimentichiamo spesso. Fra una tragedia e l'altra, riprendiamo le antiche abitudini. Anzi, non le smettiamo mai, visto come abbiamo ridotto questo povero paese. Cementificato. Una plaga di mostri immobiliari che si sono insinuati ovunque. Un pelago di non-luoghi anonimi.

Così ogni episodio "naturale" anomalo rischia di degenerare in tragedia. E ogni volta ci sorprendiamo, a disastro avvenuto. E ogni volta ri-scopriamo la nostra vulnerabilità. Denunciamo i nostri vizi. Per poi virare, rapidamente, sulle virtù sociali e umane.

Noi italiani. Così fragili e così generosi.

Tanto da far sorgere il dubbio che ci sia un nesso "non casuale" fra i due aspetti. La tragedia e la solidarietà. Che la nostra generosità sia, in parte, prodotta e riprodotta dalla fragilità del nostro mondo, del nostro ambiente. Che noi contribuiamo ad accentuare con i nostri comportamenti - spesso cinici, più che civici.

Varrebbe la pena, forse, di imprimere una svolta di segno inverso. Di cambiare (con)sequenza fra tragedia e solidarietà. Di esercitare, cioè, la generosità non come reazione e riparazione. Ma come pratica preventiva. Verso noi e gli altri. Verso l'ambiente e il territorio che abitiamo. Una generosità esigente e rigorosa. Intollerante verso gli usi impropri e gli abusi. Nostri e altrui. Perché c'è il rischio, altrimenti, che la generosità e la solidarietà, esercitate come riflesso dei disastri ambientali e naturali, tendano, progressivamente, a ridursi. Fino a esaurirsi. Logorate dalla routine. Insieme al non-territorio che abitiamo.
 

(06 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/06/06/news/sulle_macerie_nascono_i_fior-36625733/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - I partiti e le sfide del Grillo-Montismo
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2012, 05:58:44 pm
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I partiti e le sfide del Grillo-Montismo

di ILVO DIAMANTI

Il post-berlusconismo, oggi, ha due eredi, due volti, due modelli. Monti e Grillo. Diversi e anche di più. Quasi alternativi.
Eppure complementari, simmetrici. Interpretano le due principali risposte alla crisi della "democrazia del pubblico" all'italiana.
Dove il rapporto con la società è mediato dai media tradizionali, in primo luogo la televisione. Dove i partiti sono "personali", più che personalizzati. Prolungamenti del leader. Dove il leader si presenta ai cittadini, pardon: al pubblico e agli "spettatori", in modo "immediato", più che diretto. Imitandone i vizi assai più delle virtù. Dove, nella selezione della classe politica e dirigente, non importano le qualità etiche. Semmai quelle estetiche. Conta l'immagine. Contano i rapporti - professionali, di interesse, personali e di varia natura - con il "Capo". Conta la fedeltà al leader, ben più della competenza. Il PMM: il Partito Mediale di Massa, creato da Berlusconi. Ha rimpiazzato la partecipazione sociale con i sondaggi. I valori e l'identità con il marketing politico.

Questo modello non funziona più. Perché la distanza fra la realtà mediale e quella reale è divenuta insostenibile. La narrazione della vita ha perso il contatto con la vita. E, alla fine, i cittadini si sono stancati dello spettacolo della politica. Non sopportano più di essere spettatori e attori, al tempo stesso, di un irreality show frustrante. Così è finito il Berlusconismo.

Abbandonato dai fan. Ma dal suo declino non ha tratto grande vantaggio l'opposizione. I partiti di centrosinistra. Troppo invischiati nel passato e nel presente. Come nel 1992, dopo Tangentopoli.

Sono emersi, invece, due soggetti (in parte) nuovi. Monti, anzitutto. Una risposta politica "dall'alto". Perché interpreta la domanda di competenza e di autorevolezza delle classi dirigenti. È il governo degli esperti, voluto dal Presidente e legittimato dal Parlamento a causa dell'impotenza dei partiti. Monti. Non imita la "gente comune". Non ne sarebbe capace. Anche se cerca la complicità dei talk tivù Pop-olari, non è facile assumere un profilo Pop annunciando misure imPop-olari. Monti: interpreta la Politica senza - in qualche misura "contro" - i partiti.

E senza i Media. Non a caso a capo della tv pubblica ha posto tecnici. Con poche esperienze televisive. (Sollevando il risentimento del PMM, per cui la tv è tutto). Monti. Il suo potere è legittimato dalle competenze e dalla fiducia di cui dispone presso i mercati. Internazionali. Che pesano anche sul consenso popolare.

Grillo e il Movimento 5 Stelle (M5S) costituiscono la risposta "dal basso". Alla crisi politica del Berlusconismo, ma anche ai limiti del Montismo. Dal Basso, perché il M5S veicola la domanda di partecipazione espressa dai movimenti e dai comitati, sorti intorno a rivendicazioni locali e sociali legate ai beni comuni. Perché promuove nuovi leader, giovani, attivi nella società. Perché intercetta la contestazione e la protesta contro "l'Alto": i Partiti e i loro gruppi dirigenti. Contro le oligarchie dei partiti e contro i partiti ridotti a oligarchie.
Grillo e il M5S sono "alternativi" al Berlusconismo, anche se ne ereditano alcuni tratti. Anzitutto, la capacità di gestire la comunicazione e la personalizzazione. Grillo è un professionista, un attore della scena mediatica - e teatrale. Da molto più tempo di Berlusconi.
 
Ma ha abbandonato la televisione. Per necessità oltre che per scelta. È andato nelle piazze. E ha sperimentato la rete e i Social Network, che realizzano una comunicazione "orizzontale". Servendosi della consulenza di "esperti" e professionisti della Rete, come Casaleggio.
Il M5S è una sorta di nuovo modello di Network politico. Che mette in comunicazione molti, diversi luoghi - o meglio, "siti" - sociali e locali. Ma Grillo e il M5S sono l'antipartito - oltre che l'Anti-Berlusconi.

Alternativi al Montismo. A sua volta, espressione della Politica dall'Alto. In mano ai tecnici. Ai poteri economici e finanziari. Interni e internazionali. Mentre i giovani del M5S, come ha sostenuto Grillo, intervistato da Gian Antonio Stella: "Hanno dietro i più bravi consulenti della rete. Fiscalisti, urbanisti, geologi, esperti di bilanci. Tutta gente che si mette a disposizione gratuitamente. Con un entusiasmo che gli altri se lo sognano". Monti e Grillo: sono entrambi "dentro" e "fuori" la democrazia rappresentativa.

Dentro. Monti, ovviamente. Perché occupa ruoli istituzionali importanti, già da molti anni. Prima e dopo l'avvento del Berlusconismo.
E perché la sua azione, oggi, è legittimata dai partiti e dal Parlamento degli eletti (o, meglio, dei "nominati"). Grillo e il M5S: perché agiscono mercato politico. Competono alle elezioni - oggi amministrative e domani legislative - per eleggere i loro candidati.

Nelle istituzioni rappresentative. Perché danno visibilità e rappresentanza a domande politiche e a componenti sociali, altrimenti escluse, comunque ai margini. Fuori. Perché entrambi sono emersi "fuori" dai canali tradizionali della democrazia rappresentativa.

I partiti e la classe politica.
Fuori dai media che caratterizzano la "democrazia del pubblico". Di cui Monti sottolinea l'incapacità di governare.
Grillo e il M5S: l'incapacità di "rappresentare" - e di far partecipare direttamente - i cittadini.

È il Grillo-Montismo. Diagnosi e denuncia del male che oggi affligge la Politica e la "democrazia rappresentativa". Entrambi anti-partitici e post-berlusconiani. Due risposte, peraltro, anch'esse parziali. Perché le istanze partecipative espresse da Grillo devono dimostrare di essere in grado di "governare" e di aggregare le diverse componenti e i diversi interessi della società. Perché l'aristocrazia di governo espressa da Monti e dagli esperti deve, comunque, guadagnarsi il consenso dei cittadini, oltre a quello, incerto, dei mercati. E il consenso dell'opinione pubblica, misurata dai sondaggi, resta elevato. Ma è instabile e in sensibile calo, rispetto a due mesi fa. Mentre il consenso elettorale - l'unico che conti nelle democrazie rappresentative - dipende dalla disponibilità dei tecnici di "mettersi in gioco" alle prossime politiche.

In una lista - nuova o tradizionale. Così, ad oggi, Monti deve affidarsi al "consenso" del Parlamento dei - vecchi - partiti.

Il Grillo-Montismo annuncia, dunque, cambiamenti profondi. Come e forse più dei primi anni Novanta. Una stagione instabile, dove le fratture e le idee politiche tradizionali rischiano di essere fuori tempo. E all'alternativa fra destra, centro e sinistra o fra liberismo e laburismo si sostituisce quella, fluida e indefinita, fra vecchio e nuovo. Che non è certamente nuova, ma resta quanto mai attraente e dirompente.

(11 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/11/news/partiti_grillo_diamanti-36958842/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli esodanti
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2012, 11:48:09 pm
Gli esodanti
 
Ilvo DIAMANTI

E' L'EPOCA del tempo sospeso. Dove è facile scomparire, divenire invisibili. Uscire dal tempo. Finire nel nulla. Come i "neet", acronimo inglese che richiama i giovani che "non" lavorano e "non" studiano. Ma non sono neppure coinvolti in percorsi di "formazione" e "apprendistato". I giovani né / né. Scomparsi, per le statistiche. Loro, almeno sono giovani. E dispongono di un acronimo inglese. Contrariamente agli "esodati". Che giovani non sono più da molto tempo. Ma neppure abbastanza vecchi per "meritare" la pensione. E vengono (in)definiti con un termine inesistente sui dizionari della lingua italiana. Sono i lavoratori (meglio dire: ex) usciti dal mercato del lavoro prima dei tempi previsti dalla legislazione e dai contratti. In cambio di incentivi, si sono "dimessi", licenziati. In attesa di accedere alla pensione. Un'attesa che la riforma varata del governo ha, improvvisamente, allungato di anni, per molti di loro. Quanti, è oggetto di discussione, anzi, di conflitto aspro. Fra il governo e la ministra Fornero, da un lato, e il sindacato, dall'altro. Ma anche i dirigenti dell'INPS. Secondo i quali non si tratta di qualche decina di migliaia di (ex) lavoratori, come vorrebbe il ministro Fornero. Ma centinaia di migliaia. Oltre 350 mila. Esodati. Neologismo singolare e ruvido, all'orecchio. In un primo tempo ho pensato a una contrazione di "esondati". Da esondare. Straripare. Scavalcare gli argini. E quindi: spinti fuori dal bacino  -  del lavoro e della pensione.

Ma non è così. Gli "esodati" sono i participi passati di un verbo che non esiste nei dizionari. (Vi entrerà certamente, nelle prossime edizioni.) Esodare: deriva da "esodo". Migrazione di un popolo in fuga dalla persecuzione. In questo caso, si tratta di coloro che sono stati "spinti" fuori dal lavoro verso la pensione. E sono rimasti lì, sospesi. In attesa di un approdo che si è allontanato all'improvviso e in modo imprevisto. Insomma, sono Esodati, come recita una formula di incerta genesi e responsabilità. Coniata, pare, nei primi anni Novanta. Nei meandri che collegano i ministeri, il sindacato, gli uffici pubblici. Un lemma del lessico burocratese. Gli esodati sono un popolo dai contorni in-definiti. Come chi ne fa parte. D'altronde, non si riesce a stimarli con certezza. Perché sono "esodati" in tempi diversi, da luoghi e contesti diversi. Insomma, sono sparsi, spersi e dispersi. Non dispongono di uno statuto né di una condizione comune. Per cui non hanno uno specchio nel quale riflettersi  -  tutti insieme. Un amplificatore attraverso cui far sentire le loro voci con una voce sola. Perché "non-sono". Sono dei Non. Dei Non-lavoratori. Dei Non-pensionati. Oppure dei né/né. Confinati nella Terra di Nessuno, dove nessuno ti vede, nessuno ti chiama. Visto che non hai un nome. Ma un non-nome.

Sei il participio passato di un verbo che non esiste. È questo che rende la condizione degli Esodati difficile e significativa. Il disagio dell'attesa senza fine. Del viaggio senza mèta. Come  passeggeri di un treno finito in binario morto. E dimenticato lì. Come viandanti che si sono perduti, perché il paesaggio intorno a loro è improvvisamente cambiato. E le mappe, le bussole a cui si affidano sono sbagliate. Non li aiutano a orizzontarsi. Un po' come il nostro Paese. Anche noi: Esodati. O forse, meglio, Esodanti. Participio presente di un verbo che - per ora  -  non esiste. Coloro che affrontano un Esodo, senza una destinazione precisa.

(13 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/06/13/news/esodanti-37123863/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Noi e l'Italia che verrà
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 06:36:11 pm
iL SONDAGGIO

Noi e l'Italia che verrà

La ricerca Demos per la "Repubblica delle idee" racconta come saremo. Gli italiani guardano al futuro con un prudente ottimismo.

La maggior parte pensa che le cose siano destinate a cambiare in fretta e nel profondo.

Da qui a dieci anni, oltre la metà si vede felice e scommette sui giovani e tre su quattro pensano che ci sarà un premier donna.

Su chi guiderà il cambiamento, però, i nomi sono quelli di oggi: Monti e Grillo su tutti

di ILVO DIAMANTI


Gli italiani faticano a immaginare il futuro. Sospesi tra la voglia di cambiare e la difficoltà di capire. Come e chi. "Come" cambierà il Paese. "Come" cambierà la società. E ancor più: "chi" sia in grado di produrre e guidare il cambiamento. Così il sondaggio CambItalia, condotto da Demos per la Repubblica delle Idee, offre indicazioni incerte. Come incerto, d'altronde, è il domani. Così gli italiani si dividono equamente, quasi a metà, fra chi pensa che il Paese tra cinque anni sarà cambiato profondamente (52%) e chi ritiene, invece, che non avverranno mutamenti di rilievo. La grande maggioranza di coloro che credono nel cambiamento (62%) immagina, peraltro, che il futuro ci riservi un Paese migliore. E poco meno di metà degli intervistati (49%) azzarda che, tra dieci anni, saremo più "felici".

In altri termini, gli italiani, nell'incertezza, preferiscono guardare il prossimo futuro con un atteggiamento di cauto ottimismo. Senza esagerare, visti i tempi.

Tra gli attori del cambiamento, gli italiani investono, soprattutto nei giovani (46%), fra i soggetti sociali. E credono nell'Unione Europea (24%), fra le istituzioni. Minore, ma comunque rilevante l'importanza attribuita alla scuola, agli imprenditori, alle donne. Inoltre, agli organismi finanziari - le banche, le borse. Ma anche allo Stato e agli attori politici.

Sorprende, invece, il limitato rilievo riconosciuto alla Chiesa. Che, secondo il 54% degli intervistati, in futuro è destinata a contare meno nelle vicende nazionali.

Peraltro, tre italiani su quattro scommettono che, fra dieci anni, l'euro ci sarà ancora. E che in Italia avremo un presidente della Repubblica o almeno un premier "donna". I giovani, le donne, l'Europa: i fattori e gli attori del cambiamento immaginato ma, soprattutto, auspicato. Perché non vi sono molte ragioni per credere che i giovani e le donne troveranno più spazio, rispetto a oggi, nei centri di governo. Mentre l'Unione europea e l'euro attraversano grandi difficoltà. Tuttavia, l'Europa e la sua moneta continuano ad essere percepite come riferimenti importanti, in tempi di crisi. Forse perché è diffusa la percezione della nostra fragilità sul piano internazionale, rispetto a Paesi vicini e lontani. Infatti, oltre 8 persone su 10 ritengono che fra dieci anni la Cina eserciterà sulla nostra economia e sulla nostra società un'influenza superiore rispetto a oggi.

La stessa opinione espressa dalla maggioranza degli intervistati (intorno al 60%) relativamente alla Germania, l'India, i Paesi Arabi, gli Stati Uniti. È un segno dell'importanza del "sentimento globale", accentuato dalla consapevolezza di quanto la nostra economia e la nostra stessa vita dipendano dalle scelte e dagli avvenimenti che si realizzano "altrove". Dove noi, personalmente, non riusciamo e non possiamo arrivare. Mentre gli "altri", le persone di Paesi "lontani", arrivano da noi, sempre più numerosi. Nei confronti degli immigrati, peraltro, non emergono "paure" eccessive.
Quasi 2 persone su 3 ritengono che gli stranieri si confermeranno una risorsa, più che un problema. Mentre quasi il 60% degli italiani non teme l'impatto futuro della religione islamica.
Ciò significa che, parallelamente, quasi 4 persone su 10 guardano gli stranieri e le altre religioni (le religioni degli altri) con inquietudine.

Ma, almeno per ora, la "paura del mondo" non pare aver prodotto la sindrome dell'invasione. E non ha, peraltro, alimentato le divisioni interne al Paese. Il localismo delle piccole patrie. Visto che quasi 9 persone su 10 si dicono certe che, fra dieci anni, l'Italia sarà ancora unita. Mentre solo il 16% pensa possibile l'indipendenza del Nord (che non necessariamente vuol dire secessione).

Il segno della globalizzazione: è marcato anche dall'importanza attribuita, come fattori di innovazione, alle nuove tecnologie della comunicazione. Alla rete, ai pc, ai social network.
Che promuovono e moltiplicano le relazioni a-territoriali. A distanza anche notevole. Il loro peso cresce sensibilmente fra i più giovani, con meno di trent'anni. Appare, invece, molto più limitato il ruolo attribuito, nel futuro, ai media tradizionali. Le tivù e i giornali (che non a caso hanno sviluppato connessioni sempre più strette con la Rete).

Insomma, gli italiani, descritti dal sondaggio CambItalia di Demos, guardano il futuro con prudenza e un po' di apprensione. Sanno che le cose sono destinate a cambiare in fretta e profondamente.
E che i cambiamenti dipenderanno dagli "altri" più che da noi. Da ciò che avverrà in altri Paesi, lontani. E vicini (come la Germania). Per questo continuano a scommettere sull'Europa e sull'euro.
E sull'unità del Paese. Perché divisi e soli è più difficile andare lontano. Peraltro, vorrebbero affidarsi ai soggetti che finora sono stati esclusi dai luoghi del governo e del potere.
I giovani e le donne. Perché è difficile cambiare con una classe dirigente sempre più vecchia.

Tuttavia, quando si tratta di indicare gli attori del cambiamento, tornano gli stessi nomi di oggi e di ieri. Per primi: Monti e Grillo. Il Grillo-Montismo, Giano bifronte del post-berlusconismo.
Seguono, a distanza, con un numero ridotto di segnalazioni: Napolitano, Berlusconi, papa Benedetto XVI e Bersani. Un'età media superiore a 70 anni. Protagonisti del presente e del passato.
La voglia di cambiamento è, dunque, tanta. Ma la ricerca di figure nuove non è ancora cominciata.

© Riproduzione riservata (14 giugno 2012)

da - http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/06/14/news/noi_e_l_italia_che_verr-37163341/


Titolo: Non c'è democrazia senza i partiti. La lezione di Zagrebelsky e Diamanti
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 06:50:08 pm
L'EVENTO

"Non c'è democrazia senza i partiti" la lezione di Zagrebelsky e Diamanti

Un'ora di dialogo in piazza tra il politologo e il presidente emerito della Consulta.

"La politica è mediazione e fatica, ma servono nuove proposte e nuove idee che restituiscano alle persone la fiducia negli altri e nel futuro"

di VALERIO GUALERZI


BOLOGNA - Oltre i partiti non c'è nulla. Inutile vagheggiare un'utopica democrazia diretta. La politica è mediazione e fatica quotidiana. Chi ha a cuore le sorti delle democrazia deve quindi darsi da fare affinché i partiti si riformino oppure ne emergano di nuovi. Partiti che devono essere in grado di offrire alternative, riconquistare fiducia, uscire dagli uffici e tornare a interpretare la vita e i bisogni delle persone. E' un appassionato tributo alla politica il dialogo tra Ilvo Diamanti e Gustavo Zagrebelsky. Un omaggio fatto di oltre un'ora di confronto serrato tra il politologo e il presidente emerito della Consulta che una piazza Santo Stefano gremita di gente ascolta attenta.

"La politica sotto/sopra" è quasi una lezione sulla bellezza e l'imprescindibilità della politica che conquista il pubblico della "Repubblica delle idee", smentendo ancora una volta chi confonde la crisi di rappresentatività degli attuali partiti con quella dell'impegno, del desiderio di partecipazione e di comprensione dei meccanismi che governano la nostra vita quotidiana.

Per definire il momento attuale, dominato da una fiducia ai minimi storici nei partiti e nel Parlamento (crollate rispettivamente al 4 e al 10%), Diamanti ha coniato il neologismo "grillomontismo", una parola che unisce due figure e due modi di fare politica apparentemente agli antipodi. Eppure - è questa la convinzione del politologo - solo saldando questi due opposti, l'aristocratica competenza di Monti con la fiducia che Grillo è ancora in grado di raccogliere tra la gente, che la politica può ripartire dopo averci abituato che la figura del politico deve impersonare "il peggio dell'uomo comune". "Devono essere meglio di noi, ma ci devono rappresentare", sintetizza Diamanti.

Una delega quindi è indispensabile, al di là degli slogan dei facili populisti, ma secondo Zagrebelsky è necessario che i partiti escano dagli uffici e ascoltino la società per poi elaborare nuove proposte, nuove politiche. "C'è bisogno di idee, di alternative, altrimenti se passa la convinzione che la politica è solo l'applicazione di meccanismi che non controlliamo - avverte l'animatore di Libertà e Giustizia - subentra l'apatia". "Non servono fondazioni - aggiunge - devono essere i partiti ad elaborare le politiche interpretando ciò che parte dal basso, smettendola di considerare tutti noi e i nostri bisogni come qualcosa che sta sotto di loro e che devono controllare". Detto in altre parole, quelle di Diamanti, "c'è bisogno di persone che ci dicano per cosa votare".

Ma mentre Zagrebelsky sembra avere ancora qualche speranza che gli attuali partiti, seppure in extremis, siano in grado di riformarsi ("se lo fanno vanno bene anche questi"), Diamanti si mostra molto più scettico e insiste sul concetto di fiducia, parola chiave della democrazia. "Nessuno di questi va più bene - spiega - perché non mi aiutano ad avere fiducia nel futuro e negli altri e senza fiducia non c'è democrazia e io alla democrazia ci tengo".

© Riproduzione riservata (15 giugno 2012)

da - http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/06/15/news/dialogo_zagrebelsky_diamanti-37286900/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI Se gli adulti chiedono ai giovani di scrivere un tema sui giovani
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2012, 09:05:17 am

Bussole

Maturità

Ilvo DIAMANTI

Se gli adulti chiedono ai giovani di scrivere un tema sui giovani


STO SEGUENDO con attenzione  -  e partecipazione - gli esami di maturità. Quest'anno più dei precedenti. Per motivi personali e familiari, anzitutto. Visto che il più giovane dei miei figli vi è coinvolto. Poi, perché si tratta, comunque, di un rito di passaggio importante per la generazione dei giovani. Per quanto entrambe le definizioni: generazione e giovani, siano assai poco definite. Semmai, molto incerte.

Tuttavia, credo che gli esami di maturità segnino un confine indelebile nella memoria di quanti li abbiano affrontati. Sono "l'esame della vita". Dopo il quale nulla sarà più come prima. Sia che si proseguano gli studi  -  e allora gli esami si moltiplicheranno, fino a diventare una routine. Sia che si intraprenda il lavoro  -  intermittente, flessibile, assente.

E allora gli esami di maturità costituiranno uno spartiacque biografico. Per questo motivo, come altri opinionisti autorevoli, è parso anche a me significativo che, fra i temi proposti dal Ministero, uno riguardasse proprio il destino dei giovani dopo gli studi. Cioè: la disoccupazione, la sottoccupazione, la precarietà. Quasi un avviso  -  l'ultimo  -  circa il futuro che li attende. Proprio per questo motivo, però, a differenza di altri opinionisti autorevoli, non ho apprezzato la scelta del tema e dei riferimenti.

Anzitutto, perché, vista la platea, mi è sembrata un po' scontata. Come se i giovani non sapessero di essere una generazione precaria. Come se avessero bisogno di essere avvertiti circa quel che li attende domani o dopodomani: senza lavoro, intermittenti o Neet? Oppure, ancora, "cervelli in fuga"? (Magari come Steve Jobs, che ha inseguito, viaggiando, il sogno che nella scuola americana non poteva realizzare).

Mi è parso un tema retorico. Utile, semmai, a rivelare il retropensiero  -  e il senso di colpa  -  di chi lo ha ideato e assegnato. Professori e burocrati. Persone della mia generazione. Adulte e anziane. Genitori, magari un po' attempati. Preoccupati di quel che attende i loro figli. Il destino di cui essi - la loro, la nostra generazione  -  sono responsabili. A cui essi - la loro, la nostra generazione  -  non sanno (in parte, non vogliono) dare risposta.

Tuttavia, non ho apprezzato il tema sui giovani anche per la chiave di lettura che suggerisce. Coerente con le ragioni che ne hanno ispirato la scelta. Perché il tema traccia, dei giovani, un profilo in penombra. Disegna, cioè, il ritratto di una generazione infelice e sfortunata. La cui salvezza, del tutto provvisoria, è affidata proprio a noi. Gli adulti. Che li mantengono a lungo. A casa propria. Offrono loro un appiglio, una stazione di passaggio. Tra un lavoro e l'altro. Nel corso  -  lungo e senza sbocco  -  degli studi.

Come prospettiva, tra le fonti proposte, echeggia la lezione di Jobs. Che, a Stanford, esortava i giovani: "Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo, loro sanno già cosa voi volete davvero diventare". Mentre solo il 23,4% dei "nostri" giovani  -  certifica il Censis -  risulta disponibile "a trasferirsi in altre regioni o all'estero per trovare lavoro". In altri termini: i giovani sono attesi da un destino triste. Anche perché non sono disposti a spostarsi lontano da casa per lavorare. E non hanno abbastanza fame, non sono abbastanza folli per cercare soddisfazione e successo...

In effetti, non è proprio così. Gli infelici, i pessimisti, i più infelici e pessimisti: siamo noi. Gli adulti. I genitori. Quelli che proiettano sui giovani le proprie paure. Quelli che immaginano un futuro senza sbocchi. Quelli che parlano di "fuga dei cervelli", quando i nostri laureati vanno a lavorare in altri Paesi. Loro, i giovani, i laureati, quelli che hanno studiato oppure stanno ancora studiando, ormai si sono abituati. Alla cosiddetta flessibilità. Al lavoro incerto e intermittente. Guardano Jobs con ammirazione. (Anche per quel che evoca il significato del cognome.)

Non sono disperati e neppure rassegnati. Costretti ad adattarsi, si adattano. E adattano le loro aspettative alla realtà. Per cui, se anche fosse vero che esprimono qualche resistenza a cercare lavoro lontano da casa, è altrettanto vero che  -  loro per primi -  si rendono conto di non avere alternativa. Infatti, tre su quattro, fra 15 e 24 anni, pensano che "per i giovani di oggi che vogliono fare carriera l'unica speranza è andare all'estero" (sondaggio Demos, aprile 2012).

Semmai, siamo noi, i genitori, gli adulti, cresciuti in un clima di garanzie e di certezze, fondate sul lavoro stabile e sicuro, i più spaventati di fronte all'immagine evocata dai giovani. Siamo noi che, di fronte all'esperienza dei giovani laureati e intellettuali "emigrati" all'estero, parliamo di "fuga dei cervelli". Come se i "cervelli", in una società libera e aperta, potessero essere imprigionati. Il problema è un altro.

I "cervelli in fuga" sono i nostri. Perché siamo prigionieri del passato, incapaci di disegnare il futuro e perfino di immaginarlo. Noi: continuiamo a  definire i giovani "motore del cambiamento". Ma, in effetti, neghiamo loro perfino il diritto di incazzarsi con noi. E li invitiamo ad avere compassione. Di se stessi. Con le parole di Paul Nizan, utilizzate per un altro tema della maturità: "Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita". Nizan, quando scrisse quella frase, aveva 26 anni. Proposta al commento dei giovani da noi adulti: suona ironica. E un poco ipocrita.
 

(22 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/06/22/news/maturit_giovani_adulti-37700642/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il fantasma d'autunno nel Paese del Vuoto
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2012, 10:32:45 am
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Il fantasma d'autunno nel Paese del Vuoto

di ILVO DIAMANTI

SI PARLA troppo di elezioni anticipate, in autunno, per non prenderle sul serio. Anche e tanto più se  -  nell'attuale maggioranza  -  nessuno afferma di volerle davvero. Bersani, nei giorni scorsi, ha allontanato l'ipotesi come una iattura. Una prospettiva a cui penserebbe Berlusconi, per non venire emarginato dal suo stesso partito  -  che ormai non c'è più. Questa soluzione, però, non risolverebbe nulla. Anzi: aggraverebbe la crisi italiana, di fronte all'Europa, all'euro e ai mercati internazionali. Eppure se si parla di possibili elezioni in autunno il rischio c'è. Perché, comunque, nessuno è in grado di garantire la tenuta e la stabilità della maggioranza parlamentare che sostiene l'attuale governo.

1. L'attuale governo, anzitutto, designato dal Presidente nello scorso novembre e accolto con soddisfazione dai cittadini, da qualche mese ha perduto consensi. Il premier, Mario Monti, dispone ancora del sostegno di oltre il 45% dei cittadini (dati Ipsos). È il più accreditato fra i leader. Ma è in calo sensibile, rispetto agli scorsi mesi. In marzo superava il 60%. In aprile: al di là del 50%. D'altronde, è difficile governare con una maggioranza parlamentare di "emergenza". Che riassume forze e personalità politiche da sempre ostili, reciprocamente. È difficile fare riforme, assumere decisioni che la maggioranza precedente non era stata in grado di affrontare. Senza generare
insoddisfazione. Politica e sociale. Tanto più se la posizione italiana, in ambito europeo e internazionale, resta debole. Perché, allora, tanti sacrifici? Perché "morire per l'euro"? Sono le voci, insistenti, che agitano la scena politica. E trovano ascolto crescente anche fra i cittadini.

2. È difficile, d'altronde, affidare all'attuale maggioranza il compito di sostenere il governo e la legislatura fino in fondo. Perché, semplicemente, è una maggioranza fittizia, matematica, parlamentare. Politicamente divisa e, anzi, attraversata da fratture irresolubili, su molte questioni politiche essenziali. Giustizia, informazione, televisione. I partiti: condizionati dal malessere degli elettori sulle principali riforme: pensioni, lavoro, fisco.

3. Per contro, non si vede come potrebbe emergere una nuova, solida maggioranza, da nuove elezioni. Proviamo a fare un po' di conti, in base alle stime dei sondaggi condotti dai principali istituti demoscopici. Il centrodestra non c'è più. Pdl e Lega sono divisi. Ma anche se tornassero insieme non andrebbero oltre il 23-24%. Circa il 17-18% il Pdl e il 4-6% la Lega. Forza Italia, da sola, faceva di più. Il centrosinistra, però, non pare in grado di offrire un'alternativa valida. Perché fra il Pd e l'Idv (sempre più all'opposizione di Monti) il solco è divenuto un abisso, di mese in mese. Perché i tre volti di Vasto, Pd, Idv e Sel, insieme non raggiungerebbero il 40%. Mentre il Terzo polo appartiene al passato, liquidato da Casini. Ma l'Udc non va oltre il 7-8%. E i suoi elettori sembrano riluttanti ad allearsi con uno dei due poli.

4. Così è cresciuto e cresce ancora il quarto polo. Il partito di coloro che ce l'hanno con i partiti. Con il governo Monti, appoggiato dai partiti. Con le oligarchie dei partiti. Il partito di coloro che ce l'hanno con l'Europa dell'euro (marco). Interpretato, oggi, dal Movimento 5 stelle, ispirato da Beppe Grillo. Alle recenti amministrative ha ottenuto un grande successo, che ha diverse spiegazioni. Locali e no. Ma è cresciuto a dismisura, nel corso delle ultime settimane, trainato dall'insoddisfazione degli elettori. Di sinistra, ma anche e sempre più di centrodestra. In primo luogo, della Lega. Il M5s, attualmente, è accreditato di oltre il 20%. Secondo partito, dopo il Pd. In Veneto, tradizionale laboratorio del cambiamento politico nazionale, il M5s è divenuto il partito che dispone della maggior base di "fiducia" fra gli elettori il 26%. A causa della "sfiducia" nei confronti di tutti gli altri, in crollo di credibilità, negli ultimi mesi (Dati dell'Osservatorio Nordest per il Gazzettino, maggio 2012). D'altronde, un larga maggioranza degli elettori (il 43% in ambito nazionale, sondaggio Demos, maggio 2012), vedono nel M5s un mezzo per esprimere "la protesta contro tutti i partiti". Il problema del sistema politico italiano, dunque, è il "vuoto" che si è aperto al suo interno. Perché non ci sono partiti e tanto meno coalizioni in grado di aggregare una solida maggioranza di consensi. Tale da garantire non solo la vittoria alle elezioni, ma anche e soprattutto legittimazione, capacità di governare.

5. In questa fase, però, non ci sono neppure santi e protettori, in grado di offrire ai cittadini un riferimento, una luce, una sponda. O almeno un appiglio a cui aggrapparsi. Negli ultimi anni, questo ruolo è stato svolto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Che ha guidato il Paese, in tempi tanto duri, affidandone il governo a Monti e ai tecnici. Aristocrazia democratica di una democrazia rappresentativa sempre meno rappresentativa. Ora, però, neppure Monti riesce più a garantire il consenso popolare, intorno a sé. E Napolitano, il suo sponsor principale, ne risente, come mostrano gli indici di fiducia nei suoi, confronti. In calo significativo.

6. Il Vuoto. È la sensazione che provano i cittadini, in questa fase. Di fronte alle vicende dell'economia e dei Mercati. Difficili da comprendere e, quindi, da affrontare. Perché non è chiaro come difendersi  -  né chi ti può difendere  -  da minacce sconosciute. Fitch, Standard & Poors, Moody's e per primo il famigerato spread. L'euro e la Germania. Così tutto e tutti perdono fiducia. Tutte le istituzioni, non solo i partiti. L'Unione europea, lo Stato, il Parlamento. Ma anche la magistratura, la Chiesa, i sindacati. Così cresce il "Vuoto intorno a noi". La sensazione di essere soli. Contro tutti. E, insieme, cresce la tentazione di affidarsi a chi è in grado di gridare al mondo la nostra insofferenza e la nostra rabbia. Poi, si vedrà.

7. Per questo le elezioni in autunno sono possibili, se non probabili. E, comunque, le elezioni alla loro scadenza naturale, nella primavera del 2013, non sono una soluzione. Semmai, una deroga, una pausa ulteriore, prima della resa dei conti. Nell'attesa che qualcun altro, oltre a Grillo, si proponga e ci proponga di colmare il Vuoto politico intorno a noi. Perché, echeggiando Aristotele, in politica, ancor più che in natura, il vuoto non può esistere.

Per questo non dobbiamo chiederci se e quando si voterà. Ma per quali partiti  -  vecchi e nuovi  -  e per quali leader  -  vecchi e nuovi. Con quale legge elettorale. Chi ha qualcosa da dire, al proposito, è meglio che lo faccia subito... Se il Vuoto incombe, la colpa non è di Beppe Grillo.

(25 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/25/news/mappe_diamanti_elezioni-37903060/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il declino dei poteri locali
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2012, 11:22:12 pm
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Il declino dei poteri locali

di ILVO DIAMANTI

IL TERRITORIO. Dopo vent'anni di successi, adesso sembra perdere importanza. Insieme agli attori politici che ne hanno fatto una bandiera. Il "trionfo del territorio" si era materializzato, in modo inequivocabile, alle elezioni politiche del 1992. Interpretato dall'avanzata della Lega Nord, che aveva segnato la crisi definitiva della Prima Repubblica. Spostando il baricentro politico del Paese dal centro alla periferia. Una tendenza rafforzata e istituzionalizzata l'anno seguente, dalla legge 81 del 1993. Che sancisce l'elezione diretta dei sindaci. E, insieme, dei presidenti di Provincia. Sette anni dopo, nel 2000, lo stesso avviene per i presidenti di Regione. Da allora, anch'essi eletti direttamente dai cittadini. Da vent'anni, dunque, l'Italia si è trasformata in uno Stato a presidenzialismo diffuso. Una Repubblica federalista, ma "preterintenzionale". Divenuta tale, cioè, senza un disegno preciso e condiviso. Quasi per caso. Nel segno del territorio. Esibito come una bandiera, oltre che dalla Lega, dagli amministratori eletti direttamente "dal popolo sovrano". I sindaci, appunto. Ma anche i presidenti. Di Regione. E di Provincia. Oltre metà delle Province, però, domani potrebbe "scomparire". O meglio, essere ridotta e "accorpata".

Le Province. Secondo le principali forze politiche, avrebbero dovuto essere "cancellate" ancora trent'anni fa. Quand'erano circa 70. Nel frattempo, però, sono divenute 107. Perché le province
non sono solo istituzioni, ma, come ha scritto Francesco Merlo, "la particella del Dio italiano". Un Dna che sancisce "una separatezza e una diversità che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali". Ed è difficile opporsi al nostro Dna. A contrastare il "provincialismo" italiano ha provveduto  -  o meglio, ci sta provando  -  il governo tecnico, guidato dal super-tecnico, Mario Monti. In base ai criteri tecnici che hanno orientato la spending review. In altri termini: la revisione della spesa. Meglio: degli sprechi. E le Province, in effetti, in gran parte erano e sono fonte di spreco. Peraltro, la spending review e, in generale, le politiche di bilancio del governo tecnico, pur senza cancellarli, hanno ridimensionato anche gli altri governi territoriali. E i loro sovrani. Regioni e Comuni. Governatori e sindaci.

Le Regioni. Pesantemente colpite dai tagli alla Sanità. Il che significa: la loro principale "missione". D'altronde, cosa sono le Regioni se non una grande Asl, visto che circa l'80% dei loro bilanci è "saturato" dai capitoli sociosanitari?

Così i Comuni. Costretti a fare gli esattori delle imposte immobiliari, per conto dello Stato. Aggiungendovi le loro sovrattasse. Indotti, per finanziarsi, a edificare il territorio. In altri termini: a degradarlo ulteriormente. Perché gli oneri di fabbricazione costituiscono, per i Comuni, la principale fonte di auto-finanziamento. I sindaci, così, sono divenuti "sovrani a parole". Hanno ottenuto competenze e visibilità. Generato aspettative. Senza, tuttavia, disporre di adeguati poteri. Oggi fanno i conti con risorse  -  sempre più  -  ridotte. Hanno tradotto  -  e pagato  -  la maggiore autonomia mediante una maggiore pressione impositiva. Certo, non è del governo Monti la responsabilità di questa tendenza. Avviata dai governi che l'hanno preceduto. In modo, peraltro, contraddittorio. Si pensi allo sciagurato "patto di stabilità" che, negli anni scorsi, ha "premiato" i governi locali che avevano speso  -  e dissipato  -  di più. Beffando i Comuni virtuosi.

Attraverso la spending review, il governo Monti, pur senza dichiararlo, ha, però, nei fatti, decretato la fine del federalismo all'italiana. Tradotto nella moltiplicazione infinita delle Province, nel trasferimento  -  mediante referendum  -  di centinaia di comuni da una regione all'altra, in base a calcoli di opportunità e di vantaggio. Un federalismo ir-responsabile, dove i governi locali non sono chiamati a rispondere delle loro scelte. Per cui i "patti territoriali", nel Sud, si sono spesso tradotti in meccanismi di spesa e burocratizzazione ulteriori. Questo federalismo, usato dalla Lega come una bandiera, oggi appare improduttivo e poco vantaggioso, ai cittadini. Non a caso solo una persona su cinque, oggi, ritiene che, fra dieci anni, "in Italia ci sarà un federalismo vero". Mentre due su tre pensano il contrario (Sondaggio Demos, giugno 2012).

Così, dopo anni di federalismo a parole e di parole sul federalismo, oggi assistiamo alla ri-centralizzazione delle scelte. Alla crescente debolezza dei governi e dei governatori locali. Alla difficoltà dei soggetti politici che si riferiscono alla questione territoriale. Per prima la Lega Padana. O Nord, non importa. Assistiamo, ancora, alla centralizzazione organizzativa dei partiti. Sempre più "romani". E alla marginalizzazione dei sindaci, un tempo, tanto tempo fa, attori politici di primo piano. Soggetti di cambiamento. (Soprattutto nel Centrosinistra).

Il declino del territorio, come base del governo, della rappresentanza e dell'identità politica, tuttavia, si sta consumando senza che emergano altre soluzioni. Altre strade. Altri riferimenti. Senza che lo Stato e la politica "nazionale" abbiano assunto maggiore autorevolezza. (Al contrario). Senza che l'opacità del progetto federalista sia compensata da un progetto abbozzato, se non definito, di riforma dello Stato e del governo. Il federalismo all'italiana, d'altronde, è avvenuto senza un'adeguata cessione di autorità e, soprattutto, risorse, dal centro alla periferia. Per cui ha prodotto e riprodotto conflitti infiniti fra Stato centrale ed enti locali.

Ma il declino del territorio, che erode l'autorità dei sindaci e dei presidenti di Regione  -  e di Provincia  -  non risolve i conflitti. Non restituisce lo scettro al sovrano. Allo Stato. Al potere centrale. Perché avviene per urgenza e necessità tecnica. Per iniziativa dei tecnici. Garanti e depositari di un potere che origina dall'esterno. Dall'emergenza imposta dalla crisi, i mercati, le autorità monetarie e finanziarie. Europee e internazionali. Qui sta il problema. Perché se lo Stato è l'istituzione che esercita la propria sovranità e il proprio potere sul territorio, allora la dissolvenza del territorio può avere esiti ed effetti imprevedibili. Ma, certamente, insidiosi. Insieme al territorio e ai suoi attori, rischia di coinvolgere anche lo Stato. Di delineare un Paese senza centri né periferie. Riassunto in una unica, grande periferia.

(09 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/09/news/declino_poteri_locali-38753713/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - "Peggio di Berlusconi nessuno mai" ...
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2012, 05:24:16 pm
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"Peggio di Berlusconi nessuno mai" un italiano su due boccia il ritorno

Solo il 13% degli intervistati indica il fondatore di Forza Italia e del Pdl come uno dei personaggi che hanno caratterizzato positivamente la nostra storia recente. E ora il Cavaliere è costretto a inseguire le novità della politica: cercherà di essere sintesi tra Monti e Grillo.

Ma i partner europei ne temono la ricomparsa. E anche la sua capacità di comunicare appare retrò

di ILVO DIAMANTI

FRANCAMENTE, me l'aspettavo. Il ritorno di Silvio Berlusconi. E quando l'ho rivisto sulla scena, auto-ri-candidato, mi è giunta l'eco di Mogol e Battisti. "Ancora tu? Non dovevamo vederci più?". Citazione ironica, perché Berlusconi non se n'è mai andato. Abbandonare così: non gli è possibile. Non solo perché è "costretto" a difendersi. Dai magistrati, i nemici di sempre. E di fronte alle minacce contro i suoi interessi media-televisivi.

Non se ne poteva andare così, soprattutto perché non gli è possibile immaginare la politica italiana - oltre che il centrodestra - altrimenti. Senza di lui. D'altronde, è difficile per tutti concepire l'ultimo scorcio della nostra storia. Senza di lui. Basta scorrere i dati del sondaggio di Demos-Coop per "la Repubblica delle Idee". Tra gli avvenimenti che hanno segnato positivamente l'Italia, negli ultimi trent'anni, il 55% degli intervistati indica "la fine del governo Berlusconi". Il 25% "la discesa in campo del Cavaliere".

Secondo il 33% degli italiani, si tratta degli avvenimenti che - nel bene e nel male - hanno cambiato maggiormente la storia del Paese. In particolare, la (prima) discesa in campo. Berlusconi ha contribuito a scrivere la biografia della Nazione degli ultimi trent'anni, più di Tangentopoli, dell'immigrazione, della Padania. In misura minore, solamente, della crisi economica e dell'Euro. Certo, si tratta di opinioni espresse "oggi".

E, com'è noto, il presente orienta il nostro sguardo sul passato. Tuttavia nell'autobiografia collettiva del Paese Berlusconi occupa uno spazio importante. Basti considerare le classifiche dei personaggi che hanno cambiato l'Italia negli ultimi trent'anni. Realizzate in base alle opinioni espresse dagli italiani liberamente, senza liste di nomi preconfezionate. Nel bene come nel male, al primo posto c'è lui. Con misure ben diverse, certo.

Il 13% degli intervistati indica Berlusconi come uno dei due personaggi che hanno caratterizzato positivamente la nostra storia recente. (Un punto in più rispetto al Presidente Napolitano). Mentre sono molto più numerosi quanti lo considerano l'uomo che ha cambiato "in peggio" il Paese. Oltre una persona su due. Per la precisione: il 54%. Mentre Monti, Prodi, Di Pietro, Bossi, perfino Craxi - unico sopravvissuto della Prima Repubblica, nella memoria - sono al di sotto del 10%.

Berlusconi. Al tempo stesso, il più amato e il più odiato. Della Seconda Repubblica. Al punto da dilatarla nel tempo. Oltre la caduta del muro di Berlino. D'altronde, Berlusconi l'ha rimpiazzato con un nuovo muro. Il muro di Arcore. Tenendo vivo l'Anticomunismo senza il Comunismo. Oggi Berlusconi conta di risorgere di nuovo. Come dopo la sconfitta del 1996. Come nel 2006, quando tutti lo davano per finito, per primi i suoi alleati. E lui trasformò una sconfitta sicura in un quasi-pareggio. Cioè, viste le previsioni, in un grande successo. Conquistato, di larga misura, due anni dopo.

Come nelle precedenti resurrezioni, Berlusconi sottolinea la svolta cambiando il nome. Da Forza Italia alla Casa delle Libertà. E ancora, al Popolo delle Libertà. Domani si vedrà. Non Forza Italia. Significherebbe un "ritorno alle origini". Mentre Berlusconi intende annunciare un "ritorno al futuro". E poi, FI decreterebbe la fine senza appello di AN. Potrebbe sollevare ulteriori risentimenti, nel centrodestra. Berlusconi sceglierà un nome nuovo, che evochi il "suo" passato ma anche il cambiamento. Utilizzerà, come sempre, le tecniche del marketing - sondaggi, ricerche di mercato - per testare il marchio più efficiente. Lo slogan più efficace. Ma alla fine deciderà lui. Come sempre.

Anche per quel che riguarda la squadra. Sceglierà persone fedeli e "significative". Che "significhino" la nuova svolta. La fine del Cavaliere Gaudente. Per questo la Minetti se ne deve andare. Subito. Per spezzare l'anello di congiunzione con le Olgettine, i Bunga Bunga, Ruby, Noemi, le Feste di Arcore e Villa Certosa. Una stagione finita. Berlusconi cercherà di scrivere una nuova "Storia Italiana". Coerente con il sentimento del tempo. Sospeso fra paure economiche e insofferenza politica. Nonostante sia un'impresa impensabile, anche per lui, assumere un profilo misurato. Da "peccatore pentito".

Berlusconi: cercherà la sintesi del Grillo-Montismo. Tendenze di successo di questa fase. La domanda di competenza e di democrazia diretta. Il Tecnico e il Blogger Predicatore. Berlusconi proverà a mixarli, a intercettarne il segno. (Una novità che altri soggetti, e non lui, annuncino le novità. E che lui sia costretto a inseguire.) Una missione complicata. Conquistare la credibilità dei mercati, il rispetto dei leader internazionali. Per primi, quelli europei. Che ne temono il ritorno più di molti italiani. E ancora, andare oltre la sua professionalità. Oggi retrò. Perché lui è il leader della democrazia mediale. Non digitale. Lui: sa controllare la televisione. La Rete è estranea alla sua cultura. Perché perfino a Grillo risulta difficile governarla verticalmente. Personalizzarla. E poi è troppo diretta. Ve lo immaginate il Cavaliere comunicare in Rete e dunque "senza rete" con chiunque? Senza "mediazioni"?

Ci proverà, Berlusconi, a risorgere di nuovo. Intanto, ha esibito un sondaggio. Come nel 2006, quando si affidò all'agenzia americana PSB. Serve a dire che è ancora competitivo. E tanto più gli altri lo inseguiranno, con altri sondaggi di segno opposto, tanto più la profezia demoscopica rischia di avverarsi. Perché la stessa "smentita" del dato con altri dati appare una conferma (lo osservato Nando Pagnoncelli). E poi Berlusconi conta sui tradizionali alleati. La memoria corta degli italiani. La loro indulgenza. (Chi è senza peccato...) La vocazione del centrosinistra a farsi del male. (Ci sta provando il PD, proprio in questi giorni.) Dopo il 1996 e il 2006, d'altronde, non sono stati i leader e gli uomini del centrosinistra a metter fuori gioco Prodi?

Berlusconi ritorna perché non ha e non può avere eredi. Senza di lui questo centrodestra rischia la dissoluzione. Spolpato da altri soggetti. Più o meno nuovi. Comunque ostili al Cavaliere. Liste ispirate da Monti e da Montezemolo. Perfino da Grillo.

Berlusconi ritorna per auto-difesa. Ma soprattutto perché non riesce a uscire di scena. Perché la scena, senza di lui, gli pare impossibile. Perché immagina il futuro come il passato. Berlusconi, insomma, è prigioniero del proprio passato. Che però è passato. Il berlusconismo è una storia chiusa, su cui la crisi degli ultimi anni ha posto la parola fine. Le dimissioni della Minetti, le strategie di marketing creativo, la nostalgia diffusa in molti ambienti, perfino nel centrosinistra: non basteranno a riaprirla.

(16 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/16/news/peggio_di_berlusconi_nessuno_mai_un_italiano_su_due_boccia_il_ritorno-39121782/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se i partiti vivono in un mondo sparito
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2012, 05:00:40 pm
MAPPE

Se i partiti vivono in un mondo sparito

di ILVO DIAMANTI

DOPO Monti. Che ne sarà del sistema partitico italiano? Con quali alleanze e quali leader affronterà le prossime elezioni? Intorno alla legge elettorale: è difficile dire qualcosa. Le proposte dei diversi partiti sembrano fatte apposta per interdire quelle altrui. Mentre i contatti tra i leader e i partiti proseguono. Disegnano scenari futuri che riflettono quelli di un tempo.

Nel centrodestra, la Lega di Maroni non può ri-stabilire l'alleanza con il Pdl di Berlusconi. Per non smentire se stessa. Ma non può neppure prescinderne, come prospettiva. Soprattutto in caso di elezioni in Lombardia. Pena: l'isolamento. La marginalizzazione. Reciprocamente, il Pdl: non può escludere l'intesa con la Lega, su cui ha costruito la sua maggioranza da oltre dieci anni. Così entrambi i partiti si (contrad)dicono: nemici a parole, ma alleati in diverse occasioni. Come al Senato, di recente, nel voto a favore del semi-presidenzialismo. Pdl e Lega. Distanti, ma pronti a collaborare di nuovo. Dopo Monti.

Nel centrosinistra il progetto di Veltroni, del Pd partito unico e maggioritario, in grado di intercettare i voti dell'area di sinistra, è tramontato. Così si riapre la tradizionale questione. Quale coalizione? Centro-Sinistra o Centrosinistra senza trattino? Cioè, un'intesa fra Pd e Udc, aperta a Sinistra, cioè a Sel? Oppure un rapporto privilegiato fra Pd, Sel e Idv, raffigurato dalla cosiddetta "foto di Vasto"? (un'ipotesi difficile, dopo le critiche violente di Di Pietro contro Monti, Napolitano e, dunque, contro il Pd di Bersani). Le discussioni degli ultimi giorni non offrono risposte chiare, al proposito. D'altronde, nessuno dei principali attori politici, in questa fase, può permettersi di indicare un percorso rigido. Rinunciando ad altre soluzioni, ad altre intese e alleanze. Troppo fluido il campo politico. Troppo instabili e precari gli orientamenti dei mercati e, d'altro canto, i sentimenti dei cittadini. Così Casini annuncia che l'Udc correrà da sola, ma apre all'intesa con il Pd. Mentre Pd e Sel siglano un patto di solidarietà. E Bersani esprime interesse a un'intesa con l'Udc. Che Vendola non esclude. Di Pietro, invece, propone un cartello dei partiti antagonisti, che veda l'Idv insieme a Sel e al M5S. Subito rifiutato da Grillo e da Vendola. Insomma, dopo Monti: la confusione regna sovrana. Tutto è possibile e nulla è escluso. In questa transizione estiva. Parole e immagini: come dissociate. Asincrone. Come provenissero da un altro mondo. D'altronde, i mercati non vanno in ferie. Non si riposano. Anzi. E neppure la politica, quest'anno. I suoi protagonisti: impegnati a disegnare mappe e scenari per il prossimo futuro. Il dopo Monti. Seguendo gli stessi linguaggi e le stesse formule di ieri. Come se - dopo Monti - fosse possibile ripetere lo stesso copione. Con le stesse etichette, le stesse sigle, gli stessi calcoli. Di prima. Io penso che si tratti di ragionamenti in-fondati. Elaborati e proposti in modo inerziale.

Dopo Monti: non è possibile ripetere lo stesso schema di prima. Proviamo a fare qualche conto, sulla base dei sondaggi più recenti. Tendenzialmente, il Pd, insieme a Sel e l'Udc, può ottenere intorno al 35% dei voti. Mentre un'intesa fra il Pdl e la Lega raggiungerebbe a fatica il 25%. Il Pdl e lo stesso Pd, d'altronde, faticano a proporre e immaginare  -  nel senso di "raffigurare" - alternative future, che li vedano reciprocamente antagonisti, quando coabitano sotto lo stesso tetto. A sostegno del governo Monti. I partiti di opposizione - della prima e della seconda ora  -  non sembrano, peraltro, monetizzare la loro (op)posizione. L'Idv e Sel si aggirano intorno al 6-7%. Come, d'altronde, il più convinto sostenitore del governo: l'Udc. La Lega, infine, non riesce, per ora, a superare la soglia critica del 5%. Insomma, i principali partiti dell'era berlusconiana hanno subito un sensibile calo nel corso del governo Monti. Tutti, senza eccezione. Unico beneficiario: il M5S. Emerso, anzi, esploso negli ultimi mesi. In occasione delle amministrative dello scorso maggio. È, ancora, stimato un po' oltre il 20%. Poco sopra il Pdl. Non molto al di sotto del Pd. Intercetta il consenso di chi esprime dissenso verso il sistema partitico della Seconda Repubblica.

Non solo il Pdl e i suoi alleati, ma anche i partiti di opposizione di centrosinistra. Che hanno accettato le regole e i modelli del gioco imposto da Berlusconi. (Alcuni, come l'Idv di Di Pietro, sono sorti e si sono sviluppati insieme al Cavaliere). Senza riuscire a rinnovarsi davvero. Neppure negli ultimi anni, quando il vento dell'antipolitica ha soffiato più forte. E continua, in questa fase, a spirare violento. Lo dimostra l'attenzione suscitata dal referendum promosso dall'Unione Popolare contro la diaria dei parlamentari. Un referendum sconosciuto, come il soggetto politico che lo ha lanciato. Un'iniziativa, peraltro, di dubbia costituzionalità, in quanto non è possibile indire referendum l'anno prima delle elezioni legislative. Per quanto "silenziata" dai media e, ovviamente, dai partiti, sembra che abbia raccolto un'adesione molto ampia. A conferma del clima ostile che agita settori molto estesi della società contro il sistema partitico e i "politici".
Ebbene, dopo Monti  -  e dopo Grillo  -  non è possibile riproporre gli stessi schemi, le stesse etichette e gli stessi volti di prima. Perché - come ho già scritto  -  entrambi, per quanto diversi e perfino alternativi, segnalano la crisi della nostra democrazia rappresentativa, oltre che del Berlusconismo. Il grado di fiducia, ancora elevato, di cui dispone Monti: rivela la domanda di una classe politica migliore. Competente e di qualità.

Il risultato alle amministrative e il largo consenso riconosciuto dai sondaggi al M5S sono proporzionali al vuoto dell'offerta politica. Esprimono la critica "dal basso", verso una classe politica lontana dai cittadini. E non migliore di essi (anzi...).

Le ipotesi di cui discutono i partiti e i leader risultano, per questo, inattuali. Come le mappe storiche che colleziono, disegnano confini e Paesi che non esistono più. Comunque, irriconoscibili, rispetto al presente. Come l'Italia pre-unitaria. Oppure l'Europa prima della fine della Yugoslavia e dell'Urss. Ma, dopo Monti, sono cambiate le mappe e le bussole della politica del Paese. Siamo entrati in un'epoca geopolitica diversa. Nulla resterà come prima.

(06 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/06/news/mondo_partiti_diamanti-40439309/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La dissociazione tra politica e democrazia rappresentativa
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2012, 06:43:56 pm
LE MAPPE

La dissociazione tra politica e democrazia rappresentativa

Una volta l'arena politica era occupata dai partiti e i politici erano, di conseguenza, gli eletti dai cittadini.

Ora i parlamentari si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari

di ILVO DIAMANTI

LA DISSOCIAZIONE fra politica e democrazia rappresentativa. Si è ormai consumata. Anche se si continua a parlare "come se". Tutto fosse come prima. Quando l'arena "politica" era occupata dai partiti e i "politici", di conseguenza, erano gli eletti dai cittadini. Nelle liste promosse e proposte dai "partiti". Eppure non è così. Oggi in modo particolarmente esplicito ed evidente. Basta riflettere sulle vicende al centro del dibattito "politico" in questi giorni. Anzitutto, la polemica intorno alla presunta trattativa fra Stato e mafia, che vede coinvolto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, "intercettato" durante le indagini, da un lato. I magistrati di Palermo, titolari dell'inchiesta, dall'altro. Accanto ad essi, altri soggetti istituzionali importanti. La Corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla legittimità dell'intercettazione e, soprattutto, del suo uso ai fini dell'inchiesta. Inoltre, il capo del governo, Mario Monti, il quale ha parlato di "abusi" nell'ambito delle intercettazioni. E, ancora, l'Anm, intervenuta a sostegno dell'azione della Procura di Palermo. Ma potrei elencare altri nomi, di altre figure, titolari di altre cariche istituzionali. Uno per tutti: Mario Draghi. Protagonista delle vicende relative all'economia e ai mercati. Le questioni che attraggono maggiormente l'attenzione pubblica. Il discorso non cambierebbe di significato. Per l'assenza, pressoché totale, di leader e soggetti di partito. "Eletti" in assemblee "elettive".
Segno che oggi la politica, in Italia, è guidata e influenzata da soggetti non direttamente espressi dai canali della rappresentanza democratica. Della democrazia rappresentativa.

Naturalmente, i magistrati (inquirenti, giudicanti e costituzionali) interpretano istituzioni e poteri "costitutivi" della democrazia. Che concorrono a "garantire" e sorvegliare. Il Presidente della Repubblica e il Capo del governo: hanno un ruolo di primo piano, nel sistema politico. E sono, ovviamente, espressi dagli organismi rappresentativi. Per primo: il Parlamento. I giornali e i giornalisti, gli intellettuali: sono gli attori protagonisti dell'Opinione Pubblica. Prerogativa e condizione essenziale della democrazia rappresentativa. A conferma, però, che i partiti, oggi, partecipano al "campo politico" in misura laterale e subalterna. Questa situazione è stata provocata, anzitutto, da comportamenti e situazioni di privilegio che la crisi economica ha reso ancor più inaccettabili, per i cittadini. Ma anche dall'importanza assunta, sulla scena politica, da altri ambiti e canali. Anzitutto i media e la televisione. I teleschermi hanno, infatti, sostituito le piazze, la comunicazione e l'immagine hanno rimpiazzato il rapporto diretto con il territorio e la società. I "politici", cioè gli uomini di partito, eletti nei parlamenti nazionali e anche locali, per conquistare il consenso, si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari.

Per conquistare voti, per vincere le elezioni, i "politici" si sono presentati come "antipolitici". Cioè: contro i partiti e i politici eletti nei partiti. Anche se, per essere eletti, hanno formato e fondato nuovi (anti) partiti. Un'altra importante causa di delegittimazione della politica e dei politici è di tipo "tecnologico". Questa, infatti, è l'epoca della Rete e del Digitale. Che influenzano tutto. L'economia, la politica, la vita quotidiana. I mercati: sono sempre aperti, dovunque. Scossi da emozioni e sentimenti a ciclo continuo. Fiducia e Sfiducia si propagano in tempo reale. E, si sa, Fiducia e Sfiducia sono il fondamento dei Mercati. Ma anche della Politica. Visto che la Politica, oggi, si fonda sull'andamento dei Mercati. Ed essa stessa, a sua volta, è un "mercato".

Le tecnologie della comunicazione: hanno trasformato anche e soprattutto le nostre abitudini quotidiane. Noi siamo in contatto con tutti, dovunque, in qualunque momento. Attraverso i computer, i telefoni cellulari, i tablet. E ora gli smartphone. Che sono computer, telefoni cellulari e tablet al tempo stesso. Tutti comunicano in tempo reale. Su Fb e Twitter. D'altronde, ciò che prima era custodito in immensi giacimenti cartacei oggi è digitalizzato. Conservato in archivi immateriali. Siamo nell'era dell'Opinione Pubblica sempre in Rete. In cui tutti possono parlare ed essere ascoltati. Intercettati. In cui ogni documento, anche il più segreto, può essere scrutato, captato e divulgato. In Rete. Dove le Democrazie temono l'eccesso di trasparenza e di libertà. Dove Assange e WikiLeaks diventano la peggiore minaccia per le Patrie della Democrazia e dei diritti, come gli Usa e l'Inghilterra. Dove una band di ragazze diventa un rischio inaccettabile per un potere centrale e centralizzato, come quello della Russia. Che, più della protesta in piazza, teme il "ridicolo" diffuso in Rete. E si ribella alla ribellione "pop". Pardon: punk.

In Italia, la rivoluzione digitale, la Rete, insieme alla degenerazione della Democrazia del Pubblico  -  portata alle estreme conseguenze da quasi vent'anni di berlusconismo  -  hanno minimizzato il ruolo e l'importanza dei "politici di partito". E dei "partiti politici". Oscurati dai Tecnici, dai Magistrati, dai Professionisti della Comunicazione. Non a caso, i soggetti politici di maggior successo, oggi, sono un Professore senza Partito, come Mario Monti (accolto con entusiasmo all'inaugurazione del Meeting di Rimini) e un protagonista della Rete e della Comunicazione (con grandi competenze nello spettacolo), come Beppe Grillo. Inseguito, a fatica, da un Magistrato Politico, come Di Pietro.

Personalmente, mi preoccupa l'eclissi della democrazia rappresentativa e dei soggetti che, tradizionalmente, la interpretano. Tuttavia, ritengo la democrazia diretta, che corre in Rete, utile a correggere e arricchire la democrazia rappresentativa. Non a sostituirla. Così, ci attendono tempi insidiosi. Perché non vedo futuro per la democrazia rappresentativa "senza" partiti. Ma neppure "con questi" partiti. Rischiamo altrimenti di assuefarci a una politica che si svolge fuori, oltre e sempre più spesso contro. I partiti.

(20 agosto 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/20/news/la_dissociazione_tra_politica_e_democrazia_rappresentativa-41200272/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Tifo dunque sono
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2012, 06:44:46 pm
Tifo dunque sono

Ilvo DIAMANTI

Ho quasi cinquant'anni, sono un impiegato pubblico. Vivo e lavoro a Padova. Mi chiamo Ludovico, ma, a parte il nome, non so più chi sono. Come definirmi. Il Lavoro? Meglio fingere indifferenza. Dipendente pubblico è sinonimo di "Fannullone". L'unica etichetta che rischio di portarmi dietro. Appiccicata da Brunetta. Che, a quel che ricordo, quando lavorava, faceva il professore universitario. Proprio qui: a Padova.  Dunque, era anche lui un dipendente pubblico. Il lavoro, però, non è più un marchio indelebile. Non dà identità. In parte perché oggi è una merce scarsa. In parte perché è diventato fluido. Incerto, frammentato, instabile.

D'altronde, oltre metà delle persone si pensa "in fondo" alla scala sociale. Le posizioni e le gerarchie sono, dunque, più confuse di un tempo. In questa società "liquida", (dis) orientata da un lavoro "liquido", per usare il linguaggio di Bauman. Sociologo trendy, capace di liquefare ogni cosa intorno a noi. Non senza ragione. Perché anch'io mi sento abbastanza anonimo. Senza nome. Senza luogo. Senza bandiera. Senza un "noi" in cui trovare rifugio. A cui ancorarsi. La Politica? Sicuramente no. Si è perduta e ha perduto anche me. Che ero di sinistra e riformista. Un laburista, avrei detto fino a qualche anno fa. Ma oggi come si fa a definirsi laburisti se il lavoro si è liquefatto? E poi, sinistra riformista... Ma che vuol dire? Se penso che la maggioranza di governo tiene insieme PD, PdL e UdC, mi dico, ma che vuol dire Sinistra riformista? Perché c'è bisogno di un avversario, se non di un nemico, per sentirsi "parte". In politica. Ma se i berlusconiani sono dalla "mia" parte, se il governo è Tecnico, senza bandiera e senza fede, se non quella del Bilancio e del Mercato, allora non c'è più religione. D'altronde, anche la Religione...  Sono tutti cattolici, siamo tutti cattolici. Io stesso lo sono. Almeno, se me lo chiedono, affermo (ammetto?) di esserlo. Ma in Chiesa non ci vado quasi mai. Al massimo a Pasqua e Natale. O quando si sposa una persona che conosco... (Anche se ormai non si sposa quasi più nessuno.) Così, dirsi cattolici, non costa molto. Ma non aiuta a "situarsi". A darsi un posto nel "nostro" mondo. A distinguersi dagli altri. E al tempo stesso a dire "da che parte" e "con chi" stai.

L'Età. Neanche quella contribuisce. Perché oggi sono, siamo tutti giovani. Ieri ho incontrato un "vecchio" amico. Qualche anno appena meno di me. Gli ho chiesto cosa facesse. Mi ha detto che è manager di una piccola impresa. E ha aggiunto che presiede il Comitato Regionale dei Giovani della sua Associazione di categoria. Con orgoglio evidente. Motivato non so se dal ruolo  -  Presidente  -  o dal settore, quindi dalla definizione sociale: Giovane. A più di quarant'anni. Perché nel nostro tempo e nella nostra società sono tutti giovani e non invecchiano mai. Fino a quando non vengono affidati a una badante. Oppure muoiono.

La Geografia? Come può darti un'identità? L'hanno praticamente abolita dagli insegnamenti: nella scuola dell'obbligo e in quella superiore. Per cui nessuno sa più neppure dove abita. Berlino, Dublino e Toblino. È lo stesso. Se devi muoverti, andare da qualche parte, c'è il GPS, il Satellitare. In auto, negli smartphone.  Ti guida lui. Non c'è bisogno di sapere dove sei. Non è importante. Basta ascoltare le indicazioni scandite da una voce metallica. Così il luogo non serve a darti una "posizione". Una direzione. Un senso. Io, che abito a Padova, me ne rendo conto. Appena qualche anno fa avevo solo l'imbarazzo della scelta. Potevo dirmi: Veneto, Nordestino, Nordista.  Ma anche Italiano. Senza contraddizione. In opposizione a "quelli che" si dicono Veneti, Nordisti, Padani "o" Italiani". In alternativa. In opposizione anche a "quelli che" si dichiarano Europei oppure Cittadini del Mondo.  Ma oggi la globalizzazione e la crisi finanziaria hanno vanificato o comunque ridotto il potere "distintivo" di queste etichette. Perché Nordisti e Nordestini sono, comunque, a Sud della BCE, del FMI, della Germania e del Marco. Quanto ai Padani, in questi tempi, se ne vedono pochi in giro. Mentre è difficile invocare la "patria europea". E non esiste ancora un passaporto che permetta ai Cosmopoliti di passare alle frontiere.

Per cui, fuori della mia cerchia stretta di amici e conoscenti, io non so chi sono, né come mi chiamo.
D'altronde, se mi guardo intorno, se guardo i media, vedo solo e sempre Monti. Emblema del nostro tempo. Un uomo che è difficile definire: dal punto di vista politico, geopolitico, religioso, dell'età. È un uomo senza etichette. Distaccato. Distante. Algido. Sicuramente, non mi ci riconosco. Ma neppure lo osteggio apertamente, come invece facevo con Berlusconi.

In quest'epoca senza passione, a risvegliare la mia passione  resta solo il calcio. Perché, come metà degli italiani, sono un tifoso. Anche se, salvo rare eccezioni, coltivo la mia "fede" davanti alla tivù, invece che negli stadi. Ma non mi perdo un rito. Una partita. Di campionato o di Coppa. Io sono juventino. Come dice il mio amico Eddy: anzitutto bianconero. Unica identità non negoziabile. Gli scandali di ieri e di oggi, le scommesse e ancor più "calciopoli":  non hanno raffreddato la mia passione. Anzi: l'hanno accesa e la accendono di più. Meglio lo scandalo dell'indifferenza. Noi contro tutti. Ogni scudetto in meno, ogni squalificato in più: alimentano il mio senso di appartenenza.

Così resto in attesa. Perché -quando i campionati tacciono e parlano solo i Mercati  -  oppure, quest'anno, le Commissioni d'inchiesta - io mi sento perduto. (Le Olimpiadi sono solo un "placebo".) Senza calcio, mi scopro senza nome, senza volto e senza bandiera. Senza parole. E mi nascondo nell'ombra. (In questa stagione torrida e afosa, è un sollievo.) Consapevole che l'attesa sarà breve. Poche settimane ancora e la mia vita (pubblica) ricomincerà. Insieme al campionato. Ritroverò me stesso. Il mio volto, il mio nome, la mia bandiera. Gli amici e i nemici di sempre.

(08 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/08/08/news/tifo_dunque_sono-40570400/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quanto è rischioso scherzare con il voto
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2012, 05:22:41 pm
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Quanto è rischioso scherzare con il voto

Il dibattito sulla riforma della legge elettorale non si ferma un secondo. Ma tra i partiti non c'è accordo sulle basi per un nuovo sistema. Così una nuova legge sarà approvata, forse, contando sul disinteresse e l'incomprensione della popolazione

di ILVO DIAMANTI

LA LEGGE ELETTORALE. Un mantra. Recitato ovunque. In commissioni e tavoli permanenti. In ambito parlamentare. Ma anche nella società civile e nel contesto politico. Dove i comitati referendari sono attivi da anni. Ancora un anno fa, vennero raccolte oltre un milione di firme per abrogare il Porcellum. Inutilizzate, perché la Corte costituzionale dichiarò il referendum inammissibile.

Da allora, il dibattito non si è fermato un secondo. Spinto dalle ripetute esortazioni del presidente della Repubblica Napolitano. Sin qui, senza esiti. Nonostante si sia, ormai, al limite dei tempi consentiti per votare con una nuova legge. Peraltro, non è facile capire di cosa si discuta. Perché i margini di incertezza, intorno al progetto, sono ancora ampi.

Visto che si parla di un premio di maggioranza, ma non si sa se attribuirlo alla coalizione o al partito che ottiene più voti. E non è chiaro come ripartire i seggi: in base a collegi uninominali oppure mediante il ritorno al proporzionale e alle preferenze. Oppure, ancora, attraverso collegi uninominali proporzionali. Combinando le preferenze con un listino a candidature "bloccate".

Insomma, si arriverà a un nuovo sistema elettorale. Forse. I cui risultati non sono prevedibili. Da nessuno. Neppure dai negoziatori e dalle forze politiche che essi rappresentano. Una riforma elettorale "preterintenzionale", come altre. Approvata contando sull'incomprensione e sul disinteresse dei cittadini. La cui attenzione è assorbita da problemi diversi, ben più urgenti. Il lavoro, il reddito, le pensioni, i risparmi, il fisco, i servizi...

Tuttavia, l'importanza della legge elettorale è fondamentale. Soprattutto per i cittadini. Perché riguarda il fondamento, non unico, non sufficiente, ma comunque necessario, della democrazia rappresentativa. Il voto. Anello di congiunzione fra elettori, partiti, Parlamento e governo. Attraverso il voto, nonostante l'autonomia relativa degli eletti, i cittadini possono sentirsi  -  o almeno "immaginare" di essere - coinvolti nella scelta di chi guida e gestisce lo Stato e le istituzioni.

Il sistema elettorale è, peraltro, un meccanismo chiave nel controllo e nella riproduzione del potere. A ogni livello. Modificare le regole e i criteri delle elezioni contribuisce, infatti, a orientare oppure a modificare i risultati e gli esiti. Com'è avvenuto nell'autunno 2005, quando la maggioranza di centrodestra  -  allargata, allora, all'Udc - introdusse il Porcellum. In fretta. Sulla base di una semplice valutazione: con il precedente sistema elettorale l'Unione di centrosinistra, guidata da Prodi, appariva destinata a una larga vittoria. Perché i sondaggi la vedevano largamente in vantaggio nella competizione maggioritaria, con cui si eleggevano i tre quarti dei candidati, in collegi uninominali. Il Porcellum azzerò questo procedimento. Lo sostituì con un sistema proporzionale che attribuisce la maggioranza assoluta dei seggi alla coalizione vincente. In questo modo, i partiti sono indotti   -  meglio: costretti  -  a coalizzarsi "prima" del voto. Mentre le segreterie nazionali dei partiti hanno acquisito grande potere nella scelta dei candidati e, quindi, degli eletti. Visto che l'elezione avviene in base a liste bloccate e senza preferenze.

Il voto. Il legame più diretto fra cittadini e governo, fra elettori e partiti, nelle democrazie rappresentative. Per questo è sempre stato difficile riformare le leggi elettorali senza spargimento di sangue e senza colpi di mano. Non è un caso che la "fine" della Prima Repubblica coincida non con Tangentopoli, nel 1992, ma con il referendum elettorale del 1991, promosso, fra gli altri, da Mario Segni e dai Radicali. Avversato da molti leader politici, per primo Bettino Craxi, che invitò gli elettori ad "andare al mare". Inutilmente. Anzi, l'esortazione fornì agli elettori una "buona ragione" in più per votare. Contro i partiti.

È interessante rammentare come quel referendum prevedesse di ridurre a una sola le preferenze nell'elezione della Camera dei deputati. Perché allora le preferenze costituivano uno strumento  -  e un simbolo  -  del controllo dei partiti sulla società. Soprattutto, ma non solo, nel Mezzogiorno. Il che, a distanza di tempo, può apparire curioso. Visto che oggi si parla di reintrodurre le preferenze per ragioni inverse. Cioè, proprio per restituire agli elettori un maggior controllo sui partiti. Una maggiore possibilità di scelta dei rappresentanti. Oltre che per ricostruire il rapporto fra gli eletti e il territorio.

Ciò sottolinea come le tecniche e le norme elettorali siano importanti, ma non sufficienti a garantire la qualità della democrazia. E il funzionamento della rappresentanza. Come, inoltre, possano produrre effetti diversi, in tempi e contesti diversi. Un'avvertenza che oggi appare utile almeno quanto vent'anni fa. Perché, quanto e forse più di allora, è in crisi il rapporto fra cittadini, partiti e Parlamento. Rammentiamo: la quota di persone che esprime Molta o Abbastanza fiducia verso i partiti è inferiore al 5%.

Nei confronti del Parlamento sale (si fa per dire) al 9% (Demos-la Repubblica, "Gli Italiani e lo Stato", dicembre 2011). In altri termini, circa nove italiani su dieci non hanno fiducia negli attori principali e nel luogo emblematico della democrazia rappresentativa. Cioè: non hanno fiducia nella democrazia rappresentativa, che si è tradotta in "democrazia del pubblico", negli ultimi vent'anni. Favorita dalla mediazione dei media e della televisione, dalla personalizzazione dei partiti e dai partiti personali. Dalla surrogazione e, in parte, dalla sostituzione delle elezioni con i sondaggi. Un plebiscito che si rinnova ogni giorno.

Questi metodi, imposti da Berlusconi con la complicità degli altri attori politici (anche di centrosinistra), hanno logorato la legittimazione dei principali soggetti politici. Fino a disegnare una scena dove campeggiano leader "non eletti", sfidati da attori (non solo) politici che usano nuovi canali (new media). In nome della democrazia diretta. E in alternativa alla democrazia rappresentativa e ai suoi soggetti.

Per questo sarebbe utile che la nuova legge elettorale venisse discussa e scritta non tanto  -  non solo  -  in base agli interessi di partiti e partigiani, preoccupati di riprodurre il proprio potere e la propria rendita di posizione. Ma avendo ben chiaro che è in gioco il fondamento normativo (e di valore) della "democrazia rappresentativa". Una questione critica e altamente rischiosa per tutti. Perché mai come oggi la democrazia rappresentativa è sembrata parola tanto svuotata di senso. E le sue istituzioni, i suoi attori: tanto svuotati.


(27 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/27/news/quanto_rischioso_scherzare_con_il_voto-41538282/?ref=HREC1-5


Titolo: ILVO DIAMANTI - Tre italiani su quattro si sentono più sicuri con l'euro.
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2012, 08:36:01 pm
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Il Paese è sempre più indeciso promosso Monti ma non i tecnici

La fiducia verso Monti non riflette soddisfazione per le scelte effettuate dall'esecutivo, bensì rispecchia la sfiducia verso gli altri leader e verso le forze politiche nazionali.

Tre italiani su quattro si sentono più sicuri con l'euro.

L'unico vero orientamento di voto che cresce è l'area grigia del "disorientamento".

E Berlusconi tocca i livelli di fiducia più bassi degli ultimi 20 anni


di ILVO DIAMANTI


L'ESTATE sta finendo. Ma l'incertezza politica no. Il sondaggio dell'Atlante Politico, condotto da Demos, negli scorsi giorni, per la Repubblica, riproduce questo clima d'opinione uggioso. Da cui emerge un solo solido riferimento. Mario Monti. Il Presidente del Consiglio. Oltre metà dei cittadini (il 52%), infatti, valuta positivamente il governo. Una quota ancor più alta di elettori, il 55%, esprime fiducia personale nei suoi riguardi.

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Si tratta di un orientamento in evidente crescita, dopo un periodo di raffreddamento. Gli altri personaggi politici lo seguono a grande distanza. Soprattutto i leader di partito. Di maggioranza e di opposizione. Superati, non a caso, dai "tecnici" del governo Monti (Passera e Fornero). E da coloro che, come Montezemolo, non sono ancora "scesi in campo", nonostante lo promettano - oppure lo "minaccino" - da anni. Unica eccezione (insieme alla Bonino): il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di cui parleremo più avanti.

La fiducia verso Monti non riflette soddisfazione verso le politiche del governo. Al contrario. Gran parte dei cittadini si dicono, infatti, contrari alle principali riforme avviate. Pensioni, Imu e mercato del lavoro, soprattutto. Si tratta, dunque, di un sentimento espresso "nonostante". Rispecchia, cioè, la sfiducia verso gli altri leader e verso le forze politiche nazionali. Ma anche le preoccupazioni internazionali. Perché è convinzione diffusa che l'Unione Europea e l'Euro abbiano prodotto molti problemi. Ma solo il 23% degli italiani pensa che fuori della Ue le cose andrebbero meglio. Mentre una quota più ampia, ma comunque minoritaria, inferiore al 40%, ritiene che l'Euro comporti solo complicazioni.

L'Euro e la Ue, insomma, sollevano dubbi. Ma è largamente condivisa l'idea che "senza" l'Europa e la moneta europea i rischi per la tenuta del nostro sistema  -  economico e non solo  -  crescerebbero ancora. Monti appare il principale garante. Di fronte ai problemi europei. E alla debolezza della politica nazionale. La fiducia verso i partiti, d'altronde, resta al di sotto del 5%. Quella verso il Parlamento intorno al 10%.

Le stime di voto riflettono questo clima di incertezza  -  e di "dipendenza" da Monti. Così si assiste alla tenuta e perfino a una certa ripresa dei partiti "montiani": il Pdl, il Pd e l'Udc. Il partito più "montiano" di tutti. Mentre il M5s scivola sotto al 15%. Un dato molto elevato. Ma la grande spinta conosciuta dopo le elezioni amministrative di maggio, per ora, sembra esaurita. Non solo per le polemiche di Favia 2 (amplificate da Servizio Pubblico) contro la governance di Grillo e  Casaleggio,  che hanno avuto un impatto limitato sul sondaggio.

Il fatto è che in questa fase di stagnazione politica l'unico polo condiviso è Monti. Che nega di volersi ricandidare, in futuro. Per cui mancano i bersagli contro cui rivolgere l'insoddisfazione.  D'altronde, non frena solo il M5s: anche l'Idv, l'altra opposizione. Solo la Lega risale - di poco - la china, oltre il 5%. Così l'unico vero "orientamento" di voto che cresce veramente è, non a caso, il "dis-orientamento". Che allarga i confini dell'area grigia del non-voto e dell'indecisione. Sopra il 45%. Quasi un elettore su due. La misura più ampia da quando viene realizzato l'Atlante Politico. Cioè, da quasi 10 anni.

D'altronde, non è chiaro quando e come si voterà. Con quale legge elettorale, con quali alleanze, con quali candidati. Se si riproponesse lo schema tradizionale, il centrosinistra prevarrebbe largamente. E, come ha sostenuto ieri Bersani a Reggio Emilia, "Deciderà il voto, non i banchieri". Ma nel Pd, come mostra l'Atlante Politico, c'è incertezza sulla coalizione con cui "andare al voto". La maggioranza dei suoi elettori (51%) preferisce un'alleanza con le altre forze di Sinistra, a costo di sacrificare l'intesa con l'Udc. Al tempo stesso, però, (50%) rifiuta l'accordo con l'Idv. Le polemiche con Di Pietro, dunque, hanno lasciato un segno profondo.

L'incertezza, nel Pd, si estende alla leadership. Che gran parte degli elettori di centrosinistra  -  e ancor più del Pd  -  vorrebbe scegliere attraverso le primarie. Il favorito - secondo il sondaggio di Demos - è Pier Luigi Bersani. Lo voterebbe oltre il 43% degli elettori di centrosinistra. Tuttavia, Matteo Renzi dispone di una base ampia. Quasi il 28%. Ma, soprattutto, ha un sostegno trasversale. Non a caso, dopo Monti, è il politico che attrae il maggior grado di simpatie. I suoi consensi, in caso di primarie, potrebbero crescere ulteriormente se la partecipazione andasse oltre i confini tradizionali dell'elettorato più vicino e convinto.

Renzi, infatti, è particolarmente apprezzato dagli elettori "critici" e delusi del centrosinistra, oggi vicini al M5s, all'Idv oppure confluiti nell'area grigia dell'incertezza. A centrodestra c'è il problema opposto. Nel Pdl, inventato da Berlusconi, non possono fare a meno di lui. Ma, al tempo stesso, non gli credono più come prima.

Berlusconi. Oggi, fra gli italiani, ha toccato l'indice di fiducia più basso degli ultimi anni (meno del 20%). E solo 40 elettori del Pdl su 100 (che scendono a 20 fra quelli di centrodestra) pensano che dovrebbe essere Lui il candidato premier alle prossime elezioni. Con lui o senza di lui, insomma: il centrodestra appare sperduto.

Così gli italiani sembrano aver smarrito la fiducia nella politica. Ma anche nell'antipolitica. Tuttavia, non sono divenuti impolitici e indifferenti. Vorrebbero, anzi, che la politica riprendesse il ruolo che le spetta. Cioè: dare loro rappresentanza e governo. Esprimere una classe dirigente capace di guidarli - dentro e fuori il Paese. Non a caso la maggioranza degli italiani (52%) pensa che il prossimo governo dovrebbe essere espresso dalla "coalizione che ha vinto le elezioni" piuttosto che da "un nuovo governo tecnico" (39%) sostenuto dai principali partiti, come avviene ora.

Tuttavia, l'unico leader di cui gli italiani si fidino, oggi, è Monti. Comunque, diffidano molto più di Bersani e Berlusconi. Ma anche di Grillo e Di Pietro.

Così gli italiani  -  la maggioranza di essi, almeno -  vuole un governo "politico". A condizione che a guidarlo sia Monti. È come se la fiducia nella democrazia rappresentativa si scontrasse con la sfiducia nei confronti dei rappresentanti. Un corto circuito da cui sembra difficile uscire. A meno che Monti  -  contrariamente alle sue ripetute affermazioni  -  non decida, alla fine, di scendere in campo. 

(10 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/10/news/il_paese_sempre_pi_indeciso_promosso_monti_ma_non_i_tecnici-42253792/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'Ue è diventata un male necessario ma il partito anti-euro...
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 03:37:44 pm

IL CASO

L'Ue è diventata un male necessario ma il partito anti-euro sale al 25%

Dal 2000 la fiducia nelle istituzioni comunitarie è crollata dal 56 per cento al 36 per cento.

Forte scetticismo nel centro-destra, critici anche gli elettori di Sel e M5S, Pd unica eccezione

di ILVO DIAMANTI

BEPPE Grillo, due giorni fa, a Parma, ha lanciato un referendum. Per uscire dall'Europa dell'euro. Un'iniziativa già annunciata dalla Lega. Ma condivisa, nella sostanza, da altri attori politici assai diversi. I partiti della sinistra radicale, per primi, da sempre ostili all'Europa delle banche e dei mercati. Riserve verso l'euro, d'altronde, sono state espresse, di recente, anche da Tremonti. Mentre Berlusconi non ha mai esitato a esprimere diffidenza, al proposito. Il nostro non è il solo Paese dove sia diffuso l'euroscetticismo. Un orientamento in rapida espansione dovunque.

LE TABELLE 1 (su repubblica.it)

Tuttavia, fino a dieci anni fa, l'Italia è stato il Paese più europeista d'Europa. Fin dal referendum consultivo del 1989, quando l'88% dei votanti approvarono il mandato costituente al Parlamento europeo. Ma ancora nel 2004, nonostante i malumori suscitati dagli effetti dell'Euro (introdotto nel 2001), gli italiani confermavano il loro sostegno all'Europa in misura molto superiore agli altri Paesi (indagine Fondazione Nord Est, 2004). Un atteggiamento giustificato, in primo luogo, dalla sfiducia nello Stato e nella classe politica nazionale. Gli italiani: preferivano farsi commissariare da Bruxelles - o da Strasburgo - piuttosto che farsi governare da Roma. Oggi non è più così. L'indice di fiducia nella Ue, infatti, in Italia è fra i più bassi d'Europa (Eurobarometro, maggio 2012). Si tratta dell'esito
di una discesa costante (sondaggi Demos). Dal 57% nel 2000, vigilia dell'avvio dell'euro, il sentimento europeista ripiega, negli anni seguenti. Nel 2006 è già sceso al 52%. Ma crolla, letteralmente, negli ultimi due anni, in seguito alla crisi finanziaria globale. Fino ad attestarsi al 36% attuale. La scelta di voto influenza questo orientamento più ancora della posizione dei partiti sull'Europa. Il maggior grado di euroscetticismo, infatti, si rileva nella "vecchia" maggioranza di centrodestra. Fra gli elettori della Lega, anzitutto, ma anche fra quelli del Pdl e del Fli. Affiancati, peraltro, dagli elettori dell'IdV. Il livello più elevato, invece, è espresso dagli elettori del Pd (unico partito davvero europeista) e dell'Udc. Ma anche da quelli di Sel. Mentre l'orientamento della base del M5S non si discosta molto da quello della popolazione.

Naturalmente, il calo del consenso verso la Ue è ampiamente comprensibile. E giustificato. Come nei confronti dell'euro. Una moneta senza Stato. In un contesto, l'Unione europea, che appare, sempre meno, "unione". E, sempre più, "tavolo di concertazione" tra governi. Alcuni dei quali contano molto più degli altri. Più che euroscettici, gli italiani oggi appaiono euro-delusi. Avevano nutrito tante - fin troppe - attese. E oggi si ritrovano con risultati molto inferiori alle previsioni più pessimistiche. Così l'Europa ha cessato di presentarsi come la "casa comune" a cui pensavano i padri fondatori. Ma non appare neppure un "mercato comune", associato a un sistema di mutuo soccorso. La prospettiva che, realisticamente, aveva alimentato il consenso dei cittadini. Così l'europeismo degli italiani si è raffreddato. Fino a divenire gelido. Per alcuni attori politici si è, anzi, trasformato in un "campo di battaglia". Sul quale sfidare il governo e gli altri partiti. Per allargare il proprio consenso, in parallelo al dissenso verso la Ue.

Il fatto è che il declino del sentimento europeo ed europeista non procede in parallelo con il recupero di credibilità della classe politica. Al contrario. Anzi, visto che la fiducia verso i partiti è scesa intorno al 4% e verso il Parlamento al 10%, quel 36% di italiani che dichiara confidenza verso la Ue appare altissimo. Così si spiega perché, nonostante tutto, la maggioranza degli italiani continui a considerare l'Unione e la moneta europea con favore. O almeno: con minore sfavore rispetto alle altre istituzioni politiche ed economiche - "nazionali".

In particolare, circa il 39% degli elettori (intervistati da Demos, settembre 2012) ritiene che l'euro abbia comportato solo complicazioni alla propria vita. Solo il 13%, invece, che l'abbia migliorata. Ma la maggioranza, il 47%, pensa che si tratti, comunque, di un "male necessario". Il "male minore". Lo stesso atteggiamento si osserva di fronte all'Unione europea. Circa un elettore su quattro pensa che uscirne sarebbe "meglio". Una porzione rilevante, ma comunque nettamente minoritaria. Meno della metà di quanti pensano il contrario. Cioè, che le cose andrebbero "peggio" (quasi il 50%). Si delinea così un paradosso apparente. La Ue e l'euro non piacciono. Sono considerati con crescente disincanto. Tuttavia, la maggioranza degli italiani non intende farne a meno. Perfino tra gli elettori della Lega, d'altronde, prevalgono quanti ritengono che uscire dalla Ue sarebbe peggio. Mentre fra gli elettori dell'Idv quelli che temono la defezione dall'Europa sono quasi il doppio rispetto agli altri. Una spiegazione "politica" di questo orientamento emerge osservando come la fiducia nella Ue cresca in parallelo con quella nei confronti del presidente Napolitano e del governo Monti.

Ciò è coerente con il programma del premier. Definito in stretto accordo con la Commissione e con la Banca europea. Tuttavia, l'atteggiamento degli elettori verso la Ue e l'euro, al fondo, rammenta quello verso il governo tecnico. Gli italiani, infatti, sostengono - in maggioranza - il governo Monti anche se non ne apprezzano le scelte. Perché lo considerano, comunque, una medicina amara ma necessaria. Per non andare incontro a mali peggiori. Lo stesso avviene per la Ue e l'euro. Realtà sgradite ma accettate, al tempo stesso. Perché farne a meno appare, ai più, un rischio ancor più grande. Monti e la Ue, nella percezione degli italiani, risultano, così, uniti da un comune sentimento. L'euromontismo. Che spinge ad accettare l'euro, l'Europa e, insieme, Monti, anche se non piacciono. Per necessità. Con rassegnazione. Convinti che "con loro" si stia male. Ma "senza" sarebbe molto peggio.

(24 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/24/news/mappe_euro_diamanti-43137808/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il ministro Profumo non ha parlato solo di ora di religione.
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2012, 11:01:29 am
L'amnesia geografica che affligge la scuola

Il ministro Profumo non ha parlato solo di ora di religione.

Cronaca di un ritardo nell'Istruzione che facciamo finta di non vedere

Da oggi sino al 5 ottobre 2012 si terrà a Macerata il 55° Convegno Nazionale dell'AIIG (Associazione Italiana Insegnanti di Geografia) che ha come tema "Le Marche nella macroregione Adriatico-Ionica".


Pubblichiamo l'intervento di Ilvo Diamanti


Francesco Profumo, ministro dell'Istruzione e dell'Università, ha suscitato grandi polemiche 1, nei giorni scorsi. Oltre le proprie intenzioni, ritengo. In effetti, si è limitato a sollecitare  -  e prefigurare - il "cambiamento" della programmazione scolastica in relazione al "cambiamento" sociale. In particolare: al cambiamento demografico. Visto che l'immigrazione ha mutato la popolazione scolastica in modo rapido e profondo. E oggi vi sono zone dove oltre metà degli studenti delle scuole elementari e medie proviene da paesi stranieri. Per cui  -  ha detto (ragionevolmente) il ministro - occorre modificare il modo di insegnare. In particolar modo la religione e la geografia. La religione. In Italia, significa, semplicemente, religione "cattolica". Il ministro ha annunciato di volerla adeguare, facendone un'ora di "storia delle religioni" oppure di "etica". Il ministro ha, inoltre,  sottolineato la necessità di modificare anche l'insegnamento della Geografia. Che, secondo Profumo, si dovrebbe studiare ascoltando le testimonianze di chi proviene da altri Paesi. Visto che già oggi gli studenti apprendono la disciplina "Non dai libri ma dai compagni che raccontano le loro città e i loro costumi''. A differenza di quel che è avvenuto per la Religione, nessuno ha sollevato polemiche a questo proposito.

Non perché il tempo previsto per la Geografia, nella scuola, oggi, sia sprecato. Ma perché, semplicemente, è pressoché sparito. Visto che la riforma Gelmini del 2010 ne ha ridotto sostanziosamente le ore di Geografia,  nel biennio dei Licei e, ancor più, negli Istituti Tecnici. Mentre l'ha fatta scomparire da quelli Professionali. Senza grande scandalo negli ambienti politici ma neppure tra gli intellettuali. Se ne sono accorti solo gli addetti ai lavori - coinvolti. Cioè: i professori e gli insegnanti della disciplina. Le parole del ministro sull'insegnamento della Geografia, dunque, non hanno provocato alcuna reazione semplicemente perché, ai più, era sfuggito che questa materia esistesse ancora, nei programmi scolastici. D'altronde, il territorio stesso sta scomparendo ai nostri occhi. Inghiottito dalla metastasi immobiliare di cui soffre il nostro mondo. Ma, prima ancora, è scomparso il senso delle distanze e dei confini. Dei percorsi e degli itinerari. Ormai, chi organizza più i propri viaggi e i propri spostamenti su mappe e carte? Ci pensa il GPS a guidare e a guidarci. Un passo dopo l'altro. Basta avere un navigatore satellitare oppure uno smartphone.

Magari non è aggiornato e ci spinge su percorsi vietati o inesistenti. Oppure ci fa fare più strada del necessario. O ancora, ci conduce in luoghi immaginari. Però, vuoi mettere il piacere di non pensare? Di non avere il problema di cercare? di organizzare e comprendere lo spazio? D'altronde, lo spazio è ormai privo di territorio. Tutto è qui, accanto a me. Con me. Il "dove" è "dovunque" e "nello stesso luogo". Al tempo stesso. E Nello stesso tempo. Basta utilizzare un cellulare, uno smartphone un tablet. E parli con chiunque - dovunque esso si trovi. Migliaia di kilometri o pochi centimetri: fa lo stesso. Con Skype, l'altro  è davanti a te. Lo puoi guardare, parlargli. Anche se è al di là dell'oceano. I media, poi, ti informano a flusso continuo. Su tutto ciò che capita. Dappertutto. In luoghi e in Paesi di cui non supponevi l'esistenza. (Senza che ciò ti impedisse di vivere...) Così tutto avviene e tu sai tutto. O forse no. Perché se perdi il senso delle distanze e dei luoghi, allora tutto diventa, al tempo stesso, vicino e lontano. Lontano e vicino. Aleppo e Bengasi. La Cina e la Tunisia. Il Sud Sudan e l'Emilia. È lo stesso. Così la Libia. A un passo dalle nostre coste. Da noi. Appare lontanissima. Le sue vicende: come non ci riguardassero.

Avanza così uno strano "individuo". Sempre più "solo". Perché senza luogo né spazio si indebolisce la possibilità di "con-dividere". Di incontrarsi con gli altri. Un uomo senza tempo. Perché senza una mappa, dove delineare i confini. Dove seguire e riprodurre i cambiamenti, rapidi e profondi, del limes e del finis. I Confini. In nome dei quali si coltivano identità antiche e nuove, radicate e immaginarie. Si combattono guerre e si compiono attentati. Come puoi orientarti, metterti in rapporto con gli altri? Come puoi ricostruire il passato e immaginare il futuro? Perché non c'è storia senza geografia. E viceversa. D'altronde, anche la Storia non se la passa molto bene, nella Scuola italiana. Associata alla Geografia, nei programmi. Eppure distinta da essa.  Come altri "terreni" disciplinari. Perché nella nostra scuola si ignorano  la  Geo-politica e la Geo-economia. Ma anche, a maggior ragione, la Geo-storia.

L'amnesia geografica della nostra scuola e della nostra società ci priva, necessariamente, anche della storia. Perché non può esserci storia  -  né economia né politica - in una società senza memoria. Senza mappe. Senza confini. Senza territorio. Così, in questo Paese, dove si polemizza perché "non c'è più religione", avanza, nel silenzio, un "uomo sospeso". Senza spazio e senza tempo. Senza dove e senza quando. A-polide e a-storico.

Per questo ha ragione il ministro Profumo, sulla geografia nella Scuola. Oggi gli studenti apprendono la disciplina non dai libri ma dai compagni (di diversa provenienza) che raccontano le loro città e i loro costumi. Ma occorre che gli anche studenti di origine e provenienza atraniera sappiano da dove vengono e dove vivono oggi. Che comprendano perché essi, i loro genitori, se ne sono andati dai paesi di origine. Come i nostri nonni e bisnonni, tanti decenni fa. Emigrati lontano. Spinti dalla necessità economica, dalle guerre. O dal desiderio di migliorare la condizione propria e dei propri figli. Senza una storia e una geografia di "lunga durata": educare i giovani e  integrare i "nuovi italiani", non mi sembra possibile.

(27 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/09/27/news/l_amnesia_geografica_che_affligge_la_scuola-43386995/?ref=HREC1-11


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'incognita primarie per il partito liquido
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2012, 11:07:58 am
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L'incognita primarie per il partito liquido

di ILVO DIAMANTI


Il Pd. Un partito in cerca di Leader, programma, identità, alleanze... Tanto più dopo l'uscita dal campo di gioco di Berlusconi e la scomposizione del Pdl. Che hanno dissolto la principale frattura del sistema partitico della Seconda Repubblica.

Il dibattito sulle primarie ha risentito e risente di questo senso di precarietà. Perché le primarie, per il Pd, non costituiscono solo un metodo di scelta del candidato alle cariche più importanti, a livello nazionale e locale. Sono il "mito fondativo" (come l'ha definito Arturo Parisi) del Partito Unico di Centrosinistra. Istituzionalizzato e sperimentato, nel 2005, dall'Ulivo. L'Unione di Centrosinistra. Più che competizione, l'investitura quasi plebiscitaria riservata a Romano Prodi, in vista delle elezioni del 2006. In seguito le primarie sono state utilizzate in diverse occasioni. In ambito nazionale: nel 2007 e nel 2009. In entrambi i casi: non per eleggere il candidato premier, ma il segretario nazionale. Veltroni, nel 2007 e Bersani nel 2009. Usate, cioè, come un equivalente del congresso. Nel 2009, in particolare, attraverso un percorso complesso. Prima, mediante il voto dell'Assemblea dei delegati eletti dagli iscritti, a livello di circolo. Poi, con il ballottaggio fra i primi tre. Attraverso primarie aperte agli elettori. Combinando, quindi, il "partito di iscritti" (fondato sull'appartenenza) e quello "americano" (presidenziale, a identità leggera). In effetti, nel Pd  -  e prima nell'Ulivo  -  la distanza fra questi due modelli è sempre stata limitata. Perché il Pd è un partito di ex e di post. Democristiani e comunisti. Che, del passato, ha conservato la memoria e la nostalgia della partecipazione di massa. Oltre alla cerchia dei gruppi dirigenti.

Per questo, fino ad oggi, le primarie non sono state un agone, competitivo e incerto. Ma, piuttosto, una procedura dall'esito  -  più o meno  -  scontato. Hanno, invece, funzionato come metodo di mobilitazione sociale. Al di là e oltre gli iscritti. Per risvegliare la domanda di coinvolgimento e di partecipazione  -  sempre elevata  -  fra gli elettori di centrosinistra. In alternativa all'identificazione personale, promossa da Berlusconi, attraverso la televisione e il marketing. Con successo. Visto che milioni di elettori hanno partecipato alle primarie. Nonostante la delusione crescente, prodotta dal sistema partitico, in generale, ma anche dal Pd. A sua volta implicato nella "politica come marketing", imposta dal Berlusconismo. E nelle crescenti spinte oligarchiche, che hanno coinvolto, in diversa misura, i partiti. Anche nel novembre 2009, quando è stato eletto segretario Bersani, quasi tre milioni di persone si sono recate ai seggi e ai gazebo allestiti dal Pd, in tutto il territorio nazionale. Prima di tutto: per rispondere al bisogno di "partecipare". Di esserci. Non è detto che il "miracolo" si ripeta anche questa volta. Nonostante che la domanda si confermi elevata. Metà degli elettori, senza distinzione di parte e di partito, si dice "disponibile a partecipare alle primarie per eleggere il candidato premier" (Sondaggio Demos, settembre 2012). Un orientamento che raggiunge i valori più elevati, non a caso, a centrosinistra. Fra gli elettori del Pd e di Sel. Ma anche del M5S. Anche nella base dell'Idv, della Lega e del Pdl la voglia di primarie appare ampia. Ma, appunto, molto meno che nella Sinistra e nel Pd. Dove, ormai, le primarie sono un rito assimilato. Fonte e fattore di identità. Tuttavia, per votare occorre sapere perché. A che fine, in che modo e in che campo. Fra quali candidati e programmi. Il che, francamente, non è chiaro.

In primo luogo, perché non si sa con che legge elettorale si voterà. Ove venisse approvata una legge di tipo proporzionale, le primarie perderebbero significato. Sicuramente, non avrebbe senso promuoverle a livello di coalizione. Mentre l'Assemblea del Pd, non a caso, ha fissato limiti e regole (in verità, molto flessibili) in base a cui il segretario, Bersani possa "negoziare" con gli altri partiti alleati. Ma quali? La Sinistra? Il Centro? L'Idv? Oppure tutti quanti insieme? Su questo punto, la struttura e i confini della coalizione, non c'è chiarezza né coerenza. Ciò, ovviamente, non dipende solo dal Pd. Perché le distanze fra Udc e Polo di Centro, Sel, Idv restano ampie. In alcuni casi, incolmabili. C'è, poi, il ruolo di Monti. Infatti, anche nel Pd, immaginano che dopo Monti debba governare ancora Monti. Ma se il candidato premier, fosse già pre-definito, "a prescindere", per citare Totò, le primarie: a che servono?

Per questo, dietro al dibattito di questi e dei prossimi mesi, c'è una questione di fondo, elusa e rimossa. Ad arte o per disattenzione. Precede e va oltre gli argomenti che animano il dibattito politico e mediatico. Per prima: l'alternativa fra Bersani e Renzi. Fra il "Rottamatore" e "l'Usato sicuro", come ha osservato, con efficacia, Adriano Sofri. In questione è il Pd. Non più Unione, non più Partito Unico della Sinistra. Diviso sugli obiettivi e sulle parole d'ordine. Ma anche sulle alleanze. Tra Vendola, Di Pietro e Casini. I suoi elettori: il 75% dei quali d'accordo con Monti e il 65% contrari alle sue politiche. Il Pd, senza Berlusconi alle porte, mentre affronta le primarie, appare disorientato e disancorato. Per echeggiare Bauman: un "partito liquido".
 

(08 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/08/news/incognita_primarie-44090243/?ref=HREC1-5


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'elogio del buon partito
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2012, 06:06:24 pm
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L'elogio del buon partito

di ILVO DIAMANTI

"FA STRANO" il percorso scelto da Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi per promuovere la propria candidatura alle primarie del Pd. Pier Luigi Bersani. Ieri è partito da Bettola, il paese natale. Più precisamente, dal distributore del padre. Matteo Renzi ha avviato il suo viaggio a Verona. E ha proseguito in camper. Attraverso la penisola. Bersani, già governatore dell'Emilia Romagna: ritorna alle origini, nei luoghi dove è nato e cresciuto. Renzi, presidente di Provincia e sindaco di Firenze: in viaggio per le strade e i borghi d'Italia. Renzi e Bersani. In questa campagna per la candidatura a premier del Pd, hanno entrambi inteso marcare il loro legame  -  biografico e politico  -  con l'Italia delle Città e delle Regioni.

Fa strano questa scelta comunicativa, proprio quando il territorio sembra affondare. Oscurato dalle politiche del governo. Perché Regioni, Province e Comuni sembrano divenuti centri  -  pardon, periferie  -  di spese utili solo al malaffare. Tanto più dopo gli scandali che hanno travolto il Lazio e la Lombardia, insieme al comune di Reggio Calabria. Così il governo Monti, alla disperata ricerca di risorse e di spese da tagliare, ha dimezzato le province; ha, inoltre, ridotto i poteri delle regioni. Con leggi  -  e per ragioni  -  di bilancio.
Senza bisogno di giustificare nulla.

Politicamente. A tal punto sono ormai squalificati i governi territoriali. Insieme alla politica,
i politici e i partiti. Ispirati alla logica degli affari (propri) piuttosto che dagli interessi dei cittadini. Non solo a livello centrale, ma ancor più nei contesti locali. Corrotti e inquinati dalle molteplici mafie che dal Sud si sono propagate nel Nord. Perché ormai tra mafia, politica e amministrazione locale è difficile discernere. Questo è il pensiero comune e dominante. Espresso non solo dalla gente comune, ma dagli stessi esponenti della classe dirigente. Politici compresi. Da ciò lo slogan di successo, in questa fase. La nemesi. La "tabula rasa".
Mentre nel Paese si respira un sentimento antipolitico "senza se e senza ma". Metà degli elettori non sa "per che" e "per chi" votare.
I partiti e lo stesso Parlamento sono delegittimati. Anzi peggio. Deprecati. Lo slogan che va per la maggiore è l'elegia del Nuovo contro il Vecchio. Che non ha lo stesso effetto di vent'anni fa. Soprattutto perché l'abbiamo già sentito risuonare. Vent'anni fa. Così non sorprende il successo di Monti. L'Impolitico. E non sorprende, a maggior ragione, il sostegno alle politiche del governo, che mirano a ridurre lo spazio e il peso dei governi locali.

Tuttavia, dai duellanti che si affrontano alle primarie vorremmo sentire parole chiare sul futuro della politica, del rapporto fra partiti, territorio e società. Walter Veltroni, a questo proposito, ha offerto un contributo importante. Al dibattito politico e delle primarie.
Si è tirato fuori. Non dal partito e dalla politica, ma dal parlamento. Ieri sera, nella trasmissione di Fabio Fazio, ha, infatti, annunciato che non si candiderà alle prossime politiche. Non per adesione alla "retorica della Rottamazione". Ma per continuare, in altro modo e su altri piani, "l'impegno civile, la battaglia di valori sulla legalità". In altri termini: la politica. Mi pare un buon esempio. (Che altri, ben prima di lui, avrebbero dovuto dare). Ma soprattutto, una buona indicazione per il dibattito del Pd. Per Renzi e Bersani. Al di là dell'elegia del Nuovo, oltre alla questione del dopo-Monti (: Monti). Occorre decidere sui luoghi e i modi per "innovare" la politica. E il Pd. Occorre sciogliere l'equivoco. Circa l'origine della delusione e della corruzione che ha coinvolto la politica e i governi locali. Se ciò avviene non è solo - né soprattutto - a causa dei politici, della politica e dei partiti.

È, semmai, vero il contrario. Che i partiti, i politici e la politica sono troppo deboli. La loro presenza nella società e sul territorio è troppo fragile. Quasi inesistente. Perché la società e il territorio hanno perduto il contatto con gli eletti. I quali raramente, quasi mai, seguono l'esempio di Veltroni. Anzi, perlopiù smettono di frequentare il territorio e la società. E se le organizzazioni illegali condizionano il voto, a livello locale, è perché la società civile e i partiti non sono capaci di contrastarle. Perché la 'ndrina e le altre mafie, nel Sud e ora anche al Nord, riescono a raccogliere più voti e preferenze delle organizzazioni politiche, sociali e professionali. Perché non ci sono più partiti di massa, dotati di identità e valori, radicati nel territorio e nella società. Perché lo stesso associazionismo e il volontariato: si sono anch'essi istituzionalizzati. Divenuti, in numerosi casi, servizi pubblici, supplenti e dipendenti rispetto agli enti locali.
Come suggeriscono i bilanci delle associazioni, costituiti, in misura rilevante, da contributi pubblici e spese di personale (i "volontari di professione"). Quanto alle fondazioni "culturali" e "politiche", sono spesso canali per drenare soldi a fini non sempre "politici" e "culturali".

A mio avviso, oggi il problema non è l'eccesso di politica e di governo locale. Ma l'esatto opposto. La debolezza della politica, espressa da partiti personalizzati e mediatizzati. Sradicati dalla società e dal territorio. Dove l'associazionismo e il volontariato appaiono sempre più istituzionalizzati.
Per questo, io vorrei più politica e più società. Più politica e partiti nella società. Più società nella politica e nei partiti.
Senza professionisti della politica - del sindacato, dell'associazionismo professionale e volontario - "a vita". Vorrei più volontari veri - in politica e nei partiti. Ma anche nella società e nelle associazioni. Più volontariato nello Stato. E meno Stato nel volontariato.
Senza rinunciare al ruolo assunto dalle autonomie territoriali.

In un Paese come il nostro, arricchito e unificato dalle differenze locali, dissolvere le autonomie significherebbe semplicemente dissolvere lo Stato. I suoi elementi e i suoi fondamenti. Senza il territorio, i partiti e il Pd per primo: diventano "liquidi". Bersani e Renzi vengono entrambi dal "cuore rosso" dell'Italia (come lo ha definito Francesco Ramella), dove il rapporto fra politica e società era particolarmente forte. Mi aspetto che ci dicano "qualcosa di politico". La loro idea. Per andare oltre il Berlusconismo. Che è, anzitutto, politica senza territorio. E senza società.

(15 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: ILVO DIAMANTI - Perché votare: un dilemma italiano
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 06:10:54 pm
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Perché votare: un dilemma italiano

di ILVO DIAMANTI

Votare per scegliere chi governerà. Oppure scegliere chi governerà indipendentemente dal voto e dal risultato. Questo è il dilemma. Amplificato dalle recenti dichiarazioni di Monti 1, che ha confermato l'intenzione di non candidarsi come premier, alle prossime elezioni. Ma non ha escluso l'ipotesi di "dare una mano, se fosse richiesto". Per proseguire nell'impegno avviato da quasi un anno.

Un messaggio raccolto, per primo, da Montezemolo. Che ha annunciato 2, infine, la sua "discesa in campo". A sostegno di Monti. Con la convinta adesione di Casini e Fini. Che hanno proposto 3 un "cartello elettorale". Nel nome del Professore. Al quale, però, interessa presentarsi e agire  -  come premier al di sopra delle parti e dei partiti. Dunque, al di sopra e al di fuori della competizione elettorale. Investito dalla volontà di un'ampia maggioranza del Parlamento.

L'idea, d'altronde, non piace neppure ai leader dei partiti maggiori, Pd e Pdl. Per non ridursi a svolgere un ruolo gregario. Non è, quindi, detto che la "disponibilità" annunciata da Monti si traduca in decisione.
Ma il fatto stesso che l'ipotesi oggi appaia verosimile è significativo. D'altronde, l'unico leader di cui gli elettori si fidino veramente è lui. Monti. Il cui consenso personale è di nuovo in crescita, nelle ultime settimane. Come il sostegno al governo. In entrambi i casi, superiori alla metà dell'elettorato (dati Ipsos).

Gli elettori, dunque, vogliono un governo espresso dalla maggioranza che emergerà alle prossime elezioni. Basta che a guidarlo sia Monti.

Il dilemma della democrazia rappresentativa, in Italia, è tutto qui. Se il voto "non serve" a scegliere chi governa, attraverso i rappresentanti eletti, a che "serve" votare? E com'è possibile, in queste condizioni, parlare ancora di democrazia rappresentativa?

Questo dilemma, però, non è poi tanto paradossale  -  e neppure inedito. Almeno in Italia. Secondo alcuni osservatori, sarebbe alla base della nostra "anomalia".

In fondo, per quasi cinquant'anni il sistema politico italiano è apparso "bloccato". Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, la frattura geopolitica internazionale ha impedito una vera alternativa, per la presenza, in Italia, del più importante partito comunista occidentale. Si è così affermato un "bipartitismo imperfetto", per citare Giorgio Galli. Dove la competizione elettorale, indipendentemente dal risultato, proponeva un esito comunque scontato. Perché, comunque la Dc avrebbe governato, da sola o in coalizione. Mentre il Pci avrebbe guidato l'opposizione. Lo stesso Pci ne era consapevole. Complice. Coinvolto in un sistema consensuale e consociativo. Dove aveva influenza in tutte le principali scelte.

Questa "anomalia" è proseguita, non a caso, fino al crollo del muro di Berlino e della Prima Repubblica. Ma, per quasi cinquant'anni, gli italiani hanno votato pur sapendo che gli equilibri di governo, nonostante i cambiamenti elettorali, peraltro notevoli, non sarebbero mutati in modo sostanziale. Il Capo del governo lo decidevano la Dc, i suoi capicorrente e i suoi alleati. In base ai rapporti di forza interni ai partiti. Che cambiavano spesso, nel corso della legislatura. Senza possibilità, per i cittadini, di reagire e intervenire.

Eppure, gli italiani, nonostante tutto, continuarono a votare. In grande numero. Alle politiche: tra il 90% e l'80% degli aventi diritto, fino ad oggi. Un tasso di partecipazione elettorale tra i più alti, nelle democrazie occidentali. Anche se la fiducia nei partiti non è mai stata troppo alta. Neppure in passato. In Italia, però, si votava egualmente. Pro o contro i comunisti. Pro o contro la Dc e, sullo sfondo, la Chiesa. Per fedeltà. Per fede. Ma anche per sentirsi parte. Per partecipare.

Nella Seconda Repubblica questo modello è cambiato profondamente. Ma non del tutto. Sono crollati i sistemi comunisti, ma in Italia il comunismo, meglio ancora: l'anticomunismo non è mai morto. Evocato e tenuto vivo, per primo, da Berlusconi. Che in questo modo ha cristallizzato il passato a proprio favore. Così gli elettori hanno ripreso a schierarsi. A dividersi come prima. Fra anticomunisti e antiberlusconiani. La novità, semmai, è la personalizzazione. I partiti riassunti nei loro leader e viceversa. Le elezioni trasformate in referendum. Pro o contro Berlusconi.

Così il Paese si è presidenzializzato in fretta. Senza riforme istituzionali e costituzionali. Di fatto. Gli italiani: si sono abituati ad affidarsi a un premier espresso dai partiti. O meglio: a leader, di cui i partiti apparivano e appaiono una protesi. Gli elettori: indotti a votare per parlamentari nominati dai partiti e dai loro leader. Fino alla deriva a cui assistiamo oggi. Che ha travolto la credibilità dei partiti. Non qualcuno in particolare. Tutti. I Partiti, nell'insieme. Nessuno dei quali appare credibile. Legittimato a esprimere il Capo (del governo).

Così oggi gli italiani, in maggioranza, tendono a tener separata la partecipazione elettorale dalla scelta del premier. Anzi, pongono i due processi quasi in contrasto. Vogliono votare. E pretendono che il governo venga espresso dalla maggioranza uscita da voto. Ma al governo, vogliono il Tecnico. Monti. Perché non viene dai partiti. Di cui diffidano. Come nella Prima Repubblica, si ripropone il distacco fra voto e rappresentanza. È l'anomalia italiana che si rinnova. Ieri come oggi. In nome del vincolo internazionale. Ieri: per ragioni ideologiche e geopolitiche. Oggi: per ragioni economiche e monetarie. Ieri: in nome dell'anticomunismo; oggi: dello spread. Con una differenza significativa: non ci sono più la "fede" ideologica o religiosa a mobilitare gli elettori. Pro o contro i partiti.

Per questo, dubito che la dissociazione fra i principi della democrazia rappresentativa  -  partecipazione e governo  -  possa riprodursi a lungo, senza conseguenze serie, dal punto di vista politico e istituzionale.
Lo suggerisce il successo del M5S. Un soggetto che raccoglie il sentimento "antipartitico" e sostiene, in alternativa all'attuale sistema, la democrazia diretta  -  attraverso rete.

Lo sottolinea, ancora, il dilatarsi dell'area degli indecisi. Ormai prossima al 50%. Più che per incertezza: per disaffezione verso i "canali" della rappresentanza democratica.

Da ciò il dubbio. Che la dissociazione fra partecipazione  -  elettorale   -  e governo dissolva i partiti. Releghi la Politica "in un cerchio chiuso in se stesso", come ha osservato Edmondo Berselli. Perché, in questo caso,  "la democrazia si incarta, come in una partita malriuscita: funziona peggio. Rischia il grippaggio".  E Monti, premier al di sopra delle parti e del verdetto elettorale, si troverebbe a governare da solo in mezzo a tutti. Solo contro tutti.

(01 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/01/news/perch_votare_un_dilemma_italiano-43611853/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Addio Seconda Repubblica ma la Terza ancora non c'è
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2012, 05:55:58 pm
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Addio Seconda Repubblica ma la Terza ancora non c'è

di ILVO DIAMANTI

È FINITA. La Seconda Repubblica. Già superata da tempo, secondo alcuni. Eppure mai è stato evidente come in questi giorni. Basta scorrere i sondaggi delle ultime settimane. Da cui emerge la rapida devoluzione dei partiti e degli attori politici che l'hanno "fondata". E su cui si è fondata. La Lega e il Pdl. La Lega: galleggia intorno al 5%. Un dato, in effetti, non lontano da quello ottenuto dal 1999 al 2006. Ma in grande calo dopo il 2008. Il Pdl è ormai difficile da stimare, tanto appare fluido il suo peso elettorale.

Estensione di Forza Italia, il "partito personale" di Silvio Berlusconi è in costante discesa. Oggi, tra il 17% e il 15%. Secondo alcuni istituti: anche meno. La stessa Idv, il partito personale di Antonio di Pietro, simbolo di Mani Pulite, l'Anti-Berlusconi per definizione: è in difficoltà. Perde consensi. Come gli altri partiti della destra e del polo di centro. Tutti, ormai, al di sotto del 7%.
Gli unici soggetti politici che oggi mostrino una spinta propulsiva sono il Pd e il M5S. Per ragioni diverse e opposte. Perché rappresentano, rispettivamente, il prima e il dopo - la Seconda Repubblica.
Il Pd. Nato dalla fusione - difficile e ancora non risolta - dei principali soggetti politici della Prima Repubblica, Pci e Dc. Dopo essere sceso poco sopra il 20%, a inizio anno, è risalito progressivamente e, nell'ultimo mese, sensibilmente. Oggi è vicino al 29%. Il M5S. Difficile da definire, dal punto di vista del "modello di partito".
Perché è un non-partito che ruota intorno a Beppe Grillo. Inventore e detentore del marchio. Una "rete" di esperienze e liste locali, che corre sulla "rete". È un soggetto politico contro i partiti. Per la "forma" che ha assunto. E per i contenuti del suo messaggio. Il M5S, oggi, è stimato oltre il 18%. Secondo alcuni, il 20%.
L'altro "fenomeno" politico di questa fase è l'area grigia. Composta di elettori che non dicono e non sanno per chi votare. Provengono, soprattutto, ma non solo, da centrodestra. Dal Pdl e dalla Lega. Misura intorno al 45%.
Per questo è difficile negare che la Seconda Repubblica sia finita. Declinata, insieme ai soci fondatori. Insieme ai temi che l'hanno generata. La frattura centro-periferia e la questione settentrionale. Alla base della crisi dei partiti "nazionali" della Prima Repubblica. Soprattutto di quelli di governo. La Lega. Partito anti-romano, insediato nella provincia produttiva del Nord. Dal Veneto al Piemonte, passando attraverso il nord della Lombardia. Un soggetto politico pedemontano, più che padano. Silvio Berlusconi. Esterno ed estraneo alla grande e piccola impresa industriale. Alternativo, rispetto alla Fiat e agli Agnelli. Imprenditore e Uomo "nuovo". Portabandiera della "produzione dei beni immateriali" (come la definisce Arnaldo Bagnasco). Comunicazione, finanza, credito, assicurazioni. E mercato immobiliare - a sua volta connesso alla finanza e al credito. Un capitalismo che ha la sua capitale a Milano e nella Lombardia. Berlusconi e Bossi, Berlusconi e la Lega: hanno portato il Nord a Roma. Hanno conquistato la Capitale. Non solo il Parlamento. Ma anche dal punto di vista amministrativo. Visto che nel 2008 il centrodestra ha eletto il sindaco di Roma - Gianni Alemanno - e nel 2010 il governatore del Lazio - Renata Polverini. Esponenti di An (la Polverini, per la precisione, segretaria nazionale dell'Ugl). La Casa dei post-fascisti, sdoganati e legittimati da Berlusconi. Integrati nel Pdl. Il Partito che, oltre al Nord, ha conquistato Roma e il Sud. Ebbene, quella stagione è finita. La Seconda Repubblica è finita. il Berlusconismo è finito. Al di là dei sondaggi, lo dimostra la geopolitica del Paese e, in particolare, del centrodestra. Oggi, infatti, è impossibile evocare l'immagine di "Milano a Roma" (che ho utilizzato per commentare le elezioni del 1994 in un libro curato insieme a Renato Mannheimer, pubblicato da Donzelli). Banalmente: in quei luoghi il centrodestra si è perduto. Talora, dissolto. A Milano: governano il centrosinistra e il sindaco Pisapia. In Lombardia: la maggioranza guidata da Formigoni è implosa, travolta dagli scandali. Come la giunta del Lazio. Mentre l'amministrazione romana appare, anch'essa, in seria difficoltà.
Quanto alla Lega, che esprime i governatori di Veneto e Piemonte, oltre a numerosi sindaci e presidenti (pardon: commissari) di Provincia del Nord (e non solo): arranca. Sfiancata, anch'essa, dagli scandali che hanno minato la credibilità del suo leader carismatico - Umberto Bossi. Assai più della malattia.
La crisi della Seconda Repubblica, dunque, riflette la crisi politica e geopolitica dei soggetti che l'hanno inventata e imposta. E, insieme, riproduce l'indebolirsi delle fratture che l'hanno generata. Per prima, quella territoriale. Che oppone la periferia al centro, il Nord produttivo alla Capitale dell'Italia assistita e sprecona. Milano e il Nordest a Roma. Oggi quella Repubblica è cambiata profondamente. La questione settentrionale è scivolata in penombra. Insieme al federalismo e all'allargamento dei poteri locali. Mentre è ri-emersa, prepotente, la frattura vecchio/nuovo. Che incrocia quella fra politica (partiti)/società (civile). All'origine della Seconda Repubblica. Oggi quella frattura ritorna. Ma investe coloro che l'avevano rappresentata - e intercettata - vent'anni fa. Trainata, come allora, dagli scandali sulla corruzione politica. Quasi una nemesi. Ne beneficia, per primo, il M5S. Un soggetto politico personalizzato e reticolare. Estraneo alla "frattura territoriale". Mentre il Pd risale, anzitutto, perché le sue tradizioni geopolitiche affondano nelle regioni rosse dell'Emilia Romagna e dell'Italia centrale. Oltre i confini della Seconda Repubblica. Tuttavia, il Pd beneficia anche del fatto che la questione vecchio/nuovo lo coinvolge direttamente. In quanto caratterizza e attraversa le primarie. Imposta da Renzi, rilanciata da Veltroni, raccolta da D'Alema e dagli altri leader del partito. Per primo: Bersani. (È probabile, semmai, che "dopo le primarie" questa congiuntura favorevole del Pd cessi.)
Così assistiamo alla conclusione della Seconda Repubblica. Ma la Terza non è ancora cominciata. Il Nuovo ordine politico e geo-politico: è tutto da tracciare. Per ora (echeggiando Berselli), siamo ancora un "Paese provvisorio". Privo di confini e di riferimenti - sociali, ideologici e religiosi - che diano orientamento e stabilità. Penso, per questo, che la consultazione del 2013 segnerà un'elezione di svolta. Come nel 1994. Imprimerà, cioè, un mutamento profondo. Del sistema partitico e delle logiche che orientano le scelte di voto. Sarebbe opportuno, dunque, che fossero anche elezioni "costituenti". Per evitare che la Terza Repubblica finisca come la Seconda.


(22 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/22/news/addio_seconda_repubblica_ma_la_terza_ancora_non_c_-45039294/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Un uomo rimasto solo
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2012, 10:42:55 pm
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Un uomo rimasto solo

di ILVO DIAMANTI


È difficile uscire di scena. Quando per quasi vent'anni si è stati al centro - non dello spazio politico - ma di ogni dibattito, valutazione, polemica. È difficile.

Quando si è, ancora, alla guida del più grande gruppo televisivo privato. Quando si è abituati a misurare il proprio potere - non solo economico e finanziario - in base al controllo personale dei media. Visto che il sistema politico e il modello di partito imposti da Berlusconi ruotano intorno alla sua persona e alla comunicazione. È difficile farsi da parte. Perché si rischia la devoluzione rapida e devastante della propria posizione politica ed economica "personale". Ma, soprattutto, si rischia l'isolamento. La solitudine. Sta qui l'origine degli interventi di Silvio Berlusconi, negli ultimi giorni. "Estremisti", nei toni. L'Uomo-Solo-al-Comando, all'improvviso, si sente solamente Solo.
E ha paura del silenzio intorno sé. Reagisce con estrema violenza - verbale. Così grida. E usa, non a caso, linguaggio e stile di comunicazione sperimentati, con successo, da Beppe Grillo. Il quale, a sua volta, ha intercettato una parte degli elettori di Berlusconi, orfani di rappresentanza e di rappresentazione.

Il Cavaliere: un uomo solo. Il giorno dopo aver annunciato la rinuncia a candidarsi come premier 1, a capo del centrodestra, la condanna 2 del Tribunale di Milano, l'ha fatto sentire vulnerabile. Gli ha fatto percepire la debolezza di chi non ha più il potere. Perché è e sarà fuori dalla scena politica. Comunque, non più al centro. E dunque esposto ai nemici di sempre: i magistrati. Il suo stesso "conflitto di interessi" da fattore di forza minaccia di ritorcersi contro di lui. Visto che la sua debolezza politica rischia di indebolire la posizione di Mediaset. Sul mercato dell'informazione e, in generale, sui "mercati finanziari".

Ma, soprattutto, Berlusconi non si è sentito sostenuto, ma, anzi, quasi abbandonato, dai leader del Pdl. O di quel che ne resta. Poche voci a suo favore, da centrodestra.
Nessuna dal Centro. Neppure un sussurro dagli uomini del governo. Che egli aveva "accettato" e poi sostenuto.
Al punto di candidare Monti a leader della "sua" parte. Berlusconi. Si è sentito solo e vulnerabile. Come quel 23 ottobre 2011, a Bruxelles, quando la Merkel e Sarkozy, interpellati sulla credibilità dell'allora premier italiano, si guardarono e sorrisero, suscitando l'ilarità di tutta la sala stampa. Berlusconi. La sua esperienza di governo si chiuse in quel momento. Sepolta dal ridicolo. Dall'in-credulità europea. Intollerabile per chi era abituato a recitare la parte dell'Uomo Solo al comando.

Così, quando, nei giorni scorsi, ha percepito il proprio isolamento, nella Casa e nel Popolo che egli stesso aveva creato: in quello stesso momento ha reagito. Ha inveito. Con rabbia e risentimento. Non contro i "nemici" di sempre - magistrati e comunisti. Ma contro gli "amici" che lo lasciavano solo. E stavano negoziando, alle sue spalle, con i democristiani di Casini e con il salotto buono degli imprenditori, rappresentato da Montezemolo. Silvio Berlusconi ha minacciato di far saltare il tavolo 4. Non solo del governo tecnico, ma, anzitutto, del centrodestra. Del Pdl. Degli amici fidati che stavano preparando la sua successione. Senza di lui. Non solo. Ma "contro" di lui. Il Padrone - di ieri. Oggi: un Signore imbarazzante. Un'eredità sgradevole, perché è difficile assumere la guida di una forza politica all'ombra, ingombrante, del Fondatore - e unico leader, fino a ieri - del Partito Personale.

Per questo, più che un "ritorno in campo", l'iniziativa di Berlusconi, in effetti, appare una minaccia di invasione. Espressa in modo perentorio. Un modo per dire, anzi, gridare, che lui, il Cavaliere, non se n'è mai andato. Che il muro di Arcore esiste ancora. Berlusconi.
Ha rivendicato la propria capacità di esercitare il potere media-politico. Da solo contro tutti. Perché tutti l'hanno lasciato solo.
A costo di ricostruire un nuovo "partito personale". Una lista di "uomini nuovi", da opporre ai "vecchi politici" presenti negli altri partiti. Compreso quello che egli, almeno fino a ieri, guidava.

Tuttavia, il tono e i contenuti dell'intervento di Berlusconi - la sua stessa presenza fisica - confermano l'impressione di una storia conclusa. Difficile raccogliere la denuncia della politica e delle politiche dell'ultima stagione espressa da chi ne è stato non "un", ma "il" protagonista. Difficile immaginare che vi sia spazio per un altro soggetto anti-montista e anti-europeo, in Italia. Oltre a quelli che già agiscono sul mercato politico. Dalla Sinistra alla Lega al M5S. Difficile anche concepire che la maschera esibita dal Cavaliere nella conferenza stampa - artefatta, affaticata: sempre più vecchia - possa "rappresentare" un "nuovo" soggetto politico, composto di persone giovani - e nuove. Nella parabola di Berlusconi, "i due corpi del leader" (per echeggiare la metafora di Mauro Calise) sono indissolubili. Il declino "fisico" si riflette in quello del "corpo politico".

Le invettive di Berlusconi risuonano, così, come "grida nel vuoto". Che, per questo, echeggiano più forti. Perché, davvero, intorno a lui, c'è il "vuoto". Il centrodestra e il Pdl, che egli ha creato a propria immagine e somiglianza, oggi appaiono in seria difficoltà nel tentativo di ri-crearsi. Di costruire una nuova immagine e una nuova identità. Non sarà facile, per chi è vissuto e cresciuto alla sua ombra.
Ma l'esternazione di Berlusconi rende evidente anche il "vuoto" prodotto dal crollo del Muro di Arcore, costruito sulle macerie del Muro di Berlino. Oggi quel muro non c'è più e Berlusconi resta sulla scena politica non per guidarla. Né per organizzarla. Al più, per condizionarne le scelte e gli indirizzi. Ma, soprattutto, per difendersi. E per farsi intendere deve gridare forte. In prima persona. Visto che sono in tanti a gridare, in questo cambio d'epoca. La Seconda Repubblica è finita. Ora occorre costruirne una nuova. Senza muri e senza nemici.
E, tanto per iniziare, senza inseguire Berlusconi.

(29 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/29/news/mappe_uomo_solo-45477924/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La maggioranza dei non elettori
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2012, 05:43:12 pm
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La maggioranza dei non elettori

di ILVO DIAMANTI


Fa una certa impressione vedere la partecipazione elettorale scendere sotto il 50%. Anche in una Regione, come la Sicilia, dove l'affluenza non è mai stata molto elevata, neppure in passato: 5-10 punti percentuali in meno rispetto alla media nazionale (e a volte anche oltre), a seconda del tipo di consultazione.

Però neppure in Sicilia, in passato, l'astensione era stata così alta. Da ciò la tentazione di decretare, in modo sommario, la crisi della democrazia e il distacco dei cittadini dalla politica. Valutazioni, peraltro, non del tutto ingiustificate. A condizione di chiarire il significato di questo comportamento. Perché l'astensione può avere ragioni diverse e perfino opposte. Alle elezioni presidenziali americane, ad esempio, l'affluenza alle urne, da oltre quarant'anni, non raggiunge il 60%. Ma è, anzi, più vicina al 50%. Senza che nessuno si sogni di parlare di democrazia in crisi e di crisi della democrazia. Al contrario. Un basso livello di partecipazione (non solo elettorale), secondo alcuni studiosi influenti (per tutti: Samuel Huntington), può venire letto come un atto di "fiducia" verso il sistema. Disponibilità ad "affidarsi" a chi è scelto dai cittadini. Mentre una partecipazione "troppo" elevata e accesa potrebbe complicare la "governabilità".

Non è lo stesso in Italia, ovviamente. Tanto meno in Sicilia e in molte aree del Mezzogiorno (ma non solo). Dove il voto viene, di frequente, espresso in base a logiche clientelari e particolaristiche. E il non-voto riflette indifferenza politica. Tuttavia, mai come in questa occasione, a mio avviso, l'astensione ha assunto un significato "politico". Esplicito e preciso. Perché raccoglie, certamente, una componente "patologica" di disaffezione. Ma questa volta si associa alla  -  e sottolinea la  -  delegittimazione dei principali partiti, a livello regionale e nazionale. Per capirci: Pd, Pdl e Udc, insieme, superano di poco il 36% dei voti. Validi. Cioè: "rappresentano" meno di un elettore su cinque. (Pur tenendo conto del voto e di liste "personali" ai candidati presidenti).

Quel 52% di elettori che non si sono recati alle urne assume, per questo, un significato politico. Non va considerato, cioè, un non-voto. Ma un "voto". È "il voto di chi non vota" (per citare il titolo di un volume del 1983, pubblicato dalle Ed. Comunità, a cura di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino). Segnala la frattura nei confronti del sistema partitico della Seconda Repubblica. Questo voto (in) espresso, in particolare, sottolinea il big bang del centrodestra e, in particolare, del Pdl. Di cui la Sicilia ha, da sempre, costituito una roccaforte. Fin dal 1994, quando Berlusconi scese in campo, ottenendo larghissimi consensi nella regione. Dove, non a caso, nel 2001, la Casa delle libertà fece cappotto, conquistando tutti e 61 i collegi. Oggi quel 13% (dei voti validi) raccolto dal Pdl  -  seguita alla débâcle subita alle recenti amministrative siciliane  -  appare, a maggior ragione, una condanna per Alfano. Leader di un partito abbandonato dal fondatore  -  Berlusconi  -  e dagli elettori. Ma il voto di quel 52% di elettori che non hanno votato rimbalza anche sui vincitori. Il centrosinistra, il Pd e il loro candidato: Rosario Crocetta. Eletto governatore con poco più del 30% dei consensi espressi. Cioè: meno del 15% degli elettori siciliani. Una base sicuramente ridotta. Rischia di produrre un grado di legittimazione altrettanto ridotto.

L'ampiezza dell'astensione, peraltro, si associa e si aggiunge al risultato ottenuto dal M5s ispirato da Beppe Grillo. Primo partito in Sicilia, con circa il 15% dei voti di chi ha votato. Il cui candidato, Giancarlo Cancelleri, ha raggiunto il 18% (dei voti validi). Dunque meno del 9% fra gli elettori. A conferma della frammentazione del sistema partitico, vecchio e nuovo. Un risultato comunque rilevante, tanto più perché dimostra la capacità del M5s di superare i confini del Centro-Nord, dove aveva ottenuto i maggiori successi fino a qualche tempo fa. (Lo segnala anche un saggio di Bordignon e Ceccarini nell'ultimo numero del Mulino). Peraltro, soprattutto in questa occasione, sarebbe improprio considerarlo fenomeno meramente "anti-politico". Il peso dell'astensione, infatti, carica il voto al M5s di significato "politico". Perché si tratta, comunque, di un'alternativa al non-voto. Un voto "per", oltre che "contro". Attribuito a una lista e a candidati che saranno chiamati a rappresentare le domande degli elettori e della società locale. Fornendo risposte e rispondendone, in seguito, ai cittadini.

Per questo il livello raggiunto dall'astensione in queste elezioni regionali non va considerato, necessariamente, una fuga dalla democrazia. Ma, semmai, un messaggio. Un indice che misura  -  e al tempo stesso denuncia  -  la riduzione del consenso di cui dispongono gli attori politici della Seconda Repubblica. Soprattutto, ma non solo, quelli che l'hanno "generata". Per iniziativa e su ispirazione di Silvio Berlusconi. Il voto di chi non vota, per questo, va preso sul serio. Potrebbe superare i confini della Sicilia. In fondo, attualmente oltre 4 elettori su 10, a livello nazionale, non sanno per chi votare. Gli attori politici  -  i partiti e i loro leader  -  debbono offrire loro delle buone ragioni. Anzitutto: per votare.

(30 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/30/news/mappe_maggioranza_non_elettori-45552661/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La politica e la nemesi tv
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2012, 04:56:05 pm
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La politica e la nemesi tv

di ILVO DIAMANTI

PAREVA concluso il tempo della media-politica. E soprattutto quello della tele-politica. Oscurata o almeno eclissata dalla crisi del berlusconismo e dalla parallela ascesa del montismo.
Ma anche dalla ripresa del clima anti-politico. Lo suggeriva il calo  -  sensibile  -  degli ascolti delle trasmissioni e dei talk politici, registrato nei primi mesi dell'anno.
È come se il cittadino si fosse stancato di essere spettatore. "Homo videns", come lo ha definito Giovanni Sartori. Un po' per noia e un po' per disgusto. Un po' perché la nuova classe di governo - Monti in testa  -  appariva poco spettacolare. E, piuttosto, grigia. Invece, da qualche tempo, il vento sembra di nuovo cambiato. Gli ascolti dei programmi tele-politici sono in ripresa. Ma, soprattutto, la tivù sembra tornata ai fasti e ai nefasti di vent'anni fa.

Nella stagione di Tangentopoli, mentre Berlusconi si apprestava a scendere in campo. Quando la televisione divenne "teatro della rivoluzione". Dove Gad Lerner metteva il scena il Profondo Nord, direttamente "nella tana della Lega". Dove Gianfranco Funari dava volto e voce  -  con assoluta naturalezza  -  alla gente con tre ggg, indignata contro i politici.
Vent'anni dopo, la tivù torna a contare. Ma a pagarne il prezzo sono, per primi, i protagonisti di vent'anni fa. E degli ultimi vent'anni. La Lega: sfinita dalla saga familiare di Bossi. Dagli scandali che non le vengono perdonati  -  e fanno notizia  -  proprio perché in passato Bossi e la Lega hanno interpretato il ruolo dei Grandi Censori.

Ma la tv, in questi giorni, ha sanzionato il declino dei protagonisti della Seconda Repubblica. Per primo, Silvio Berlusconi. Che ha dettato le regole e i format della politica e dei suoi attori. Per quasi vent'anni. Il Cavaliere. Ha cominciato la sua avventura il 26 gennaio 1994, con un video nel quale annunciava la sua "discesa in campo". Ma dopo la conferenza stampa del 27 novembre è difficile non considerare il suo tempo scaduto. Anche se annunciava il contrario. La sua ri-discesa in campo. Pochi giorni dopo avere annunciato l'intenzione di "tirarsi indietro". Più delle parole, è l'immagine a tradire Berlusconi. Sugli schermi tutti hanno visto un vecchio. Incapace di invecchiare. Di accettare i segni dell'età. Di affrontare il declino  -  fisico  -  con dignità.

Una nemesi che ha colpito anche il suo "nemico" di sempre. Antonio Di Pietro. Protagonista delle inchieste e dei processi di Mani Pulite. Una sorta di rito purificatore, celebrato di fronte al popolo riunito. Davanti alla televisione. Impossibile immaginare Tangentopoli senza le immagini in diretta dei processi ai politici della Prima Repubblica.
Antonio Di Pietro e i magistrati divennero, allora, gli eroi popolari del cambio d'epoca e di sistema. Dalla democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico.
Di cui Silvio Berlusconi diviene presto il regista e il protagonista assoluto.

La carriera di Antonio Di Pietro, però, oggi appare in crisi. Compromessa dall'inchiesta di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli, che una settimana fa ha scavato nei conti del suo partito, descrivendolo come una sorta di azienda familiare. Di Pietro. Colpito dalla satira di Maurizio Crozza, nel programma trasmesso su La 7. Con effetti ancor più deleteri.
Perché oggi, per la carriera di un politico, Crozza conta più di Vespa, Floris e Santoro. Non a caso Di Pietro ha reagito soprattutto dopo il ritratto velenoso di Crozza.
Ha parlato di killeraggio. Fornendo una versione dei fatti in contrasto con quella di Report. Con scarsi risultati, visto che, nelle stime elettorali, l'Idv è scesa al di sotto del 5%. Mentre, per livello di impopolarità, Di Pietro affianca Silvio Berlusconi. I nemici di sempre sono finiti in fondo alla scala. Dell'opinione pubblica.

L'importanza della tivù, nella politica attuale, è confermata dalle strategie di comunicazione di Beppe Grillo. Anche se di segno contrario. Egli è, infatti, implacabile nel sanzionare ogni apparizione televisiva degli esponenti del M5S. Da ultima, la partecipazione a Ballarò di Federica Salsi, consigliera comunale di Bologna. Per Grillo, la presenza nei talk show televisivi è "il punto G". Che genera piacere a chi vi appare. Ma, al tempo stesso, ne logora l'immagine. E, insieme, mina la credibilità delle forze politiche a cui fanno riferimento gli ospiti televisivi.

Le valutazioni  -  e le imposizioni  -  di Grillo, sono significative. Perché Grillo è un esperto di media. Ha frequentato la tv per quasi vent'anni. Ne è stato un personaggio di successo. Poi ha calcato le arene e i teatri-tenda. Infine, ha sperimentato il potere dei new media. Ne ha fatto un modello alternativo di partecipazione politica. Alla base del suo MoVimento.
La rete, il blog, i Meet up: hanno permesso al M5S di sottrarsi ai condizionamenti  -  politici ed economici  -  dei media tradizionali. E permettono a Grillo di controllare, a sua volta, gli eletti del MoVimento. Di cui "possiede" il marchio. Nel M5S, d'altronde, la consegna del silenzio è accuratamente rispettata. Nessun militante si reca nei Talk dei media nazionali. Salvo eccezioni, prontamente sanzionate dal leader. Che è l'unico ad apparire  -  nei video ripresi dal suo blog o registrati nelle sue tournées "politiche".
D'altronde, ci pensano i talk e i tg (per primo, quello di Mentana su La 7) a inseguire Grillo e il M5S, garantendogli grande visibilità (come mostrano i dati dell'Osservatorio di Pavia).
Tuttavia, l'indicazione di Grillo circa gli effetti politici della televisione è significativa e fondata. Apparire in tv, nei talk show, in tempi di delegittimazione dei partiti e dei loro leader, significa venire associati ad essi. Assimilati nello stesso clima antipolitico del tempo. Come, vent'anni fa, la Lega. Esclusa dai media. Eppure aveva successo. Proprio per questo. Perché i media e la tv erano identificati con i partiti tradizionali.

Il che suggerisce l'analogia di questa fase con il cambio d'epoca di vent'anni fa. Ora, come allora, andare in tv delegittima, invece di legittimare. Rende impopolari, piuttosto che popolari. Con la differenza, decisiva, che oggi la televisione conta molto più di allora. Vent'anni di democrazia del pubblico guidata da Berlusconi non sono passati invano.
Così, oggi la televisione fa molto più male alla politica e ai politici. Anche perché, in tempi di antipolitica, li ha inseriti in format di infotainment e politainment.
Naturaliter anti-politici.

E perché i politici e i partiti, negli ultimi vent'anni, hanno abbandonato la società e il territorio per trasferirsi lì. Nei salotti e nei talk show. A recitar la parte dei cattivi.
In alternativa e, più spesso, insieme ai casi turpi di giornata. Tra un delitto irrisolto, un'aggressione e uno scandalo sessuale.

(05 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/11/05/news/mappe_tv_diamanti-45923704/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - I princìpi del Montismo
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2012, 04:05:29 pm
MAPPE

I princìpi del Montismo

Un anno di vita del governo dei tecnici, che si differenzia dal Berlusconismo ma ne è anche la prosecuzione, con altri mezzi ed esiti.
Soprattutto nel campo economico. Una ricetta che mantiene alta la popolarità tra i cittadini

di ILVO DIAMANTI


È PASSATO un anno. Il premier Monti e il suo governo non sono più una novità e neppure un dilemma. Hanno assunto un profilo preciso: dal punto di vista del programma, dello stile di comunicazione, del disegno politico e istituzionale. Lo possiamo riassumere in una parola, ormai usata con una certa familiarità. Il Montismo. Per analogia e differenza - anzi: distacco - rispetto al Berlusconismo. Travolto dalla crisi, ma anche dalla sfiducia. Delle istituzioni internazionali e dei cittadini.

Il Montismo ne costituisce il controcanto. Ne sancisce la fine. Anche se, per alcuni versi, ne è la prosecuzione con altri mezzi e con altri esiti. Sul piano del programma economico, in particolare. Il governo Monti ha, infatti, realizzato i principali punti delle politiche (solo) annunciate dal governo Berlusconi. Su indicazione (imposizione?) della Ue e della Bce.

Monti le ha tradotte in leggi, riforme e decreti. Con i limiti posti dalla maggioranza, ampia e variegata, che lo sostiene. E con una differenza sostanziale, da chi lo ha preceduto. Berlusconi quel programma l'aveva subìto. E ne aveva promesso l'attuazione, a malincuore  -  fra i risolini degli altri leader europei. Mentre Monti ne è un garante. Visto che a scrivere a dettare quel programma sono ambienti finanziari e istituzionali di cui egli fa parte.

Ma il Montismo è diverso e alternativo rispetto al Berlusconismo anche per altri, importanti motivi. Anzitutto, interpreta un diverso modello di governo. Non la Democrazia del Pubblico,
ma l'Aristocrazia democratica. Monti. Non è il leader eletto dal popolo che si presenta al popolo come uno del popolo. "Uno come voi". Che potete imitare, perché anche voi potete diventare come me. Visto che anch'io imito  -  e interpreto  -  i vizi e le virtù degli italiani. Anzi, i vizi più delle virtù. E voi mi votate proprio per questo. Perché sono l'italiano medio ( - basso). Dal punto di vista dell'etica pubblica e privata.

Monti, invece, è il Tecnico. Distante dalla "gente comune". Non finge nemmeno di assomigliare agli elettori. Non gli dà del tu. D'altronde non è stato eletto, ma scelto e incaricato dal Presidente. E ha ottenuto la fiducia del Parlamento proprio perché non è un politico (del nostro tempo). Perché è diverso e lontano rispetto ai cittadini. Migliore. Un Aristocratico. Competente e accreditato negli ambienti che contano. In Italia. Ma soprattutto in Europa e nel Mondo. Nessuno si azzarderebbe a ridere alle sue spalle. Il Montismo, per questo, segna il ritorno del governo di "quelli che si distinguono dal popolo". E dai politici. Gli esperti.

Il Montismo, per questo, riflette il clima del tempo. E, per quanto aristocratico, accarezza l'antipolitica. Non perché i tecnici al governo  -  per primo Monti  -  siano estranei alla politica e ai partiti. Molti di essi  -  Monti stesso  -  hanno ricoperto per anni ruoli di responsabilità negli organismi economici e istituzionali  -  italiani ed europei. E hanno confidenza con i diversi livelli di governo, ma anche con gli attori politici. Monti e i suoi ministri: fanno politica, ci mancherebbe. I temi affrontati in questi mesi sono al centro dei principali conflitti politici, economici e sociali della nostra epoca. Tuttavia, Monti è stato designato in quanto "Tecnico". Cioè, "Non-Politico". Perché non eletto. Perché non deve rispondere ai cittadini delle sue scelte. (Napolitano l'ha nominato senatore a vita).

Peraltro, Monti stesso non manca mai di ribadire quanto sia alto il suo credito "politico" rispetto a quello dei partiti e dei politici.

Il Montismo è stile di comunicazione. Coerente con la forma di governo che esprime. Cioè: l'Aristocrazia Democratica. Anzi: l'Aristocrazia pop. Mario Monti è consapevole dell'importanza del consenso, per il governo. E dell'importanza dei media, per il consenso. Per questo, non rinuncia a frequentare i media. Lui e i suoi ministri: affollano le reti e i talk politici con maggiore audience. Ma, appunto, con distacco. Aristocratico. Soprattutto Monti. Determinato a marcare la differenza rispetto a quelli che lo hanno preceduto  -  e che ancora strepitano, intorno a lui.

Il Montismo: decreta e declama la fine del Berlusconismo. Ma echeggia, in qualche misura, la nostalgia della Prima Repubblica. Acuita dai ne-fasti della Seconda Repubblica. Perché, dopo quasi vent'anni di bipolarismo antagonista e intollerante, ripropone un governo di larghe intese. Come, in fondo, erano i governi guidati dalla Dc. Il Centro che teneva dentro tutto e tutti. Destra e sinistra. E che assorbiva e aggregava tutti. Socialisti e laici. La Dc. Riusciva a convivere  -  e a condividere le scelte sostanziali  -  anche con il Pci.

Il Montismo è governo condiviso, non diviso. Fondato su larghissime intese. Perché, la marginalizzazione di Berlusconi  -  insieme al suo doppio genetico: Di Pietro  -  ha reso possibile la coabitazione fra i nemici di ieri. In nome del vincolo esterno: dei mercati, delle autorità monetarie e delle istituzioni internazionali. Ma anche sulla spinta della sfiducia dei cittadini. Stanchi di piazzate e di piazzisti al governo.

Per questo il consenso di Monti continua ad essere alto, malgrado che le sue politiche piacciano sempre di meno. Dopo un anno di governo, resiste intorno al 50%. Nonostante la crisi morda sempre più a fondo.

Per questo si fanno largo progetti di legge elettorale con l'obiettivo di impedire a qualcuno di vincere davvero. Per costringere le principali forze politiche al compromesso. Come nella Prima Repubblica. Per riproporre Monti al governo. L'aristocrazia democratica. Il Tecnico al governo con il voto dei politici.

Per questo, e non a caso, la principale opposizione, oggi, è quella, per ora, extra-parlamentare del M5S. Ispirato, anzi, inventato da Beppe Grillo. Che gli dà volto e voce. Oltre al marchio, di cui è proprietario. Grillo è profondamente diverso, quasi opposto, a Monti. Per stile di comunicazione, oltre che per proposta politica e istituzionale. Alternativo, eppure speculare.

Perché Grillo, come Monti, emerge dallo sfascio del Berlusconismo. Che ha prodotto la dissociazione della democrazia rappresentativa. Di cui Monti e Grillo interpretano le due facce. Monti: l'aristocrazia democratica. L'élite non elettiva. Il ceto degli Eletti non eletti. Grillo: attore e predicatore della democrazia diretta. Attraverso la Rete. Il Montismo e l'Anti-montismo. Il GrilloMontismo. Riassumono l'eredità difficile del Berlusconismo. La ricerca della fiducia nei rappresentanti e della partecipazione dei rappresentati. La difficile ricostruzione della democrazia rappresentativa. Logorata da vent'anni di democrazia im-mediata (mediata esclusivamente dei media). E da partiti ridotti a oligarchie senza fiducia.

(12 novembre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: ILVO DIAMANTI - Il paese dei giovani senza età
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2012, 04:02:35 pm


Bussole
   
Ilvo Diamanti
   
Il paese dei giovani senza età

Viviamo tempi di cambiamento. "Tempi strani", perché non è facile coglierne il segno, l'orientamento. Tempi grigi, sicuramente, soprattutto per gli ultimi della classe. I gruppi sociali periferici e marginali. Ma anche per i più giovani.

A differenza dei genitori e ancor più dei nonni, i giovani, si dice, non hanno futuro. Meglio: non riescono a immaginarlo, tanto meno a prevederlo. Questa è un'epoca dal "Futuro interrotto", come suggerisce il webdocumentario curato da Riccardo Staglianò. Un collage di storie raccolte e sceneggiate dall'Academy di Repubblica, che ha messo a confronto 20 coppie di genitori e di figli, accomunati dalla professione e, talora, dal luogo di lavoro. Perfino dall'azienda, in alcuni casi. Per mostrare se e quanto sia vero che la generazione dei figli, oggi, sia la prima, nel corso del dopoguerra, ad attendersi un futuro peggiore di quello dei genitori. Una generazione interrotta, quindi. Perché interrompe la catena che ha accompagnato lo sviluppo del Paese da una generazione all'altra, facendo coincidere la crescita economica generale con quella delle persone e delle famiglie.

L'inchiesta condotta attraverso le storie raccontate da Staglianò e dall'Academy conferma questa idea. Ma solo in parte. E, comunque, aggiunge alcuni elementi importanti per comprendere alcune ragioni specifiche del nostro declino. E, insieme, della nostra tenuta sociale. Genitori e figli, intervistati nel webdocumentario, accreditano, infatti, l'immagine del ripiegamento. Della sospensione. Condividono la convinzione che oggi sia peggio di ieri. E domani sarà ancora peggio.

La condizione di lavoro e lo stile di vita dei figli appaiono, infatti, ridimensionate, rispetto a quelli dei genitori. Tanto più le aspettative. Non solo per sé. Ma per i giovani, nel complesso.

Tuttavia, a questo proposito, il giudizio non è unanime. Sono numerosi, quasi un terzo, coloro che la pensano diversamente. Tra i figli come fra i genitori. Pur aggiungendo, talora, che si tratta di un giudizio "personale". Per quel che riguarda loro, cioè, il futuro non è destinato a interrompersi. Anche se è sicuramente più incerto  -  e grigio - rispetto a quello che ispirava i loro genitori. Dunque, il pessimismo delle persone intervistate, genitori e figli, risulta temperato.  Tanto più se l'orizzonte si allarga dal "lavoro" alla propria condizione generale. Chiamati a dare un giudizio retrospettivo e di sintesi sulla propria vita, infatti, tutti i "personaggi" della web inchiesta si dicono "soddisfatti". Genitori e figli, senza eccezioni. Alcuni "molto", i più "abbastanza". Ma tutti, comunque, "felici".

Tuttavia, le valutazioni sono condizionate - in qualche misura dettate - dalle storie raccontate nel webdocumentario. O, per usare il linguaggio statistico, dalla specifica "composizione del campione".

Costruito, per ragioni narrative, su due criteri.
1) Anzitutto l'età. La generazione dei "figli": 30-40enni. Non si tratta dei "più giovani". Ma di quelli che la letteratura sull'argomento definisce i "giovani adulti". Perché ormai la giovinezza si è dilatata, allungata ben oltre i limiti tradizionali. Tanto da rendere difficile la distanza e il confine dall'età adulta. Soprattutto, per l'allungarsi degli studi e della dipendenza dai genitori. Come confermano i figli intervistati nel documentario. Alcuni dei quali vivono a casa con i genitori. Come Michela, infermiera di 31 anni, di Avezzano. Oppure risiedono in un'abitazione di proprietà della famiglia, come Mirko, carpentiere di 37 anni, di Milano.

Naturalmente, la dipendenza è reciproca. Perché la presenza dei figli e delle figlie è necessaria ai genitori, per proseguire nell'attività professionale e commerciale. Ma anche per avere sostegno e, talora, assistenza, mentre l'età avanza. E, soprattutto, per non sentirsi soli. Tuttavia, questi "giovani adulti" riflettono la sindrome della giovinezza infinita, che affligge una società incapace di invecchiare. O, meglio, di accettare e di ammettere la vecchiaia. Una società di persone "per sempre giovani" che faticano a dirsi vecchie.

Anche perché, in effetti, l'uscita dagli studi e l'ingresso sul mercato del lavoro si protraggono sempre più a lungo. Per questo i "giovani adulti" non riescono a testimoniare davvero la "generazione interrotta". In parte, ne sono fuori. Rappresentano e costituiscono ancora la "continuità".

2) Ben sottolineata dall'altro aspetto specifico del "campione".  Costituito dalla "condivisione del mestiere, della professione, dell'azienda". Da parte dei genitori e dei figli. Il web-documentario, infatti, ricostruisce e mette a confronto le biografie socio professionali di coppie di genitori e figli che svolgono la stessa attività professionale. Genitori e figli/figlie. Pastai, pastori, insegnanti (di applicazioni tecniche), psichiatri, ramai, fotografi, pescatori, macchinisti e musicisti... Da Nord a Sud, passando per il Centro. Da Vicenza a Caltanissetta, da Milano a Napoli, de Cecina a Gallipoli, da Bologna  a Campobasso.  A conferma, ulteriore, della continuità e della persistenza intergenerazionale, attraverso la mediazione, o meglio, della regolazione familiare.

L'Italia: un Paese fondato sulla famiglia, prima ancora che sul lavoro. Dove il lavoro  -  l'azienda, la professione, l'attività  -  si trasmette di padre  e di madre  in figlio/figlia e nipote.

Da ciò la capacità della nostra società  di superare, o almeno, di affrontare le crisi economiche, nel corso del dopoguerra. Grazie agli ammortizzatori sociali "tradizionali". Attraverso le reti sociali e comunitarie. Attraverso, anzitutto, la famiglia. Da ciò, tuttavia, anche la difficoltà della nostra società e del nostro sistema di "innovare" e di innovarsi. Perché irrigidito e strutturato da logiche particolariste: corporative, ma anche familiste. Che penalizzano il valore del merito e della competenza.

La generazione dei "giovani adulti" (30-40enni), raccontata dal webdocumentario di Staglianò, dunque, non è, ancora, costretta e oppressa da un "futuro interrotto". Perché è intrecciata, in modo quasi indissolubile, con le generazioni precedenti. Implicata e protetta da una rete di relazioni e di reciprocità, che garantisce  -  e magari condiziona  -  il presente e il futuro. Così da offrire a tutti un certo margine di tutela. E di "felicità".
La frattura, semmai, avviene dopo. E interessa, coinvolge, travolge i più giovani. Quelli che hanno meno di trent'anni. E a maggior ragione, i ventenni. La generazione dei "Neet". (Dall'inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che "non" lavorano e "non" studiano. E non sono neppure impegnati in  attività di "formazione" e "apprendistato". Secondo l'Istat: oltre 2 milioni e 200 mila. Il 22% dei giovani fra 15 e 29 anni. Sono loro la "generazione sospesa", dal "futuro interrotto". Perché non è in grado di indovinarlo, tanto meno di progettarlo. Non una generazione flessibile, ma precaria. Perché è flessibile ma senza sbocchi. Sorretta, certo, a sua volta, dai genitori. Rappresentati, in parte, dai "figli" quarantenni intervistati nell'inchiesta dell'Academy di Repubblica. Ma, comunque, molto più esposta, che in passato, alle trasformazioni del lavoro - e non solo. In un clima di sfiducia generalizzata verso la politica, le istituzioni. E verso tutti i "principi" dell'autorità. Famiglia compresa.

È su questi giovani, sui giovani più giovani, che l'Academy di Repubblica deve proseguire la sua inchiesta. Con altri, nuovi webdocumentari. Per entrare dentro i confini della "generazione  del futuro interrotto".

 

(20 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/11/20/news/il_paese_dei_giovani_senza_et-47061857/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le primarie, un reality di successo
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2012, 05:33:05 pm
Le primarie, un reality di successo

Ilvo DIAMANTI

Oggi si svolgono le Primarie del Centrosinistra. Ritornano alla loro finalità originaria: la scelta del candidato premier. Con qualche ambiguità. Perché, anzitutto, ancora non sono chiari i confini della coalizione. Ieri, ad esempio, Pierluigi Bersani, segretario del Pd e candidato alle Primarie, ha aperto all'IdV di Antonio Di Pietro. Fin qui, escluso da ogni possibile alleanza.

Inoltre, a differenza delle precedenti occasioni, questa volta la partecipazione alle Primarie è vincolata all'iscrizione a un albo degli elettori. Il che ha sollevato sospetti sull'intenzione di "scoraggiare" gli elettori meno fedeli (al centrosinistra e ai suoi leader nazionali). E ha suscitato il timore che l'affluenza ne possa venire danneggiata.

Tuttavia, al di là delle polemiche e prima ancora dell'esito del voto, queste Primarie hanno prodotto effetti indubbiamente positivi per i soggetti politici coinvolti. Soprattutto perché si presentano "aperte" e competitive. Mentre nelle precedenti occasioni erano apparse scontate e senza storia.

L'irruzione di Renzi  -  al di là di ogni valutazione specifica  -  ne ha fatto un terreno di confronto - e, talora, di scontro - aspro. Per logiche personali più che di programma. Per stile di comunicazione più che di contenuto.  L'alternativa vecchio/nuovo ha sovrastato ogni discorso politico.

Tuttavia, mai come questa volta le Primarie hanno suscitato l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica, oltre all'interesse dei militanti e dei simpatizzanti di centrosinistra.

Ne ha beneficiato, anzitutto, il partito di riferimento. Il Pd. Prima dell'estate, nei sondaggi, galleggiava poco sopra il 22%. Ora è cresciuto di 10 punti percentuali, superando il 32% (secondo IPSOS). E si è avvicinato al risultato del 2008. Il massimo della sua (breve) storia. Anche Sel, dopo essere scesa sotto il 5%, nelle ultime settimane è risalita oltre il 6%.

Ne hanno beneficiato i candidati. La fiducia verso Bersani, fra gli elettori (dati Demos), è passata dal 32%, nello scorso settembre, al 39%, nelle ultime settimane. Mentre il consenso nei confronti di Renzi si avvicina al 50% (grazie al sostegno che ottiene presso gli elettori esterni al centrosinistra). Lo stesso Vendola, la cui popolarità aveva subito un sensibile declino negli ultimi mesi, in questa fase ha ripreso credibilità. E ora il suo indice di fiducia ha raggiunto il 33%. Un livello ben superiore al peso elettorale del suo partito.

Fra gli altri candidati, infine, Bruno Tabacci ha conquistato una popolarità impensabile, fino a ieri. Lui, così sobrio e "moderato" (ma anche defilato) è divenuto, all'improvviso, un'icona pop. Leader di un movimento dadaista che scuote la rete. Attraendo una folla sempre più ampia di amici e seguaci. I "Marxisti per Tabacci".

In generale, le Primarie sono divenute un evento mediatico di primo piano. Hanno garantito visibilità al Pd, al Centrosinistra e ai loro leader. Che hanno occupato spazi dominanti sui giornali, non solo d'informazione,  e sulle emittenti radio-televisive. Nei notiziari e nei talk. Non solo: le Primarie e i suoi "personaggi" principali sono divenuti argomento di colloquio e discussione popolare, al di là della cerchia politicamente più attiva e informata. Al di fuori dei luoghi e degli spazi "istituzionali". Quasi come un reality. Il confronto fra i candidati promosso da Sky, non a caso, ha evocato il format di XFactor.

Per questi motivi, le Primarie  -  finalmente aperte e competitive - hanno fatto bene al Pd, al Centrosinistra e ai suoi leader  -  e non solo ai candidati. Per questi motivi penso che, nonostante le complicazioni imposte dall'iscrizione alle liste, otterranno una partecipazione molto ampia. Per questi stessi motivi, credo che il Pd e il Centrosinistra debbano guardare con attenzione al "dopo". Per evitare la successiva "smobilitazione". La successiva "sospensione" del dibattito. Per evitare che le Primarie divengano l'unico motivo di mobilitazione, l'unico luogo del dibattito. Per evitare che, dopo le Primarie, l'interesse e l'attenzione, intorno al Pd e al Centrosinistra, si spengano. E il dibattito si rinchiuda nella cerchia stretta dei gruppi dirigenti e dei militanti.

(25 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/11/25/news/le_primarie_un_reality_di_successo-47365286/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il segnale che arriva dalle regioni rosse
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2012, 06:02:10 pm
Il segnale che arriva dalle regioni rosse

di ILVO DIAMANTI


PIÙ DI TRE MILIONI di persone che vanno a votare il candidato premier del centrosinistra fanno sicuramente bene alla nostra democrazia. Tre milioni. Come alle precedenti Primarie del 2009, ma un po' meno del 2007. Nonostante riguardassero solo il Pd, mentre nel 2005 la candidatura di Prodi aveva mobilitato oltre 4 milioni di elettori di centrosinistra.

Ma erano altri tempi. Perché oggi la fiducia nei partiti, nei politici e nel Parlamento è ai minimi storici. Eppure ci sono ancora 3 milioni di persone e oltre disposte a uscire di casa, la domenica, per recarsi ai seggi, dopo essersi iscritte alle liste. Facendo la fila, anche due volte. (Le complicazioni burocratiche hanno influito anch'esse, sulla partecipazione.) E ci sono decine di migliaia di volontari ai seggi. Il sabato, la domenica magari anche il lunedì.

È una buona notizia. Per nulla scontata. Per la nostra democrazia, prima ancora che per il Pd. Il quale, peraltro, ne ha beneficiato in modo evidente. Non solo perché il numero di cittadini che si è recato alle urne è stato di 3,6 volte superiore al numero di iscritti al Pd. (Come ha annotato l'Istituto Cattaneo nel suo Report.) Ma anche perché, negli ultimi mesi, il Pd, nelle stime elettorali, è risalito di quasi 10 punti percentuali. Oggi è oltre il 32% (secondo Ipsos).

Per questo il ballottaggio fa bene al Pd. Perché allunga i tempi della mobilitazione, ma anche dell'attenzione mediatica. Che alimentano il consenso. Ragionando sui risultati, mi pare emergano alcuni aspetti, (solo) in parte sottolineati dalle analisi proposte "a caldo".

1. Il ballottaggio rivela una competizione di leadership reale, dentro il Pd. Fino ad oggi le Primarie non avevano mai avuto storia. Oggi appaiono aperte. E anche questo spiega l'interesse e la partecipazione che le hanno caratterizzate. Certo, Bersani è il favorito. Ma non il vincitore annunciato. Perché Renzi ha conseguito un risultato ragguardevole. Circa il 36%: 9 punti meno di Bersani. Tanto, ma non troppo.

Nelle competizioni a doppio turno, infatti, ogni turno fa storia a sé. Ed è improprio calcolare voti "esterni" ai due candidati del ballottaggio in base alle indicazioni dei leader. Così, i voti di Vendola non sono, automaticamente, trasferibili a Bersani. Molti suoi elettori del primo turno, come emerge dai messaggi in rete, potrebbero, infatti, orientarsi verso Renzi, perché esprime meglio la domanda di "rottura" con il passato. Con le burocrazie di partito.

2. Peraltro, se ripercorriamo il risultato dei due principali candidati su base territoriale, emerge una geografia significativa. E non del tutto prevedibile. Bersani prevale in 17 regioni su 20. Nel Nord e soprattutto nel Mezzogiorno. In Calabria, Sicilia, Sardegna e Campania, Basilicata. Dove supera la maggioranza assoluta. Renzi, invece, avvicina Bersani nel Nord, soprattutto in Piemonte e nel Veneto. E, paradossalmente, si afferma nelle Regioni Rosse  -  esclusa l'Emilia Romagna. In Toscana, ma anche in Umbria e Marche.

Proprio lui, sospettato di "berlusconismo". Bersani, presumibilmente, cumula e associa due modelli di radicamento tradizionali nel Pd. A) L'elettorato orientato dagli apparati e dall'organizzazione sul territorio. B) L'elettorato post-comunista, passato attraverso i Ds. Renzi, invece, si afferma nelle (ex)zone di forza della Margherita, nel Nord (Cuneo, Asti, la pedemontana veneta). E attira componenti di elettori critici verso la classe politica e verso i gruppi dirigenti del Pd. Soprattutto dove sono al governo (le zone "rosse"). Come mostrano i dati di alcuni sondaggi.

3. L'alternativa fra i due candidati, dunque, riflette la distinzione vecchio/nuovo (agitata da Renzi, attraverso lo slogan della "rottamazione"). Rispecchia, inoltre, la frattura destra/sinistra, evocata da Bersani, Vendola e Camusso. Per marcare l'estraneità di Renzi rispetto alla tradizione del centrosinistra. Ma lo schieramento a favore o contro i due candidati è dettato anche da altre componenti, legate alla personalizzazione e allo stile di comunicazione che caratterizzano le Primarie. Ciò rende interessante e aperto il voto di domenica. Che potrebbe essere influenzato dal confronto faccia-a-faccia di mercoledì prossimo sulla prima rete Rai.

4. Anche per questo ritengo che le Primarie, fino al ballottaggio, imprimano all'opinione pubblica e alla stessa logica istituzionale una dinamica presidenzialista. Secondo il modello americano oppure quello francese (per quanto diversi).

Comunque vada il ballottaggio, credo che il Pd debba guardarsi, in seguito, da due rischi.

a) Il calo della passione e della mobilitazione dopo mesi di partecipazione, al centro dell'attenzione pubblica e mediatica. Per questo deve "normalizzare" e interiorizzare il modello sperimentato in questi mesi. E se la vita politica non può trasformarsi in un'eterna primaria, non deve neppure ridursi alla routine dei discorsi e dei negoziati nel chiuso delle sedi di partito, dei gruppi dirigenti, dei soliti noti.

b) Nel Pd occorre fare attenzione a non trasformare la competizione fra i "duellanti" in antagonismo. Renzi e Bersani e, soprattutto, i mondi che si sono aggregati e mobilitati intorno a loro: non debbono diventare alternativi. Ed esclusivi. C'è il rischio, altrimenti, che si elidano a vicenda. E che, invece di favorire la partecipazione larga e paziente di questo periodo, producano disincanto e frammentazione. Divisione.

In fondo, il Pdl, o ciò che ne resta, è lì. Alla finestra. Sospeso tra voglia e paura delle Primarie. Perché ancora oggi è un partito personale e mediale. Senza società e senza territorio. Il Pd e il centrosinistra, al contrario, sono nati e cresciuti nella società e nel territorio. Ma se ne sono dimenticati. Ora che sono tornati (nella società e nel territorio), ebbene, ci restino.
 

(27 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/11/27/news/il_segnale_che_arriva_dalle_regioni_rosse-47518922/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il potere delle primarie sui partiti
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2012, 04:29:13 pm
Sondaggio: Pd al 38%, Grillo in calo.

Il potere delle primarie sui partiti

Sondaggio dell'Atlante Politico di Demos: la competizione del centrosinistra coinvolge in modo violento tutti i soggetti politici.

Calano drasticamente gli indecisi. E per la prima volta Renzi e Bersani superano Monti

di ILVO DIAMANTI


LE PRIMARIE si sono concluse domenica scorsa. Ma i loro effetti proseguono e si riproducono. Coinvolgono in modo diverso - ma egualmente violento - tutti i principali soggetti politici. Partiti, leader, lo stesso governo e il premier. Con effetti difficili da valutare. Come emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico, condotto da Demos negli ultimi giorni.

LE TABELLE su repubblica.it

1. Le primarie. Hanno accentuato tendenze già evidenti sul piano politico ed elettorale. Il PD, anzitutto, è rimbalzato ancor più in alto. Al punto che, nel sondaggio di Demos, avvicina il 38%. Il massimo raggiunto dalla fondazione, nel 2007. A livello elettorale ma anche nei sondaggi. Prima dell'estate era scivolato al 25%. Dopo l'estate è risalito in modo prepotente. Spinto, trainato dalle primarie. Non a caso i duellanti, Bersani e Renzi, oggi svettano, nella graduatoria dei leader. Entrambi cresciuti di circa 20 punti percentuali. Renzi, peraltro, è in testa, con oltre il 60%, in quanto intercetta consensi anche a centrodestra e soprattutto al centro. Ma Bersani, per la prima volta da quando è segretario del PD, supera il 50% dei consensi.

2. L'avanzata del PD, peraltro, avviene mentre gli altri partiti ripiegano. Nel centrosinistra,
infatti, si assiste al declino rapido dell'IdV, i cui consensi crollano, insieme a quelli di Di Pietro. Anche SEL arretra, seppure di poco. Mentre la fiducia in Vendola cresce di qualche punto. Anche così si spiega il largo sostegno espresso dagli elettori di centrosinistra all'alleanza con SEL. È come se SEL e Vendola apparissero, rispettivamente, la componente e il leader della sinistra PD. Soprattutto dopo le primarie.

3. Nel centrodestra, il PdL staziona, per inerzia, intorno al 18 %. Ma appare diviso, lacerato all'interno. Tra i "fedeli" a Berlusconi, che sognano una nuova Forza Italia. E quelli che, invece, vorrebbero andare oltre Berlusconi. Scegliere il leader attraverso le primarie, in-seguendo l'esempio del PD.

Oltre metà degli elettori del PdL, peraltro, vorrebbe riproporre l'alleanza con la Lega, ma anche con i partiti di Centro. Per non rischiare l'isolamento. Per non precipitare nello "sconfittismo". La condizione, psicologica, di chi si sente sconfitto prima del voto. E in questo modo prepara la propria sconfitta.

4. La Lega, d'altronde, non sembra in grado di "correre da sola". Continua, infatti, a galleggiare intorno al 4%. Come nel 2006, peraltro. Quando, però, insieme al PdL, aveva quasi pareggiato la sfida elettorale con l'Unione di Prodi.

5. Neppure i soggetti politici di centro sembrano in grado di allargare il loro spazio, che, anzi, si riduce. Assorbito, in parte, dal PD. In particolare da Renzi. I consensi di Casini, Fini, dello stesso Montezemolo non crescono. Anzi, si riducono, sul piano personale oltre che di partito.

6. Infine, il M5S, ispirato da Grillo, mantiene un peso elettorale notevole, intorno al 15%. Ma pare aver frenato la sua avanzata. Quasi che la mobilitazione politica degli ultimi mesi, prodotta dalle primarie, ne avesse circoscritto le ragioni, ma anche gli spazi di crescita.

7. È interessante - e significativo - osservare come l'area grigia degli elettori incerti se e per chi votare, in questa occasione, si sia ridotta sensibilmente. In due mesi, dal 45% è scesa al 30%. I "delusi" di centrosinistra se ne sono staccati. Coinvolti e sollecitati dalla mobilitazione di questa fase.

8. Il successo delle primarie, tuttavia, ha scosso anche le basi del governo. Secondo il sondaggio di Demos, infatti, il gradimento verso il suo operato, da settembre, è sceso di quasi 10 punti. Attualmente è intorno al 44%. Come nella scorsa primavera. Anche il giudizio su Monti appare meno positivo che in passato. Coloro che ne valutano positivamente l'operato sono il 47%: 8 punti meno dello scorso settembre. Per la prima volta da quando è divenuto premier, dunque, Monti si vede superato da due "politici": Renzi e Bersani. A scanso di equivoci, occorre chiarire: Monti e i tecnici dispongono, comunque, di un grado di considerazione fra i più elevati degli ultimi 10 anni. Tanto più se si pensa alle difficoltà del momento. Oltre al fatto che Monti e i tecnici sono stati chiamati a governare proprio per condurre politiche "impopolari". Tuttavia, non è un caso che il calo di fiducia nei confronti del governo avvenga proprio all'indomani delle primarie. D'altronde, secondo il 44% degli elettori (anche per la maggioranza di quelli del Pd), proprio le primarie avrebbero indebolito il governo Monti. Mentre solo il 23% ritiene, al contrario, che l'abbiano rafforzato.

9. Naturalmente, le primarie non hanno sanzionato Monti. Anche se il dibattito di questi mesi è stato scandito da critiche accese al suo operato. Tuttavia, le primarie hanno sicuramente "rafforzato" l'offerta politica del PD. Hanno garantito legittimità alla sua leadership. Rendendo, di conseguenza, più credibile il proposito espresso da Bersani - ma anche da Renzi  -  di fare il premier, dopo le prossime elezioni, in caso di vittoria. Senza tutele "tecniche" e presidenziali. Non è un caso che la quota di quanti auspicano un governo della coalizione che ha vinto le elezioni, nel sondaggio Demos, sia salita oltre il 55%. Quasi 20 punti più di coloro che continuano a preferire un governo tecnico, sostenuto da una "grossa" coalizione.

Le primarie hanno dunque scosso l'intero sistema politico italiano. Hanno dato evidenza e spazio alla domanda di politica diffusa, latente e frustrata in tanta parte della società. E hanno aperto direttamente, senza mediazioni, la campagna elettorale. Perché c'è una coalizione che dispone di un candidato eletto con la partecipazione e il voto di più di tre milioni di elettori. Ciò ha già prodotto sussulti evidenti, che hanno scosso alla base la maggioranza del governo Monti. Come si è visto ieri, al Parlamento. Per iniziativa del centrodestra, lacerato al suo interno.

Il fatto è che oggi, anzi, da domenica scorsa, la competizione elettorale si è aperta. Per il PdL, in crisi di consensi e di identità, vedersi "doppiato" dal PD nelle stime elettorali calcolate dai sondaggi, diviene traumatico. Insostenibile. Così "l'interesse nazionale" passa in secondo piano. Sovrastato dall'interesse di partito.

(07 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/07/news/mappe_pd_38_grillo_in_calo-48238774/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Cavalier rieccolo e il muro del Professore
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2012, 07:38:12 pm
Il Cavalier rieccolo e il muro del Professore

di ILVO DIAMANTI

ECCOLO di nuovo. Il Cavaliere. Ri-discende in campo. E sfida tutti. Il centrosinistra  -  che da qui tornerà ad essere riassunto nell'alveo dei "comunisti". Il Terzo Polo di centro  -  gli "utili idioti". E prima di tutto e di tutti: Monti. Il Professore. Il vero responsabile della crisi economica italiana. Che, ovviamente, quando c'era Lui, era molto meno pesante. Anche se i Nemici  -  i Comunisti Pessimisti  -  la agitavano ad arte, come argomento polemico contro di Lui.

Eccolo di nuovo. Berlusconi. Non poteva essere diversamente. Impensabile che uscisse di scena spontaneamente. Ammettendo, in questo modo, la propria sconfitta. La fine del Berlusconismo. D'altronde, i sondaggi d'opinione spiegano e giustificano la sua decisione. Anche al di là dei motivi personali che lo muovono. L'esigenza di tutelare i propri interessi e di difendersi dai molteplici procedimenti giudiziari che lo riguardano. Al di là di tutto ciò, l'ultimo anno ha dimostrato l'incapacità del centrodestra di re-inventarsi. Di trovare un'identità e una leadership alternative.

Senza Berlusconi. In meno di due anni, il PdL è sceso, nei sondaggi, dal 30% al 18%. Solo un anno fa era ancora al 25%. Il suo delfino, Angelino Alfano, si è dimostrato incapace di nuotare da solo. In un anno: il PdL si è diviso. Il 44% dei suoi elettori sceglierebbe Berlusconi come candidato premier. Dunque, meno di metà. In ogni modo, però,
quasi l'80% di essi preferirebbe che il candidato venisse scelto attraverso le primarie (Atlante Politico di Demos, dicembre 2012). Ma il PdL non è come il Pd. Come il centrosinistra. Non ha radici nel territorio. Solo An aveva legami di appartenenza con la società. Ma, dopo l'unificazione con il  -  o meglio, l'annessione al  -  PdL, è confluita anch'essa nel "partito personale" di Berlusconi. Dove i rapporti fra il leader e il suo popolo avvengono per identificazione personale e per via "mediale". Impossibile per altri interpretare lo stesso ruolo. Ma difficile anche selezionare il gruppo dirigente, tanto più il candidato premier, dal basso. Così il PdL, insieme al centrodestra, ha perso terreno. E lo ha, parallelamente, ceduto ai concorrenti. Al centrosinistra, al Pd. Allo stesso M5S. All'area grigia dell'incertezza. Per questo Berlusconi è ri-disceso in campo. Per opporsi alla scomparsa del PdL. Per ritardare, almeno, la fine della Seconda Repubblica. Fondata "da" e "su" Berlusconi. Sul "partito personale". Sulla "democrazia del pubblico".

Eccolo di nuovo. Il Cavaliere. Evoca la memoria del 2006 (come ha suggerito Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore). Quando tutti lo davano per sconfitto e lui, da solo, riuscì a rimontare. Fino, quasi, a pareggiare, contro il centrosinistra guidato da Prodi. Ma i tempi sono cambiati, da allora. Il PdL, oggi, pesa molto meno di FI, da sola. La Lega: è alla ricerca del terreno perduto. Fiaccata dagli scandali interni. Ma anche dalle divisioni. Non sarà facile tornare con Berlusconi, dopo un lungo periodo di opposizione. Contro il governo. Ma anche contro Berlusconi. Il quale, peraltro, oggi è molto debole, dal punto di vista del consenso personale. La fiducia nei suoi confronti si è ridotta al 20%. Alla fine del 2005 era intorno al 32% e nei primi mesi del 2006 era risalita oltre il 35% (dati dell'Atlante Politico di Demos). D'altronde la Tv, sua tradizionale alleata, oggi conta meno.

Peraltro, la posizione dei concorrenti appare molto più solida di allora. I consensi del Pd si aggirano intorno al 38%. Una misura, certamente, accentuata dalle primarie e dal declino dell'Idv. Tuttavia, il divario rispetto al PdL appare enorme. Difficilmente colmabile. Certo, la legge elettorale può complicare la conquista di maggioranze stabili al Senato. Ma, a differenza del 2006, Berlusconi e il Centrodestra non potranno contare sull'alleanza con i Centristi. L'Udc e le altre formazioni del Terzo Polo correranno da sole. Per se stesse e, soprattutto, contro Berlusconi. Perché il Cavaliere ha annunciato il suo ritorno "contro" Monti. Dunque, contro il Pd e, ancor più, contro il Terzo Polo di Centro. Che a Monti ha giurato fedeltà.

Eccolo di nuovo. Berlusconi. Nel 2006 si era presentato come l'Imprenditore contro i Nemici del Mercato. Fiducioso che non vi fossero "tanti coglioni che votano sinistra". Oggi, invece, è il leader dello schieramento "antipolitico". Farà campagna elettorale contro i comunisti del Pd, contro l'Euro e l'Europa. Contro Monti. Insieme alla Lega e in concorrenza con il M5S. Monti, da parte sua, ha annunciato le dimissioni, dopo la legge di stabilità. In questo modo, è divenuto l'attore protagonista. Della prossima campagna elettorale e, ancor più, della stagione dopo il voto. Anche se non è detto che "scenda in campo" direttamente. Che promuova una lista "personale". O che accetti di venire candidato (premier) da uno schieramento. Il Terzo Polo: rischia di essere un soggetto limitato, rispetto alle ambizioni del Professore. Il centrosinistra: come potrebbe proporre il suo nome, dopo aver mobilitato milioni di elettori per scegliere il candidato premier? (E poi, come la prenderebbe Sel?).

Annunciando le dimissionI da premier, Monti ha rifiutato di diventare bersaglio della campagna elettorale di Berlusconi. E di altri soggetti politici. Ma, in questo modo, costringerà tutti a esprimersi e a "schierarsi" sulla sua esperienza di governo. Sulle riforme fatte e su quelle non fatte. Sul suo ruolo. In politica interna, ma anche in politica estera. Nei rapporti con la Ue, la Bce, l'Fmi. Con gli altri governi internazionali. Presso i quali il Professore gode di largo credito.
Monti, d'altronde, dispone ancora di un ampio consenso personale anche in Italia, superiore al 47%. Mentre il suo governo ha la fiducia di circa il 44% degli elettori (Dati Demos, dicembre 2012). Un sostegno ampio rispetto ai governi che l'hanno preceduto, in tempi assai meno difficili. Ma anche in confronto ai governi e ai premier degli altri paesi europei  -  in condizioni economiche migliori del nostro.

Che si presenti come candidato premier (non come parlamentare, ovviamente, visto che è senatore a vita) oppure no, Monti è destinato ad essere il protagonista della prossima campagna elettorale. Il nuovo Muro che attraversa la politica italiana. E divide partiti ed elettori. Pro o contro.
Ciò rafforza l'idea che le prossime elezioni costituiscano una svolta. Perché offrono l'occasione per chiudere la Seconda Repubblica. Di andare oltre il Berlusconismo. Oltre Berlusconi. Definitivamente.

(10 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/10/news/ritorno_berlusconi_diamanti-48431563/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il dilemma del Professore
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2012, 04:06:19 pm
Il dilemma del Professore

di ILVO DIAMANTI


La Seconda Repubblica è finita, ma non del tutto. Il leader che l'ha inventata e guidata, per quasi vent'anni, è ancora lì. Silvio Berlusconi. Non si decide a uscire di scena. Per il bene del Paese. E, in primo luogo, "per i miei interessi", come ha esplicitamente affermato negli scorsi giorni. Da ciò la difficoltà di costruire una democrazia "normale", fondata sull'alternanza possibile.

Da ciò la difficoltà di Mario Monti, nella ricerca di un ruolo, dopo le prossime elezioni. Monti: vorrebbe continuare l'opera avviata un anno fa. Ma sulla base di un'investitura democratica e non aristocratica. Per volontà popolare e non del Presidente. Dopo una consultazione elettorale in Italia e non per scelta degli "altri". Su Monti, come si è visto anche nell'ultima settimana, "investono" i Popolari europei. La Merkel in testa. Ma anche il presidente francese, Hollande, socialista, ha espresso la sua stima verso il Professore.

I leader politici (oltre ai mercati) internazionali si chiedono perché mai gli italiani debbano esporsi al rischio di eleggere  -  democraticamente  -  un governo "populista". Oppure una maggioranza fragile, condizionata da forze politiche anti-europee. Com'è già avvenuto in passato. I leader e i mercati stranieri: si chiedono (talora apertamente) perché gli italiani debbano andare al voto, quando dispongono già di un premier "affidabile" (dal loro punto di vista).

"Purtroppo" la democrazia ha le sue regole. E i suoi rischi. Da troppo tempo  -  per citare Marc Lazar  -  l'Italia costituisce un interessante "laboratorio" dei cambiamenti  -  e delle distorsioni  -  delle democrazie europee. E, per questo, opera in una situazione instabile. Sarebbe ora che entrasse in una "noiosa" condizione di "normalità". Superando le deviazioni della Seconda, ma anche della Prima Repubblica. Non è ancora possibile, pare. Come dimostrano i dilemmi di Monti, in questa fase.

Il Professore vorrebbe, infatti, riproporsi come premier, dopo le elezioni. Ma è difficile trovare una posizione adeguata alle sue  -  legittime e comprensibili  -  aspirazioni. La "casa" più sicura e coerente, in base all'esperienza recente, sarebbe il centrosinistra. In particolare: il Pd. Che i sondaggi stimano in largo vantaggio. Soprattutto dopo le primarie. Le quali, tuttavia, hanno garantito un largo consenso a Bersani. Indicare un candidato diverso  -  o un premier diverso, dopo il voto  - significherebbe vanificare la volontà degli elettori. Dire loro  -  e a tutti  -  che il centrosinistra aveva scherzato.

Un'altra ipotesi, di cui molto si parla, prevede che Monti venga candidato dalle forze politiche di Centro. L'Udc, Fli, la lista promossa da Montezemolo. Una soluzione che potrebbe fare del Terzo Polo l'alternativa vera al centrosinistra. Anche perché l'attuale sistema elettorale, il cosiddetto Porcellum, concepito in era berlusconiana e mantenuto con il concorso determinante di Berlusconi, ha prodotto un duplice effetto: maggioritaria e personale. Spingendo, cioè, la competizione elettorale in senso bipolare e presidenziale. Ha, infatti, opposto fino ad oggi Berlusconi al candidato della sinistra. Prima Prodi (l'unico ad averlo battuto, per due volte). Poi Veltroni. Ma oggi Berlusconi ha un consenso personale limitato. La sua parabola si è conclusa nell'autunno di un anno fa. Quando ha dovuto "arrendersi" e rassegnare le dimissioni. Costretto da vincoli esterni, ma prima ancora interni. Dalla crisi di fiducia nel Paese e dall'incapacità di tenere insieme la sua maggioranza. Oggi, il suo ritorno politico ha permesso al Pdl di risalire. Ma di poco: 3-4 punti. Il suo partito: non arriva al 20%. E poi: è diviso. Berlusconi. La stessa Lega: esita ad allearsi con lui. Come potrebbe dimostrare la propria volontà di rinnovamento, ripresentandosi di nuovo al voto con Berlusconi?

Per questo, se Monti divenisse il candidato premier del Centro, il Terzo polo potrebbe trasformarsi nel Secondo. L'alternativa al centrosinistra. Egli stesso diverrebbe, a sua volta, l'alternativa a Bersani. Il suo avversario. Per l'improponibilità di Berlusconi. Per il basso grado di legittimità delle forze di centrodestra. Ma anche per il consenso personale di cui dispone il Professore  -  risalito oltre il 50% nell'ultima settimana (come segnalano i sondaggi di Demos e Ipsos).

Chiarisco subito che, a mio avviso, si tratterebbe di una prospettiva "normale" e, anzi, auspicabile  -  in altri tempi e in altri contesti. Proporrebbe, infatti, l'alternativa fra due candidati e due aree politiche "compatibili". Una più lib e l'altra più lab. Entrambe, sostanzialmente, europee e democratiche. Il problema, tuttavia, è che in questa fase e in queste condizioni, un Patto di Centro guidato da Monti attrarrebbe non solo i voti "moderati", ma anche il sostegno personale di Silvio Berlusconi. Il quale, anche ieri, nel lungo monologo "recitato" a Canale 5, ha ribadito la propria disponibilità a fare un passo indietro. Ma solo se Monti si candidasse. In altri termini, Monti apparirebbe non solo "colui che unisce i moderati", ma il garante del Cavaliere e dei suoi.

Per questo oggi Monti si trova in una posizione critica. Perché non può essere candidato dal centrosinistra. Neppure in modo furbescamente mascherato. L'ipotesi di staffetta, di cui si è parlato negli ultimi giorni, appare, infatti, discutibile. Perché gli elettori hanno il diritto di sapere per chi e perché votano. Al momento del voto. Per quale premier e quale maggioranza.

Ma se Monti (per citare Eugenio Scalfari) "cadesse in tentazione" e si candidasse con il Centro, diverrebbe l'alternativa a Bersani. In particolare se Berlusconi facesse un passo indietro. Difficilmente potrebbe, domani, allearsi con il centrosinistra. Tanto meno divenire premier di una coalizione di "unità nazionale". Se non nel caso che nessuno, al Senato, ottenesse la maggioranza dei seggi (ma Monti, per questo, dovrebbe tifare per la Lega e il Cavaliere, nelle regioni del Nord).

C'è, infine l'ipotesi, avanzata ieri, che Monti promuova una propria lista personale. In autonomia da tutti gli altri. In questo modo si metterebbe davvero in gioco. Tuttavia, per questo, rischierebbe molto. Alcuni sondaggi recenti (Swg, per esempio) gli attribuiscono intorno al 6%, che salirebbe al 15%. Però, appunto, insieme alle forze di Centro. Troppo poco, per coltivare ambizioni di premiership. Al contrario, abbastanza per comprometterle.
Per continuare a svolgere un ruolo di primo piano, nei prossimi anni, penso che il Professore debba, dunque e comunque, rifiutare, apertamente, l'offerta, ma anche i voti del Cavaliere. Prendere esplicitamente le distanze da lui. E quindi decidere. Se, come e con chi scendere in campo.

Ma solo "restando fuori", a mio avviso, potrebbe occupare, in seguito, ruoli istituzionali importanti. Oppure ruoli di governo. Nella coalizione vincente. O al di sopra delle parti. In caso di particolare emergenza.
Mario Monti, più di ogni altro, oggi può contribuire a "normalizzare" la nostra democrazia. Spezzando, definitivamente, il filo che ancora ci lega alla Seconda Repubblica. Cioè, a Silvio Berlusconi.
Ma, proprio per questo, deve "restare fuori".

(17 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: ILVO DIAMANTI - Il cavaliere solitario per istinto e strategia
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2012, 06:32:50 pm
Il cavaliere solitario per istinto e strategia


di ILVO DIAMANTI

SOLO contro tutti. È la parte che, oggi, recita Berlusconi. Un po' per istinto e per sentimento. Un po' per calcolo e per strategia. Per istinto e sentimento. Perché non si fida di nessuno. Neppure dei "suoi". Anzi, soprattutto di loro. I leader alleati (fino a pochi anni fa). Fini e Casini, postfascisti e neodemocristiani. Miracolati. Sdoganati e recuperati da lui, nei primi anni Novanta. Quand'erano gli esemplari sopravvissuti di una specie in via di estinzione. Destinati a scomparire. Oppure a finire fuori gioco. Emarginati ed esclusi. Berlusconi ha offerto loro un ruolo di primo piano. E loro, in cambio, hanno tramato per la sua successione. Fino ad abbandonarlo. Lasciandolo solo. Come ha fatto gran parte dei parlamentari del Pdl e del centrodestra.

Lo scorso ottobre, dopo la condanna del Tribunale di Milano a suo carico per frode fiscale, nel processo Mediaset. Berlusconi. Si è sentito vulnerabile. Ed è tornato. È sceso di nuovo in campo. Meglio, in campagna elettorale. Anzitutto e soprattutto in televisione. Abituato com'è a considerare la tivù la grande madre dell'Italia media. L'Italia dei media. Il Paese dove, ancora oggi, l'80% degli italiani usa ogni giorno la tivù per informarsi (Sondaggio Demos-Coop, dicembre 2012). Il problema, semmai, è che Berlusconi si è abituato a comunicare solo da solo. Attraverso monologhi. Non sopporta i dialoghi, le interviste serie. Le domande: per lui sono interruzioni. Quasi aggressioni. Tanto più se avvengono  -  come ieri pomeriggio  -  su RaiUno, la Rete istituzionale. In una trasmissione pop-olare, come l'Arena. Allora reagisce con sdegno. Minaccia il conduttore, Massimo Giletti, di andarsene. E fatica a riprendere il controllo di se stesso.
Forse anche per tattica. Per recitare da solo contro tutti. Solo davanti a tutti. Amato e, magari, odiato. Ma non ignorato. Dimenticato. L'unico silenzio sopportabile, per lui, è quello  -  fragoroso  -  degli ultimi mesi. Quando parlava senza parlare. Appariva senza apparire. Per far evaporare l'ondata di impopolarità che lo aveva travolto nel corso del 2011. Lui, costretto a farsi da parte. Ma sempre lì. Incombente. Pronto a ritornare.

Ma Silvio Berlusconi, oggi, agisce da solo contro tutti anche per calcolo e per strategia. Per imporre se stesso come attore politico "centrale"  -  e al tempo stesso principale "frattura"  -  della competizione politica ed elettorale. Com'è avvenuto negli ultimi vent'anni. Nella Seconda Repubblica, dove Berlusconi ha costruito e costituito il nuovo "muro" che divide l'opinione pubblica e gli schieramenti. Pro o contro di lui. Teme, Berlusconi, che questa situazione cambi. Di venire emarginato. E, quindi, sconfitto. Perché questo sistema elettorale, il cosiddetto Porcellum, progettato e imposto da lui e dalla sua maggioranza nell'autunno del 2005, ha effetti bipolari. E, per certi versi, presidenziali. Tende, cioè, a trasformare la competizione elettorale in un confronto fra due leader, due persone. A capo di due coalizioni. Che si contendono il governo in loro nome. Una delle tante anomalie di questa Repubblica preterintenzionale, dove le riforme si affermano nella pratica. Senza bisogno di riforme. Berlusconi teme di diventare un concorrente insieme ad altri. Bersani e Monti per primi. Teme di perdere la rappresentanza e, prima ancora, il marchio dei "moderati".

Teme: che i moderati vengano interpretati, dopo tanto tempo, da un moderato vero. Un liberale come Monti. Mentre, a lungo, sono stati riassunti nell'alveo dell'estremismo mediatico e populista  -  piuttosto che popolare. Per questo, anche ieri, su RaiUno, Berlusconi ha ribadito la necessità che gli italiani lo votino  -  contro la Sinistra di ispirazione veterocomunista. E ha insistito sulla necessità di isolare il Centro. Di Casini, Fini, Montezemolo. E di Monti che, anche senza essersi espresso apertamente, potrebbe divenirne la bandiera. La figura di riferimento. In grado di attrarre altri "moderati" dei due schieramenti. Un grave rischio per Berlusconi. Doversi misurare non solo con un "vecchio boiardo" del Pci. Ma con un "moderato". Accreditato in ambito internazionale. Così, per imporsi come "l'altro polo" della competizione bipolare, alternativo al Pd e a Bersani, per difendersi dalla "minaccia moderata", Berlusconi non esita a riprendere il repertorio populista. A recitare il copione antipolitico. Contro l'euro e contro l'Unione europea. Contro la Germania. Contro la Merkel e il suo "sottopancia", Sarkozy.

Argomenti usati dalla Lega, ma anche e soprattutto da Grillo e dal M5s. Di cui imita il linguaggio e il personaggio. Anche se in modo diverso e alternativo. Perché Grillo "usa" la tivù, senza andarci. Ma, anzi, sanzionando gli esponenti del suo movimento che vi partecipano. Anche se in televisione Grillo imperversa. Con i videomessaggi ripresi dal suo blog. Con i comizi registrati in piazza. Con le traversate a nuoto dello Stretto e altri eventi concepiti apposta  -  per sollevare rumore mediatico. Berlusconi, invece, considera la televisione "casa sua". Ma recita la parte del perseguitato. Vittima di una congiura ordita da gran parte dei giornali e delle reti  -  che non siano di sua proprietà.

Insomma, Berlusconi sfida Monti, ma anche Grillo, sul loro terreno. Monti: incapace di "mantenere le promesse". Di realizzare ciò che Berlusconi non aveva potuto attuare, per vincoli esterni. (Non l'avevano lasciato governare...). Grillo: caso esemplare di degrado dell'homo politicus, ridotto nuovamente a scimmia. Più antipolitico e antieuropeo di Grillo. Berlusconi mira a riprendersi i voti degli elettori di centrodestra delusi, confluiti, negli ultimi mesi, nel M5s. Mentre, al tempo stesso, cerca di ridimensionare il ruolo e le competenze di Monti. In fondo, scandisce il Cavaliere, è solo un professore. "Non è mai stato nella trincea del lavoro, non è mai stato protagonista dell'economia". Anche per questo si "rifugia" nel centro. Che, nella competizione elettorale, in Italia, non costituisce un luogo "centrale", ma "residuale". Un'intercapedine del sistema politico.

Silvio Berlusconi, dunque, va alla guerra - elettorale. Combatte da solo. La solitudine non lo spaventa. Lui teme l'indifferenza. Il silenzio. Così, probabilmente, oggi si può dire soddisfatto. Perché è sulla bocca e sugli occhi di tutti. Io stesso gli ho dedicato, per intero, questa Mappa.
Eppure, certamente, tutto ciò non gli basta. Non gli può bastare. Per essere solo. Perché, per ora, è ancora "uno tra gli altri". Come altri. Lo sfidante di Bersani, Monti, Grillo... Più che il Muro: una trincea.

(24 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - repubblica,it


Titolo: ILVO DIAMANTI Politica, volontariato e lavoro: il Paese liquido torna a sognare
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2013, 11:57:52 am
Politica, volontariato e lavoro: il Paese liquido torna a sognare

MAPPE.

Nel Rapporto Demos su "Gli italiani e lo Stato 2012", la convinzione della società civile che i nostri vizi storici possono essere superati.

Dissolte le vecchie istituzioni, si può ricostruire.

Cala la fiducia nella Chiesa e anche nel Quirinale, crisi di credibilità per il Parlamento.

Attesa per il leader del Pd e il premier uscente

di ILVO DIAMANTI


Viviamo tempi liquidi. Ricorro alla metafora - nota e fin troppo usata - di Zygmunt Baumann. Il quale, per descrivere i cambiamenti del nostro tempo, ha liquefatto tutto. Dalla società alla modernità. All'amore. Tuttavia, nessun'altra definizione mi pare altrettanto efficace per riassumere i dati di questa XV indagine di Demos (per Repubblica), dedicata al rapporto fra gli Italiani e lo Stato. Anni liquidi.

LE TABELLE su repubblica.it

Per il logoramento subìto dai principali riferimenti sociali. Le istituzioni: hanno perduto credibilità e fiducia fra i cittadini, negli ultimi anni. A partire dalle più accreditate: le Forze dell'ordine e il Presidente della Repubblica. La stessa magistratura arranca (10 punti in meno negli ultimi due anni). E poi i governi territoriali: Comuni e Regioni, fino a poco tempo fa simboli del federalismo, alternativi al centralismo statale. Cedono anch'essi. In misura significativa. Come le associazioni di rappresentanza economica - sindacali e imprenditoriali. Per non parlare delle banche. Per definizione, istituti di "credito"... In costante perdita di "credito".

È come se la società non riuscisse a salvaguardare i suoi argini, le sue radici. Sotto i colpi della crisi economica, ma non solo.
E divenisse (appunto) sempre più liquida. D'altronde, la fiducia negli attori della democrazia rappresentativa è ridotta a livelli minimi.
Non parliamo solo dei partiti ma, soprattutto, del Parlamento. È inquietante vedere come solo il 7% degli italiani lo ritenga credibile.
Non sorprende, dunque, che oggi solo il 22% esprima fiducia nello Stato. Circa 7 punti meno di un anno fa. Nell'insieme, dal 2005 ad oggi l'indice medio di fiducia degli italiani verso le istituzioni politiche e di governo, è sceso dal 42% al 29%. Quello verso le istituzioni economiche e sociali dal 35% al 22%. Difficile non dirsi d'accordo con Sabino Cassese e Barbara Spinelli, quando - utilizzando prospettive diverse - definiscono l'Italia una "società senza Stato".

Anche se, in questa fase, neppure la società e le sue istituzioni se la passano troppo bene. Non solo le associazioni imprenditoriali e sindacali, come abbiamo già detto. Anche la fiducia verso la Chiesa non è mai stata tanto bassa: 44%. Quasi 20 punti meno di dieci anni fa. L'unica istituzione in ripresa è l'Unione Europea. Si è attestata al 43%. Un rimbalzo di sette punti rispetto a un anno fa. Tuttavia, il consenso nei suoi confronti era già declinato sensibilmente negli anni scorsi, visto che ancora nel 2008 si aggirava intorno al 58%. Si tratta, peraltro, di un atteggiamento ambivalente. La Ue, infatti, viene accettata "nonostante". Suscita insoddisfazione, ma la gran parte degli italiani pensa che "senza" o "fuori" di essa sarebbe molto peggio. Un sentimento analogo a quello verso i servizi. Sanità, scuola, trasporti. L'insoddisfazione nei loro confronti è, infatti, cresciuta anche nell'ultimo anno. Soprattutto riguardo a quelli pubblici. Tuttavia, solo una piccola porzione di cittadini - due su dieci - ritiene opportuno allargare lo spazio del privato.

Anni liquidi. Si è logorata perfino "l'arte di arrangiarsi". La loro (nostra) "consumata" capacità di adattarsi. Di reagire alle difficoltà - e di creare, innovare - usando le risorse disponibili, nella società e nell'ambiente. Si sta "consumando" (Demos per Intesa Sanpaolo, novembre 2012). Così "non ci resta che la famiglia". L'unica istituzione e l'unico riferimento in cui gli italiani si riconoscano. A cui si aggrappino. In questi anni liquidi.

Eppure, alla fine del 2012, il più liquido di tutti, il Paese si scopre - se non proprio più ottimista - un po' meno pessimista di prima. Secondo il 37% degli italiani, infatti, il 2013 sarà migliore di quello che stiamo lasciando. Mentre il 25% ritiene che sarà peggiore.
Un anno fa il quadro appariva rovesciato: gli ottimisti erano il 27% e i pessimisti il 42%. Ancora: cresce la fiducia nella capacità del Paese di sfidare i propri vizi storici. Per prima: la lotta all'evasione fiscale. Mentre si rafforza la convinzione che l'economia riprenderà slancio. E che l'immagine e la credibilità internazionale dell'Italia migliorerà. Infine, occorre sottolineare come, secondo l'indagine di Demos per Repubblica, la partecipazione sociale non sia calata nell'ultimo anno ma sia, invece, cresciuta sensibilmente rispetto a cinque anni fa (dal 54% al 60%). Segno di una diffusa disponibilità a - e volontà di - cambiare.

Da ciò un quesito. Un dubbio. Com'è possibile coltivare un - per quanto tiepido - sentimento di ottimismo in tempi tanto liquidi? Affaticati dalla crisi - economica e politica? Tenendo conto che si tratta di un sentimento nuovo e diverso, rispetto agli ultimi anni.

È possibile - anzi, probabile - che i due atteggiamenti si spieghino reciprocamente. Che la destrutturazione del passato alimenti la speranza di strutturare il futuro. In fondo, questo è l'anno di Monti (come emerge dal sondaggio di Demos). Al di là dei giudizi sul suo operato e sul suo ruolo: è il "dopo Berlusconi". Così come Grillo: "attore" della messa in scena (anti) politica. Entrambi, sintomi e simboli di un cambio d'epoca. Una svolta. E se è vero che Silvio Berlusconi è ritornato, ancora una volta. Se invade gli schermi con gli stessi proclami di 5-10-20 anni fa. È, tuttavia, difficile non percepirlo come un segno del passato. Il passato. L'icona liquida di un Paese liquido.
D'altra parte, solo una minoranza circoscritta degli italiani (intorno al 13-16%) pensa che Berlusconi possa vincere le elezioni e diventare premier. La maggioranza prevede - ragionevolmente - il successo del Centrosinistra (44%) e scommette sul primato di Bersani (28%).
Al più: di Monti (il 27% lo vorrebbe premier).

L'idea che il 2013 possa essere migliore del 2012 e degli anni precedenti non costituisce, dunque, un auspicio rituale (dettato, magari, da disperazione.) Riflette, piuttosto, la sensazione diffusa che l'anno trascorso segni la fine di un ciclo. Un cambio d'epoca. E ciò suscita inquietudine ma anche attesa. Perché se il passato è scritto e de-scritto, il futuro è un libro con molte pagine bianche. Non ancora scritte. Che noi stessi possiamo scrivere. Almeno in parte. Allora, tanti auguri! E buon anno (liquido).

(31 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/31/news/italiani_politica_speranza-49713312/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Io sono un conservatore
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2013, 04:12:38 pm
Io sono un conservatore


Ilvo DIAMANTI

   
Conservatori. È l'accusa che Mario Monti ha rivolto a Stefano Fassina, Nichi Vendola. E a Susanna Camusso. I quali, da tempo, avevano imputato al Professore, questo stesso peccato capitale. Monti: colpevole di essere un "conservatore". Perché i conservatori, in Italia, sono impopolari. E stigmatizzati. Da sinistra, ma anche da destra. Nessuno che ammetta di esserlo.

Ebbene, vorrei fare coming out. Io sono un conservatore. Non riesco ad ad accettare i sentieri imboccati dal cambiamento. Molti, almeno.
Il paesaggio urbano che mi circonda. E mi assedia.
La plaga immobiliare che avanza senza regole e senza soste.
L'indebolirsi delle relazioni personali e dei legami comunitari.
Il declino dei riferimenti di valore  -  perfino di quelli tradizionali.
La famiglia ridotta a un centro servizi, a un bunker sotto assedio.
La retorica dell'individualismo esibizionista e possessivo. Che ci vuole tutti imprenditori  -  di se stessi.
La Rete come unico "spazio" di comunicazione.
Gli smartphone che rimpiazzano il dialogo fra persone.
I tweet al posto delle parole.
La relazione senza empatia.
Le persone sparse che parlano  -  e ridono, imprecano, mormorano - da sole.

In tanti intorno a un tavolo, oppure seduti, uno vicino all'altro. Eppure lontani. Ciascuno per conto proprio, a parlare con altri. In altri luoghi - distanti. Tempi strani, nei quali tanti si sentono "spaesati", perché il "paese" appare un residuo del passato. E la "comunità": un fantasma della tradizione. Il lavoro senza regole e senza continuità. La flessibilità senza fine e senza un fine. Cioè: la precarietà.
La politica senza società, il partito personale, riassunto in un volto e in un'immagine. Dove i consulenti di marketing hanno sostituito i militanti. E al posto delle sezioni si usano i sondaggi (d'altronde, quando si dà la possibilità ai cittadini di esprimersi si recano a milioni, alle urne, di domenica e persino a capodanno).

Insomma: i personaggi, gli interpreti e i luoghi della modernità liquida. Non mi piacciono. Li conosco ma non mi ci riconosco.
Magari li subisco  -  in silenzio. Ma preferisco  -  di gran lunga - "conservare" quel che resta: del territorio, della comunità, delle relazioni personali, dell'economia "giusta", della politica come identità. Il "nuovo" come valore in sé non mi attira.

Lo ammetto: sono un conservatore. E ne vado orgoglioso.

(04 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/01/04/news/io_sono_un_conservatore-49882360/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Lega al bivio: meglio sola o male accompagnata?
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2013, 07:33:23 pm
Mappe / La Lega al bivio: meglio sola o male accompagnata?

di ILVO DIAMANTI


L'ACCORDO fra la Lega e il Pdl, molto probabilmente, si farà. Nonostante i dubbi della Lega. Ma Berlusconi non può farne a meno. Per non finire ai margini. Sconfitto dal Pd - vincitore annunciato.

Vincitore annunciato, il Pd, con fin troppo anticipo, per non comportare qualche rischio. Ma anche, soprattutto, da Monti e dalle sue liste.
Per coltivare la speranza di contare, nel futuro Parlamento, grazie a un buon risultato al Senato. Nel Nord e soprattutto in Lombardia, dove si vota anche per rinnovare il governatore e il Consiglio regionale. Un accordo, quindi, obbligato. Ma non è detto che convenga davvero a tutti.
O meglio, conviene sicuramente a Berlusconi. Il quale rischia, altrimenti, non solo di perdere le elezioni, ma, soprattutto, la dissoluzione del Pdl. Il suo partito personale. Che da solo, non ha chance di competere. Ma se il Pdl e lo stesso Berlusconi non esercitassero, almeno, un potere di interferenza e di veto, in ambito parlamentare perderebbero anche il loro potere sul territorio. In altri termini: si perderebbero.
Molto diversa è, invece, la posizione della Lega. Per oltre dieci anni alleata fedele di Berlusconi. Oggi rischia di diventare ostaggio del Cavaliere. Il quale, nel caso di mancato accordo, minaccia di far cadere tutte le giunte del Nord, dove la Lega è al governo con il centrodestra. Perché non è detto che l'intesa con Berlusconi e il Pdl offra alla Lega di Maroni benefici superiori ai costi - politici ed elettorali.

La Lega, infatti, attraversa una stagione difficile - da cui non è ancora uscita. Dopo essere stata coinvolta da scandali che hanno investito i suoi gruppi dirigenti e, in primo luogo, la leadership di Umberto Bossi. Insieme al "cerchio" stretto dei suoi fedeli (e dei suoi familiari). Con effetti pesanti sul piano elettorale. In poche settimane, infatti, il peso elettorale leghista, stimato dai sondaggi, si è quasi dimezzato. Da oltre il 10% a meno del 5%. Per ragioni evidenti. La Lega ha costruito il proprio consenso sul principio della "diversità".
Dagli altri partiti. Dal "ceto politico". Si è proposta e imposta come "alternativa". Ha alimentato e intercettato il clima antipolitico perché considerata, a sua volta, non un partito. Ma un "anti-partito". Alternativo e antagonista rispetto ai partiti "romani". Lontani dal territorio e dalla società. Dal Nord - patria della rivolta contro il potere politico corrotto e inefficiente. Gli scandali dell'ultimo periodo hanno seriamente danneggiato il "principio della diversità" leghista. La Lega di lotta e di governo. Per questo motivo Roberto Maroni ha dovuto agire "contro" Bossi (suo amico di sempre). Ma soprattutto contro il cerchio di amici e familiari che gli stava intorno. E contro Berlusconi.
Complice di Bossi. Interprete, ma anche simbolo, dell'intreccio fra politica e affari. Che riguarda il Cavaliere, sul piano personale, ma, ancor di più, il ceto politico del partito, a livello nazionale e locale. Reclutato sulla base della fedeltà e degli interessi, assai più che dei valori e della competenza. Forza Italia e il Pdl: partiti-azienda, emblemi della politica come marketing.

La Lega di Maroni, non a caso, ha preso le distanze da quel modello e dal suo artefice. Dal Cavaliere e dalla sua corte. Dalla classe politica del Pdl. Ha, invece, investito sugli amministratori locali e regionali, per fronteggiare, almeno sul territorio, i principali concorrenti.
La "delusione" - che ha spinto molti elettori leghisti nell'area dell'indecisione e dell'astensione. Verso il M5S di Beppe Grillo, che ha intercettato l'insoddisfazione e la frustrazione di molti leghisti contro i partiti. Anche - soprattutto - nei confronti della Lega. Maroni.
Ha rotto, per questo, con il centrodestra, insieme a cui governava la Lombardia. Ha, inoltre, fatto opposizione dura al governo Monti. Sostenuto, fino a novembre, anche da Berlusconi e dal Pdl.

Maroni. Per rappresentare la Lega all'esterno, si è affidato a figure molto diverse. Ma, comunque, visibili e presenti sui media.
Un "antagonista", dal linguaggio esplicito, come Matteo Salvini. Ma, soprattutto, un amministratore poco leghista, come Tosi. Sindaco di Verona. Ri-eletto, nel maggio 2012, in piena "crisi" della Lega, con il 57%, alla testa di una civica "personale".

Il rischio, per la Lega di Maroni, è che l'accordo con Berlusconi e il Pdl vanifichi questo faticoso percorso di "riabilitazione". Che, negli ultimi mesi, ha cominciato a produrre qualche piccolo risultato. Visto che i sondaggi la danno in - lenta - risalita. Oltre la soglia del 5%. (Più di quanto aveva ottenuto alle politiche del 2006.) D'altronde, gli elettori "delusi", che hanno abbandonato la Lega nell'ultimo anno, si mostrano diffidenti nei confronti di Berlusconi. Gli preferiscono Grillo. Mentre gli stessi elettori "fedeli" appaiono tiepidi verso il Cavaliere. L'ipotesi, avanzata da Berlusconi, di affidare a un altro  -  Alfano o perfino Tremonti  -  il ruolo di premier, non risolve il problema. Perché il leader della coalizione rimarrebbe lo stesso. Visto che nel Pdl a comandare è - e resterebbe - uno solo. Berlusconi.

Da ciò il dubbio (confermato da alcuni sondaggi). La Lega, presentandosi da sola, con un proprio candidato premier (per esempio: Tosi), potrebbe allargare notevolmente gli attuali consensi. Molto più che se si presentasse in compagnia di Berlusconi e del Pdl. La Lega, tuttavia, è indotta a siglare l'accordo per il timore di perdere la rappresentanza in Parlamento. Per competere alla presidenza della Lombardia. Per non rischiare la presidenza del Veneto e del Piemonte.

In questo caso, però, l'immagine dei lunedì, ad Arcore, con Bossi e il figlio a cena da Berlusconi: riapparirebbe.
E comprometterebbe la ricostruzione - della credibilità - avviata la primavera scorsa. Ancor più delle inchieste della Procura.
(È di ieri l'ultima, sulle spese del gruppo al Senato).

L'accordo tra Berlusconi e la Lega appare, dunque, probabile, anzi quasi certo. Berlusconi ne ha bisogno ed è disposto a tutto pur di siglarlo. Mentre alla Lega pone un'alternativa insidiosa. Un dilemma difficile. Perdere -  subito - il governo delle regioni del Nord. O rischiare di perdere, per sempre.

Voti e identità. 

(07 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/07/news/mappe_carroccio_solo_o_male_accompagnato-50032198/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il segnale che arriva dalle regioni rosse
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2013, 11:59:23 pm
Il segnale che arriva dalle regioni rosse

di ILVO DIAMANTI


PIÙ DI TRE MILIONI di persone che vanno a votare il candidato premier del centrosinistra fanno sicuramente bene alla nostra democrazia. Tre milioni. Come alle precedenti Primarie del 2009, ma un po' meno del 2007. Nonostante riguardassero solo il Pd, mentre nel 2005 la candidatura di Prodi aveva mobilitato oltre 4 milioni di elettori di centrosinistra.

Ma erano altri tempi. Perché oggi la fiducia nei partiti, nei politici e nel Parlamento è ai minimi storici. Eppure ci sono ancora 3 milioni di persone e oltre disposte a uscire di casa, la domenica, per recarsi ai seggi, dopo essersi iscritte alle liste. Facendo la fila, anche due volte. (Le complicazioni burocratiche hanno influito anch'esse, sulla partecipazione.) E ci sono decine di migliaia di volontari ai seggi. Il sabato, la domenica magari anche il lunedì.

È una buona notizia. Per nulla scontata. Per la nostra democrazia, prima ancora che per il Pd. Il quale, peraltro, ne ha beneficiato in modo evidente. Non solo perché il numero di cittadini che si è recato alle urne è stato di 3,6 volte superiore al numero di iscritti al Pd. (Come ha annotato l'Istituto Cattaneo nel suo Report.) Ma anche perché, negli ultimi mesi, il Pd, nelle stime elettorali, è risalito di quasi 10 punti percentuali. Oggi è oltre il 32% (secondo Ipsos).

Per questo il ballottaggio fa bene al Pd. Perché allunga i tempi della mobilitazione, ma anche dell'attenzione mediatica. Che alimentano il consenso. Ragionando sui risultati, mi pare emergano alcuni aspetti, (solo) in parte sottolineati dalle analisi proposte "a caldo".

1. Il ballottaggio rivela una competizione di leadership reale, dentro il Pd. Fino ad oggi le Primarie non avevano mai avuto storia. Oggi appaiono aperte. E anche questo spiega l'interesse e la partecipazione che le hanno caratterizzate. Certo, Bersani è il favorito. Ma non il vincitore annunciato. Perché Renzi ha conseguito un risultato ragguardevole. Circa il 36%: 9 punti meno di Bersani. Tanto, ma non troppo.

Nelle competizioni a doppio turno, infatti, ogni turno fa storia a sé. Ed è improprio calcolare voti "esterni" ai due candidati del ballottaggio in base alle indicazioni dei leader. Così, i voti di Vendola non sono, automaticamente, trasferibili a Bersani. Molti suoi elettori del primo turno, come emerge dai messaggi in rete, potrebbero, infatti, orientarsi verso Renzi, perché esprime meglio la domanda di "rottura" con il passato. Con le burocrazie di partito.

2. Peraltro, se ripercorriamo il risultato dei due principali candidati su base territoriale, emerge una geografia significativa. E non del tutto prevedibile. Bersani prevale in 17 regioni su 20. Nel Nord e soprattutto nel Mezzogiorno. In Calabria, Sicilia, Sardegna e Campania, Basilicata. Dove supera la maggioranza assoluta. Renzi, invece, avvicina Bersani nel Nord, soprattutto in Piemonte e nel Veneto. E, paradossalmente, si afferma nelle Regioni Rosse  -  esclusa l'Emilia Romagna. In Toscana, ma anche in Umbria e Marche.

Proprio lui, sospettato di "berlusconismo". Bersani, presumibilmente, cumula e associa due modelli di radicamento tradizionali nel Pd. A) L'elettorato orientato dagli apparati e dall'organizzazione sul territorio. B) L'elettorato post-comunista, passato attraverso i Ds. Renzi, invece, si afferma nelle (ex)zone di forza della Margherita, nel Nord (Cuneo, Asti, la pedemontana veneta). E attira componenti di elettori critici verso la classe politica e verso i gruppi dirigenti del Pd. Soprattutto dove sono al governo (le zone "rosse"). Come mostrano i dati di alcuni sondaggi.

3. L'alternativa fra i due candidati, dunque, riflette la distinzione vecchio/nuovo (agitata da Renzi, attraverso lo slogan della "rottamazione"). Rispecchia, inoltre, la frattura destra/sinistra, evocata da Bersani, Vendola e Camusso. Per marcare l'estraneità di Renzi rispetto alla tradizione del centrosinistra. Ma lo schieramento a favore o contro i due candidati è dettato anche da altre componenti, legate alla personalizzazione e allo stile di comunicazione che caratterizzano le Primarie. Ciò rende interessante e aperto il voto di domenica. Che potrebbe essere influenzato dal confronto faccia-a-faccia di mercoledì prossimo sulla prima rete Rai.

4. Anche per questo ritengo che le Primarie, fino al ballottaggio, imprimano all'opinione pubblica e alla stessa logica istituzionale una dinamica presidenzialista. Secondo il modello americano oppure quello francese (per quanto diversi).

Comunque vada il ballottaggio, credo che il Pd debba guardarsi, in seguito, da due rischi.

a) Il calo della passione e della mobilitazione dopo mesi di partecipazione, al centro dell'attenzione pubblica e mediatica. Per questo deve "normalizzare" e interiorizzare il modello sperimentato in questi mesi. E se la vita politica non può trasformarsi in un'eterna primaria, non deve neppure ridursi alla routine dei discorsi e dei negoziati nel chiuso delle sedi di partito, dei gruppi dirigenti, dei soliti noti.

b) Nel Pd occorre fare attenzione a non trasformare la competizione fra i "duellanti" in antagonismo. Renzi e Bersani e, soprattutto, i mondi che si sono aggregati e mobilitati intorno a loro: non debbono diventare alternativi. Ed esclusivi. C'è il rischio, altrimenti, che si elidano a vicenda. E che, invece di favorire la partecipazione larga e paziente di questo periodo, producano disincanto e frammentazione. Divisione.

In fondo, il Pdl, o ciò che ne resta, è lì. Alla finestra. Sospeso tra voglia e paura delle Primarie. Perché ancora oggi è un partito personale e mediale. Senza società e senza territorio. Il Pd e il centrosinistra, al contrario, sono nati e cresciuti nella società e nel territorio. Ma se ne sono dimenticati. Ora che sono tornati (nella società e nel territorio), ebbene, ci restino.
 

(27 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/11/27/news/il_segnale_che_arriva_dalle_regioni_rosse-47518922/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La video-politica di Silvio Munchausen
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2013, 05:56:22 pm
La video-politica di Silvio Munchausen

di ILVO DIAMANTI

DOPO Santoro, Berlusconi è alla caccia di Bersani. Lo vuole sfidare a duello. Davanti alle telecamere. Per sconfiggerlo. E, di conseguenza, vincere le elezioni. Perché dopo la performance a "Servizio Pubblico", si sta diffondendo la convinzione che la partita, fino a ieri considerata chiusa, si possa riaprire. Anzi: sia già riaperta. Il risultato più importante dell'avvio della campagna elettorale, in fondo, è proprio questo. Il ritorno del Cavaliere irriducibile e mai domo.

Come il Barone di Münchhausen che si solleva dallo stagno tirandosi per il codino. Un vero miracolo (non fosse altro per i capelli...). A cui Berlusconi ci ha abituato in altre occasioni. Tuttavia, più che di un miracolo si tratta di una leggenda. Scritta da Berlusconi a proprio vantaggio. Perché la televisione contribuisce a orientare il gioco elettorale. Ma sono altri i fattori a determinare il risultato. Berlusconi ne è consapevole. E ha utilizzato la televisione, insieme ai sondaggi, per annunciare profezie che si auto-avverano. Puntando sulla propria presenza oppure assenza. A seconda dei casi e delle opportunità.

A partire dal 1994, quando "scende in campo" e invade la televisione. In particolare, le proprie reti. Fino al "faccia a faccia" con Occhetto su Canale 5, da Mentana. Dove Berlusconi annuncia che i sondaggi lo danno nettamente vincitore. E Occhetto replica: "Ma siamo in ripresa...". Cioè: abbiamo perso. La sconfitta dei "progressisti", tuttavia, era già stata scritta. Dalla capacità di Berlusconi di interpretare la nuova legge elettorale maggioritaria. E di utilizzare il marketing elettorale per promuovere il proprio prodotto. Anzitutto: se stesso. Artefice del "nuovo" in politica. Un marchio di successo. Attraverso la tivù, inoltre, Berlusconi polarizza il confronto elettorale. Escludendo il "terzo polo", allora rappresentato dal Patto per l'Italia, composto dal Ppi e dal Patto Segni. Così la campagna elettorale si traduce nella sfida fra lui e Occhetto. Il Nuovo contro il Vetero(comunista).

Nel 1996, invece, Berlusconi perde il confronto con Prodi. In televisione (di fronte a Lucia Annunziata). E alle elezioni. Più che per motivi mediatici, però, per ragioni politiche. Mentre Berlusconi si divide dalla Lega, infatti, Prodi "unisce" i Popolari e la sinistra. E allarga l'alleanza a Rifondazione, attraverso un patto di desistenza. Da lì in poi, il Cavaliere non accetterà più "faccia a faccia", per quasi 10 anni. Non per paura, ma perché non gli conviene. Nel 2001 evita il confronto con Rutelli - troppo giovane e brillante, per lui. Perché rischiare quando i sondaggi lo danno in largo vantaggio? Le tivù servono ad accreditare la convinzione della vittoria già scritta. Dai sondaggi. I leader di centrosinistra, per primi, ci credono. Evitano intese con Rifondazione e Di Pietro. Mentre Berlusconi aggrega tutti. Dalla Lega alla destra. Salvo scoprire, alla fine, che alla Camera, dove Rifondazione non si presenta, il distacco è minimo. Un punto percentuale: 45% a 44%.

Berlusconi ritorna in tivù, ad affrontare terreno "ostile", solo nel 2005. A "Ballarò". Dopo la pesante sconfitta subita alle Regionali. Per contrastare, come sta facendo in questa fase, la convinzione che il suo ciclo sia concluso. Così, all'inizio del 2006, in campagna elettorale, invade di nuovo le tivù. E sfida ogni leader del centrosinistra. In particolare Prodi. Fino all'ultimo faccia a faccia. Concluso dalla promessa del Cavaliere: "Abolirò l'Ici". La disfatta annunciata si traduce in sconfitta di misura. Una quasi-vittoria. Determinata, però, da altri fattori. In primo luogo, la nuova legge elettorale, il Porcellum, che costringe tutti ad allearsi. E permette a Berlusconi di dividere, ancora, il mondo in due: pro o contro di lui. Il Cavaliere, inoltre, utilizza i sondaggi di un istituto americano, per comunicare che la partita non è chiusa. Per sconfiggere lo sconfittismo dei suoi uomini e dei suoi alleati.

In occasione delle elezioni del 2008, simmetricamente, evita di nuovo ogni confronto in tivù. Per non turbare gli equilibri elettorali annunciati dai sondaggi, che lo danno largamente vincente. Per non legittimare un avversario, Walter Veltroni, abile nell'uso del mezzo televisivo. L'irruzione di Berlusconi in tivù, in questa fase, sfociata nella disfida di "Servizio Pubblico", dunque, non è una novità. Ripete un modello sperimentato, dal Cavaliere. Il quale rientra in campo e sceglie avversari e partner quando ne ha bisogno. Cioè, quando è in difficoltà. E deve recuperare. Quando deve, anzitutto, convincere i suoi che la partita non è ancora chiusa. Che è possibile farcela. Che lui non è finito. Va in televisione, Berlusconi, per ridurre il confronto politico in una sfida fra lui e Bersani. Il quale, oggi, appare il vincitore predestinato (dai sondaggi. Forse con troppo anticipo). Per questo, come nel 1994, cerca anzitutto di "scardinare" il Terzo Polo. Il Terzo candidato. Monti. Berlusconi, da Santoro, non ha quasi nominato Bersani, ma ha polemizzato ripetutamente con Monti. Per delegittimarlo. Ma anche per riprendersi gli elettori delusi del Pdl, che guardano con interesse proprio al Professore. Per questo, Berlusconi cerca ora il confronto diretto con Bersani. Per ripristinare, come nel 1994, il gioco bipolare e bi-personale che ha attraversato l'ultimo ventennio.

La differenza, rispetto al passato, è che in questa campagna elettorale il ricorso alla tivù è stato praticato, per primo e in modo bulimico, da altri. Per primo, da Monti. Per far conoscere in fretta il proprio prodotto politico, cioè se stesso. Come Berlusconi nel 1994. Pur non disponendo, a differenza del Cavaliere, di mezzi economici e imprenditoriali adeguati. Né, a differenza di Bersani e del Pd, di struttura organizzativa e di militanti sul territorio. D'altra parte, l'80% degli italiani si informa prevalentemente attraverso la televisione.

Così, quasi vent'anni dopo, ci troviamo ancora in piena video-politica. E mancano ancora 45 giorni dal voto. Non oso pensare cosa possa succedere da qui alle elezioni. Tuttavia, vent'anni dopo, qualcosa è cambiato. Dopo vent'anni di berlusconismo e di marketing politico, Berlusconi ha vent'anni di più. E si vedono tutti. Non è "nuovo". È invecchiato - e si vede. Anzi: è vecchio, come egli stesso ammette (scherzandoci sopra). Più che vincere gli interessa resistere. Il timore è che insieme a lui non siano invecchiati tutti gli attori politici. Che non siamo invecchiati tutti (noi). Al punto da non riuscire a staccare gli occhi dalla televisione  -  incapaci di rivolgerli alla società e al territorio. La lezione delle primarie  -  e l'incombere della crisi  -  suggeriscono che il vento sia cambiato. Il prossimo voto è l'occasione per verificarlo. E per dimostrarlo.

(14 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/14/news/mappe_video_politica-50487555/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Campagna elettorale formato reality
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2013, 07:51:01 pm
Campagna elettorale formato reality

A poco più di 30 giorni dal voto, è un continuo rincorrersi di sondaggi. Che dicono tutto e il contrario di tutto.
La vittoria che sembrava certa del centrosinistra un mese fa ora si trova a fare i conti con la, vera o presunta, rimonta di Berlusconi.
Ma il dato inequivocabile è come le rilevazioni siano diventate un'arma da campagna elettorale

di ILVO DIAMANTI


MANCA ancora un mese al voto. Anzi, qualcosa di più. Ma è come se, a spoglio iniziato, si discutesse degli exit poll. In attesa delle proiezioni. Con il timore che le stime fornite si rivelino sbagliate. È già avvenuto. Nel 2006, in particolare. Quando gli exit poll annunciarono la larga vittoria dell'Ulivo di Prodi. Mentre, a spoglio concluso, la competizione si risolse in un quasi-pareggio.

Oggi, a un mese al voto, è come se fossimo ancora lì, dentro e davanti gli schermi, a interrogarci sull'attendibilità delle stime prodotte dai sondaggi. Che da troppo tempo e con troppo anticipo, hanno decretato il successo del centrosinistra e del Pd, guidato da Bersani.
Oggi, come nel 2006, si teme  -  oppure si spera, a seconda dei punti di vista  -  l'idea della rimonta di Berlusconi. Alimentata da alcuni sondaggi, che registrano un avvicinamento tra il centrosinistra e il centrodestra.

Tra Bersani e Berlusconi la forbice si stringe, è la voce che corre. Amplificata da Berlusconi, che, come highlander, affolla gli schermi, più volte al giorno, per narrare la leggenda del proprio eterno ritorno. E che è lì, addosso a Bersani. Anzi, l'ha praticamente superato.
Sondaggi alla mano. I propri, naturalmente. Come nel 2006. Oggi, quel precedente incombe. E legittima ogni timore e ogni speranza.
Tanto che Luca Ricolfi, sulla Stampa, autorevolmente, si chiede e chiede: "E se Berlusconi vincesse ancora?". Tanto più dopo la performance a "Servizio Pubblico", la trasmissione di Santoro. All'indomani, giornali e giornalisti, sondaggi alla mano, "hanno dato i numeri" del (presunto) recupero prodotto da quella prestazione.

Il problema è che mai come oggi i sondaggi sono apparsi tanto discordanti. A livello nazionale, infatti, il centrosinistra oscilla dal 33% a oltre il 40%. Il centrodestra dal 24% a 34%. Così tutto  -  ma davvero tutto  -  diventa possibile. La vittoria larga e schiacciante del centrosinistra. Oppure la rimonta di Berlusconi. Peraltro, questa carovana di sondaggi e di dati si snoda ovunque. In televisione e sui giornali. Non c'è emittente, tg e talk politico che non abbia il suo istituto demoscopico e il suo pollster di riferimento. Che fornisce i suoi numeri e le sue stime ogni settimana, a volte ogni giorno.

La Rete, da parte sua, rilancia tutti i sondaggi, tutte le stime e tutte le statistiche. Così viviamo immersi in una sorta di reality a reti  -  e testate  -  unificate. Di cui tutti sono al tempo stesso attori e spettatori. D'altronde, i talk politici e di approfondimento stanno ottenendo indici di ascolto elevati. In particolare, quando va in scena Berlusconi. Possibilmente, in terreno nemico o comunque insidioso.
Dove gli è possibile recitare la parte del Cavaliere di Münchausen. Che si risolleva, per miracolo, quando tutti lo danno per finito.

Berlusconi: può contare sull'assuefazione al modello che egli stesso ha inventato e affermato  -  in Italia. La politica come marketing e come spettacolo. A cui è difficile sottrarsi. Non vi riescono neppure gli avversari. Per cui recitano, insieme a lui, nel teatro della (media) politica. Affiancati da altri attori. I conduttori televisivi, i giornalisti, gli esperti. I pollster. (Lo preferisco a "sondaggisti").
Nuovi protagonisti. Perché recitano la parte dei "garanti". E dei giudici. Quelli che misurano il gradimento e il consenso dei partiti e dei politici presso l'opinione pubblica. Per cui traducono la competizione elettorale  -  che avverrà tra un mese oppure una settimana  -  in un plebiscito continuo. Che si rinnova e si ripropone ogni giorno e in ogni momento del giorno. Con il limite  -  oppure il vantaggio  -  che non c'è un solo risultato, un solo indice, una sola misura. Ce ne sono molte. Così nessuno vince e nessuno perde, in modo definitivo.
Dipende dal momento, dal sondaggio, dalla trasmissione.

Naturalmente, l'approssimazione che caratterizza le stime dei sondaggi riflette alcune ragioni molto ragionevoli.
Ne segnalo solo alcune, a cui ho fatto cenno in altre occasioni.

1. I sondaggi rilevano le opinioni degli elettori, che però cambiano, via via che il voto si avvicina. Gran parte degli elettori non si interroga sulla propria scelta a mesi e neppure a settimane di distanza. Anche per questo la quota degli indecisi è alta. E tende a ridursi insieme alla distanza dalle elezioni.

2. Le scelte degli elettori (sondati) dipendono dall'offerta politica. Fino a un mese fa solo il Centrosinistra era sceso in campo. Trainato, peraltro, dalle primarie. Tutto il resto era sospeso. Il ruolo di Berlusconi, l'alleanza fra Pdl e Lega. La presenza di Ingroia a Sinistra.
E, in particolare, l'iniziativa e lo spazio di Monti.
Ciò spiega l'ampiezza dei consensi attribuiti al Pd e al centrosinistra. Fino a qualche settimana fa, soli in un campo politico confuso.
Ma ciò spiega anche la "riduzione" della forbice registrata dai sondaggi, nell'ultima fase. Perché oggi il centrosinistra fa i conti con altri soggetti politici. Veri e definiti.

3. Tuttavia, la "misura" di questa tendenza è difficile da dimostrare. Perché manca ancora oltre un mese al voto e gli indecisi sono ancora circa il 30%. E molto può cambiare. Anche perché la campagna elettorale serve proprio a questo: a rafforzare oppure a modificare le tendenze rilevate dai sondaggi.

Infine c'è la questione fondamentale. I sondaggi, come ha sottolineato Nando Pagnoncelli, si sono trasformati "da strumento di conoscenza ed analisi ... a strumento di propaganda e di previsione". E, aggiungo, di spettacolo. Più che rilevare l'opinione pubblica, la mettono in scena e la costruiscono. Un'evoluzione particolarmente favorevole a Berlusconi. Che prima degli altri ha introdotto la politica come marketing.
E meglio di altri ne controlla gli strumenti e le tecniche.

Così, nella confusione demoscopica e nel reality della campagna elettorale, che oggi impazzano, il Cavaliere è riuscito a rilanciare il bipolarismo personale: Pdl-Berlusconi vs Pd-Bersani. Complice l'afasia di. Ha messo all'angolo Monti e la sua coalizione.
Ma anche Grillo e la Sinistra di Ingroia.

È riuscito, inoltre a sollevare il dubbio: "E se vincesse di nuovo Berlusconi?". Non importa se sia vero. Un altro autorevole analista di sondaggi, come Paolo Natale (su "Europa"), anzi, definisce la rimonta una "leggenda". Ma sollevare il dubbio e perfino contestarne il fondamento, in fondo, significa legittimarlo. E accettare il gioco della (video) politica come marketing significa riprodurre il berlusconismo. Una recita ormai stanca e invecchiata. Come il protagonista. E come gli altri attori che lo assecondano, pur recitando la parte degli avversari. Come gli spettatori-elettori. Noi. Che abbiamo l'occasione, tra un mese, di chiudere il reality show a cui partecipiamo da vent'anni.

(21 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/21/news/campagna_elettorale_formato_reality-50962376/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Renzi leader preferito
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2013, 01:04:44 am
Bersani avanti anche dopo il caso Mps.

Pdl in recupero, ma sempre sotto di 10 punti

Nel sondaggio Demos calano gli indecisi.

Il centrosinistra mantiene un margine ampio: al Senato arriva a 11 punti, ma l'incognita dei premi regionali rende ancora incerto l'esito finale.

La coalizione Monti sale al 18%. M5S al 13%. Renzi leader preferito


di ILVO DIAMANTI


A MENO di un mese dal voto, le distanze tra le coalizioni si riducono. Ma di poco. Le polemiche intorno alle vicende del Monte dei Paschi di Siena sembrano aver prodotto effetti, fin qui, limitati sulle intenzioni di voto. È ciò che emerge dal sondaggio di Demos per Repubblica, realizzato negli ultimi giorni. Per quanto coinvolto da critiche e sospetti, il Pd, alla Camera, ha ceduto meno di un punto e rimane appena sotto al 33%. Mentre il Pdl ha recuperato un punto e supera, così, il 19%. Il Centrosinistra, comunque, si attesta sul 36,4%, circa 10 punti più del Centrodestra (2 meno di una settimana fa). Al Senato, il vantaggio risulta ancora più ampio: 38% a 27%. Cioè, 11 punti. A livello nazionale. Tuttavia, la legge elettorale non permette previsioni, perché al Senato l'assegnazione dei premi di maggioranza avviene regione per regione.

LE TABELLE (su www.repubblica.it)

Resta, quindi, l'impressione che lo scandalo Mps, nonostante abbia monopolizzato il dibattito pubblico, non sia riuscito a produrre una svolta decisa nel clima d'opinione. Le intenzioni di voto, negli ultimi giorni, non hanno subito variazioni sensibili. Così, le differenze osservate, rispetto a una settimana fa, sembrano dettate da altre ragioni. Soprattutto, dal progressivo scongelamento degli indecisi - ancora numerosi: circa il 30%. Un processo che favorisce il Centrodestra - la cui "riserva" di delusi è molto ampia. Ma
anche la coalizione guidata da Monti. Nell'insieme, ha guadagnato un punto e mezzo e si avvicina al 18%. Spinta dalla formazione del premier, Scelta Civica, salita al 12,5% (cioè, di quasi un punto). Anche l'Udc, per la prima volta, recupera consensi (anch'essa quasi un punto). E frena l'emorragia di voti che aveva subito, fino ad oggi, a favore della Lista Monti.

La principale indicazione offerta dal sondaggio di questa settimana, dunque, riguarda proprio il peso assunto dal Terzo Polo. Il quale, per la prima volta dopo il 1994, sembra interrompere, o comunque indebolire, la dinamica bipolare del sistema partitico e della competizione elettorale in Italia. D'altronde, altri indizi, raccolti dal sondaggio, concorrono a spiegare - e a confermare - questa tendenza. In primo luogo, l'immagine del leader. La fiducia verso Monti, infatti, nell'ultimo mese è scesa di quasi 5 punti. Ma resta comunque alta: 42,5%. Il premier è terzo, nella graduatoria dei leader. Peraltro, il 38% degli elettori lo considera il più "competente". E il 61%, soprattutto, lo riconosce in grado di "garantire la credibilità del Paese all'estero".

La capacità "competitiva" di Monti e della coalizione di Centro marca, dunque, la principale differenza rispetto alle ultime due elezioni. In particolare, rispetto a quelle del 2006, quando il Centrodestra trascinato da Berlusconi, riuscì a rimontare tutto lo svantaggio accumulato in precedenza. Fin quasi a pareggiare, con Prodi. Ma allora il confronto (lo scontro?) era diretto. Tra Berlusconi e Prodi: non c'era nessuno. Casini e l'Udc erano alleati con il Cavaliere. Oggi, invece, "in mezzo" c'è Monti. Il quale, nell'ultima settimana, ha preso di mira il Centrosinistra. In modo aggressivo. Per rubare il mestiere - e la scena - a Berlusconi. Per apparire la vera alternativa a Bersani - e soprattutto a Vendola. Per chiudere e confinare il Cavaliere "a destra". E intercettare il flusso dei delusi del Pdl - tanti, ancora rifugiati fra gli indecisi. In attesa di decidere. Se votare e per chi.

Un altro segno delle difficoltà che incontra il "bipolarismo", in questa fase, è offerto dall'atteggiamento verso il "voto utile". Meno condiviso rispetto al passato. Certo, il 54% degli elettori ritiene ancora opportuno "concentrare il voto sulle due coalizioni maggiori". Ma nel 2008 l'orientamento "maggioritario" veniva espresso da un'area di cittadini superiore di quasi 9 punti.

In un sistema attraversato dall'alternativa pro/anti-berlusconiana, l'indebolirsi del bipolarismo danneggia proprio lui. Berlusconi. Il quale, non a caso, ha rifiutato di partecipare a un confronto in tivù con gli altri cinque leader. Avrebbe significato porsi sul medesimo piano di tutti gli altri. Ammettere e riprodurre la fine del bipolarismo - e del berlusconismo.

A Centrosinistra, Bersani (48,5%) è ancora il secondo tra i leader, nella valutazione degli elettori. Dietro al suo avversario delle primarie, Matteo Renzi. Che ottiene un giudizio positivo da quasi due terzi degli intervistati. A conferma della grande fiducia di cui gode ben oltre i confini del centrosinistra. Evidentemente, la scelta di "volare basso", di tirarsi fuori dalla contesa per i posti al Parlamento, ne ha rafforzato ulteriormente la credibilità. Tanto più in questa fase di distacco dalla politica. Proprio per questo, però, diventa importante - e utile - per Bersani coinvolgere Renzi. Come testimonial del proprio progetto. Della propria leadership.

Il Centrodestra, come abbiamo visto, sta risalendo. Ma, fin qui, non sfonda. L'appeal del Cavaliere resta debole. Ultimo nella graduatoria dei leader, per popolarità. Fermo al 20%. Nonostante la grande capacità di tenere la scena, in tivù. E nonostante la tivù resti, per la larga maggioranza degli elettori (60%), il principale canale di informazione in questa campagna elettorale.

Il che contribuisce a spiegare la scelta, annunciata da Beppe Grillo, di tornare in televisione, in vista del voto. Non si sa dove, come e quando. D'altronde, il M5S, nelle stime di voto, è accreditato del 13%. Tanto, ma meno di qualche mese fa. Così Grillo - l'unico a riempire le piazze, in questa campagna elettorale - ha deciso di tornare alle origini. In televisione.

Non so che pagherei per vederlo a un "faccia a faccia". Con Monti, Bersani, Berlusconi. E Vespa...

(30 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/30/news/atlante_politico_centrodestra_si_avvicina-51553289/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ecco il pensiero di cattolici e laici alla vigilia del conclave
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:57:35 pm
Delusi dalla Curia, conquistati da Ratzinger: così gli italiani hanno imparato ad amarlo

In dieci anni crolla la fiducia nella Chiesa, l'apprezzamento per Benedetto XVI ora la sorpassa.

I risultati del sondaggio di Demos&Pi dopo la scelta del Papa di rinunciare al soglio pontificio.

Ecco il pensiero di cattolici e laici alla vigilia del conclave

di ILVO DIAMANTI

OGGI si conclude il papato di Benedetto XVI. Il quale resterà, comunque, Papa. Emerito. Come un professore universitario in pensione. Benedetto XVI, d'altronde, è anche un professore. Un teologo finissimo, che ha guidato la Congregazione per la Dottrina della fede per oltre vent'anni. Rigoroso nel tracciare i confini della religione cattolica in tempi di secolarizzazione. Di confronto con altre fedi e altre religioni - assai più esigenti di quella cristiana - veicolate dai flussi migratori.

A Joseph Ratzinger la Chiesa chiedeva di marcare i segni e principi dell'identità religiosa. In altri termini, il "distintivo cristiano", come l'ha definito Romano Guardini, teologo importante. Influente ai tempi e nei luoghi di formazione del Pontefice, Romano Guardini (tra Frisinga, Monaco e Tubinga). Invece Benedetto XVI se ne va. Si ritira. Fiaccato da problemi di salute. Dall'età. Ma forse anche dal peso degli scandali che hanno scosso la Chiesa nel corso del suo papato. E degli intrighi, delle tensioni che attraversano il Vaticano. Da alcuni anni in modo particolarmente violento.

Una "scelta difficile", l'ha definita il Papa, ieri, nella sua ultima udienza. Ma anche un segno di "umanità". E di "modernità", come ha scritto Ezio Mauro, all'indomani dell'annuncio. Per questo traumatico, per un'istituzione metastorica come la Chiesa. Per una figura, come il Papa, che fonda il suo riconoscimento, la sua stessa legittimità, oltre ogni modernità. Oltre il tempo. Oltre
l'età - propria e del mondo. Per questo, il gesto del Papa è un'ammissione di debolezza. Non solo propria, ma anche della Chiesa. Con effetti che rischiano di essere molto più rilevanti di quanto si pensi, nel rapporto tra la Chiesa stessa e la società. Soprattutto in Italia, dove ha sede il "Soglio pontificio".

D'altronde, la fiducia nei confronti della Chiesa, fra gli italiani, è calata sensibilmente. Negli ultimi 10 anni: di quasi 20 punti. Dal 63 nel 2003 al 44% di oggi (sondaggi Demos).

LE TABELLE GLI ITALIANI E IL PAPA (su repubblica.it)

In un Paese nel quale quasi tutti si dicono "cattolici" o, comunque, "cristiani", è interessante e significativo osservare come oltre metà dei cittadini non nutra fiducia nella Chiesa. La svolta, a questo proposito, avviene nel 2009, l'anno in cui esplodono gli scandali sulla pedofilia che coinvolgono molti esponenti del clero, a diverso livello e in diversi paesi. Lo stesso anno in cui Dino Boffo, allora direttore dell'Avvenire, viene "crocifisso" da lettere anonime - e false - amplificate e strumentalizzate da una pesante campagna di stampa. Allora la fiducia nella Chiesa crolla sotto il 50%. Al di sotto della metà degli italiani. Ma il declino procede, anche in seguito. Parallelamente alle vicende che scuotono il Vaticano. E testimoniano di una Chiesa lacerata da lotte di potere.

Certo, la Chiesa non è solo questa. È anche molto altro. Come testimonia la presenza di religiosi e organizzazioni in diversi luoghi del mondo, fra i poveri e i disperati. Lontano dal Vaticano. In Italia, peraltro, la Chiesa, in molte aree, costituisce un tessuto associativo e di servizi di grande importanza per il territorio e la società. Complementare, talora concorrente rispetto a quello pubblico. Ciò non è più sufficiente, però, a garantirle il credito della maggioranza dei cittadini.

Diverso è l'atteggiamento nei confronti del Papa. Benedetto XVI succede a Giovanni Paolo II. Papa Wojtyla. Capace, come pochi altri, nel nostro tempo, di "personalizzare" la Chiesa. Di unificarne l'immagine. Il Papa dei viaggi nelle diverse terre. Della riconciliazione con le altre religioni. Il Papa che ha estetizzato e sacralizzato anche il dolore, la malattia, la stanchezza. Fino alla morte. A differenza di Benedetto XVI, che invece si è "ritirato", ammettendo la propria inadeguatezza. Ebbene, la popolarità di Papa Ratzinger resta sensibilmente al di sotto rispetto a quella di Wojtyla.

Tuttavia, proprio negli anni degli scandali e del declino della Chiesa, la fiducia nei suoi riguardi è risalita. E nell'ultimo scorcio, dopo le dimissioni, è cresciuta ancora. Anche se il giudizio sulle ragioni della rinuncia divergono. Il 44% degli italiani (intervistati da Demos due settimane fa) le attribuisce a motivi di stanchezza e di salute, secondo la versione proposta dal Papa. Quasi altrettanti, il 43%, pensano, invece, che le dimissioni siano la conseguenza delle tensioni e delle lotte che lacerano il Vaticano. Naturalmente, l'orientamento cambia in base alla pratica religiosa. I praticanti assidui, ma anche quelli saltuari, credono maggiormente alle spiegazioni del Papa. I non praticanti alle ragioni non dette e in-dicibili, da Ratzinger e dalla Chiesa. Tuttavia, anche fra i cattolici praticanti, l'incredulità sulla versione del Papa è molto estesa.

Tutto ciò ha contribuito, nell'ultimo periodo, a ridimensionare ulteriormente la "fede" nella Chiesa. Ma non la fiducia verso il Papa. Che, anzi, è risalita ben oltre la Chiesa stessa. D'altronde, oltre il 70% degli italiani si dice d'accordo con la decisione di Ratzinger. Senza grandi differenze tra praticanti e non praticanti. Anche chi ritiene queste dimissioni conseguenza del clima di tensioni e di conflitti interni al Vaticano approva, in larga maggioranza la scelta del Papa. Perché si tratta di un'ammissione di vulnerabilità e di inadeguatezza. Oppure di una "denuncia", non importa. È, comunque, un segno di "umanità". Avvicina il Papa agli uomini. Ma, forse, anche per questo, è destinato a indebolire ancor di più la Chiesa.
 

(28 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/02/28/news/delusi_dalla_curia_conquistati_da_benedetto_xvi_cos_gli_italiani_hanno_imparato_ad_amarlo-53557913/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Destra e sinistra perdono il proprio popolo.
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2013, 06:05:14 pm
Destra e sinistra perdono il proprio popolo.

M5S come la vecchia Dc: interclassista

Mappe.

Il voto ha segnato una svolta violenta, che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio.

Con Grillo operai e lavoratori autonomi, addio legami di territorio.

Il Pdl aveva il consenso delle piccole imprese, Bersani quello delle tutte blu.

Entrambi lo hanno smarrito

di ILVO DIAMANTI


NON è una scossa isolata e occasionale. Le recenti elezioni segnano, invece, una svolta violenta. Che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio. Segno del cambiamento è, soprattutto, il voto al M5S. Il quale ha canalizzato gli effetti di due crisi, enfatizzate, a loro volta, dalla crisi economica.

La prima - a cui abbiamo già dedicato attenzione - colpisce il legame con il territorio. È resa evidente dallo "sradicamento" dei partiti principali nello loro zone "tradizionali". Il Pd: in alcune province storicamente di sinistra. Nelle Marche e in Toscana, soprattutto. La Lega: nel Nordest, nella pedemontana lombarda e piemontese. Nelle province "forza-leghiste", un tempo "bianche". Democristiane. Infine, il PdL, che ha perduto, in misura superiore alla media, nelle Isole. Sicilia e Sardegna. Dove è forte, fin dalle origini.

LE TABELLE Così operai, imprenditori e disoccupati hanno scelto il M5S (su repubblica.it)

Una geografia politica di lunga durata è mutata bruscamente e in modo profondo. Almeno quanto la struttura sociale ed economica del voto. È qui la seconda "crisi", esplosa alle recenti elezioni, dopo una lunga incubazione. Centrosinistra e centrodestra hanno perduto la loro base sociale di riferimento. Il centrodestra, in particolare, aveva conquistato il consenso dei ceti produttivi privati. Gli imprenditori, ma anche gli operai delle piccole e medie imprese private. E gli stessi in-occupati. Aveva, inoltre, ereditato, dai partiti di governo della prima Repubblica, il consenso delle aree del Mezzogiorno maggiormente "protette" dallo Stato.

Il Centrosinistra e soprattutto il Pd si erano, invece, caratterizzati per il consenso elettorale garantito dai ceti medi tecnici e impiegatizi. I vent'anni della seconda Repubblica, in fondo, si riassumono in questa frattura sociale e territoriale. Marcata dalla "questione settentrionale" e dai soggetti politici che, più degli altri, l'hanno interpretata. La Lega e Silvio Berlusconi. La Destra popolare opposta alla Sinistra im-popolare. Sostenuta dai professionisti, gli impiegati (soprattutto "pubblici") e gli intellettuali.

Ebbene, oggi il marchio della Seconda Repubblica appare molto sbiadito. L'identità sociale - per non dire di "classe" - delle principali forze politiche risulta sensibilmente ridimensionata.

Il centrodestra "popolare" ha perduto il suo "popolo" (lo ha rilevato anche Luca Comodo, sul Sole 24 Ore). Il suo peso, tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, rispetto alle elezioni del 2008, è pressoché dimezzato: dal 68 al 35%. Lo stesso tra gli operai: dal 53 al 26%. Mentre, fra i disoccupati, gli elettori di centrodestra sono calati dal 47 al 24% (indagini di Demos-LaPolis, gennaio-febbraio 2013).

Anche il centrosinistra e la sinistra si sono "perduti" alla base. Hanno, infatti, intercettato il voto del 35%, tra le figure "intellettuali", il personale tecnico e impiegatizio: 12 meno del 2008. Del 32% dei liberi professionisti: 10 meno delle precedenti elezioni.

Centrodestra e centrosinistra, soprattutto, hanno smesso di costituire i poli alternativi per i lavoratori dipendenti e indipendenti, occupati e disoccupati. Perché, in queste elezioni, non hanno, semplicemente, cambiato profilo socioeconomico. Ma sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità. La base perduta da una delle due coalizioni principali della Seconda Repubblica, infatti, non si è rivolta all'altra. Gli operai - e i disoccupati - non si sono spostati a sinistra. Tanto meno - figurarsi - gli imprenditori e i lavoratori autonomi. I professionisti, gli impiegati e i tecnici, a loro volta, non si sono orientati a destra. I lavoratori "in fuga" si sono rivolti altrove. Hanno scelto il M5S. Per insoddisfazione - spesso: rabbia - verso le "alternative" tradizionali. Hanno votato per il soggetto politico guidato da Grillo.

Così, oggi, in Italia si assiste a una competizione politica singolare, rispetto a quel che avviene in Europa. Dove l'alternativa avviene - prevalentemente - fra Liberisti e Laburisti, Popolari e Socialdemocratici. Centrodestra e Centrosinistra. Che rappresentano, storicamente, lavoratori indipendenti e dipendenti. Imprenditori e operai oppure impiegati. Mentre oggi in Italia i due principali partiti, PdL e Pd, prevalgono, in particolare, tra le componenti "esterne" al mercato del lavoro. Il PdL: fra le casalinghe (36%). Il Pd: fra i pensionati (37%). Quelli che guardano la tivù...

Il M5S, invece, ha assunto una struttura sociale interclassista. Da partito di massa all'italiana. Come la Dc e il Pci della Prima Repubblica. Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, fra gli operai (40%), ma anche fra i disoccupati (43%). Fra i "liberi professionisti" (31%) e fra gli studenti (29%) - dunque fra i giovani.
In più, ha un impianto territoriale "nazionale". Distribuito in tutto il territorio.

Ciò induce a usare prudenza nel considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento, ma transitorio. Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nell'area di governo gli "ultimi arrivati". Non è così. Perché il retroterra stesso delle tradizionali forze politiche, dopo una lunga erosione, è franato. Le stesse fratture politiche che hanno improntato la Seconda - ma anche la Prima - Repubblica oggi non riescono più a "dividere" e ad "aggregare" gli elettori. Siamo entrati in un'altra Storia. I partiti "tradizionali", per affrontare la sfida del M5S, non possono inseguirlo sul suo terreno. Blandirlo. Sperare di integrarlo. Scommettere sulla sua dis-integrazione. Al Pd, per primo. Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd. Deve cambiare.

(11 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/11/news/destra_e_sinistra_perdono_il_loro_popolo_m5s_come_la_vecchia_dc_interclassista-54291989/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il partito autobus dei Cinque stelle
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2013, 04:42:58 pm
Il partito autobus dei Cinque stelle


di ILVO DIAMANTI

CE L'HA fatta, il Pd, a far eleggere i propri candidati alle Camere. Era tutt'altro che scontato, soprattutto al Senato. C'è riuscito perché non li ha "imposti", ma "proposti". Ha scelto due figure credibili e di alto profilo. Esterne al partito. Laura Boldrini, già portavoce dell'Alto Commissariato dell'Onu per i rifugiati. Eletta nelle liste di Sel. E poi Pietro Grasso. Una biografia esemplare e coerente, di lotta alle mafie. Al Senato, soprattutto, era difficile prevedere che l'elezione sarebbe avvenuta in tempi tanto rapidi. Senza negoziati né compromessi. È giunta grazie al voto di alcuni senatori del M5S, una decina almeno. Al ballottaggio fra Grasso e Schifani, non si sono sentiti di astenersi o di annullare il voto. E ciò ha suscitato sorpresa oltre a reazioni e commenti  -  a mio avviso  -  un po' azzardati.

In particolare, dopo il voto dei senatori, in contrasto con le indicazioni di Beppe Grillo, c'è chi ha pronosticato l'implosione del M5S. Incapace di assumere posizioni coerenti e unitarie. Perché vulnerabile alle logiche di corridoio e alle pressioni degli altri gruppi. Oppure, più semplicemente, perché impossibile da "governare", per un Capo esigente ma assente, in Parlamento. Beppe Grillo, in effetti, non l'ha presa bene. A coloro che, nel segreto dell'urna, avevano votato per Grasso, ha chiesto di "trarre le dovute conseguenze". Cioè, dimettersi. D'altronde, la concezione della rappresentanza e dei rappresentati proposta da Grillo prevede il "mandato imperativo". Cioè, la "dipendenza" diretta degli eletti dagli elettori. Interpretati dal Capo e Garante del Movimento (e dal suo intellettuale di riferimento, Roberto Casaleggio). In rapporto con i seguaci e i militanti attraverso la Rete.

Tuttavia, io credo che entrambe le "pretese" siano difficilmente realizzabili. La prima  -  che prevede la rapida dis-integrazione del Movimento, in Parlamento e, dunque, in ambito politico e sociale  -  considera il M5S un partito come gli altri. Una "organizzazione" di politici più o meno professionalizzati, tenuti insieme da un'identità e da interessi comuni, sempre più deboli. Vulnerabili di fronte alle tentazioni e ai privilegi del potere. Un po' come i leghisti, giunti in Parlamento "padani" e divenuti rapidamente "romani". Ma il M5S non è come gli altri partiti. Un partito come gli altri. È una Rete. Non solo perché si è sviluppato attraverso il web e i meetup. Perché, piuttosto, è cresciuto nel tessuto dei gruppi e dei comitati locali impegnati sui temi dei beni comuni, dell'ambiente, dell'etica pubblica. In altri termini, è una "rete" di esperienze e di attori "volontari". Perlopiù giovani, che operano su base locale. Da tempo. Certo, Roma e le aule del Parlamento sono grandi. Ma il legame con i mondi e le reti sociali di appartenenza lo è altrettanto. Per ora, molto di più. Chi pensa di "reclutarli"  -  con la promessa di ruoli e incarichi  -  sbaglia di grosso. Non avverrà.

Tuttavia, per la stessa ragione, mi pare difficile che possano rispondere al richiamo del Capo, in ogni occasione. Prima ancora: che possano accettare il modello della democrazia diretta e del mandato imperativo imposto da Beppe Grillo. Perché, anzitutto, presentandosi alle elezioni, hanno accettato le regole e i principi della democrazia rappresentativa. Perché, inoltre, non è facile individuare le domande degli elettori che li hanno eletti. Come abbiamo già rilevato, sul piano elettorale, il M5S è un "partito pigliatutti". Votato da componenti molto diverse, dal punto di vista socioeconomico e politico. Un terzo dei suoi elettori, infatti proviene da centrodestra. Altrettanti da centrosinistra. (Le analisi di Bordignon e Ceccarini, sull'ultimo numero della rivista "South European Society and Politics", sono molto chiare.) Inoltre, è la forza politica più votata dagli operai ma anche dagli imprenditori, dai lavoratori, dai disoccupati, dai lavoratori autonomi, dai liberi professionisti e dagli studenti. Difficile rivolgersi e riferirsi, direttamente, a un elettorato tanto eterogeneo.

Anche la "fedeltà" al Capo appare una pretesa difficile da esigere. Perché, come abbiamo detto, il M5S non è un partito coeso, strutturato. Che possa venire controllato dall'alto e dal centro. E non è un partito "personale", come Forza Italia, il Pdl, ma anche l'Idv. Gli eletti, gli attivisti, non rispondono solo o direttamente al Capo. Perché non sono stati scelti da lui. Ma dagli altri attivisti e seguaci, con cui avevano un rapporto stretto e diretto, anche prima. Con loro  -  e non con Grillo  -  si instaura il legame di fiducia alla base del loro impegno e della loro azione (come emerge dalle interviste ai militanti analizzate nel volume "Il partito di Grillo", curato da Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini e pubblicata dal Mulino). Insomma, il M5S non è un partito "tradizionale" ma nemmeno un partito "personale". Senza Grillo non esisterebbe. Grillo, però, è il proprietario del marchio, ma non il "padrone" di un'azienda-partito, di cui gli eletti sono i dipendenti.

In effetti, come ho già avuto modo di sostenere, il M5S, mi rammenta un autobus. Sul quale sono saliti passeggeri diversi, con destinazioni diverse. Uniti, in questa fase del percorso, da una comune destinazione intermedia. Destrutturare il sistema dei partiti della Seconda Repubblica. Incapaci di cambiare le logiche della Prima. Grillo li ha raccolti e accolti. Insieme agli altri, saliti in precedenza. Interessati ad arrivare altrove e più lontano. Nella Terra dei Beni Comuni. Grillo, per questo, è un Altoparlante. Un Autista. In grado di scagliare il suo "Mezzo" contro il muro del Vecchio che Resta. Ma, appunto, un Mezzo. Usato, in parte, da elettori e militanti, per i loro "fini" specifici. Non per il Fine generale.

Per questo i suoi elettori, ma anche i suoi eletti, gli attivisti e i militanti, non si sentono vincolati al mandato imposto dal Capo. E scelgono liberamente, "secondo coscienza". Votano insieme ai parlamentari del Pd, quando si tratta di sostenere un candidato come Grasso. Avverrà lo stesso in altre occasioni analoghe. Né la minaccia del conducente di abbandonare la guida dell'autobus farà loro cambiare opinione. Senza che ciò significhi, in alcun modo, confluire nel Pd o in un altro gruppo e partito. La seconda Repubblica è finita. I passeggeri dell'autobus di Grillo lo hanno dimostrato in modo inequivocabile. Ma dove andranno, dove scenderanno. E dove arriverà e si fermerà l'Autobus: non è possibile stabilirlo. Non lo sa nessuno. Di certo, neppure Grillo.

(18 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/18/news/diamanti_cinque_stelle-54795281/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La base dei 5Stelle si divide a metà sul sostegno al governo...
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2013, 07:13:44 pm
Perché Grillo dice no

MAPPE.

Sondaggio LaPolis Università di Urbino. La base dei 5Stelle si divide a metà sul sostegno al governo Pd.

Un elettorato che proviene in parti quasi uguali dai due schieramenti classici della politica

di ILVO DIAMANTI


PIERLUIGI Bersani prosegue nelle consultazioni. Per verificare, come ha chiesto il Presidente Napolitano, se vi siano le condizioni per un governo che disponga di una maggioranza effettiva. E stabile. Non è una "missione impossibile", ha avvertito il segretario del Pd. Ma sicuramente molto improbabile. Soprattutto se Bersani mira a un'intesa fra il centrosinistra e il M5S, come ha fatto intendere fin qui.

Perché i margini, in tal senso, sono davvero stretti. O meglio: non ci sono. Beppe Grillo l'ha ribadito anche ieri. E l'altro ieri. Ma lo farà, sicuramente, anche oggi - e domani. Perché Grillo non parla - solo e tanto - agli altri. Ma anzitutto ai suoi.

Ha bisogno di tenerli uniti. Fino a quando, almeno, le consultazioni di Bersani si saranno concluse. Senza il sostegno del M5S. Se un gruppo di parlamentari del suo gruppo votasse la fiducia - com'è avvenuto in occasione dell'elezione di Piero Grasso alla carica di Presidente del Senato - non sarebbe un problema. Si tratterebbe di un "tradimento". Allungherebbe ombre sul futuro del nuovo - eventuale - governo. E sulla maggioranza. Fondata, fin dall'avvio, sul sostegno di "transfughi", più o meno "responsabili".

Ma attendersi un sostegno aperto dal M5S mi sembra impossibile, più che improbabile. Non solo da parte di Grillo. Anche del gruppo dirigente del MoVimento. Una eventuale consultazione, al proposito, non è plausibile. Né in Parlamento, fra gli eletti. Né in rete, fra gli aderenti e gli elettori. Perché, se ciò avvenisse, diverrebbe evidente quel che Grillo, per primo, sa. Cioè: che sull'argomento la base del M5S è divisa. Anzi, spezzata. Visto che il suo elettorato è equamente ripartito, in base alla provenienza politica ed elettorale (come mostrano le indagini sul tema. Da ultimo: il volume di Roberto Biorcio e Paolo Natale, "Politica a 5 Stelle", pubblicato da Feltrinelli). Tanto più e a maggior ragione di fronte a una possibile alleanza.

Lo conferma un sondaggio dell'Osservatorio elettorale del LaPolis (Università di Urbino), condotto nei giorni scorsi. I risultati, al proposito, appaiono eloquenti. Un accordo tra Pd e M5S a sostegno di un nuovo governo, infatti, otterrebbe il favore del 55% degli elettori. E di una quota molto più elevata fra quelli di centrosinistra, ma anche di centro. In particolare: appoggerebbero l'intesa quasi 8 su 10 fra gli elettori del Pd e del centrosinistra, ma anche il 65% degli elettori di Monti. Fra gli elettori del M5S, però, si osservano orientamenti molto diversi e, nell'insieme, divergenti. I favorevoli all'accordo, infatti, si riducono al 54%. I contrari al 45%. Cioè: circa metà e metà.

Questa s-composizione dipende, come si è detto, dalla provenienza dell'elettorato. Il consenso all'intesa, infatti, sale al 63% fra gli elettori che nel 2008 avevano votato per il centrosinistra. Ma tra gli elettori provenienti dal centrodestra, quasi, si dimezza: 36%.

In altri termini, la partecipazione a un governo guidato da Bersani spaccherebbe in due l'elettorato del M5S. Ma anche la base più "fedele". Fra coloro che si definiscono "molto vicini" al MoVimento, infatti, i favorevoli all'intesa sono esattamente la metà: 50%. Per questo Grillo, oltre a esprimere il proprio dissenso, chiama "fuori" il M5S da ogni discussione. Al governo? Da soli o non se ne parla. Perché qualsiasi altra decisione rischierebbe di produrre lacerazioni e opposizioni. All'interno e alla base. L'accordo con Bersani: susciterebbe disagio, se non rifiuto, da parte di quasi metà dei suoi elettori. Soprattutto, di quelli che provengono dal centrodestra. Tuttavia, anche una rottura esplicita con il centrosinistra solleverebbe malessere. Perché il M5S nasce da una costola della Sinistra, ma l'altra è di Destra. E, per ora, il MoVimento non dispone di un'identità definita e precisa, che permetta agli elettori di distinguersi e di distanziarsi dagli altri. Certo, il M5S della prima fase è sorto e si è sviluppato sull'azione dei comitati e dei movimenti locali, impegnati sul tema dei "beni comuni". Ma il successo elettorale è avvenuto intorno alle rivendicazioni sulla trasparenza e sui costi della politica. Infine: contro la Casta e le oligarchie di partito. In definitiva: contro i partiti.

Da ciò la differenza rispetto alla Lega degli anni Novanta, che ha raccolto anch'essa il malessere contro il sistema dei partiti e contro il ceto politico, ormai al collasso. Ma disponeva di un'idea - meglio, di un'ideologia - forte. La Questione Settentrionale, poi: la Padania. Inoltre, si riconosceva in un leader carismatico ed era organizzata, come un partito di massa, radicato sul territorio. Il M5S, invece, non ha radici né organizzazione sociale e territoriale. È una rete. Esposta alle "incursioni", sul Web, dei dissidenti e dei "trolls", come li definisce Grillo. Inoltre, Grillo non è un leader carismatico. Il grado di identificazione personale nei suoi confronti, presso gli attivisti e gli elettori, è analogo, ma non superiore, rispetto a quello degli altri partiti (come mostra il recente saggio di Bordignon e Ceccarini pubblicato sulla rivista ComPol).

Il M5S non è, dunque, un partito tradizionale e neppure "personale". Semmai "personalizzato". Per riprendere la metafora che ho già usato una settimana fa: è come un Autobus. Sul quale sono saliti molti passeggeri. Alcuni diretti alla Terra dei Beni Comuni e della Democrazia Diretta. Altri, i più, "fuggiti" dalle loro case (politiche). Mossi da risentimenti - più che da sentimenti - verso i partiti maggiori. Per questo il Conducente, per ora, non si può fermare. E, anzi, accelera, sempre più veloce. Perché, se si fermasse a una stazione, molti passeggeri potrebbero scendere. Senza più risalire. Così continua a correre. In attesa che le case "politiche", vecchie e nuove, crollino definitivamente. E altri passeggeri, in fuga, salgano in corsa sull'Autobus 5 Stelle. Un'attesa che potrebbe essere breve, visto il clima politico ed economico generale. Ma, in un paesaggio ridotto in macerie: che farebbero Grillo e il suo Autobus?

(25 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/25/news/perche_grillo_dice_no-55292611/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Lessico dei tempi feroci
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2013, 07:44:04 pm

Bussole
      
Lessico dei tempi feroci

Ilvo DIAMANTI

I politici della Prima Repubblica. Erano incomprensibili. Il linguaggio era fatto apposta per non essere compreso. Se non da loro. Al loro interno. Messaggi cifrati. Obliqui. Paralleli. I cittadini, d'altronde, non se ne occupavano troppo. I discorsi politici e dei politici: non li interessavano. Tuttavia, la società non era estranea al contesto politico. "Con-testo", appunto. Un "testo" condiviso. Perché la politica è rappresentanza e rappresentazione. I "rappresentanti" riflettono la società e la società vi si riflette. Almeno in parte. E il linguaggio ne era lo specchio. Così, le persone parlavano in modo "educato". In pubblico. Le parolacce non erano ammesse. Quando scappavano, il responsabile veniva guardato con un sorriso tirato, di riprovazione. Sui giornali e sui media, poi, guai. Quel "Cazzo!", pronunciato sapientemente da Zavattini, nel 1976, fece rumore. Anzi, fragore. Mentre quando Benigni in tv, ospite della Carrà, recitò tutti i sinonimi della "passerottina" (dalla chitarrina alla vulva...), sollevò grandi risate, ma molto meno clamore. Era il 1991. Il muro di Berlino era caduto. E stava travolgendo anche il sistema politico italiano. Seppellendo, insieme alla Prima Repubblica, una civiltà formalista e un po' ipocrita. Dove il distacco tra società e politica era riprodotto dall'impossibilità di comprendere quel che avveniva "in alto". I politici non erano apprezzati né, tanto meno, stimati. Anche prima di Tangentopoli. Venivano considerati disonesti. Inattendibili. Disinteressati ai problemi della "gente comune". Eppure non ci si faceva troppo caso. Tutti votavano sempre. Allo stesso modo.

Certo, negli anni Settanta i movimenti sociali portarono in piazza slogan violenti. Ma si trattava di metodi di lotta. Il linguaggio era usato come strumento "politico". Non "antipolitico". Perché, comunque, la "politica" e la "classe politica" contavano. Il loro "potere" era riconosciuto.

Oggi, anzi, da almeno vent'anni: la scena è cambiata. I politici sono impopolari come prima, più di prima. Ma nessuno si fa scrupolo a dirlo. Neppure i politici. I quali si fanno schifo e se lo dichiarano reciprocamente. Non c'è nessuno, d'altronde, che sia disposto ad ammetterlo. Di essere un politico. Neppure i dirigenti di partito, i parlamentari, i senatori. Tutti im-politici. Il vetro che separava i politici dalla società e la società dai politici: si è rotto. Certamente, almeno, dal punto di vista della comunicazione e del linguaggio. L'alto e il basso. Chi sta in alto, i rappresentanti, insegue chi sta in basso, i rappresentati. E scende più in basso possibile. Tutti leader e tutti follower. Gli "eletti" fingono di essere come il "popolo". Per imitare il "volgo" cercano di essere "volgari". E ci riescono perfettamente. Senza fatica. Perché spesso sono peggio di loro. Nei comportamenti e nelle parole. Hanno trasformato il Parlamento e la scena politica in un luogo dove non esistono limiti né regole. Ai discorsi, al linguaggio.

Fra i rappresentanti e i rappresentati, è un gioco di specchi infinito. Così l'esibizione di chi "ce l'ha duro" si alterna al grido di "Forza gnocca". Mentre si sviluppano relazioni internazionali tra "Cavalieri arrapati" e "Culone inchiavabili". Di recente, infine, nelle piazze, nei palazzi e sui media echeggiano i "vaffanculo", ripetuti all'infinito. Da chi rifiuta di dialogare con i "morti-che-parlano-e-camminano". Con i "padri puttanieri della Patria". Che sono già morti. E, comunque, "devono morire". Il più presto possibile. Per cambiare davvero il Paese.
È il clima del tempo. Il linguaggio del tempo. (Ben riassunto nel Dizionario della Seconda Repubblica, scritto da Lorenzo Pregliasco e di prossima pubblicazione per gli Editori Riuniti). Contamina tutto e tutti. Anche gli artisti più gentili. Perfino lui, l'Artista a cui mi rivolgevo nei momenti più concitati. Quando vivevo "strani giorni". Mi rassicurava, sussurrando: "avrò cura di te". Anche lui, divenuto "politico", descrive il Parlamento come un luogo affollato di "troie disposte a tutto".

E, allora, perché resistere? Perché rivolgersi, ancora, agli altri in modo educato? Perché chiedere rispetto: tra genitori e figli, professori e studenti, autorità e cittadini, immigrati e residenti, vicini e lontani, amici, conoscenti e sconosciuti. Perché? E perché limitarsi alle parole e non passare alle vie di fatto? D'altra parte, la distanza è breve. Le parole sono fatti.

Perché mai, allora, io - proprio io - dovrei essere l'ultimo "coglione" rimasto in circolazione? L'unico a trattare tutti, ma proprio tutti, con rispetto? Anche coloro che non rispetto?

Così mi arrendo. Al clima e al linguaggio del tempo. E, per chiudere, rilancio un elegante adagio raccolto al Bar da Braun: "Andate tutti a-fare-inculo. Voi e la vostra politica del cazzo".


Appunto a margine.

Ho svolto il filo del discorso sul rapporto - degenerato - fra linguaggio, politica e società cercando di essere coerente. Fino in fondo. Eppure, questo linguaggio mi dà fastidio. Scrivere così, a maggior ragione, mi dà (e io mi do) fastidio. Non lo farò mai più. E se le parole servono a "rappresentare" la realtà, se il linguaggio è rappresentanza, io, oggi, non mi sento rappresentato. In questa "Repubblica a parole" (o meglio: "a parolacce"), mi dichiaro prigioniero politico. In questi tempi cattivi, sempre più feroci, mi avvalgo della facoltà di non rispondere.

(30 marzo 2013) © Riproduzione riservata



Titolo: ILVO DIAMANTI - Questo Paese indeciso a tutto
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2013, 12:31:36 pm
Questo Paese indeciso a tutto

di ILVO DIAMANTI

NON E' PIACIUTA la scelta del Presidente Napolitano, dopo il tentativo di Bersani  -  senza esito  -  di formare un governo. L'istituzione di due commissioni di Saggi. Non è piaciuta. Ai principali partiti. (Non solo e non tanto per ragioni di "pari opportunità). Come la ri-legittimazione del governo Monti. Così, per la prima volta dopo il voto, fra le tre principali formazioni presenti in Parlamento, c'è accordo. Nel disaccordo. Contro la decisione del Presidente. Che, effettivamente, allunga questa fase "eccezionale", per qualsiasi democrazia. Visto che l'Italia, da quasi un anno e mezzo, è governata da un gruppo di "tecnici", non eletti, ma nominati dal Presidente. Sostenuti, fino a sei mesi fa, da una maggioranza eterogenea. Per necessità. E per emergenza. Per l'impossibilità di trovare una maggioranza parlamentare intorno a un governo. Per la necessità di affrontare l'emergenza economica e politica, interna e globale. E di rispondere agli impegni, di fronte alle autorità finanziarie e alle istituzioni internazionali.

Oggi, però, abbiamo un Parlamento rinnovato. Profondamente. Per l'ingresso di nuovi parlamentari. E di una nuova forza politica: il M5S. Che ha occupato uno spazio molto ampio. Nei consensi e nei seggi. Nel dibattito politico e presso l'opinione pubblica. Tuttavia, le condizioni che avevano determinato  -  quasi imposto  -  l'incarico al governo tecnico non sembrano cambiate.
La crisi economica nazionale e internazionale: si è fatta più seria. Grave. Dopo le elezioni, il clima sociale interno è avvelenato. Mentre all'esterno, si respira un sentimento di scetticismo diffuso nei confronti dei nuovi e vecchi attori della scena politica italiana. Monti, l'unico di cui si fidassero i "mercati" e i leader internazionali, dopo l'avventura elettorale, è divenuto, anch'egli, poco credibile. Anzi: in-credibile. Peraltro, nessuna fra le possibili soluzioni proposte dalle maggiori forze politiche rappresentate in Parlamento, oggi, appare effettivamente praticabile.

Il Centrosinistra, guidato da Bersani,  -  o meglio: Bersani, alla guida del Centrosinistra  -  avrebbe voluto, comunque, verificare l'esistenza di una maggioranza parlamentare, intorno alle sue proposte. Contava, cioè, di conquistare il sostegno di una parte dei senatori del M5S, in dissenso con le indicazioni di Grillo. Com'è avvenuto in occasione dell'elezione di Pietro Grasso a Presidente. Operazione rischiosa. Perché, se anche avesse funzionato, avrebbe restituito una maggioranza precaria, sempre in bilico. Marchiata dal "tradimento", come non esiterebbe a gridare Grillo. Affiancato da Berlusconi e dal PdL.

Il Centrosinistra, d'altronde, non ha alcuna intenzione di intraprendere, nuovamente, la Grande Coalizione. Che, invece, piacerebbe al PdL. Soprattutto a Berlusconi. Per uscire dall'angolo e condizionare l'agenda futura. Ma piacerebbe, ancor più, a Grillo e al M5S. Che potrebbero rilanciare la loro strategia di successo, in questa fase. La rivolta contro la partitocrazia e la classe politica. Contro il PdL e il PdLmenoL.

Elezioni a breve termine  -  inevitabili in un clima di confusione politica e parlamentare  -  avrebbero un esito imprevedibile. Ma piacciono molto al M5S. Favorito da questo clima impolitico, amplificato dalla crisi della politica. Piacciono anche al PdL. Perché la "mancata vittoria" e l'incapacità di formare un governo farebbero del Pd il principale capro espiatorio, in caso di elezioni immediate. Come se, paradossalmente, avesse governato - male  -  senza neppure governare. E gli altri avessero fatto opposizione  -  anche in assenza di un governo.
Con questa legge elettorale, tuttavia, difficilmente  -  e parlo in modo prudenziale  -  qualcuno riuscirebbe a conquistare la maggioranza dei seggi al Parlamento.

D'altra parte, perché mai questo Parlamento  -  appena eletto  -  dovrebbe varare una nuova legge elettorale, in fretta e furia, senza aver quasi cominciato la legislatura, se non vi è riuscito il precedente, con cinque anni a disposizione? Infine, come potrebbe, come avrebbe potuto, il Presidente Napolitano, assumere una decisione vincolante per il prossimo futuro, proprio ora che è in uscita? Nominando  -  e imponendo al successore  -  un solo Saggio? Cioè, un altro Tecnico, super partes, a capo di un "governo di scopo"? Di durata comunque non breve?

Per questo, a mio avviso, la scelta di nominare le Commissioni di Saggi è risultata inevitabile. Perché è una non-decisione. Una in-decisione. Che riflette e sottolinea l'im-potenza di questo Parlamento, caratterizzato dall'irruzione di un non-partito. Di questo Paese. Privo di Autorità riconosciute e legittimate. Per prima, quella "paterna", come ha suggerito Eugenio Scalfari, una settimana fa. Un Paese, dove, per utilizzare un'efficace metafora di Barbara Spinelli, il "trono è vuoto". Ovvero: "il posto di comando è vacante". Ed è questa la Questione. Che fatichiamo ad accettare. Noi, italiani, siamo diventati, ormai, un Paese di minoranze. Politiche. Irriducibili. Ciascuna incapace di imporsi sulle altre. Ciascuna gelosa del proprio potere di veto. Sugli altri. Indisponibile, per questo, ad accettare leggi che consentano a qualcuno di governare sugli altri. Per questo è tanto difficile modificare la legge elettorale, il Porcellum. E ci teniamo, quasi unici al mondo, un sistema bicamerale perfetto, che pone sullo stesso piano le due Camere, peraltro elette con leggi elettorali diverse. Rendendo complicata ogni scelta. Ogni maggioranza.

Così, Napolitano ha applicato l'unica soluzione possibile in un Paese eternamente in-deciso, come il nostro. Ha fatto ricorso a quella che il filosofo John Perry ha definito la "procrastinazione strutturata". Cioè, l'arte di rinviare a domani ciò che "dovremmo" fare oggi stesso. Ma in modo, appunto, "strutturato". Programmando "altre" cose utili. Ma meno importanti. Per prendere tempo. Perché più tempo "potrebbe" favorire il dialogo, far emergere soluzioni. Oggi non ancora visibili. Potrebbe. Ma potrebbe anche avvenire il contrario. Nuove divisioni e fratture. Più profonde e drammatiche. Fino a rendere inequivocabile quel che ancora non è abbastanza chiaro. A tutti. Che un Paese im-potente e senza autorità, senza padri né governi: non può durare a lungo. Non è uno Stato, ma uno "stato". Un participio passato.

Rendersene conto, prenderne atto, costituirebbe la premessa di un cambiamento reale. Se i Saggi sono davvero tali, possono provare a spiegarlo. Al Parlamento e ai cittadini. In un modo esemplare. Per non concedere alibi a nessuno: lascino al più presto il Parlamento, i partiti  -  e i cittadini  -  da soli. Di fronte alle loro responsabilità.

(02 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/02/news/mappe_diamanti-55770614/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Lega ora è un partito fin troppo normale
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2013, 05:48:59 pm
La Lega ora è un partito fin troppo normale

Mappe.

La “festa popolare padana”, quest’anno, è apparsa più triste del solito. Partecipata. Ma non troppo. Perché la Lega si trova di fronte a un paradosso apparente: rivendicare la Padania senza i padani

di ILVO DIAMANTI


SI È "RADUNATA" di nuovo a Pontida, la Lega. Dopo la pausa dell'anno scorso imposta dagli scandali e dalle divisioni interne. Un appuntamento fissato ai primi di febbraio.

Fissato quando Roberto Maroni sperava – e contava – di celebrare un risultato elettorale migliore. Ieri, invece, il segretario, come molti dei relatori che si sono succeduti sul palco, ha dovuto ribadire che «la Lega non è morta». Inoltre, per dimostrare la volontà di gettarsi alle spalle gli scandali del passato, ha mostrato e offerto ai militanti «i diamanti della Lega» – quelli di Belsito. Io, ovviamente, non c’entro...

Maroni, d’altronde, è stato eletto Presidente della Lombardia e la Lega governa, dunque, le tre principali regioni del Nord. Non a caso, il programma maggiormente evocato, in questa manifestazione, rivendica la “macroregione del Nord”. Eppure la “festa popolare padana”, quest’anno, è apparsa più triste del solito. Partecipata. Ma non troppo. Scossa da qualche contestazione – limitata. Anche Bossi, il Padre fondatore della Lega, non ha nascosto la propria insofferenza verso la leadership del partito.
 
Prendendosela – in modo, come di consueto, colorito – con chi dice che «tutto va bene». Non è così, evidentemente. Perché è difficile, ai leader e ai militanti leghisti, nascondere i segni della sconfitta subita alle elezioni politiche di febbraio. Quando, lo rammentiamo,
la Lega ha ottenuto quasi 1 milione e 400mila voti. Cioè: oltre 1 milione e 600mila meno del 2008. Ha, dunque, più che dimezzato la sua base elettorale. Anche in termini percentuali: dall’8,3 è, infatti, scesa al 4,1. La Lega. Si è ridimensionata, soprattutto, nella sua patria. La Macroregione del Nord. Visto che, negli ultimi cinque anni, in Lombardia è diminuita dal 21,6 per
cento al 12,9. In Veneto dal 27,1 al 10,5. In Piemonte dal 12,6 al 4,8. E la “caduta” appare ancor più forte rispetto alle Regionali del 2010, quando la Lega ha conquistato la presidenza del Veneto (con oltre il 35% dei voti) e del Piemonte.

Così, la Lega si trova di fronte a un paradosso apparente – che ho già sottolineato all’indomani del voto. Cioè: rivendicare la Padania senza i padani. Conquistare la guida delle principali regioni del Nord proprio quando i suoi elettori si sono ridotti sensibilmente. Toccando il minimo, in valori assoluti, dal 1992 ad oggi.
 
D’altronde, nei discorsi di Pontida, si sentono gli echi del passato. Le invettive contro Roma e contro lo Stato italiano. L’impegno a trattenere in Lombardia – e sul territorio – il 75% del prelievo fiscale. Promesse e minacce già sentite. Come la rivendicazione federalista. Rilanciata a Pontida. Echeggia da sempre. Con nomi diversi. Indipendenza, devolution, secessione. In altri termini: autogoverno regionale. O meglio: macro-
regionale. Discorsi già sentiti altre volte, in passato. Ma dopo dieci anni di governo quasi ininterrotto – dal 2001 al 2011 – diventa difficile crederci fino in fondo. Prendere questa Lega sul serio. Anche perché, se non si è spezzata ieri (e non si spezzerà neppure domani), appare comunque divisa. Attraversata da tensioni evidenti. Che rendono arduo immaginare la Macroregione del Nord. Non solo perché non è chiaro come si dovrebbe realizzare. Attraverso quali procedure. E quali poteri e competenze dovrebbe assumere. Ma perché, prima ancora, si tratta di una prospettiva complicata per ragioni “politiche”. Visto che i leghisti oggi – più di prima – sono largamente “minoritari”, in queste regioni, dal punto di vista elettorale. E perché, soprattutto, sono distinti e distanti. I governatori, per primi.
 
Cota, governatore del Piemonte: vicino a Bossi. E dunque molto meno a Maroni. Zaia, governatore veneto: in conflitto con Tosi. A sua volta, molto vicino a Maroni. Difficile concepire, su questa base, forme di integrazione istituzionale, fra governi e governatori regionali. E poi, se davvero la macroregione venisse istituita, quale ne sarebbe la capitale? Milano? Cioè: la città governata dalla Sinistra? E Torino e Venezia – ma anche Verona – accetterebbero il ruolo di capoluoghi di secondo livello?
 
Al di là di tutto, resta, però, la questione di fondo. La Lega si è “normalizzata”. In altri termini, si è trasformata in un partito “normale”. Come altri partiti. Più di altri partiti. Perché è radicata sul territorio, dispone di molti iscritti, molte sezioni e molti militanti. E di molti eletti – sindaci, presidenti di Provincia, oltre ai tre governatori. Ciò le garantisce un buon grado di “resistenza”, anche di fronte alle crisi. E le permette di mobilitare ancora molte persone, alle sue manifestazioni, com’è avvenuto ieri. Anche se meno – e sempre più anziane – del passato.

La Lega è, dunque, un partito-più-partito degli altri. Intorno ai suoi parlamentari, ai suoi governatori, ai suoi amministratori: c’è una rete di consulenti e collaboratori molto ampia. Come gli altri partiti, la Lega dispone di un ceto politico professionalizzato. Di una struttura, in parte, burocratizzata. Al tempo stesso, però, oggi appare diversa dal passato. Quando si presentava personalizzata, fondata (da e) su un leader carismatico. Umberto Bossi. Oggi, invece, appare acefala. Perché Maroni non è Bossi. È un leader. Non “il” leader. Il Governatore della Lombardia, ma non il Padre della Padania.

La Lega, infine, è divisa in correnti – Bossiani e Maroniti. Rammenta altri partiti. Del passato più che del presente. L’alleanza con Berlusconi le ha permesso di vincere in Lombardia e di mantenere una presenza significativa a Roma. Ma non ha impedito, anzi ha forse accentuato, il profondo arretramento subito alle recenti elezioni. Ad opera, soprattutto e anzitutto, del M5S. Che ne ha eroso, profondamente, la base soprattutto nel Nordest e nel Nordovest. E ha quasi “espulso” la Lega dalle regioni “rosse”, dov’era cresciuta molto nel 2008. E l’ha rimpiazzata nella rappresentanza dei settori sociali tradizionalmente più vicini. I lavoratori autonomi e dipendenti della piccola impresa. La piccola borghesia artigiana e commerciale.

Il M5S: ha sottratto alla Lega il monopolio della protesta contro il ceto politico. Il ruolo del partito anti-partito. Portavoce del “nuovo” in politica. Perché anch’essa – la Lega – è divenuta un partito sin troppo normale. L’ultimo rimasto, con lo stesso nome, fra i partiti della Prima Repubblica. In un Paese dove il malessere e la rabbia contro lo Stato e i partiti, ormai, non abitano più solo a Nord. Ma dovunque.

(08 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/08/news/la_lega_ora_un_partito_fin_troppo_normale-56165881/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il presidenzialismo preterintenzionale
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2013, 11:58:30 am
Il presidenzialismo preterintenzionale

di ILVO DIAMANTI


Da giovedì prossimo il Parlamento si riunirà, in seduta comune, per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Ancora non sappiamo chi sarà. Sappiamo, tuttavia, che sarà difficile succedere a Napolitano.

Per il modo in cui ha interpretato questa carica. Ma anche per il profondo cambiamento che ha conosciuto il ruolo del Presidente, nell'ultima fase. D'altronde, è sufficiente scorrere l'andamento della fiducia espressa dai cittadini nei confronti dei principali soggetti istituzionali e politici, negli ultimi sette anni. Il credito attribuito al presidente della Repubblica è superiore a tutte le altre istituzioni considerate: dalla Ue allo Stato. Per non parlare dei partiti, la cui considerazione, tra gli italiani, è minima. Peraltro, la distanza, a favore del presidente della Repubblica, è cresciuta notevolmente durante il settennato di Napolitano. Attualmente (Indagine LaPolis, marzo 2013) il grado di fiducia verso il Presidente supera quello verso la Ue di circa 15 punti. Il doppio rispetto al 2007. (Anche a causa del calo della Ue). Mentre il distacco nei confronti degli altri attori istituzionali e politici - lo Stato e i partiti - risulta quasi un abisso. Oltre 50 punti.

Ciò riflette l'accresciuta credibilità del Presidente e la parallela, crescente, in-credibilità degli altri organismi. Eppure, l'elezione di Napolitano era stata accompagnata da polemiche. In un clima politico reso difficile dall'esito del voto del 2006, che rammenta, in qualche misura, quello dello scorso febbraio. Anche allora il centrosinistra, o meglio: l'Ulivo guidato da Prodi, appariva pre-destinato a una vittoria di larga misura. Prevalse, invece, con pochi voti di vantaggio sulla Casa delle Libertà di Silvio Berlusconi. A differenza di oggi, però, non c'era un polo alternativo agli altri, come il M5S di Beppe Grillo, capace di intercettare oltre un quarto dei voti - contro tutto e tutti. Così l'elezione di Napolitano venne accolta come un gesto di arroganza: una scelta imposta da una maggioranza che non era tale. Il Presidente venne etichettato per la sua storia "comunista". Un marchio (ab) usato da Berlusconi per dividere il mondo. Fra i suoi amici e i nemici. I comunisti, appunto. Anche da ciò deriva l'insofferenza verso Prodi. L'unico ad averlo battuto - per due volte. Non a caso, il Cavaliere, nella manifestazione di sabato, ha annunciato che, se venisse eletto Prodi al Quirinale, non esiterebbe ad andarsene dall'Italia. (Per molti elettori, un auspicio più che una minaccia ...)
Napolitano, peraltro, succedeva a Ciampi. Il quale aveva rafforzato l'immagine e la credibilità dell'istituto presidenziale in misura rilevante, dopo le tensioni degli anni Novanta. Segnati da Tangentopoli, dalla caduta della Prima Repubblica e dalla sfida secessionista della Lega.

Napolitano, tuttavia, non ha impiegato molto tempo a riconquistare la fiducia popolare. Già nel novembre 2008, infatti, oltre il 70% degli italiani esprimeva (molta o moltissima) fiducia nei suoi confronti (indagini Demos e LaPolis). Cioè, 12 punti in più, rispetto al momento dell'elezione, un anno e mezzo prima. "Premiato", già allora, per le qualità che ne caratterizzeranno il percorso. A) La capacità di "unire" un Paese diviso. Politicamente e non solo. B) Il ruolo di supplenza, dapprima, e, dunque, di guida in un sistema frammentato e im-potente.

In altri termini, Napolitano offre un riferimento comune a una società dove l'antiberlusconismo si incrocia con l'anticomunismo. Dove la Lega continua a evocare l'indipendenza padana. Dove gli schieramenti sono, a loro volta, attraversati da fazioni e frazioni. Dove, quindi, è difficile ogni maggioranza stabile.

L'occasione definitiva, che ha permesso a Napolitano di rafforzare questo ruolo è, sicuramente, costituita dalle celebrazioni del 150enario dell'Unità nazionale. Nel corso del 2011. Quando il Presidente gira l'Italia, facendosi testimone e sostenitore dello spirito unitario. A cui offre e da cui ricava grande legittimazione. Tanto che, durante l'anno, avvicina e talora supera l'80% dei consensi, fra gli italiani. Un riconoscimento così elevato, tuttavia, riflette anche ragioni "politiche". In primo luogo, la capacità di Napolitano di garantire rappresentanza a un Paese provato dalla crisi. E da un governo debole e poco credibile. In ambito nazionale e internazionale.

Così, l'Italia evolve in una Repubblica quasi-presidenziale. Dove i poteri del Presidente sono dettati e moltiplicati dall'impotenza altrui. Delle istituzioni e degli attori politici più importanti. Il Parlamento, i partiti. I leader. L'esperienza del "governo tecnico", guidato da Mario Monti, ne è la logica conseguenza. È, infatti, il "governo del Presidente". Napolitano, non Monti. Perché è Napolitano che lo sceglie e lo propone. Anzi, lo impone ai principali partiti e al Parlamento. Ed è Napolitano che lo sostiene, gli fornisce il consenso - personale e istituzionale - di cui dispone. Venendone, a sua volta, influenzato. Perché l'andamento della fiducia nel Presidente riflette quello nel governo Monti. Dal 78%, nel novembre 2011, all'avvio del governo tecnico, il consenso declina, seppure in modo non lineare, nel corso del 2012. Al momento delle dimissioni di Monti, a dicembre, scende al 55% e tale resta fino alla vigilia delle elezioni. Per poi risalire un mese dopo, verso metà marzo, fino quasi al 67%. Oggi dispone di un grado di fiducia elevato dalla maggioranza di tutti gli elettorati, salvo i leghisti. Anche dagli elettori del Pdl e del M5S. Secondo i dati di Ipsos, la fiducia nei confronti del Presidente sarebbe ulteriormente cresciuta (circa 5 punti in più nell'ultimo mese). Per la dissociazione di Napolitano da Monti, dopo la "scelta politica" del Professore. Ma, soprattutto, perché il Presidente è tornato a costituire un riferimento unitario - forse l'unico esistente - in un Paese di minoranze incomunicanti, nella società e in Parlamento. Ancor più diviso di prima.

Da ciò il motivo che rende particolarmente critica la scelta del prossimo Presidente. Ancor più di prima. Perché l'Italia è divenuta una Repubblica a "presidenzialismo preterintenzionale". Dove le riforme istituzionali avvengono quasi per caso. Prodotte da pressioni sociali e colpi di mano. Dove le riforme sociali ed economiche vengono spinte dall'emergenza. Per questo occorre scegliere bene il prossimo Presidente. L'unico potere certo in questo Paese incerto. Cercando intese larghe. Se possibile "larghissime". Ma non "basse". E, comunque, non ad ogni costo.

© Riproduzione riservata (15 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/15/news/presidenzialismo_preterintenzionale-56650351/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Diventeremo tutti berlusconiani?
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 11:35:12 am
Diventeremo tutti berlusconiani?

MAPPE. Il Cavaliere non fa parte del governo Letta ma la sua presenza è tangibile: incombe di nuovo sulla politica italiana.

E il Pd sembra incapace di liberarsi di questa eredità, anche perché non è riuscito ad affermare una propria identità

di  ILVO DIAMANTI


Diventeremo tutti berlusconiani? Difficile non chiederselo, mentre assistiamo all'avvio del nuovo governo, che oggi otterrà la fiducia.
Berlusconi non ne fa parte. Ma la sua presenza è visibile. Attraverso i ministri della sua "parte". Per primo, il fedele Angelino Alfano.
D'altronde, questo governo rispecchia la prospettiva che egli stesso aveva auspicato e perseguito, fin dai giorni successivi al voto.

Una maggioranza di "larghe intese", che istituzionalizzasse l'alleanza costruita da Napolitano intorno a Monti e ai tecnici, nel novembre 2011.
Oggi quella maggioranza si ripropone, per iniziativa, ancora, del Presidente. Ma si tratta di un governo "politico", per quanto spinto (come nel 2011) dall'emergenza. Alla guida Enrico Letta, leader del Pd. Con il sostegno determinante del Pdl. Oggi, di nuovo il primo partito in Italia, secondo i sondaggi. Mentre il Pd è in caduta. Sceso al di sotto del 25% (secondo Ipsos). Se si votasse presto, il centrodestra "rischierebbe" di conquistare la maggioranza in entrambe le Camere, anche con questa orribile legge elettorale.

Berlusconi, dunque, incombe di nuovo, sulla politica italiana. Come avviene da vent'anni. Eppure sei mesi fa, appena, tutti davano la sua avventura politica praticamente conclusa. I suoi stessi leader (si fa per dire, perché nel centrodestra il leader è uno solo) l'avevano abbandonato. Invocavano le primarie del centrodestra. E si guardavano intorno, alla ricerca di una via di fuga. Io stesso consideravo il "berlusconismo", il modello politico e culturale imposto da Berlusconi, in declino. Non ho cambiato idea. Il berlusconismo interpreta il mito dell'imprenditore del Nord che si è fatto da sé. La promessa del successo possibile per tutti. Narrata attraverso i media e la "sua" televisione. È il "sogno italiano" negli anni della crescita e del benessere. Che egli ha rappresentato anche mentre declinava, negli anni Duemila. Quell'epoca è finita. Arcore e le sue ville in Sardegna non possono più disegnare l'ambiente della sua fiction. E l'immagine degli imprenditori, oggi, non è più associata al "miracolo" economico degli anni Ottanta e Novanta. Ma al dramma del suicidio per disperazione.

Anche il "partito personale", l'invenzione del Cavaliere: da Forza Italia al Pdl, dopo il 2008 ha iniziato a perdere consensi. Dieci anni, o quasi, di governo e di declino economico e sociale ne hanno ridimensionato il consenso. Così alle elezioni recenti il Pdl ha perduto circa 6.300.000 elettori. E si è ridotto a circa metà, rispetto al 2008.

Eppure Berlusconi non è finito. È sopravvissuto al berlusconismo. Meglio dei suoi stessi antagonisti. Oggi in profonda crisi, assai più di lui.

Com'è avvenuto? E perché?

Quanto al "come", direi che Berlusconi ha perso le elezioni ma ha vinto il dopo-elezioni. Perché il Pd, guidato da Bersani, il vincitore predestinato con largo anticipo, in effetti, non ha vinto. Ma ha cercato di agire da vincitore. Come se avesse vinto. Per quasi un mese, ha inseguito il progetto di un governo improbabile. Insieme al M5S di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. I quali non possono governare con i "nemici". I principali partiti della Seconda Repubblica. Dopo aver condotto una campagna elettorale contro di loro. Il Pdl e il Pd senza "l". Non possono. Perché un terzo dei loro elettori provengono da centrodestra e un terzo da centrosinistra. Qualunque scelta, per il M5S, sarebbe lacerante. Per cui ha condotto, sin qui, una guerra di logoramento. Avvicinandosi al Pd, per poi respingerlo. In diretta streaming. Visto che il suo governo ideale è proprio questo. Le "larghe intese" fra i "nemici". Contro cui mobilitarsi. Dentro e fuori il Parlamento. Almeno per ora. Fino a quando, cioè, una parte dei suoi elettori non comincerà a interrogarsi circa l'utilità del proprio voto. Com'è avvenuto in Friuli Venezia Giulia, alle recenti elezioni regionali.

Così Berlusconi, è divenuto, di giorno in giorno, più ineludibile. Impossibile cancellarlo dall'orizzonte politico, per il Pd. Il non-vincitore costretto ad agire "come se" lo fosse. "Come se" potesse decidere con chi governare. Mentre, di giorno in giorno, il ruolo di Berlusconi cresceva. Mentre Berlusconi poteva permettersi atteggiamenti da leader responsabile. Pronto a fare la propria parte. Fino al punto di concedere alla "sinistra" tutte le presidenze. Della Camera e del Senato. Perfino la presidenza della Repubblica (Napolitano non ha mica una storia di destra...). E, infine, la presidenza del Consiglio.

Per il Bene del Paese.

Così Berlusconi ha vinto il dopo-elezioni. E il centrosinistra l'ha perso. Anche se ha ottenuto tutte le cariche più importanti. Perché ha dovuto "arrendersi" al suo avversario storico. Il Pd: per la prima volta, ha formato una maggioranza "politica" con gli uomini del Pdl. Cioè, di Berlusconi. Certo, Enrico Letta ha scelto ministri giovani. Molte donne. Un po' di tecnici di valore. Un po' di politici di nuova generazione. Ma, insomma, lui, Silvio: incombe. E per il Pd conta quanto - e forse più - che per il Pdl. Perché Berlusconi è, ancora oggi, il leader verso cui gli elettori del Pd nutrono maggiore sfiducia: 94%.

La sfiducia verso Berlusconi, l'anti-berlusconismo: sono un marchio impresso nell'identità del centrosinistra fin dalle origini della Seconda Repubblica. Il centrosinistra. Condannato, da Berlusconi, a rimanere comunista. Dopo la caduta del muro e la fine del comunismo. Condannato a restare antiberlusconiano, anche dopo la fine del berlusconismo. Oggi sembra incapace di liberarsi da questa eredità.

Anche e soprattutto perché il Pd non è mai riuscito ad affermare una propria, specifica, identità. È un partito né-né. Né socialdemocratico né popolare. Semmai post. Dove coabitano, senza amore, postcomunisti e postdemocristiani (di sinistra). Un partito im-personale. Che utilizza le primarie per selezionare leader poco carismatici e lasciar fuori quelli più pop (olari). Un "partito ipotetico", ha scritto Eddy Berselli nel 2008. Rassegnato a perdere, anche quando vince - o quasi. Perché coltiva il mito della sconfitta -  e dell'opposizione. In fondo, anche Berlusconi, per il Pd e la Sinistra, è un mito. Negativo, ma non importa. Perché i miti, si sa, non muoiono.

Per non morire berlusconiani, dunque, non c'è alternativa. Occorre costruire un'alternativa: "senza" Berlusconi. "Oltre" Berlusconi. Solo a questa condizione è possibile sopravvivere a Berlusconi. Il Pd, per questo, deve cambiare in fretta. Individuare e comunicare una propria, specifica identità. Con poche parole e una leadership forte. Prima delle prossime elezioni. Non gli resta molto tempo.

(29 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/29/news/mappe_tutti_berlusconiani-57669790/?ref=HREC1-4


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il governo ideale per gli italiani
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2013, 11:36:13 am
Il governo ideale per gli italiani

di ILVO DIAMANTI


È SIGNIFICATIVA la rabbia degli italiani contro la "politica". In particolare, contro il governo che ci governa. Contro la maggioranza che lo sostiene. Contro il Parlamento. È significativo il ri-sentimento degli italiani contro i "rappresentanti" e contro le istituzioni che li "rappresentano". Perché, in fondo, è come se gli elettori si ponessero davanti allo specchio. Visto che raramente, come in questa occasione, il Parlamento ne offre una "rappresentazione" fedele. Certo: questa legge elettorale "orrenda" impedisce ai cittadini di scegliere i propri "rappresentanti". Di esprimere un giudizio e un controllo sui singoli parlamentari. Combinato con il bicameralismo perfetto, ostacola ogni maggioranza stabile e autosufficiente. Ma, nell'insieme, la composizione del Parlamento ricalca fin troppo fedelmente gli orientamenti politici degli italiani. I quali si dividono in tre grandi minoranze, non troppo diverse, per misura. Una di Centrodestra, l'altra di Centrosinistra, la terza "al di fuori". Esterna ed estranea. Dove si rifugiano "quelli che non ci stanno". Senza contare un piccolo polo di Centro. Che, in effetti, non conta molto. Perché è stato spinto a Margine, dagli elettori.

In altri termini, se questo Parlamento non favorisce la formazione di una maggioranza politica, non è per colpa di una legge che distorce e deforma le scelte degli elettori. Semmai, al contrario, è perché le riproduce in modo fin troppo fedele. Accentuandone le distanze, più delle affinità.
Così oggi il governo è sostenuto da una coalizione precaria. Perché i partiti e i parlamentari che vi partecipano fanno a gara nel marcare il proprio distacco. Reciproco. Le proprie differenze. Berlusconi e il Pdl: impegnati a promuovere i "propri" prodotti di bandiera. L'Imu sopra tutti. Ma anche a "difendere" i territori critici, per il Leader Imprenditore: la giustizia e le telecomunicazioni. Il Pd: impegnato a dimostrare il proprio impegno, ma senza troppo impegno. Per rispetto verso la responsabilità che spetta ai vincitori  -  che in effetti non hanno vinto  -  le elezioni. E per evitare un nuovo voto ravvicinato, a cui oggi non sarebbe pronto. Infine: il M5S, impegnato a esibire il proprio dis-impegno. Ma con impegno. Come se fossero gli altri a non volerne sapere di lui. E non lui a non volersi confondere e contaminare, con gli altri.

Fuori dal Palazzo, intanto, la piazza rumoreggia. E i cittadini esprimono, in ogni modo, la loro insoddisfazione. La loro rabbia. Ogni gesto di disperazione. Ogni atto di follia individuale. Ogni esplosione soggettiva estrema. Tutto diventa  -  tutto viene interpretato come  -  un segno di ribellione contro la Politica, i Politici, i Partiti, il Parlamento. Lo Stato. E la Politica, i Politici, i Partiti, il Parlamento, lo Stato: diventano  -  a loro volta  -  i mandanti, anzi, i veri responsabili. Di ogni suicidio e omicidio, di ogni aggressione. Di ogni atto disperato commesso da disperati. Per disperazione. Come se noi non c'entrassimo. Come se la colpa fosse solo "loro". Dei Politici, dei Partiti, del Parlamento. Come se questo governo  -  e questa maggioranza che non piace quasi a nessuno (a me di certo no)  -  uscissero dal nulla. Come se questo Parlamento fosse stato eletto "a nostra insaputa".

Non è così. Purtroppo. Il problema, semmai, è che questa legge elettorale orrenda ha prodotto un Parlamento che rispecchia in modo fedele gli orientamenti e le differenze dell'elettorato.
Dove coabitano tre Grandi Minoranze che non si sopportano. Due Soggetti Politici e uno Antipolitico. O meglio: premiato dal voto di molti elettori (due terzi, almeno) per risentimento contro "i partiti". Contro la Casta.

Così oggi si ripropone una scena nota, in Italia. Il "governo nonostante". Subìto perfino dal premier, Enrico Letta. Il quale, ospite di "Che tempo che fa", ieri sera, ha ammesso che "questo non è certo il governo ideale per gli italiani". A torto, perché riflette gli umori degli "italiani nonostante". Ai quali non piace perdere. Ma nemmeno vincere. Perché non amano la concorrenza, né la competizione. Come in economia e negli affari. Tutti liberisti, tutti contro le corporazioni e contro i privilegi di gruppo e di categoria. Tutti contro il familismo. Tutti per il merito. Eppure quasi tutti coinvolti in  -  e tutelati da  -  corporazioni e gruppi. A nessuno verrebbe in mente di escludere figli e parenti dalla successione - nell'azienda e nel mercato del lavoro. In nome del merito. Della società aperta.

Così oggi siamo guidati da un "governo di necessità" perché viviamo in uno "Stato di necessità". Sostenuto da una "maggioranza di necessità". Composto da partiti e politici che non si sopportano. Con un'opposizione "estranea". D'altronde, è dal novembre 2011 che il Paese è governato da un Governo del Presidente. Voluto e garantito da Napolitano. Anche oggi, l'unico presidente possibile.

Per l'incapacità del Parlamento di trovare l'accordo su un altro. Da quasi due anni il Paese è guidato dal Governo del Presidente. Per Stato di Necessità. Anche oggi. Perché il primo garante di Enrico Letta è Napolitano. D'altronde, per quasi cinquant'anni, dal 1948 ad oggi, gli italiani hanno votato liberamente per eleggere le stesse forze politiche. Al governo e all'opposizione. Visto che la Dc ha sempre governato. Con il Pci sempre all'opposizione. Anche se tutte le leggi e le riforme che contano sono state votate all'unanimità. Secondo il modello consociativo. Dove maggioranza e opposizione coesistono e collaborano. Anzi, di più: co-governano. Come nella società, fra i cittadini. Dove tutti sono divisi. Ma anche uniti. Quando serve. Nelle emergenze. Cioè: sempre, visto che in Italia l'emergenza è perenne. Permanente.

Questo governo e questa maggioranza, dunque, sono "rappresentativi". Perché "rappresentano" fedelmente gli italiani. Ai quali piace stare "dentro" e "fuori", al tempo stesso. Al governo, ma senza impegno. D'accordo con Monti, ieri, e con Letta, oggi (secondo i sondaggi, il politico più popolare in assoluto). Perché ci impongono sacrifici che nessun governo "di parte" potrebbe imporre. Ma pronti a prenderne le distanze, appena risulti utile e opportuno. Come ha fatto Berlusconi. Che ha scaricato Monti, quando gli è parso vantaggioso. Gli italiani: un po' Berlusconi e un po' grilli. Di governo e di opposizione  -  secondo il momento. E, talora, un po' di sinistra. Perché "bisogna saper perdere". Ma il problema non è che "la Politica è lontana da noi". Al contrario: è fin troppo vicina. Troppo simile a noi. Questo è il problema. Più facile cambiare la Politica che gli italiani.

(06 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/06/news/diamanti_governo-58144673/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La nostra alluvione quotidiana
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2013, 04:43:36 pm
La nostra alluvione quotidiana

Ilvo DIAMANTI

Da casa mia, oggi, non riesco a vedere il Pasubio. Ma si indovinano, a fatica, anche i Lessini, che distano pochi chilometri. Avvolti nelle nuvole, tanto basse e scure, tanto dense e pesanti: sembra, quasi, che ci cadano addosso. Invece si sciolgono. E si rovesciano su di noi. Da due giorni piove in modo incessante. Qui, nei dintorni di Vicenza. Come nella Pedemontana veneta. Da Verona a Treviso. Scroscia, scroscia e scroscia ancora. In modo violento. Qualche pausa, breve. E poi riprende. In un giorno e mezzo è caduta tanta pioggia come, mediamente, in due mesi. Così è tornato l'allarme.

Due anni e mezzo dopo l'alluvione del 2 novembre 2010. L'acqua è salita in tutti i torrenti, nelle campagne tra Caldogno e Vicenza. Il Bacchiglione è in piena. Ho appena attraversato i ponti, a Cresole e, poi, all'ingresso di Vicenza, prima di imboccare via S. Antonino. L'acqua gonfia il fiume e sfiora i ponti. I campi, d'altronde, sono allagati, in diversi punti. Vicenza è in stato di emergenza. Le scuole chiuse, molte strade non accessibili. Per precauzione. L'alluvione dell'autunno 2010, inattesa, ha travolto ogni argine e ogni sicurezza.

Così, da allora l'allarme scatta, dopo ogni pioggia più intensa e lunga del solito. Un evento, peraltro, sempre più frequente. Perché è cambiato il clima. Lo diciamo sempre, ma è vero. Le precipitazioni sono sempre più simili a uragani. Qualche volta, a monsoni. Così, negli ultimi tempi è cambiata anche l'attenzione. È cambiato l'atteggiamento delle persone e delle amministrazioni. I torrenti e i fiumi hanno cominciato ad essere considerati come pericoli incombenti. E, dopo decenni di fatalistico immobilismo, sono iniziati lavori di riassetto, lungo il greto dei corsi d'acqua. Me ne sono reso conto anch'io, perché, quando ho tempo, risalgo gli argini del Bacchiglione in bici. Ma da un anno mi riesce sempre più difficile. Perché sono inagibili, bloccati dalle ruspe.

Tuttavia, le opere di riassetto, oggi, non riescono e non possono rimediare a un problema degenerato nel corso degli anni. La riduzione del territorio a una plaga immobiliare. A una campagna urbanizzata e industrializzata. Dove la crisi immobiliare ed economica non ha, ovviamente, ridotto le aree edificate. Le ha rese solamente più deserte.  Ogni piccolo uragano, ogni piccolo monsone, così, rischia di far esondare i corsi d'acqua  -  peraltro numerosi - che attraversano questa zona. Perché il territorio non è in grado di sopportare, né di assorbire le piene improvvise. È una storia, peraltro, nota. Anche altrove, in Italia.  Per restare agli ultimi anni: dalla Maremma alle Cinque Terre, da Orvieto a Genova. A Messina... Dovunque il degrado dell'ambiente si è prodotto e riprodotto senza "argini". Così le tragedie si susseguono, con grande emozione e grande rimozione. Grandi esplosioni polemiche e grandi silenzi colpevoli.

Oggi, nonostante tutto, non si respira il clima di emergenza del recente passato.  Lungo la strada che da Caldogno conduce a Vicenza, sono poche le case che, davanti agli ingressi, hanno disposto i sacchetti di sabbia, per precauzione. I negozi sono aperti, nei garage ci sono ancora le auto. Proseguendo, dopo il ponte del Marchese, sulla destra, dove fino a qualche anno fa c'era l'aeroporto civile "Dal Molin", ora si erge il villaggio militare americano. È sorto in fretta. Imponente. Una piccola Manhattan.  In mezzo al (poco) verde (rimasto). E alle acque. Fra poco verrà popolato dai militari USA, impegnati nelle missioni "di pace" in Medio Oriente. E in Oriente. Con un occhio a quel che avviene nell'(ex)URSS.

Il nostro paesaggio: è cambiato e sta cambiando ancora. Ma noi ci siamo assuefatti. A ogni cambiamento: del territorio, del clima, dello spazio, dell'ambiente. Neppure le alluvioni, ormai, ci spaventano. Né le piccole metropoli che sorgono, in fretta, accanto a noi. Non ci stupiamo più di nulla. Le emergenze sono divenute la normalità. Ed è questo il rischio peggiore, per noi. L'abitudine. Che ci rende ciechi, sordi. E indifferenti.  Senza occhi, senza orecchie. Senza naso. E, purtroppo, anche senza cuore.

(17 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/05/17/news/la_nostra_alluvione_quotidiana-59010451/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Fenomenologia del renzismo
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2013, 07:11:46 pm
   
Fenomenologia del renzismo

MAPPE.

I consensi dell'ex rottamatore mescolano elettori dei due poli, boom tra gli anziani e al Nord. 

Gradimento al 64%. Ma piacere a tutti è un rischio

di ILVO DIAMANTI


MATTEO Renzi non si nasconde. Ma non si espone. In questo periodo, è ben visibile. Ma preferisce non "scendere in campo" direttamente. Al Salone del libro di Torino, ieri, ha espresso l'intenzione di andare "Oltre la rottamazione" (titolo del suo libro, pubblicato da Mondadori). Perché si tratta di uno slogan efficace, ma che, al tempo stesso, fa paura. Visto che, osserva Renzi, oggi, in Italia, "il 70% della popolazione è over 40". Così, il sindaco di Firenze oggi frena sulla "questione generazionale", sulla frattura fra vecchio e nuovo, in politica e nella società. Su cui aveva impostato la sua offerta politica, fino alle primarie. Quando aveva ottenuto un risultato rilevante, ma non sufficiente a vincere.

Anzi: lontano da quello ottenuto da Bersani. Anche per questo appare prudente. E, per la successione di Bersani, come futuro segretario del PD, preferisce lanciare la candidatura dell'ex-sindaco di Torino, Sergio Chiamparino.

Resta coperto, Renzi. Teme, ancora, di vincere la competizione dell'audience e di perdere quella politica. Di risultare il candidato preferito "fuori", più ancora che "dentro" il partito. Come nelle precedenti primarie del PD. Così attende. Di rientrare direttamente in gioco quando si tratterà di scegliere non il futuro segretario, ma il candidato Premier. D'altronde,
nell'opinione pubblica continuano ad emergere, nei suoi confronti, orientamenti molto favorevoli. Nell'Atlante Politico di Demos, infatti, il 64% degli elettori valuta positivamente la sua azione politica (con un voto pari o superiore al 6). Primo fra i leader. Avvicinato, a breve distanza, dall'attuale Premier, Enrico Letta. Anch'egli giovane, ma di certo meno polemico verso il ceto politico (non solo del PD). Favorito dall'incarico di governo, sostenuto da intese molto larghe.

LE TABELLE su http://www.repubblica.it/politica/2013/05/20/news/mappe_fenomenologia_renzismo-59188271/?ref=HREA-1

Ciò che colpisce, tuttavia, è la trasversalità del consenso. Anzitutto, sotto il profilo dell'età. È, infatti, evidente come il richiamo alla "rottamazione" non abbia preoccupato gli elettori più anziani. Fra i quali, al contrario, il sindaco di Firenze ottiene il gradimento più elevato (oltre i 65 anni sfiora il 70%). Inoltre, è interessante osservare come egli riesca a sfondare il "confine padano", visto che ottiene il sostegno maggiore (oltre il 70%) proprio nel Nord. Mentre è più debole nel Mezzogiorno (58%). Renzi: gode dei livelli di consenso più elevati fra gli studenti e i pensionati. Fra gli impiegati pubblici. Fra i cattolici praticanti. Mentre è (un po') meno sostenuto dagli operai, dai liberi professionisti, dagli imprenditori. Dalle persone con un basso livello di pratica religiosa. Ma il maggior grado di trasversalità dei consensi nei suoi riguardi emerge in rapporto agli orientamenti di voto. Renzi, infatti, ottiene un giudizio positivo dal 77% degli elettori del PD, ma da oltre l'86% di quelli di Scelta Civica e dell'UdC. È, comunque, molto apprezzato anche dagli elettori di Centrodestra. Dal 70% dei leghisti, da oltre i due terzi della base del PdL. Mentre il suo consenso cala fra gli elettori di SEL e degli altri partiti di Sinistra - anche se si avvicina al 60%. I livelli più bassi di sostegno, nei suoi confronti, si osservano, però, nella base elettorale del M5S e nella zona grigia dell'astensione e dell'indecisione. Anche qui, comunque, egli dispone di un gradimento maggioritario, superiore al 50%.

Renzi, dunque, piace a tutte le principali componenti dell'elettorato. E appare in grado, soprattutto, di superare i tradizionali limiti espressi dal PD. In particolare, sul piano territoriale. Nonostante sia sindaco di Firenze, infatti, Renzi non sembra un leader della "Lega di Centro" - per citare la formula usata da Marc Lazar per definire i DS (e valida anche per il PD, fino alle ultime elezioni). Sicuramente, non subisce il pregiudizio anticomunista, che ha vincolato la crescita del PD, come dello stesso Ulivo. Renzi, al contrario, piace agli elettori di Centro, e perfino di Destra, più ancora che a quelli di Sinistra. Non è un caso che, anche fra i possibili segretari del partito, egli sia decisamente il preferito dagli elettori del PD. Ma perda consensi tra quelli di SEL e della Sinistra (a favore di Barca e di Civati).

Il profilo politico e sociale del consenso a Renzi, dunque, ne sottolinea le ragioni di forza. Ma ne suggerisce anche i possibili limiti. Che in parte coincidono.

Renzi, infatti, si sottrae alla tradizionale frattura fra destra e sinistra. E impone, invece, la questione generazionale, legata al rinnovamento politico. In questo modo, intercetta l'insoddisfazione - diffusa - verso le istituzioni e i gruppi dirigenti di partito. Ponendosi in concorrenza con Grillo e il M5S. Infine, il sindaco di Firenze è tra i più abili nell'impugnare le armi del berlusconismo: la personalizzazione e la comunicazione. Non a caso proprio Berlusconi, come ha ribadito Renzi, anche ieri, ha bloccato la sua candidatura alla guida del governo.

Insomma, Renzi piace un po' a tutti. E questo potrebbe diventare un problema, oltre che un vantaggio. Le stesse basi del suo consenso, inoltre, potrebbero costituire una minaccia, oltre che una risorsa. Renzi, in particolare, rischia di non ancorarsi alle "questioni" e alle "fratture" sociali. Di cui la distinzione fra destra e sinistra è uno specchio. Rischia, dunque, di non dare rappresentanza adeguata ai problemi e alle domande delle principali componenti del mercato del lavoro. Che, in una fase drammatica come questa, si sono rivolte, non a caso, soprattutto al M5S. Infine, non è chiaro a quale alternativa guardi, rispetto al "partito personale" "mediale" e delle " nomenclature", distante dalla società e dal territorio. E oggi dominante.

Anche per questo, probabilmente, Matteo Renzi preferisce "restare fuori" dalle scelte - e dalle polemiche - che riguardano il partito e il governo. In attesa che i tempi maturino - e logorino i suoi concorrenti. (Bersani, che lo aveva battuto alle primarie, si è già "consumato").

Tuttavia Renzi, in questi tempi crudi, rischia. Se non spiega cosa ci sia "oltre la rottamazione". Quali priorità. E quali parole. Se non spiega: come sia possibile imporle. E, soprattutto, cambiare il PD da fuori. Senza conquistarne la guida. Renzi rischia, altrimenti, di arrivare anch'egli logoro. Alla guida di un partito logoro.

(20 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/20/news/mappe_fenomenologia_renzismo-59188271/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il riscatto dei partiti
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2013, 04:08:03 pm
Il riscatto dei partiti

Mappe.

Pdl e M5S soffrono l'assenza dei leader comunali. Base e tradizione così il Pd vince sul territorio.
Nel centrodestra i soggetti più radicati si sono indeboliti.
Al Sud An si è liquefatta, mentre al Nord la Lega si è disintegrata

di ILVO DIAMANTI


L'esito di queste consultazioni, per quanto ancora provvisorio, è dettato da motivi prevalentemente locali. Dovrebbe, dunque, rammentare ai soggetti politici "nazionali" l'importanza del "territorio". Che tende, invece, ad essere rimosso.

In questa occasione, infatti, hanno vinto, anzitutto, i "partiti" che dispongono di candidati credibili. Di personale, volontari e militanti attivi. Ma anche di tradizioni e valori sedimentati. Sul territorio. Così si spiega, anzitutto, l'affermazione del Pd e del Centrosinistra. Che si sono affermati in 5 comuni capoluogo su 16. E andranno al ballottaggio in altri 10. In posizione di vantaggio anche in alcune città dov'era al governo il Centrodestra. Come Treviso, Imperia, Iglesias, Brescia, Viterbo. E, anzitutto, Roma. Il Centrosinistra si è presentato, in prevalenza, unito. Il Pd, cioè, si è alleato con i partiti di Sinistra. Talora, anche con quelli di Centro. Nel Centrodestra, parallelamente, il Pdl si è alleato con la Lega, nel Nord, e con altre formazioni di Destra. Mentre il M5S si è presentato da solo. Dovunque.

LE TABELLE su http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-risultati2013/2013/05/29/news/il_riscatto_dei_partiti-59873642/?ref=HREA-1

Il rapporto con il territorio, peraltro, ha ridimensionato le novità emerse alle elezioni politiche di febbraio. Ciò appare chiaro se facciamo riferimento alla "simulazione" pubblicata lunedì. Dove l'esito delle consultazioni amministrative era stato elaborato (dal Laboratorio elettorale LaPolis-Università di Urbino) "come se" si votasse allo stesso modo che alle politiche. La differenza rispetto ai risultati "reali" appare evidente. In particolare, si osserva un ritorno del bipolarismo, che ha caratterizzato la Seconda Repubblica, fino alle recenti elezioni politiche. Riflette il dominio, in queste consultazioni, dei due partiti maggiori e delle coalizioni raccolte intorno a loro. E il contemporaneo arretramento del M5S. Nelle sfide per i sindaci, infatti, il M5S è andato al ballottaggio solo in 3 comuni oltre 15mila abitanti. Mentre, se il voto avesse riprodotto quello dello scorso febbraio, oggi sarebbe in corsa in 53. Quasi dovunque, invece, la sfida si giocherà fra Pd e Pdl. Centrosinistra e Centrodestra. Che si affronteranno direttamente, con i loro candidati sindaci, in gran parte dei 66 comuni (maggiori). Nel complesso, nei Comuni maggiori, il Pd e il Centrosinistra hanno, dunque, ottenuto, sin qui, un esito positivo  -  e imprevisto. Hanno, infatti, eletto 15 sindaci. Il Pdl e il Centrodestra 5 (1 la Lega da sola). Il M5S nessuno. In termini percentuali, il Pd e gli alleati, rispetto alle politiche sono cresciuti di quasi 8 punti, il Pdl e il Centrodestra di circa 5. Il M5S, invece, ne ha perduti quasi 17. Cioè: i due terzi. (Peraltro, in valori assoluti, tutti i partiti hanno subito un arretramento più o meno sensibile  -  visto il calo della partecipazione elettorale.)

Da ciò un "rischio interpretativo": trattare come equivalenti le elezioni politiche e quelle amministrative. Considerare, dunque, il voto locale come "conseguenza" di quel che è avvenuto e avviene a livello nazionale. Interpretare, quindi, il successo del Pd sul Pdl come il differente effetto delle "larghe alleanze" sugli orientamenti degli elettori. E leggere nel risultato amministrativo del M5S la sanzione alle strategie del (non) partito di Grillo in Parlamento. Al suo rifiuto di ogni alleanza. In particolare: con il Centrosinistra.
D'altronde, il dibattito dentro e intorno ai partiti  -  nazionali  -  segue questo schema. Così, nel Pd si festeggia, mentre nel Pdl emergono dubbi e perplessità. Nella Lega si tace. E nel M5S Beppe Grillo se la prende con gli elettori. Ingrati. Che "scegliendo Pd e Pdl hanno imboccato una via senza ritorno".
Ma le scelte di voto alle amministrative e alle elezioni politiche non hanno lo stesso segno. Non sono coerenti, né, tanto meno, conseguenti. Semmai, andrebbero lette in modo inverso. Dal basso verso l'alto. Per sottolineare l'importanza dell'organizzazione politica sul territorio.

Il buon risultato del Pd e del Centrosinistra, dunque, dipende dalla loro capacità di mobilitazione sociale, già verificata alle primarie  -  recenti e passate. Dipende, inoltre, dai candidati sindaci e consiglieri presentati in lista. E dal senso di identità degli elettori, sedimentato nel tempo, riprodotto dalle reti comunitarie e associative. Dipende, cioè, dalla presenza del partito. In ambito territoriale. Dove il Pd c'è ancora. Per quanto indebolito, resiste. Il Pdl molto meno. La sua identità "dipende" da Silvio Berlusconi. E quindi funziona alle elezioni nazionali. Molto meno in ambito locale. Come il M5S, che si riflette nella figura di Beppe Grillo. E, per la comunicazione, si affida alla Rete. Mentre in ambito locale non dispone ancora di persone, militanti, attivisti conosciuti e affidabili. Nel Centrodestra, invece, i soggetti più radicati e organizzati, sul territorio, si sono indeboliti. La Lega nel Nord: dis-integrata. An nel Sud: liquefatta nel Pdl. Così, le elezioni amministrative dimostrano e anzi confermano che i "partiti", come canali di partecipazione e di formazione della classe dirigente, radicati a livello sociale e territoriale: servono. E anche per questo il Centrosinistra governa in tutte le principali città italiane. Ad eccezione di Roma. Fino ad oggi, almeno.

Per questo, occorre cautela nel generalizzare il significato del voto amministrativo. Dare il M5S per "affondato". Il Pdl in difficoltà. E il Pd rilanciato. Come ai tempi delle mitiche primarie. (Guai, soprattutto, se a crederci fosse il gruppo dirigente centrale.)

Tuttavia, questa consultazione avrà, sicuramente, effetti politici nazionali. Contrastanti, però. Rassicurerà la maggioranza di governo. Per ora. Ma nelle prossime due settimane le cose potrebbero cambiare. Sensibilmente. Perché il M5S, presumibilmente, reagirà al clima di "sconfitta" che rischia di avvolgerlo. Perché ai ballottaggi si scontreranno Pd e Pdl. Quasi ovunque. E anzitutto a Roma. I principali alleati di governo. Uno contro l'altro. Alla conquista della capitale e di molte altre importanti città.

Così il significato del voto locale rischia di venire "nazionalizzato". Ricacciando, definitivamente, il "territorio" alla periferia. Di Roma.

(29 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-risultati2013/2013/05/29/news/il_riscatto_dei_partiti-59873642/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Piazze vuote e astensioni: così in Italia esplode il distacco...
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2013, 11:14:56 pm
Piazze vuote e astensioni: così in Italia esplode il distacco dalla politica

di ILVO DIAMANTI


IN ITALIA tutte le elezioni hanno un impatto nazionale. Anche quelle amministrative. Regionali e comunali. Cinque anni fa, il successo di Alemanno a Roma, nel ballottaggio, fu, in parte, influenzato dalla vittoria, larga, di Berlusconi e del centrodestra alle politiche, contemporanee al primo turno. Reciprocamente, la sconfitta di Francesco Rutelli costò a Walter Veltroni forse più di quella alle elezioni politiche. Dove il Pd aveva ottenuto oltre il 33%. Un risultato che oggi appare stellare.

Tuttavia, questo turno amministrativo è passato quasi nel silenzio. Politico e mediatico. Piazze semivuote, spazio ridotto in tivù e sugli altri canali. Eppure, i motivi di interesse non mancano. Al contrario. Basti pensare al numero di elettori chiamati a votare: quasi 7 milioni. In 564 Comuni. Fra cui 92 con più di 15 mila abitanti. Infine, o meglio, in primo luogo: Roma. Appunto. La Capitale. La più importante. Governata dal centrodestra. Dopo una lunga stagione di centrosinistra. Oggi è al centro di una competizione quantomeno aperta. Ma non accesa. Il clima del dibattito politico intorno a Roma, tanto più alle altre città al voto, appare tiepido. Quasi freddo. Come quello della primavera invernale che ci avvolge. Per alcune ragioni, importanti per la valutazione dei risultati di oggi.

La prima ragione riguarda il disincanto politico - e antipolitico - del nostro tempo. Sottolineato, in primo luogo, dai tassi di astensione. Che già ieri risultavano elevati e in crescita. Anche se la comparazione
con la precedente consultazione è deviante, in quanto, come abbiamo già ricordato, cinque anni fa si votò contemporaneamente per le elezioni politiche. Che contribuirono - e contribuiscono sempre - a incrementare la partecipazione elettorale. Tuttavia, è indubbio che il distacco degli italiani verso i partiti e le istituzioni sia diffuso anche a livello locale. Anche i sindaci, vent'anni fa protagonisti del cambiamento, oggi appaiono confusi nella nebbia della sfiducia politica.

Il secondo motivo di interesse richiama l'esito delle elezioni di febbraio. È, infatti, inevitabile la tentazione di cercare conferme o smentite al risultato del voto recente. In particolare, per misurare la capacità competitiva del M5S e il grado di tenuta del Pd e del Pdl. Nonostante che le elezioni amministrative siano influenzate da fattori specifici. Per prima: la figura del sindaco e dei candidati locali - noti e attivi nelle città. Inoltre: l'offerta politica, caratterizzata da liste civiche e "personali". Tuttavia, nelle città maggiori, la competizione riflette la struttura emersa alle elezioni politiche di febbraio. Nonostante la frammentazione delle liste e dei candidati sindaci, si delinea, infatti, un confronto prevalentemente "tripolare": fra centrosinistra, centrodestra e M5S. Se il voto in queste amministrative riproducesse i dati delle elezioni di febbraio, dunque, emergerebbe un quadro aperto e contrastato. (Come mostra la simulazione realizzata dall'Osservatorio elettorale del Lapolis-Università di Urbino). Solo in 2 Comuni (superiori a 15 mila abitanti) il sindaco verrebbe eletto al primo turno. Ma in nessun capoluogo di provincia. In tutti gli altri, invece, si andrebbe al secondo turno. Il M5S, in particolare, andrebbe al ballottaggio in 53 Comuni maggiori e in 10 capoluoghi di provincia. Fra cui Roma. Diverrebbe, così, il principale "sfidante" delle due maggiori coalizioni e dei loro partiti di riferimento: Pdl e Pd. I cui candidati, invece, si troverebbero faccia a faccia, al ballottaggio, in 35 Comuni e in 6 capoluoghi di provincia. Dunque: una (per quanto ampia) minoranza.

Naturalmente, meglio ripeterlo, il voto amministrativo è altra cosa rispetto a quello politico. Se n'è già visto un esempio alle elezioni regionali in Friuli. Dove il M5S è uscito ridimensionato. Tuttavia, è difficile anche pensare il contrario. Che le elezioni di febbraio non abbiano alcuna influenza su quel che avverrà in queste amministrative.

Da ciò la cautela con cui i media - e prima ancora gli attori politici nazionali - affrontano questa scadenza. Da un lato, c'è il timore di alimentare, ulteriormente, la sindrome antipolitica, favorendo il M5S. D'altra parte, il Movimento 5Stelle stesso ha i suoi problemi a gestire il successo. A livello nazionale e in Parlamento. Ma anche in ambito locale, dove non è organizzato. E rischia di essere "usato", opportunisticamente, da soggetti politici alla ricerca di un traino. Anche per questo non ha presentato liste in 16 Comuni (maggiori), dove pure aveva ottenuto risultati molto rilevanti.

Tuttavia, la bassa intensità del dibattito dipende, anzitutto, dall'asimmetria delle relazioni politiche a livello nazionale e locale. Fra Pd e Pdl: alleati di governo e antagonisti alle elezioni amministrative. Dovunque.
Il timore che le tensioni elettorali locali producano fratture (nel governo e nei partiti), favorendo il M5S, spinge, dunque, Pdl e Pd, Alfano e Letta, a "sordinare" il confronto.

Così Roma Capitale - politica oltre che nazionale - diventa solo una città al voto. Fra le altre.

(27 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/27/news/piazze_vuote_e_astensioni_cos_in_italia_esplode_il_distacco_dalla_politica-59714754/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le parole per ricominciare
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2013, 06:44:25 pm

Le parole per ricominciare

Mappe.

Quelle che ci uniscono: "merito", "uguaglianza", "solidarietà". quelle che ci dividono: "egoismo", "furbizia", "evasione fiscale".

Il nuovo lessico degli italiani di Demos-Coop per la Repubblica delle Idee racconta come parliamo. E cosa vorremmo sentire nei prossimi anni

di ILVO DIAMANTI
   
   
Il Lessico dei Tempi Nuovi, costruito in base a un'indagine di Demos-Coop per la Repubblica delle Idee, in effetti, non sembra proporre idee molto nuove. Conferma, invece, alcuni elementi noti del linguaggio, e quindi della cultura politica dei nostri giorni. E altri, invece, li dissimula. Rendendoli, per questo, più evidenti. Si delinea, cioè, una polarizzazione intorno a valori e riferimenti sociali condivisi oppure "divisi" - che provocano divisione. Adesione oppure distacco. Parole pronunciate da tutti, con tono imperativo, eppure di rammarico. Perché evocano attese perlopiù deluse. O, comunque, eluse. Le pari opportunità alle Donne e le maggiori opportunità ai Giovani; l'importanza da attribuire al Merito ma anche all'Uguaglianza.

Al Futuro e alla Democrazia; all'Unità Nazionale e alla Solidarietà; al Risparmio e alla Cooperazione. Agli imprenditori. E poi al Popolo. Usato come una bandiera, da movimenti e attori politici. Anche se con significati diversi. Visto che è la radice della Democrazia, ma anche del Populismo. Il Popolo. Una parola che ha grande futuro. Soprattutto a Sinistra. Al primo posto nel dizionario del nostro tempo, c'è, però, Papa Francesco. Vettore del consenso e del cambiamento. Riferimento condiviso. Da tutti. A destra ma anche a sinistra. Soprattutto fra le donne.

Nella rappresentazione sociale, appare molto più forte della Chiesa - che pure migliora la propria credibilità, rispetto all'anno scorso. Il riconoscimento attribuito a Papa Francesco conferma l'importanza assunta dalle parole e dalla figura che le impersona. Soprattutto nel passaggio dall'eccesso alla crisi. Il Pontefice, infatti, utilizza parole semplici, quasi banali. Il richiamo ai poveri, agli emarginati, alla bontà e alla tenerezza. L'invito a non rassegnarsi. Può sembrare un catalogo di buoni sentimenti. Che però suscitano larga approvazione. Come molte fra le "parole" che, fra gli italiani, riscuotono maggiore approvazione. Papa Francesco le riassume e personifica tutte insieme. Per questo "piace" a - quasi - tutti.

Per la stessa ragione, all'opposto, in basso a sinistra, incontriamo altre due persone. Altrettanto riconosciute, in Italia. Per motivi esattamente alternativi. Perché "dividono". Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Quanto di più diverso e lontano da Papa Francesco. La loro posizione, in solitudine, in fondo alla mappa dei riferimenti del linguaggio politico, in fondo, è un segno di forza e di distinzione. In modo simmetrico al Papa.

Il Pontefice: apprezzato da tutti. Il Cavaliere e il Comedian: capaci di spezzare il clima di opinione. Di produrre fratture profonde negli atteggiamenti politici degli italiani. Berlusconi: colui che per vent'anni ha diviso il Paese, su base personale. A favore o contro di lui. Grillo, che, di piazza in piazza e sulla Rete - ma anche in Tv, senza andarci mai - ha diviso gli elettori "dai" partiti. Dai politici. I quali, non a caso, si collocano in un'area "ai margini" del linguaggio. Tutti insieme. Partiti e politici, appunto. Ma anche Destra e Sinistra. Federalismo e Grandi intese. Il Presidenzialismo, oggi in questione. Uniti dal disincanto. Si salvano Enrico Letta e Matteo Renzi. Discussi e discutibili, ma non "de-legittimati". I quali si staccano dalle altre parole della politica corrente, risucchiate, invece, dalla corrente dell'antipolitica. Che non piacciono agli italiani.

Comunque, non sono socialmente "riconosciute". Al pari di altri atteggiamenti  -  la furbizia, l'egoismo, l'indulgenza verso l'evasione fiscale  -  che, magari, in privato, vengono accolti e praticati. Senza, però, venire ammessi. Diverso è il caso dell'Islam. Solleva inquietudine, soprattutto, presso i settori della popolazione che "soffrono" maggiormente delle paure "globali". Le persone più anziane e meno istruite, in particolare. L'Islam, tuttavia, è anche motivo di divisione politica. Non a caso è guardato in modo ostile soprattutto
da chi si sente di Destra.

Ci sono poi altre parole, che suscitano sentimenti contrastanti. Richiamano istituzioni e soggetti, progetti e obiettivi molto diversi. In ambito pubblico, religioso, economico ed etico. La Chiesa, lo Stato e l'Unione Europea. La concorrenza, il consumo e il divertimento. I magistrati. Le unioni gay. Occupano uno spazio pubblico di confronto e discussione. Controverso e contrastato. In base alla posizione politica ma anche alla generazione. La concorrenza, il divertimento, le unioni gay (ma anche Grillo), ad esempio: sono - relativamente - più popolari fra i giovani. Il presidenzialismo, la furbizia, il federalismo e la Chiesa: piacciono di più a destra.

Nell'insieme, il lessico degli italiani, descritto dall'indagine di Demos-coop per La Repubblica delle Idee, riproduce le certezze e le incertezze di questa fase di cambiamento - senza orizzonte. Un tempo nel quale ri-emerge il controcanto, già evocato, fra domande deluse e realtà deludente. Tra la richiesta di beni comuni e di comuni virtù, da un lato, e il diffuso malessere prodotto dalla politica e dal senso cinico diffuso, dall'altro. È la fatica di tradurre in fatti quel che si dice. E le parole in effetti.

Anche perché, in questo dizionario, mancano parole di largo uso e consumo, in questa fase, con grande successo. Le abbiamo volutamente escluse, in modo consapevole. Perché evocano violenza e aggressione. Invettiva e disprezzo.

Non l'abbiamo fatto per reticenza o per buona educazione (anche se gli antichi vizi, appresi da giovani, in famiglia e a scuola, non si perdono). Ma perché le parole, nella vita pubblica e privata, sono fatti. Così noi preferiamo "non dirle". Per "ri-cominciare", preferiamo scrivere piuttosto che "de-scrivere" quel che non ci
piace.

© Riproduzione riservata 2013

DA - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/firenze2013/2013/06/06/news/mappe_dizionario_futuro-60463360/?ref=HRER3-1


Titolo: Un salto neI voto, nuovo saggio del professore Ilvo Diamanti
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 05:26:48 pm
Tutti i perché del caso Italia

E' in edicola Un salto neI voto, nuovo saggio del professore Ilvo Diamanti che ripercorre le vicende che hanno portato all'affermazione del Movimento 5 Stelle alle ultime elezioni nazionali, analizzando la genesi e le prospettive di un fenomeno che ha cambiato lo scenario politico italiano

di SEBASTIANO MESSINA       


Ci sono dei momenti nella vita - dopo la vittoria di Berlusconi del 1994, per esempio, o dopo il risultato-choc di Grillo del 2013 - in cui tu ti fermi, sconcertato, e ti fai tre domande. La prima: cosa diavolo è successo, esattamente? La seconda: ma come è potuto accadere? La terza: perché nessuno l'aveva previsto? Vuoi capire, renderti conto di quello che accade intorno a te, e magari provare a immaginare quello che può capitarti domani, giusto per non arrivarci - ancora una volta - impreparato.

Sull'avvento del berlusconismo è già stato scritto tutto, anche se sono passati quasi vent'anni e ancora non siamo riusciti a liberarci dall'incantesimo che paralizza la democrazia italiana. Anche sulla sorpresa Grillo si è cimentato qualcuno, ma non con il rigore del politologo che mette in campo Ilvo Diamanti con quello che lui definisce "instant-book" ma che è in realtà un saggio lucidissimo e documentato sulle elezioni che hanno cambiato lo scenario politico italiano: si intitola con elegante autoironia Un salto nel voto Laterza, 230 pagine, 15 euro) ed è, come annuncia il sottotitolo, un vero "ritratto politico dell'Italia di oggi".

Un ritratto eseguito da un professore - Diamanti insegna Governo e comunicazione politica all'Università di Urbino, oltre a essere il presidente della Società italiana di studi elettorali e a commentare su Repubblica tutto ciò che si muove sul complicato scacchiere della politica italiana  -  con l'aiuto di Fabio Bordignon, Luigi Ceccarini e altri professori ed esperti. I contorni vengono definiti con precisione neorealista: a dispetto dell'immagine quasi goliardica dell'assalto grillino al Palazzo, i risultati ci consegnano un Movimento 5 Stelle che è un vero partito nazionale. È il primo in 50 province, nota Diamanti, contro le 40 del Pd e le 17 del Pdl (la Lega svetta solo a Sondrio). Non solo, ma il movimento dell'ex comico è ormai un partito di massa, perché è il più votato tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi (44 per cento), tra gli operai (38 per cento) ma anche tra i disoccupati (40 per cento) e tra gli studenti (28 per cento). Attenzione dunque, avverte Diamanti, "a considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento ma transitorio, che è possibile riassorbire con strategie tradizionali".

No, siamo davanti a un fenomeno, che ha cambiato lo scenario della politica italiana in modo profondo. Fino a ieri, persino con l'avvento di Berlusconi, la frattura ideologica che tracciava il confine tra uno scheramento e l'altro era quello dell'anticomunismo. Il Movimento 5 Stelle ha imposto una nuova frattura, quella dell'antipolitica (significative le motivazioni di voto dei suoi elettori: solo il 13,3 per cento l'ha scelto perché ha fiducia nel leader, mentre il 30 per cento ha voluto dare "un voto contro i partiti"). Il boom di Grillo ha fatto saltare il bipolarismo, facendo crollare la percentuale dei due maggiori partiti (sommati insieme) al 59 per cento, ben 21 punti al di sotto della soglia minima toccata dal 1994 in poi (l'80 per cento).

Questo è successo, il 24 febbraio. Ma come è potuto accadere? Il libro non ha la pretesa di trovare una risposta definitiva, però indica significativamente un dato: contrariamente a quello che vorrebbe farci credere Grillo, la televisione è stato anche stavolta lo strumento determinante. Il 90 per cento degli elettori l'ha usata "spesso" per avere informazioni sulla campagna elettorale, e il 20 per cento si è servito "solo" di essa. Il web ha avuto un'impennata (+15,8 per cento) come strumento di informazione e di propaganda, ma non a scapito della tv. È ai giornali (-10,7), ai volantini elettorali (-22,3), ai manifesti (-14,9) e persino al porta-a-porta (-8,8) che Internet ha rubato lo spazio.

E arriviamo alla domanda più spinosa, per un politologo come Diamanti. Come mai nessuno aveva previsto che Grillo avrebbe fatto il botto? Perché i sondaggi, tutti i sondaggi, 20 giorni prima delle elezioni stimavano il Movimento 5 Stelle tra il 13 per cento (Piepoli) e il 18,8 (Swg), mentre accreditavano Bersani di una percentuale variabile tra il 33,6 della Tecné e il 37,2 dell'Ispo? Nando Pagnoncelli azzarda una risposta. Con tre spiegazioni. La prima è che molti elettori hanno cambiato idea all'ultimo momento (il 29 per cento a meno di sette giorni dal voto). La seconda è che gli elettori che passavano dal centrosinistra a Grillo erano riluttanti ad ammetterlo. La terza è che ormai nove elettori su dieci si rifiutano di rispondere alle domande dei sondaggisti, e dunque le previsioni sono fondate sulle preferenze del decimo, con quel che ne consegue sulla precisione.
Chi vuol capire, capirà, leggendo il libro. Ma se lo scopo è quello di riuscire a prevedere dove andremo a finire, allora vale l'avvertenza di Diamanti: "Il futuro, di questi tempi, non ha futuro. Meglio non fare previsioni. Il futuro è ieri".

(11 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cultura/2013/06/11/news/saggio_sul_fenomeno_grillo-60844940/


Titolo: ILVO DIAMANTI - La messa è finita
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2013, 06:28:22 pm
La messa è finita

di ILVO DIAMANTI


VENT'ANNI dopo la Seconda Repubblica è finita. Questo mi sembra il senso "politico" di questa consultazione. Che ha le specificità e i limiti di un voto "locale", ma assume comunque un significato politico "nazionale".

LE TABELLE su repubblica

Non solo perché ha coinvolto quasi 7 milioni di elettori, in 564 comuni. Tra cui, 16 capoluoghi di provincia e 92 città con oltre 15 mila abitanti. Ma perché, a mio avviso, conferma la svolta dalle elezioni politiche di febbraio. Segna, cioè, la fine della "rivoluzione" partita vent'anni fa, nel 1993, proprio dalle città. Dove, per la prima volta, si era votato "direttamente" per il sindaco. Quando, prima del ballottaggio, Silvio Berlusconi, "sdoganò" i post-fascisti, annunciando che, se, vi avesse risieduto, a Roma avrebbe votato per Gianfranco Fini. Ma la "rivoluzione" si produsse e riprodusse, soprattutto, nel Nord. In particolare, a Milano. La città di Mani Pulite dove Marco Formentini, candidato della Lega, divenne sindaco. Dove Silvio Berlusconi fondò Forza Italia, il suo "partito personale" e "aziendale". Che l'anno seguente vinse le elezioni politiche. Aggregando Alleanza Nazionale, nel Centro Sud, e la Lega nel Nord. Così Milano conquistò l'Italia. E la "questione settentrionale" divenne "questione nazionale". Il capitalismo popolare, della piccola impresa, rappresentato dalla Lega,
insieme al capitalismo mediatico, finanziario e immobiliare, interpretato da Berlusconi. Conquistarono l'Italia. Complice l'Alleanza Nazionale del Sud.

Vent'anni dopo, quel percorso sembra finito. Il Forza-leghismo (come l'ha definito Edmondo Berselli) ha perduto la sua Bandiera. Il Nord. Il territorio. Il Centrodestra, in queste elezioni, è stato "s-radicato", proprio dove era più "radicato". Nei luoghi della Lega. A Treviso, per prima. La città di Gentilini - e del governatore Zaia. Ma la Lega ha perduto anche nelle città vicine a Verona. Feudo del Nuovo leghismo di Tosi.

Tutto il Centrodestra, però, si è "s-radicato". Ovunque. I dati, al proposito, sono impietosi. Nei 92 comuni maggiori dove si è votato, prima di queste elezioni, il Centrodestra aveva 49 sindaci (di cui 2 la Lega da sola). Nel Nord "padano", in particolare, amministrava 16 comuni maggiori (compresi i 2 della Lega), sui 28 al voto. Oggi la Lega è scomparsa. E il Centrodestra, guidato dal Pdl, ha "mantenuto" solo 14 città maggiori, in Italia, cioè meno di un terzo. E 3 nel Nord. In pratica: è quasi sparito. In questi giorni ha perduto le roccheforti residue. Da ultima, Imperia  -  il feudo di Scajola. Per prima  -  e soprattutto  -  Roma. La Capitale.

Il Centrodestra è affondato anche nel Centrosud e nel Mezzogiorno. Sconfitto a Viterbo, e nei principali capoluoghi siciliani dove si votava.
A Messina, Catania, Ragusa, Siracusa. È questa la principale indicazione "politica" di questo voto "amministrativo": la sconfitta del Centrodestra. Insieme al declino  -  simbolico e politico  -  del territorio. Eppure non è stato sempre così. Cinque anni fa, appena, il centrodestra governava ancora in alcune importanti capitali. A Milano, Palermo, Cagliari. Roma. Ora le ha perdute. Tutte. Cos'è successo, in questi ultimi anni? Ha pesato, sicuramente, il declino dei riferimenti sociali ed economici: l'impresa e gli imprenditori  -  ma anche i lavoratori  -  della piccola impresa.
Il capitalismo finanziario e speculativo. La crisi globale li ha stremati. E li ha posti reciprocamente in conflitto. Inoltre, l'invenzione del Pdl non ha "coalizzato" Fi e An. Li ha svuotati entrambi. Ne ha fatto un solo, unico contenitore "personale". La Lega, invece, si è "normalizzata".
È divenuta "romana". Così, al Centrodestra è rimasta solo l'immagine  -  peraltro sbiadita  -  del Capo. Berlusconi. In ambito politico nazionale. Mentre a livello locale non è rimasto praticamente nulla.

La svolta oltre la Seconda Repubblica è sottolineato dal crescente peso dell'astensione, cresciuta notevolmente, rispetto alle elezioni precedenti.
A conferma che la messa è finita. In altri termini: il voto non è più una fede. Così, occorrono buone ragioni per votare un partito o un candidato.
E, prima ancora, per andare a votare. Negli ultimi vent'anni, il non-voto è stato, in parte, assorbito dal voto di protesta. Intercettato dalla Lega, ma anche da Berlusconi. Canalizzato, alle recenti elezioni politiche, da Grillo e dal M5S. In questo caso non è avvenuto. Al primo e a maggior ragione al secondo turno. Per ragioni fisiologiche  -  non ci sono preferenze da dare, i candidati si riducono a due, molte sfide appaiono segnate. Ma anche perché "non votare", in una certa misura, è un modo per votare. E conta molto, visto lo spazio che gli viene dedicato dagli attori e dai commentatori politici.

Alla fine della Seconda Repubblica, così, riemerge il Centrosinistra. E soprattutto il Pd. Considerato in crisi, dopo il voto di febbraio.
Ma soprattutto dopo-il-dopo-voto. Fiaccato "da" Berlusconi  -  regista delle larghe intese. "Da" Grillo e dal M5S  -  vincitori delle elezioni politiche. In questa occasione, il Pd, insieme al Centrosinistra, ha vinto ovunque. O quasi. In tutte e 16 le città capoluogo. In 21 comuni maggiori del Nord (su 28), 10 (su 12) nelle regioni rosse e in 22 nel Centro-Sud (su 52). Mentre il Pdl si è sciolto e la Lega è scomparsa. Mentre il M5S ha eletto il sindaco a Pomezia - seconda città del MoVimento, per peso demografico, dopo Parma. E va in ballottaggio a Ragusa. In altri termini, "resiste" ed "esiste", ma non avanza, come nell'ultimo anno.

Un altro segno del cambio d'epoca. Perché se il territorio declina, come bandiera, torna ad essere importante come risorsa politica e organizzativa.
E favorisce i "partiti" che ancora dispongono di una struttura e di persone credibili e conosciute, presso i cittadini. In altri termini, il Pd è un partito personalizzato, a livello locale. Ma è diviso e impersonale, a livello nazionale. Gli altri, il Pdl e lo stesso M5S, sono partiti personali in ambito nazionale. Ma senza basi locali. Così la competizione elettorale diventa instabile e fluida, come quel 50% di elettori senza bussola e senza bandiera. Per questo nessuno può né deve sentirsi al sicuro. Non il Pdl, partito personale e senza territorio, gregario di una Persona alle prese con troppi problemi personali. Ma neppure il Pd. Partito personalizzato, sul territorio, ma im-personale, a livello nazionale.

La Seconda Repubblica bipolare fondata "dalla" Lega e "su" Berlusconi: è finita. Ma la Prima Repubblica, fondata "dai" e "sui" partiti, non tornerà.
Da oggi in poi, ogni elezione sarà un "salto nel voto".

(12 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/12/news/la_messa_finita-60903934/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Nostalgia democristiana
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2013, 11:14:46 pm
Nostalgia democristiana

di ILVO DIAMANTI

Agli italiani non piacciono le larghe intese. Ma il "governo di larghe intese" sì. E ancor più il "premier delle larghe intese": Enrico Letta. Questo strano contrasto di opinioni non è facile da spiegare.

Perché appare contraddittorio e, comunque, contro-intuitivo. Però esiste, come sottolineano i sondaggi. Per prima, la rilevazione dell'Osservatorio di Demos-Coop, che risale a una settimana fa. L'alleanza fra centrodestra e centrosinistra: non piace. Meno di un elettore su tre le attribuisce un voto positivo (pari o superiore a 6). Anche e soprattutto nella base del Pd e di sinistra. Mentre è accettata nel centrodestra. Ma in particolare nel Pdl (57%). Eppure questo "governo" dispone di un consenso molto "largo". È, infatti, apprezzato da quasi il 60% degli elettori. Che sale a oltre il 70% fra quelli del Pdl. Ma anche fra gli elettori del Pd. Peraltro, Enrico Letta, personalmente, dispone di un sostegno ancor più ampio.
L'azione del presidente del Consiglio, infatti, è valutata positivamente (con un voto pari o superiore a 6) da quasi i due terzi degli elettori (secondo i più recenti sondaggi di Ipsos).
Si tratta, in questo caso, di un consenso trasversale. Da centrodestra a centrosinistra, passando per il centro. Con "l'astensione" delle opposizioni.

Pare di assistere a un remake del film sul "governo tecnico", interpretato da Mario Monti, l'anno scorso. Diretto dal medesimo regista: Giorgio Napolitano. Il quale, in effetti,
aveva pensato a una riedizione, affidata allo stesso Monti. Se il Professore non si fosse messo in testa di girare il film da solo. Regista e protagonista, insieme.
Con il risultato di venire declassato, immediatamente, al ruolo di comprimario, se non di comparsa. Tuttavia, il governo tecnico e Mario Monti ottennero, per molti mesi, un sostegno elevatissimo. Naturalmente, le differenze, rispetto ad allora, sono profonde. In primo luogo, quello attuale è un governo "politico", guidato da un leader "politico", con una squadra di ministri di cui fanno parte molti "politici". Inoltre: questo governo è stato istituito non alla fine, ma all'inizio della legislatura. Due mesi dopo il voto e dopo due mesi di tentativi, inutili, di costruire una maggioranza politica diversa. Così non sorprende il limitato consenso alle "larghe intese". Soprattutto fra gli elettori del Pd. Che avevano partecipato a una campagna elettorale "contro" il Pdl e Berlusconi. Convinti di (stra) vincere. E, invece, si ritrovano ancora "alleati" con il Pdl. Berlusconi, invece, aveva condotto la sua campagna elettorale soprattutto "contro Monti". Per far dimenticare agli italiani di aver governato dal 2001, quasi ininterrottamente. Per fingere che lui e il Pdl, con il Governo tecnico, non c'entravano. Anzi erano l'opposizione. La vittoria mancata del Pd ha permesso a Berlusconi di rientrare in gioco. Nonostante che alle elezioni politiche il Pdl avesse perso quasi metà dei voti, rispetto al 2008. Per questo, le larghe intese, a Berlusconi, piacciono. Lo ha ribadito anche ieri. Perché gli permettono di contare ancora. Tanto più ora, dopo il disastro delle elezioni amministrative, che evocano la scomparsa del centrodestra sul territorio.

Ma il governo (delle larghe intese) e Letta (Enrico) piacciono di più.
Anche - e soprattutto  -  agli elettori del PD. Per alcune ragioni, che vanno oltre la prima e più banale: Letta è del Pd.

1. Anzitutto, perché, da oltre tre anni, viviamo in uno Stato di Emergenza. Che giustifica anche le scelte "contro-natura" (almeno, sul piano politico). I Governi Tecnici e quelli Politici, sostenuti da (quasi) tutti. Amici e Nemici. Alleati e avversari. Perché lo richiedono la Crisi globale, la UE, le Autorità monetarie internazionali...

2. In secondo luogo, Enrico Letta marca una discontinuità, rispetto ai premier precedenti. Dal punto di vista generazionale. È giovane. E, non a caso, ha posto in testa alla sua agenda di governo la questione del lavoro dei "giovani". Per sottolineare la distanza dal passato. Anche e soprattutto, ripeto, dal punto di vista "generazionale".

3. Peraltro, dal punto di vista "programmatico", ha risposto alla prima "emergenza" espressa dai cittadini. I costi della politica. Attraverso l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Discussa e discutibile, sul piano dell'attuazione. (Io, personalmente, non la condivido, invece, per motivi sostanziali). Ma, dal punto di vista della comunicazione, ha funzionato.

4. La comunicazione, appunto. Questo governo e questo premier riescono a gestirla con efficacia. Si pensi alle misure annunciate per la crescita. Riassunte in un unico testo dal nome suggestivo. Quasi un manifesto: Decreto del "Fare".

Tuttavia, io penso che vi sia dell'altro, dietro a un consenso così elevato per un governo e un premier a capo di una maggioranza che non piace. La definirei: "nostalgia democristiana".
Che attraversa la storia della Repubblica, fin dalle origini. La stagione della Democrazia Cristiana, durata quasi cinquant'anni, ha impresso un marchio indelebile nella memoria degli italiani. Anche dei più giovani. "Quelli che" sono nati e cresciuti "dopo". Quando Dc e Pci non esistevano più. Perché la storia della Prima Repubblica è stata scritta, insieme, dalla Dc e dal Pci. Democristiani e comunisti: alternativi e complementari. Governo e opposizione. Senza alternanza possibile. Alleati, nelle grandi "emergenze"  -  come negli anni Settanta, durante la stagione del terrorismo. Ma, comunque, (com) partecipi di un sistema "consociativo", dove tutte le grandi scelte erano condivise. Come le nomine degli enti e delle istituzioni.
A ogni livello e in ogni ambito.

Il governo guidato da Letta piace a gran parte degli italiani perché rinnova questa memoria. Non solo perché Enrico Letta ha una biografia democristiana  -  e "popolare". E propone, comunque, uno stile politico e di comunicazione che evoca quella tradizione. Ma perché questa strana maggioranza costituisce un rimedio al "disagio bipolare".
Assai diffuso nella Seconda Repubblica  -  fondata su Berlusconi e, appunto, sul bipolarismo. A cui gli italiani non si sono mai rassegnati fino in fondo. Perché non amano vincere.
Ma neppure perdere. Governare da soli. Oppure fare opposizione. Vera. Così le larghe intese non piacciono. Ma il governo di larghe intese sì. Perché permette a tutti  -  destra, sinistra e centro, berlusconiani e antiberlusconiani  -  di governare insieme, ma senza sentirsi coinvolti.

Provvisoriamente. Fino alle prossime elezioni. Quando in molti sperano che nessuno vinca. Come in questa occasione. Per poter governare ancora (quasi) tutti insieme. Ma senza ammetterlo. Perché l'Italia, in fondo, è uno Stato di Necessità. Perenne.

(17 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/17/news/nostalgia_democristiana-61236364/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Perché abbiamo bisogno della politica
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2013, 08:07:15 am
Perché abbiamo bisogno della politica

di ILVO DIAMANTI

Ormai ci stiamo rassegnando alla precarietà. Alla provvisorietà come condizione stabile. Può apparire un discorso scontato, ma per questo è più significativo.

Perché ci capita di ascoltarlo e di ripeterlo ogni giorno. In automatico. A proposito del lavoro, dei giovani, dell'economia, del mercato. Della politica. Già: la politica. Che offre rappresentanza e rappresentazione agli orientamenti e ai comportamenti pubblici dei cittadini. È il teatro della provvisorietà. Oggi: perché il domani non è pre-visto. In fondo, il governo guidato da Enrico Letta è "a tempo". Non è stato formato per governare fino al termine della legislatura. Ma per fare le riforme necessarie a sbloccare il Paese bloccato. Per mantenere i conti in ordine, rilanciare lo sviluppo. Per rispettare i patti con l'Europa e i partner internazionali. Per riformare la legge elettorale e il bicameralismo, troppo perfetto per permettere governabilità. Per cui non è dato di conoscere quanto durerà il governo. Perché non è possibile sapere quanto tempo richiederà il rispetto di questi impegni. La legge elettorale: nella storia della Repubblica è stata "riformata" solo per via referendaria, nel 1991 e nel 1993. O con un colpo di mano, dal centrodestra, nel 2005. Per impedire a chiunque, dunque all'Ulivo di Prodi, di conquistare una maggioranza vera.

Così è impossibile ipotizzare "quando" si troverà un accordo
largamente condiviso su una legge elettorale che non sia il restyling di quella esistente. E se la durata del governo dipende dalla legge elettorale, non è possibile sapere quanto possa durare. Il lavoro dei saggi serve, come quello dell'analoga commissione istituita da Monti, a "prendere tempo". Tanto le riforme elettorali - tanto più quelle istituzionali - sono e restano una questione politica, più che di saggezza.

Naturalmente un governo serve, all'Italia. Anche se la sua agenda è scritta dalle emergenze. In equilibrio instabile fra consenso interno e vincoli esterni. Fra Iva, Imu e parametri Ue. Difficile, in queste condizioni, immaginare il futuro. Tanto più che il governo si appoggia su forze politiche in sostanziale contrasto fra loro. Berlusconiani e antiberlusconiani. Costretti a coabitare dall'assenza di maggioranze politiche chiare e stabili. In Parlamento e nella società. Anche su questa "provvisorietà" si fonda il potere di Letta. Il punto di equilibrio di una maggioranza in equilibrio instabile. Che deve mantenere l'equilibrio, un giorno dopo l'altro. Per non precipitare. Insieme al governo di questo "Paese provvisorio" (titolo di un saggio profetico di Edmondo Berselli). D'altronde, quale "domani" propongono i partiti maggiori della maggioranza? Il Pd è in attesa delle "primarie". Un partito con una leadership provvisoria. In attesa di Renzi. Il quale deve preoccuparsi - e si preoccupa - di questo. Perché essere considerato un leader senza esserlo formalmente, per un periodo in-certo, logora. Il Pdl. Liquidato dal leader maximo e unico. Silvio Berlusconi. Che ha deciso di ri-fondare - un'altra volta - il proprio partito personale. Tanto più e soprattutto dopo l'insuccesso alle elezioni politiche e la disfatta alle amministrative. Berlusconi, d'altronde, è, per definizione, in una situazione provvisoria. Tra un processo e l'altro. Tra un grado di giudizio e l'altro. Come può organizzare il futuro politico, per sé e per gli altri? Il centro, costruito da Monti e da Casini, non c'è più. È durato fino al voto di febbraio. Poi si è liquefatto. E oggi procede diviso. Anche se è difficile dividere quel che non c'è. Per cui, la maggioranza non ha futuro. Solo un presente.

E l'opposizione? Il M5S è l'attimo. Un non-partito istantaneo. Per linguaggio, comunicazione e modello organizzativo. Si riflette nell'immagine e nelle iniziative del leader. Il M5S. È emerso all'improvviso. Ed è cresciuto in fretta. Troppo. Anche rispetto alle attese di Grillo. Così procede incerto. Un autobus senza una mèta precisa. Molti passeggeri e abbonati, che fino a pochi mesi fa erano saliti in massa, ora scendono. Talora "cacciati" dal conducente. Più spesso, alla ricerca di un altro veicolo con cui viaggiare. Verso non-si-sa-dove.

Per queste ragioni, e non solo, neppure il Parlamento ha una durata pre-stabilita. Perché dipende dalla "missione" della maggioranza - provvisoria - che sostiene il governo. È un Parlamento di scopo, come il governo. Non si sa quanto durerà. Lo stesso Giorgio Napolitano è il simbolo della provvisorietà del nostro tempo. Lui: a quasi novant'anni, di nuovo Presidente. Costretto dall'emergenza. Dall'assenza di alternative. Egli stesso ha dettato l'agenda di questo governo - e, dunque, di questo Parlamento - di scopo. Che deve durare il tempo necessario per affrontare le emergenze - economiche e istituzionali. Giorgio Napolitano: l'uomo dell'Emergenza, non della Provvidenza. Un Presidente di scopo. Per senso del dovere. E per necessità.

Così viviamo tempi provvisori. Di passaggio. Verso non si sa dove né cosa. Sicuramente, senza più futuro. Perché il futuro è stato abolito, dal nostro linguaggio e dalla nostra visione. Finite le ideologie, che sono narrazioni di lunga durata. Oggi tutto è marketing. Storie e slogan. Da rinnovare di continuo. Il futuro: se ne sta fuggendo insieme ai giovani. D'altronde, siamo tutti giovani. Adulti e anziani: non invecchiano mai. Nessuno accetta lo scorrere del tempo. Così i giovani, quelli veri, se ne stanno sospesi. Sono una generazione né-né. Né studenti né lavoratori. In Italia sono oltre due milioni (fonte Istat). Quasi un quarto della popolazione tra 15 e 29 anni. Il livello più alto nella Ue. Secondo Eurostat, inoltre, quasi 700 mila giovani italiani, nel 2012, si sono trasferiti all'estero per lavoro. Per non parlare di quelli che ci sono andati per motivi di studio. E chissà quando e se rientreranno. D'altronde 8 italiani su 10 pensano che i giovani, per fare carriera, se ne debbano andare altrove. Comunque, fuori dall'Italia

È questo il nostro problema più grande, oggi: l'abitudine alla "precarietà". La rimozione del futuro. Perché il futuro è passato. Emigrato. All'estero. E ci ha lasciati qui. Sempre più vecchi, ma incapaci di ammetterlo. Noi, passeggeri di passaggio in questo Paese spaesato: abbiamo bisogno di Politica. Perché senza Politica è impossibile pre-vedere. Progettare il nostro futuro. E senza pre-vedere, senza progettare o, almeno, immaginare il futuro, senza un briciolo di utopia: non c'è Politica. Ma solo "politica". Arte di arrangiarsi. Giorno per giorno.

(24 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/24/news/bisogno_di_politica-61727248/?ref=HREC1-9


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Repubblica dei partiti provvisori
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2013, 12:00:28 am

La Repubblica dei partiti provvisori

È in corso un cambiamento politico rapido e violento. Come vent'anni fa, tra il 1992 e il 1994.

Eppure fatichiamo ad accorgercene. Probabilmente perché fissiamo l'attenzione sull'istante.

E non vediamo il dopo. Non ce ne (pre)occupiamo.

ILVO DIAMANTI

Ma la semplice osservazione dei fatti politici è sufficiente a descrivere una realtà evidente, quanto elusa. Tutti i partiti e tutti i leader che hanno guidato il Paese negli ultimi vent'anni sono a fine corsa. Fra un anno, al massimo, il sistema partitico sarà diverso. Molto diverso. Cambieranno le sigle, i protagonisti, le alleanze. Lo spartiacque sarà costituito dalle elezioni europee. Perché l'Europa e l'euro già costituiscono temi strategici dei principali partiti. In grado di dividere, tra loro e al loro interno, questa "strana" maggioranza e questa "strana" opposizione. Perché alle elezioni europee i partiti si presenteranno da soli. Ciascuno per sé e contro gli altri. Visto che le elezioni si svolgono con metodo proporzionale. Già, ma quali partiti? E quali leader? L'impressione è che il paesaggio su cui proiettiamo i nostri scenari futuri sia già "passato". Più che ieri. Largamente ridisegnato e, comunque, destrutturato dalle elezioni di febbraio e dal dopo-elezioni.

Partiamo dal centro. Avrebbe dovuto imporsi come il Terzo Polo, intorno a Monti. Con il sostegno dell'Udc di Casini e Fli di Fini. Tutto finito. Durato il tempo di un'elezione. Ora il partito di Monti è stimato intorno al 5%. Ma è in calo. Mentre Fli e perfino l'Udc non possono calare oltre.
Perché sono praticamente spariti. Come i loro leader, d'altronde. In attesa di riaffiorare, ma, per ora, sotto il pelo dell'acqua.

Il centrodestra, gregario di Silvio Berlusconi, fatica a ridefinirsi, a rinominarsi e a riposizionarsi. Il Popolo della libertà è finito. Ha perduto 6 milioni e 300 mila voti, alle elezioni di febbraio. Ma è riuscito a fare la parte del non-sconfitto, perché le attese erano ancora peggiori. E perché il vincitore annunciato, il Pd, in effetti, non ha vinto. Il Pdl ha, però, perduto dovunque alle elezioni amministrative. E si è presentato per quel che è: un partito personale senza territorio e senza persone. Ad eccezione di una: Silvio Berlusconi, il cui peso elettorale, misurato dai voti al partito, si è dimezzato negli ultimi 5 anni. Così Berlusconi stesso oggi annuncia la fine del Pdl e il ritorno a Forza Italia.

Tuttavia, è difficile, anzi, impossibile riproporre la novità del 1994. Più che di Forza Italia 2.0, si tratterebbe di Forza Italia 20 (anni dopo). Berlusconi stesso ha quasi 80 anni. Molti processi e molti scandali sulle spalle. Di sicuro non è più "nuovo". In tempi di rifiuto della politica, lui, più di altri, impersona la politica degli ultimi vent'anni. Comunque, il Pdl è finito. E la "nuova" Forza Italia sarà, comunque, un partito "personale". Inestricabile da Berlusconi. Non è un caso che si parli  -  non da oggi  -  di una successione dinastica. Da Silvio a Marina. Perché, al di là di tutto, quest'area politica è unita dal "patrimonio" - familiare. In senso lato: le imprese, i media, le risorse finanziarie e simboliche. Di cui Marina è erede. Certo più di Alfano, Brunetta o la Santanché.

Intorno a Berlusconi e al suo partito personale, d'altronde, a destra c'è il nulla. O quasi. An è scomparsa e i suoi surrogati  -  come i Fratelli d'Italia  -  non raggiungono il 2%. La Lega, infine, è debole e divisa. Alle elezioni politiche ha perso oltre metà dei voti. Governa ancora Regioni e Comuni. Ma non ha più la sua base. La Padania ha perduto i padani. E non ha più capitali.

Il Partito democratico è impegnato nelle primarie. Ormai da un anno, senza soluzione di continuità. Non ha vinto le elezioni politiche, nonostante le previsioni e le attese. Di tutti. Ha perduto il dopo-elezioni, non riuscendo a imporre i suoi candidati alla presidenza della Repubblica. E ha "subìto" la partecipazione a un governo di scopo  -  alleato con l'avversario di sempre. Certo, ha vinto le amministrative. Ma ciò conferma il distacco fra la base e il gruppo dirigente nazionale. Il Pd: è un partito "impersonale", perché non c'è "un" leader in grado di rappresentarlo tutto e unito. I partiti della Prima Repubblica, da cui origina, gli garantiscono "resistenza", ma non slancio, crescita. Alle elezioni di febbraio si è ridotto al 25% o poco più. Rispetto al 2008 ha perduto 3 milioni e mezzo di voti. Quasi un terzo. Ora, dopo le amministrative, pare risalito al 28%. Ma resta un partito incompiuto. Fra un anno non sappiamo chi ne sarà il leader. E di che consenso disporrà.

Alla sua Sinistra, d'altronde, è rimasto poco. Sel: legata alla figura di Vendola. L'Idv: scomparsa insieme al suo leader, Antonio Di Pietro. Né gli servirà il cambio di segretario a risorgere. Le formazioni raccolte intorno a Ingroia: latitanti e latenti, come il magistrato. Come Rivoluzione civile.

Resta il M5S. Un non-partito fluido. Istantaneo. Composito. Circa un terzo dei suoi elettori afferma di averlo votato per delusione e protesta verso gli altri partiti. I suoi parlamentari sono in costante fibrillazione. È difficile, d'altronde, trovare stabilità "inseguendo" Grillo. Impegnato, a sua volta, a "inseguire", di giorno in giorno e un giorno dopo l'altro, le diverse domande e le diverse tensioni espresse dai suoi elettori. E dai suoi parlamentari. Di certo non è dato di sapere cosa ne sarà in futuro.

Il problema è che si è conclusa la parabola dei partiti personali. Raccolti da - e intorno a - un leader, una persona. Perché il declino dei leader coinvolge i partiti. Perché, comunque, i leader hanno bisogno di partiti. Le televisioni e la stessa rete non li possono rimpiazzare del tutto. I partiti servono. A offrire presenza e visibilità nella società e sul territorio. A organizzare le attività e le decisioni in Parlamento. A fornire prospettive, durata. Oltre la biografia del capo.

Così oggi discutiamo di partiti provvisori e di leader di passaggio. E ci illudiamo di proiettare e progettare gli scenari del futuro. Mentre, in realtà, usiamo foto d'archivio. E prevediamo solo il passato.

(01 luglio 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/01/news/la_repubblica_dei_partiti_provvisori-62165336/?ref=HREC1-5


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'invasione dei fumatori elettrici
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2013, 11:54:24 pm
L'invasione dei fumatori elettrici

E' la moda dell'anno, ma anche un business.

Un modo anche per ridurre la "dipendenza". Ma da ex fumatore dico: "meglio l'astinenza, dà più piacere"

di ILVO DIAMANTI


È la moda dell’anno. Ma anche un business, con effetti visibili dovunque. La sigaretta elettronica. Ha contagiato il popolo dei fumatori. Più di uno su due l’ha sperimentata, secondo un sondaggio dell’ISPO.  D’altronde, basta guardarsi intorno per accorgersi dell’invasione dei “fumatori elettrici”. Li incontri dappertutto. Anche dove non osavano fumare, da tanti anni. Nei treni, nei locali pubblici. Perfino nelle nostre case. Ora hanno ripreso, timidamente. E-fumano, Incerti, in attesa delle reazioni degli altri.

Dovunque, peraltro, sono sorte botteghe di e-cigarette. Nei punti nevralgici di città – grandi, medie e piccole. Ampie vetrine, dove campeggiano e-cigarette di metallo e vetro colorato. Accanto ad essenze di diverso aroma, con differenti gradi di nicotina. Sempre bassi. Talora nulli. È questo, sicuramente, il principale motivo del successo delle sigarette elettroniche. Permettono di fumare senza avvelenarsi di nicotina. O, comunque, assumendone quantità modiche e limitate. Un’alternativa alla rinuncia totale, sempre difficile, per i fumatori.

Perché smettere è difficile. Costa molto. Sul piano psicologico e delle abitudini di vita.  Anche fumare, però, costa molto. Non solo in termini di reddito. Anche di salute. Comunque, inquina la vita, l’ambiente di vita, oltre ai polmoni, propri e altrui. E poi, le dita gialle, l’alito pesante, l’odore di fumo dovunque. In casa, in auto, nei luoghi di vita. I fumatori: ormai sono “socialmente emarginati”. E fisicamente stressati. D’altronde, la mattina, ci si alza incatarrati, la testa un po’ dolente. Eppure, non passa molto tempo prima di accendere la prima sigaretta. Dopo la prima colazione. Anzi, durante. Insieme al caffè.

Parlo per esperienza, come si può cogliere, probabilmente, dalle mie parole. Perché io ho fumato molto e a lungo. Fino a 60 sigarette al giorno. Forti e secche. Tre pacchetti – scritta nera su fondo bianco e rosso. Ho smesso il 4 aprile del 1984. Dopo averci pensato a lungo. L’ho deciso tre settimane prima. Il tempo di smaltire le stecche che avevo da parte. E di prepararmi “dentro”. Poi ho finito con il fumo. Non sopportavo più la mia dipendenza, che mi faceva fumare fumare fumare fumare. E ancora fumare. Anche se, ormai, non mi piaceva più. Non sentivo più il sapore né il gusto della sigaretta. Ma fumavo lo stesso, anche quando non stavo bene, gravato da raffreddori, bronchiti, catarro. Non mi sopportavo più. Così ho smesso. Quasi trent’anni fa: l’ultima sigaretta. Per alcuni giorni non ho dormito. Lo stomaco mi bruciava. Gridava. Alla ricerca di fumo. Per mesi ho faticato a scrivere e perfino a leggere. All’inizio non ne capivo la ragione.  Anche se era evidente: bastava fare attenzione ai tempi. Non riuscivo a tenere la concentrazione per più di un quarto d’ora. Il tempo fra una sigaretta e l’altra.

Appunto. Così ho smesso. E ho riscoperto i gusti e gli odori. Anche l’appetito. Il piacere del cibo. Venti chili in più, in un paio d’anni. Li ho persi dopo il 2003. Negli ultimi dieci anni. Anche in quel caso: ho deciso di smettere. Di mangiare e di bere. Cibi e bevande “sfiziose”. Io sono fatto così: quando decido, cambio vita e abitudini. Spezzo il filo con il passato e il presente. Per sfiducia in me stesso. Perché non riuscirei a “ridurre le dosi”. A moderarmi. A consumare in “modica quantità”.  Meglio smettere del tutto.

Perché la voglia di fumare mi è rimasta. Insieme al piacere della sigaretta dopo cena, magari fuori casa, in strada, magari a tarda sera, a parlare con me stesso. Io sono un fumatore che non fuma. Ma non mi è passato nemmeno per la testa di provare la sigaretta elettronica. Di riprendere l’antica abitudine abolendo il rischio e il danno del fumo. Senza nicotina. È che mi pare - e mi riesce - difficile scindere il piacere dal vizio e dal peccato. Perché il fumo è un male sottile. Che si consuma e ti consuma, una sigaretta dopo l’altra. Ogni volta si rinnova e ogni volta brucia. Ti brucia.

La sigaretta elettronica: è come la birra o, peggio, il whisky senz’alcool. È come i dolci per diabetici: senza zuccheri. Come il decaffeinato. In fondo, i divieti dei locali pubblici, che costringono a fumare fuori, in strada, hanno trasformato i “fumatori” in una comunità deviante. Una setta irriducibile alle regole della Salute Pubblica. E Privata. Così, la e-cigarette è come una trasgressione senza peccato. Un vizio senza rischi. Che fa bene alla salute (ma non è detto). Ma modifica la nostra identità.  La nostra immagine. Di fronte agli altri e a noi stessi. Humphrey Bogart, in Casablanca, con la cicca elettronica appoggiata sulle labbra. Ve lo immaginate?

Per questo, non capisco le sigarette elettroniche e chi le fuma. Meglio l’astinenza. Dà più piacere.

(03 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/07/03/news/l_invasione_dei_fumatori_elettrici-62293027/?ref=HREC2-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'invasione dei fumatori elettrici
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2013, 11:29:57 am
L'invasione dei fumatori elettrici

E' la moda dell'anno, ma anche un business. Un modo anche per ridurre la "dipendenza".

Ma da ex fumatore dico: "meglio l'astinenza, dà più piacere"

di ILVO DIAMANTI

È la moda dell’anno. Ma anche un business, con effetti visibili dovunque. La sigaretta elettronica. Ha contagiato il popolo dei fumatori. Più di uno su due l’ha sperimentata, secondo un sondaggio dell’ISPO.  D’altronde, basta guardarsi intorno per accorgersi dell’invasione dei “fumatori elettrici”. Li incontri dappertutto. Anche dove non osavano fumare, da tanti anni. Nei treni, nei locali pubblici. Perfino nelle nostre case. Ora hanno ripreso, timidamente. E-fumano, Incerti, in attesa delle reazioni degli altri.

Dovunque, peraltro, sono sorte botteghe di e-cigarette. Nei punti nevralgici di città – grandi, medie e piccole. Ampie vetrine, dove campeggiano e-cigarette di metallo e vetro colorato. Accanto ad essenze di diverso aroma, con differenti gradi di nicotina. Sempre bassi. Talora nulli. È questo, sicuramente, il principale motivo del successo delle sigarette elettroniche. Permettono di fumare senza avvelenarsi di nicotina. O, comunque, assumendone quantità modiche e limitate. Un’alternativa alla rinuncia totale, sempre difficile, per i fumatori.

Perché smettere è difficile. Costa molto. Sul piano psicologico e delle abitudini di vita.  Anche fumare, però, costa molto. Non solo in termini di reddito. Anche di salute. Comunque, inquina la vita, l’ambiente di vita, oltre ai polmoni, propri e altrui. E poi, le dita gialle, l’alito pesante, l’odore di fumo dovunque. In casa, in auto, nei luoghi di vita. I fumatori: ormai sono “socialmente emarginati”. E fisicamente stressati. D’altronde, la mattina, ci si alza incatarrati, la testa un po’ dolente. Eppure, non passa molto tempo prima di accendere la prima sigaretta. Dopo la prima colazione. Anzi, durante. Insieme al caffè.

Parlo per esperienza, come si può cogliere, probabilmente, dalle mie parole. Perché io ho fumato molto e a lungo. Fino a 60 sigarette al giorno. Forti e secche. Tre pacchetti – scritta nera su fondo bianco e rosso. Ho smesso il 4 aprile del 1984. Dopo averci pensato a lungo. L’ho deciso tre settimane prima. Il tempo di smaltire le stecche che avevo da parte. E di prepararmi “dentro”. Poi ho finito con il fumo. Non sopportavo più la mia dipendenza, che mi faceva fumare fumare fumare fumare. E ancora fumare. Anche se, ormai, non mi piaceva più. Non sentivo più il sapore né il gusto della sigaretta. Ma fumavo lo stesso, anche quando non stavo bene, gravato da raffreddori, bronchiti, catarro. Non mi sopportavo più. Così ho smesso. Quasi trent’anni fa: l’ultima sigaretta. Per alcuni giorni non ho dormito. Lo stomaco mi bruciava. Gridava. Alla ricerca di fumo. Per mesi ho faticato a scrivere e perfino a leggere. All’inizio non ne capivo la ragione.  Anche se era evidente: bastava fare attenzione ai tempi. Non riuscivo a tenere la concentrazione per più di un quarto d’ora. Il tempo fra una sigaretta e l’altra.

Appunto. Così ho smesso. E ho riscoperto i gusti e gli odori. Anche l’appetito. Il piacere del cibo. Venti chili in più, in un paio d’anni. Li ho persi dopo il 2003. Negli ultimi dieci anni. Anche in quel caso: ho deciso di smettere. Di mangiare e di bere. Cibi e bevande “sfiziose”. Io sono fatto così: quando decido, cambio vita e abitudini. Spezzo il filo con il passato e il presente. Per sfiducia in me stesso. Perché non riuscirei a “ridurre le dosi”. A moderarmi. A consumare in “modica quantità”.  Meglio smettere del tutto.

Perché la voglia di fumare mi è rimasta. Insieme al piacere della sigaretta dopo cena, magari fuori casa, in strada, magari a tarda sera, a parlare con me stesso. Io sono un fumatore che non fuma. Ma non mi è passato nemmeno per la testa di provare la sigaretta elettronica. Di riprendere l’antica abitudine abolendo il rischio e il danno del fumo. Senza nicotina. È che mi pare - e mi riesce - difficile scindere il piacere dal vizio e dal peccato. Perché il fumo è un male sottile. Che si consuma e ti consuma, una sigaretta dopo l’altra. Ogni volta si rinnova e ogni volta brucia. Ti brucia.

La sigaretta elettronica: è come la birra o, peggio, il whisky senz’alcool. È come i dolci per diabetici: senza zuccheri. Come il decaffeinato. In fondo, i divieti dei locali pubblici, che costringono a fumare fuori, in strada, hanno trasformato i “fumatori” in una comunità deviante. Una setta irriducibile alle regole della Salute Pubblica. E Privata. Così, la e-cigarette è come una trasgressione senza peccato. Un vizio senza rischi. Che fa bene alla salute (ma non è detto). Ma modifica la nostra identità.  La nostra immagine. Di fronte agli altri e a noi stessi. Humphrey Bogart, in Casablanca, con la cicca elettronica appoggiata sulle labbra. Ve lo immaginate?

Per questo, non capisco le sigarette elettroniche e chi le fuma. Meglio l’astinenza. Dà più piacere.

(03 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/07/03/news/l_invasione_dei_fumatori_elettrici-62293027/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Abolite le Province ma non la mia
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2013, 11:57:47 am

Abolite le Province ma non la mia

di ILVO DIAMANTI

È singolare, ma anche significativa, la vicenda delle Province. Da oltre trent'anni si parla di cancellarle o, comunque, di ridurle sensibilmente.
Con effetti del tutto opposti. Erano, infatti, 95 negli anni Settanta. E già si parlava di "abolirle". Rimpiazzarle con altri enti intermedi.
Negli anni Novanta sono salite a 103. E oggi sono divenute 110. Il problema è che le Province non sono solamente ambiti amministrativi e di governo locale, ma rappresentano, da sempre, un riferimento dell'appartenenza territoriale per le persone.

Insieme alle città e almeno quanto le Regioni, le Province servono a “posizionarci” e a definirci, rispetto agli altri “italiani” (come rilevano le indagini di Demos pubblicate, da quasi vent’anni, su Limes). Anche perché costituiscono sistemi urbani, economici, sociali e, in parte, politici omogenei. Non a caso le mappe elettorali che realizzo, da tanti anni, dopo ogni elezione hanno, come base, le Province. E, almeno fino a ieri, hanno riprodotto e dimostrato la sostanziale continuità dei comportamenti di voto, nel corso del dopoguerra. Coerentemente con i lineamenti economici e sociali del Paese. E delle sue province.

Anche per questo, invece di ridursi e di accorparsi – o di venire ridotte e riaccorpate –le Province sono sensibilmente cresciute, di numero, negli ultimi vent’anni. Perché delineano riferimenti importanti della storia e dell’identità sociale. Ma anche del potere locale.
Perché, inoltre, coincidono con sistemi burocratici e assemblee elettive, molto difficili da ridimensionare, a maggior ragione: da cancellare.
Tanto più che le Province hanno svolto e svolgono compiti importanti su base locale. Fra gli altri: in materia di trasporti, ambiente, edilizia scolastica. E poi: costituiscono il principale ambito di “mediazione” fra i Comuni e le Regioni. Soprattutto per i Municipi più piccoli, si tratta di istituzioni utili ad accorciare le distanze dai centri del Potere Stato-Regionale.

Per questo, fin qui, è sempre risultato difficile cancellare le Province o, almeno, ridurne il numero. E, anzi, mentre si discuteva in quale modo e misura ridimensionarle, si sono, invece, moltiplicate ancora. D’altronde, l’abbiamo detto, costituiscono dei luoghi di potere. Dove sono insediati attori politici, burocratici e socioeconomici poco disponibili a scomparire, oppure a farsi riassorbire in altri ambiti istituzionali e di potere.
C’è poi un’ulteriore questione. Riguarda la singolare via del federalismo all’italiana. Che si è sviluppata, dagli anni Novanta in poi, attraverso il trasferimento – e talora la duplicazione – di compiti e attribuzioni dal Centro alla Periferia. Dallo Stato agli enti locali. Non solo: attraverso la moltiplicazione dei centri e dei gruppi di potere locali. Un processo di cui è stata protagonista la Lega, ma non solo. Anche per questo i progetti volti a riassorbire le Province hanno avuto vita dura. Perché i maggiori partiti e, per prima, la Lega nel Nord si sono opposti alla prospettiva di perdere “potere” e risorse sul territorio. E, a questo fine, hanno brandito e agitato la bandiera del Federalismo.
Dell’Autonomia Locale contro lo Stato Centrale.

Non è un caso, dunque, che l’attacco definitivo (così almeno si pensava) all’Italia delle Province sia stato lanciato un anno fa dal Governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Per ragioni “tecniche” molto ragionevoli, orientate dalla spending review. Dalla necessità di revisione e riduzione della spesa pubblica. Visto che il collage provincialista del nostro Paese è divenuto, come si è detto, sempre più oneroso e dissipativo. Non è casuale l’iniziativa di un anno fa. Dettata dall’emergenza. Favorita dalla “debolezza” politica degli attori che hanno agitato la bandiera del territorio negli ultimi vent’anni. Per prima la Lega, affondata, alle elezioni recenti. E aggrappata alle Regioni del Nord, dove è ancora al governo. D’altronde, la Questione Settentrionale appare silenziata. Messa a tacere dalla Questione Nazionale imposta dalla Ue e dalle autorità economiche e monetarie internazionali.
Che esigono risparmi e tagli. E hanno rovesciato le gerarchie geopolitiche, sotto-ponendo la periferia al centro.
Il territorio ai poteri della finanza e della politica globale.

Così, l’Italia Provinciale è divenuta un problema. Trattata come un vincolo di spesa, una variabile dipendente da controllare e orientare. Il governo Monti ha, dunque, proceduto, dapprima, all’abolizione dei consigli provinciali e, quindi, a una sostanziosa riduzione del numero delle Province (da 86 a 50, nelle Regioni a statuto ordinario). Per decreto legge, con procedura d’urgenza. In base, appunto, a motivi di emergenza. Procedure e motivi non compatibili con una materia “costituzionale”, com’è quella dell’organizzazione territoriale dello Stato. Di cui le Province sono parte integrante.

Così l’Italia Provinciale resiste ed esiste ancora. Malgrado i tentativi e la volontà espressa da molti, diversi soggetti politici ed economici, di ridimensionarla. D’altronde, due italiani su tre pensano che le province andrebbero almeno ridotte. Ma il 60% è contrario ad abolire la Provincia dove vive (Sondaggio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In altri termini: gli italiani sono disposti a “cancellare” o, comunque, a mettere in discussione la provincia degli altri. Ma non la propria. Per questo non sarà facile, al governo guidato da Enrico Letta, abolire le Province dal lessico geopolitico nazionale, come prevede il Ddl costituzionale, approvato nei giorni scorsi. Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo l’organizzazione ma, insieme, la stessa identità territoriale del Paese. Perché le Province, per citare Francesco Merlo, sono il Dna «che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali». Da Nord a Sud, passando per il Centro. E perfino a Roma. L’Italia: Provincia d’Europa e dell’Euro. Un Paese di compaesani (come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti). Punteggiato di campanili e municipi. Unito dalle differenze. L’Italia Provinciale e Provincialista: riflette tendenze di lunga durata. Difficilmente verrà sradicata da un governo di larghe intese. E, dunque, di breve periodo.

(08 luglio 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/08/news/abolite_le_province_ma_non_la_mia-62586581/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Figli di uno stato minore. A sua insaputa
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2013, 11:57:13 am
Figli di uno stato minore. A sua insaputa

di ILVO DIAMANTI


Ho una casa molto grande. Un villino, situato sui colli romani. D’altronde, per me, è un luogo di lavoro, non solo una residenza. Faccio il manager, mi occupo di servizi di ogni genere. E sottolineo: di ogni genere. Ho molti clienti importanti. Politici e finanzieri. Qualche imprenditore. Organizzo per loro incontri, confronti, seminari. Per negoziati, intese e contese di ogni genere. In condizioni di assoluta discrezione. Ci mancherebbe. Si rivolgono a me proprio perché hanno bisogno di confidenza e discrezione. Con alcuni “clienti”, poi, non mi posso permettere in-discrezioni. La discrezione è il mio mestiere.

Ogni tanto mi capita di finire in mezzo a polemiche. Contro la mia volontà e a mia insaputa. Come quando, qualche anno fa, i media hanno rivelato che il mutuo della mia residenza, in effetti, è pagato da un altro. Uno dei miei clienti. A cui ho permesso di entrare in una rete di relazioni preziose, per la sua professione. Ma, in effetti, la rivelazione ha sorpreso anche me. Francamente, non lo sapevo. Credetemi: l’operazione è stata fatta a mia insaputa. Dai miei consulenti e collaboratori, come compenso dei molti servizi che offro ai miei clienti. In fondo, la mia casa è anche la sua casa, visto che ci trascorre molto tempo, ogni settimana, insieme ai suoi sodali e collaboratori. Ci ha guadagnato molto frequentando me. E i miei amici.
D’altronde, io sono “discreto” e garantisco “discrezione”.

Ma non posso sapere tutto quel che succede a casa mia. In questa residenza grande come un ministero. Anzi, di più. Ci sono decine di uffici, sale, ma anche appartamenti e camere. Perché quelli che partecipano a riunioni e seminari, a volte, si fermano per più giorni. E invitano ospiti a loro cari. Amici e amiche. Famiglie e familiari. Così è più facile coltivare relazioni. Sei come a casa tua. Non hai l’urgenza del ritorno, della partenza. Gli ospiti, o ancora, i clienti: si mettono d’accordo con i miei collaboratori ed è sufficiente. Tanto basta. Così, quando mi muovo nella mia villa, lungo i corridoi, da un piano all’altro, per un appuntamento, un incontro o solo per sgranchirmi le gambe, e scendo fin giù in giardino, incrocio molte persone che non conosco. Che mi pare di non aver mai visto. D’altronde, perché dovrei conoscerle - oppure almeno riconoscerle – tutte? Sono lì a mia insaputa, anche se non contro la mia volontà. Anzi: per mia volontà. Così saluto tutti con un cenno del capo – anche quelli che mi risultano ignoti - e proseguo.

Per questo non capisco il baccano intorno a una vicenda avvenuta nelle scorse settimane, proprio qui. A casa mia. Ho scoperto anch’io dai giornali di una famiglia - una madre e due figli piccoli – prelevata, notte tempo, da una squadra di vigilanti e di agenti di polizia. Da casa mia. E poi sparita nel nulla. O meglio, ricomparsa nel Paese di provenienza. Un piccolo stato africano dal nome impronunciabile. Pare si tratti di “una” moglie del sovrano (e presidente). Una - delle tante. Fuggita con la complicità di un consigliere del sovrano. A sua volta fuggito – il consigliere - perché in disaccordo con il sovrano-presidente (o viceversa). Ma, da quel che ho capito, la ragione vera è la relazione “affettuosa” fra la moglie e il grande consigliere – del sovrano.

Così il presidente-sovrano, di questo piccolo stato africano, si è messo d’accordo con uno dei miei amici e clienti. Il più importante. Il mio “protettore” politico. E la moglie del presidente-sovrano è stata rispedita, insieme i figli, a casa. Del sovrano-presidente. Ma tutto ciò è avvenuto “a mia insaputa”. Mica mi dicono tutto quel che succede qui, in questa villa. Dove vanno e vengono in tanti. Io, d’altronde, non ho tempo né voglia di occuparmi di tutti gli affari di questo posto. Della mia villa. Dove vivo insieme a tanti altri.

Il “ratto” della donna e dei bimbi africani, a casa mia, comunque, è avvenuto senza il mio consenso e senza il mio dissenso. “A mia insaputa”. Né io mi sono preoccupato troppo di contestare e di recriminare, su quel che non so e non voglio sapere. Gli unici “fatti” che mi interessano sono i “fatti miei”. Perché io sono un italiano “vero”. Parte e partigiano di questo popolo di schettini, scilipoti e angelini. Dove si coltivano l’amorale pubblica e privata. E il senso cinico. Io, cittadino senza cittadinanza di uno Stato “a sua insaputa”. Dunque, figlio di uno “stato” minore. Minuscolo.
Non un Soggetto e neppure un complemento oggetto. Al massimo, un participio passato.

(19 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/07/19/news/figli_di_uno_stato_minore_a_sua_insaputa-63276951/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Tira una brutta aria sulla nostra democrazia
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2013, 08:39:35 am

Tira una brutta aria sulla nostra democrazia

di ILVO DIAMANTI


Tanto rumore per nulla. I diplomatici kazaki  vanno e vengono dai nostri ministeri. E, complici i nostri servizi e le nostre forze dell'ordine, prelevano la moglie e la figlia di un dissidente. Le deportano nel loro Paese. E se ne vanno.

Senza che nulla accada, sul piano politico interno. In fondo nessuno sapeva. E tutto, comunque, è avvenuto all'insaputa del governo. In fondo era già capitato anni fa che i servizi americani, a Milano, prelevassero l'imam Abu Omar, sospettato di terrorismo. Per trasferirlo in Egitto e interrogarlo con metodi convincenti. Poi, i responsabili sono stati condannati. Ma erano già lontani. E quando un agente della Cia, condannato in Italia per quei fatti, è stato fermato a Panama, nei giorni scorsi, è stato immediatamente fatto rientrare negli Usa. Prima ancora che l'Italia perfezionasse la richiesta di estradizione.

Ora, come allora, nessun responsabile  -  istituzionale e politico  -  ha pagato. Si è dimesso. D'altronde, l'operato del governo, nel "caso kazako", non si presta a critiche. Non l'ha detto solamente il capo del governo, com'è ovvio. Ma anche il presidente della Repubblica. Tutto normale, insomma. A conferma di quella "normalità deviata" che, come ha osservato Stefano Rodotà nei giorni scorsi, su "Repubblica", regola il nostro sistema politico. D'altra parte, ormai, quasi più nessuno reagisce, salvo una ristretta élite di indignati, tanto definita da non sollevare più sorpresa. Mentre nella società  -  più o meno civile  -  non si colgono segnali di rivoluzione. Grillo e Casaleggio, d'altronde, hanno preconizzato rivolte popolari, nei prossimi mesi. Ma non per una reazione morale. Semmai, per l'impatto della crisi economica. Si tratta di ragioni analoghe a quelle addotte da Enrico Letta per spiegare le sue (non) scelte, compreso il sostegno ad Alfano. L'assenza di alternative a questo governo e a questa maggioranza. La necessità di rispondere agli accordi internazionali, agli imperativi dei mercati. Insomma, all'emergenza esterna.

Così, la "normalità deviata" che ha contaminato le nostre istituzioni e la nostra classe politica tende a degenerare. Diventa "normalità" etica e civile. Stato d'animo generale e generalizzato. Opinione Pubblica, sancita dai sondaggi che ancora vengono condotti, nel torrido clima estivo. (D'altronde, quest'anno la crisi ha ridotto notevolmente la quota di popolazione che va in ferie.) Secondo Ipsos, infatti, la maggioranza degli elettori (oltre il 50%) esprime ancora fiducia nei confronti del governo. Mentre più del 60% approva l'operato di Enrico Letta.

Certo, gran parte dei cittadini  -  secondo il sondaggio  -  avrebbe voluto le dimissioni di Alfano e, ancor più, di Calderoli. Autore "irresponsabile" di insulti razzisti contro la ministra Kyenge. Ma non la crisi di governo. Perché, nonostante tutto: meglio la stabilità. Considerata un "valore in sé". Che va oltre i comportamenti "deviati" dei leader politici e istituzionali. D'altronde, vent'anni di berlusconismo hanno mitridatizzato l'etica pubblica dei cittadini. Ormai poco sensibili  -  e quasi indifferenti  -  a scandali e processi. Compresi quelli ancora pendenti e imminenti.

È questo il rischio maggiore che vedo, nell'Italia dei nostri tempi. L'assuefazione all'anormalità politica e istituzionale. Che ha come principale  -  e quasi unica  -  soluzione la sfiducia politica e istituzionale. Quel clima d'opinione che si traduce nel "non voto". Oppure viene intercettato, in alcuni momenti, da attori politici, oppure anti-politici, come il M5S. Usati, a loro volta, dagli elettori come veicoli della sfiducia, piuttosto che come garanti delle regole. L'assuefazione all'anormalità politica e istituzionale, d'altronde, alimenta il disincanto se non l'indifferenza verso la democrazia. In particolare, rafforza l'abitudine a fare a meno dei vincoli e delle garanzie che contrassegnano le democrazie rappresentative. A partire dai princìpi. Per primo, il rapporto diretto tra volontà degli elettori, espressa attraverso il voto, e composizione del governo. Tuttavia, da due anni, il Paese è governato da esecutivi sostenuti da maggioranze "non politiche". Cioè, da larghe intese imposte  -  e, comunque, giustificate  -  dall'emergenza. Dove convergono e coabitano gli antagonisti di sempre. Dove si perdono le distinzioni antiche e recenti. Non solo fra pro e anti-berlusconiani, ma fra destra e sinistra. D'altronde, se da due anni il Pd sta in una maggioranza insieme al centrodestra di Berlusconi, è difficile discutere di destra e sinistra. Non solo nei termini sintetizzati da Norberto Bobbio in un notissimo saggio del 1994. Anno della discesa in campo di Berlusconi. Ma anche in quelli proposti dalla discussione fra Eugenio Scalfari e Michele Serra, su Repubblica, nei giorni scorsi. Il problema è che l'assenza di competizione e di alternativa politica narcotizza il sentimento democratico. Ci abitua a governi "tautologici": in nome della governabilità. Governi di tutti e dunque di nessuno. Indifferenti ai verdetti elettorali. Alle alternative  -  a cui gli italiani sono poco avvezzi. Visto che nella prima Repubblica, quindi per oltre 45 anni, non c'è stata alternanza. Stesse forze al governo  -  Dc e alleati  -  e all'opposizione  -  Pci e sinistra.

Così, poco a poco, ci si assuefà. A una democrazia-per-così-dire. Non si tratta neppure più della post-democrazia, ridotta al rito elettorale, cui fa riferimento Colin Crouch. Perché, nella post-Italia, descritta da Berselli giusto 10 anni fa, anche il rito elettorale è divenuto indifferente e irrilevante. La polemica politica e fra politici esiste solo nei talk televisivi. La partecipazione dei cittadini diventa poco influente e rilevante. Emerge ed è visibile solo attraverso alcune esplosioni di protesta "localizzate", su problemi territorialmente definiti (come quella dei No Tav, in Val di Susa). È una democrazia "eccezionale", dove l'eccezione è la regola. Dove, per l'Opinione Pubblica, l'anormalità diventa normale. Dove i casi di questi giorni, di queste settimane, di questi anni non suscitano scandalo e tanto meno indignazione. Abbassano appena gli indici del consenso al governo e al premier. Senza comprometterli. Si traducono, al massimo, in un'onda anomala del voto o del "non voto". Mentre gli "anticorpi della democrazia", come li ha definiti Giovanni Sartori, finiscono liquefatti nel "senso comune". Assai più diffuso e influente, in Italia, del "senso civico".

Per questo conviene preoccuparsi. Io, almeno, mi preoccupo. Sulla nostra democrazia rappresentativa: tira una brutta aria.

(22 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/22/news/tira_una_brutta_aria_sulla_nostra_democrazia-63441905/?ref=HREA-1
   


Titolo: ILVO DIAMANTI - La paura di andare a votare
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2013, 11:46:59 am

La paura di andare a votare

di ILVO DIAMANTI

SONO tempi convulsi. Non lasciano tempo per progettare, né il tempo per immaginare. Quel che accadrà nei prossimi mesi. Domani. Che succederà domani? Il governo guidato da Enrico Letta pare appeso a un filo. La condanna in via definitiva di Silvio Berlusconi per frode fiscale, in Cassazione, sembra aver compromesso l’equilibrio instabile su cui si reggeva la strana e larga maggioranza di governo.

Il Pdl, in particolare, ha lanciato polemiche roventi per ottenere giustizia politica contro la magistratura nemica. Perché Berlusconi venga “graziato” dal presidente. Perfino Sandro Bondi, persona normalmente mite, ha agitato il fantasma della “guerra civile”. Mentre altri colleghi di partito hanno usato, al proposito, un linguaggio molto più esplicito e diretto. Intanto, ieri sera, davanti a Palazzo Grazioli, un Popolo è sceso in piazza per la Libertà. Di Silvio Berlusconi. Il quale, rispondendo all’appello dei fedeli, ha rivendicato la propria innocenza. E ha ribadito la volontà di “non mollare”. Di non piegarsi al potere illiberale dei giudici di sinistra. Dei giudici e della sinistra. Berlusconi, nella campagna elettorale permanente, di questi tempi convulsi, ha identificato il Nemico. I magistrati, che non sono un’istituzione, ma impiegati dello Stato. Che pretendono di rovesciare i poteri democraticamente eletti dal popolo.

Eppure, nonostante i toni violenti, contro le istituzioni dello Stato, Berlusconi, ieri, ha ribadito il sostegno del suo partito al governo. D’altronde, sa bene che il presidente Napolitano (peraltro, criticato esplicitamente da Berlusconi) non permetterebbe la conclusione dell’esecutivo guidato da Letta e, soprattutto, la fine della legislatura anticipata. (Lo ha chiarito bene Eugenio Scalfari nell’editoriale di ieri.) Almeno, prima che venga approvata una nuova legge elettorale. Ma a Berlusconi e il Pdl non conviene aprire la crisi di governo perché “fuori dalla maggioranza”, per loro, sarebbe molto peggio. Rischierebbero di finire isolati. Di “subire” leggi (elettorali e non solo) sgradite e svantaggiose.

E poi, perché mai il Pdl dovrebbe volere nuove elezioni proprio oggi, che non potrebbe candidare Berlusconi? E, senza Berlusconi, il Pdl semplicemente “non è”. Non esiste. Lo si è visto l’anno scorso, quando sembrava che il Cavaliere non si candidasse alla guida del partito e della coalizione. Allora, nei sondaggi, il Pdl era sceso intorno al 15%. Il ritorno in campo del Cavaliere ne ha determinato la rapida risalita. Per quanto relativa e limitata, visto che, a febbraio, il Pdl si è fermato al di sotto del 22%: circa 15 punti e oltre 6 milioni in meno, rispetto a cinque anni prima. Come potrebbe presentarsi al voto senza il suo Signore e Padrone? In condizioni più precarie del passato?

Certo, Berlusconi potrebbe giocare la carta del perseguitato in patria. (Come ha già fatto ieri.) Trasformare il voto in un referendum per la (propria) libertà. Ma rischierebbe di essere poco convincente. Difficile, per lui, proporsi come una nuova versione di Silvio Pellico. Paragonare Villa Grazioli o Arcore alla Fortezza dello Spielberg: sarebbe troppo, anche per un mago della propaganda, come lui. Ma, soprattutto, andrebbe contro il clima d’opinione. Infatti, come ha rilevato Nando Pagnoncelli in un commento scritto per l’Agenzia InPiù, «l’80% degli italiani ritiene che il Pdl dovrebbe continuare a sostenere il governo Letta».

Un’opinione condivisa da sette elettori su dieci nel Pdl. I quali, dunque, lo considerano senza alternative. Necessario, per non affondare in una crisi economica e sociale ancor più drammatica. Come potrebbero, Berlusconi e i leader del Pdl, spiegare agli elettori, anche ai propri, che gli interessi del Cavaliere vengono prima di quelli degli italiani? Che la “libertà” di Berlusconi e le questioni della giustizia siano prioritarie rispetto alle riforme dell’economia, del fisco, del lavoro? Di fronte alla necessità di rappresentare il Paese in ambito europeo e internazionale?

Per questo è difficile pensare che il Pdl e, per primo, Berlusconi vogliano davvero porre fine all’esperienza di governo per aprire una nuova stagione elettorale. Che potrebbe indebolirne ulteriormente non solo il peso elettorale, ma anche quello politico. oltre alla credibilità. È più probabile, piuttosto, che il Cavaliere, con i suoi interventi e le manifestazioni del suo Popolo, intenda modificare l’opinione pubblica. Trasformare una vicenda giudiziaria in una questione politica. Fra Berlusconi e i magistrati. Eterni duellanti. È probabile, inoltre, che le azioni del Pdl siano finalizzate a ottenere qualche via d’uscita, qualche  salvacondotto, per il leader. Ma è, comunque, certo che le mobilitazioni di questi giorni servano, comunque, a favorire il ritorno al nuovo (?) soggetto politico. Forza Italia 20 (anni dopo). E, forse, a preparare una successione alla leadership per via dinastica. Di padre in figlia. Come avviene nei partiti carismatici e personali.

L’impressione, peraltro, è che anche il Pd, il principale “avversario” politico del Pdl, viva questa vicenda con qualche disagio. E disorientamento. “Costretto” a un’alleanza sempre più contro natura. Perché, in primo luogo, i suoi elettori (oltre l’80%), più ancora di quelli di Berlusconi e di FI, ritengono il governo Letta “necessario”, in questa fase e nel prossimo futuro. Poi, perché attraversa anch’esso una transizione complicata. Le primarie: annunciate per fine novembre. I dubbi e le tensioni in merito alla segreteria del partito e alla premiership. Tra Renzi, Letta – e altri. Infine, anche il Pd appare in difficoltà nel concepire il proprio futuro “senza Berlusconi”. Perché il Cavaliere è il chiodo a cui sono appesi tutti i principali attori della Seconda Repubblica. Nel bene e nel male. Pro o contro. Ha condizionato le scelte e i comportamenti, ma anche i modelli organizzativi dei soggetti politici degli ultimi vent’anni. Ora che questo chiodo si è quasi staccato e, comunque, scricchiola, tutti – amici e nemici di Berlusconi – faticano ad attaccarsi altrove. Oppure a costruire e a offrire un appiglio diverso.

Per questo nessuno mette in discussione il governo Letta, nella maggioranza. Per questo, però, il governo appare sempre più fragile. In quanto è difficile che si possa reggere su partiti deboli, incoerenti, uniti per necessità e per paura.

Anche se l’idea di nuove elezioni, a breve termine, è difficile da accettare. Perché affrontare una campagna elettorale impostata da e su Berlusconi, ma senza Berlusconi: è un altro salto nel voto…

(05 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/05/news/la_paura_di_andare_a_votare-64294433/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Prigionieri del presente. C'era una volta il futuro
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2013, 07:40:47 pm

Prigionieri del presente. C'era una volta il futuro

di ILVO DIAMANTI


C'era una volta il futuro. Oggi è scomparso. Una parola inutile, comunque inutilizzata. Il futuro. Illuminava l'orizzonte sociale e personale.

Ispirava l'azione e, anzitutto, i messaggi della politica. I leader e i partiti erano tutti impegnati a scrivere programmi, progetti.
A fare promesse. Perché anche le promesse riguardano il futuro.

La politica della Prima Repubblica: era orientata da ideologie. Grandi narrazioni della storia, proiettate nel futuro. Che sarebbe stato migliore del passato e del presente. La politica della Seconda Repubblica ha, invece, affidato la produzione di immagini del domani agli esperti di marketing. Ha ricondotto le identità e i progetti alla personalità del leader. Così il tempo ha perduto significato. Come i progetti.

La figura di Berlusconi, modello e artefice di quest'epoca, ha riassunto in sé ogni promessa. Facendola apparire attuale e attuabile, se non oggi, almeno domani. La sua biografia "personale", in un tempo pervaso dal mito del mercato e della competizione individuale, ha comunicato alla società che tutti "ce la potevano fare". Tutti potevano diventare come lui. Egli stesso "prometteva" sviluppo e benessere al Paese. Perché il Paese, in fondo, è come un'azienda. E lui, il Grande Imprenditore, era l'unico in grado di farla funzionare. Così, del futuro, in politica, si è perduta ogni traccia. E noi ci siamo trovati incapsulati nel presente infinito.

Oggi, nessuno pare in grado di guardare lontano. Le utopie, gli ideali: non funzionano più neppure come slogan. Le promesse: si riducono all'abolizione dell'Imu sulla prima casa. Entro agosto, ovviamente, per non fare passare troppo tempo. Perché un mese è già un orizzonte troppo lontano, per la politica dei nostri tempi. D'altronde, l'ispiratore della Seconda Repubblica, Berlusconi, fatica ad alzare gli occhi oltre l'immediato. È lì, a casa, in attesa del prossimo 9 settembre, quando la Giunta per le elezioni si esprimerà sulla sua decadenza dallo status di senatore. Con il voto del Pd. In quel caso, ha avvertito  -  e minacciato  -  il ministro Gaetano Quagliariello, la vita del governo sarebbe a rischio. Il presidente, Giorgio Napolitano, tuttavia, ha ribadito, anche di recente, che, senza una legge elettorale diversa, in grado di garantire governabilità, dopo il voto, non scioglierà le Camere. Dunque, il "futuro" tracciato dal Pdl è lungo (si fa per dire) un mese. Poi si vedrà. Anche perché il Pdl, in realtà, non esiste più. È una sigla vuota. Rinnegata, più che negata, per primo, da Berlusconi stesso. Il quale, per guardare avanti, ha fatto un salto all'indietro. Di quasi vent'anni. Ha, infatti, deciso di rilanciare Forza Italia. La sigla del suo partito personale, insieme al quale è "sceso in campo". Nel 1994. Silvio Berlusconi, d'altra parte, è costretto a scandire il tempo e il calendario in una successione di scadenze, a breve distanza, l'una dall'altra. Per motivi politici e giudiziari. Possibili  -  e improbabili  -  elezioni. E nuovi gradi di giudizio, che lo attendono. Così, ieri, in un messaggio ai suoi sostenitori, non ha indicato un percorso. Si è limitato a dire: "Io resisto".

Il Pdl oppure Forza Italia e tutte le sigle che fanno riferimento all'universo politico di Berlusconi appaiono, quindi, sospese. Incapaci di dettare non una prospettiva, ma un'agenda per i prossimi mesi. Perché non hanno un nome certo. Perché la precarietà del loro leader  -  unico e insostituibile  -  si riproduce su di loro, moltiplicata.

L'altro soggetto politico che davvero conti, oggi, è il Partito Democratico. L'unico vero "partito", lo ha definito ieri Eugenio Scalfari. Di certo non il partito unico. Né unitario. Ma, semmai, incerto. Sulla leadership possibile. Da cui dipende la sua strategia, se non il suo futuro.

Il Pd è atteso da una stagione tesa e instabile. Il congresso, in settembre. Le primarie per il segretario di partito, a fine novembre. Probabilmente. Anche se molto dipende dal destino del governo. Che nessuno, nella maggioranza, ha voglia o, comunque, è in grado di far cadere. Ma neppure di sostenere in modo convinto. Così, il governo procede "per necessità". Ed è come se corresse sul filo. Sempre in bilico. Non può dare l'idea di avere un futuro. Né, per questo, può proporre un'idea di futuro. Gli altri partner di maggioranza, d'altra parte, il futuro l'hanno consumato in fretta. Scelta Civica, la formazione politica di Mario Monti, ormai, è poco rilevante, nell'opinione pubblica. Riavvicinata, nei sondaggi, dall'Udc. A causa del calo di Scelta Civica, assai più che per la ripresa dell'Udc. Così, dimostra un futuro corto non solo la prospettiva di un soggetto politico di Centro, capace di ancorare il sistema politico italiano. Ma anche l'idea di una Destra diversa, guidata da un Centro sicuramente affidabile. E, tuttavia, troppo piccolo per essere preso sul serio.

Peraltro, neppure le forze politiche di opposizione sembrano avere un futuro sul quale investire. Non la Lega, divisa all'interno. Impegnata, per sopravvivere, per avere ascolto, a ingaggiare battaglie di respiro corto e senza dignità. Come quella intrapresa contro la ministra Kyenge.

Neppure il M5S sembra interessato a progettare il futuro. Perché il suo successo è strettamente legato all'insuccesso degli altri. Di soggetti politici senza futuro. E, comunque, il modello di azione e di comunicazione interpretato da Beppe Grillo enfatizza il presente. L'immediato. È la politica come happening permanente. Sostenuta dalla Rete e attraverso la Rete. Un ambiente dove è possibile a tutti inter-agire, in modo diretto. E immediato.

Non a caso Enrico Letta, aprendo il meeting di Cl, a Rimini, ha "promesso" che a ottobre la legge elettorale sarà riformata. Si andrà oltre il "Porcellum". A ottobre. Perché è difficile guardare più in là di ottobre. D'altronde, anche con una nuova legge, al di là degli annunci, pochi sembrano disposti ad affrontare nuove elezioni. In Parlamento, ma anche fra i cittadini. Lo stesso Letta, non a caso, gode di un consenso personale elevato e gran parte degli elettori si dice contraria all'ipotesi che il suo governo cada. Non per "fiducia", ma per "timore". Di quel che potrebbe capitare poi. In fondo, anche noi ci siamo adattati. Alla scomparsa del domani. Così invecchiamo senza rendercene conto, perché, insieme al tempo, abbiamo abolito i giovani e la gioventù, dal nostro orizzonte. Stiamo diventando professionisti dell'incertezza. Navigatori dell'eterno presente. Ma proseguire in questa direzione ancora a lungo pare impossibile. Se il futuro è scomparso, restituiteci almeno il passato.


(19 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Cavaliere è entrato in campagna elettorale
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2013, 11:39:35 pm

Il Cavaliere è entrato in campagna elettorale

di ILVO DIAMANTI


MAPPE - Siamo in piena campagna elettorale. Anche se non è chiaro se e quando si voterà. Ma non importa. Tutte le scelte e i comportamenti di Silvio Berlusconi, dopo la condanna in Cassazione per evasione fiscale, assumono un chiaro significato, in questa prospettiva. Mirano, cioè, a creare un clima d'opinione favorevole: a Berlusconi e al centrodestra.
In vista di una competizione elettorale che, se non imminente, appare, tuttavia, non lontana. Ed è, comunque, un'eventualità non prevedibile.

Perché nessuno, ormai, è in grado di controllare il corso della politica in Italia. Per questo a Berlusconi interessa imporre al centro dell'attenzione dei cittadini alcuni aspetti, alcune questioni che lo riguardano direttamente.

a). Anzitutto, il tema della giustizia. O meglio, dell'in-giustizia nei suoi riguardi. È il suo chiodo fisso. Da quando è sceso in campo e ha iniziato la sua contesa contro i magistrati. Anche se Berlusconi non è mai riuscito, fino ad oggi, a farne una priorità, intorno a cui aggregare una maggioranza ampia e solida. In Parlamento. Ma, soprattutto, nell'opinione pubblica. Un problema, per il Cavaliere, tanto più in questa fase. Perché oggi, per larghi settori sociali, le priorità sono, invece, legate alla recessione economica, alla disoccupazione, al reddito, al costo della vita. Una crisi di governo aperta per i problemi giudiziari "personali" di Berlusconi, in questa situazione, rischierebbe di apparire inaccettabile, oltre che incomprensibile, per i cittadini. Per questo il Pdl ha trasformato l'agenda di governo in una corsa ad ostacoli. Disseminata di trappole. L'Imu, per prima. Poi il decreto sui precari della Pubblica amministrazione. Ma i motivi di tensione, nella maggioranza, sembrano destinati ad aumentare. Di numero e di intensità. E rischiano di rendere inevitabile la crisi di governo.
Per auto-dissoluzione. Evitando responsabilità specifiche e dirette di un partito. In particolare, del Pdl.

b). Berlusconi, inoltre, cerca di imporre il proprio caso personale come caso esemplare  -  e se stesso come testimone  -  di un'emergenza democratica. Il leader del secondo schieramento politico costretto all'esilio  -  a casa propria. Non è un'impresa facile, considerato il grado di "agibilità" politica reale di cui dispone l'imprenditore mediatico più importante d'Europa. Tuttavia, le polemiche di questi giorni appaiono, comunque, coerenti con un obiettivo fondamentale della campagna elettorale di Berlusconi. Sollevarsi dalla posizione periferica in cui, a dispetto di molte letture del risultato, era stato spinto alle elezioni di febbraio. Certo, anche allora è riuscito quasi a raggiungere il centrosinistra. Contrariamente alle previsioni. Ma a causa della "rismonta" del Pd più che della "rimonta" del Pdl. Il quale ha perduto 6 milioni e 300 mila voti e 16 punti, rispetto a 5 anni prima. Lo stesso Berlusconi, nei mesi scorsi, non è riuscito a migliorare gli indici di fiducia nei propri confronti. Troppo bassi, per restituirgli il ruolo di un tempo. Una crisi di governo prodotta, in modo implicito o esplicito, dalle attuali vicende giudiziarie rilancerebbe di nuovo Berlusconi come protagonista della vita politica e sociale. Nonostante tutto. Nel bene e nel male.
(Come già sta avvenendo).

c). Cedere sulla questione dell'ineleggibilità, accettare la decadenza di Berlusconi da parlamentare, inoltre, significherebbe riconoscere e accelerare il declino di Berlusconi.
Non solo sulla scena politica nazionale, ma anche nel centrodestra e nel Pdl. Aprirebbe, dunque, ufficialmente la "guerra di successione", accentuando le divisioni fra i cosiddetti "falchi" e le sedicenti "colombe". In realtà, correnti e leader del Pdl, che ambiscono ad assumere la guida e il controllo del partito. Anche se, oggi, nessuno è in grado di governare e unire il centrodestra al di fuori di Berlusconi. La determinazione del Cavaliere nel denunciare la propria indisponibilità a farsi da parte serve, dunque, a rendere la questione del tutto inattuale. Comunica  -  all'esterno e all'interno del Pdl  -  che Berlusconi non ha alcuna intenzione di farsi da parte. E se il suo declino dovesse avvenire, coinvolgerebbe tutto il centrodestra. Dopo di lui, dunque, il diluvio. Per il centrodestra e per il Pdl, almeno.

d). Attraverso le polemiche e le minacce di questa fase, Berlusconi ha sottolineato, anzi, gridato che la propria esclusione dal Parlamento e dalla competizione elettorale potrebbe diventare politicamente rischiosa e costosa. Non solo per il centrodestra e per Berlusconi, ma anche per il Pd e per il centrosinistra. Perché proprio la sua "esclusione" potrebbe diventare un fattore di "inclusione". Invece di spingerlo nella penombra, gli offrirebbe ulteriore visibilità. Di certo, diverrebbe un argomento importante, in campagna elettorale. Fino a trasformarla in uno scontro istituzionale decisivo.

e). Infatti, se, dopo Enrico Letta, Giorgio Napolitano incaricasse ancora Enrico Letta. Se, in caso di impossibilità di trovare nuove maggioranze in Parlamento, Napolitano decidesse di dimettersi, affidando ad altri, dopo di lui, il compito di sciogliere le Camere. Per Berlusconi, in fondo, non cambierebbe molto. Anzi, potrebbe perfino rafforzare la propria centralità politica e sociale. Diverrebbe, infatti, il protagonista assoluto di uno scontro politico e  -  appunto  -  istituzionale irrimediabile e irresolubile. Lui, Berlusconi, da solo.
Contro tutti. La Sinistra, Letta. Ma, soprattutto, Napolitano. Il Presidente. Garante della Repubblica. E di questo governo.

Così, Silvio Berlusconi conduce la consueta guerra contro i magistrati e i giudici  -  che pretendono di applicare le leggi anche nei suoi confronti. Per questo si serve, come sempre, di tutti i mezzi e gli strumenti  -  politici, economici e mediatici  -  a sua disposizione. Tuttavia, allo stesso tempo e nello stesso modo, fa campagna elettorale. In vista del voto che verrà. Quando verrà.
La posta in palio è alta. Non solo per Berlusconi. Perché la sua parabola è alla fine. Ma quel che sarà dopo è ancora da scrivere. E, dopo avere scritto la biografia della Seconda Repubblica, Berlusconi vorrebbe lasciare il segno anche sulla Terza. 

(26 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: ILVO DIAMANTI - L'ultimo grado di giudizio
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2013, 08:58:14 am

L'ultimo grado di giudizio

di ILVO DIAMANTI


Oggi si riunisce la Giunta per le elezioni del Senato per deliberare sulla decadenza  -  o sulla permanenza  -  di Silvio Berlusconi. Il quale, nel frattempo, ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo.

Silvio Berlusconi, dunque, invoca l'intervento di un tribunale europeo per contrastare le sentenze di altri tribunali, che rischiano di comprometterne il ruolo politico (e non solo). La sentenza dei giudici di Milano, d'altronde, è la prima che abbia esito definitivo, per Berlusconi. Per questo Berlusconi, i suoi consulenti legali e parlamentari, che in buona parte coincidono, si battono perché venga sospesa, derogata, rinviata. Perché il caso sia riaperto. Com'è normale, in questa Repubblica, nata vent'anni fa per effetto dell'azione dei magistrati. I quali, da allora, hanno mantenuto un ruolo di primo piano. Nella vita pubblica e in quella politica.

In realtà, le inchieste dei magistrati investirono un sistema politico e istituzionale largamente delegittimato. Privo di fondamenta e di consenso, come dimostrarono, da ultimi, i referendum del 1991 e del 1993. Il muro di Berlino era crollato e l'anticomunismo non era più in grado di giustificare il sostegno ai partiti di governo. Così, alle elezioni politiche del 1992 tutte le forze politiche tradizionali, di governo e di opposizione, persero voti e consenso, in ampia misura. Solo la Lega Nord si impose. A testimonianza che la Prima Repubblica era finita. I magistrati, allora, apparvero come eroi popolari. Più che al servizio della giustizia: giustizieri. Al servizio del popolo, che voleva voltar pagina. Uscire dal dopo-guerra fredda.

Più di tutti e per primo ne approfittò proprio Silvio Berlusconi. Che si presentò come l'Uomo Nuovo. Estraneo rispetto ai politici e ai partiti tradizionali. Li rimpiazzò con un partito personale. Un'azienda-partito. Impose la politica come marketing. Ma i magistrati non uscirono di scena. In parte, perché l'intreccio tra interessi privati e ruoli pubblici, e quindi tra affari e politica, divenne più stretto, se possibile. Impersonato, per primo, dallo stesso Berlusconi. Ma non solo da lui. In secondo luogo, perché il deserto politico prodotto da Tangentopoli, dalla scomparsa dei leader e dei partiti della prima Repubblica, non è mai stato colmato. Abbiamo assistito, negli ultimi vent'anni, al succedersi di leader senza partito, oppure di sedicenti partiti incapaci di esprimere leader forti e duraturi. Di certo, la politica è scomparsa dalla società, dai luoghi di vita quotidiana. Si è riprodotta sui media e soprattutto in televisione. Negli ultimi anni, ha conquistato nuovi spazi attraverso la rete e i nuovi media. Tuttavia, non vi sono più soggetti politici in grado di suscitare passione e sentimento. Semmai, protesta e risentimento. Mentre lo spazio pubblico è stato occupato da altri soggetti.

In particolare: il presidente della Repubblica. Ma anche i magistrati. Il cui peso "politico" si è riprodotto e moltiplicato anche dopo e oltre Tangentopoli. Antonio di Pietro per primo. Leader di un partito che, negli ultimi dieci anni, ha conosciuto il successo e la crisi. I magistrati hanno occupato parte dello spazio lasciato vuoto da partiti scomparsi dal territorio e dalla società. Sono divenuti "garanti della pubblica virtù", per usare una formula efficace di Alessandro Pizzorno. Le loro iniziative, le loro sentenze, veicolate dai media, hanno contribuito a sostenere o, più spesso, a delegittimare un leader o un partito. Berlusconi, in particolare, dopo aver beneficiato dell'azione dei magistrati, negli anni Novanta, ne è divenuto, in seguito, l'antagonista.

Più che tra Destra e Sinistra, la frattura che ha attraversato la Seconda Repubblica richiama l'opposizione fra Berlusconi e i Giudici. Le Toghe Rosse, nella semplificazione di Berlusconi. Che, in questo modo, ha riassunto e assimilato i due mitici nemici: i Comunisti e, appunto, i Giudici. Quelli che si occupano di lui. Naturalmente "di sinistra". I Magistrati, peraltro, negli ultimi anni hanno allargato di nuovo il loro grado di considerazione sociale. Trainati dal ritorno della "questione morale"  -  o, forse: "immorale"  -  nella politica italiana. Dopo le inchieste  -  non solo giudiziarie, ma anche giornalistiche  -  contro la Casta dei politici, degli amministratori. Che, negli ultimi anni, si sono moltiplicate e hanno enfatizzato la delegittimazione dei partiti e delle istituzioni. Al punto che la maggior parte degli italiani oggi ritiene che la corruzione politica in Italia sia maggiore che ai tempi di Tangentopoli. Se quasi metà degli italiani esprime grande fiducia verso i magistrati, tuttavia, fra gli elettori del Pdl e della Lega questo orientamento scende a meno del 20%.

Più che garanti della giustizia e della legalità, dunque, agli occhi di molti italiani, essi appaiono un freno allo strapotere della classe politica. E, in particolare, di Silvio Berlusconi. Ma, per questo, sono divenuti  -  o, comunque, vengono percepiti  - attori politici anch'essi. Mentre la vita politica e pubblica appare incatenata, più che intrecciata, ai diversi processi e alle molteplici indagini giudiziarie che si susseguono. In diversa direzione.

Così, l'Italia appare un Tribunale Permanente. Dove i processi proseguono e si riproducono. Uno dopo l'altro. Un grado di giudizio dopo l'altro. Da vent'anni e oltre. Con il rischio, davvero, che lo spazio della politica si minimizzi e scompaia. Naturalmente, non per colpa dei magistrati che fanno il loro mestiere e, comunque, tutelano il proprio spazio. Il proprio potere. Ma per i limiti della politica. Che latita. Si comprende bene, in questo scenario, lo sconcerto di Silvio Berlusconi, di fronte a una sentenza "definitiva", che lo inchioda "definitivamente" alle proprie responsabilità. E rischia di comprometterne "definitivamente" il ruolo politico. Berlusconi: non si rassegna. Per questo chiede, anzi rivendica ed esige: un'altra opportunità. Cioè: un altro grado di giudizio. Se in Italia non è possibile, in Europa. Contro l'Italia. Colpevole di tradire la propria storia e la propria vocazione. Perché in Italia, echeggiando il grande Eduardo De Filippo, non solo gli esami, ma anche i processi, non finiscono mai. In questo modo Berlusconi insegue l'appello dell'unica Corte a cui riconosca legittimità. L'ultimo grado di giudizio. Il voto.

(09 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/09/news/l_ultimo_grado_di_giudizio-66156325/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Pd al 28 %, Pdl a 2 punti: ma è un'Italia senza maggioranza
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2013, 11:15:51 pm
Pd al 28 %, Pdl a 2 punti: ma è un'Italia senza maggioranza

di ILVO DIAMANTI


È SENZA maggioranze e senza certezze politiche, l'Italia di oggi. Forse, non solo da oggi. Un Paese "in bilico", l'ha definito Enrico Letta. A ragione. Perché si muove in equilibrio instabile, non solo di fronte alle tensioni globali. Anche di fronte ai problemi nazionali. Il sondaggio di Demos, condotto (per la Repubblica) nei giorni scorsi, riproduce in modo fedele questo Stato di Emergenza. Dove le “larghe intese” sono divenute la regola. L’unica soluzione possibile per comporre un elettorato diviso in tre grandi minoranze. Fra loro in-coerenti e poco compatibili. Le stime delle intenzioni di voto, oggi, d’altronde, riproducono fedelmente gli orientamenti emersi alle elezioni politiche di febbraio. Il Pd, con il 28%, circa, supera di poco il Pdl (26%). Segue il M5S, intorno al 21%. L’equilibrio tra i partiti appare, di nuovo, rilevante. E inquietante. Nulla che faccia presagire, in caso di voto anticipato, la vittoria chiara di uno schieramento.

D’altronde, oggi sarebbe difficile immaginare anche quali coalizioni si confronterebbero. L’esperienza delle grandi intese (obbligate) ha inciso sulle preferenze degli elettori. Metà dei quali è soddisfatto dell’attuale governo. (E quasi il 60%, secondo l’Ipsos, valuta positivamente Enrico Letta, come leader.) Ma il sostegno al governo cresce sensibilmente fra gli elettori dei partiti della maggioranza. Sale al 60%, nella base elettorale del Pdl, al 74% (cioè 3 elettori su 4) nella base del Pd e all’80% in quella dei partiti di Centro. Peraltro, il governo piace anche a gran parte degli elettori della Lega. Per cui, le uniche componenti insoddisfatte sono costituite da Sel e la Sinistra. (Il cui distacco dal Pd è, quindi, cresciuto.) E, soprattutto, dagli elettori del M5S. L’80% dei quali esprime un giudizio negativo sul governo. Il M5S, d’altronde, appare tutt’altro che finito. Alle amministrative ha pagato il limitato grado di radicamento e di presenza sul territorio. Ma su base nazionale sembra ancora capace di canalizzare la protesta dei cittadini. Che resta ampia. Come dimostrano, oltre al peso elettorale del partito guidato da Grillo, anche l’incidenza dell’astensione e dell’incertezza. Superiore a un terzo degli elettori.

Enrico Letta, dunque, guida una maggioranza divisa, più che condivisa. Animata da spirito di necessità più che da reciproca fiducia. La decadenza di Berlusconi, su cui si esprimerà la Giunta del Senato mercoledì prossimo, non a caso, è ritenuta conseguenza automatica di una legge, dagli elettori del Pd, del Centro, ma anche di Sel e del M5S. Mentre è considerata il “tentativo di eliminare un avversario politico” dalla quasi totalità degli elettori del Pdl – e della Lega. Tuttavia, anche se Berlusconi venisse sanzionato davvero dalla Giunta, la maggioranza degli elettori sia del Pd che del Pdl vorrebbe proseguire nell’alleanza. Nonostante tutto. Anche se, dal sondaggio di Demos, emerge una larga disponibilità a cercare l’intesa fra Pd e M5S, fra gli elettori dei due partiti. Per formare una nuova e diversa maggioranza. Soprattutto nel caso che il governo cadesse e, come chiede la maggioranza degli italiani, si dovesse procedere a nuove elezioni.

Tuttavia, in questo caso, cambierebbe poco, visti gli orientamenti di voto, simili a quelli emersi alle elezioni dello scorso febbraio. Anche se, ovviamente, potrebbero cambiare, in futuro. In seguito al destino di Silvio Berlusconi. E, ancor più, dopo le primarie e la scelta del segretario del Pd.

In questo momento, comunque, il governo, secondo gli italiani, appare destinato a durare. Sicuramente, fino a fine anno (57%). Ma, probabilmente, anche di più. Oltre 6 mesi o perfino un anno (40% circa).

La forza di Enrico Letta, dunque, sembra dipendere, soprattutto, dalla debolezza degli altri soggetti politici. I partiti della maggioranza – compreso il Pd, di cui egli fa parte. Ma anche quelli dell’opposizione. Lo stesso M5S. Abbastanza forte da esercitare pressione fuori e dentro il Parlamento. Ma non al punto di proporre un’alternativa. Anche perché al suo “portavoce”, Beppe Grillo, non interessa. Non intende promuovere – o partecipare ad - alleanze diverse. Mentre i suoi elettori, in maggioranza (40%), pensano che il successo del M5S dipenda principalmente dalla protesta contro tutti i partiti. Dunque, meglio lasciare ad altri il compito di affrontare i rischi e i costi dell’impopolarità, che derivano dall’impegno di governare. Per questo Enrico Letta può proseguire la sua opera fra molte difficoltà, ma anche con molte possibilità di resistere.

Perché le elezioni non sembrano dietro l’angolo. Nessuno, degli alleati, pare disposto ad affrontare le conseguenze di una crisi di governo. In piena emergenza economica. In uno scenario internazionale attraversato da venti di guerra.

L’unico che potrebbe avere interesse a voltare pagina, in effetti, è Matteo Renzi. Compagno (si fa per dire…) di partito di Letta. Un terzo degli elettori, infatti, lo vorrebbe futuro premier. Primo, fra i candidati proposti dal sondaggio agli intervistati. Supera di molto Enrico Letta (17%, al secondo posto, per numero di preferenze). A maggior ragione gli altri. Tuttavia, essere indicato da un terzo degli italiani costituisce un risultato significativo, ma non un plebiscito. Anche perché Renzi è largamente superato da Berlusconi (ma anche da Alfano), fra gli elettori del Pdl. E da Monti, fra quelli del Centro. Mentre è nettamente primo, con circa metà delle preferenze, nella base del Pd (dove, tuttavia, Letta ottiene quasi il 29%). Ma anche fra gli elettori del M5S. Con oltre il 40% delle indicazioni. Quasi il doppio rispetto a Beppe Grillo. Il quale, evidentemente, appare, ai più, un interprete straordinario della protesta contro i partiti e le istituzioni rappresentative. Ma pochi, perfino fra i suoi elettori, si azzarderebbero ad affidargli la guida del Paese. Del “nostro” Paese eccezionale.

Che, ormai da anni, è governato da tecnici o da maggioranze divise, a cui partecipano partiti, fra loro, alternativi. “Costretti” a stare insieme per emergenza, ma non per volontà. Da ciò un sospetto. Un dubbio. Che, contrariamente a quanto recita la retorica antipolitica del nostro tempo, i partiti e il Parlamento, non rappresentino il “peggio”, ma un riassunto attendibile del Paese. Siano, cioè, lo specchio fedele degli italiani. Di questo Paese in-deciso a tutto.
E su tutto.

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L’Atlante Politico è realizzato da Demos & Pi per La Repubblica. La rilevazione è stata condotta nei giorni 10-12 settembre 2013 da Demetra (metodo CATI). I campioni nazionali intervistati sono tratti dall’elenco degli abbonati di telefonia fissa (Italia: N=1245, rifiuti/sostituzioni 4788), ed è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 2.8%). Documentazione completa su www.sondaggipoliticoelettorali.it

(16 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/sondaggi/2013/09/16/news/pd_al_28_pdl_a_2_punti_ma_un_italia_senza_maggioranza-66603741/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_16-09-2013


Titolo: ILVO DIAMANTI - Lavoro, equità, uguaglianza il nuovo lessico per costruire...
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 04:47:03 pm

Pubblicato il 18 settembre 2013

Lavoro, equità, uguaglianza il nuovo lessico per costruire il futuro

Intervista al politologo per concludere la serie sui concetti chiave sull'identità del mondo progressista: ""L'occupazione resta decisiva anche se oggi non è più fonte di riconoscimento sociale. Mi colpisce il consenso per 'dignità'".
Nel sondaggio di Repubblica.it 'vincono' lavoro, equità, uguaglianza

Argomenti: interviste idee sinistra sondaggio dì qualcosa di sinistra.

Protagonisti:
    Ilvo Diamanti


"È vero, il lavoro vince, ma non stacca le altre opzioni. E in generale c'è una grossa dispersione nelle risposte. Segno che manca un'identità definita". Ilvo Diamanti guarda il risultato del sondaggio sulle parole della sinistra, arrivato ai 65mila voti su Repubblica. it.
Rilegge i dati e scuote la testa: "Non c'è il cleavage, la frattura identitaria, che divide la società sul piano politico", dice da politologo. "Lo vediamo anche nelle nostre ricerche: 7 italiani su 10 dichiarano senza difficoltà di essere di destra o di sinistra, ma poi non sanno riempire di contenuti queste due definizioni".

IL SONDAGGIO / GUARDA I RISULTATI su repubblica .it del 18/09/2013.

Va bene, la parola lavoro non stravince nel sondaggio. Ma ha avuto il 10 per cento dei voti, tra una trentina di diverse opzioni.
Quanto c'entra la crisi?
"Sicuramente ha un peso. Ma conta di più la storia. Il lavoro ha a che fare con la tradizione della sinistra: per il suo legame con il movimento operaio, per la sua radice laburista. Il problema è che oggi lavoro vuol dire tutto e niente, non solo perché manca ma perché può essere nero, precario, intermittente. Una volta era fonte di reddito, ma anche di riconoscimento e di gerarchia sociale. Era collegato a una comunità reale. Oggi non è più così. Anche per questo la sinistra ha tanti consensi tra i pensionati".

In seconda posizione la parola "equità", col 7 per cento. Preferita anche a "uguaglianza" (terzo posto). E sono tanti i voti per "redistribuzione". C'è una forte componente socioeconomica nelle risposte.
"In parte è vero, ma si tratta di parole comunque diverse. "Uguaglianza" è più radicale ed ha le sue radici nella rivoluzione francese. "Redistribuzione" ha a che fare con lo Stato sociale, con la socialdemocrazia, che mira a ridurre le diseguaglianze, attraverso l'intervento pubblico, attraverso le riforme. Certo, tutto questo richiama uno dei compiti storici della sinistra: fare i conti con il mercato, controllare e ridurre le sue conseguenze inegualitarie sul piano sociale. Ma attenzione a non usare troppo le lenti del passato. Oggi ci sono soprattutto impiegati pubblici e pensionati, nella base della sinistra. Gli operai da tempo guardano altrove. Mentre c'è un'attenzione crescente per la parola "merito". Io l'avrei inserita nella rilevazione. Il merito è egualitario perché è alternativo ai privilegi ereditari, alle chiusure corporative, alle caste".

 "Laicità" prende il 6 per cento. E questo nonostante la popolarità di Papa Francesco, anche a sinistra...
"Non mi stupisce. La laicità è una delle componenti da cui nasce la sinistra. Mi sembra sorprendente invece il 2 per cento per la parola "Resistenza". Significa che è scomparsa dalla memoria, forse perché è stata troppo mitizzata e poco coltivata come esperienza e come valore.
E poi mi colpisce il 3 per cento per "democrazia". E il 4 per "Bene comune": era il marchio dell'alleanza alle ultime elezioni, ora sembra dimenticato. Insomma, la sinistra ha tante parole perché ha tante anime. È Stato ma anche mercato, innovazione ma anche conservazione, lavoro ed equità ma anche legalità. E soprattutto negli ultimi 20 anni è stata troppo gregaria rispetto alla cultura berlusconiana".

A proposito, la libertà non è nelle prime posizioni. Una parola "scippata" dalla destra?
"Sì, e non solo perché Berlusconi l'ha scelta come parola chiave. Anche perché ha dipinto gli avversari come la casa delle illibertà, il campo dei comunisti".

Per tutta la durata del sondaggio "legalità" è stata tra il quarto e il quinto posto. Tanti voti anche per la parola "moralità".
La sinistra per molti è diventata una specie di deontologia civica? E anche questo ha a che fare con il berlusconismo?
"Inevitabilmente. Anche in altri paesi vicini, Francia e Germania, i magistrati hanno perseguito e talora condannato uomini politici importanti, capi di Stato e di governo. Ma qui i problemi giudiziari del Cavaliere sono diventati la questione che paralizza la politica. Anzi: il Paese".

Insomma, se avessimo aggiunto tra le parole anche "antiberlusconismo" ci sarebbe stato un picco di voti?
"Sì, berlusconismo e antiberlusconismo sono concetti che hanno ancora molta presa, sia tra i favorevoli che tra i contrari al Cavaliere.
Dividono la politica e gli italiani. Hanno inquinato la cultura politica e creato anche confusione. Non a caso molti antiberlusconiani non riuscirebbero mai a definirsi di sinistra. Ma votano a sinistra. Per disperazione".

Solo l'un per cento per la "pace". Cos'è successo alla sinistra che scendeva in piazza con le bandiere arcobaleno?
"Il pacifismo è solo una componente della sinistra, storicamente spesso minoritaria. Basti pensare al Mussolini socialista e interventista della prima guerra mondiale, a Obama e Hollande rispetto alla questione siriana, all'interventismo umanitario degli anni Novanta".

In bassa classifica anche sogno, coraggio, cambiamento. L'ottimismo non è virtù coltivata a sinistra?
"È così anche perché negli ultimi venti anni l'ottimismo è stato usato da chi era al governo come argomento contro gli avversari definiti pessimisti, disfattisti, in una parola comunisti. Ma certo è anche l'espressione di una sinistra senza passato e incapace di immaginare un futuro".

E invece, qualche segnale positivo?
"Mi colpisce il 5 per cento che ha votato per "dignità". Per me dignità vuol dire potersi alzare al mattino e guardarsi allo specchio, dritto negli occhi, senza abbassare lo sguardo. Non so se significhi essere di sinistra. Ma sogno un futuro vissuto con dignità da tutti, in cui questa parola possa essere un valore condiviso".

da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/societa/2013/09/18/news/lavoro_equit_uguaglianza_il_nuovo_lessico_per_costruire_il_futuro-66770373/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - E la chiamano estate
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2013, 11:30:06 am
E la chiamano estate


L’estate sta finendo. Ma forse non è mai cominciata. L’estate di una volta, intendo. La stagione del riposo. Quando si andava in ferie. Tutti. O quasi. Anche la politica e il calcio. In ordine inverso: le due passioni principali degli italiani. Quella stagione non c’è più. I periodi di ferie si sono accorciati. Per alcune persone e famiglie si limitano a qualche gita al mare nei fine settimana. Altre, ancora, vi hanno rinunciato del tutto. Colpa della crisi, ma anche dei modelli di vita che cambiano. La politica, quella, non va più in ferie. Neppure in Italia.

Agosto: è divenuto un mese di attività intensa e convulsa. Sono lontani i tempi in cui Marco Pannella approfittava del Ferragosto per organizzare le sue conferenze stampa. Quando, anni dopo, la Lega lanciava le sue campagne di lotta, le sue marce sul Po, le sue secessioni in estate. E soprattutto in agosto. Per sfruttare la domanda di informazioni dei media riempiendo il vuoto di notizie. Oggi non c’è più problema. L’estate è un ribollire di polemiche, crisi, scontri e provocazioni. Oggi, ad esempio, il governo è sospeso. Silvio Berlusconi, dopo la condanna in Cassazione, è determinato a contrastare la sua esclusione dal Parlamento. A conquistare l’agibilità politica. Intanto, Enrico Letta interviene in Italia e gira il mondo. Finge che il governo sia solido e stabile. Che le elezioni anticipate non incombano. Perché la crisi “sarebbe una follia”. Dentro il PdL si prepara il passaggio, meglio, il ritorno a Forza Italia. Fra lotte e divisioni. Falchi, colombe e pitonesse: si tendono agguati e si aggrediscono, senza troppi complimenti. Intanto, nel PD si affilano le armi in vista delle Primarie. Per eleggere il segretario di partito. O forse il candidato Premier. Dipende da quel che succederà. Renzi, Letta. Ma anche Cuperlo e Civati. Tutti pronti a scendere o a salire in campo. Tutto questo succede in estate. In questa estate.

Le feste di partito, le care vecchie feste di partito, l’unica attività “politica” consentita – d’estate. Sono cambiate anche quelle. D’altronde, l’unica vera festa di partito conosciuta e riconosciuta era la cara, vecchia, Festa dell’Unità. Affollata da militanti, simpatizzanti e tante persone. Di sinistra e non.  Ma oggi non c’è più. Perché l’Unità non è più quella di una volta. È un giornale fra gli altri che fanno riferimento allo stesso partito. Il PD. Per il quale evocare l’Unità è quantomeno ironico. Oggi, ci sono le Feste Democratiche. Ma non è lo stesso. Proprio no. Perché le Feste non possono essere Democratiche. Sono feste e basta.

Oltre alla politica e alle feste di partito, anche il calcio ci ha abbandonati. Proprio perché non ci abbandona mai. E’ sempre calciomercato, come recita una trasmissione di Sky, in onda tutte le sere. In tutte le stagioni. Anche d’estate. Ovviamente. Non a caso. Perché  sempre campionato. Già. Il campionato. Non fa tempo a finire Ferragosto che è già cominciato. E così rischia di secolarizzarsi. Di perdere il pathos di un tempo. Perché se si gioca sempre e sempre ancora. Se è sempre calciomercato e sempre campionato, allora la domenica non è più la stessa. Non c’è più festa. Non c’è più religione. D’altronde, il campionato è sempre. Dovunque. In ogni luogo e in ogni medium. Come il calciomercato. Non finisce mai. Così la politica, anzi, la crisi politica italiana.  Non finisce mai. Solo l’estate sta finendo. Finalmente. Questa estate: mi ha sfinito. Per me è una stagione faticosa. Perfino un po’ dolorosa. Ma l’autunno è alle porte. Meglio prepararsi. Dicono che sarà molto caldo.

(28 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/08/28/news/e_la_chiamano_estate-65400617/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il grande equivoco del piccolo centro
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 08:59:20 am
Il grande equivoco del piccolo centro

di ILVO DIAMANTI
21 ottobre 2013

Al Centro non c'è posto, in Italia. Si tratti di neo oppure post-democristiani. O, ancora, di tecnici. Non importa. Per questo la "frattura" fra Monti e Casini, oltre che fra Monti e il suo stesso partito (in testa, il ministro Mauro), è inevitabile, ma politicamente poco rilevante.
Serve a rammentare quanto già si sapeva. Che lo spazio politico di Centro, per chi coltivi ambizioni di leadership, è troppo ridotto. Perfino asfittico.
Anzitutto dal punto di vista elettorale. D'altronde, alle recenti consultazioni, i soggetti politici centristi, insieme, hanno superato a stento il 10% dei voti validi. Intercettati, in larga misura, dal partito di Monti, Scelta Civica (8,6%, alla Camera). "Cannibalizzando" l'Udc di Casini, che non ha raggiunto il 2%. Mentre Fli, il partito di Gianfranco Fini, si è fermato allo 0,5%. Cioè: si è fermato. Ma oggi il loro peso elettorale, nei sondaggi, appare ulteriormente diminuito. Meno dell'8%. Principalmente a causa del declino di Sc (scesa sotto il 5%).
In definitiva: la "salita" in campo di Monti ha allargato di poco lo spazio elettorale del Centro (che, alle consultazioni del 2008, si era attestato intorno al 6%). Ciò riflette la tendenza "bipolare" che si è affermata nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica, fondata da e su Berlusconi. Dal 1994 in poi, infatti, gli elettori si sono abituati a votare per due schieramenti alternativi. Lasciando ai margini chi si poneva "nel mezzo". Mentre è cresciuto il peso dei soggetti politici esterni e contrapposti al sistema partitico. La Lega, ieri, ma soprattutto il M5S, oggi.
Non a caso, gli elettori che si posizionano al Centro dello spazio politico fra Sinistra e Destra sono, appunto, il 10% (Sondaggio Demos, ottobre 2013). Mentre la maggioranza si colloca a Centro-destra/Destra. Oppure a Centro-sinistra/Sinistra. Ma, soprattutto, "fuori" (oltre un terzo). In altri termini, i "centristi", i sedicenti "moderati", si schierano, prevalentemente, di qua o di là. A (Centro) Destra o a (Centro) Sinistra.
Per questo il sogno neo-democristiano, oggi, è irrealizzabile. Una nuova Dc non può sorgere. Perché le condizioni che ne hanno generato e consolidato l'esperienza, nel dopoguerra, sono improponibili. La Dc ha governato ininterrottamente, nel corso della Prima Repubblica, perché non aveva alternative, nel nostro sistema partitico. Dov'era presente il più forte Partito Comunista occidentale. Dove, inoltre, agiva il Msi, neofascista. Due partiti anti-sistema (come li definisce Giovanni Sartori). Così, per quasi cinquant'anni, abbiamo vissuto in un "bipartitismo imperfetto" (per utilizzare la formula di Giorgio Galli). Dove i due principali partiti "dovevano" giocare una parte pre-definita. Il Pci all'opposizione e la Dc al governo. Sempre e comunque. Per questo la Dc costituiva il Centro del sistema politico italiano, ma non rappresentava gli elettori di Centro. Raccoglieva anche l'elettorato di Destra e, per una certa quota, di Sinistra.
La fine della Prima Repubblica (e dell'Unione Sovietica) ha modificato le fratture politiche del passato. Ma solo in parte, perché Berlusconi ha rimpiazzato il muro di Berlino, erigendo, al suo posto, il muro di Arcore. Che separa Antiberlusconiani e Anticomunisti. Così il Centro ha continuato a svolgere un ruolo residuale. Poco rilevante. L'esperimento partitico di Monti, per questo, non è giunto a buon fine. Ben prima che egli entrasse in conflitto con gli alleati e i suoi stessi eletti. Perché Monti ambiva a occupare uno spazio ben più ampio fra gli elettori. E, a maggior ragione, in Parlamento, in particolare al Senato, dove pensava di svolgere un ruolo determinante, nella maggioranza, in coalizione con il Centrosinistra. Invece, si è trovato parte di una maggioranza di "larghe intese", dove il peso del Centro è limitato.
Monti, in effetti, ha equivocato il significato del consenso che lo ha accompagnato, a lungo, durante l'esperienza del suo governo. Ha pensato che potesse riprodursi anche sul piano elettorale, oltre e dopo il governo tecnico. Non era e non è così.
Il sostegno di cui disponevano Monti e il suo governo dipendeva dalla "paura" della crisi economica, nazionale e globale. Dipendeva dalla "paura" del vuoto politico. Dipendeva dallo "stato di necessità" in cui versava lo Stato. Ma dipendeva, in parte, anche dalla nostalgia democristiana depositata nella coscienza degli italiani. Che non significa nostalgia della Dc, ma di un Paese dove i conflitti non producevano lacerazioni. Non degeneravano in "guerra civile" permanente, per quanto a bassa intensità. Un Paese dove tutti erano coinvolti nel governo, anche i partiti che stavano - naturaliter - all'opposizione. Così è avvenuto nella stagione di governo tecnico. E lo stesso, in fondo, avviene oggi. Al tempo del governo di "larghe intese". Dove "quasi" tutti i principali partiti coabitano, senza amore. Anzi, in un clima di reciproca sfiducia. Ma, comunque, stanno insieme. Per Stato di necessità. L'eredità della Dc si riflette, semmai, nella presenza di molti post-democristiani nel governo. A partire dai due principali responsabili: Letta e Alfano. Uno di (Centro) Sinistra e l'altro di (Centro) Destra. Ma, per la stessa ragione, non esiste la possibilità, per un soggetto politico di Centro, peraltro "piccolo", di svolgere un ruolo critico, distinto e autonomo. Il Centro, in Italia, c'è già. Sta di qua e di là. È il Grande Centro delle Larghe Intese guidato da Enrico Letta. Verso il quale Monti, intervistato da Lucia Annunziata, ieri, non a caso, si è espresso con parole acide. Il Grande Centro evoca il desiderio di stare tutti insieme - uniti e divisi, al tempo stesso. Tutti al governo, ma senza impegno. Comunque, non è più il luogo della "mediazione". (Né, forse, lo è mai stato.) Ma, semmai, dell'interdizione reciproca. In nome di una stabilità, che rammenta l'immobilità. Una palude. Dove rischia di affondare il Paese.
© Riproduzione riservata 21 ottobre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/21/news/grande_equivoco_piccolo_centro-69069849/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Noi, vicentini a nostra insaputa
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 10:40:40 am
Bussole

    Noi, vicentini a nostra insaputa

Può sembrare un paradosso: la Procura della Repubblica di Vicenza indaga sul mostro urbanistico di Borgo Berga. Insediamento immobiliare e commerciale dove sorge il Tribunale. In altri termini: la Procura indaga su se stessa. Per essere più precisi, sulla propria residenza. È l'esito dell'inchiesta condotta e pubblicata da Repubblica.it nei giorni scorsi, in seguito alla quale lo stesso procuratore capo, Antonino Cappelleri, ha affidato alla Guardia Forestale una serie di accertamenti per verificare se effettivamente le costruzioni abbiano violato "la norma".

Ma, in effetti, c'è poco di che sorprendersi. Perché la "norma" è il Blob immobiliare che si propaga intorno a Vicenza. Assimila la città al suo territorio. E lo rende progressivamente uguale. Omologo. Informe e, talora, deforme. Il Tribunale, in effetti, svetta. Altissimo. Imponente. Circondato da una plaga urbanistica - residenziale e commerciale - a ridosso del torrente (fiume) Retrone. Un nome ignoto a chi non abita a Vicenza. Come, d'altronde, il Bacchiglione. Salito agli onori della cronaca negli anni scorsi. In particolare, nel novembre 2010, quando esondò e alluvionò la città. Invase il centro storico. D'altronde, il Bacchiglione attraversa la campagna a Nord della città, dove tutti lo conoscono come Livelòn.

Il problema è che di campagna, ormai, ne è rimasta poca. Il terreno non assorbe più nulla. E la cura degli argini e del territorio, ormai, è sporadica. Così basta che piova forte per un paio di giorni e il torrente diventa un fiume in piena. Esonda. È avvenuto nel 2010, appunto. È capitato di nuovo l'anno dopo. E succederà ancora. Lì, oltre Ponte Marchese, entrato nel territorio di Vicenza, il Livelòn - oppure il Bacchiglione - costeggia l'area del Dal Molin. Fino a qualche anno fa un aeroporto civile. Dove ora sorge un villaggio costruito per accogliere i militari USA. Un progetto contro cui hanno protestato e marciato decine di migliaia di cittadini. Per anni. Inutilmente, visto che il villaggio è sorto ugualmente. E oggi si erge imponente. Una piccola Manhattan. A un quarto d'ora dal centro storico. Dalla Basilica palladiana, restituita, da un anno, all'antico splendore. Una meraviglia. Dalla terrazza domini la città e i dintorni. Puoi vedere il Dal Molin. E il nuovo Tribunale. Che sorge dall'altra parte della città. Verso il "basso vicentino". Non lontano dalla Basilica, appunto. E a due passi da Villa Capra Valmarana. La (famosa) Rotonda di Palladio. A conferma che a Vicenza, nel cuore del Nordest, i paradossi "ambientali" non esistono. Sono la "norma". Intorno al Bacchiglione e al Retrone, accanto alla Basilica e alla Rotonda: è tutto Dal Molin. È tutto Borgo Berga. Senza soluzione di continuità.

Vicenza e il suo territorio: progettati da Palladio e dagli immobiliaristi. Insieme. In modo indistinto. D'altronde, Palladio non è il nome di un centro commerciale? O forse no: di un impianto sportivo... Quanto alla Rotonda, in questa terra informe, "una" sola non basta. Non serve. Meglio 10-100-1000 "rotonde". Dovunque. Nei punti più impensati e impensabili. Piccole, medie, grandi e grandissime. Rotonde ovali e di molte altre forme diverse. Talora concatenate, come anelli di una collana. Rotonde finte e illusorie. (Qualche settimana fa ho imboccato una curva improvvisa contromano. Ero convinto fosse una rotonda...).

E allora perché stupirsi? Meglio non scandalizzarsi. Se la Procura ha sede in un Tribunale abusivo "a sua insaputa", anche noi viviamo in un territorio abusivo - a nostra insaputa. Siamo vicentini "a nostra insaputa".

(18 ottobre 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/10/18/news/vicentini_a_nostra_insaputa-68840213/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il sindaco e il Cavaliere: due destini incrociati
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 06:20:48 pm
Il sindaco e il Cavaliere: due destini incrociati

di ILVO DIAMANTI
28 ottobre 2013

Non è un caso che Berlusconi abbia sciolto il Pdl e rilanciato Forza Italia in coincidenza con la Leopolda. La convention organizzata da Matteo Renzi a Firenze. E non è un caso che la ri-nascita di Fi sia stata prevista nello stesso giorno delle primarie del Pd. L'8 dicembre. Berlusconi, in questo modo, intende, ovviamente, "trainare" la propria ri-discesa in campo. Utilizzando un evento di successo, in grado di mobilitare milioni di persone.

E l'attenzione dei media, com'è avvenuto un anno fa. Quando, all'indomani delle primarie, i sondaggi attribuirono al Pd stime di voto mai raggiunte, in passato. Ma neppure in seguito, visto il modesto risultato ottenuto alle elezioni di febbraio. (A conferma che le primarie non sostituiscono le campagne elettorali.)

A Berlusconi interessa associare le primarie del Pd e il ri-nascimento di FI. Ma anche le due leadership. Renzi e, appunto, se stesso. In un momento in cui la stella di Renzi è ancora luminosa. Quella di Berlusconi molto fioca, se non proprio spenta. Renzi, d'altronde, non ha parlato di Berlusconi perché intende guardare al futuro. Mentre Berlusconi ha rilanciato, consapevolmente, il passato. Perché tale è FI. Un soggetto politico fondato giusto 20 anni fa. D'altronde, la fine del Pdl sancisce ciò che, di fatto, era già avvenuto. La scomparsa di An. Il partito post-fascista che aveva rotto con la tradizione fascista, appunto. Guidato da Gianfranco Fini, era divenuto un partito democratico della Destra europea. An, alle elezioni del 2006, aveva ottenuto 4 milioni e 700mila voti, oltre il 12%. FI: 9 milioni e quasi il 24% dei voti validi. Due anni dopo, alle elezioni del 2008, FI e An si erano riuniti dietro alle bandiere del Popolo della Libertà, "inventato" nel novembre 2007, da Berlusconi. Per rispondere (non a caso) alla fusione dei Ds e della Margherita nel Pd, guidato da Walter Veltroni. Il Pdl, in quell'occasione, riuscì a intercettare l'elettorato dei due partiti, oltre 13 milioni e mezzo. E ne rafforzò il peso percentuale: 37,4%. Un percorso concluso, alle ultime elezioni, 8 mesi fa. Nelle quali il Pdl ha perso 6 milioni e 300mila voti e oltre 15 punti percentuali. In altri termini: quasi 2 milioni e oltre 2 punti meno di FI da sola, nel 2006.

Berlusconi, dunque, ha semplicemente preso atto che An è scomparsa, insieme al suo leader, Gianfranco Fini. E ha tentato un "ritorno al futuro". Allo spirito dei padri fondatori. Cioè, lui stesso. Dietro a questa scelta, c'è, ovviamente, il proposito di "eliminare", insieme al Pdl, anche i traditori. Ma c'è anche l'intenzione, o almeno la speranza, di saltare sul "carro" di Renzi. Anch'egli, come altri dirigenti del Pd, divenuti, all'improvviso, tutti quanti e tutti insieme, "renziani". Berlusconi, "renziano" anche lui. Per rientrare in gioco, contro il più "berlusconiano" dei leader del centrosinistra - secondo molti osservatori, non solo critici. A Matteo Renzi, d'altronde, questo inseguimento al contrario, rispetto al passato (quando tutti imitavano Berlusconi), non dovrebbe dispiacere troppo.

Anzitutto, perché Berlusconi non è certo finito, come dimostra la sua reazione di questi giorni. Ma è, sicuramente, più "vecchio". In senso anagrafico e non solo.

Poi, perché, comunque, il rafforzamento di Berlusconi significa l'indebolimento di Enrico Letta e del governo di larghe intese. Il vero fortilizio dove agiscono gli oppositori di Berlusconi. Alfano e i ministri: del Pdl, non di FI. Il ritorno di FI, di conseguenza, significherebbe abbandonare al loro destino i ministri del Pdl. Ma anche il governo e il premier, Letta. La cui posizione appare in crescente contrasto con quella di Renzi. Perché, da un lato, Letta è l'unico leader, in Italia, che, per livello di popolarità e di consenso personale, possa competere con Renzi. E, anzi, nelle ultime settimane, sembra averlo superato. D'altra parte, comunque, il tempo gioca a sfavore di Renzi. La lunga durata, alla guida di un partito complesso, come il Pd, rischia di logorarlo. O, almeno, di appannarne lo smalto. "Mai più larghe intese", risuonato più volte ieri alla Leopolda, echeggia dunque come: "Mai più Letta".

Da ciò l'impressione che a Renzi, in fondo, il confronto con Berlusconi non dispiaccia. Perché evoca un modello di democrazia che gli piace e lo favorisce. Fondato sulla "personalizzazione". Un processo in atto in tutte le democrazie occidentali. Anche se in Italia è stata condizionata dalla costruzione di "partiti personali". Cioè, di partiti "privati", dipendenti dalle risorse - economiche, comunicative e organizzative - di una persona. Per prima e prima di tutti, Forza Italia. Appunto. Il Centrosinistra ha, invece, respinto la "personalizzazione", interpretando il ruolo del "partito impersonale". Senza personalità e senza persone in grado di "rappresentarlo". Nelle mani di "un'armata - poco gioiosa e molto disorganizzata - di micro-notabili" (come osserva Mauro Calise nell'acuminato saggio, emblematicamente intitolato Fuorigioco e appena pubblicato da Laterza).

Per questo la sfida lanciata da Matteo Renzi alla Leopolda non sembra rivolta tanto agli altri candidati, in vista delle primarie. Con i quali non c'è partita. Ma, soprattutto, al Partito Democratico in quanto tale. Cioè: in quanto "partito", erede di "partiti" - di massa. Non a caso non ha voluto bandiere di "partito". E ha dichiarato l'intento di "rottamare le correnti", per prima la propria. Perché ciò che gli interessa, soprattutto, è scardinare la logica del partito. O meglio, dei partiti da cui provengono il Pd, i suoi consensi e i suoi gruppi dirigenti - centrali e locali. A Renzi interessa andare oltre le tradizioni e la storia - di chi "viene da lontano". Oltre i post-democristiani e, prima ancora, oltre i post-comunisti. In altri termini: oltre il Pd. Per questo, in fondo, le strade di Berlusconi e di Renzi, per quanto percorse in direzione opposta, sono destinate a incrociarsi. Perché Berlusconi torna a FI per andare oltre il Pdl. Per restaurare il "partito personale". Mentre Renzi intende vincere le Primarie per rottamare il Pd. Insieme a ogni larga intesa e a ogni Mediatore legittimato dal Presidente. Renzi: vuole fare il Sindaco d'Italia. In nome di una democrazia diretta e personalizzata.

Prepariamoci. Dopo il prossimo 8 dicembre nulla resterà come prima.
© Riproduzione riservata 28 ottobre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/28/news/il_sindaco_e_il_cavaliere_due_destini_incrociati-69622674/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Mappe: L'Italia degli spaesati
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:07:04 pm
Mappe: L'Italia degli spaesati

di ILVO DIAMANTI
11 novembre 2013

L'Italia al tempo delle primarie, di Beppe Grillo e del ritorno di Forza Italia: sta perdendo radici e identità. È un Paese spaesato, dove i cittadini non sanno più a chi "credere". Vent'anni fa eravamo in piena crisi di sistema.

E, mentre affondava la Prima Repubblica fondata sui partiti, gli italiani si "affidarono" ai sindaci. E, poi, ai governatori. Custodi delle autonomie territoriali, non contro l'Italia, come pretendeva la Lega. Ma in nome di un Paese "unito dalle sue differenze" (com'era solito rammentare Carlo Azeglio Ciampi). Territoriali e culturali. E, anche per questo, europeo. Anzi: il più europeista, in Europa. Oggi, però, questo profilo è cambiato. Irriconoscibile. L'Europa, anzitutto, è vista con diffidenza. Al pari, anzi, proprio a causa, dell'euro. Gli italiani: sono europei "nonostante tutto".

Perché fuori dall'euro, fuori dall'Europa si sentono più vulnerabili. Il problema è che, insieme, si è scolorita la mappa delle identità territoriali. Che ha perduto i suoi principali riferimenti. Per prima e soprattutto la "città", indicata come l'area in cui ci si riconosce maggiormente da meno del 15% degli italiani (intervistati). Il livello più basso da quando (quasi vent'anni) Demos (per Limes) conduce le sue indagini sul sentimento territoriale.

L'anno scorso, ad esempio, la città costituiva il primo riferimento per quasi il 21% dei cittadini. Certo, il rilancio dell'identità nazionale, promossa e sostenuta dal presidente Napolitano in occasione del 150enario dell'Unità d'Italia, ha prodotto risultati visibili. Nel corso del 2011, infatti, l'Italia è divenuta il primo riferimento per quasi il 28% dei cittadini. Ma oggi l'Italia costituisce il centro delle appartenenze territoriali per circa il 23% dei cittadini. È la conseguenza della crisi - economica e politica - che si riflette, pesantemente, sulla fiducia nei diversi livelli di governo.

D'altronde, il disincanto della società verso gli attori e i luoghi della politica, ma anche verso le istituzioni, in Italia viene da lontano. Ma, negli ultimi anni, ha assunto proporzioni impensate e impensabili. La fiducia nello Stato, fra il 2001 e il 2010, si è mantenuta stabile, intorno al 30%. Oggi è crollata al 15%. Detto in termini espliciti: poco più di un italiano su dieci ha fiducia nello Stato. Niente di nuovo e inatteso, forse. Ma, comunque, a me fa impressione. Dell'atteggiamento verso l'Europa abbiamo già detto. Nel 2001, quando la disillusione si stava diffondendo, gli italiani che mostravano fiducia nella Ue erano, ancora, la maggioranza: il 53%.

Nel 2010 l'impatto della crisi aveva ridimensionato questo sentimento, che comunque si attestava al 49%. Ma oggi la fiducia nella Ue è crollata al 33%. È una reazione al senso di vulnerabilità che riflette il declino di legittimità dello Stato e dell'Europa. Le cornici più ampie dentro cui ci collochiamo. Tuttavia, a differenza di venti o anche solo dieci anni fa, oggi i governi - e i contesti - territoriali non riescono più a soccorrerci. A offrirci protezione - almeno a livello di riconoscimento. Il "locale" non tutela dalla crisi "nazionale" e dalla minaccia "globale". La quota di quanti esprimono (molta o moltissima) fiducia nella Regione, infatti, dal 2001 al 2010 cala dal 39% al 33 (e mezzo) per cento. Ma oggi frana al 26%. L'andamento della fiducia nei Comuni segue un percorso diverso. Nel primo decennio degli anni 2000 appare sostanzialmente stabile. Oscilla, infatti, intorno al 40%. Ma dopo il 2010 scivola, anzi cade. E oggi supera di poco il 31%.

È lo specchio di un Paese che fatica a trovare appigli e punti di riferimento. Anche e soprattutto a livello locale. Dove, in passato, Comuni e Regioni avevano frenato la crisi di credibilità dello Stato e del sistema politico. La quota di italiani che dichiara di avere fiducia sia nei Comuni che nelle Regioni, invece, è, ormai, residua. Dal 30%, nel 2001, oggi si è ridotta al 17%. Questa deriva coinvolge e trascina tutti i soggetti politici, tutti gli schieramenti. Rende in-credibile il "federalismo delle Regioni": la bandiera della Lega. Che governa le tre principali regioni del Nord. Insieme al Pdl. L'Italia berlusconiana, d'altronde, coincide con il Lombardo-Veneto. Il cuore del Nord. Ma il disincanto avvolge anche l'Italia dei sindaci e dei Comuni. Fin dagli anni Novanta, il retroterra del centrosinistra. Che nel decennio passato ha candidato, come premier, due sindaci di Roma - Rutelli e Veltroni. Mentre il vincitore probabile, se non certo, delle primarie del Pd è Matteo Renzi. Anch'egli sindaco - di Firenze. (E il segretario uscente, Pierluigi Bersani, è stato governatore dell'Emilia Romagna).

Dietro alle tensioni che scuotono i principali partiti della Seconda Repubblica, dunque, si intuisce una profonda crisi di sistema, che si riflette nei diversi "luoghi" istituzionali e di governo. D'altronde, il centrodestra e il centrosinistra, in Italia, hanno sempre avuto un profilo territoriale definito. De-limitato. Mentre il successo del M5S non ha una geografia specifica. E, fin qui, non si è confermato alle elezioni "locali". È il segno, ulteriore, di una trasformazione profonda. Che marca una frattura con il passato. Di cui non si vedono gli esiti, i percorsi possibili. Perché mancano sponde e traghettatori. Lo stesso Presidente della Repubblica, negli ultimi mesi, ha perduto consensi. Il grado di fiducia di cui dispone, oggi, è di poco superiore al 50%. Ancora elevato, rispetto a tutti gli altri attori politici e istituzionali. Ma, comunque, in sensibile ripiegamento rispetto a un paio d'anni fa. Così, l'unica figura pubblica che nell'ultimo periodo abbia ottenuto grande, anzi, grandissimo consenso è, com'è noto, Papa Francesco. Che riscuote grande fiducia da quasi 9 italiani su 10. Tuttavia, per reagire alla perdita di "fede" nella politica, per rispondere alla crisi dell'Italia repubblicana, delle Regioni e dei Comuni, appare difficile affidarsi al Papa e alla Chiesa. Forse è meglio restituire autorità allo Stato, credibilità alla politica e autorità ai suoi territori. Con buoni leader, buoni amministratori, buoni sindaci. Capaci di testimoniare la buona politica e il buon governo.

http://www.repubblica.it/politica/2013/11/11/news/mappe_l_italia_degli_spaesati-70706451/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Morto un Pdl se ne fa un altro
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:01:02 pm
Morto un Pdl se ne fa un altro

di ILVO DIAMANTI
18 novembre 2013

Oggi più che mai occorrerebbe andare oltre il Porcellum. Per favorire la formazione di maggioranze coerenti e stabili e rafforzare il legame fra elettori ed eletti. Mentre, oggi più che mai, si assiste allo sfarinarsi dell'intero sistema partitico. A partire dal Centrodestra. Dove il Partito Personale di Silvio Berlusconi, il Pdl, è imploso. La ri-fondazione forzista (20 anni dopo) ha, infatti, prodotto la fondazione di un nuovo soggetto politico. Ncd: il Nuovo centro-destra.

Così, dalla divisione del Pdl, il Popolo di Silvio, sono emersi due popoli. I Berlusconiani Ultrà, guidati da Daniela Santanché, da un lato. I Diversamente Berlusconiani, guidati da Angelino Alfano, dall'altro. Gli uni (sedicenti) duri. Gli altri (sedicenti) moderati. Reciprocamente ostili e distanti. E insofferenti. Eppure entrambi "fedeli" al Capo.

Non fosse davvero aspro e lacerante il conflitto tra le due fazioni, almeno sul piano dei rapporti personali, vi sarebbe da sospettare un gioco delle parti. Fra componenti berlusconiane di lotta e di governo. Destinate, in caso di elezioni, a tornare insieme, come ha previsto lo stesso Berlusconi. Quasi una strategia di marketing e di marchi, come nell'offerta delle reti tv, per raggiungere diversi settori di mercato. Per stare sempre al governo e beneficiando, al tempo stesso, della rendita di op-posizione. (Lo ha suggerito Enzo Cipolletta in una nota per l'agenzia InPiù).

D'altronde, il Porcellum spinge a costruire coalizioni ampie, le più ampie possibili, fra soggetti diversi. Più diversi che mai. Così, per vincere le elezioni, si creano alleanze che rendono difficile, in seguito, governare. Come dimostrano le legislature successive all'avvio del Porcellum. Dal 2006 a oggi. Attraversate da tensioni endemiche. Il virus della decomposizione ha contagiato anche la coalizione di centro. Vista la frattura tra Sc e l'Udc. Vista la scissione di Sc, dove alcuni parlamentari, guidati da Mauro, si sono staccati. Per riunirsi, forse, all'Udc. O, forse, ai "diversamente berlusconiani" di Alfano. Allargando, per paradosso, il peso di Berlusconi in Parlamento. Ma anche in prospettiva elettorale.

Sull'altro versante, nel Pd, le primarie non sembrano aver prodotto i benefici effetti di un anno fa. Quest'anno, d'altronde, non si tratta di eleggere il candidato premier della coalizione, ma il segretario del partito. Tuttavia, è difficile per qualsiasi partito, anche il più solido e coeso (e il Pd di questi tempi sicuramente non lo è), "sopravvivere" a oltre un anno di primarie, quasi ininterrotte. Perché le primarie accentuano, necessariamente, le divisioni interne, fra leader e componenti (correnti?). Tanto più se vengono adottati diversi modelli di competizione, che corrispondono a diversi modelli di partito. I congressi, che riflettono le logiche dell'appartenenza e dell'organizzazione "locale" dei vecchi partiti di massa. E le primarie, appunto, che evocano una logica maggioritaria e presidenzialista.

In questo modo, la scelta del segretario e degli organismi dirigenti del Pd rischia di avvenire attraverso spinte dissociative, più che associative. Indebolendo il leader, invece di rafforzarlo. D'altronde, D'Alema ha affermato all'Unità che Renzi non può - e non deve - vincere in modo troppo netto. Perché non deve "pensare di impadronirsi di un partito che in una certa misura lo osteggia".

Da ciò il contrappunto. Il centrodestra, Nuovo e Vecchio, si divide ma, in prospettiva elettorale, sembra in grado di ri-unirsi e di allargare la sua capacità di attrazione. Potremmo dire: morto un Pdl se ne fa un altro. Mentre il Pd si mobilita per eleggere il nuovo leader. Ma, al tempo stesso, si preoccupa di non rafforzarlo troppo.

Per questo, mai come oggi, sarebbe necessaria una legge elettorale in grado di contrastare la de-composizione in atto. Spingere al bipolarismo, se non al bipartitismo. Legittimare il leader della coalizione. Offrire agli elettori maggiori possibilità e poteri nella scelta degli eletti. I progetti in campo non mancano. Fra tutti: il doppio turno alla francese (proposto, di recente, da Giovanni Sartori insieme a Piero Ignazi e altri politologi); oltre al ritorno al Mattarellum, imperniato sull'uninominale di collegio. (Abolendo, magari, la quota proporzionale.) Si sente, altresì, parlare di ritorno al proporzionale. Un rimedio, come ha sostenuto Roberto D'Alimonte (sull'Espresso), peggiore del male. Tuttavia, dubito che il Parlamento riesca a produrre una nuova legge, diversa dal Porcellum. Anche se costretto dalla Corte Costituzionale, che, d'altronde, non mette in discussione il Porcellum in quanto tale - non potrebbe. Ma la soglia oltre cui fare scattare il premio di maggioranza, per la coalizione vincente.

D'altronde, le leggi elettorali, nel dopoguerra, sono state "cambiate" solo per via extra-parlamentare, attraverso i referendum popolari (nel 1991 e nel 1993). Oppure con un colpo di mano, come nell'autunno 2005. Quando la maggioranza di Centrodestra, allora al governo, in vista delle elezioni dell'anno seguente, propose e impose, in fretta e furia, il Porcellum. Non per vincere le elezioni: non sarebbe stato possibile. Ma per impedire all'Ulivo di prevalere largamente, come sarebbe avvenuto con il Mattarellum. E, soprattutto, per ostacolare il futuro governo. Perché il Porcellum impone la costruzione di aggregazioni ampie, anzi: le più ampie possibili. Tra partiti e partitini diversi. Più numerosi e diversi possibili. E a tutti, anche ai più piccoli, attribuisce poteri di veto e di ricatto. I listini bloccati, infine, non danno agli elettori possibilità di scelta, ma accentuano il potere dei dirigenti di partito sugli eletti.

Così, è difficile cambiare questa legge. Perché il Porcellum è per tutti il "male minore". Oggi, infatti, nessun partito è in grado di "vincere" da solo. A destra, sinistra e al centro: sono aumentate le divisioni e i personalismi. Lo stesso M5S, con questa legge, in Parlamento, può condizionare gli altri partiti, "costretti" a governare tutti insieme. Ma può, al tempo stesso, tenere insieme i propri parlamentari. Che, fuori dal M5S, difficilmente verrebbero ri-candidati.

Infine, istituire un nuovo e diverso sistema elettorale, aprirebbe le porte a nuove elezioni, eventualità temuta da tutti. Partiti e parlamentari di ogni schieramento, eletti da pochi mesi e, in maggioranza, alla prima nomina.
Per queste ragioni, nonostante i richiami del Presidente, nonostante i proclami politici e nonostante l'urgenza, ritengo improbabile, per non dire impossibile, che venga approvata una nuova legge elettorale "per via parlamentare". Perché questi partiti e questo Parlamento sono figli del Porcellum. Come potrebbero uccidere il padre?

http://www.repubblica.it/politica/2013/11/18/news/morto_un_pdl_se_ne_fa_un_altro-71243568/?ref=HREC1-5
© Riproduzione riservata 18 novembre 2013


Titolo: ILVO DIAMANTI - Nel Paese tutto cambia ma tutto resta uguale
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2013, 11:54:24 am
Nel Paese tutto cambia ma tutto resta uguale

Testa a testa tra Pd e centrodestra, Ncd vale il 5 per cento, M5S al 21per il sondaggio Demos

di ILVO DIAMANTI

02 dicembre 2013

Otto mesi dopo le elezioni politiche non è cambiato niente, in Italia. Almeno, dal punto di vista degli orientamenti di voto. Permane, infatti, un equilibrio instabile fra tre grandi minoranze. Minoranze che interferiscono reciprocamente. In Parlamento e nel Paese.

È la principale indicazione che emerge dal sondaggio di Demos, pubblicato oggi sulla Repubblica. Il Centrosinistra e il Centrodestra: appaiati, poco oltre il 30%. Il M5S sopra il 21% e in lieve crescita. Il Centro, invece, ridotto in uno spazio quasi residuale. Intorno al 5%. Dopo il voto, però, è cambiato il sistema partitico. Nel Centrosinistra si è riaperta la questione, irrisolta, della leadership. Mentre il Centro si è ristretto e, al tempo stesso, diviso. Pochi voti e tanti leader: Monti, Casini, Mauro... Ma le novità più importanti sono avvenute a Centrodestra. Il Pdl non c'è più. È tornata Forza Italia. Per reazione, è sorto un Nuovo Centro Destra, intorno ad Alfano e ai ministri. "Destra Repubblicana", l'ha definita Eugenio Scalfari. L'esito principale di questa scomposizione è che i due partiti post-Pdl, insieme, hanno recuperato quasi 6 punti percentuali, rispetto allo scorso ottobre. Allargando la base elettorale del Pdl anche rispetto alle scorse elezioni di febbraio. In altri termini, secondo la logica proporzionale, 1: 2=1,3.

Certo, conteggiare insieme due partiti divisi, esito di una scissione, è discutibile. Tuttavia, sono entrambi figli dello stesso padre, Silvio Berlusconi. E la legge elettorale li spinge - o meglio: li costringe - a tornare insieme, in caso di nuove elezioni. Per non rischiare, in caso contrario, di perdere. Entrambi.

È, semmai, interessante osservare come FI, da sola, non abbia perduto consensi rispetto al Pdl, due mesi fa. Quando la frattura di Alfano si era già consumata, in Parlamento. Al contrario. Oggi è quasi al 21%. Mentre il Ncd ha conquistato uno spazio elettorale significativo, ma limitato. Poco sopra il 5%. I suoi elettori provengono per oltre il 50% dal Pdl e per quasi il 10% dal Centro (Monti e Udc). Attratti da un comune richiamo: autonomia da Berlusconi ma contro la Sinistra. La separazione ha, peraltro, marcato in modo evidente l'identità politica dei due elettorati: l'Ncd spostato a centro-destra, FI molto più a destra.

Ciò che distingue maggiormente i due partiti, però, è il giudizio sul governo. Fra gli elettori di Ncd, infatti, si osserva la quota più ampia di giudizi positivi (dopo i Centristi): 70%. Oltre il doppio di quel che emerge fra gli elettori di FI: 33%. Il dato più basso, ad eccezione del M5S (23%). I due partiti post-Pdl, così, ripropongono un'anomalia normale nella politica italiana.

Recitano, cioè, il doppio ruolo: di governo e di opposizione. Come hanno fatto la Lega e lo stesso Berlusconi, per decenni. Senza bisogno di dividersi. Il rapporto con il governo spiega, in parte, anche la tenuta di FI. Che oggi beneficia della rendita di opposizione a Letta. In declino di fiducia, nelle ultime settimane. L'andamento delle intenzioni di voto, rilevate nel corso del sondaggio, mostra, infatti, un aumento dei consensi per FI dopo l'uscita dalla maggioranza (martedì 26 novembre). Il Centrodestra, in questo modo, dopo essere stato in svantaggio per mesi, si avvicina al Centrosinistra e, praticamente, lo raggiunge. Entrambi allineati fra il 32 e il 33%. Così Berlusconi rilancia la strategia adottata, con successo, nella recente campagna elettorale. Caratterizzata dalla polemica contro Monti, leader di Scelta Civica e, in precedenza, premier del governo tecnico. Sostenuto da una maggioranza di "larghe intese". Come quella del governo guidato da Letta. Bersaglio, non da oggi, delle critiche di Berlusconi e FI. Che cercano, in questo modo, di allontanare ogni responsabilità delle scelte fatte - e non fatte - negli scorsi mesi. Negli scorsi anni. Per intercettare, a proprio favore, il clima d'opinione del Paese. Avvelenato dalla crisi economica. Sfavorevole a ogni istituzione e a ogni attore politico.

A Centrosinistra, il Pd ha perduto consensi rispetto a ottobre (circa 3 punti). Ma resta il primo partito, (29%). Anche se i congressi e la campagna delle Primarie per il segretario non sembrano aver prodotto, fino ad oggi, lo stesso entusiasmo del passato. D'altronde, c'è un vincitore annunciato: Matteo Renzi. Un po' a disagio, nella parte. Lui: è un outsider di successo. Oggi non recita il ruolo dello sfidante, ma dello sfidato. In mezzo a due figure diverse. Cuperlo, evoca la tradizione e l'organizzazione politica, radicate sul territorio. Civati, invece, compete con Renzi sul suo stesso piano. La giovinezza e la capacità mediatica - esibita, con grande efficacia, nel "faccia a faccia" su Sky.

Più in generale, pesa la delusione per la vittoria mancata alle elezioni politiche. Contro le attese suscitate dalle Primarie di un anno fa.

Così è arduo, domenica prossima, immaginare una partecipazione ampia come nelle precedenti occasioni. Potrebbe non essere un male. Costringerebbe il nuovo segretario a considerare il Pd un partito ipotetico (per citare Berselli): da (ri) costruire. A considerare la fiducia degli elettori: un obiettivo da ri-conquistare. Accettando la sfida del M5S. Che ieri, a Genova, ha di nuovo riempito la Piazza, per un nuovo V-Day. In nome dell'impeachment di Napolitano. L'ultimo riferimento istituzionale dotato di fiducia, fra i cittadini. Un nuovo passaggio della marcia contro i partiti e le istituzioni condotta negli ultimi anni. Con successo, visto che, secondo il sondaggio di Demos, il M5S continua a mantenere un livello di consensi superiore al 21%. Più di quanto segnalassero le stime elettorali pochi giorni prima del voto di febbraio. Peraltro, il M5S dispone di una base "fedele" più ampia di quel che si potrebbe pensare. Visto che il 60% di quanti l'hanno votato alle elezioni oggi confermerebbero la loro scelta. Ma la fedeltà verso Grillo e il M5S suona come la misura dell'in-fedeltà verso gli altri partiti e verso le istituzioni. Verso la democrazia rappresentativa. In un Paese che, dopo mesi di "larghe intese", appare diviso assai più che condiviso.
 
© Riproduzione riservata 02 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/02/news/nel_paese_tutto_cambia_ma_tutto_resta_uguale-72466138/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Cambiamento e partecipazione Ecco perché ha vinto Renzi
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 11:19:25 am
Cambiamento e partecipazione
Ecco perché ha vinto Renzi

Cuperlo votato dagli over 65, Civati dai giovanissimi. I dati emergono dall'indagine condotta da C&LS.
Circa 3600 interviste, coordinate dalle Università di Cagliari e Milano, durante le primarie, fuori dai seggi

di ILVO DIAMANTI
   
LE PRIMARIE del Pd hanno garantito a Matteo Renzi un successo ampio e netto — quasi il 70% dei consensi. Legittimato da una mobilitazione larga quanto inattesa. Circa 3 milioni. Più o meno come nel 2009 e nel secondo turno dell’anno scorso. Quando, però, si trattava di primarie di coalizione per scegliere il candidato premier del Centrosinistra. Un’affluenza tanto ampia non era scontata.

Due settimane fa, infatti, la quota di elettori del Pd e del Centrosinistra che dichiarava l’intenzione di partecipare alle primarie era, di circa un terzo, inferiore alle occasioni precedenti (Sondaggio Demos). Effetto, soprattutto, della delusione, in seguito al risultato delle elezioni di febbraio. Quando il centrosinistra non è riuscito a vincere, nonostante la mobilitazione e le attese alimentate dalle primarie svolte in novembre. Invece, anche in questa occasione, molti elettori hanno messo da parte disincanto e frustrazione.

Così, per una volta di più, domenica sono tornati ai seggi allestiti dal Pd. Ci hanno ripensato per diverse ragioni. Anzitutto, il vizio della partecipazione. La convinzione democratica. La convinzione che la “volontà popolare” sia importante. E vada sostenuta comunque. Nonostante tutto. Tanto più se avviene “di persona”. E permette di incontrare — e, prima ancora, discutere con — altre persone. In tempi nei quali la “partecipazione” è stata sostituita dalla televisione. Oppure dalla rete. A cui, però, molti non accedono. Mentre quelli che sono “connessi” — in numero, peraltro, crescente — comunicano senza incontrarsi “di persona”. Così, alla fine, molti “delusi” hanno ceduto alla convinzione “democratica”. In entrambi i sensi: alla partecipazione democratica — offline — promossa dal Partito Democratico. Al quale è stata concessa un’altra occasione. Per realizzare, davvero, il cambiamento. E per cambiare — esso stesso. Come ha sottolineato Romano Prodi, per spiegare la sua “sofferta” decisione di votare, dopo aver annunciato, in precedenza, che non l’avrebbe fatto (con molte ragionevoli ragioni).

Ad alimentare la partecipazione ha contribuito, in misura importante, la competizione tra i candidati. Accesa, malgrado l’esito apparisse largamente scontato. Nell’insieme, ha dato l’idea di un “cambio di generazione”. La diversa storia politica personale dei due “sfidanti” di Renzi ha, infatti, integrato e allargato l’offerta politica proposta agli elettori. All’interno e all’esterno del Pd. Come emerge, in modo particolarmente chiaro, dai dati dell’indagine condotta da C&LS. Circa 3600 interviste effettuate (e coordinate dalle Università di Cagliari e Milano) durante le primarie, fuori dai seggi, presso un campione nazionale significativo. Mettono in evidenza, anzitutto, le differenze generazionali degli elettori dei tre candidati. Pippo Civati, infatti, raccoglie i suoi consensi soprattutto fra i più giovani (circa il 30% fra 16 e 34 anni), Gianni Cuperlo fra i più anziani (35% oltre i 65 anni). Matteo Renzi, invece, attinge, in modo trasversale, da tutti gli strati d’età. Non a caso, visto che rappresenta la larga maggioranza della base del Pd — coinvolta e potenziale.

Per questo, però, il contributo di Cuperlo e Civati è utile a Renzi e al Pd. Perché i due sfidanti intercettano componenti, per quanto delimitate, molto diverse e lontane fra loro; difficili, soprattutto, da saldare insieme. Cuperlo: il retroterra dei partiti tradizionali. Civati: gli elettori insoddisfatti della politica, che guardano “oltre” il Pd.

D’altra parte, quasi metà degli elettori di Cuperlo (il 48%) è composta da iscritti al Pd, mentre più di tre quarti di quelli di Renzi e di Civati si dichiarano non-iscritti. Le differenze fra i candidati appaiono evidenti dagli orientamenti politici. Gli elettori di Cuperlo sono concentrati a centrosinistra e a sinistra (90%, distribuiti quasi equamente tra le due aree dello spazio politico), quelli di Civati soprattutto a sinistra (57%). Dove si colloca una componente significativa di elettori di Sel. Renzi, invece, è saldamente ancorato a centrosinistra (50% dei voti), ma attinge consensi anche al centro (18%). Nella sua base, non per caso, appare ampia (31%) la quota dei cattolici praticanti.

Gli elettori delle primarie si differenziano anche negli atteggiamenti verso il governo guidato da Letta. Coerentemente con l’orientamento dei candidati. Oltre il 60% degli elettori di Cuperlo esprime un giudizio “favorevole”. La stessa quota di “contrari” che si osserva tra quelli di Civati. Mentre la base di Renzi appare, di nuovo, equamente divisa. Ciò significa, però, che quasi metà dei suoi elettori valuta negativamente l’azione del governo. Il che costituisce un segnale significativo — e preoccupante — per Letta e per la sua maggioranza.

D’altronde, per gli elettori del Pd che hanno votato alle primarie, la scelta di Renzi appare un investimento esplicito in vista delle elezioni. Non a caso, il 94% dei partecipanti al voto delle primarie si dicono convinti che Renzi sia in grado, più di ogni altro candidato, di battere il Centrodestra alle prossime elezioni. Lo pensano, in larghissima maggioranza, anche gli elettori di Cuperlo (80%) e, ancor più, di Civati (90%).

Ciò chiarisce il significato di un’affluenza tanto estesa. E di un consenso così ampio a favore di Renzi. A sinistra e a centrosinistra. Vincere e durare. Senza governi tecnici. Senza larghe intese. Ma, piuttosto, con una maggioranza larga. Perché partecipare, stare con gli altri, insieme ad altre persone: fa bene. Fa stare bene. Ma, almeno ogni tanto, bisogna vincere. E governare. Per la stessa ragione, c’è da credere che questo risultato renda Matteo Renzi più impaziente. Determinato a marcare la sua volontà di “cambiamento”, com’è apparso chiaro fin dalla composizione della sua segreteria. Ma, al tempo stesso, reso inquieto dal dubbio — e dal timore — che, in tempi incerti come questi, il tempo — anche il suo tempo — passi in fretta.

© Riproduzione riservata 10 dicembre 2013

http://www.repubblica.it/politica/2013/12/10/news/voglia_di_cambiare_e_partecipazione_quel_mix_che_ha_incoronato_renzi_cuperlo_votato_dagli_over_65_civati_dai_giovanissimi-73183674/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Paese stanco che non crede più a tg e talk show
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2013, 11:00:46 pm
Il  Paese stanco che non  crede più a tg e talk show

Mappe.
Indagine Demos-Coop: l'Italia delusa si rifugia nei social network. Nello scambio tra televisione e potere, la paura cresce sempre più, si moltiplica. Anche la satira non diverte più

di ILVO DIAMANTI
Gli italiani continuano a informarsi, in larga maggioranza, seguendo la tivù. Anche se ne hanno sempre meno fiducia e usano, in misura crescente, la Rete. Perché la considerano il canale più libero e indipendente. E permette loro di informarsi navigando tra diversi media. È il ritratto che si scorge scorrendo i risultati della VII Indagine di Demos-Coop su "Gli italiani e l'informazione". Otto persone su dieci, infatti, affermano di informarsi quotidianamente in televisione, il 47% su Internet.

LE TABELLE

Sei anni fa, coloro che utilizzavano Internet erano poco più della metà (25%), mentre il seguito della tv era più elevato di 7 punti. Si tratta di una tendenza chiara, precisata dalla tenuta della radio (circa il 40%) e dalla riduzione significativa dei giornali. Oggi, sostanzialmente sullo stesso livello di un anno fa (25%), ma in calo di 5 punti rispetto al 2007. La popolazione italiana, dunque, si serve sempre più e sempre più spesso della Rete, come fonte di informazione diretta, ma anche per accedere ad altri media, in particolare i giornali. Due navigatori di Internet su tre (e quasi metà sulla popolazione intervistata) affermano, infatti, di leggere regolarmente i quotidiani online. Reciprocamente, i giornali (e i notiziari radio-tv) si connettono alla Rete, attraverso edizioni online e digitalizzate. Inoltre, utilizzano i Social Network, in particolare Twitter, come canale diretto con i leader e gli opinion maker.

Questa evoluzione è favorita dalla rapida diffusione delle tecnologie di comunicazione. Nell'ultimo anno, non a caso, la quota di coloro che si collegano a Internet mediante i cellulari oppure i tablet è cresciuta sensibilmente. Di 20 punti: dal 37% al 57%.

Tuttavia, la tv resta ancora, di gran lunga, il riferimento più frequentato. Come si è visto alle ultime elezioni politiche. Le più "televisive" della storia, nonostante la diffusione della Rete.

Eppure, come si è detto, la tv gode di un grado di fiducia limitato. Solo due persone su dieci la considerano un medium davvero indipendente e libero. Peraltro, gran parte dei programmi di informazione televisivi appare in calo di credibilità. I tg, soprattutto. Il Tg3 (56,7% di valutazioni positive) e il Tg1 (52,4%) continuano ad essere i più accreditati, fra gli italiani. Ma subiscono, entrambi, un declino. Particolarmente rilevante, nel caso del Tg1, rispetto al 2007. Come, d'altronde, il Tg2. Il calo di fiducia colpisce, a maggior ragione, le testate giornalistiche delle reti Mediaset. Il Tg di La7, invece, segna un aumento di credibilità, rispetto al 2007, ma, per la prima volta dopo tanti anni, arretra, seppur di poco, rispetto al 2012. Gli unici tg che registrano una crescita costante, anche nell'ultimo anno, sono quelli sulle reti all news. Rai News24 e Sky Tg24. Insomma, l'informazione tivù ha perduto e sta perdendo credito, in misura diversa, un po' dovunque. La stessa tendenza coinvolge i programmi di approfondimento e i talk legati all'attualità politica e sociale. Molti, fra i più conosciuti e considerati, fino ad oggi, subiscono un brusco calo di fiducia. Ballarò, Servizio Pubblico, Otto e mezzo, In mezz'ora: pérdono tutti intorno ai 4-5 punti, nella valutazione degli italiani (intervistati). Solo Report, un programma di inchiesta, e Piazza Pulita, un talk di battaglia, fanno registrare una crescita di consensi significativa. Così, Ballarò si conferma primo, nella graduatoria della fiducia. Ma, per la prima volta, da quando viene condotta l'indagine di Demos-Coop, il talk condotto da Giovanni Floris condivide il primato. Con Report, appunto. Il programma di Milena Gabanelli.

Perfino i talk satirici e l'infotainment suscitano minore confidenza. Il grado di fiducia verso Striscia la Notizia, in particolare, nell'ultimo anno, è sceso di 5 punti e di 2 quello verso Che tempo che fa, il talk condotto da Fabio Fazio. Mentre le Iene tengono. E Crozza contribuisce agli ascolti di Ballarò. Così, i programmi pop-talk e di satira politica si allineano, tutti, intorno al 50% di gradimento. Nessuno svetta sugli altri.

È come se, in tivù, l'informazione, l'approfondimento, la stessa satira, suscitassero interesse, ma anche stanchezza. E un po' di fastidio. Probabilmente perché la crisi, economica e politica, è difficile per tutti. Sentirne parlare non conforta. Produce, anzi, un senso di malessere che ha contaminato, in qualche misura, anche i media.

D'altronde, gran parte della popolazione sceglie i tg e i programmi di informazione in base alle proprie preferenze politiche. Il pubblico di centrosinistra dimostra fiducia per il Tg3 e il Tg di La7. Il quale risulta, in assoluto, il più apprezzato dagli elettori del M5S. D'altra parte, il Tg di Mentana è quello che ha riservato maggiore spazio e attenzione a Grillo e al M5S, ben prima del voto di febbraio. Gli elettori di centrodestra, invece, guardano con fiducia i tg delle reti Mediaset. E gli elettori di centro si fidano soprattutto del Tg1 e di Rai News 24. Come in passato, dunque, gli italiani, nella tv, cercano conferma alla loro identità politica.

Da ciò, la crescente sfiducia verso l'informazione televisiva. Se, infatti, il legame fra orientamento politico e consumo televisivo appare stretto, allora il clima di distacco e di ostilità verso la politica, che si respira nella società, non può non coinvolgere anche la televisione. Principale, quasi unico, "campo di combattimento" della politica italiana. Ma ciò genera un circuito vizioso. Così, paura e sfiducia, nello scambio tra pubblico e televisione, si rafforzano reciprocamente. È l'Italia del disgusto politico e dei forconi. Prima che sia troppo tardi, qualcuno dovrebbe interrompere questo inseguimento senza fine. Ma è difficile che ciò avvenga per iniziativa del pubblico. Della società. E ho il sospetto che neppure i media, in particolare la tivù, siano disposti a cambiare una programmazione. Che garantisce ancora ascolti, anche se usurata. Così è probabile che lo "spettacolo" continui. Con gli stessi format. Con gli stessi effetti sul "pubblico". Tutti insieme: sfiduciati e scontenti. Fino al collasso del clima d'opinione. Che, in effetti, sembra ormai prossimo.

© Riproduzione riservata 16 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/16/news/mappe_paese_stanco_non_crede_a_tg_e_talk-73708417/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Nel paese dei mille Forconi
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:03:41 pm
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Nel paese dei mille Forconi

di ILVO DIAMANTI
   
Il "tempo dei Forconi" segna un altro passaggio della crisi della nostra democrazia rappresentativa. Tanto più esplicito ed evidente perché amplificato dal ri-sentimento sociale prodotto dalle crisi: economica e politica. I Forconi. Esprimono il senso di deprivazione relativa alimentato dalla percezione del declino.

NON si tratta solo di perdita del lavoro e del reddito. Ma dell'insicurezza pesante che pervade quanti, nel passato recente, erano saliti, faticosamente ai piani medi della scala sociale. I lavoratori autonomi. L'Italia dei lavori, appunto. Che non ha mai avuto una vera rappresentanza organizzata. I Forconi: colpiscono i punti nevralgici del Paese. Il sistema delle comunicazioni e della mobilità. Bloccano strade e autostrade. E generano grande disagio con uno sforzo, relativamente, limitato. I Forconi. Non sono un "movimento", orientato da obiettivi comuni.

Diversamente dal M5S, che è un non-partito organizzato, presente alle elezioni e in Parlamento. Dunque: un partito. I Forconi.

Non sono una "rete", che collega esperienze diverse. Ogni iniziativa che tenti di unificarne l'azione, come la manifestazione di Roma della settimana scorsa, ne mostra i limiti. Perché non sono in grado di coalizzare i diversi luoghi e i diversi attori della protesta. Né, tanto meno, di riassumere i diversi motivi di disagio e rivendicazione in una piattaforma comune. I Forconi. Ri-producono molte manifestazioni e molte immagini. Quanti sono i luoghi e i protagonisti della protesta. Camionisti, artigiani, allevatori, contadini. Lavoratori autonomi diverse aree, di vari e diversi lavori.

Alcuni li hanno definiti una "moltitudine", echeggiando una formula coniata da Antonio Negri, per evocare "un insieme di singolarità", capaci di antagonismo. Non rappresentabili. Se non fosse che, in effetti, i "Forconi" hanno una "rappresentazione", riassunta dal nome con cui sono conosciuti. Ereditato dalle proteste contro le accise, in Sicilia, nel 2012. E oggi attribuito a tutti coloro che protestano, in tutta Italia. Indipendentemente dal luogo e dalla professione. E dallo specifico motivo di disagio espresso. Non a caso, al proposito, si è parlato di "jacquerie" (come ha fatto, alcuni giorni fa, Barbara Spinelli). Echeggiando le sollevazioni spontanee dei contadini francesi, nel XIV secolo.

Ma il termine stesso, "Forconi", costituisce, appunto, una "rappresentazione" unificante. Che evoca la rabbia popolare. Contro il "potere". Indefinito e indeterminato, quanto la moltitudine che protesta. È questa la ragione che, oggi, rende così rilevante  -  e inquietante  -  la mobilitazione dei "Forconi". Il fatto è che dà evidenza  -  rappresentazione  -  alla sfiducia di gran parte della popolazione contro "tutti" i soggetti della rappresentanza. I politici e partiti. Il Parlamento e le amministrazioni locali. L'Europa. Lo Stato. I "forconi", dunque, sono pochi. Differenti e divisi. Eppure godono di grande consenso. Secondo un sondaggio Ipsos (per Ballarò) il 29% degli italiani ne condivide obiettivi e forme di lotta. Il 49% solo gli obiettivi. In altri termini: 8 italiani su 10 condividono le ragioni dei forconi.

Anche se non il modo in cui le manifestano. D'altronde, ieri anche il Papa ha espresso l'invito a "dare un contributo senza scontri e violenza.". Ma Papa Francesco è l'unico che oggi si possa permettere di dare "buoni consigli". Perché è l'unica figura pubblica che disponga di una base di fiducia estesa. Anzi: larghissima (quasi il 90%). Tutte le altre autorità, tutte le altre istituzioni  -  locali, nazionali e internazionali  -  godono di un credito limitato. Spesso bassissimo. E in calo costante. Dallo Stato, al Parlamento, alla UE. Ne ha risentito perfino il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in particolare dopo la rielezione. Oggi, infatti, la quota di italiani che esprime (molta-moltissima) fiducia nei suoi riguardi è sotto il 50%. Sicuramente elevata, ma 5 punti in meno rispetto a un anno fa. Per questo i Forconi sono tanto popolari, in Italia. Perché rendono visibile la sindrome di cui soffre il Paese. La sfiducia. Verso le istituzioni e i soggetti politici. Ma non solo.

Gli italiani (oltre 6 su 10, Demos dicembre 2013) non si fidano neppure delle persone che incontrano, con cui hanno relazioni. Insomma, non si fidano e basta. Tanto che, alla fine, la sfiducia è diventata una risorsa  -  la principale  -  da spendere in politica e nella rappresentanza. Non a caso, l'indulgenza verso i Forconi è tanto ampia. Anche fra coloro che, in fondo, ne sono fra le cause (e i bersagli). Sindacati e associazioni imprenditoriali. Colpiti, pesantemente, dalla sindrome della sfiducia (lo ha rammentato ieri Eugenio Scalfari). Per la stessa ragione, paradossalmente, i Forconi sono divenuti protagonisti del fenomeno contro cui protestano. La politica come spettacolo.

Lo spettacolo della politica. Da qualche settimana, i loro leader appaiono dovunque, in TV. Perché la sfiducia è, mediaticamente, attraente. Contribuisce ad alzare l'audience dei programmi, anche se ne abbassa la credibilità. D'altronde, i cittadini, o meglio, gli spettatori, quando guardano i talk politici e le inchieste di denuncia, si incazzano. Si "sfiduciano" ulteriormente. Ma, nonostante tutto, insistono a seguire e a inseguire questi programmi. La Rete, d'altra parte, contribuisce a rafforzare questo sentimento. Visto che la sfiducia verso le istituzioni e i partiti sale fra coloro che utilizzano internet con più frequenza (Sondaggio Demos-Coop sull'Informazione, dicembre 2013).

Per questo la protesta dei Forconi segna un punto critico, per la nostra democrazia. Non per la misura (circoscritta) di chi ne è coinvolto direttamente. Ma perché rivela, in modo aperto, quanto sia profondo, in Italia, il deficit della rappresentanza.

L'assenza di canali e soggetti capaci di "rappresentare" e di "organizzare" le domande e i problemi della società, dei territori e delle persone. In mezzo a una società dissociata e anomica, popolata da individui mobi-litati solo dalla sfiducia. Così, non resta che gridare, inveire e insultare. Per sfogare la nostra rabbia. La nostra frustrazione. Non contro il potere, ma contro chi lo dovrebbe esercitare. E contro noi stessi. Il Paese dei forconi: è un Paese impotente.
 
© Riproduzione riservata 23 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/23/news/nel_paese_dei_mille_forconi-74303355/?ref=HREC1-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - Verso una democrazia ibrida
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2013, 04:06:34 pm
Verso una democrazia ibrida

Siamo a un passaggio critico, tra diversi tipi e modelli di democrazia rappresentativa. Tra diversi tipi e modelli di partito. E tra diversi tipi e modelli di comunicazione e di opinione pubblica. D'altronde, la relazione fra partiti, opinione pubblica e democrazia è molto stretta. Quasi inestricabile. Ebbene, oggi assistiamo a trasformazioni profonde, che coinvolgono i principi del modello di democrazia rappresentativa dominante - da molti anni. Mi riferisco alla "democrazia del pubblico", come l'ha definita Bernard Manin. Un modello che, ormai da vent'anni, ha superato e sostituito la "democrazia dei partiti" (di massa). Nella "democrazia del pubblico", com'è noto, i partiti tendono a personalizzarsi, anzi, diventano macchine al servizio delle persone. Perlopiù, di "una" persona. L'ideologia e l'identità declinano, a favore della fiducia (nella persona). La partecipazione sociale e l'organizzazione sul territorio vengono rimpiazzate, progressivamente, dalla comunicazione. In particolare: dalla televisione. I leader e i partiti, di conseguenza, per conquistare gli elettori, coltivano l'immagine e curano il linguaggio. E si servono, per questo, di professionisti di marketing politico e di sondaggi. Così, i cittadini diventano "pubblico", spettatori. Entità demoscopiche da intervistare e analizzare. E il voto diventa (più) fluido.

In Italia questo modello ha assunto formato e caratteri del tutto diversi rispetto ad altrove. Per la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Imprenditore mediatico - ma anche pubblicitario - dominante, non solo su base nazionale. Tutti l'hanno imitato, a modo loro e con le risorse di cui disponevano (o "non" disponevano). Hanno, cioè, inseguito la personalizzazione, la mediatizzazione, il marketing. Per alimentare la "fiducia"  -  e dunque l'audience  -  del pubblico. Non a caso il Centrosinistra, che ha radici nei partiti di massa, , è sempre rimasto piuttosto "impersonale". E, in un'arena di partiti personalizzati oppure personali, si dimostrato, per questo, poco competitivo.

In questa fase, tuttavia, la "democrazia del pubblico" sta cambiando in fretta. E mostra molti segni di logoramento. Perché i suoi stessi elementi costitutivi appaiono in rapida e profonda trasformazione. Sulla spinta, davvero violenta, della crisi economica, che ha lacerato i legami con le istituzioni e con gli attori politici, ma anche fra le persone. Peraltro, lo spazio della politica è divenuto un campo dove si confrontano partiti senza società e, dunque, leader senza partiti. In rapporto diretto con il pubblico attraverso la televisione. Così, il legame di fiducia fra leader, partiti e società si è  consumato. E la crisi economica l'ha logorato ulteriormente. Il marketing politico e la comunicazione hanno, di conseguenza, cambiato segno, elaborando messaggi e immagini centrati non più sulla fiducia, ma nel suo opposto. La sfiducia verso gli altri  -  leader, partiti, politici...
Da ciò, l'onda populista del nostro tempo, che rovescia  la "sfiducia popolare" contro i leader politici. I quali, a loro volta, si rivolgono, direttamente, al "popolo" indistinto, in modo diretto e im-mediato. O meglio, mediato dai media. E lo arringano. Aizzano il popolo, meglio, il "pubblico" contro gli altri leader. Contro i "politici". Dunque, anche contro se stessi, alimentando un gioco a somma negativa, che investe l'intero sistema politico e dei partiti. L'intera democrazia rappresentativa.

Tuttavia, la "democrazia del pubblico" è stata coinvolta e trasformata anche dall'irrompere e dal diffondersi della Rete. Da Internet e i Social Media, usati, in modo crescente, come canali di comunicazione e di partecipazione politica.

La rete, infatti, è tra i fattori di successo delle mobilitazioni che hanno investito numerose aree, ben oltre l'Europa: gli USA e, negli ultimi anni, il Nord Africa. Con effetti "rivoluzionari" (come nelle Primavere Arabe). In Italia, la rete ha permesso ai nuovi movimenti di "organizzarsi", con risultati rilevanti, nell'ultimo decennio. Inoltre, ha fornito le basi per l'affermazione di Grillo e del M5S, negli ultimi anni.

I "nuovi media", in particolare, hanno permesso a esperienze locali e sociali periferiche di connettersi, al di fuori del controllo "verticale" dei soggetti politici e dei media tradizionali. Hanno favorito, inoltre, il coinvolgimento e l'intervento diretto, a livello soggettivo, di un'area ampia di persone. Per questo, la rete ha costituito il riferimento per un modello diverso e alternativo di partecipazione politica. Ma anche di democrazia. In nome della dis-intermediazione. Contro i "corpi intermedi". E, quindi, in nome della democrazia diretta. Rivendicata, esplicitamente, da Grillo come argomento polemico "contro" i partiti, il parlamento. Attori e istituzioni della democrazia rappresentativa. E, ancora, contro giornali e giornalisti. Tutti coloro che pretendono di parlare, informare, decidere "per conto" e "al posto" dei cittadini.

Tuttavia, la Rete, la partecipazione attraverso i Social Media non ha rimpiazzato del tutto i media tradizionali e, in particolare, la televisione.  Soprattutto in ambito politico. Lo abbiamo potuto verificare anche alle elezioni recenti. Per alcune ragioni evidenti.

Anzitutto, la Rete è accessibile e frequentata da un'area crescente di persone, ma c'è ancora un settore ampio che ne resta fuori. Pari quasi a metà della popolazione.  In particolare,  un quarto degli elettori si informa "soltanto" attraverso la televisione. Così, per "vincere" le elezioni oppure per conquistare un consenso largo intorno a un progetto, un problema, un'iniziativa occorre, comunque, andare "oltre" la Rete. Usare la televisione.
La televisione, inoltre, continua a dettare gli standard dell'immagine e del linguaggio. Comunque, i Social Media, Twitter, Facebook dialogano in contatto costante con i media tradizionali. Per prima la tivù. E viceversa. Una convergenza espressa dalla Social TV. Alle ultime elezioni, il maggiore traffico di tweet è avvenuto in occasione della presenza di Berlusconi a Servizio Pubblico, ospite di Santoro e di Travaglio. D'altronde, twitter è utilizzato soprattutto dalla cerchia degli opinion maker. Per fare e scambiare opinioni, appunto.

Lo stesso rapporto fra Grillo e la televisione risulta, quantomeno, ambivalente. Perché Grillo è molto presente in tivù, anche se non ci va direttamente. I suoi comizi, i video del suo blog: entrano direttamente nel circuito televisivo. Perché la sua presenza fa audience.
Peraltro, attraverso la Rete vengono promosse manifestazioni e  mobilitazioni tradizionali, nelle piazze e nelle strade. Come ai tempi dei partiti di massa. Con la differenza che oggi si trasferiscono immediatamente sui media tradizionali. In tivù, sui giornali. Com'è avvenuto e  avviene nelle iniziative organizzate da Grillo e dal M5S.

Per questo ci troviamo di fronte a una comunicazione politica "ibrida", che scavalca i confini tra Rete, tv, giornali, tra nuovi e vecchi media. E li incrocia, reciprocamente. Secondo una "logica" che Andrew Chadwick - e prima ancora  Nestor Canclini, in prospettiva antropologica - hanno spiegato in modo chiaro.
Quel che è certo, è che la Rete e i suoi attori hanno modificato le forme della partecipazione e della democrazia, accentuando e orientando le principali spinte "oltre" la democrazia del pubblico. Perché, di certo, la Rete ha dato voce all'insoddisfazione popolare, ne ha amplificato i toni, allargato i confini. Non solo, ma ha fornito canali e spazio alle manifestazioni di protesta direttamente rivolte "contro" le istituzioni e gli attori della democrazia rappresentativa. Partiti e politici, per primi. Si pensi alla protesta dei "forconi".  Ancora: ha rafforzato le logiche e le azioni di "contro-democrazia", per echeggiare la definizione di Pierre Rosanvallon. Volte, cioè, a controllare e a contrastare, se necessario, i centri di governo e di decisione, in nome di una democrazia fondata sulla "sfiducia nel potere".

Per questo conviene parlare di "democrazia ibrida". Perché sta trasformando in profondità i tratti del modello precedente. La democrazia del pubblico. Di cui si riconoscono ancora i principali elementi, ma sensibilmente ridisegnati. Perlopiù, in negativo.

I partiti, per primi, si trasformano in anti-partiti. O in non-partiti. Antagonisti dei partiti in quanto tali.
Al posto dei leader, si affermano gli anti-leader. Antagonisti rispetto a tutti i partiti e ai dirigenti di partito, come Grillo. Che agiscono e re-agiscono attraverso mobilitazioni  -  sociali e mediatiche come i V-Day. Oppure "rottamatori", come Renzi, legittimati dal rito di massa delle primarie.
Nel complesso, oggi i leader sono imprenditori politici che utilizzano la sfiducia, più che della fiducia. Perché la sfiducia è la principale risorsa del consenso. In nome di un cambiamento radicale che investe i partiti dall'interno oppure dall'esterno.

La "democrazia ibrida" che stiamo attraversando denuncia la crisi della democrazia rappresentativa. Apertamente sfidata dalla democrazia diretta. E propone una miscela di elementi vecchi e nuovi, che si combinano a fatica. Così che diventa difficile capire e vedere quel che succederà domani.

Il testo propone alcuni fra i principali passaggi della Lectio Magistralis, dal titolo "Democrazia ibrida", tenuta da Ilvo Diamanti in occasione del Convegno annuale dell'Associazione di Comunicazione Politica e della rivista ComPol (Università degli Studi di Milano, 12-13 dicembre 2013)
 

(13 dicembre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/12/13/news/bussola_13_dicembre-73484942/


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'esordio di Renzi alla segreteria del Pd ha fatto rumore.
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2014, 06:23:11 pm
Ilvo DIAMANTI
06 gennaio 2014
   
L'esordio di Renzi alla segreteria del Pd ha fatto rumore. Sollevato polemiche. Ma per motivi lateralmente politici. Piuttosto: di stile, linguaggio, costume. Per la battutaccia riservata a Fassina (video). Per la pausa-panino targata Eataly. Così si è parlato di partito "padronale". Evocando l'esempio di Berlusconi.

Scandaloso, per la sinistra. Il clamore delle polemiche sottolinea quanto la battuta di Renzi sia stata inopportuna, oltre che infelice. Visto che, in un momento tanto significativo, ha spostato l'attenzione in direzione indesiderata, per il segretario. Tuttavia, molte critiche appaiono fuori luogo. Fuori centro. Mostrano la difficoltà di comprendere quanto è avvenuto e sta avvenendo, nella politica italiana. In particolare, il (pre) giudizio nei confronti di Renzi, di essere un "berluschino", un nuovo, piccolo Berlusconi. Usato, da (centro) sinistra, come un'accusa. Un insulto. Più che un'accusa, è la conferma della difficoltà, nella sinistra, di capire cosa sia successo negli ultimi vent'anni. Renzi non è un leader berlusconiano, ma, semmai, postberlusconiano. Come i tempi in cui viviamo.

Il post-berlusconismo. Un'epoca che risente ancora dei modelli e dei valori interpretati da Berlusconi. Anche se oggi sono resi inattuali dalla crisi. Tuttavia, l'esperienza di Berlusconi ha impresso sulla politica un segno indelebile. Ha imposto la comunicazione sull'organizzazione, i media sulla partecipazione. Ha portato all'estremo la personalizzazione, attraverso l'invenzione del suo "partito personale". Insomma, ha imposto la "politica come marketing". Un modello, peraltro, già affermatosi altrove, in Europa e negli Usa. Anche se Berlusconi ne ha accentuato i caratteri. Perché ha potuto sfruttare le sue risorse mediatiche e imprenditoriali. Senza vincoli - istituzionali e sociali.

Vent'anni di berlusconismo, peraltro, non sono passati invano. Tutti i principali soggetti politici ne hanno seguito e imitato il modello. Si sono mediatizzati e personalizzati, seguendo le logiche della politica come marketing. Ovviamente, senza gli stessi esiti e gli stessi risultati di Berlusconi. A sinistra, in particolare, il Pd è stato frenato dalla sua storia, dalle sue tradizioni, dalle sue radici, piantate nella Prima Repubblica. E ciò gli ha permesso di evitare la fine degli altri imitatori del modello berlusconiano. Da Di Pietro a Fini a Monti. Le cui biografie politiche personali si sono concluse insieme ai partiti.

Tuttavia, il Pd è stato condizionato dal suo passato. Chiuso nel recinto delle zone rosse. Incapace di esprimere una leadership condivisa, perché storicamente diviso in correnti e personalismi (come hanno mostrato Mauro Calise e Marco Damilano, nei loro saggi pubblicati da Laterza). Fino all'esito delle elezioni politiche del 2013. Quando il Pd non ha vinto, anche se Berlusconi ha perso. Quando la domanda di cambiamento si è tradotta nel successo del M5S, che ha raccolto il voto "contro": Berlusconi, Monti. Ma anche, e soprattutto, "contro" il Pd e la Sinistra alternativa.

Da lì è partito Renzi. Un leader post-berlusconiano in un Paese post-berlusconiano. Dove Berlusconi è "imprigionato" in casa. Ma conta ancora, perché siamo tutti post-berlusconiani, cresciuti o invecchiati in una società educata dai suoi media. E influenzata dai suoi valori. Che Berlusconi non ha inventato. Ma ha riprodotto e rilanciato, attingendo al senso comune. In un Paese dove la sinistra è stata sempre minoranza e l'anticomunismo un sentimento maggioritario. Renzi, per questo, a mio avviso, non intende riformare, ma andare oltre il Pd dei "sinistrati " (per echeggiare Edmondo Berselli). Oltre l'eredità dei partiti di massa. Gli interessa costruire il Post-Pd, modellato intorno al Capo, mentre la Sinistra (e ancor più il Centro) è sempre stata un'area affollata da molti capi, in reciproca contesa. Da ciò il metodo-slogan della rottamazione. Rozzo ma efficace, nel descrivere l'intenzione di liberarsi del passato, sottolineata dalla formazione di una segreteria "giovane", per marcare il salto di generazione politica.

La riunione della segreteria di sabato, in fondo, riproduce i riti e la simbologia della rottura con il (e della rottamazione del) passato. La scelta della sede, in primo luogo. Firenze. La città di cui è sindaco Renzi. Un passaggio dal significato geopolitico chiaro: da Roma a Firenze. La capitale politica, cioè, si sposta nella città del segretario del post-Pd. Per marcare la distanza da Roma, simbolo del potere politico, contro cui è montata la sfiducia di gran parte dei cittadini. Ma la scelta di Firenze sottolinea anche la distanza dal governo centrale, guidato da Letta. Dalle larghe intese, ormai ridotte all'asse fra il Pd e quel che resta degli altri (ex-Pdl e centristi in ordine sparso). Riunire la segreteria del Pd a Firenze, dettare le priorità in merito alla legge elettorale, alle questioni bioetiche e del lavoro, significa spostare l'asse geopolitico del governo. Spingere Roma alla periferia. Ancora: riunire la segreteria a Firenze, per Renzi, significa marcare una prospettiva simbolica e progettuale. A favore del Sindaco d'Italia. Lontano dai Palazzi del Potere e dei Privilegi. Più vicino alla "gente comune". Un leader (e un partito) che si muove in bici, lavora senza staccare, dalla mattina presto fino alla sera. Senza pause,
giusto il tempo per un panino (anche se griffato).

Il post-Pd interpretato da Renzi, in questa prima uscita, è, dunque, un partito post-berlusconiano, lontano dall'eredità del passato - ma anche dal presente. Perché il Pd del passato e del presente è incapace di vincere. Il Post-Pd immaginato da Renzi è un soggetto politico modellato sulla persona del leader. Renziano, appunto. Il Partito del Capo (titolo di un recente saggio di Fabio Bordignon pubblicato da Maggioli). È impensabile che possa procedere senza fratture. Con un gruppo dirigente divenuto, in gran parte, renziano per opportunità, più che per convinzione. E senza strappi con il governo di Roma. Visto che il vero governo si è trasferito a Firenze.

Da ciò "il" problema. Se sia possibile costruire un soggetto politico "su basi personali ", rinunciando all'insediamento organizzativo e territoriale, oltre che alla tradizione ideologica del Pd. Ma senza disporre delle risorse mediali ed economiche, "su basi personali". Se sia possibile costruire un soggetto post-berlusconiano senza essere Berlusconi.

© Riproduzione riservata 06 gennaio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/06/news/mappe_renzi_leader_post_partito-75210248/?ref=HREC1-19


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quegli insulti a Bersani: il problema non è solo internet
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2014, 11:31:08 am
La civiltà delle cattive maniere

 Quegli insulti a Bersani: il problema non è solo internet

    Polemiche sugli insulti

Ilvo DIAMANTI

Non bisogna sorprendersi troppo dei messaggi truci rivolti a Pierluigi Bersani, dopo l'emorragia cerebrale. Mentre, in sala operatoria, i medici intervenivano per salvargli la vita. In rete, si sono affollati gli appelli e gli auguri. Che muoia! Lui e quelli come lui. I politici. Quelli che godono di privilegi smisurati e immeritati in ogni momento della vita. Tanto più e soprattutto nel momento dell'urgenza e della necessità personale. Che muoiano tutti. Anche lui. Bersani. Non importa che sia una persona perbene, mite, educata. In fondo, uno sconfitto. Uscito da un anno di sconfitte. Tanto peggio. Deve morire anche lui.
 
Non ci si deve sorprendere. È il clima del tempo. Anti-politico. Incattivito contro quelli che abitano il Palazzo. Reso più cattivo dalla crisi, che colpisce le persone, le famiglie. Annulla il futuro. Fa fuggire i giovani (che se lo possono permettere). E allora che muoiano tutti, quelli del Palazzo, che godono di cure particolari. Sempre. Mentre gli altri, la "gente comune", in punto di vita o di morte, affondano nel banale e nell'anonimo quotidiano.

Allora, non ci si deve sorprendere dei messaggi truci che corrono in rete. Di fronte alla vita e alla morte. Oggi la rete permette a tutti, comunque: a molti, di esprimersi in modo diretto, feroce, spesso (ma non sempre) anonimo. Mentre ieri gli stessi discorsi giravano, in misura molto simile.  Ma Nel privato, lontano dal pubblico. In casa, nei dialoghi con familiari e amici, davanti alla TV. Oppure nei bar, nelle osterie. Non su InterNet, ma davanti a una bottiglia di CaberNet.

È la civiltà delle cattive maniere. Incattivita da questi tempi cattivi. Nei quali l'immagine e la popolarità di alcuni fa sentire più acuta l'in-visibilità di tutti gli altri. La grande maggioranza delle persone. In questi tempi cattivi, per apparire, per fare audience, bisogna dire cose cattive. Gridare atrocità. Tempi cattivi, incattiviti dalla politica che, per prima, alimenta la sfiducia. E i talk politici più seguiti, in TV, alimentano, a loro volta, la sfiducia degli spettatori. Ma non perdono ascolti. Perché la sfiducia fa audience.

In questi tempi cattivi, i politici in difficoltà  -  pubblica o privata - diventano bersagli ideali del (ri)sentimento popolare. Liberato sulla rete. Senza rischi. Come allo stadio. Dove la curva  -  senza volto -  erutta invettive orrende, amplificate dai media. Dalla rete.

Tempi cattivi, in cui per diventare visibili, conviene dire cose cattive in modo cattivo. Non bisogna sorprendersi, allora, dei messaggi feroci che rimbalzano in rete all'indirizzo di Bersani. Certo: neppure far finta di nulla. Restare indifferenti. Però, basta attendere. Avere pazienza. È solo questione di tempo. La civiltà delle cattive maniere, promossa e sospinta dai media e dalla rete: presto, renderà innocuo l'insulto stesso. Ogni insulto, sommerso dalla melma degli insulti, diverrà un rumore di fondo fastidioso. Indifferente e, anzi, dannoso ai fini dell'audience e del gradimento mediatico.

Così, per conquistare ascolti e visibilità, per essere diversi, per scandalizzare, non resterà che tornare alle buone maniere.

(07 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/01/07/news/la_civilt_delle_cattive_maniere-75332933/


Titolo: ILVO DIAMANTI - La civiltà delle cattive maniere
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2014, 05:14:31 pm
La civiltà delle cattive maniere

 Quegli insulti a Bersani: il problema non è solo internet
    Polemiche sugli insulti

Ilvo DIAMANTI

Non bisogna sorprendersi troppo dei messaggi truci rivolti a Pierluigi Bersani, dopo l'emorragia cerebrale. Mentre, in sala operatoria, i medici intervenivano per salvargli la vita. In rete, si sono affollati gli appelli e gli auguri. Che muoia! Lui e quelli come lui. I politici. Quelli che godono di privilegi smisurati e immeritati in ogni momento della vita. Tanto più e soprattutto nel momento dell'urgenza e della necessità personale. Che muoiano tutti. Anche lui. Bersani. Non importa che sia una persona perbene, mite, educata. In fondo, uno sconfitto. Uscito da un anno di sconfitte. Tanto peggio. Deve morire anche lui.
 
Non ci si deve sorprendere. È il clima del tempo. Anti-politico. Incattivito contro quelli che abitano il Palazzo. Reso più cattivo dalla crisi, che colpisce le persone, le famiglie. Annulla il futuro. Fa fuggire i giovani (che se lo possono permettere). E allora che muoiano tutti, quelli del Palazzo, che godono di cure particolari. Sempre. Mentre gli altri, la "gente comune", in punto di vita o di morte, affondano nel banale e nell'anonimo quotidiano.

Allora, non ci si deve sorprendere dei messaggi truci che corrono in rete. Di fronte alla vita e alla morte. Oggi la rete permette a tutti, comunque: a molti, di esprimersi in modo diretto, feroce, spesso (ma non sempre) anonimo. Mentre ieri gli stessi discorsi giravano, in misura molto simile.  Ma Nel privato, lontano dal pubblico. In casa, nei dialoghi con familiari e amici, davanti alla TV. Oppure nei bar, nelle osterie. Non su InterNet, ma davanti a una bottiglia di CaberNet.

È la civiltà delle cattive maniere. Incattivita da questi tempi cattivi. Nei quali l'immagine e la popolarità di alcuni fa sentire più acuta l'in-visibilità di tutti gli altri. La grande maggioranza delle persone. In questi tempi cattivi, per apparire, per fare audience, bisogna dire cose cattive. Gridare atrocità. Tempi cattivi, incattiviti dalla politica che, per prima, alimenta la sfiducia. E i talk politici più seguiti, in TV, alimentano, a loro volta, la sfiducia degli spettatori. Ma non perdono ascolti. Perché la sfiducia fa audience.

In questi tempi cattivi, i politici in difficoltà  -  pubblica o privata - diventano bersagli ideali del (ri)sentimento popolare. Liberato sulla rete. Senza rischi. Come allo stadio. Dove la curva  -  senza volto -  erutta invettive orrende, amplificate dai media. Dalla rete.

Tempi cattivi, in cui per diventare visibili, conviene dire cose cattive in modo cattivo. Non bisogna sorprendersi, allora, dei messaggi feroci che rimbalzano in rete all'indirizzo di Bersani. Certo: neppure far finta di nulla. Restare indifferenti. Però, basta attendere. Avere pazienza. È solo questione di tempo. La civiltà delle cattive maniere, promossa e sospinta dai media e dalla rete: presto, renderà innocuo l'insulto stesso. Ogni insulto, sommerso dalla melma degli insulti, diverrà un rumore di fondo fastidioso. Indifferente e, anzi, dannoso ai fini dell'audience e del gradimento mediatico.

Così, per conquistare ascolti e visibilità, per essere diversi, per scandalizzare, non resterà che tornare alle buone maniere.

(07 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/01/07/news/la_civilt_delle_cattive_maniere-75332933/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le virtù democratiche della sfiducia digitale
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2014, 05:13:20 pm
Le virtù democratiche della sfiducia digitale

Ilvo DIAMANTI

Non è la prima volta che mi capita. Di essere letto in senso contrario o, almeno, diverso dalle intenzioni. Capiterà ancora. Eppure mi ha sorpreso un poco di vedermi, da qualche giorno, catalogato fra i nemici della rete da alcuni specialisti del settore. Perché fatico a entrare in una parte che mi è estranea.

Vero: il titolo della mia Mappa dello scorso 14 gennaio evoca “la sfiducia digitale”, particolarmente elevata fra i giovani-adulti (25-35 anni) e, soprattutto, fra coloro che utilizzano la rete come “mezzo” di partecipazione politica. Quanto alla sfiducia nelle istituzioni e nei partiti, è un dato consolidato. Anche (e di più) fra i militanti informatici. I Cives.net.

D’altra parte, i partiti - per primi - hanno fatto e continuano a fare molto per meritarsi tanta sfiducia. E per indebolire il consenso verso la democrazia rappresentativa. Che, nel corso del tempo, ha subìto una metamorfosi profonda. Da ultimo, si è trasformata in “democrazia del pubblico” (per citare Bernard Manin). Personalizzata e mediatizzata. Im-mediata. Istantanea.

Leader e popolo, pardon, pubblico, uno di fronte all’altro. Ma a senso unico. Perché il pubblico non può re-agire. Contro questo modello muove la “democrazia della rete”. Per usare le parole di Nadia Urbinati in un recente volume (del Mulino): come “reazione della democrazia in-diretta, o via web, contro quella indiretta” (mediata dai partiti e dai giornalisti). Anche se i dubbi sull’effettiva capacità della democrazia in-diretta di realizzare i suoi fini restano. Come mostra, da ultimo, il referendum del M5S sull’abolizione del reato di clandestinità. Convocato e votato in fretta, senza possibilità di discussione e di confronto. Né di verificarne con rigore il risultato. Il che rivela i limiti dell’Agorà trasferita nella rete. A cui non tutti possono accedere. Perché oltre un terzo della popolazione non frequenta ancora la rete. Dove, inoltre, discutere e confrontarsi risulta complicato. Senza dimenticare il problema, non risolto, dei rapporti fra la rete e il potere - economico e politico (una questione su cui si è esercitato lo sguardo scettico e acuminato di Evgeny Morozov).

La rete, dunque, non è la causa del malessere che affligge la democrazia rappresentativa. Raffigurato da Colin Crouch, con una formule suggestive, ma poco “definitive”: la “post-democrazia”. Che descrive (e stigmatizza) una situazione simile alla “democrazia del pubblico”. Senza partecipazione. Ridotta a un rito. Tuttavia, il “malessere democratico” persiste e, anzi, si acuisce. Nonostante la democrazia in-diretta, fondata sulla e dalla rete. Che, dunque, non ne è la causa, ma neppure la soluzione.

Tuttavia, non era mia intenzione riflettere sul rapporto fra democrazia e rete, sulla democrazia-della-rete. Ma, più semplicemente, interrogarmi sulle ragioni che alimentano la sfiducia – non solo politica - nella rete.   La mia risposta, al proposito, è duplice.

In primo luogo: la rete non favorisce relazioni “empatiche”. La “community” non coincide con la “comunità”. In quanto non prevede contiguità, compresenza, coabitazione. I navigatori della rete (me compreso) intrattengono molti contatti – frequenti - ma restano fisicamente “lontani” fra loro. Sempre insieme e sempre più soli. Peraltro, la rete favorisce l’incontro fra amici e seguaci, attira Like e Follower. Ma non promuove il dialogo, il confronto fra persone di diversa opinione.

In secondo luogo, la “sfiducia” – politica - in rete si alimenta perché Internet è divenuto un terreno di lotta “contro” la politica - tradizionale. Contro quel che resta dei partiti. Perché, inoltre, sulla rete e nei Social Network, come ho già detto, la comunicazione trasferisce sentimenti e valutazioni in im-mediate. Senza mediazioni. E, dunque, più esplicite.

Anche per questo la “sfiducia politica” è divenuta una risorsa della competizione politica. Ne ha fatto uso Grillo. Ma anche Renzi, agitando la clava – retorica – della “rottamazione.

Tuttavia, la sfiducia non è, necessariamente, un “vizio”. In particolare, rispetto alla politica e la democrazia. Nella tradizione liberale, al contrario, costituisce una virtù “pubblica”. Come annota Benjamin Constant (nel 1829): “Ogni buona Costituzione è un atto di sfiducia”. In quanto deve tutelare e garantire i cittadini dalle ingerenze dello Stato e degli altri poteri. Così la Rete, insieme ad altre forme di mobilitazione e di associazionismo, favorisce la vigilanza civica nei confronti del potere. E contribuisce a promuovere, quella che Pierre Rosanvallon definisce la “controdemocrazia”. È la “democrazia della sorveglianza”, attraverso cui la società, nell’era della sfiducia, esercita poteri di “controllo e di correzione”, più che di “governo e direzione”.  E questo è il suo limite.

Se poi non si riesce ad essere felici, bisogna farsene una ragione. Non si può pretendere più sfiducia (digitale) e, insieme, più democrazia, senza pagare qualche prezzo.

(18 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/01/18/news/le_virt_democratiche_della_sfiducia_digitale-76245722/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - I due leader extraparlamentari
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2014, 11:24:12 pm
Mappe - I due leader extraparlamentari

di ILVO DIAMANTI
20 gennaio 2014
   
È DA oltre vent’anni che si cerca e si promette di riformare la Repubblica. Con effetti deludenti. Perché le riforme — quelle elettorali per prime — sono sempre state fatte su spinta dei referendum o con colpi di mano. L’unica riforma costituzionale effettivamente realizzata riguarda il titolo V della Costituzione, approvata dal Centrosinistra alla vigilia delle elezioni del 2001. Per testimoniare la propria fede federalista.

L’attesa “riformatrice”, negli ultimi anni, si è, quindi, concentrata sulla legge elettorale. Sul Porcellum, approvato dalla maggioranza di Centrodestra, guidata da Berlusconi, nell’inverno del 2005. Per ostacolare la vittoria annunciata dell’Unione di Centrosinistra, guidata da Prodi, alle elezioni dell’anno seguente. Più in generale, per impedirle di governare. Perché il Porcellum, per vincere, “costringe” a costruire coalizioni ampie ed eterogenee. Così, l’attenzione politica e dell’opinione pubblica si è rivolta alla legge elettorale. Causa prima della frammentazione e, inoltre, del degrado della classe politica. Eletta in liste bloccate, senza possibilità di controllo da parte degli elettori.

Non a caso, gli sforzi di Matteo Renzi, subito dopo essere stato eletto segretario del Pd, si sono orientati in questa direzione. Ri-scrivere la legge elettorale. Riformata, di fatto, dalla Corte Costituzionale, che ha abolito il premio di maggioranza, le liste bloccate e le candidature multiple. Di più: Renzi ha condotto il percorso “riformista” per via extra-parlamentare. Negoziando, direttamente, con il principale leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi. I due leader: entrambi fuori dal Parlamento. Nel caso di Berlusconi, perché condannato in via definitiva per frode fiscale. Il negoziato, peraltro, è avvenuto nella sede del Pd. Al di là dei giudizi di merito, il metodo stesso assume, sul piano simbolico, un significato molto chiaro. Sancisce un contesto bi-personalizzato, nel quale il Capo del Post-Pd negozia direttamente con l’Imprenditore di Fi. Sulla base di progetti elaborati — e negoziati — dai tecnici di sua fiducia, insieme a quelli di Berlusconi. Ignorando il lavoro dei Saggi nominati dal Governo. L’esito, annunciato “prima” della presentazione al partito, di oggi, e della discussione in Parlamento, che partirà lunedì prossimo, è chiaro dal punto di vista della comunicazione, assai più che dei contenuti. E degli effetti.

Dal confronto fra i due leader, è emerso, anzitutto, un sistema elettorale di tipo spagnolo (almeno, a parole); dunque, un proporzionale con effetti maggioritari. Sulla base di collegi piccoli, liste bloccate “corte”. In grado, così, di saldare il rapporto fra elettori ed eletti e, al tempo stesso, favorire i partiti maggiori. Rafforzato, nel progetto di Renzi, da un premio “nazionale” (alla coalizione vincente) e da uno sbarramento (per ora, al 5%. L’8% per i partiti non coalizzati). Inoltre, i due leader hanno delineato un nuovo assetto istituzionale, in cui il Senato diventa, di fatto, Camera delle autonomie. Non eletta dai cittadini, ma, probabilmente, dagli eletti a livello locale. E, quindi, ridotta nei numeri, nei poteri (non voterà più la fiducia al governo). E nei costi. Questi appaiono i contorni della Repubblica provvisoria, tracciati dai leader dei due principali partiti. Ma soprattutto da Renzi. In sede extraparlamentare. In attesa dell’esame parlamentare.

Per questo, è difficile scindere il giudizio politico da quello sul merito istituzionale. È evidente che Renzi ha imposto il proprio primato. Sul governo oltre che sul partito. (Ma anche su Berlusconi, rientrato in gioco grazie a lui.) Il Leader del Post-Pd ha agito come Capo del governo. O forse, del post-governo. La cui maggioranza, ora, è coerente con le larghe intese originarie. Perché coinvolge direttamente Berlusconi. D’altronde, se vediamo le stime di voto più recenti (sondaggio Demos di alcuni giorni fa), è chiaro come l’asse fra Renzi e Berlusconi abbia una base elettorale solida. Il Pd è, infatti, valutato intorno al 34% e Fi al 22% (in altri termini, più del Pdl alle recenti elezioni). Insieme, superano largamente la maggioranza assoluta, fra gli elettori. Mentre i partiti di governo, insieme, non raggiungerebbero il 50%.

Naturalmente, è impensabile immaginare una maggioranza per le riforme alternativa rispetto a quella di governo. Per questo è probabile che, intorno alla legge elettorale, si possano trovare soluzioni accettabili per gli altri alleati. Per primo, il Ncd. Tuttavia, più dei contenuti, a Renzi interessano la capacità e la rapidità delle riforme, in un Paese dove le riforme sembrano impossibili. Se non con percorsi biblici.

Peraltro, per marcare l’efficacia riformatrice si affida al linguaggio. Alle “etichette”. La proposta attualmente in discussione evoca la Spagna, ma è italiana. È un post-porcellum. Un proporzionale con premio di coalizione e sbarramento. Con un numero di collegi molto più ampio e listini “corti”. Ma in Spagna non c’è bisogno di alleanze né di premi, perché il sistema è bipartitico. Mentre lo sbarramento al 3% serve a “calmierare” i collegi più ampi (Madrid e Barcellona). Più delle leggi, infatti, contano gli attori politici, la società civile. E i sistemi elettorali producono, spesso, effetti diversi da quelli previsti. Il Mattarellum, ad esempio, nel 1993 venne delineato immaginando un paese diviso in tre: la Lega al Nord, la Sinistra al Centro e i Popolari (postDc) al Sud. Poi arrivò Berlusconi… Vent’anni dopo, per questo, occorre attenzione nel ri-scrivere la Costituzione e le leggi elettorali. Il federalismo, il bicameralismo e il Porcellum (in salsa spagnola). Le leggi fondative della Repubblica vennero scritte dall’Assemblea Costituente, in circa un anno e mezzo di confronto e discussione, tra persone di orientamento diverso e opposto. Il nostro proporzionale, che oggi non funziona, ha funzionato bene nel dare rappresentanza a tutti principali attori e settori di un Paese diviso. Uscito dalla guerra (e da una guerra civile). Oggi i tempi sono molto diversi. Ma non possiamo ignorare il problema della nostra democrazia rappresentativa. Il distacco, l’estraneità, che spinge un quarto degli elettori “fuori” dal voto. E indirizza un quarto dei voti verso il M5S. Cioè: contro i partiti della Seconda Repubblica. Per scrivere le regole della Terza Repubblica, compreso il sistema elettorale, Renzi deve fare i conti anche con questa parte dell’Italia. Con questa Italia. Non solo con la sinistra del Pd. Non solo con i “piccoli partiti. Non solo con Berlusconi e Forza Italia. Deve misurarsi con l’Italia dei delusi. Con l’Italia di Grillo. Fino in fondo. Disponibile, per questo, ad affrontare la sfida referendaria. Consapevole che nessuna legge può colmare il vuoto della politica.

© Riproduzione riservata 20 gennaio 201

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/20/news/mappe_-_i_due_leader_extraparlamentari-76418746/


Titolo: ILVO DIAMANTI Lo sguardo sul mondo di Carlo Mazzacurati: alla giusta distanza...
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2014, 11:28:25 pm
Lo sguardo sul mondo di Carlo Mazzacurati: alla giusta distanza, ma con passione

Ilvo DIAMANTI

Non è facile parlare di Carlo Mazzacurati ora che non c'è più. Perché mi era facile fino a poco tempo fa, parlare con Carlo. Una consuetudine facile e gratificante. Un piacere. Fisico, emotivo e intellettuale. Perché ci univano i valori e i riferimenti. A livello sociale, personale, culturale. Era un piacere. Parlare di tante cose. E sentirlo narrare. Suggestivo nel racconto. Con le parole e con le immagini, nei suoi film e nei suoi documentari. Nelle sue storie, dove le persone e i paesaggi si equivalgono. Perché il paesaggio é un personaggio, nelle sue narrazioni svolte con la macchina da presa. Il Nordest, soprattutto. Raccontato senza enfasi. Ne era incapace. Senza indulgenza. Fuori dai luoghi comuni.

A lui piaceva il Nordest nascosto. Lontano dalla retorica. Il Veneto che respira ancora, accanto alle galassie immobiliari e di piccole imprese. I paesi e gli spazi aperti sul delta del Po. Dove ambientare e narrare storie di vita e di morte. Di straordinaria normalità e di ordinaria drammaticità. Come in Notte italiana. Il suo primo film, che ho amato e conosciuto prima di conoscere lui. Anche se, quando ci siamo incontrati, complici amici comuni, è come lo avessi conosciuto da sempre. Perché è come i paesaggi e i personaggi dei suoi film. Come nella Giusta distanza, un saggio straordinario sul metodo attraverso cui guardare e leggere il mondo intorno a noi. Un metodo di cui Carlo ha fatto uno stile di vita. La giusta distanza. I legami forti e gli affetti, la famiglia per prima. Gli amici. E poi la distanza dai salotti, dai circuiti che contano. Carlo è sempre stato marcato dalla sua provincialità. Voluta e vissuta. Tra i suoi luoghi di vita. Tra Padova e Bolgheri.

Eppure la giusta distanza non gli impediva di coinvolgersi e di spendersi. Anzi, lo incitava a prendere parte. Oltre le convenzioni e oltre i luoghi comuni. Perché lui, Mazzacurati, è conosciuto come un grande narratore di storie del Nordest. Anzi: del Nordest. Ma il suo Nordest è lontano e diverso da quello della retorica leghista e anti leghista. Non è la piccola patria del micro capitalismo possessivo, dei poareti divenuti siori, dei capannoni e dei campanili schierati contro Roma Ladrona. Il suo Veneto echeggia quello di Meneghello, Rigoni Stern e Zanzotto. Che egli ha raccontato, fatto parlare, insieme a Marco Paolini.

A Carlo piaceva la quotidianità, le storie che diventano storia. La periferia che entra nel mondo. Perché provincialità non significa provincialismo. E i confini esistono per delimitare la tua identità e, al tempo stesso, per poterli superare. Soprattutto in nome di una "buona causa". Come quella del Medici per l'Africa, il Cuamm. L'Associazione padovana che promuove è organizza la presenza di medici e personale sanitario negli ospedali di zone difficili dell'Africa. Un ponte fra il Nordest e l'Africa. Il Nordest in Africa. Fuori da ogni luogo comune. Oltre ogni stereotipo, che vorrebbe il Veneto e i veneti egoisti e localisti. Contro tutto ciò, l'esperienza del Cuamm, raccontata da Mazzacurati, testimonia la normalità dell'impegno. Osservata e proposta "alla Giusta distanza".

È la lezione che ho appreso in tanti anni trascorsi accanto a lui. E ora che se n'è andato già mi manca molto. E mi mancherà di più in seguito. Impossibile dimenticarlo. Sostituirlo. Anche perché la sua presenza continuerà a farsi sentire. Nel paesaggio sociale, oltre che naturale, che mi circonda. Che io osservo con quella "Giusta distanza" e "passione", che ho appreso da lui.

(23 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/01/23/news/lo_sguardo_sul_mondo_di_carlo_mazzacurati_alla_giusta_distanza_ma_con_passione-76731350/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Letta e Renzi, quasi nemici
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2014, 04:38:54 pm
Letta e Renzi, quasi nemici

di ILVO DIAMANTI
   
È DIFFICILE raccontare la politica con le tradizionali categorie dell'analisi politica. Della politologia. Osservare quel che avviene oggi come fosse ieri, non dico ieri l'altro. Perché oggi anche ieri è passato. Il Passato.

Perfino i partiti personali, il partito del Capo (tratteggiati da Mauro Calise e Fabio Bordignon) rischiano di invecchiare in fretta. Raccontare la politica, oggi, significa, infatti, parlare delle Persone e dei Capi. "Senza" i partiti. Personali o impersonali: non importa. Così le cronache riguardo alla complessa vicenda della legge elettorale si riassumono nel rapporto personale - e contrastato - fra Renzi e Letta. Matteo ed Enrico. Quasi amici. O meglio: quasi nemici (come pensa quasi metà degli italiani, secondo un sondaggio Ipsos). Uniti o, forse, divisi, dalla comune appartenenza a un "partito ipotetico" (per echeggiare Edmondo Berselli). Il Pd. Un "quasi partito".

Matteo ed Enrico. Così vicini eppure così lontani. Appartengono a generazioni contigue, ma non comunicanti. Letta: ha quasi cinquant'anni. Ha fatto politica fin da giovane, perché i partiti, quando aveva vent'anni, c'erano ancora. La Dc, in particolare, dove ha "militato" fin da piccolo. E dove ha imparato la politica come arte della mediazione e del compromesso. Certo, negli anni Ottanta i partiti di massa stavano perdendo le masse per strada. Resistevano le classi dirigenti. Quella stagione è definitivamente crollata nel 1989. Insieme al muro di Berlino. Insieme al referendum del 1991 "contro" la preferenza multipla e "contro" la partitocrazia. Letta, dunque, è un post-democristiano. In seguito: popolare, ulivista, democratico. Affezionato al voto di preferenza. A trent'anni era già al governo. Dove è rientrato in successive occasioni. Fino ad oggi. Premier di un governo che dispone di una maggioranza parlamentare incerta e di una minoranza elettorale certa. Espresso da un partito, in parte ostile. E diviso. Ipotetico.

Anche perché è guidato da un Capo che del partito non si occupa più di tanto. Renzi: eletto segretario, due mesi fa, alle primarie, con una maggioranza travolgente. Dopo essere stato sconfitto giusto un anno prima da Bersani. Portabandiera di un partito "vero". Radicato e cresciuto nel secolo delle ideologie e della partecipazione di massa. Ultimo atto della storia della Prima Repubblica, a cui la sinistra italiana è rimasta fedele. Fino, appunto, alle elezioni di febbraio. Quando è divenuta evidente l'impotenza di un partito impersonale di fronte ai partiti personali vecchi e nuovi: Pdl e M5S. E ai loro leader. Berlusconi e Grillo. Diversi e opposti, ma entrambi leader senza partiti. Oppure non-partiti, come Grillo ha definito il M5S.



Così, dopo il voto, il Pd si è arreso a Renzi. Che ha accettato di guidarlo per non averlo contro. Anche se lui, ai partiti - tradizionali o riformati - non ci crede proprio. Questione di generazione politica. Se Letta ha "quasi" cinquant'anni, Renzi ne ha "quasi" quaranta. Quando è crollato il muro, Renzi aveva appena finito le medie. E i partiti erano nella bufera. Delegittimati e deboli. Pochi anni ancora e sarebbero stati travolti da Tangentopoli. Così, Berlusconi "scendeva in campo". E occupava il vuoto politico lasciato dai partiti. Con le sue televisioni, i suoi esperti di mercato, le sue risorse, il suo stile di comunicazione. Imponeva il modello della "politica come marketing". Accanto al suo partito personale. Renzi, allora, era appena divenuto maggiorenne. I "movimenti politici giovanili" appartenevano alla storia del passato. Come i partiti, la Resistenza. E il Risorgimento. Nel 1996, Renzi diventava partigiano del Partito dell'Ulivo (non "dei partiti"), alternativo al Partito personale di Berlusconi. Prodiano, insomma. Mentre Letta entrava nel primo governo Prodi, come ministro. Il più giovane della storia della Repubblica. Enrico e Matteo, Matteo ed Enrico.

Così vicini eppure così distanti e diversi. Per storia, tradizione, stile. Separati in casa. D'altronde, la Casa comune attualmente non c'è. Il Pd rammenta, piuttosto, un campeggio, come quelli degli scout, dove Matteo si è formato. Molte tende con molte persone. Pochi confini. Itinerari e programmi decisi giorno per giorno. Il gusto della scoperta. L'importanza del Capo che decide e indica il percorso. D'altronde, è ciò che oggi chiede e si attende il Paese. Quasi il 70% degli italiani, infatti, è d'accordo con l'opinione secondo cui, in questo clima di confusione, "ci vorrebbe un uomo forte alla guida del Paese" (Sondaggio Demos, gennaio 2014).

Un Uomo Forte. Una formula inquietante, vista la nostra storia. Ma non ce n'è motivo. Perché coloro a cui piace questa idea non mettono in discussione la democrazia ("il migliore dei sistemi possibili", per quasi i tre quarti di essi), ma, piuttosto, i partiti e il Parlamento. Cioè: gli attori della democrazia rappresentativa. Incapaci di decidere. E di generare passione. Per questo la vicenda della legge elettorale diventa importante. Perché chiama in causa il "principio" della Democrazia rappresentativa. Il voto. Matteo, coerentemente con lo spirito del tempo, recita la parte dell'Uomo Forte. Intende, cioè, segnare la fine della Seconda Repubblica e avviare l'era post-berlusconiana con il consenso (la sottomissione?) di Berlusconi. Attraverso una riforma che intende (e deve) realizzare in fretta. Perché prima e più dei contenuti contano il risultato e i tempi. Il messaggio. L'immagine di Matteo, l'Uomo Forte in grado di decidere, in pochi mesi, ciò di cui si parla senza esito da molti anni. Il Partito, per questo, diventa un mezzo. È il post-Pd, senza bandiere. Al suo servizio. Anche il governo, il Parlamento, devono seguire Matteo. Difficile che ciò possa avvenire senza tensioni e senza strappi. Che "gli altri (piccoli) capi" del Pd (e non solo) si accodino. Ma, soprattutto, che Letta si adegui. È una questione di ruolo e di cultura politica. Ma, prima ancora, di storia e di profilo personale. Così Enrico cercherà di disseminare il percorso di Matteo con trappole e intoppi. Per ritardarne la marcia. Visto che il tempo è la risorsa simbolica dell'Uomo Forte. E Matteo vuole fare in fretta. Per questo, nei prossimi giorni, attendiamoci altre tensioni. Altri conflitti. Enrico e Matteo. Quasi nemici. Ne resterà soltanto uno.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/27/news/letta_renzi_quasi_nemici-77009788/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_27-01-2014


Titolo: ILVO DIAMANTI - La fine dell'Italia del ceto medio. La piccola borghesia si ...
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 04:53:56 pm
La fine dell'Italia del ceto medio. La piccola borghesia si sente povera

Mappe. Così la crisi ha fatto inceppare l'ascensore sociale

di ILVO DIAMANTI
   
È finita un'era, in Italia. Ha segnato la società e l'economia e, quindi, anche la politica. È l'era dei ceti medi, che ha marcato la crescita del Paese, dopo gli anni Ottanta. Quando lo sviluppo economico ha cambiato geografia e localizzazione produttiva.

Dalle grandi fabbriche delle metropoli del Nord si è spostato nelle piccole aziende del Nordest - e dell'Italia centrale. Giuseppe De Rita, con il suo linguaggio immaginifico, negli anni Novanta, aveva definito questa tendenza: "cetomedizzazione". Un processo antropologico, oltre (e più) che socioeconomico. Si spiega attraverso "l'innalzamento di coloro i quali erano alla base della piramide e lo scivolamento di una parte della vecchia elite". In altri termini, a partire dagli anni Ottanta, si è assistito al declino della borghesia urbana e industriale, peraltro, in Italia, tradizionalmente debole. E al parallelo affermarsi di una piccola borghesia, diffusa nel mondo delle piccole imprese e del lavoro autonomo. Distante e ostile rispetto allo Stato e alla politica. Educata ai valori della competizione individuale e, meglio ancora, dell'individualismo possessivo, per citare Macpherson. Questa realtà socio-economica si è trovata, a lungo, sprovvista di rappresentanza. Non gliela potevano, certamente, dare i partiti di massa della Prima Repubblica, DC e PCI. Integrati nello Stato e nel sistema pubblico. Nelle reti comunitarie del territorio. Nel sistema assistenziale.

… Grafici su repubblica.it

La "cetomedizzazione" ha, invece, trovato risposta dapprima nella Lega Nord. Nata e cresciuta, appunto, lungo la linea pedemontana, dove, fin dagli anni Ottanta, si è affermato lo sviluppo di piccola impresa. Sul solco della Lega e nel vuoto di rappresentanza lasciato dai partiti della Prima Repubblica si è proiettato, Silvio Berlusconi. Che ha offerto ai ceti-medi: volto, linguaggio. Identità. Berlusconi: l'Imprenditore in politica. Che fa politica. Al posto dei politici di professione. Contro di loro. Trasforma la politica in marketing. Il partito in impresa. La propria impresa in partito. Berlusconi: ha dato rappresentanza alla neo-borghesia, con basi e radici nel Lombardo-Veneto. Condividendo la "missione" della Lega. Anche se, alla fine, ha garantito soprattutto se stesso e i propri interessi. Berlusconi: ha trasformato il ceto medio nella "società media", il "pubblico" con cui comunicare e a cui fornire identità attraverso i media. Mentre gran parte degli italiani confluiva nell'ampio e indistinto bacino dei "ceti medi". Ancora nel 2006 quasi il 60% della popolazione (indagine Demos-Coop) si auto-collocava tra i ceti medi. Il 28% nelle classi popolari (i ceti medio-bassi). Il 12% nelle classi più elevate. L'Italia media aveva radici profonde impiantate nel Nord e basi solide tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti (questi ultimi, però, posizionati più in alto). Anche il 60% degli operai, allora, si sentiva "ceto medio".

Poi è arrivata la crisi. Economica e politica. Ha scosso, con violenza, le basi del ceto medio. Ne ha indebolito la condizione e, al tempo stesso, il sentimento, l'auto-considerazione. Ne ha accentuato il senso di vulnerabilità. Lo stesso, d'altronde, è avvenuto altrove. Anche negli USA, come mostrano le indagini di PEW Research Center, la quota di coloro che si identificano fra i ceti medi dal 53% nel 2008 cala al 44% nel 2014. Poco più di quanti si (auto) posizionano nei ceti più bassi: 40%. Quasi il doppio rispetto al 2008. Anche e forse soprattutto per questo motivo Obama ha promosso il suo piano di incentivi all'occupazione e all'economia. Tra cui l'innalzamento delle retribuzioni minime di alcune categorie di dipendenti federali. Per alimentare i consumi, ma anche per contrastare il senso di deprivazione relativa che spinge verso il basso le aspettative di mobilità sociale.

In Italia, però, questo processo è avvenuto in modo molto più rapido e sostanziale. L'ascensore sociale, in pochi anni, si è inceppato. E oggi la maggioranza assoluta degli italiani ritiene di essere discesa ai piani più bassi della gerarchia sociale (Sondaggio Demos-Fond. Unipolis). Coloro che si sentono "ceti medi" sono, infatti, una minoranza, per quanto ampia. Poco più del 40%. Così, l'Italia non è più cetomedizzata. È un Paese dove le distanze sociali appaiono in rapida crescita. Tanto che l'85% della popolazione (sondaggio Demos-Fond. Unipolis) oggi ritiene che "le differenze fra chi ha poco e molto siano aumentate".

Non è un caso che questa dinamica abbia coinvolto, in modo particolarmente intenso, le basi e il terreno originario della neoborghesia. I lavoratori autonomi: meno del 40% di essi si considera "ceto medio". Oltre il 50%, invece, si percepisce di classe medio-bassa. La stesse misure si osservano nel Nord. La cui distanza sociale, rispetto al Mezzogiorno, sotto questo profilo, appare molto ridotta. Anzi, il peso di coloro che si auto-posizionano in fondo alla scala sociale, nel Nordest (55%) - "patria" della neo-borghesia autonoma - è superiore rispetto al Sud (53%). Gli operai, infine, sono tornati al loro posto. In fondo alla scala sociale (63%).

È il declino dell'Italia media e cetomedizzata. Segna il brusco risveglio dal "sogno italiano" interpretato dal berlusconismo. Poter diventare tutti padroni (almeno, di se stessi). Ciascuno nel proprio piccolo (o nel proprio grande). Mentre le questioni territoriali sembrano svanire. E si sente parlare sempre meno della Questione Settentrionale, ma anche di quella Meridionale. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, si afferma una forza politica, i cui consensi sono distribuiti in modo omogeneo in tutto il territorio italiano. Alimentati e unificati dalla sfiducia verso lo Stato e verso la politica. E dalla delusione sociale. Non è un caso che, tra le principali forze politiche, il M5s sia quella dove si osserva la maggiore quota di elettori che si identificano con i ceti più bassi (quasi il 60%) e, per contro, la minore quota di chi si sente ceto medio (39%).

Il declino del ceto medio lascia un Paese senza sogni, incapace di sognare. Dove le distanze sociali hanno ripreso a crescere, mentre il territorio affonda nelle nebbie. Soprattutto il Nordest, capitale della neoborghesia autonoma.
Il declino del ceto medio, in Italia, definisce - e impone - una questione "nazionale" che nessuna riforma elettorale potrà risolvere.
 
© Riproduzione riservata 03 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/03/news/la_fine_dell_italia_del_ceto_medio_la_piccola_borghesia_si_sente_povera-77561594/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Matteo pié veloce e i tempi lunghi della politica
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2014, 05:06:05 pm
Matteo pié veloce e i tempi lunghi della politica

di ILVO DIAMANTI
   
SONO passati poco più di due mesi dall’elezione di Matteo Renzi alla guida del Pd. E non è ancora chiaro cosa intenda fare, il segretario, nel futuro che incombe. Se continuare, ancora a lungo, in questo ruolo, oppure indurre Enrico Letta a farsi da parte.

Indurlo a spostarsi, magari, ad altro incarico, preferibilmente fuori dall’Italia — per assumerne l’incarico di premier.
Oppure spingere verso elezioni anticipate. Dipenderà, sicuramente, anche dall’esito della marcia a tappe forzate condotta per realizzare le riforme istituzionali. La riforma elettorale, per prima. Poi quelle costituzionali, che richiedono procedure più complesse. Verranno approvate anch’esse dal Parlamento. Con ragionevole rapidità. Perché viviamo tempi veloci.

E Renzi è l’uomo dei tempi veloci. Dei fatti veloci. D’altronde, agli italiani, questo atteggiamento piace. Non per caso Renzi, oggi, è, di gran lunga, il più apprezzato fra i leader. Politici e istituzionali. Quasi il 60% degli elettori (secondo Ipsos) gli attribuisce un voto da 6 in su. L’85%, fra gli elettori del Pd. Ma lo valuta positivamente anche quasi uno su due tra gli elettori degli altri partiti (Pdl e M5s compresi). In altri termini: Renzi dispone di un consenso “trasversale”. Più di ogni altro leader in Italia. Il suo consenso “personale”, peraltro, si trasferisce sul partito. Dal 25%, ottenuto alle elezioni di un anno fa, è risalito ampiamente, nelle stime di voto (secondo Demos, oltre il 33%). Peraltro, è il partito verso il quale gli elettori di forze politiche “concorrenti” mostrano maggiore simpatia (33%).

Naturalmente, questi caratteri, oltre che punti di forza, potrebbero costituire dei rischi, se non dei limiti. Come avevamo osservato anche in passato (nel maggio 2013), tratteggiando una fenomenologia del renzismo. Un sentimento esteso. Da destra a sinistra, passando per il centro. Allora, come ora, il problema mi pareva e mi pare lo stesso. Troppe simpatie rischiano di non attecchire, di non radicarsi. Di non consolidarsi, perché fin troppo “personalizzate”. E di sollevare, invece, troppe attese. Che, se disattese, potrebbero, a loro volta, provocare delusione.

La personalizzazione stessa del consenso potrebbe, a sua volta, indebolire il Pd. Soprattutto se il leader si impone oltre i confini del partito. Come sta facendo Renzi. Che agisce in proprio, da solo, attento a marcare la propria specificità. Come leader del post-Pd. O meglio (peggio?): leader senza partito. Perché un partito è, comunque, una “parte”, mentre lui si rivolge a tutti. Tutti. Come alle primarie, nelle quali votano non gli iscritti ma gli elettori — reali e potenziali. D’altronde, alla Convention della Leopolda 2013, come in altre occasioni, Matteo Renzi non ha voluto bandiere di partito. Le insegne e i vessilli del Pd. Rottamati. Renzi: interpreta la parte del leader im-politico. Perfino antipolitico. Lui, il Rottamatore dei leader e degli attori politici: della Prima e della Seconda Repubblica. Non guarda in faccia a nessuno. Destra e sinistra non gli interessano. Tanto meno il centro. Che, non a caso, è scomparso.

D’altra parte, alle elezioni di un anno fa, si è affermato il M5s. Un soggetto politico nuovo, con un’identità politica e una geografia prive di specificità. Intercetta voti a destra — un terzo — a sinistra — un terzo — e il resto — ancora un terzo — da “fuori”. Dai delusi della politica. E poi, ha preso voti dovunque, in modo omogeneo. Nord, Centro e Sud. Ecco: neppure Renzi ha una geografia e neppure uno spazio politico. Tantomeno un’ideologia. O meglio, la sua ideologia è la velocità. È il leader dei tempi veloci. Dei fatti veloci. Perché questo è un tempo veloce. Che rende insopportabili i tempi lunghi della politica italiana. Incapace di decisioni.

La Prima Repubblica: quasi cinquant’anni senza alternanza. Stessi partiti e stessi leader, stessi parlamentari. Al governo e all’opposizione. La Seconda Repubblica, fondata da Berlusconi sulle macerie di Tangentopoli, ha dato l’impressione del cambiamento. Berlusconi. Ha tradotto e riassunto i fatti in parole. E in immagini. Più che l’uomo dei “fatti”, è l’uomo che dice di fare. Vent’anni in attesa di riforme costituzionali, istituzionali e poi economiche e sociali. Annunciate, proclamate. E sempre eluse, deluse. Oppure imposte con colpi di mano. Fino a costruire questa bizzarra Repubblica preterintenzionale. Fondata sul caso e sui veti.

Per questo i “fatti” in sé, per questo la “velocità” in sé: marcano fratture rispetto al passato. Renzi ne ha colto il segno e lo interpreta, con piena convinzione e in modo convincente. Non è l’uomo della Provvidenza, che evoca il futuro, un disegno definito e condiviso. Ma dell’Urgenza. Perché il futuro è “adesso”, come recita il suo slogan in occasione delle Primarie del 2012. Renzi. Assistito dai “suoi” consiglieri e dai “suoi” tecnici, tratta direttamente con l’anziano leader dell’opposizione. Anche se indagato e condannato. Non importa. Anzi, meglio. Tra lui e Berlusconi, nel confronto: non c’è partita. Renzi. Costringe governo e Parlamento a (in) seguirlo. Ad adeguarsi ai suoi tempi. Veloci. E se c’è contrasto con il capo del governo, suo compagno di partito, meglio. Così appare più evidente la sua autonomia da tutti. I contenuti e gli effetti delle riforme, in realtà, sono importanti, ma neanche troppo. L’importante è “fare” le riforme. In tempi veloci. Dopo anni di discussioni inutili. D’altronde, fra pochi mesi si vota. Per l’Europa. Dunque, anche per l’Italia. Per — o contro — il post-Pd di Renzi. Perché in Italia non ci sono voti che non abbiano risvolti politici interni.

Due mesi dopo la sua elezione, dunque, Renzi agisce come “il” Capo. Del governo oltre che del post-Pd. Egli è dovunque e comunque. Affiancato — e assecondato — dall’opposizione. Perché Grillo e il M5s, in fondo, echeggiano e moltiplicano lo stile renzista. La loro mobilitazione continua e martellante, fuori e soprattutto dentro il Parlamento, rende difficile cogliere motivi e contenuti. Così, appaiono protagonisti di un happening neo-futurista. Permanente. E, più che presente, istantaneo.
Ecco, io penso che il successo di Renzi rifletta questo clima e questa domanda di senso in tempi senza senso. Renzi. È l’uomo dei tempi veloci in questi tempi veloci. Tanto veloci che anch’io, lo ammetto, mi sento in ritardo.

© Riproduzione riservata 10 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/10/news/matteo_pi_veloce_e_i_tempi_lunghi_della_politica_di_ilvo_diamanti-78157495/?ref=HREC1-4


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il governo personale che corre veloce
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 05:50:29 pm
Il governo personale che corre veloce

di ILVO DIAMANTI
   
Il governo presieduto da Renzi contrasta violentemente con il precedente, presieduto da Letta. Per diverse ragioni. La prima, esplicita, riguarda il modo in cui è nato. Uno "strappo" personale. Subìto da Enrico Letta, ma anche da Napolitano, che aveva ispirato e tutelato il premier uscente. In qualche misura, questo è un governo del Presidente, in cui il ruolo presidenziale, però, non è più interpretato dal presidente della Repubblica, ma dal presidente del Consiglio.

Matteo Renzi, appunto. Perché questo è il "suo" governo. Non quello di Napolitano. Ma neppure di altri leader: del Pd e dei partiti alleati. La lista dei ministri, per questo, conta, ma non troppo. In parte riproduce lo schema del governo precedente. Per qualità complessiva, a mio avviso, non è migliore. Ma poco importa. In fondo, i due precedenti governi, sostenuti da maggioranze simili, non hanno prodotto i risultati promessi. L'esperienza del governo dei tecnici, presieduto da Monti, anzi, ha contribuito al risultato elettorale di un anno fa. Quando, appunto, nessuno ha vinto. Se non il M5s: il partito degli antipartito. Che ha proseguito lungo il medesimo percorso anche in Parlamento. Come ha dimostrato, plasticamente, il confronto in streaming fra Grillo e Renzi.

La seconda differenza, rispetto all'esperienza precedente, riguarda la composizione e, soprattutto, la natura della maggioranza. Il governo delle larghe intese era fondato sull'emergenza e sull'equilibrio. Dunque, sulla "stabilità". Non era il governo "di" Letta, ma un puzzle complesso, affidato all'opera di composizione del premier (... inter pares), sotto l'occhio vigile di Napolitano.

Oggi il quadro è molto diverso. Anzitutto, la maggioranza parlamentare è cambiata. Il Pdl non c'è più. Berlusconi è all'opposizione, ma dialoga con Renzi, sulle riforme istituzionali. Il Centro è in briciole. Il Pd è attraversato da tensioni, ma è, di gran lunga, il partito più forte e unito. Dopo le primarie, in particolare, ha visto crescere i consensi e ha un leader forte. Fin troppo, magari. Così, il governo che nasce non ha un programma definito, ma una serie di obiettivi da perseguire in fretta. Per primi: la legge elettorale e le leggi istituzionali. Poi, la crescita economica, l'occupazione dei giovani, la riduzione delle tasse, la sburocratizzazione della pubblica amministrazione. In effetti, il vero programma del governo Renzi è di auto-legittimarsi. In Parlamento e di fronte agli elettori. E, per questo, si propone di "fare" le riforme. Al di là dei contenuti: portarle ad approvazione. In modo veloce. Una riforma al mese. Perché questo è il marchio di Renzi: la velocità. E perché è il segno dei tempi. Veloci. Dove gli esami non finiscono mai. Ma cominciano in fretta. Il primo, importante: fra tre mesi giusti. Le elezioni europee. Dove il premier e segretario del Pd misurerà il proprio peso politico "personale". Un'occasione di verifica determinante. Per tutti: partiti e antipartiti; maggioranza, opposizione e M5s, che si oppone alla maggioranza e all'opposizione. Poi si vedrà. Di certo, questo non è un governo a tempo. Perché non ha una missione precisa, se non governare e, in questo modo, rafforzarsi.

L'altro elemento che caratterizza il programma di Renzi è "comunicato", con efficacia, dalla composizione del governo. Dalla biografia e dalla storia dei suoi ministri. Con qualche eccezione (Per tutti: Pier Carlo Padoan, indicato da Napolitano e dalla Ue), si tratta di giovani, di età e, spesso, di esperienza. Scalfari, nell'editoriale di ieri, l'ha definito, per questo, un governo "pop". A me, piuttosto, pare il "suo" governo. Un governo "personale". Dove l'unica figura e l'unica immagine che conti è la sua. E lo stesso vale dal punto di vista politico. Perché nel progetto di Renzi non c'è distanza eccessiva tra la maggioranza parlamentare e il partito. Fra il governo e il Pd. D'altronde, Renzi è il leader del Pd, per volontà degli elettori e dei simpatizzanti. Il Pd: l'unico vero partito rimasto in Parlamento e nel Paese. Gli altri navigano intorno a lui, in Parlamento. E, fra gli elettori, non hanno grande fondamento. Mentre, a destra, c'è un'opposizione debole. Quanto a Fi: è difficile per Berlusconi essere credibile, agli arresti domiciliari. E c'è il sospetto (e qualcosa di più...) che Renzi dialoghi con lui, anzitutto, per sottrargli elettori. Mentre la sfida antisistema del M5s potrebbe indebolirsi se non producesse risultati evidenti.

D'altronde, alla "durata" del governo di Renzi contribuisce la resistenza di gran parte dei parlamentari di fronte all'ipotesi di tornare al voto. Visto che oltre la metà di essi è di prima nomina e, con il Porcellum "emendato" dalla Corte Costituzionale, pochi di loro avrebbero la garanzia di essere rieletti.

Tutto ciò, in fondo, rischia di agevolare il compito di Renzi. Rafforzato dalla debolezza degli altri. E non è da escludere che, strada facendo, potrebbe trasformare questa maggioranza politica nel "suo" soggetto politico. Post-ideologico, post-comunista, post (e un poco neo) democristiano e post-berlusconiano. Infine. Post-moderno (come suggerisce Fabio Bordignon in un saggio su SESP). Il Post-Pd. Il partito Renziano. Raccolto intorno a un leader "nuovo" che raccoglie consensi personali crescenti, al di là e nonostante le sue azioni politiche. Come l'operazione ai danni di Letta. Non è piaciuta alla maggioranza degli elettori, ma la fiducia in Renzi, negli ultimi giorni, è salita lo stesso, raggiungendo il 60% (dati Ipsos). Il fatto è che gli elettori non si fidano più dei partiti e neppure delle istituzioni. Per cui tendono a personalizzare tutto. Anche e soprattutto le loro speranze. E oggi, dopo Monti, Bersani e Letta, finito il tempo dei tecnici e dei partiti, si affidano a un Capo che non si fida molto dei tecnici e neppure dei politici e dei partiti. Anche se (e proprio perché) pare faccia opposizione anche se sta al governo. Quasi che non c'entrasse con quel mondo.

Il futuro di Renzi e del "suo" governo, dunque, appare molto incerto. Perché così è il futuro: incerto. E ogni scenario possibile dura l'arco di qualche giorno al massimo. Tuttavia, Renzi corre veloce, in tempi molto veloci. Non impiegheremo molto a capire se avrà un futuro. E che futuro avrà. Lui, il governo, il Parlamento. Il Paese.

© Riproduzione riservata 24 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/24/news/il_governo_personale_che_corre_veloce-79473423/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Renzi e il mito dei giovani al governo
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2014, 05:49:29 pm
Renzi e il mito dei giovani al governo

Ilvo DIAMANTI

È singolare. In un Paese sempre più vecchio, dove i giovani sono perlopiù precari. E quando possono, se possono, se ne vanno via. Perché, come pensano due terzi gli italiani e quasi 8 giovani su 10, per fare carriera occorre migrare, andarsene altrove. Ebbene, in questo Paese vecchio, dove a quarant’anni ci si sente e si è considerati ancora giovani. E dove ci si definisce vecchi solo dopo aver compiuto 84 anni.  In questo Paese, in Italia, è stato varato un governo di giovani. Guidato dal Presidente del Consiglio più giovane della storia repubblicana. Certo, anche Enrico Letta era giovane. Anzi, molto giovane, rispetto agli standard della politica italiana. Ma ha 10 anni di più. Ma, soprattutto, per lui vale quel che, a volte, i miei figli suggeriscono al mio riguardo (non senza ragione). Che a 18 anni è come ne avessi già avuto 40. A 18 anni, secondo loro, ero già vecchio.

Matteo Renzi, invece, è giovane. Per stile e per immagine. Oltre che di età e per biografia politica personale. È arrivato alla guida del governo senza essere stato eletto in Parlamento. Senza aver conosciuto la Prima Repubblica. Nel 1992, mentre infuriava Tangentopoli, Renzi aveva 17 anni. Non era ancora maggiorenne. E oggi è spietatamente giovane. Ostenta la sua frattura generazionale, senza indulgenza per i “vecchi” politici. Da rottamare senza tanti problemi. Li sfida a viso aperto, le mani in tasca, in modo sfacciato, mentre parla al Senato, prima del voto di fiducia. Renzi. Giovane, in mezzo ai giovani.

Il suo governo, è composto di giovani. Con poche eccezioni. Per primo Pier Carlo Padoan, il garante dell’economia verso la UE. Anch’egli, peraltro, politicamente “giovane”. Poi mi viene in mente Franceschini. Gli altri ministri, perlopiù, hanno poca esperienza istituzionale e un cursus honorum corto. E, per questo, sono poco conosciuti, se non, perfino, sconosciuti. Anche a me, almeno, che mi occupo di politica, ma non passo il tempo a consultare la Navicella, dove vengono proposte le note biografiche degli eletti al Parlamento. Per rispetto nei confronti degli interessati, non faccio nomi. Anche perché, lo ammetto, di alcuni di essi non conosco le opere né i giorni. E neppure i nomi… Non so se questo sia un problema solo mio. Non so neppure se sia un problema. In fondo, si continua a recriminare contro la gerontocrazia che regola il nostro mondo. Io stesso ho scritto invettive contro il Paese che fa fuggire i suoi giovani. E non è in grado di richiamarli, di farli tornare a casa.

D’altronde, tre anni di governi affidati ai tecnici e agli esperti non è che abbiano prodotto risultati clamorosi. Non vorrei, tuttavia, apparire come l’ipercritico di professione, a cui non va mai bene nulla. E contesta oggi quel che ieri auspicava. Non vorrei. Però un po’ di misura, di equilibrio, in questo Paese, pare impossibile da ottenere. Tutto tutto niente niente, per citare quell’osservatore acuto – e acuminato - della nostra società che si chiama Antonio Albanese. Per dirla in altro modo: tutti vecchi o tutti giovani. Senza mediazioni.

Eppure, a rischio di apparire impopolare e in contraddizione con me stesso, io credo che qualche “vecchio”, qualche tecnico o, almeno, qualche esperto, oppure, meglio ancora, qualche politico esperto e sperimentato, alla guida del Paese. Nel governo e nei gruppi dirigenti. Non ci starebbe male. Perché l’esperienza, perfino l’età, possono servire, in qualche occasione. In qualche misura. Tanto più e soprattutto in mezzo a tanti giovani. Qualche faccia nota, qualche capitano di lungo corso, in mezzo a tanti giovani marinai, potrebbe essere utile. A me, che ormai ho un’età, offrirebbe rassicurazione. Mi farebbe sentire un po’ meno vecchio (non giovane, per carità). Meno estraneo.

E poi, in fondo, se il governo dovrebbe offrire uno specchio al Paese, del Paese, c’è il serio rischio di confondersi. Di non riconoscersi. Una classe dirigente così giovane e nuova, un governo così giovane e nuovo, un premier così giovane e nuovo, in un Paese così vecchio, con una gioventù così precaria, con gli occhi e la testa rivolti altrove. Che cosa c’entrano? Perché è giusto voltare pagina, assecondare la domanda di cambiamento. Svecchiare e rottamare. E io sono disponibile a fare la mia parte. Cioè, a farmi da parte. (Mi costerebbe poco: non ho incarichi pubblici di alcun tipo.) Ma, per costruire il futuro, non possiamo abolire il passato. Se non vogliamo ridurci a inseguire il presente. A ogni costo.

(25 febbraio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/02/25/news/renzi_e_il_mito_dei_giovani_al_governo-79565742/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La promessa di una riforma al mese convince 6 elettori su 10
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2014, 05:33:00 pm
Fiducia al 56% per il governo Renzi: uno su tre crede che arriverà al 2018
L'Atlante Politico. La promessa di una riforma al mese convince 6 elettori su 10

di ILVO DIAMANTI
03 marzo 2014
   
All'indomani della fiducia, ottenuta alle Camere, Renzi e il suo governo procedono spediti. Sostenuti da un elevato livello di consenso. Ma, al tempo stesso, da una diffusa consapevolezza circa le difficoltà e i rischi che li attendono.

Oltre il 56%, degli elettori, secondo l'Atlante Politico di Demos, attribuisce loro - a Renzi e al governo - un giudizio positivo. Pari o superiore a 6. Non è poco, visto che si tratta del terzo governo negli ultimi tre anni. Da quando Mario Monti, nel novembre 2011, subentrò a Silvio Berlusconi. L'arrivo di Monti, allora, apparve la fine di un incubo. Il suo, non a caso, resta il governo più stimato, al momento dell'incarico. Anche se, un anno dopo, la delusione travolse anche lui.
Fiducia al 56% per il governo Renzi: uno su tre crede che arriverà al 2018

 TUTTI I DATI E I GRAFICI DEL SONDAGGIO su:
http://www.repubblica.it/politica/2014/03/03/news/fiducia_al_56_per_il_governo_renzi_uno_su_tre_crede_che_arriver_al_2018-80065936/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_03-03-2014

Matteo Renzi, invece, ha rimpiazzato Enrico Letta alla guida del governo, nelle scorse settimane, dopo tensioni interne alla maggioranza e, per primo, al Pd. Con un'accelerazione che non è piaciuta agli stessi elettori di centrosinistra. Eppure il consenso a favore del governo e, a maggior ragione, del Premier appare molto ampio. La fiducia personale nei confronti di Renzi, infatti, supera il 64%. Ma è interessante osservare come il più apprezzato, dopo di lui, resti proprio Letta (52%). D'altronde, la quota di chi valuta il governo Renzi migliore del precedente, guidato da Letta, non è maggioritaria. Misura, infatti, intorno al 44%, mentre oltre un terzo degli elettori li giudica più o meno equivalenti.

La considerazione di cui ancora dispone Letta appare, in qualche misura, un riconoscimento e, forse, anche un "risarcimento" di fronte al - discusso - finale del suo governo. Ciò, però, rende ancor più significativo il grado di fiducia personale nei confronti di Renzi. (Che, fra i "simpatizzanti" di Letta, sale all'85%.) E ne suggerisce la ragione, forse, più importante. La domanda di "autorità". La richiesta di guida e di rappresentanza che ampia parte della società ha, ormai, trasferito dai partiti alle persone. Tanto che, lo rammentiamo, quasi il 70% degli italiani si dice d'accordo con l'opinione secondo cui, in questo clima di confusione, "ci vorrebbe un uomo forte alla guida del Paese" (Sondaggio Demos, gennaio 2014). Renzi, in fondo, risponde a questa estesa domanda di leadership. Sottolineata dal consenso trasversale di cui egli dispone. Da Sinistra a Destra, passando per il Centro. Con la sola eccezione degli elettori del M5S, fra i quali, peraltro, è apprezzato da oltre il 43%.

Certo, a Renzi manca la legittimazione del passaggio elettorale. Tuttavia, egli è stato plebiscitato alle primarie del Pd, l'unico partito "vero" rimasto. Ma il suo consenso dipende anche dal "modo" in cui si è imposto. Con la forza. Per certi versi, con la prepotenza. Renzi appare, quindi, il premier di un "governo personale", che egli ha plasmato. E solo da lui ottiene significato. D'altronde, egli eredita una maggioranza definita, dal suo stesso predecessore, "strana". Uscita da un'elezione senza vincitori. Che ha rivelato un Paese diviso in tre grandi minoranze, poco comunicanti. Così, oggi la maggioranza degli elettori non si scandalizza se, per approvare alcune leggi, il governo debba ricorrere al sostegno dell'opposizione. Al voto di Sel, a parlamentari del M5S o a Forza Italia.

Le polemiche suscitate dal negoziato con Silvio Berlusconi per delineare una nuova legge elettorale, l'Italicum, sembrano poco significative a gran parte degli elettori. D'altra parte, è difficile sostenere che ad avvantaggiarsene sia stato Berlusconi. Semmai, pare vero il contrario, a giudicare dalle stime elettorali, che vedono il Pd in crescita e il Centrosinistra largamente in vantaggio. Mentre, in caso di ballottaggio fra le due principali coalizioni, come previsto dall'Italicum, il successo del Centrosinistra guidato da Renzi sul Centrodestra di Berlusconi (o meglio, del leader da lui designato) risulterebbe schiacciante.

Dunque, Matteo Renzi oggi appare l'Uomo Forte e Veloce, richiesto da una parte (ampia) del Paese per fare fronte alla debolezza della politica. Tuttavia, le riserve sulla sua effettiva capacità di "salvare" l'Italia e di realizzare i suoi buoni propositi appaiono diffuse. Da un lato, infatti, il 57% degli intervistati, nel sondaggio di Demos, crede che egli sarà, davvero, in grado, come ha promesso, di realizzare 4 riforme nei prossimi 4 mesi. Ma, dall'altro, oltre 4 elettori su 10 la pensano diversamente. Allo stesso modo, il 54% pensa che riuscirà a portarci "oltre la crisi". Ma, al momento dell'insediamento a Palazzo Chigi, la quota di quanti credevano nella capacità di Enrico Letta di "salvarci" era superiore al 60%. Nel caso di Mario Monti: superava l'80%. Il problema è che ci siamo abituati all'instabilità. All'insicurezza. Peraltro, gli italiani tendono a "rimuovere" i pericoli che vengono dall'esterno. La crisi che lacera l'Ucraina, infatti, appare una minaccia al 41% circa degli intervistati, ma il 44% (cioè, una componente maggiore) pensa il contrario. La vede, cioè, come un'ombra lontana.

Tuttavia, il clima di incertezza che ci avvolge rende difficile guardare distante. Solo un terzo degli italiani, infatti, crede che questo governo durerà fino alla conclusione della legislatura. Non pochi, viste le difficoltà di questa fase. Ma, comunque, una minoranza. Matteo Renzi, dunque, è costretto a correre veloce. Perché la velocità è il suo marchio. Ma anche una necessità. Per affrontare molteplici insidie che, a detta degli stessi italiani, gli giungono da diverse direzioni. Lontane e vicine. I mercati, l'Europa, la delusione dei cittadini. L'opposizione di Fi e, ancor più, del M5S. Le trappole tese dai nemici. Ma, soprattutto, dagli amici. Dagli alleati e, in primo luogo, dal suo stesso partito. Il Pd. Dove molti sono in attesa. Che inciampi in qualche ostacolo. In qualche promessa mancata. Per questo Renzi è condannato a correre. A fare tutto in fretta. Senza troppi programmi. Perché domani è un altro giorno. Si vedrà.
 
© Riproduzione riservata 03 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/03/news/fiducia_al_56_per_il_governo_renzi_uno_su_tre_crede_che_arriver_al_2018-80065936/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_03-03-2014


Titolo: ILVO DIAMANTI - Crisi, Merkel, burocrazia Per gli italiani l'Europa è impopolare
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2014, 06:13:39 pm
Crisi, Merkel, burocrazia
Per gli italiani l'Europa è diventata impopolare

MAPPE - Dal 2000 ad oggi dimezzata la fiducia nell'Unione Europea

di ILVO DIAMANTI
   
BEPPE Grillo ha incitato a recuperare «l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle Due Sicilie». Perché l’Italia sarebbe solo un’arlecchinata di popoli, lingue e tradizioni. In altri termini: non esiste. Solo la Lega, fino ad oggi, si era spinta a tanto. E non a caso Matteo Salvini ha sottoscritto entusiasticamente queste affermazioni. Ma a Grillo la Lega non interessa.

E, in fondo, non gli interessano neppure i suoi voti, visto che, in larga misura, li ha già intercettati alle elezioni dell’anno scorso. A Grillo e al suo ideologo, Gianroberto Casaleggio, interessa, piuttosto, avviare la campagna anti-europea in vista delle prossime elezioni di fine maggio. D’altronde, il legame fra il progetto anti-europeo e quello macro-federalista, spinto all’estremo, nella percezione sociale, è molto stretto. La componente di chi ritiene che «Nord e Sud sono troppo diversi e dovrebbero andare da soli», infatti, cresce in base alla fiducia nella Ue. Nel passaggio fra il livello minore e maggiore di fiducia, raddoppia: dall’8% al 16% (sondaggio Demos, ottobre 2013).

D’altronde, la Ue è una Unione di Stati nazionali, non di popoli. Non a caso, negli anni Novanta, la Lega cambiò atteggiamento al proposito, dopo la svolta secessionista del 1996.

Che la Ue condannò in modo aperto. Fino ad allora, invece, la Lega, come recitavano i suoi slogan, aveva guardato «più vicino all’Europa più lontano dall’Italia». Da Roma. D’altronde, anche il messaggio di Grillo appare, soprattutto, anti-romano. Rivolto contro l’Italia dei partiti e delle burocrazie. Del Palazzo. E, a differenza della Lega, evoca la Repubblica di Venezia e il Regno delle Due Sicilie. Il Nord e il Centro-Sud. Dove il M5S ha ottenuto molti consensi. In vista delle prossime elezioni europee, intende tenere insieme l’anti-centralismo “romano” (e italiano) con l’anti-europeismo. Un sentimento che sta crescendo in modo rapido. In Italia, infatti, la fiducia nella Ue, rispetto al 2000 – alla vigilia dell’introduzione dell’Euro - è, letteralmente, dimezzata. Dal 57% al 29%, rilevato nelle ultime settimane (Sondaggio Demos). E negli ultimi mesi, da settembre 2013 ad oggi, è caduta di 5 punti. Toccando il punto più basso rilevato da quando il processo di costruzione dell’Unione Europea è stato avviato. Fin qui, tuttavia, si è tradotto, soprattutto, sul piano economico e, soprattutto, monetario.

L’Europa, cioè, si è trasformata in un soggetto freddo, lontano. Una moneta senza Stato e senza politica. Senza identità e senza passione. È stata percepita, dunque, come un problema più che una risorsa. Un Grande Esattore, senza volto, se non quello della Merkel (e delle Banche), che esige senza garantire nulla. Per questo, ormai, pressoché un terzo degli italiani (per la precisione, il 32%) si dice d’accordo con l’affermazione che sarebbe meglio «uscire dall’euro e tornare alla lira». Si tratta di un atteggiamento che abbiamo già testato e spiegato in passato. Gli italiani accettano l’Europa dell’euro per forza. E per paura. Temono, cioè, che uscirne sarebbe pericoloso. Ma, al tempo stesso, guardano alla Ue e alla sua moneta con insofferenza crescente. Di giorno in giorno. Come si coglie ricomponendo gli orientamenti verso la Ue e verso l’euro in un unico profilo. Dal quale emerge che, in Italia, il peso degli europeisti (29%), che hanno fiducia nella Ue, supera di poco quello degli antieuropei (27%). Che si oppongono all’Euro e non credono nella Ue. Mentre gran parte degli italiani (44%) si rifugia in un atteggiamento euroscettico oppure eurocritico. Sopporta, cioè, l’euro senza aver fiducia nella Ue. Ma, visto che la Ue, nella percezione (non del tutto distorta) dei cittadini, coincide, in larga misura, con il sistema monetario, ecco che il sentimento dominante, fra gli italiani, è la sfiducia verso l’Europa - della moneta e, insieme, dei governi e degli Stati Nazionali.

È, peraltro, interessante osservare come il maggior grado di anti-europeismo si raggiunga fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi: 43%. Un dato, in effetti, altissimo. Come quello delle casalinghe (44%) e dei disoccupati (38%). Mentre il maggior livello di europeismo si incontra, invece, fra gli studenti (43%), i liberi professionisti (48%) e fra gli impiegati del settore pubblico (39%). Sul piano territoriale, l’anti-europeismo è spalmato dovunque. Raggiunge il massimo livello nel Mezzogiorno e nel Nordovest (quasi 30%), mentre è un po’ meno diffuso nel Centro e nel Nordest (dove, comunque, supera il 20%). Insomma, il sentimento anti-europeo fornisce un bacino elettorale molto ampio, in vista delle prossime elezioni. Che hanno l’Europa come ambito e come posta in palio. I “Grilli d’Europa”, d’altronde, sono molti (come titolava Le Monde ancora un mese fa). I partiti antieuropei e anti-euro. Che potrebbero attingere anche dal grande serbatoio del sentimento euroscettico ed eurocritico. Fino ad oggi si è travasato nell’astensione. Oppure in un voto ispirato alla logica del “meno peggio”. Per paura. Ma potrebbe, in questa occasione, scegliere il voto di protesta oppure di “avvertimento”. Per esprimere la propria insoddisfazione e la propria delusione verso un’Europa identificata con i mercati, con lo spread e la crisi. D’altronde, già adesso vi sono partiti il cui elettorato è in ampia misura anti-europeo. Oltre alla Lega (53%), che ormai pesa poco (3-4%), il M5S, appunto, e, insieme, FI (entrambi: 37% di anti-europei e altrettanto di euroscettici). È lecito attendersi, dunque, che i richiami al federalismo macroregionalista e, implicitamente, anti-europeo, si rinnovino, sempre più accesi. Non solo da parte di Grillo e della Lega, ma anche di Berlusconi. In fondo, condividono il bacino elettorale anti-europeo, molto ampio. Che ha grandi margini di espansione, vista la contiguità con l’area degli euroscettici.

Di certo, stavolta, contrastarli sarà difficile. Perché l’europeismo è poco popolare. Sostenuto per paura più che per convinzione. E per sfidare gli anti-europei sullo stesso terreno, in modo efficace, ci vuole il fisico…

© Riproduzione riservata 10 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/10/news/crisi_merkel_burocrazia_per_gli_italiani_l_europa_diventata_impopolare-80625991/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ma i giovani non fuggono
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2014, 11:32:16 pm
Ma i giovani non fuggono
di ILVO DIAMANTI
 
La "fuga " dei giovani. Preoccupa gli italiani. Le famiglie, le imprese. I giovani stessi, ovviamente. Se ne vanno ma non rientrano. Giovani in fuga. Ne ho scritto qualche mese fa e ho ricevuto molte reazioni. Soprattutto di giovani, che se la prendevano con gli adulti. I loro padri, i loro "vecchi". Che hanno occupato i posti che contano, nel mercato del lavoro - soprattutto "intellettuale". E non intendono muoversi. Hanno, semmai, la tentazione  -  secondo la tradizione nazionale  -  di farsi affiancare dai figli. Di cedere loro il proprio posto, quando sarà il momento. Cioè, il più tardi possibile. Questi italiani, familisti e sempre più vecchi... ai giovani non resta che la disoccupazione, l'occupazione precaria. O la fuga. Questi italiani. Ma solo loro? Solo noi? A Parigi, dove insegno in questo periodo, colleghi e conoscenti fanno discorsi molto simili. Ne riconosco gli echi. E su Le Monde di qualche giorno fa, in prima, il titolo di apertura, gridava, in senso letterale: "Partenza dei giovani all'estero. Le imprese si allarmano". A tutta pagina. Il titolo rimbalzava, forte, sull'inserto economico. Con una precisazione: "Le imprese si preoccupano della fuga dei diplomati".

D'altronde, il numero dei giovani che vedono il loro futuro all'estero è raddoppiato, negli ultimi anni, secondo uno studio dell'IFOP. E il problema appare più grave in quanto essi  -  i giovani  -  sembrano sempre meno spinti a rientrare. Insomma, i timori italiani aleggiano anche oltralpe. Sotto i cieli di Parigi. Dove il familismo e l'ancoraggio domestico dei giovani sono sicuramente meno forti che in Italia. Ricordo anni fa, al tempo delle proteste studentesche contro la legge sui "contratti di primo impiego". Contestati perché ritenuti un istituto che produceva ulteriore precarietà. Erano destinati, però, ai giovani già presenti sul mercato del lavoro, non agli studenti. Un tentativo di dare risposta precarietà degli strati sociali più periferici. Di lanciare un segnale  -  per quanto debole  -  alle banlieue in rivolta. E allora perché la protesta nelle università parigine, visto che il progetto del governo le riguardava solo marginalmente? I miei studenti mi spiegarono, con un sorriso, che loro erano francesi, non italiani (come me, sottinteso). E a 25 anni, finiti gli studi, non sarebbero rientrati a casa, con i genitori. Come i loro coetanei italiani (sottinteso). Ma avrebbero vissuto da soli. Per questo "protestavano". Per il proprio futuro che cominciava all'indomani.

Oggi, però, anche i loro coetanei italiani se ne vanno. Magari tengono la residenza in famiglia. Ma se ne vanno. E se ne vanno soprattutto loro. I giovani "diplomati" (e, ovviamente, i laureati). I giovani francesi. Se ne vanno e non hanno fretta di tornare. Però, prosegue la ricerca della Camera di Commercio di Parigi, citata da "Le Monde", è giusto preoccuparsi, ma non si tratta di un problema francese. Solamente francese. Anzi, la "fuga di cervelli" (usa proprio questa formula, il giornale) risulta ben più ampia e importante altrove. In Italia, ovviamente. Ma anche in Germania e in Gran Bretagna. Destinazioni preferite, fra l'altro dai giovani italiani e francesi.

Ma, allora, se oltre ai giovani italiani, francesi, anche quelli inglesi e tedeschi partono di casa, pardon, dal loro Paese. Soprattutto se diplomati e laureati. E vanno altrove. Negli USA, in Sud America, in Australia. Ma anche in Germania, in Inghilterra. Perfino in Francia e in Italia. Insomma vanno "altrove". Per fare esperienze, per migliorare le loro competenze, per imparare meglio le lingue. Per "sfuggire" al controllo della famiglia e della comunità. Per inseguire le loro curiosità e per raggiungere, incontrare, i contatti stabiliti sulla rete. Ovviamente, per cercare quel non trovano nel loro Paese. Lavoro, ma anche riconoscimento, novità e innovazione. Amicizia. D'altronde, l'Erasmus, all'università, li ha socializzati al mondo. Così, non fuggono, "partono" e, a volte, ritornano. Ma poi ripartono. Dipende dalle opportunità, dalle convenienze. Ma anche dalle loro scelte "personali". Il fatto è che sta finendo, in parte è già finito, il tempo della civiltà stanziale. Quando ci si muoveva solo per necessità o per costrizione. Certo, in altre aree, ovviamente, la "fuga" è e resta una necessità drammatica. Causa di grandi migrazioni. Ma in Europa i giovani non fuggono. Se non, talora, da noi. Gli adulti. I loro genitori.

Al loro posto, lo farei anch'io.

 (13 marzo 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/03/13/news/ma_i_giovani_non_fuggono-80918206/?ref=HREC1-7


Titolo: ILVO DIAMANTI - Un Presidente senza partito
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2014, 12:21:55 pm
Un Presidente senza partito

di ILVO DIAMANTI

17 marzo 2014
   
L'incontro fra Matteo Renzi e François Hollande, all'Eliseo, due giorni fa, offre un'immagine esemplare. Affianca due casi singolari e speculari. Due Presidenti. Che propongono due profili, per molti versi, simmetrici. Hollande è un Presidente che dispone di poteri ampi. Garantiti da una forma di governo semipresidenziale. Eppure fatica a governare, perché ha un consenso molto limitato.

Matteo Renzi, al contrario, è il presidente del Consiglio, vincolato da un sistema parlamentare complesso e da un Parlamento diviso. E per governare ricorre al consenso elevato (e in crescita costante) di cui dispone. Il confronto fra i due casi permette di ragionare sulle trasformazioni in atto nella democrazia rappresentativa. E, in particolare, sulle novità e sui rischi dell'esperienza - ma meglio sarebbe dire: esperimento - di Renzi.

Il problema di Hollande è costituito dal clima d'opinione nei suoi riguardi e dal tipo di leadership che ha interpretato. Per imporsi alle presidenziali del 2012, Hollande aveva, infatti, sfruttato l'impopolarità del predecessore, Sarkozy. Troppo "berlusconiano", agli occhi dei francesi. Al punto di venire etichettato "Berluskozy". Hollande, invece, gli aveva opposto l'immagine del Presidente normale. In breve, però, è divenuto fin troppo "normale", agli occhi dei francesi. Incapace, per questo, di affrontare le emergenze "eccezionali" poste dalla crisi. I suoi poteri, per questo, non gli sono serviti e non gli servono a frenare l'onda di impopolarità, sollevata dalla sua impotenza di governare la crisi. Moltiplicata dalla debolezza dei partiti e del ceto politico, investiti dagli scandali e dalla sfiducia.

Matteo Renzi deve, a sua volta, fare i conti con una crisi economica e politica, forse, più grave che in Francia. E con un clima di sfiducia verso i partiti e i politici, ma anche verso le istituzioni, peggiore che in Francia e in gran parte d'Europa. Eppure il gradimento nei suoi riguardi ha continuato a crescere (oggi è oltre il 60%). Anche se il "colpo di mano" con cui ha costretto il precedente premier, Enrico Letta, a cedergli il posto non è piaciuto alla maggioranza degli italiani, l'immagine di Renzi non ne ha risentito. Anzi. D'altronde, egli risponde a una domanda di rappresentanza, ma anche di governo, largamente frustrata fra i cittadini. I quali non credono nei partiti ma neppure nel Parlamento. Così, reagiscono in due diversi modi, fra loro contrastanti, ma coerenti.

Attraverso una prospettiva "iper-democratica", come la definisce Stefano Rodotà (e, di recente, anche Luca Ricolfi). Cioè, rivendicando la partecipazione ed esercitando il controllo di tutti i cittadini alle decisioni pubbliche. Attraverso la mobilitazione, i referendum e, soprattutto, la rete. Saltando ogni mediazione, come sostengono - e fanno - Beppe Grillo e il M5s.

D'altra parte, però, la domanda di rappresentanza si traduce in una prospettiva iper-personalizzata. Realizzata attraverso i media e la comunicazione.

Un orientamento imposto, giusto vent'anni fa, da Silvio Berlusconi. Il quale ha creato, allora, Forza Italia. Il "partito personale" al suo servizio. Da utilizzare alle elezioni, in Parlamento, al governo. Matteo Renzi è arrivato dopo vent'anni di berlusconismo. Ma ne ha superato, largamente, l'inventore. La sua presentazione della manovra economica, come ha scritto ieri Philippe Ridet su Le Monde, "ha relegato Silvio Berlusconi alla preistoria della comunicazione". Di certo Renzi, a differenza di Berlusconi, non ha creato un partito personale. Ha, semmai, personalizzato il Partito Democratico, dopo aver vinto le primarie. Gli ha fornito la propria immagine. Anzi, gliel'ha imposta. Perché il Pd, per storia e organizzazione, non è in grado di coagularsi intorno a "un" leader. Senza fratture né tensioni. Lo stesso ha fatto con il governo. Lo ha trasformato in un "governo personale". Nonostante le debolezze della compagine ministeriale. O, forse, proprio per questo. Perché si tratta di una squadra di gregari, con una sola maglia, un solo capitano, un solo volto. Il problema di Renzi è che deve misurarsi con i tempi della politica e delle istituzioni. Causa di sfiducia e in-credulità fra i cittadini. Per questo Renzi va veloce. La velocità è il suo linguaggio. Ma anche la sua risposta politica alla politica del rinvio e alla resistenza politica a ogni cambiamento. Così, usa la comunicazione e il linguaggio, contro la politica e i politici, per creare consenso. E usa il consenso per superare le trappole e l'opposizione della politica. Anche del suo partito. Come ha osservato alcuni giorni fa Ezio Mauro: "Correndo deve anticipare la politica che vuole realizzare, per mettere le resistenze parlamentari, amministrative, della tecnostruttura davanti a un'opinione pubblica continuamente sollecitata da una scommessa di cambiamento in cui non credeva più di poter credere".

Avrebbe bisogno, per questo, di un "partito del Presidente". Ma in attesa e in assenza di esso, agisce da solo. Contro tutto e tutti. In questo modo sfrutta a proprio vantaggio il clima antipolitico del tempo. Ne fa una risorsa politica. Trasforma la sfiducia politica in fiducia personale. In consenso alle proprie politiche. Si presenta e si propone, cioè, come "Presidente". Capo di una repubblica presidenziale "di fatto". A cui, peraltro, da tempo i cittadini si sono abituati. Attraverso l'elezione diretta di sindaci (che egli ha sperimentato). Ma anche attraverso la tendenza a "personalizzare" l'indicazione del premier di coalizione, anzitutto nelle schede elettorali (una pratica definita da Giovanni Sartori incostituzionale).

Per bypassare i limiti della politica e il deficit di governabilità, ci siamo, dunque, trasformati in una sorta di presidenzialismo preterintenzionale, come ho segnalato altre volte. Matteo Renzi ha stressato questo orientamento, in parte per necessità, in parte per vocazione. Tuttavia, questo percorso presenta alcuni rischi. Per Renzi, ma non solo. Perché fare il Presidente, senza disporre di regole e di poteri istituzionali - e senza legittimazione elettorale - non garantisce prospettive certe. Ma costringe a spinte e a forzature continue. Soprattutto e tanto più se il Pd, per storia e organizzazione, è riluttante a personalizzarsi in funzione del Presidente.

Alla guida di un presidenzialismo preterintenzionale e di un partito "ipotetico" (come lo definiva Edmondo Berselli), Matteo Renzi va veloce. Per costringere gli altri a (in) seguirlo sul suo terreno. Così, è condannato a correre. Finché il fisico e il fiato glielo permetteranno.

© Riproduzione riservata 17 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/17/news/un_presidente_senza_partito-81174175/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'indipendenza del Veneto non è uno scherzo
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2014, 04:58:44 pm
L'indipendenza del Veneto non è uno scherzo
Bocciato lo Stato centrale, no alla politica locale
Sondaggio Demos. Questa regione pone oggi una questione che conta più di quella settentrionale

di ILVO DIAMANTI
   
SONO state accolte con qualche sorpresa e molta perplessità — per non dire incredulità — le notizie riguardo al referendum sull’indipendenza del Veneto. Promosso e organizzato dai movimenti autonomisti, il “plebiscito” si è svolto la scorsa settimana. Secondo i promotori, vi avrebbero partecipato circa tre elettori veneti (aventi diritto) su quattro. Quasi 2 milioni e mezzo. Con un esito “plebiscitario”: 89% di “sì”. Naturalmente, i dati sono ipotetici e non verificabili. Così, in Italia, è prevalsa la tendenza a liquidare l’iniziativa con un misto di sarcasmo e di scetticismo.

LE TABELLE http://www.repubblica.it/politica/2014/03/24/news/l_indipendenza_del_veneto_non_uno_scherzo_bocciato_lo_stato_centrale_no_alla_politica_locale-81734444/?ref=HRER2-1

A differenza degli osservatori stranieri, che hanno, invece, trattato l’evento con attenzione. Non solo per il precedente (immediato) della Crimea. Ma, ancor più, per le tensioni indipendentiste che scuotono altri Paesi europei. In Gran Bretagna, Spagna, Belgio... Così, mentre cresce l’insoddisfazione verso l’Unione Europea, si acuiscono le divisioni all’interno degli stati nazionali. Per questo conviene prendere sul serio il segnale che proviene dal Veneto. Anche perché rivela sentimenti estesi. In misura, magari, non “plebiscitaria”, come quella dichiarata dai “venetisti”, ma, tuttavia, maggioritaria.

Lo conferma un sondaggio di Demos, condotto presso un campione rappresentativo di elettori veneti nei giorni scorsi (per la precisione: il 20 e il 21 marzo). La partecipazione al referendum, dai dati, esce ridimensionata. Ma resta, comunque, molto significativa. Quasi metà degli elettori veneti, infatti, sostiene di aver votato oppure di essere intenzionato a farlo. E poco meno dell’80% di essi si dice favorevole al quesito referendario: l’indipendenza veneta. Una posizione condivisa, d’altronde, da un terzo di coloro che dicono di non essere intenzionati a votare.

Nell’insieme, la maggioranza degli elettori (compresi nel campione) si dice d’accordo con l’ipotesi che “il Veneto diventi una repubblica indipendente e sovrana”. Circa il 55%. Mentre i contrari sono poco meno del 40%. Dunque, l’indipendenza costituisce una prospettiva attraente per la maggioranza della popolazione. Piace, soprattutto, agli imprenditori e agli operai. I lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa, che costituiscono il “distintivo” economico e sociale del Veneto. Solo tra i più giovani — e, quindi, fra gli studenti — la posizione contraria all’indipendenza prevale nettamente. Oltre che fra i disoccupati. Anche dal punto di vista politico, gli orientamenti sono molto chiari. L’indipendenza veneta piace agli elettori di Destra (in particolare di FI) e, ovviamente, ai leghisti e agli “autonomisti”. Ma prevale nettamente anche fra gli elettori del M5s, dove, peraltro, negli ultimi due anni è confluito gran parte del voto leghista. Il Veneto, d’altronde, è politicamente una zona di centrodestra. Forzaleghista (come la definiva Edmondo Berselli).

La distanza dei veneti dallo Stato nazionale, dunque, è cresciuta e oggi si traduce in aperto distacco. In misura molto maggiore che in passato. Tuttavia, molte cose sono cambiate, negli ultimi anni.

La crisi, anzitutto, ha accentuato il risentimento verso lo Stato, riassunto, non solo simbolicamente, in Roma capitale. Le difficoltà economiche, infatti, hanno sollecitato maggiore sostegno e hanno reso più acuto il contrasto con il ceto politico e la burocrazia centrale.

A differenza del passato, inoltre, la rivendicazione indipendentista, oggi, non evoca patrie immaginarie, come la Padania, ma neppure aree poco definite e, internamente, differenziate, come il Nord. Com’è divenuto lo stesso Nordest. Richiama, invece, il Veneto. La Regione. Considerata l’ambito che suscita maggiore appartenenza da circa il 25% dei Veneti (Oss. Nordest per Il Gazzettino, settembre 2012). Non a caso, la Lega (Padana), inizialmente tiepida verso l’iniziativa, l’ha, in seguito, sostenuta. Il governatore, Luca Zaia, in particolare. Che si prepara, a sua volta, a far votare al Consiglio veneto una proposta di legge per indire un referendum “formale” per l’indipendenza. Anche se incostituzionale, costituirebbe, comunque, per Zaia, il manifesto per una Lista civica (personale) in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo. Per compensare la debolezza della Lega.

D’altronde, la Liga Veneta è “la madre di tutte le leghe”, come ebbe a definirla uno dei fondatori, Franco Rocchetta. Che venerdì sera era in piazza, a Treviso, a festeggiare il referendum e il mito dell’indipendenza veneta.

Bisogna, dunque, prendere sul serio il segnale che proviene dal referendum. Al di là delle misure — ipotetiche — della partecipazione e del consenso dichiarate dagli organizzatori, la rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria. Al tempo stesso, bisogna interpretarne correttamente il significato. In-dipendenza significa, infatti, “non dipendenza”. E, dunque, autonomia. Autogoverno. Non necessariamente “secessione”. Ne danno conferma le opinioni circa il modo migliore “per sostenere gli interessi del Veneto”. La “piena indipendenza del Veneto”, infatti, è sostenuta da una quota ampia, ma non superiore al 30%. Meno di quanti riterrebbero più utile “eleggere parlamentari migliori” (dunque, capaci di esercitare maggiore pressione “su Roma”). Mentre appaiono ampie anche le componenti “federaliste”. È significativo come, fra gli stessi sostenitori dell’indipendenza veneta al referendum, quanti vedono nell’indipendenza “piena” la via maestra per affermare gli interessi regionali siano una maggioranza larga. Ma non assoluta: il 45%.

L’indipendenza, dunque, costituisce per i veneti e il Veneto un modo per denunciare, in modo estremo, il disagio nei confronti dello Stato centrale. L’insoddisfazione contro la classe politica e di governo. Non solo nazionale, ma anche regionale.

Da ciò, un’altra indicazione significativa. Soprattutto se si pensa al diverso impatto ottenuto dal referendum dei giorni scorsi rispetto alla manifestazione per l’indipendenza padana, promossa nel settembre 1996. Quando, in marcia lungo il Po per marcare la frontiera del Nord, si recarono pochi leghisti, spaesati e sparsi. Per rappresentare il sentimento e il risentimento territoriale, oggi, conviene rinunciare a patrie immaginarie, come la Padania. Ma anche alle macroregioni oppure ad aree ampie — e differenziate.
Come il Nord e lo stesso Nordest. Per storia, economia, identità e interessi, infatti, è sempre più difficile tenere insieme il Veneto con il Piemonte, la Lombardia e lo stesso Trentino Alto Adige. Treviso con Milano e Bolzano. La “questione Veneto”, oggi, conta più di quella “settentrionale”. E affievolisce il Nordest.

© Riproduzione riservata 24 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/24/news/l_indipendenza_del_veneto_non_uno_scherzo_bocciato_lo_stato_centrale_no_alla_politica_locale-81734444/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI: gli italiani chiedono riforme nel nome della governabilità
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2014, 11:54:37 pm
Camere, province, burocrazia: gli italiani chiedono riforme nel nome della governabilità
MAPPE. La maggioranza non vuole toccare "i principi fondamentali" della Costituzione. Consenso sulla trasformazione del Senato in nome dei tagli alla politica

di ILVO DIAMANTI
31 marzo 2014

Non sarà facile, per Matteo Renzi, portare a termine il suo programma di riforme istituzionali - che modificherebbero profondamente la Costituzione. Per almeno due motivi. La resistenza - anzi: l'opposizione aperta - di autorevoli componenti ed esponenti dell'ambiente politico e intellettuale. Anche di centrosinistra.

In secondo luogo, la complessità -  e la lunghezza - delle procedure richieste per iniziative che toccano la Costituzione. Per questo non sarà facile. Trasformare il Senato in una Camera delle autonomie, ad esempio. Con il contributo diretto dei senatori, visto che la riforma dovrebbe/dovrà passare, per due volte, attraverso la loro approvazione. Non a caso il Presidente del Senato, Pietro Grasso, in un'intervista a Repubblica, proprio ieri, ha proposto, in alternativa, di abolire il bicameralismo, ma non il Senato. Attribuendo, cioè, solo alla Camera dei Deputati il potere di votare la fiducia al governo e di occuparsi delle materie politiche, economiche e sociali più importanti.

Ma Renzi ha, immediatamente, ribadito la sua intenzione di andare avanti. Veloce, come sempre. In direzione opposta al passato. Per confermare la sua immagine di "rottamatore", che molto ha contribuito - e contribuisce - al suo successo. Che non accenna a declinare, come mostrano i sondaggi d'opinione. Naturalmente, prima o poi, anch'egli dovrà rendere conto dei risultati di tanti progetti. Anche se, come ha suggerito argutamente Nando Pagnoncelli sull'agenzia InPiù, "Renzi rammenta un giocoliere che fa volteggiare cerchi, palline e clavette. Non importa affatto se nel corso dell'esercizio ne cade qualcuna". Perché l'abilità e la velocità del protagonista rendono difficile al pubblico accorgersene. E perché, nel frattempo, altri progetti attraenti sono stati lanciati sul mercato.

Tuttavia, la fiducia nei confronti del premier non è solo frutto di "illusionismo". Ma dipende, in modo significativo, dal consenso verso le proposte che egli ha avanzato. Come emerge da un sondaggio condotto qualche tempo fa da Demos, quando Renzi si accingeva a sostituire - con modi spicci e risoluti - Letta alla guida del governo. Cambiare la Costituzione, anzitutto, è considerato lecito e perfino utile, da quasi i due terzi della popolazione, se può migliorare l'efficienza delle istituzioni. Ovviamente, senza intaccarne i "principi fondamentali". Questa posizione, peraltro, è largamente condivisa, da sinistra a destra, passando per il centro. Solo un quarto dei cittadini intervistati sostiene, invece, l'intangibilità della Costituzione. "La più bella del mondo". Comunque, troppo equilibrata per poter essere modificata in punti "sensibili" come quelli di cui si discute.

LE TABELLE
su - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/repubblica_preterintenzionale-82342360/?ref=HREC1-1

Se si entra nello specifico delle proposte, il sostegno ai temi avanzati da Renzi e dal governo si conferma ampio e trasversale. L'abolizione delle Province e la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie ottengono, infatti, l'approvazione di circa il 60% dei cittadini. Il sostegno risulta più elevato fra gli elettori del PD e di SEL, in riferimento all'abolizione delle Province. Mentre la trasformazione del Senato ottiene largo consenso non solo nella base del PD, ma anche del NCD. Tuttavia, anche fra gli elettori di FI e del M5s l'adesione ai progetti risulta molto estesa.

Dietro a questi orientamenti si intuisce l'insoddisfazione diffusa nei confronti del funzionamento e dei costi del sistema pubblico. E, in generale, della politica. Vista la difficoltà di scindere i due piani, nella percezione sociale. Così si spiega il consenso plebiscitario verso l'ipotesi di ridurre il numero dei parlamentari. In qualche modo, sintesi dell'abolizione delle Province - e dunque delle burocrazie e delle amministrazioni provinciali - ma anche della trasformazione del Senato. Presentata, tempo fa, dallo stesso Renzi, come un contributo alla riduzione della spesa pubblica.

Tuttavia, il sostegno dei cittadini alle proposte di riforma istituzionale ha anche un significato diverso. Riguarda la domanda di governo e di governabilità. Riflette, al tempo stesso, il malessere che attraversa la democrazia rappresentativa (non solo in Italia). Come emerge, con chiarezza, dal consenso espresso dai cittadini per l'elezione diretta del Presidente della Repubblica. Approvata da quasi 3 persone intervistate su 4. E dalla maggioranza assoluta dei principali elettorati. Dal PD a FI, da SEL allo stesso M5s.

L'ipotesi di rafforzare i poteri del capo del governo, invece, appare meno gradita. Ciò riflette, soprattutto, lo stile "presidenziale" di Renzi. Che ha personalizzato il PD, interpretando, però, (come ho già osservato) un "Presidente senza partito". Comunque, "oltre" il PD. Per questo è facile prevedere che il premier proseguirà sulla strada delle riforme senza rallentare. Le difficoltà che incontra e incontrerà lungo il percorso, invece di produrre ripensamenti, sono destinate a rafforzarne la determinazione. Perché le resistenze e l'opposizione - tanto più della sua parte e del suo partito - ne consolidano la legittimazione. L'immagine di "uomo solo al comando". Senza indulgenza per nessuno. Alleati e avversari politici. Manager pubblici e privati.

Il problema, semmai, mi sembra proprio questo. La discussione appare, infatti, sempre più "personalizzata". E sempre più "radicalizzata" sulla Costituzione come "valore in sé". Oppure, fin troppo focalizzata sui singoli progetti: Le Province, il Senato... Viziata, per questo, da uno sguardo miope oppure presbite. Così, si rischia di trascurare aspetti essenziali. Per esempio, non ci si accorge che il ddl approvato dal Senato (come ha osservato Tito Boeri su Lavoce.info) "non abolisce affatto le province, ma si limita a svuotarle senza stabilire a chi andranno le loro funzioni". Con "risparmi" del tutto ipotetici. Mentre, quanto alla nuova Camera delle autonomie, non è chiaro da chi e in che modo verrà costituita. Con quali competenze e con quali poteri.

Più in generale, mentre si toccano, in modo deciso, punti sostanziali del nostro sistema istituzionale, non si spiega a quale modello si guardi. Che cosa vogliamo diventare. E si rischia, così, di proseguire quello stesso percorso intrapreso vent'anni fa. Quel riformismo episodico e sussultorio che ci ha condotti dentro a questa singolare Repubblica preterintenzionale.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/repubblica_preterintenzionale-82342360/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli italiani chiedono riforme nel nome della governabilità
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2014, 10:16:21 pm
Camere, province, burocrazia: gli italiani chiedono riforme nel nome della governabilità

MAPPE.

La maggioranza non vuole toccare "i principi fondamentali" della Costituzione.
Consenso sulla trasformazione del Senato in nome dei tagli alla politica

di ILVO DIAMANTI
31 marzo 2014

Non sarà facile, per Matteo Renzi, portare a termine il suo programma di riforme istituzionali - che modificherebbero profondamente la Costituzione. Per almeno due motivi. La resistenza - anzi: l'opposizione aperta - di autorevoli componenti ed esponenti dell'ambiente politico e intellettuale. Anche di centrosinistra.

In secondo luogo, la complessità -  e la lunghezza - delle procedure richieste per iniziative che toccano la Costituzione. Per questo non sarà facile. Trasformare il Senato in una Camera delle autonomie, ad esempio. Con il contributo diretto dei senatori, visto che la riforma dovrebbe/dovrà passare, per due volte, attraverso la loro approvazione. Non a caso il Presidente del Senato, Pietro Grasso, in un'intervista a Repubblica, proprio ieri, ha proposto, in alternativa, di abolire il bicameralismo, ma non il Senato. Attribuendo, cioè, solo alla Camera dei Deputati il potere di votare la fiducia al governo e di occuparsi delle materie politiche, economiche e sociali più importanti.

Ma Renzi ha, immediatamente, ribadito la sua intenzione di andare avanti. Veloce, come sempre. In direzione opposta al passato. Per confermare la sua immagine di "rottamatore", che molto ha contribuito - e contribuisce - al suo successo. Che non accenna a declinare, come mostrano i sondaggi d'opinione. Naturalmente, prima o poi, anch'egli dovrà rendere conto dei risultati di tanti progetti. Anche se, come ha suggerito argutamente Nando Pagnoncelli sull'agenzia InPiù, "Renzi rammenta un giocoliere che fa volteggiare cerchi, palline e clavette. Non importa affatto se nel corso dell'esercizio ne cade qualcuna". Perché l'abilità e la velocità del protagonista rendono difficile al pubblico accorgersene. E perché, nel frattempo, altri progetti attraenti sono stati lanciati sul mercato.

Tuttavia, la fiducia nei confronti del premier non è solo frutto di "illusionismo". Ma dipende, in modo significativo, dal consenso verso le proposte che egli ha avanzato. Come emerge da un sondaggio condotto qualche tempo fa da Demos, quando Renzi si accingeva a sostituire - con modi spicci e risoluti - Letta alla guida del governo. Cambiare la Costituzione, anzitutto, è considerato lecito e perfino utile, da quasi i due terzi della popolazione, se può migliorare l'efficienza delle istituzioni. Ovviamente, senza intaccarne i "principi fondamentali". Questa posizione, peraltro, è largamente condivisa, da sinistra a destra, passando per il centro. Solo un quarto dei cittadini intervistati sostiene, invece, l'intangibilità della Costituzione. "La più bella del mondo". Comunque, troppo equilibrata per poter essere modificata in punti "sensibili" come quelli di cui si discute.

LE TABELLE
su - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/repubblica_preterintenzionale-82342360/?ref=HREC1-1

Se si entra nello specifico delle proposte, il sostegno ai temi avanzati da Renzi e dal governo si conferma ampio e trasversale. L'abolizione delle Province e la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie ottengono, infatti, l'approvazione di circa il 60% dei cittadini. Il sostegno risulta più elevato fra gli elettori del PD e di SEL, in riferimento all'abolizione delle Province. Mentre la trasformazione del Senato ottiene largo consenso non solo nella base del PD, ma anche del NCD. Tuttavia, anche fra gli elettori di FI e del M5s l'adesione ai progetti risulta molto estesa.

Dietro a questi orientamenti si intuisce l'insoddisfazione diffusa nei confronti del funzionamento e dei costi del sistema pubblico. E, in generale, della politica. Vista la difficoltà di scindere i due piani, nella percezione sociale. Così si spiega il consenso plebiscitario verso l'ipotesi di ridurre il numero dei parlamentari. In qualche modo, sintesi dell'abolizione delle Province - e dunque delle burocrazie e delle amministrazioni provinciali - ma anche della trasformazione del Senato. Presentata, tempo fa, dallo stesso Renzi, come un contributo alla riduzione della spesa pubblica.

Tuttavia, il sostegno dei cittadini alle proposte di riforma istituzionale ha anche un significato diverso. Riguarda la domanda di governo e di governabilità. Riflette, al tempo stesso, il malessere che attraversa la democrazia rappresentativa (non solo in Italia). Come emerge, con chiarezza, dal consenso espresso dai cittadini per l'elezione diretta del Presidente della Repubblica. Approvata da quasi 3 persone intervistate su 4. E dalla maggioranza assoluta dei principali elettorati. Dal PD a FI, da SEL allo stesso M5s.

L'ipotesi di rafforzare i poteri del capo del governo, invece, appare meno gradita. Ciò riflette, soprattutto, lo stile "presidenziale" di Renzi. Che ha personalizzato il PD, interpretando, però, (come ho già osservato) un "Presidente senza partito". Comunque, "oltre" il PD. Per questo è facile prevedere che il premier proseguirà sulla strada delle riforme senza rallentare. Le difficoltà che incontra e incontrerà lungo il percorso, invece di produrre ripensamenti, sono destinate a rafforzarne la determinazione. Perché le resistenze e l'opposizione - tanto più della sua parte e del suo partito - ne consolidano la legittimazione. L'immagine di "uomo solo al comando". Senza indulgenza per nessuno. Alleati e avversari politici. Manager pubblici e privati.

Il problema, semmai, mi sembra proprio questo. La discussione appare, infatti, sempre più "personalizzata". E sempre più "radicalizzata" sulla Costituzione come "valore in sé". Oppure, fin troppo focalizzata sui singoli progetti: Le Province, il Senato... Viziata, per questo, da uno sguardo miope oppure presbite. Così, si rischia di trascurare aspetti essenziali. Per esempio, non ci si accorge che il ddl approvato dal Senato (come ha osservato Tito Boeri su Lavoce.info) "non abolisce affatto le province, ma si limita a svuotarle senza stabilire a chi andranno le loro funzioni". Con "risparmi" del tutto ipotetici. Mentre, quanto alla nuova Camera delle autonomie, non è chiaro da chi e in che modo verrà costituita. Con quali competenze e con quali poteri.

Più in generale, mentre si toccano, in modo deciso, punti sostanziali del nostro sistema istituzionale, non si spiega a quale modello si guardi. Che cosa vogliamo diventare. E si rischia, così, di proseguire quello stesso percorso intrapreso vent'anni fa. Quel riformismo episodico e sussultorio che ci ha condotti dentro a questa singolare Repubblica preterintenzionale.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/repubblica_preterintenzionale-82342360/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI Dietro i secessionisti quel "male del Veneto" che diventa italiano
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2014, 04:21:40 pm
Dietro i secessionisti quel "male del Veneto" che diventa italiano
Da trent'anni quest'area è il sismografo di tutti i cambiamenti e le crisi del Paese: ora segna la frattura tra i cittadini e lo Stato.
L'insorgenza della Liga annunciò il declino della Prima Repubblica. E qui il M5S ha sfondato

di ILVO DIAMANTI

L'inchiesta dei magistrati di Brescia contro gli indipendentisti veneti può avere effetti pericolosi. Almeno quanto le iniziative e i comportamenti perseguiti. Perché, al di là del merito delle indagini, rischia di ridurre a caricatura un fenomeno complesso e fondato, che supera i confini della regione. È il "male del Veneto". Una questione che va presa sul serio. Perché il Veneto ha costituito, negli ultimi trent'anni, il sismografo dei cambiamenti e delle crisi, in Italia. A partire dai primi anni Ottanta, quando, appunto, emerse la Liga. "Madre di tutte le leghe", la definì il fondatore, Franco Rocchetta. Uno dei cospiratori, secondo i magistrati. Ora costretto agli arresti domiciliari. (Anche se non mi riesce di immaginarlo nei panni del para-terrorista.) L'insorgenza della Liga, anticipò la diffusione e l'affermazione della Lega in tutto il Nord. Ma annunciò anche la crisi della Prima Repubblica. Perché erose e, in seguito, sgretolò le fondamenta del partito che aveva governato, da sempre. La Democrazia Cristiana.

La geografia della Liga ricalca, infatti, quella della DC. E segna, dunque, il passaggio di questa società dal governo all'opposizione. Anzi: all'antagonismo. Contro Roma e contro lo Stato Centrale. Sinonimi, nel linguaggio veneto e, in seguito, nordista e padano. Al tempo stesso, il Veneto interpreta, in modo aperto, l'affermarsi dei nuovi ceti medi "privati". I piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi. La Lega, prima e più ancora di Berlusconi, dà loro voce. Ne amplifica il risentimento e la protesta. Come hanno mostrato, efficacemente, Giorgio Lago e Francesco Jori, descrivendo e, in parte, amplificando la "voglia di indipendenza" espressa da quest'area. Riassunta nella formula geopolitica del Nordest. Ma in realtà sempre, saldamente impiantata sul Veneto centrale. Sul triangolo Vicenza-Padova-Treviso. Indipendenza, non secessione. Una rivendicazione che, qui, non ha mai attecchito. Neppure negli anni Novanta, quando la Lega Nord di Bossi ne aveva fatto una bandiera. Anche perché Il Nord e ancor più la Padania sono contesti poco o nulla condivisi, in Veneto. Territori immaginari: la Padania. O, comunque, relativi e "dipendenti": il Nord. Il cui significato "dipende", appunto, geograficamente e geo-politicamente, da Roma. Per questo è rischioso, oltre che superficiale, svalutare le tensioni indipendentiste espresse dal Veneto. Perché vengono da lontano e hanno ragioni condivise. Che, negli ultimi anni, sono esplose. Basti vedere quel che è avvenuto alle ultime elezioni, nel febbraio 2013, quando il M5S ha ottenuto, proprio in Veneto, un grande risultato. Soprattutto nelle aree dove era più forte la Lega e, prima, la Liga. Il M5S: ha sfondato soprattutto le basi sociali di quest'area e dei suoi rappresentanti politici - vecchi e nuovi. Ha, cioè, conquistato il voto dei lavoratori autonomi e dei piccoli imprenditori. Primo partito fra gli artigiani veneti con, circa, il 30% (sondaggio di Demetra per Confartigianato Imprese Veneto). Per questo, l'immagine pubblica proiettata dalle inchieste giudiziarie, oltre che dal profilo approssimativo e improbabile dei presunti cospiratori, banalizza le tensioni e le rivendicazioni che covano nella società veneta. Le riduce all'alternativa, errata e pericolosa, fra la criminalizzazione e il ridicolo. In entrambi i casi, riassume il "male del Veneto" in un vizio folcloristico e "periferico". Come il Veneto, in fondo, appare a molti italiani (ma anche a molti veneti, soprattutto alla Sinistra, che, non per caso, qui è sempre stata minoritaria).

Meglio non illudersi. Anzitutto perché, come ha mostrato il sondaggio di Demos condotto su un campione rappresentativo, oltre la metà degli elettori veneti (55%) si dicono d'accordo con l'obiettivo (sollevato dal referendum) dell'indipendenza veneta. Anche se è concepita, soprattutto, come maggiore "autonomia", maggiore capacità rivendicativa nei confronti di Roma. In parte, nella maggiore qualità dei parlamentari e della classe politica. Tuttavia, le ragioni dell'indipendenza vanno oltre. Basta scorrere i dati dei sondaggi dell'Osservatorio sul Nordest, condotti da Demos e pubblicati ogni settimana sul Gazzettino, da quasi vent'anni, per cogliere la misura della frattura con le istituzioni. Visto che il 71% dei veneti è convinto che "i cittadini di questa regione lavorano e danno molto più di quel che lo Stato restituisce loro" (Demos, aprile 2013). Mentre il 75% dei veneti intervistati (Demos, novembre 2013) si dice d'accordo con l'idea, sicuramente inquietante, che oggi sia "necessario proclamare uno sciopero fiscale perché le tasse sono insopportabili".

È, dunque, meglio non liquidare l'indipendenza veneta con qualche battuta. Lasciando che la giustizia faccia il suo corso e risolva il problema. Il "male del Veneto" ha radici profonde e diffuse, nella società e nel territorio. Ma non va neppure confinato, come una questione locale. Sollevata dai "soliti" veneti. Abituati a lamentarsi. Il "male del Veneto", come è avvenuto altre volte in passato, è il sintomo di un male più ampio. Riflette il disorientamento geopolitico europeo, sottolineato dalle crescenti tensioni autonomiste - in Spagna, Belgio, Gran Bretagna... Ma denuncia, soprattutto, il "male nazionale". La frattura tra gli italiani, la politica e lo Stato, rivelata, in modo esplicito, da un sondaggio recente, condotto in ambito nazionale (Demos, gennaio 2013). Il quale mostra come oltre metà degli italiani (52%, per la precisione) si dica d'accordo con la protesta dei Forconi. Un orientamento che appare particolarmente condiviso - non a caso - nel Nordest (61%). D'altronde, tra gli arrestati c'è un leader dei Forconi. Ma il sostegno alle ragioni dei Forconi risulta elevato anche nel Mezzogiorno. Dove, peraltro, è nato il movimento (in Sicilia, per la precisione).

L'indipendenza del Veneto, dunque, ha ragioni di lunga durata. Che non possono essere spiegate, in modo consolatorio, come un "vizio locale". Perché evocano una "questione nazionale" dai contorni netti. L'indipendenza dei cittadini rispetto allo Stato e alle istituzioni.

© Riproduzione riservata 04 aprile 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/04/news/il_male_del_veneto-82685973/?ref=HREC1-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - Lampedusa caput mundi
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2014, 11:37:58 pm
Lampedusa caput mundi

Ilvo DIAMANTI

Lampedusa non è più un luogo reale. È oltre. Molto di più. Iper-reale. Al punto da essere divenuta un mito. Ai confini, alle porte del "nostro" mondo. Lo conoscono tutti, ormai. Di qui e di là del mare. Pardon, del muro. Che separa noi da loro. E che loro cercano di raggiungere, scavalcare. Per entrare nel "nostro" mondo.

Così la conoscono, di qua e di là. Di là. Perché è il punto di partenza. La prima stazione per cominciare il viaggio. Per cominciare a vivere dopo la fuga. Dalla fame, dalla povertà, dalla violenza. Lampedusa, per questo, non è un'isola. È un faro, una breccia, un rifugio. Ma di qua, dalla nostra parte, nel nostro mondo, è diverso. È un passaggio stretto, l'ultima frontiera e l'ultima barriera. Lampedusa, può diventare una prigione spietata, ha mostrato il filmato shock del Tg2 sul Cie lager. Ma è anche luogo di gente generosa. "Capitale mondiale di umanità", la definita Fabrizio Gatti, sull'Espresso. Abituata a "convivere", vivere-con gli altri.

D'altronde, ormai, è difficile distinguere l'identità di Lampedusa e dei suoi abitanti dagli immigrati, dal popolo in fuga, su barconi e imbarcazioni precarie, che, senza soluzione di continuità, si dirige verso l'isola. Lampedusa, luogo di disperazione e di speranza. Come ha testimoniato Papa Francesco, con la sua visita. Il suo "viaggio" a Lampedusa.

Quanti uomini in fuga sono passati di là? Quanti sono fuggiti di là? E quanti sono morti, nel viaggio? Secondo la Fondazione Migrantes, dopo il 2010, circa 4.000 "persone" sono annegate, scomparse per sempre, in fondo alle acque del Mediterraneo, per arrivare in Italia e in Europa. Molte di loro, davanti a Lampedusa. Nell'ottobre del 2013: almeno 400. Molti altri, dopo averla raggiunta, hanno proseguito il viaggio, in Italia, alla ricerca di un lavoro, una casa. Di una speranza. In attesa di familiari, parenti, amici. Alla ricerca e in attesa di diventare davvero "persone". E cittadini. E molti altri hanno continuato il viaggio, oltre le Alpi. A Nord. Verso altri Paesi. Francia, Austria, Germania. A Nord.

Perché gli immigrati generano inquietudine e, spesso, paura - quando e dove arrivano. In tanti e in tempi rapidi. Ma, proprio per questo, costituiscono un "segno di sviluppo". Non a caso l'indagine sulla Sicurezza in Europa, curata da Demos, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis, quest'anno, ha rilevato come i maggiori timori verso l'immigrazione emergano in Germania e in Gran Bretagna. Cioè: i paesi dove l'economia va meglio. La Germania, in particolare. D'altronde, perché mai gli immigrati se ne dovrebbero andare da casa loro, affrontando i disagi, talora i drammi delle migrazioni, per recarsi in un Paese dove gli spazi per l'impiego e le tutele sociali sono deboli?

Per questo Lampedusa è l'inizio e la fine del "nostro" mondo. Le colonne d'Ercole del "nostro" tempo. E segnano i "nostri" limiti. Il "nostro" limite. Per questo occorre andare a Lampedusa. Partire da Lampedusa. Non più muro, presidio contro l'invasione. Ma caput mundi. Capitale e crocevia di un mondo che non si chiuda. Che non consideri la povertà una condanna irrimediabile e senza speranza. Come la giovinezza. Da tenere lontano. Per paura. Non solo di loro, ma anche di noi. Loro, poveri e giovani, di là. E noi (sempre meno) ricchi e (sempre più) vecchi, di qua. Sazi, prigionieri del nostro stanco egoismo. Destinati al declino. Lampedusa, non più isola e confine. Ma crocevia. Significa non rassegnarsi al declino.

(02 aprile 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/04/02/news/lampedusa_caput_mundi-82539012/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Paese provvisorio di Edmondo Berselli. Quattro anni dopo.
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2014, 11:38:12 pm
Ma oggi siamo tutti Post
Il Paese provvisorio di Edmondo Berselli. Quattro anni dopo.

Ilvio DIAMANTI

Non ci sono più i partiti di una volta. Quelli che ti accompagnavano dovunque. In casa, in piazza, al bar, nel lavoro, a scuola, nel tempo libero, nelle manifestazioni di massa, nelle discussioni con gli amici. Non ci sono più i partiti di una volta che ti seguivano dalla culla alla tomba. E ti davano risposte chiare sul futuro. Tuo e del mondo. Ti dicevano in chi e in cosa credere. E tu li votavi per "atto di fede". Non ci sono più i partiti di una volta. Sono cambiati. Si sono personalizzati, mediatizzati, coincidono con un volto in TV. Ma, ormai, non ci sono più neppure i partiti media-personali, inventati da Berlusconi. I partiti di ieri, dell'era berlusconiana. Leggeri nella società e nella vita e pesanti, solidi e saldi al centro. Immagine, marketing e sondaggi.

Anche quei partiti si sono appannati, rarefatti. E hanno lasciato il posto ai post-partiti. I non-partiti che usano la rete per comunicare, discutere, decidere. Per convocarsi e mobilitarsi, un flash-mob e via. I non-partiti guidati da leader veri, che però si fanno chiamare diversamente: portavoce. Non vanno in tivù, ma ci sono sempre egualmente. Perché le tivù li inseguono, visto che fanno audience. I portavoce che ce l'hanno con i partiti e con le tivù. Con i giornali e i giornalisti. Perché vengono ignorati, non hanno abbastanza spazio sui media... Ma ce l'hanno anche con i loro uomini, con i loro parlamentari, se ci vanno. Perché la tivù è, comunque, mefitica. Ci si vada oppure no. Lui, Grillo, il leader, pardon, il portavoce, lo sa bene. Perché la conosce bene. La tivù. Come l'altro leader. Renzi. Il suo vero, unico nemico. (O avversario? No, meglio nemico.) Perché unico, l'unico ad avere successo, a sfidarlo sul suo terreno. In tivù e fuori. L'unico a sottrarsi, come lui, al vecchio partito di una volta, ma anche a quello di ieri. Al partito media-personale inventato da Berlusconi. Perché lui, semplicemente, non se ne cura più di tanto. Di Berlusconi e del partito.  Ha "espugnato" il PD, dopo un lungo inseguimento, per necessità. Per non averlo contro.

E oggi se ne serve. Soprattutto in Parlamento, dove si approvano le leggi e le riforme che Renzi disegna e propone. All'esterno.  Per il resto, però, fa da solo. Veloce e diretto.  In fondo, il PD non è mai stato un partito "vero". È, invece, il frutto di un lungo, complesso, lavoro di rammendo. Mai riuscito davvero. Perché non è facile attaccare i pezzi di post-partiti. Il post-PCI e la post-DC. I post-Pds-Ds. E i post-popolari- Margherita-popolari. Un partito eternamente "incompiuto". Così Renzi guarda oltre. E guarda anche al di là del governo. Di cui è premier. Unico. A capo di una compagine dove solo lui conta davvero. Con una maggioranza di cui è difficile capire la vera composizione. Forza Italia, ad esempio, c'è oppure no? Sì e no. Dipende da quel che si vota. La legge elettorale o il DEF. Il Presidente di fatto di una Repubblica dove tutto è provvisorio, superato eppure ancora effettivo. Partiti, sistema elettorale, Senato, costituzione...

Questa, insomma, è l'era dei post-partiti e dei post-leader, dei post-governi e delle post-coalizioni. Della post-democrazia, come la chiama Colin Crouch. Post. Perché siamo oltre, dopo, qualsiasi modello, qualsiasi definizione, qualsiasi traguardo. Post. Siamo la post-Italia. Un Paese allo "Stato (sic) fluido". Popolato di post-italiani. "Un universo che intensifica a dismisura il mondo televisivo, facendone proliferare senza limite le schegge in un riverbero continuo di specchi elettronici."

L'irruzione dei nuovi media e delle nuove tecnologie della comunicazione, dei Social Media e degli smartphone, in fondo, ha rafforzato e moltiplicato questo universo, invece di farlo svanire. Perché ha permesso a tutti di esibirsi, in ogni momento, in ogni luogo, da casa loro, in strada, a scuola e in birreria. Ciascuno a lanciare il suo selfie al mondo. Senza distinzione di genere, età, titolo di studio e professione. Oltre ogni ideologia e religione. Questa post-democrazia, dove si affrontano post-leader di post-partiti che fatichiamo a distinguere con precisione. Per cui li chiamiamo tutti "populisti". Questa post-Italia, abitata da un "popolo" di "arcaici e postmoderni" al tempo stesso. Sempre in anticipo e sempre in ritardo. Noi, i Post-italiani. Raffigurati e rappresentati, fedelmente, dieci anni fa, da Edmondo Berselli. Con le immagini e le parole che ho proposto fin qui. In molti punti, in modo letterale e fedele. Altrove, con qualche adattamento e qualche aggiornamento. Edmondo Berselli se n'è andato giusto quattro anni fa. E molti di noi - io di certo - continuano a chiedersi cosa scriverebbe oggi. Del Paese provvisorio in cui viviamo. Dei leader post-politici che lo abitano. Di noi stessi. Che ne direbbe Eddy di tutto ciò?  #statesereni. L'ha già scritto. Basta ri-leggerlo. Con un po' di nostalgia e molta attenzione.

(11 aprile 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/04/11/news/ma_oggi_siamo_tutti_post-83338106/


Titolo: ILVO DIAMANTI - La rimozione elettorale
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 06:12:57 pm

La rimozione elettorale

di ILVO DIAMANTI
28 aprile 2014
   
Manca meno di un mese alle elezioni. Riassunte, nel dibattito pubblico, dal voto europeo. E, insieme, politico. Italiano. Perché non c'è voto, in Italia, che non abbia effetti sul piano politico nazionale. Così la consultazione del 25 maggio sembra ridursi a due quesiti. Pro o contro l'Europa - e, in primo luogo, l'euro. Pro o contro Renzi - e, di conseguenza, pro o contro Grillo. Ci si dimentica che il 25 maggio avranno luogo anche altre elezioni.

Non irrilevanti, per numero e importanza. Si voterà, infatti, anche per eleggere i sindaci e i consigli in oltre 4000 comuni, quasi la metà di quelli italiani. Tra questi, 27 capoluoghi di provincia e 14 città con oltre 100 mila abitanti. Inoltre, si eleggeranno il Presidente e il Consiglio di due Regioni: il Piemonte e l’Abruzzo.

Dunque, in Italia si voterà per l’Europa, ma anche per numerosi Comuni e due Regioni. Ma è significativo che molti non lo sappiano. L’alto grado di incertezza rivelato dai sondaggi, insieme al peso delle astensioni, inoltre, riflette anche un elevato livello di non conoscenza. Difficile chiedere agli intervistati se e per chi voteranno, quando molti di loro non sanno per chi e per chi saranno chiamati a votare. D’altronde, la campagna elettorale non è ancora partita. Nelle strade non si vedono manifesti. Né volantini, nelle cassette postali. Tanto meno si incontrano volontari, nelle strade e nei mercati. Ma questa è un’altra storia. Riguarda la scomparsa della politica sul territorio. Anche se, in fondo, la rimozione delle prossime scadenze elettorali evoca lo stesso problema. La stessa tendenza. Il declino del territorio. O meglio: la perdita dei riferimenti territoriali.

Vent’anni fa avveniva esattamente il contrario. I sindaci erano i nuovi sovrani. I veri capi della Nuova Repubblica. Eletti direttamente dal popolo.

Insieme ai presidenti di Provincia. Come sarebbe avvenuto, negli anni a seguire, anche per i presidenti di Regione, pretenziosamente ri-nominati, per analogia con gli Usa, Governatori. Vent’anni fa: il territorio veniva agitato come una bandiera. Come il federalismo. Marcava la lotta contro lo Stato centrale. E contro il vecchio ceto politico. Contro i partiti “romani”. In fondo, lo stesso Berlusconi, anche se aveva definito il suo partito personale Forza “Italia”, era il capo di Forza “Milano”, in marcia “contro Roma” insieme alla Lega “Nord”.

La sinistra, invece, appariva minoritaria, perché anch’essa localizzata, fin troppo, all’interno degli stessi confini di un tempo. Le regioni rosse dell’Italia centrale. Una sorta di Lega Centro (per citare Marc Lazar). Quest’Italia dei Comuni e delle Regioni aveva la sua cornice naturale nell’Europa. L’Italia: il Paese più europeista d’Europa. E al tempo stesso il più localista e antistatalista. Anzi: proprio per questo. Tanto più europeista — e localista — in quanto più lontano e disincantato nei confronti dello Stato.

Ebbene, in vent’anni, tutto sembra cambiato. E, senza quasi accorgersene, gli italiani hanno perduto fiducia nel territorio. In tutti i principali ambiti di governo locale. Basta tornare all’ultimo Rapporto su “ gli italiani e lo Stato” ( dicembre 2013). Da cui emerge il calo (meglio sarebbe dire: il collasso) della fiducia verso i Comuni. Oggi “stimati” da circa il 30% dei cittadini. Cioè: quasi 20 punti in meno rispetto a fine anni Novanta. Mentre la fiducia verso le Regioni, nello stesso periodo, si è dimezzata e oggi supera, di poco, il 20%. Così, non deve stupire la rimozione delle elezioni amministrative, che si coglie in questa fase. Rispecchia la progressiva marginalità dei governi locali nel sentimento dei cittadini. Che non ha paragoni, negli altri Paesi europei. Visto che la fiducia nei confronti dei Comuni e delle Regioni, in Italia, risulta, di gran lunga, la più bassa in un’indagine condotta anche in Francia, Spagna, Germania e GB ( Pragma per l’Oss.Europeo sulla Sicurezza di Demos, Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, gennaio 2014). Abbiamo, dunque, perduto il nostro “ancoraggio” al territorio.

E i partiti territoriali, non a caso, galleggiano faticosamente. Non solo la Lega, ma anche Forza Italia, pardon: Forza Milano. I quali, non per caso, per sopravvivere si affidano al sentimento anti-territoriale. O meglio anti-europeo. D’altronde, la fiducia nella Ue è crollata, quanto e più di quella verso i governi locali. Oggi è scesa intorno al 28%. Oltre 20 punti meno rispetto a dieci anni fa. Circa la metà rispetto alla Germania, ma 10 punti in meno anche rispetto alla Spagna (Oss. Europeo sulla Sicurezza).

Così, ci ritroviamo senza riferimenti territoriali. Abbiamo perduto la fede nei Comuni e nelle Regioni. Mentre delle Province ci siamo sbarazzati senza neppure discuterne, a livello sociale. Cancellate, come una voce di spesa, un capitolo della spending review. Senza rimpianti e senza proteste. Il federalismo, d’altronde, chi l’ha visto? Tuttavia, ci sentiamo lontani e delusi anche dall’Europa. A cui restiamo attaccati solo per paura. Di quel che ci potrebbe capitare se ne restassimo fuori. Non per questo abbiamo recuperato fiducia nello Stato. Anzi. Lo Stato è un participio passato. Perché oggi esprime fiducia (si fa per dire…) nei suoi confronti circa il 13% dei cittadini. Cioè: quasi nessuno. Così non ci dobbiamo sorprendere se, per paradosso, il leader politico più popolare, oggi, Matteo Renzi, è stato sindaco e, prima, presidente di Provincia. Né che la maggioranza dei veneti si dica d’accordo con la rivendicazione di indipendenza. Perché Renzi appare un capo. Senza partito — e senza territorio. Mentre l’indipendenza veneta non evoca una patria diversa e alternativa. Ma l’in-dipendenza dallo Stato e da ogni altra istituzione territoriale. Comune o Regione. Per non parlare delle Province, che non esistono più. Oltre che dall’Europa.

Un non-popolo senza patrie. Senza identità. Un Paese di apolidi. A questo rischiamo di ridurci, se non tentiamo, almeno, di resistere all’abolizione del territorio. Non solo dall’orizzonte (geo) politico. (A proposito: la Crimea da che parte sta?) Ma dal nostro “limes personale”. Dal nostro linguaggio. Dalle mappe che orientano la nostra vita quotidiana.
© Riproduzione riservata 28 aprile 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/28/news/la_rimozione_elettorale-84648565/?ref=HREC1-1



Titolo: ILVO DIAMANTI - Nostra Signora Televisione
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2014, 11:33:39 pm
Nostra Signora Televisione

di ILVO DIAMANTI
05 maggio 2014

Nostra Signora Televisione. Guardata con sospetto e con distacco. Un old medium. In altri termini: vecchio. Se non superato, in declino. Vuoi mettere internet? I social media? Twitter e Facebook? Vuoi mettere Beppe Grillo e il suo blog? Capace, con la regia di Casaleggio, di sbancare, alle elezioni del 2013? E di continuare la corsa anche in seguito? Fino a lasciar pensare a una replica, almeno, alle Europee del prossimo 25 maggio? La televisione. Una signora. Ma irrimediabilmente vecchia. Soprattutto i canali generalisti di Rai e Mediaset, con La7 a traino. Il duopolio imperfetto degli ultimi trent'anni. A reti unificate. Eppure... Tutti scalpitano, impazienti, per irrompere nei programmi tivù di RaiSet - e della 7. Tutti i leader politici che contano. E, a maggior ragione, quelli che contano di meno. Perché per contare occorre ricorrere a Nostra Signora Televisione.

Per questo motivo Berlusconi, nell'ultima settimana, ha fatto irruzione in tutte le reti. E in molti programmi di informazione di prima serata. Dal Tg4 a Studio Aperto, al Tg2. E ancora: da "Porta a Porta" a "Piazza Pulita", da "Virus" a "In ½ ora"... Una presenza tanto costante e intensa da sollevare l'attenzione dell'Agcom (come ha documentato, ieri, un ampio servizio su Repubblica). D'altronde, la ripresa (per quanto relativa) di Berlusconi, alle elezioni di un anno fa, era trainata dalla partecipazione a uno spazio ostile: "Servizio Pubblico". Il talk guidato da Santoro insieme a Travaglio. Icone, più che portabandiera, dell'anti-berlusconismo. L'irruzione di Berlusconi, il Nemico Pubblico, aveva fatto salire gli ascolti fino a livelli mai raggiunti - né prima né dopo. Dal programma e dalla rete. Ma aveva anche permesso al Cavaliere di contrastare la sconfitta annunciata. Di esibire la propria determinazione a "resistere, resistere, resistere"... Per echeggiare una frase famosa, usata dal magistrato Francesco Saverio Borrelli, nel gennaio 2002, con un fine opposto. Cioè, contro Berlusconi. All'epoca, Presidente del Consiglio.

In questi giorni, però, anche Beppe Grillo ha ripreso a frequentare la tivù. Ieri sera ha concesso una lunga intervista a SkyTg24. Ma, soprattutto, sembra stia negoziando la partecipazione al programma che, più di ogni altro, simboleggia il legame fra informazione televisiva e sistema politico. "Porta a porta". Il talk presentato - e diretto - da Bruno Vespa. Trent'anni dopo, visto il precedente del 1983. In occasione, non a caso, della serata dedicata da Rai Uno alle elezioni (politiche, in quell'occasione). Grillo, che tratta televisioni, giornali e giornalisti come "nemici". Come i partiti. In quanto "mediatori" della comunicazione e della democrazia. Che egli concepisce in forma "diretta" e "im-mediata". Oltre ogni rappresentanza. Grillo che, sul proprio blog, esibisce alla pubblica riprovazione i giornalisti infedeli - al loro compito. E, dunque, a suo avviso, pre-venuti: contro il M5s. Proprio lui, Beppe Grillo: da Vespa. Dopo aver polemizzato contro lo spazio riservato a Renzi e agli uomini del Pd e del governo. Nelle reti televisive nazionali. Mentre altri soggetti politici, meno accreditati, dal punto di vista elettorale, protestano contro la propria marginalità (esclusione?) mediatica. In particolare, la sinistra dell'Altra Europa.

Dunque: la televisione, nonostante tutto. Impossibile farne a meno, se si ha l'ambizione di "vincere", o almeno di "esistere", alle elezioni. Perché le scelte degli elettori si definiscono proprio lì. E perché, soprattutto lì, si risolve l'incertezza. Maturano le decisioni degli indecisi. Che sono ancora molti. Oltre un terzo, secondo i sondaggi. D'altronde, alle Europee la partecipazione elettorale è, strutturalmente, più bassa. Nel 2009, in Italia, votò il 66% degli aventi diritto. Peraltro, livello fra i più alti in Europa. Ma è facile immaginare che, in questa occasione, l'affluenza alle urne scenda ulteriormente. Così diventa essenziale andare in tivù. D'altra parte, se facciamo riferimento alle elezioni politiche del 2013, quando l'attenzione appariva molto maggiore di oggi, possiamo osservare come quasi un quarto degli elettori abbia deciso se e per chi votare nel corso dell'ultima settimana (come mostrano le indagini di LaPolis, presentate nel volume Un salto nel voto, pubblicato da Laterza). La maggioranza, il 13% dei votanti, nei giorni delle elezioni. Il 90% degli elettori, peraltro, afferma di aver seguito la campagna elettorale (guarda caso...) proprio in televisione. Meno della metà, il 40%, attraverso internet. Secondo Ipsos, circa il 55% utilizza la tivù per informarsi sulle elezioni anche in questa fase. Il che significa la maggioranza di tutti gli elettori e di tutti gli elettorati. Compreso il M5s. Il soggetto politico, peraltro, che, alle elezioni del 2013, ha allargato maggiormente la propria base elettorale proprio nell'ultima settimana. Nel corso della quale ha conquistato circa il 30% dei suoi elettori.

Per questo la televisione resta il vero "campo" della campagna elettorale. Il più conteso e il più combattuto. Perché il più influente. D'altronde, secondo l'Osservatorio di Demos-Coop del dicembre 2013, l'80% degli italiani si informa ogni giorno attraverso la tivù. Circa il 47% su internet. Il "mezzo" di informazione che ha registrato il maggior grado di crescita, negli ultimi anni. Dal 2007, infatti, è quasi raddoppiato. Tuttavia, resta ancora un medium molto delimitato, dal punto di vista degli utenti. Ne restano, infatti, largamente escluse le persone più anziane e meno istruite. Cioè, le più incerte. Le più difficili da contattare e, quindi da convincere. Anche perché, nel corso degli anni, hanno perduto fiducia nella politica, nei politici e nelle istituzioni. (E uno spettacolo osceno, come quello messo in scena prima della finale di Coppa Italia, a Roma, in diretta tivù, non può che aver moltiplicato questo sentimento.)

Ebbene, per raggiungere e spingere gli elettori indecisi a votare - magari contro, per rabbia e delusione - ci vorrebbero contatti diretti. Personali. Con amici, conoscenti, familiari. Per sfidare la sfiducia ci vorrebbero persone di cui ci si fida. Ci vorrebbe la politica sul territorio. Come un tempo. Quando i partiti erano dentro la società, confusi nella vita quotidiana. Quando la campagna elettorale veniva condotta porta a porta. Mentre ora, per parlare con gli indecisi e gli incazzati, non resta che andare in tivù. A "Porta a porta".

© Riproduzione riservata 05 maggio 2014
Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/05/news/nostra_signora_televisione-85250995/?ref=HREC1-10


Titolo: ILVO DIAMANTI - L’Europa ringrazi gli antieuropei
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2014, 05:36:19 pm
L’Europa ringrazi gli antieuropei

Di ILVO DIAMANTI
19 maggio 2014
   
PER fortuna ci sono gli antieuropei. Che scendono in piazza contro l’Unione Europea e contro l’euro. Per fortuna dell’Europa. Ma, in fondo, anche di Renzi e del Pd. Perché grazie agli antieuropei si parla dell’Europa.

E grazie al M5s, oltre che a Renzi, anche il Pd ha ritrovato le piazze. Gli antieuropei. Sono i soli soggetti politici a mobilitarsi e a mobilitare l’opinione pubblica, in questa fase. D’altronde, l’Unione Europea piace a pochi. (Come emerge da un sondaggio Demos-Pragma per la Fondazione Unipolis, gennaio 2014.) Esprime fiducia nei suoi riguardi il 27% degli elettori, in Italia, come in Gran Bretagna (che, però, è fuori dall’euro), il 33% in Francia, il 38% in Spagna. Solo in Germania il consenso nella Ue è maggioritario (55%). Non a caso, visto che la Germania costituisce l’asse portante dell’Unione. E gran parte del malessere, negli altri Paesi, dipende proprio da questo.

Altrettanto — e, forse, più — negativo è il giudizio sulla moneta. Sull’euro. Poco più del 12 per cento degli italiani (intervistati da Demos, ottobre 2013) ritiene, infatti, che la moneta unica abbia prodotto «vantaggi ». Meno di metà rispetto a dieci anni prima, quando l’entusiasmo seguito all’ingresso nella moneta si era già consumato.

Nell’aria si respira, dunque, una diffusa euro-delusione, particolarmente densa presso le componenti sociali più vulnerabili. Gli operai, le casalinghe, i disoccupati. Ma anche i lavoratori autonomi. Soprattutto nel Centro Sud. Non c’è, dunque, da sorprendersi di fronte a questa “singolare” campagna elettorale europea. Nessuno che si azzardi a dirsi europeista, in modo convinto. Tanto meno, a favore dell’euro. Non solo in Italia. Ma soprattutto in Italia. Prevalgono gli argomenti eurodelusi. Eurocritici, se non euroscettici. Disposti, al più, a indicare “l’Europa che vorremmo”. Che costruiremo. Domani. In caso di vittoria e di governo. Mentre ben più espliciti e determinati sono i soggetti — e i messaggi — politici antieuropei. Contro l’Europa delle banche e dei mercati, dei burocrati e dei funzionari. Contro l’Europa che neutralizza la sovranità degli Stati nazionali e/o dei popoli.

Al più, l’Europa disegnata da questa campagna elettorale è un “non-luogo”. Un’entità incerta e indefinita. Per questo la campagna anti-europea diventa utile. Non tanto quella opportunista, condotta da Berlusconi, che contesta l’Europa (e la Germania) che lo contesta. Ma l’antieuropeismo determinato e convinto. Espresso, soprattutto, dalla Lega e dal M5s. La Lega, in nome dell’Europa dei popoli. E dell’indipendenza del popolo padano, in particolare. Il M5s, contro la democrazia in-diretta — e poco democratica — delle istituzioni europee. Definite, da Grillo, «un club Med, un dolce esilio dei trombati alle elezioni nazionali ». Ma, soprattutto, contro l’euro. Non a caso, il M5s propone di restare nella Comunità (non nell’Unione) Europea, ma di uscire dall’euro. Di tornare alla moneta nazionale. Con un referendum.

Ecco, la Lega e, soprattutto, il M5s — su posizioni peraltro lontane e diverse — hanno, comunque, il merito di porre l’Europa, le sue istituzioni, la sua moneta al centro del dibattito. Per paradosso, sono i principali partigiani dell’Europa e dell’euro. Perché li prendono sul serio. E suggeriscono, al tempo stesso, la questione che dovrebbe, davvero, venire posta e sottoposta a tutti, in questa fase. E cioè: cosa succederebbe se uscissimo davvero dall’Unione Europea? E dall’euro?

A dare ascolto ai sondaggi — che ovviamente non sono referendum — il risultato sembrerebbe netto e scontato. Il disincanto europeo, infatti, non pare giungere fino al punto di rottura. Fino a sfociare in euro-scetticismo o, peggio, in euro-rifiuto. Meno di un italiano su quattro, infatti, pensa che converrebbe uscire dalla Ue. Mentre meno del 30% pensa che l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro e tornare alla lira. Gli italiani, dunque, in larghissima maggioranza, anche se insoddisfatti, restano attaccati alla Ue e all’euro. Perché temono che, "fuori" dall’euro e dalla Ue, le cose andrebbero peggio. Potrebbero precipitare. E dunque: l’Europa e l’euro “nonostante tutto”, potremmo dire (echeggiando la formula coniata da Edmondo Berselli per l’Italia).

Il problema è che non è facile sostenere le buone ragioni di un’idea e di un progetto “nonostante tutto”. Così prevale il silenzio. La reticenza. I sussurri. Gli unici a gridare sono gli anti Ue e soprattutto gli anti euro. Come Grillo. Che, peraltro, ha spostato la campagna delle europee sul piano interno. Nazionale. Non solo, ma soprattutto lui. Perché Grillo e il M5s sono divenuti i principali antagonisti del governo e di Renzi. Hanno trasformato il voto in un referendum: pro o contro Renzi. Pro o contro il M5s. Grillo, proprio per questo, sta mobilitando le piazze. Come prima del voto del febbraio 2013. Con la differenza, rispetto a un anno fa, che anche il Pd di Renzi lo ha seguito sullo stesso terreno. Che poi è il teatro tradizionale della sinistra. La piazza.

Al di là dello scontro sui numeri, in base a report giornalistici e fotografici, com’è avvenuto in occasione delle recenti manifestazioni di Reggio Emilia, la novità è questa. Non solo Grillo, ma anche il Pd di Renzi è tornato in piazza. Non avveniva da tempo. Ma di ciò deve ringraziare “anche” la sfida di Grillo. Che lo costringe a mobilitarsi, a rafforzare la propria identità attraverso la partecipazione e la comunicazione “pubblica”. Ad agire come un “partito”. Così gli antieuropei ci costringono a parlare dell’Europa e delle sue ragioni. Senza svalutarle. In quest’epoca di non-luoghi e di non-partiti, non mi pare una cattiva notizia.

© Riproduzione riservata 19 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/19/news/leuropa_ringrazi_gli_antieuropei-86536328/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quanto conta il voto last minute
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2014, 06:10:59 pm
Quanto conta il voto last minute

di ILVO DIAMANTI
24 maggio 2014
   
Per chi e per che si vota domani? Non è una domanda retorica. Certo, si vota per eleggere il nuovo Parlamento Europeo, ma è chiaro che la campagna elettorale è concentrata su un'arena politica diversa. Racchiusa dentro il perimetro nazionale. Eppure, va detto e ribadito, senza equivoci, che si tratta di elezioni europee. Percepite come tali da un'ampia parte degli elettori. Che, per questo motivo, da sempre le affrontano con minore attenzione rispetto alle altre consultazioni. Gli studiosi le considerano, non a caso, elezioni di "second'ordine" (definizione formulata da Reif e schmitt, 1980).

Nelle quali la mobilitazione degli elettori è più limitata e il voto viene, spesso, utilizzato come sanzione oppure ammonimento, più che come una scelta che li riguarda direttamente. Di conseguenza, l'astensione, normalmente, risulta più elevata. In Italia, è sempre avvenuto così. Per limitarci al periodo più recente: alle elezioni europee del 2004 votò il 73% degli aventi diritto. Due anni dopo, alle elezioni politiche del 2006, la partecipazione elettorale salì all'84%. Lo stesso è avvenuto negli anni seguenti. Alle elezioni politiche anticipate del 2008, infatti, votò l'81% degli aventi diritto. Ma l'anno successivo l'affluenza scese al 66%. È così dovunque, in Europa. Anzi, in Italia la partecipazione elettorale è significativamente più elevata. Nell'insieme dei 27 Paesi della Ue, infatti, nel 2009 l'affluenza si fermò al 43%.

Il fatto è che i cittadini hanno, nei confronti delle istituzioni europee, un atteggiamento distaccato. Le percepiscono lontane dalla loro condizione e dalla loro vita. Il che non significa che il voto di domenica non conti. Al contrario. Perché le ricadute delle politiche della Ue sulla condizione sociale ed economica dei Paesi, ma anche delle persone, sono sempre più evidenti. E ciò ha reso la campagna elettorale particolarmente accesa. In senso anti-europeo e anti-euro. Il che sottolinea come e quanto l'Europa abbia assunto rilevanza politica.

Tuttavia, il voto di domenica non riguarda solo l'Europa. Visto che la campagna elettorale si è tradotta, sempre più, in una resa dei conti politica. Nazionale. In Italia molto più che altrove. È, infatti, possibile che il FN guidato da Marine Le Pen, in Francia, e l'Ukip, guidato da Nigel Farage, in Gran Bretagna, risultino i partiti più votati, alle Europee. Ma a nessuno - per primi, ai due leader - verrebbe in mente di immaginare e chiedere le dimissioni di Hollande e Cameron. In Italia, però, è diverso. Perché la politica in Italia è diversa. E, per i partiti e la classe politica, contano soprattutto le faccende interne. Tanto più in questa occasione. Per questo conviene fare i conti con le ricadute del voto europeo sul piano politico nazionale. E, al tempo stesso, sul "non voto". Sull'astensione. E sul voto last minute. Maturato negli ultimi giorni. Alle elezioni politiche del febbraio 2013, oltre il 13% dei votanti affermò di aver scelto solo nei giorni in cui si votava. Più o meno: nel tratto di strada fra casa e seggio. Un altro 10% sosteneva di aver deciso nella settimana precedente.

Nel complesso, quasi un elettore su quattro ha risolto i propri dubbi negli ultimi 7 giorni. E si trattava, si badi bene, di elezioni (veramente) politiche. Non di elezioni europee tradotte in senso politico nazionale. È, dunque, molto probabile che la quota sia destinata ad aumentare, in questa occasione. Che, dunque, a un giorno dal voto circa due elettori su dieci siano ancora incerti se e per chi votare. Un anno fa, d'altronde, il 41% degli elettori last-minute pensava di astenersi. Ha deciso, appunto, all'ultimo minuto. Il maggiore beneficiario di quel voto, allora, fu il M5S. Che "strappò" una quota consistente di elettori alla tentazione del non-voto.

La composizione degli astensionisti, d'altronde, è mutata, negli ultimi anni. Fino a dieci anni fa coincideva largamente con l'area del dis-interesse, dell'indifferenza, della perifericità sociale ed economica. Coinvolgeva, soprattutto, i più anziani, i ceti medio-bassi, il Mezzogiorno. Poi il quadro è cambiato. Per la crescente insofferenza verso la politica e le istituzioni, che ha investito settori sociali dell'impiego privato e pubblico, del Centro e del Nord.

L'astensione è divenuta, cioè, una conseguenza della delusione. Un voto. Il voto-di-chi-non-vota (come recita il titolo di uno studio curato da Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino, Ed. Comunità, 1983). E ha colpito anche e soprattutto i partiti di Centrosinistra e di Sinistra. L'anno scorso, ad esempio, il Pd pagò un prezzo elevato alle divisioni interne, acuite dalle Primarie (un effetto non previsto di questa pratica di partecipazione). Ma anche a una campagna elettorale timida e defilata. Come se tutto fosse già risolto. E le elezioni fossero già state vinte. Ne beneficiò Grillo. Che alimentò e inseguì la rabbia degli elettori fino all'ultimo minuto. Fino all'ultimo voto. Come quest'anno. Non a caso ha girato dovunque, fino in fondo. Fino a ieri sera, a Piazza San Giovanni. E non a caso è andato in TV. Di persona, stavolta. Da Bruno Vespa. Per intercettare il "pubblico" anziano e moderato, tradizionalmente più distaccato dalla politica. Quindi, "astensionista potenziale". Ma anche per rassicurare. Per "normalizzare" la propria immagine. Per contrastare l'idea di rappresentare un voto in-utile. Solo di protesta. Con il rischio, però, di neutralizzare il proprio appeal presso gli insoddisfatti. Di contraddire il proprio ruolo, di pifferaio di Hamelin, alla testa degli elettori più "incazzati".

L'altro possibile beneficiario del voto "last minute" è il suo principale nemico. Pardon: avversario. Matteo Renzi. Che ha "personalizzato" la campagna elettorale, il Pd e il governo. E il bacino dell'astensione - soprattutto quello moderato - è, infatti, attratto dalla figura del Capo. Soprattutto oggi che l'archetipo, Silvio Berlusconi, appare stanco e invecchiato. Non a caso il voto di molti elettori di Centro e di Centrodestra sembra orientarsi verso il Pd. O meglio: verso Renzi.
La misura dell'astensione, dunque, dipende molto, dall'orientamento di questa campagna elettorale. Che, in una certa misura, si è tradotta in una sfida "personale": fra Renzi e Grillo. Tra un voto di fiducia (personale) e di sfiducia (nel sistema). Anche il risultato finale, per questo, appare ancora aperto.

Quanto all'Europa: può attendere. Almeno, per gli italiani.
 
© Riproduzione riservata 24 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/24/news/quanto_conta_il_voto_last_minute-87026400/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Nazionale e personale, ovunque primo partito
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 11:10:34 pm
Nazionale e personale, ovunque primo partito
Di ILVO DIAMANTI
27 maggio 2014
 
Fino a ieri la base elettorale del centrosinistra era addensata nell'Italia centrale. Renzi è riuscito a intercettare la fiducia di ceti sociali e zone da sempre ostili. Dal voto di domenica è emerso il nuovo bipartitismo italiano. Pd e M5s insieme rappresentano due terzi dei voti. Tutto il resto è sfondo. L'astensione. Il M5s ha perduto dove è cresciuta maggiormente l'astensione. Nel Sud e in Sicilia, ma anche nel Triveneto (in Friuli, in particolare). Lo scambio. Buona parte dell'avanzata del Pd è avvenuta nelle aree dove il M5s è arretrato maggiormente come il Nordest, la Toscana, l'Umbria e le Marche. Il nord est. Nelle province tradizionalmente più bianche, Veneto (Treviso, Padova, Verona) il Pd è cresciuto in misura più elevata rispetto alla media nazionale.
La geografia politica dell'Italia è cambiata. Dopo oltre cinquant'anni di fratture territoriali, dalle elezioni sono emersi due partiti, meglio, due soggetti politici, "nazionali".

Il Pd primo partito in Italia. Alle regionali, ha conquistato il Piemonte e l'Abruzzo. Alle europee, ha quasi doppiato il principale antagonista, ottenendo oltre 5 milioni più del M5s. Anch'esso partito "nazionale", per distribuzione del voto.

Il PD di Renzi. Un "post-partito" personale. Il PD(R) ha superato la soglia del 40%. Mai raggiunta da un partito di sinistra, neppure nella Prima Repubblica. Fino a ieri, e anche nel 2013, la base elettorale di Centrosinistra era addensata nelle regioni dell'Italia centrale. Nella "zona rossa", come viene definita ancora oggi. Riflesso della frattura anticomunista che ha segnato il comportamento politico degli italiani. Riproposta, ad arte, da Silvio Berlusconi, per chiudere gli avversari dentro gli antichi steccati. In una condizione di "minoranza".

Ma quell'epoca è finita. E il PD si presenta come un partito nazionale. Il primo in quasi tutte le province italiane. E la sua crescita ha coinvolto non solo le province e le regioni del Centro. Ma, anche e soprattutto, territori ostili alla Sinistra. Come il "mitico" Nordest. Nelle province tradizionalmente più bianche del Veneto (bianco). Treviso, Padova, Verona, infatti, il PD è cresciuto in misura più elevata rispetto alla media nazionale. Perché è riuscito a intercettare il consenso e la fiducia di ceti sociali da sempre lontani e ostili nei confronti della Sinistra. I ceti medi autonomi, i piccoli imprenditori, i liberi professionisti. D'altronde, in un sondaggio di Demetra (per Confartigianato), condotto presso un campione di circa 800 artigiani veneti, nelle settimane precedenti il voto, il 34% degli intervistati annunciava che avrebbe votato per il PD. Un anno fa, un sondaggio condotto sul medesimo campione aveva dato esiti molto diversi. Visto che, allora, il partito più votato dagli artigiani risultava il M5s. Ecco, questo mutamento dà il segno della svolta a cui abbiamo assistito il 25 maggio. La geografia elettorale del voto di domenica, infatti, mostra come la crescita del PD sia largamente speculare rispetto alle perdite del M5s. In altri termini, buona parte dell'avanzata del PD, rispetto a un anno fa, è avvenuta nelle aree dove il M5s è arretrato maggiormente. Il Nordest, appunto. (Dove ha ripreso fiato la Lega.) Inoltre, molte province "di sinistra": di Toscana, Umbria e Marche. Alcune province della Sicilia. Il M5s, inoltre, ha perduto dove è cresciuta maggiormente l'astensione. Nel Sud e in Sicilia, anzitutto. Ma anche nel Triveneto (e in particolare, in Friuli-Venezia Giulia).

Il M5s stesso, comunque, si conferma attore del nuovo bipartitismo italiano. Accanto al PD, che ne costituisce il riferimento dominante. Insieme, i due partiti, oggi, rappresentano quasi i due terzi dei voti (validi). Ma la differenza fra i due, oggi, è che il PD ha quasi il doppio dei voti rispetto al M5s. E ne ha guadagnati oltre due milioni e mezzo, rispetto a un anno fa. Mentre il M5s ne ha perduti quasi tre.

Il risultato del Pd, d'altronde, è stato sicuramente favorito da Grillo e dal M5s. Che hanno concentrato la campagna elettorale "contro" Renzi. In questo modo, hanno trasformato la competizione in un referendum "personale". Pro o contro Renzi. Pro o contro Grillo. Usando la leva della "sfiducia", Grillo ha, così, canalizzato verso Renzi la domanda di "fiducia" che, anche se frustrata, è diffusa, nel Paese. Nelle zone e nei settori sociali "produttivi" del Nord. Ma anche nei mondi periferici, battuti dalla crisi economica. Così, il PD, unico partito rimasto sul territorio, ha potuto avvantaggiarsi della propria presenza organizzata. Ma anche della "fiducia" personale nei confronti di Renzi. Immune dal virus "anticomunista".

Non a caso, un sondaggio di Demos (per il Gazzettino) nello scorso aprile rilevava un grado di fiducia verso Renzi, fra gli elettori del Veneto (già democristiano, poi leghista e infine pentastellato), del 57%. Il più elevato ottenuto da un presidente del consiglio negli ultimi vent'anni. Berlusconi compreso. Berlusconi, appunto. Insieme a FI, appare periferico e quasi marginale. Presente soprattutto in alcune province del Sud. Lontano dalle origini, quando rappresentava la borghesia milanese e lombarda alla conquista di Roma. E se i partiti di Centro-destra, insieme, pesano ancora molto (circa il 30%, come ha osservato Luca Ricolfi), il declino di Berlusconi li rende privi di identità.

Da ciò la differenza e la continuità rispetto alle elezioni dell'anno scorso. Che erano politiche, non va dimenticato. Anche se la campagna elettorale, in queste elezioni europee, è stata giocata, quasi per intero, su questioni politiche "nazionali". Dal voto di febbraio di un anno fa erano uscite tre grandi minoranze politiche. Ora, invece, si confrontano una grande maggioranza di governo, il PD di Renzi. E una minoranza di protesta, il M5s. Tutto il resto è sfondo.

L'elemento di continuità e di stabilità, invece, è nella discontinuità e nell'instabilità del voto. L'anno scorso, rispetto alle elezioni politiche del 2008, oltre il 40% degli elettori cambiò partito, o meglio, schieramento. Quest'anno non sappiamo ancora di preciso quanti siano i voti "infedeli". Ma sono un'ampia quota degli elettori. Perché la fedeltà di voto non è più una virtù. E il cambiamento è divenuto regola. Così ogni elezione diventa un'occasione di confronto. Aperto. Dove non è possibile prevedere l'esito. Renzi, per questo, è atteso da un compito duro. Cambiare il Paese per convincere gli elettori. Ora, di certo, ha più forza per provarci.

© Riproduzione riservata 27 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/27/news/nazionale_e_personale_ovunque_primo_partito-87334198/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Renzi e Grillo: chi ha sconfitto il M5S?
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2014, 07:47:30 pm
Renzi e Grillo: chi ha sconfitto il M5S?
Ilvo DIAMANTI

Beppe Grillo ci ha messo un paio di giorni prima di accorgersi che, in effetti, non era andata così male al M5s. In fondo, superare il 21% dei voti validi, quasi 6 milioni di voti in valori assoluti, alla prima vera elezione europea affrontata, non dovrebbe apparire così disastroso. Troppo tardi. Non ci crede nessuno, ormai. Non solo perché, rispetto all’anno prima, si tratta di un arretramento notevole. In voti assoluti (3 milioni: un terzo in meno) e percentuali (oltre 4 punti percentuali). Ma anche sul piano territoriale. Visto, che, nel 2013, iI M5s, era primo in 50 province e secondo in 42. Mentre alle europee è secondo in 83 province. Ma primo in nessuna. È, dunque, difficile negare che si tratti di una battuta di arresto. Pesante.

Ma è altrettanto vero che l’impatto, sulla percezione degli elettori, è stato perfino superiore alla reale proporzione del risultato. Per quanto ampia. Anzitutto per colpa del PD di Renzi. Il PDR. Che, però, ha annichilito tutti, non solo il M5s. Pensate a FI, ridotta a un partito minore che non arriva al 17%. Insieme al NCD, rispetto al PDL nel 2009, ha perso metà dei voti. Cioè, 5 milioni.  Mentre altri gridano vittoria per aver raggiunto la soglia del 4%.

Eppure il senso e le proporzioni della sconfitta del M5s dipendono, in ampia misura, anche dai propositi annunciati – anzi: gridati - dal Capo. Dalle sue reazioni al risultato. Perché la valutazione di un esito discende, in modo indiscutibile, dalle attese. Così Tsipras festeggia il 4% come un successo. Perché ci credevano in pochi. Mentre gli elettori del M5s oggi faticano a digerire il 21%. E, seguendo l’esempio dei leader, si aiutano con il Maalox. Perché Grillo e Casaleggio hanno fissato gli obiettivi, il metro con cui misurare il risultato. Non il 25% e neppure qualcosa in più. Ma il sorpasso. Hanno promesso, minacciato, di far meglio di Renzi. Come scandisce l’hashtag #vinciamonoi. Lanciato dal blog di Beppe Grillo e divenuto il marchio del suo tour elettorale.  Almeno: di fargli sentire il fiato sul collo. Per spazzarlo via. Per andare al governo, al posto suo.

L’hanno gridato dovunque, in tutte le piazze reali e mediatiche più importanti. Da Piazza San Giovanni a Piazza Bruno Vespa. E, sulla loro scia, l’hanno ripetuto anche i parlamentari, gli amministratori, i dirigenti. Gli elettori. Li cacceremo tutti, questi abusivi del potere. Li processeremo. In Rete. Non vinceremo: stra-vinceremo. E ci credevano davvero. Mentre gli altri, gli avversari, gli analisti, i sondaggisti, comunque, lo temevano. Anche per quello che era successo un anno fa.

Così, quando sono usciti gli exit poll, che davano in chiaro vantaggio il PD, ne hanno seriamente dubitato. Mentre le proiezioni (che si fondano sui campioni di voti scrutinati) li hanno scossi. Ma di fronte ai risultati reali hanno dovuto rassegnarsi tutti. Alla vittoria del PD di Renzi. E, nel caso del M5s e dei suoi capi,  alla sconfitta. Che loro stessi, per primi, hanno decretato. Perché loro stessi, e Grillo per primo, hanno segnato la misura dell’asticella da scavalcare. Sempre più in alto. Così Renzi sosteneva che anche se il PD avesse ottenuto meno del 30% lui non ci pensava proprio a dimettersi, perché di elezioni europee, e non politiche, si trattava. Mentre Grillo e il suo ideologo gridavano il contrario. Che il M5s avrebbe sorpassato Renzi. Comunque, lo avrebbe tallonato. E che il voto europeo era politico. Un voto al governo e al presidente del Consiglio. Per questo oggi Grillo, Casaleggio e il M5s appaiono sconfitti. In modo più netto di quanto emerga dai dati. Battuti da Renzi e dal PD. Ma, prima ancora, da se stessi. E da #vinciamonoi, dopo le elezioni, su twitter, si è passati ironicamente a #vinciamoPoi.

Il M5s, oltre all’avanzata di Renzi, ha pagato la propria strategia elettorale. Lo ha rilevato  e ammesso – da ultimo - un’analisi dell'ufficio comunicazione dei parlamentari del MoVimento. Lo pensa anche quasi metà degli attuali elettori del M5s (come emerge da un recente sondaggio dell’Ispo). Osservazioni che non sono piaciute a Grillo. Perché mettono in discussione non solo la campagna, ma l’immagine stessa del MoVimento. Raffigurata e messa in scena dal Capo.  Che ha gridato tanto, fino a ieri. Al punto che, oggi, ogni rettifica, ogni precisazione, appare inutile.

Imbarazzata. E imbarazzante.
 
(30 maggio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/05/30/news/renzi_e_grillo_chi_ha_sconfitto_il_m5s_-87631492/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Lega partito nazionale alla conquista del Sud
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2014, 07:23:09 pm
La Lega partito nazionale alla conquista del Sud

Mappe. Il Carroccio ha rialzato la testa dopo la débâcle delle politiche 2013 quando era scesa al 4 per cento. Alle europee ha aumentato la base elettorale, risalendo al 6 per cento. Ma non chiede più la secessione della Padania, ora brandisce la bandiera anti-europea

Di ILVO DIAMANTI
02 giugno 2014

A fatica, ma ha rialzato la testa. La Lega. Ha fermato il declino, che pareva inarrestabile, dopo gli scandali che, negli anni scorsi, hanno coinvolto direttamente i familiari e i fedeli - il cerchio magico - di Umberto Bossi. Era, infatti, crollata al 4%, alle elezioni politiche del 2013.

Più che dimezzata, rispetto alle precedenti consultazioni politiche del 2008 e alle europee del 2009. Invece, una settimana fa, ha ripreso la marcia, anche se non la corsa. Unico partito del centrodestra ad aver aumentato la base elettorale, rispetto a un anno fa. In voti e in percentuale. Oltre a superare la soglia del 4% (a differenza dei Fratelli d'Italia). È, infatti, risalita oltre il 6%, due punti più dell'anno prima. Ottenendo quasi 1.700.000 voti, circa 300 mila in più rispetto al 2013. Certo, i successi del 2009 - ribaditi alle regionali del 2010 - sono lontani. Però, non era facile immaginare che la Lega, scossa da episodi di familismo e illecito (un partito come gli altri, insomma), recuperasse. Invece è avvenuto. In gran parte, grazie alla sua tradizione e alla sua organizzazione. Perché, per quanto indebolita, la Lega, ha ancora una presenza diffusa e radicata sul territorio. L'unico partito ad aver mantenuto nome e simbolo dall'epoca della Prima Repubblica. L'ultimo partito di massa, anche se ha perduto le masse. In grado, tuttavia, di mobilitarsi e di mobilitare, quando serve. Come in questa occasione. Perché non si votava solo per il Parlamento europeo, ma anche per molte amministrazioni locali. La Lega era, infatti, presente alle elezioni con il proprio simbolo in 112 dei 243 comuni maggiori al voto. Se consideriamo i comuni del Centro-nord, in 110 comuni su 175. Nel Nord padano, in 73 comuni su 81.

Al primo turno, ha eletto sindaco - da sola o con liste locali e localiste - un proprio candidato (in un comune del padovano). Mentre altri 5 sono in ballottaggio. Senza contare i numerosi casi in cui si è presentata insieme al Centrodestra. Come a Padova, dove, Massimo Bitonci, leghista, contenderà la guida del Comune al (vice)sindaco uscente Ivo Rossi.

Tuttavia, non è chiaro cosa sia divenuta. La Lega. Quale identità abbia assunto. Di certo, non è più la Lega "Padana", che, da ultimo, rappresentava e rivendicava la "macroregione" del Nord. Visto che, la scorsa settimana, il Piemonte è stato riconquistato dal Centrosinistra, guidato da Chiamparino. Visto che nel Nord padano ha superato l'11% e nel Lombardo-Veneto ha sfiorato il 15%. Cioè: meno di metà del PD di Renzi, il PDR, molto vicino al 40%. Insomma, ha un bacino elettorale abbastanza ampio per contare ancora. Non certo per interpretare il "male del Nord". Tanto meno per rivendicare l'indipendenza. Il fatto è che la Lega, nel Nord, non è solo minoranza, anche nelle sue tradizionali zone di forza, ma è, oltretutto, divisa. Non solo tra fedeli di Bossi e Maroni. Anche fra i leader dell'ultima generazione. Basta guardare la regione dove ha ottenuto il risultato percentuale più elevato. Il Veneto. Conteso fra Salvini, il segretario, erede della tradizione padana, e Tosi, sindaco di Verona. Il quale, per quanto coinvolto, di recente, in alcuni scandali, insieme ai suoi uomini, ha ottenuto un risultato notevole. Salvini e Tosi, come ha osservato Francesco Jori (sui quotidiani veneti del gruppo Espresso), esprimono due strategie alternative. Tosi, in particolare, non è euroscettico e non mira a un'alleanza con Berlusconi, come Salvini. Ma a costruire un altro Centrodestra.

Quella emersa dal recente voto europeo, dunque, non è più la Lega Padana. Ma neppure la Lega di governo, dell'era berlusconiana. Né la Lega anti-romana e anti-meridionale, che abbiamo conosciuto in passato. Non perché abbia cambiato identità territoriale. Ma perché, semmai, l'ha perduta. O meglio, perché ha indebolito la sua impronta locale. Non è più Nordista come ieri. La Lega antieuropea ha, infatti, assunto una prospettiva "nazionale". Aperta, o almeno, proiettata verso il Centro ma anche verso Sud. Dove, certo, ha un peso molto ridotto e limitato. Ma ha allargato la sua presenza. Non solo nelle regioni rosse del Centro-Italia, dunque, ma perfino nel Mezzogiorno. Nelle regioni del Centro-Sud e nelle Isole, infatti, ha ottenuto oltre 106 mila voti. Il 6,3% della propria base elettorale. Poco, certamente. Ma, comunque, 4 volte più del 2013. Inoltre, è cresciuta di un terzo anche rispetto alle precedenti europee - mentre nelle altre aree è arretrata sensibilmente. Particolarmente rilevante, il suo aumento, in Abruzzo, Lazio, Puglia e nelle Isole. In Sicilia. Non a caso i luoghi esemplari, di questa stagione, non sono più Zermeghedo o Gambugliano, piccoli comuni del profondo Veneto, dove la Lega, nella seconda metà degli anni Novanta, aveva raccolto oltre il 60% dei voti validi. Quasi come la vecchia DC. No. Le nuove frontiere (extra)padane si sono spostate fino a Maletto, paese di 4mila abitanti, ai piedi dell'Etna, dove la Lega ha ottenuto quasi il 33%. Mentre ad Alimena, 2mila abitanti, in provincia di Palermo, è arrivata al 22%.

Questa espansione, lontano dalla patria originaria, evoca un'altra parte del repertorio leghista, già recitata in passato. L'imprenditore politico della paura. Che usa il megafono dell'inquietudine contro l'invasione degli immigrati, i quali giungono sulle nostre coste dal Nord Africa. Spinti dalla povertà e dalle guerre. Non a caso la Lega, a Lampedusa, ha conquistato il 17%. Altrove, nel Nord, l'allarme xenofobo risuona contro gli stranieri, che non sono più tali, perché l'Europa garantisce loro cittadinanza. E li spinge ad attraversare le frontiere da Est. La Lega. In questa fase, ha dimenticato la secessione, il federalismo. Ma anche il tam tam antiromano e antimeridionale. Ha, invece, brandito la bandiera della destra europea - antieuropea. E ultra-nazionalista. Oggi guidata da Marine Le Pen, a capo del FN. Con la quale, non a caso, la Lega si è alleata, in vista della costruzione di un gruppo nel nuovo Parlamento europeo. Così, per difendere il "popolo" dagli "altri" che ci assediano e invadono - da Est, da Sud. E dall'Europa. Per difendere se stessa dal declino. E dal M5s, che la insidia sul suo stesso terreno. Per tutelare il suo nuovo mercato elettorale, nel Sud. La Lega: è divenuta lepeniana. Una Lega non più Padana, ma "nazionale", se non nazionalista.

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Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/02/news/lega_nazionale_cresce_nel_sud-87846391/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Parole per riscrivere il Paese
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2014, 09:09:20 am
Parole per riscrivere il Paese

"Ambiente", "giovani", "uguaglianza": è questo, secondo gli italiani, il dizionario anti-crisi da cui ripartire. Il sondaggio Demos-Coop

Di ILVO DIAMANTI
05 giugno 2014

ABBIAMO tentato di tracciare una mappa delle parole utili a "riscrivere il Paese". Per echeggiare il titolo della Repubblica delle Idee, che si apre oggi a Napoli. Parole estratte dai discorsi pubblici e dai dialoghi della vita quotidiana. Dalla comunicazione dei media e dal linguaggio comune. Le abbiamo sottoposte alla valutazione dei cittadini, intervistati attraverso un sondaggio condotto da Demos-Coop. Ne abbiamo ricavato una rappresentazione interessante. Anche se i sondaggi non godono di buona fama, in questi tempi. Tuttavia, chi li considera non degli oracoli, ma strumenti per cogliere gli atteggiamenti del (e nel) presente, ne può trarre indicazioni - a mio avviso - utili. Circa i riferimenti della società e le parole per dirli. Il che, in parte, è lo stesso. Ne esce una raffigurazione, per molti versi, coerente con le attese. Ma, comunque, significativa. Perché supera il perimetro dello stereotipo.

Se partiamo dal "fondo", la regione della mappa in basso, a sinistra, dove si concentrano le parole che combinano un sentimento ostile con una previsione negativa, circa l'importanza futura, incontriamo subito Berlusconi, accanto a Grillo e agli ultras (del tifo). Parole "gridate". Come i loro protagonisti. Spinti ai margini, ma tutt'altro che marginali. Al contrario. Perché dividono.

Descrivono un "Paese in curva", nel calcio come in politica. Dove la maglia e la fedeltà servono a marcare i confini contro gli altri. I bianconeri e i nerazzurri. Rossoneri e giallorossi. Comunisti e berlusconiani. Da mandare tutti quanti Vaffa... Appena più in su, incontriamo le "parole di ieri". Indicano soggetti senza futuro, oltre che deprecabili e deprecati. Ma, si sa, i sentimenti, spesso, colorano anche le previsioni... Le "parole di ieri", comunque, hanno una specifica connotazione "politica". Associano i partiti ai politici. Ma richiamano anche alcuni progetti di riforma. Il presidenzialismo e lo stesso federalismo. Ieri professato da tutti. A parole (appunto). Oggi non piace e non ha futuro. O forse: non ha futuro perché non piace più. D'altronde, la stessa Lega preferisce agitare la bandiera della (in)sicurezza, piuttosto di quella padana. Lo stesso "declino" spinge, nelle parole di ieri, lo Stato (mai come oggi, un participio passato). Ma anche l'Euro, "svalutato" anche rispetto all'Europa. Perché è una moneta senza Stato.

Colpisce, semmai, che in questo settore del campo finiscano anche le manifestazioni e la protesta. Le manifestazioni di protesta. In fondo: la partecipazione. Ma ciò suggerisce che la critica verso la politica e le istituzioni non produca (e non si traduca in) mobilitazione e indignazione attiva, come in altri Paesi. Ma, piuttosto, distacco e disgusto politico. "Gridato".

Così, il presente è affidato a Renzi. Unico soggetto politico che ottenga un giudizio positivo, anche in prospettiva. Ciò avviene anche perché risponde alla domanda - diffusa  -  di un "leader forte". Renzi. Tra le parole del nostro tempo, è posizionato, non a caso, accanto ai media "tradizionali": giornali, radio. E soprattutto la Tv. Perché restano determinanti per comunicare in modo "personale". E per costruire il consenso. Insieme, vecchi e nuovi media, disegnano una "democrazia ibrida". Che insegue il mito della democrazia diretta, attraverso la rete. Ma riproduce, al tempo stesso, i riti del governo rappresentativo, al tempo della personalizzazione. La democrazia del pubblico, che si sviluppa, soprattutto, attraverso la televisione.

In alto a destra, infine, c'è il lessico del futuro. Le parole che evocano un orizzonte atteso. I valori condivisi e le speranze diffuse. Ma anche le domande più urgenti - e insolute. Premiare il merito, combattere la disoccupazione, prima di tutto. Ma anche l'evasione fiscale. Tutelare l'ambiente, valorizzare le energie rinnovabili. Promuovere la crescita economica e gli imprenditori. Lavorare per il bene comune. Potrebbe apparire la lista dei desideri inarrivabili. Dei buoni sentimenti, che è facile invocare, assai meno realizzare. Però, è interessante e, comunque, importante che continuino ad essere evocati e invocati. Come la democrazia e il popolo - sovrano, che ne è il fondamento. E come i giovani. Segno di un futuro che fugge. Letteralmente. E ci lascia sempre più soli e più vecchi. E sempre più delusi.

In cima, come l'anno scorso, è Papa Francesco. Riferimento condiviso da tutti. Perché, più di tutti, ha saputo trovare "parole" in grado di orientare il linguaggio del nostro sconcerto quotidiano. Per dire, senza vergogna e senza violenza, cose tanto comuni quanto eccezionali, nella loro normalità. Perché, per riscrivere il Paese, non occorrono parole nuove, diverse dal passato. Servono parole "credibili". Che, per essere tali, però, debbono essere pronunciate - e testimoniate - da persone credibili. Da soggetti e istituzioni credibili. In modo credibile. Ma proprio qui sta il problema, raffigurato bene da questa mappa. Che rende evidente la distanza fra le parole della democrazia e del cambiamento, eternamente proiettate verso il futuro. E gli attori che le dovrebbero recitare e tradurre: imprigionati nelle parole di ieri. Oppure specializzati nell'agitare i sentimenti e, ancor più, i ri-sentimenti. Impegnati a dare volto e voce, anzi, grida, alla delusione e alla rabbia. Con l'esito di moltiplicare la delusione e la rabbia. Facendo apparire i valori, i luoghi e le persone che evocano il futuro: parole senza tempo. In-attuali. E inattuate.

© Riproduzione riservata 05 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/06/05/news/parole_per_riscrivere_il_paese-88086078/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La paura della solitudine
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2014, 07:22:32 pm
La paura della solitudine

di ILVO DIAMANTI
16 giugno 2014

   
BEPPE Grillo e Gianroberto Casaleggio si sono detti disponibili a confrontarsi sulla legge elettorale con Renzi. Legittimato dal voto europeo. Così, Grillo è uscito dall’isolamento, in cui si era rifugiato per inseguire un elettorato eterogeneo.

Dal punto di vista sociale e ancor più politico. Equamente distribuito fra sinistra, destra e antipolitici. Anche se la polemica con Renzi e il Pd l’aveva spinto, sempre più, verso destra. Per questo, comunque, Grillo ha sempre evitato di scegliere un alleato stabile. Accettando il rischio di finire fuori gioco. Di apparire, comunque, disinteressato ad assumersi responsabilità, a influenzare scelte e decisioni. Soprattutto, insieme ad altri soggetti politici. Così ha pagato un prezzo alto, alle elezioni europee. Ma anche alle amministrative. Alle europee. Aveva “minacciato” il sorpasso ai danni del Pd di Renzi. Con il risultato di convincere molti elettori di centro, ma ancor più di sinistra, incerti se e per chi votare, a recarsi alle urne. E a raccogliersi intorno a Renzi. Non solo, ma la stessa, aggressiva “profezia” statistica di Grillo — vinciamo noi! — ha trasformato un risultato ragguardevole, il 21%, in una sconfitta. Mentre il 40,8% ha fatto del Pd di Renzi il primo partito in Europa.

Alle amministrative, i successi conseguiti a Livorno, anzitutto, ma anche a Civitavecchia e in due altri comuni, sono significativi. Ma anche molto marginali, di fronte al successo del Pd, e del Centrosinistra. Che hanno vinto in 167 comuni (con oltre 15 mila abitanti) su 243. Mentre prima ne amministravano 128.

Restare nell’ombra, per questo, è divenuto molto più rischioso che “prendere posizione”. Soprattutto di fronte alla prossima discussione — e decisione — in merito alla legge elettorale. Orientata, come prevede l’Italicum, verso un proporzionale con premio di maggioranza al partito o alla coalizione che ottenga più voti. Oppure vinca il ballottaggio. Se davvero si realizzasse, per quanto riveduta e corretta, questa scelta metterebbe, davvero, fuori gioco il M5s. Protagonista del singolare sistema politico italiano. Un bipartitismo imperfetto. Perché oggi il Pd supera il 40%. E otterrebbe la maggioranza dei seggi in Parlamento, senza bisogno di ricorrere a ballottaggi. Perché, la principale alternativa, il M5s, almeno fino a ieri, ha sempre, decisamente negato ogni “compromesso” con i partiti e i politici nazionali. Si è, dunque, posto e imposto come partito anti-partiti. Da ciò il suo successo, nel passato. Ma anche il suo limite. Perché non è credibile come “alternativa”, vista la sua indisponibilità ad assumersi responsabilità di governo. Vista, inoltre, la sua vocazione all’isolamento e la sua allergia verso ogni alleanza. Tanto più perché la logica maggioritaria spinge alla coalizione. E potrebbe indurre il Centrodestra a ricomporsi. Per necessità, anche se non per affinità. Mentre oggi è diviso, frammentato e rissoso. Decomposto dall’esilio e dalla marginalità di Berlusconi. È questo il vantaggio competitivo del M5s, a livello nazionale, ma anche locale. Visto che, dove riesce a superare il primo turno, intercetta gran parte del voto di centrodestra (come ha rilevato ieri Roberto D’Alimonte sul Sole 2-4 Ore).

Ma se il Centrodestra si aggregasse di nuovo, indotto, o meglio: costretto, dalla Legge elettorale, allora il quadro cambierebbe profondamente. Per il M5s. Perché, insieme, le liste di Centrodestra (cioè, Fi, Ncd, Fdi, Lega e Udc), alle elezioni europee, hanno superato il 31%. Cioè, 10 punti più del M5s. Mentre, se passiamo all’ambito comunale, i limiti della solitudine del M5s appaiono ancor più espliciti. Infatti, se consideriamo i tre principali schieramenti (ipotetici), i rapporti di forza negli 8057 Comuni italiani, in base ai risultati delle recenti europee, appaiono molto evidenti. La coalizione di Centrosinistra prevarrebbe in 5238 Comuni (65%), quella di Centrodestra in 2585 (32%), il M5s in 95 (1,2%). Naturalmente, queste stime (realizzate in base a simulazioni a cura dell’Osservatorio Elettorale del Lapolis-Università di Urbino) sono del tutto ipotetiche. Hanno, cioè, finalità esemplari e servono a discutere sugli scenari politici del Paese. Ma per questo sono utili. A sottolineare il “problema” del M5s. Che ha grande capacità di attrazione, se marcia da solo. Tanto che è primo partito in 303 comuni (3.8% sul totale) e secondo in 3981 comuni (49.4%). Tuttavia, appare svantaggiato in una competizione che preveda e, anzi, imponga le coalizioni. Dove il Centrodestra, oggi scomposto e anonimo, potrebbe riemergere e “scendere in campo” di nuovo. Anche senza Berlusconi.

Per questo Grillo e Casaleggio hanno ri-aperto il gioco. Cercando alleanze, in ambito (anti) europeo, dove si sono accordati con l’Ukip. Secondo la logica: meglio male accompagnati piuttosto che soli.

Mentre in Italia si sono rassegnati al confronto con il Pd e, anzitutto, con Renzi. In parte, riprendendo il discorso avviato con la partecipazione di Grillo a “Porta a Porta”, insieme e accanto a Bruno Vespa. Il testimonial in grado, più di ogni altro, di “sdoganarlo”, di normalizzarlo sul piano politico. Come oggi, a maggior ragione, può avvenire incontrando, in forma ufficiale, Renzi. Con, oppure meglio, senza streaming. Per rientrare nel gioco politico, da cui si era, fino ad oggi, auto- escluso. E, prima ancora, per promuovere una legge elettorale diversa. Non maggioritaria. Che non favorisca le coalizioni. E non ri-evochi il Centrodestra, come avverrebbe con l’Italicum — e i suoi derivati. Negoziato da Renzi, non a caso, con Berlusconi e con gli alleati di centrodestra della maggioranza. Grillo e Casaleggio, per restituire un ruolo e un peso al M5s, rivendicano una legge elettorale di impronta “proporzionale”. Com’è, in fondo, quella attuale, dopo la sentenza della Consulta. Per non rischiare l’espulsione dal gioco politico. Isolati, in Europa, insieme a Farage. In Italia, soli contro tutti. Dunque, semplicemente soli.

© Riproduzione riservata 16 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/16/news/la_paura_della_solitudine-89071909/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Effetto Renzi, fiducia al governo non ai partiti
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2014, 10:36:21 pm
Effetto Renzi, fiducia al governo non ai partiti
Sondaggio Demos. A un mese dal voto europeo, cresce ancora il consenso per il premier. Ma il fattore età spinge verso l'alto anche Salvini (Lega) e Meloni. È la stagione della democrazia iper-personale
Di ILVO DIAMANTI
23 giugno 2014

Un mese dopo le elezioni europee, l'affermazione di Renzi e del Pd ha lasciato tracce molto profonde. Il Pd di Renzi. Il PdR: il Partito di Renzi. Un uomo solo al comando. Intorno al quale si intravede una democrazia senza partiti, che rivela una domanda crescente di leadership personale. Che, a centrodestra, appare ancora frustrata. Matteo Renzi. Secondo il sondaggio di Demos per Repubblica il 74% degli intervistati manifesta fiducia "personale" nei suoi confronti.

Mentre quasi il 70% valuta positivamente l'azione del suo governo. Tre italiani su quattro. Un livello di consenso larghissimo. Conquistato, in precedenza, solo da Monti, al momento dell'incarico. Non certo da Berlusconi, neppure nei giorni migliori. Oggi, tra le figure pubbliche, solo Papa Francesco è più popolare di lui. E, come il Papa, Renzi appare popolare presso tutti gli elettorati. Da Sinistra a Destra, passando per il Centro. Perfino fra gli elettori del M5S quasi 6 su 10 esprimono fiducia nei suoi riguardi. Dietro a Renzi c'è, ovviamente, il vuoto. Anche se, molto distanziati, emergono due leader relativamente giovani e nuovi. Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il segretario della Lega Nord ottiene, infatti, la fiducia dal 38% degli intervistati. Poco più della metà, rispetto a Renzi. Ma, comunque, oltre il doppio di due mesi fa. La presidente dei Fratelli d'Italia è valutata positivamente dal 36% degli intervistati: 10 punti più rispetto al sondaggio pre-elettorale. Si tratta di dati particolarmente significativi, soprattutto se messi a confronto con l'orientamento verso gli altri principali leader di partito. Alfano, Grillo, Berlusconi, Vendola: ottengono un grado di fiducia più ridotto. E, comunque, in calo sensibile o, al più, stabile, rispetto ai mesi precedenti. Questi atteggiamenti sono influenzati, in parte, dal risultato elettorale.

… Le tabelle su repubblica.it

Il Pd ha, infatti, sfiorato il 41% mentre la Lega ha superato il 6%. Molto lontana dal Pd, dunque. Ma, comunque, ben più del previsto. Per questo è l'unico partito che, secondo gli italiani, esca rafforzato dalle elezioni. Oltre al Pd, ovviamente. Che ha trionfato. Mentre il M5S, che pure ha superato il 21%, viene considerato "perdente" da oltre il 70% degli intervistati. Perché Beppe Grillo, per primo, aveva pronosticato il sorpasso. E, dunque, la sconfitta del Pd e del suo leader. Così, un risultato importante è divenuto un flop. Agli occhi dei suoi stessi elettori. Ma il vero sconfitto, in questa fase, è Silvio Berlusconi, insieme a Forza Italia. Il cui risultato elettorale è apparso deludente anche rispetto alle più pessimistiche previsioni. E ciò spiega il sorprendente grado di fiducia verso Salvini ma anche verso la Meloni, il cui partito non ha raggiunto la soglia del 4%. La loro relativa popolarità, infatti, riflette la crisi di leadership del centrodestra. Gregario ma anche ostaggio di Berlusconi. Che non riesce più a fornire identità e unità alla coalizione. Ma, al tempo stesso, ne condiziona le scelte. Mentre appare, inevitabilmente, sempre più vecchio. Come immagine politica, prima che di età. D'altronde, non solo Renzi, per primo e sopra tutti, ma anche Salvini e Meloni si distinguono dagli altri perché sono più "giovani", per generazione biografica e politica. Il fattore età, evidentemente, non ha mai contato tanto come ora.

Un mese dopo il voto europeo, il Pd appare, dunque, l'unico riferimento - e l'unico partito - della scena politica nazionale. Mentre FI e l'intero centrodestra sono alla deriva. In cerca di leadership e di identità (Il Ncd e Alfano: dove e con chi stanno?) E il M5S risulta ridimensionato, oltre la sua stessa "dimensione" reale, dalle attese generate dai leader, in campagna elettorale. Perfino la sinistra - nonostante il buon risultato ottenuto da Tsipras - appare scossa da tensioni interne. Non a caso il consenso personale di Vendola, leader del principale partito di quest'area, risulta molto basso. Il problema, semmai, è che neppure il Pd sembra aver tratto slancio dal voto. Appare, infatti, diviso ma, soprattutto, gregario. All'ombra del leader. Perché gran parte di quel 40,8% è stato intercettato da Matteo Renzi. Non per caso, nei 214 Comuni maggiori al voto in cui era presente (Osservatorio Elettorale LaPolis-Università di Urbino), il Pd ha ottenuto il 44,5% dei voti validi alle europee, ma il 31,8% (dunque 13 punti in meno) alle comunali. Dove Renzi, ovviamente, non si poteva candidare. D'altra parte, il 30% degli italiani afferma di aver votato, alle europee, in base alla fiducia verso il leader del partito scelto. Prima e più che per ogni altra ragione: programmi, ideali, orientamento di partito. E la motivazione "personale" del voto risulta molto più forte fra gli elettori del Pd: 47%. Più che per il Pd, insomma, gli elettori hanno votato per il PdR. Il Partito di Renzi.

D'altronde, si assiste all'ulteriore degrado del rapporto fra i cittadini e i partiti. Deteriorato dalle recenti inchieste sulla corruzione politica a Milano e Venezia. Tanto che oltre metà degli italiani, secondo il sondaggio di Demos, ritiene che oggi la corruzione politica sia più diffusa che all'epoca di Tangentopoli. Eppure, questo clima non ha delegittimato il governo e tanto meno Renzi. Forse perché ormai ci siamo assuefatti. Ma anche perché, nel frattempo, si è fatta largo l'idea che la democrazia non abbia bisogno dei partiti. Lo pensa, infatti, oltre metà degli intervistati. Cinque anni fa questa prospettiva era condivisa da circa il 40% degli italiani. E ci sembrava tanto. Un segno di declino della democrazia rappresentativa. Che oggi appare palese. Come la frattura dei cittadini nei confronti delle istituzioni rappresentative, oltre che della politica. Per questo la fiducia verso Renzi - ma anche verso Salvini e Meloni - è significativa. Indica una domanda di cambiamento, che va "oltre" - e, semmai, "contro" - i partiti. E si orienta e concentra sulle "persone". In particolare, sugli outsider. Si delinea, così, un'iper-democrazia iper-personale. Che, al fondo, solleva qualche inquietudine, sul futuro della democrazia rappresentativa. Ma anche sulla democrazia senza aggettivi.

© Riproduzione riservata 23 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/23/news/effetto_renzi_fiducia_governo-89755042/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le incertezze dell'elettore volatile
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2014, 12:08:34 pm
Le incertezze dell'elettore volatile

Ilvo DIAMANTI

Siamo nell'epoca del "voto volatile". In cui le scelte elettorali hanno perduto coerenza e continuità. Un'epoca caratterizzata da mutamenti costanti e profondi. In cui ogni elezione diventa una competizione aperta. E, per gli elettori, un'occasione specifica, da affrontare senza certezze.

È da circa trent'anni, in effetti, che questa fase si è aperta. Solo che gli atteggiamenti non si traducevano in comportamenti. La disponibilità a cambiare non sfociava in comportamento. In particolare, per il deficit dell'offerta politica. E per il persistere del cleavage anti-comunista. Che "divideva" il mondo - il nostro piccolo mondo, a livello locale, nella vita quotidiana, nella realtà sociale e territoriale.

Unica, significativa, eccezione: vent'anni fa, nel 1994. Quando l'offerta politica cambia radicalmente. Perché, insieme al muro, dopo il 1989, in Italia erano crollati i partiti della Prima Repubblica. Per primi, i partiti anti-comunisti, la DC in testa. Così, le fedeltà elettorali si erano, necessariamente, spezzate. Salvo rinsaldarsi di nuovo. Per merito/causa di Berlusconi. Che aveva riproposto una duplice frattura. Coerente con il passato. Da un lato, aveva rilanciato la frattura anticomunista. Comunisti: tutti quelli che non stavano con lui. Dall'altro, ha evocato e promosso una nuova frattura, auto-centrata. La frattura "anti-berlusconiana". Da allora, e per vent'anni, il sentimento politico degli italiani si è adeguato a questa divisione. Anti-berlusconiani contro anti-comunisti. E viceversa. Così abbiamo assistito a una nuova epoca di stabilità elettorale, ben visibile sul piano territoriale. Visto che le mappe del voto, tenuto conto delle differenze dell'offerta politica, hanno riprodotto quelle del passato. Che vedono la sinistra ancora (co)stretta dentro i confini degli anni Quaranta. Nelle zone rosse. Mentre, intorno, si realizzava l'alleanza fra partiti regionalisti, post-democristiani e governativi. Nel Nord e nel Sud. Coalizzati e aggregati soprattutto da Berlusconi. Come, prima, dalla DC.

Parlare di "fedeltà", nella Seconda Repubblica, per questo, era ed è improprio. Perché i legami con la società, le radici dell'identità sono sempre più deboli. Come ha sostenuto Arturo Parisi (intervistato su Europa), meglio parlare di "abitudine". Riflesso della storia e della tradizione. Reazione soggettiva alla domanda di riconoscimento. Oppure risposta a interessi specifici. Abitudini, appunto, che però non hanno la forza della "fede" e neppure della fedeltà. Usurate, progressivamente, insieme all'artefice del cleavage della Seconda Repubblica. Soprattutto nell'ultima fase. Così, vent'anni dopo, anche le abitudini politiche non tengono più. Tanto più perché il rapporto con la politica si è personalizzato. Dal punto di vista dell'offerta: i partiti riassunti nelle persone. Nei leader. Ma anche della domanda. Visto che la partecipazione ha perduto i luoghi e i canali dell'aggregazione e dell'associazione. E della comunicazione. Nella "democrazia del pubblico", come l'ha definita Bernard Manin, i cittadini sono divenuti spettatori. A cui il leader si rivolge "personalmente", senza possibilità di re-azione. Mentre le nuove forme di coinvolgimento, impostate su internet e sui Social Media, prevedono persone che comunicano con altre persone. In direttamente (parafrasando Nadia Urbinati). Tutti insieme e tutti soli. Allo stesso tempo. Così, le fedeltà si sono perdute, perché non hanno più "senso". E le abitudini si acquisiscono e si perdono con qualche resistenza, ma senza troppi traumi. Soprattutto se sulla "fede" prevale il suo opposto: la "s-fiducia". Nei confronti di tutti gli attori politici: leader, partiti, istituzioni. È ciò che è avvenuto e si è verificato in Italia, in modo evidente ed esplicito, perfino violento, un anno fa. Alle elezioni politiche del 2013. Quando il 41% degli votanti ha cambiato area politica di riferimento (Indagine LaPolis). Anche per l'irrompere, sulla scena politica ed elettorale, di un soggetto politico che ha intercettato e canalizzato la "sfiducia": il M5s guidato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. In grado, da solo, di produrre il "movimento" di un quarto dei votanti. Nel decennio precedente, il "movimento elettorale" non aveva mai raggiunto il 10% (Indagini Itanes).

Ma l'epoca della volatilità e dell'incertezza elettorale si manifesta anche attraverso altri sintomi. In particolare, l'allungamento progressivo dei tempi di decisione del voto. Fino al momento del voto. Circa metà degli elettori riconosce di avere avuto dubbi, fin dall'inizio, se e per chi votare. Oltre il 10% ha continuato ad averne fino all'ultimo giorno.

La perdita della "fedeltà", ma anche delle "abitudini" di voto ha modificato, infine, il paesaggio elettorale. Scosso, dal 2013, da un continuo movimento sussultorio. La geografia elettorale: è divenuta fluida come i rapporti fra elettori e politica. Così, la "regionalizzazione" dei soggetti politici, le "Italiae" del voto (per echeggiare un testo di Antonio Gesualdi), sono state ridisegnate dal M5s, nel 2013. Primo partito con una taglia e un impianto "nazionale". Distribuito in modo omogeneo in tutto il Paese.

Ebbene, i sintomi del "voto volatile", della perdita delle fedeltà e delle abitudini elettorali si ripropongono, moltiplicati, un anno dopo. Alle elezioni europee del 25 maggio 2014. Per quanto specifiche, di "second'ordine", hanno confermato e accentuato le tendenze emerse un anno fa. Il movimento elettorale: ha coinvolto circa un terzo degli elettori (il 32%, per la precisione: sondaggio dell'Oss. Elettorale LaPolis-Università di Urbino). Nel 2009, alle precedenti elezioni europee, la quota di elettori che aveva votato per un'area politica diversa, rispetto alle politiche del 2008, era, comunque, più limitata: 26%.

I tempi della decisione di voto: si sono allungati. Circa il 12% degli elettori ha deciso solo negli ultimi giorni. Il 21% nell'ultima settimana. E la geografia elettorale si è "nazionalizzata". Non solo il M5S, ma anche il PD di Renzi ha assunto una configurazione nazionale. Ha sfondato soprattutto nel Nord, dov'era particolarmente debole (come la sinistra). La stessa Lega è slittata verso Sud e ha conseguito alcuni risultati significativi perfino in Sicilia. Se consideriamo l'esito del voto amministrativo, in parte diverso, la capacità "autonoma" di scelta degli elettori, in base alla specificità dei contesti e delle situazioni, diventa ancor più evidente. Insomma, ogni elezione è destinata a fare storia a sé. E in ogni futura consultazione, agli elettori, si porrà la questione: "per che", "per chi" e, prima ancora, "se" votare. L'elettore volatile, infatti, è guidato da alcuni interessi. Da alcuni valori. Ma non ha una casa e neppure un territorio dove abitare. Per sempre. Dipende. Dall'offerta di case e dall'appeal dei territori. Dalla proposta politica e dei politici. Ogni elezione: è un voto senza destinazione stabilita.

Il testo presenta la traccia della comunicazione che l'autore proporrà, insieme a Luigi Ceccarini, al seminario della SISE (Società Italiana di Studi Elettorali) dedicato alle elezioni europee (e amministrative) del 25 maggio 2014, che si svolge oggi (27 giugno) a Firenze (Regione Toscana - Palazzo Sacrati Strozzi, Sala Pegaso, Piazza Duomo).

(27 giugno 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/06/27/news/incertezze_elettore_volatile-90116736/?ref=HREC1-4


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quando i Partiti si ribellano ai Capi
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2014, 11:12:37 am
Quando i Partiti si ribellano ai Capi

MAPPE
Sempre più i partiti si sono trasformati in partiti personali, che seguono ascesa e declino dei loro leader.
E in questo contesto i casi del Pd e di Fi, attraversati da divisioni e polemiche interne, sono, esemplari

Di ILVO DIAMANTI

È SIGNIFICATIVO il moltiplicarsi, in questa fase, di conflitti — accesi — dentro a quel che resta dei partiti. Dentro al Pd e (perfino) a Forza Italia, in particolare. Dovunque, la fonte dei contrasti è la stessa.

I leader contro (oltre) i partiti. E viceversa. I partiti, d’altronde, nel corso degli ultimi vent’anni sono cambiati profondamente. Si sono "personalizzati". Fino a trasformarsi in "partiti personali" (come li ha definiti Mauro Calise), più che personalizzati. Differenti versioni del "partito del Capo" (per echeggiare un recente saggio di Fabio Bordignon, pubblicato da Maggioli). Dove il Capo non emerge dalla selezione e dalla mobilità interna al partito. Ma ne è l’origine e il fine. Fino alla fine. Tanto che, negli ultimi anni, abbiamo assistito all’ascesa e al declino — rapido — di formazioni, nuove ma anche vecchie. In seguito al destino del Capo. L’Idv, scomparsa insieme a Di Pietro. Scelta Civica, insieme a Monti. L’Udc insieme a Casini. Fli insieme a Fini. Mentre Rivoluzione Civile si è dissolta con Ingroia. E Sel è in bilico. Accanto a Vendola. Solo la Lega resiste, anche dopo Bossi, molto ridimensionata. Ma si tratta di un "derivato" dei partiti di massa.

I casi del Pd e di Fi, attraversati da divisioni e polemiche interne, sono, però, esemplari. Perché raffigurano due versioni simmetriche e opposte del Partito del Capo. Fi è un partito aziendale, "costruito" intorno a Fininvest e, soprattutto, a Publitalia — la società di marketing e pubblicità. Impensabile distinguere il Partito dal suo Capo. Proprietario e imprenditore. Ma anche marchio originale e originario. Così, la decadenza politica del Capo, seguita alla fine dell’ultimo governo Berlusconi, nel novembre 2011, ha segnato il fallimento della "costituzione di un grande partito liberal- conservatore" (come chiosa Piero Ignazi, nel recente saggio sulla parabola del berlusconismo Vent’anni dopo, edito dal Mulino). Ma ha prodotto, al tempo stesso, il rapido declino elettorale, avvenuto alle elezioni politiche del 2013 e proseguito alle recenti europee. Così, sorprende la reazione di alcuni gruppi ed esponenti di Forza Italia. Indisponibili ad accettare i patti negoziati dal loro Capo con Renzi, in tema di riforme istituzionali ed elettorali. Sorprende: perché Fi "dipende" da Berlusconi. Eppure, al tempo stesso, è automatico che gli eletti e i dirigenti — a livello locale e in Parlamento — si ribellino alla prospettiva di venire assimilati dentro al Pdr: il Partito di Renzi. D’altronde, anche se "incorporata" nel Capo, Fi, nel corso del tempo, ha assunto una propria struttura stabile e autonoma, presente e diffusa nelle istituzioni e negli organismi pubblici. Da cui dipende il presente e il futuro professionale, oltre che politico, di moltissime persone. Difficile chiedere loro di suicidarsi senza, almeno, tentare di resistere.

Anche il Pd, peraltro, è "in rivolta" contro il Capo. Come titolava Repubblica sabato scorso. Ma si tratta di una storia molto diversa. Perfino opposta. Perché il Pd è l’erede dei partiti di massa della Prima Repubblica, Pci e Dc. Emerso dall’esperienza dei soggetti politici post-comunisti e post- democristiani. Alleati nell’Ulivo e riuniti, infine, nel Partito Democratico. Un soggetto politico, per questo, dotato di radici ideologiche e organizzative profonde. Impiantate sul territorio e nella società. Anche per questo, estraneo a modelli leaderistici. Attraversato, semmai, per tradizione, da correnti e gruppi, a livello nazionale e locale. Così, nella Seconda Repubblica, se il Centrodestra si è identificato in un solo Capo, il Centrosinistra non ne ha avuto nessuno, di in-discutibile. Semmai, molti, in continuo conflitto reciproco. Nel Pd, per questo, ogni leader che emergeva è stato, puntualmente, delegittimato e allontanato — più o meno in fretta. Così è avvenuto a Prodi, D’Alema, Amato, Rutelli, Veltroni. Per ultimo, a Bersani. Anche per questo non è riuscito a reggere la concorrenza di Berlusconi. E ha sofferto quella di Grillo. Che ha "personalizzato" una rete ampia di esperienze di segno diverso. Offrendo rappresentanza alla crescente ondata di delusione (anti) politica.

Il Pd. È cambiato profondamente dopo l’avvento di Renzi. Il quale ha conquistato il più "impersonale" e "multi-personale" dei partiti. Il Pd, appunto. Renzi: lo ha espugnato attraverso un (lungo) rito di massa. Durato oltre un anno. Le (doppie) primarie. Divenuto segretario, Renzi ha "conquistato", in fretta, la presidenza del Consiglio. Ha affrontato, quindi, la campagna elettorale per le europee. Sempre di corsa. Senza quasi fermarsi. Annunciando, in rapida sequenza, le cose da fare, le riforme da realizzare. Con tale e tanta velocità da rendere difficile, agli elettori e agli stessi attori politici, verificare se e cosa davvero venisse fatto.

Così, Matteo Renzi ha realizzato il post-Pd. O meglio: il Pdr. Il Partito di Renzi. Un modello "presidenziale". Dove lui comunica, direttamente, con i suoi elettori. Che superano i confini del Pd. Alle recenti elezioni, infatti, nei comuni dove si è votato anche per il sindaco, il Pd, alle europee, ha ottenuto14 punti in più che alle comunali. E ha sfondato i confini tradizionali della zona rossa, dove era rimasto quasi imprigionato per oltre 60 anni.

Ma se perfino nel partito personale per definizione, Fi, le logiche di partito sono entrate in contrasto con quelle del leader, ciò appare ineluttabile anche per il Pd. Che mantiene ancora tradizioni ideologiche e legami sociali profondi. Ha gruppi dirigenti e parlamentari eletti "prima" dell’avvento di Renzi. Così il confronto fra il Partito e il Capo diventa inevitabile. Fra Renzi e il Pd. Fra il Pdr e il Pd. Siamo alla resa dei conti. In particolare perché le questioni in gioco — legge elettorale e abolizione del Senato elettivo — mettono in discussione il principio di legittimazione e l’esistenza stessa dell’attuale ceto politico.

Eppure converrebbe a entrambe le parti una soluzione condivisa. Perché il Pd senza il Pdr, senza Renzi, rischia di ritrovarsi marginale. Ma Renzi (e il Pdr), senza "conquistare" e modellare il Pd, rischia di rallentare la propria marcia. E Renzi, a velocità "moderata", non riesco proprio a immaginarlo. Potrebbe fermarsi presto.

Forse mi sbaglierò, ma nel contrasto tra Fi e Berlusconi, tra il Pd e Renzi, i margini di mediazione sono sottili. Quasi invisibili. Fra il Partito e il Capo: ne resterà soltanto uno…

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/07/news/quando_i_partiti_si_ribellano_ai_capi-90887396/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Noi, vicentini a nostra insaputa
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 10:19:43 am
Noi, vicentini a nostra insaputa

Ilvo DIAMANTI
Può sembrare un paradosso: la Procura della Repubblica di Vicenza indaga sul mostro urbanistico di Borgo Berga. Insediamento immobiliare e commerciale dove sorge il Tribunale. In altri termini: la Procura indaga su se stessa. Per essere più precisi, sulla propria residenza. È l'esito dell'inchiesta condotta e pubblicata da Repubblica.it nei giorni scorsi, in seguito alla quale lo stesso procuratore capo, Antonino Cappelleri, ha affidato alla Guardia Forestale una serie di accertamenti per verificare se effettivamente le costruzioni abbiano violato "la norma".

Ma, in effetti, c'è poco di che sorprendersi. Perché la "norma" è il Blob immobiliare che si propaga intorno a Vicenza. Assimila la città al suo territorio. E lo rende progressivamente uguale. Omologo. Informe e, talora, deforme. Il Tribunale, in effetti, svetta. Altissimo. Imponente. Circondato da una plaga urbanistica - residenziale e commerciale - a ridosso del torrente (fiume) Retrone. Un nome ignoto a chi non abita a Vicenza. Come, d'altronde, il Bacchiglione. Salito agli onori della cronaca negli anni scorsi. In particolare, nel novembre 2010, quando esondò e alluvionò la città. Invase il centro storico. D'altronde, il Bacchiglione attraversa la campagna a Nord della città, dove tutti lo conoscono come Livelòn.

Il problema è che di campagna, ormai, ne è rimasta poca. Il terreno non assorbe più nulla. E la cura degli argini e del territorio, ormai, è sporadica. Così basta che piova forte per un paio di giorni e il torrente diventa un fiume in piena. Esonda. È avvenuto nel 2010, appunto. È capitato di nuovo l'anno dopo. E succederà ancora. Lì, oltre Ponte Marchese, entrato nel territorio di Vicenza, il Livelòn - oppure il Bacchiglione - costeggia l'area del Dal Molin. Fino a qualche anno fa un aeroporto civile. Dove ora sorge un villaggio costruito per accogliere i militari USA. Un progetto contro cui hanno protestato e marciato decine di migliaia di cittadini. Per anni. Inutilmente, visto che il villaggio è sorto ugualmente. E oggi si erge imponente. Una piccola Manhattan. A un quarto d'ora dal centro storico. Dalla Basilica palladiana, restituita, da un anno, all'antico splendore. Una meraviglia. Dalla terrazza domini la città e i dintorni. Puoi vedere il Dal Molin. E il nuovo Tribunale. Che sorge dall'altra parte della città. Verso il "basso vicentino". Non lontano dalla Basilica, appunto. E a due passi da Villa Capra Valmarana. La (famosa) Rotonda di Palladio. A conferma che a Vicenza, nel cuore del Nordest, i paradossi "ambientali" non esistono. Sono la "norma". Intorno al Bacchiglione e al Retrone, accanto alla Basilica e alla Rotonda: è tutto Dal Molin. È tutto Borgo Berga. Senza soluzione di continuità.

Vicenza e il suo territorio: progettati da Palladio e dagli immobiliaristi. Insieme. In modo indistinto. D'altronde, Palladio non è il nome di un centro commerciale? O forse no: di un impianto sportivo... Quanto alla Rotonda, in questa terra informe, "una" sola non basta. Non serve. Meglio 10-100-1000 "rotonde". Dovunque. Nei punti più impensati e impensabili. Piccole, medie, grandi e grandissime. Rotonde ovali e di molte altre forme diverse. Talora concatenate, come anelli di una collana. Rotonde finte e illusorie. (Qualche settimana fa ho imboccato una curva improvvisa contromano. Ero convinto fosse una rotonda...).

E allora perché stupirsi? Meglio non scandalizzarsi. Se la Procura ha sede in un Tribunale abusivo "a sua insaputa", anche noi viviamo in un territorio abusivo - a nostra insaputa. Siamo vicentini "a nostra insaputa".

(18 ottobre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/10/18/news/vicentini_a_nostra_insaputa-68840213/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le incertezze dell'elettore volatile
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 10:31:59 am
Le incertezze dell'elettore volatile

Ilvo DIAMANTI
Siamo nell'epoca del "voto volatile". In cui le scelte elettorali hanno perduto coerenza e continuità. Un'epoca caratterizzata da mutamenti costanti e profondi. In cui ogni elezione diventa una competizione aperta. E, per gli elettori, un'occasione specifica, da affrontare senza certezze.

È da circa trent'anni, in effetti, che questa fase si è aperta. Solo che gli atteggiamenti non si traducevano in comportamenti. La disponibilità a cambiare non sfociava in comportamento. In particolare, per il deficit dell'offerta politica. E per il persistere del cleavage anti-comunista. Che "divideva" il mondo - il nostro piccolo mondo, a livello locale, nella vita quotidiana, nella realtà sociale e territoriale.

Unica, significativa, eccezione: vent'anni fa, nel 1994. Quando l'offerta politica cambia radicalmente. Perché, insieme al muro, dopo il 1989, in Italia erano crollati i partiti della Prima Repubblica. Per primi, i partiti anti-comunisti, la DC in testa. Così, le fedeltà elettorali si erano, necessariamente, spezzate. Salvo rinsaldarsi di nuovo. Per merito/causa di Berlusconi. Che aveva riproposto una duplice frattura. Coerente con il passato. Da un lato, aveva rilanciato la frattura anticomunista. Comunisti: tutti quelli che non stavano con lui. Dall'altro, ha evocato e promosso una nuova frattura, auto-centrata. La frattura "anti-berlusconiana". Da allora, e per vent'anni, il sentimento politico degli italiani si è adeguato a questa divisione. Anti-berlusconiani contro anti-comunisti. E viceversa. Così abbiamo assistito a una nuova epoca di stabilità elettorale, ben visibile sul piano territoriale. Visto che le mappe del voto, tenuto conto delle differenze dell'offerta politica, hanno riprodotto quelle del passato. Che vedono la sinistra ancora (co)stretta dentro i confini degli anni Quaranta. Nelle zone rosse. Mentre, intorno, si realizzava l'alleanza fra partiti regionalisti, post-democristiani e governativi. Nel Nord e nel Sud. Coalizzati e aggregati soprattutto da Berlusconi. Come, prima, dalla DC.

Parlare di "fedeltà", nella Seconda Repubblica, per questo, era ed è improprio. Perché i legami con la società, le radici dell'identità sono sempre più deboli. Come ha sostenuto Arturo Parisi (intervistato su Europa), meglio parlare di "abitudine". Riflesso della storia e della tradizione. Reazione soggettiva alla domanda di riconoscimento. Oppure risposta a interessi specifici. Abitudini, appunto, che però non hanno la forza della "fede" e neppure della fedeltà. Usurate, progressivamente, insieme all'artefice del cleavage della Seconda Repubblica. Soprattutto nell'ultima fase. Così, vent'anni dopo, anche le abitudini politiche non tengono più. Tanto più perché il rapporto con la politica si è personalizzato. Dal punto di vista dell'offerta: i partiti riassunti nelle persone. Nei leader. Ma anche della domanda. Visto che la partecipazione ha perduto i luoghi e i canali dell'aggregazione e dell'associazione. E della comunicazione. Nella "democrazia del pubblico", come l'ha definita Bernard Manin, i cittadini sono divenuti spettatori. A cui il leader si rivolge "personalmente", senza possibilità di re-azione. Mentre le nuove forme di coinvolgimento, impostate su internet e sui Social Media, prevedono persone che comunicano con altre persone. In direttamente (parafrasando Nadia Urbinati). Tutti insieme e tutti soli. Allo stesso tempo. Così, le fedeltà si sono perdute, perché non hanno più "senso". E le abitudini si acquisiscono e si perdono con qualche resistenza, ma senza troppi traumi. Soprattutto se sulla "fede" prevale il suo opposto: la "s-fiducia". Nei confronti di tutti gli attori politici: leader, partiti, istituzioni. È ciò che è avvenuto e si è verificato in Italia, in modo evidente ed esplicito, perfino violento, un anno fa. Alle elezioni politiche del 2013. Quando il 41% degli votanti ha cambiato area politica di riferimento (Indagine LaPolis). Anche per l'irrompere, sulla scena politica ed elettorale, di un soggetto politico che ha intercettato e canalizzato la "sfiducia": il M5s guidato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. In grado, da solo, di produrre il "movimento" di un quarto dei votanti. Nel decennio precedente, il "movimento elettorale" non aveva mai raggiunto il 10% (Indagini Itanes).

Ma l'epoca della volatilità e dell'incertezza elettorale si manifesta anche attraverso altri sintomi. In particolare, l'allungamento progressivo dei tempi di decisione del voto. Fino al momento del voto. Circa metà degli elettori riconosce di avere avuto dubbi, fin dall'inizio, se e per chi votare. Oltre il 10% ha continuato ad averne fino all'ultimo giorno.

La perdita della "fedeltà", ma anche delle "abitudini" di voto ha modificato, infine, il paesaggio elettorale. Scosso, dal 2013, da un continuo movimento sussultorio. La geografia elettorale: è divenuta fluida come i rapporti fra elettori e politica. Così, la "regionalizzazione" dei soggetti politici, le "Italiae" del voto (per echeggiare un testo di Antonio Gesualdi), sono state ridisegnate dal M5s, nel 2013. Primo partito con una taglia e un impianto "nazionale". Distribuito in modo omogeneo in tutto il Paese.

Ebbene, i sintomi del "voto volatile", della perdita delle fedeltà e delle abitudini elettorali si ripropongono, moltiplicati, un anno dopo. Alle elezioni europee del 25 maggio 2014. Per quanto specifiche, di "second'ordine", hanno confermato e accentuato le tendenze emerse un anno fa. Il movimento elettorale: ha coinvolto circa un terzo degli elettori (il 32%, per la precisione: sondaggio dell'Oss. Elettorale LaPolis-Università di Urbino). Nel 2009, alle precedenti elezioni europee, la quota di elettori che aveva votato per un'area politica diversa, rispetto alle politiche del 2008, era, comunque, più limitata: 26%.

I tempi della decisione di voto: si sono allungati. Circa il 12% degli elettori ha deciso solo negli ultimi giorni. Il 21% nell'ultima settimana. E la geografia elettorale si è "nazionalizzata". Non solo il M5S, ma anche il PD di Renzi ha assunto una configurazione nazionale. Ha sfondato soprattutto nel Nord, dov'era particolarmente debole (come la sinistra). La stessa Lega è slittata verso Sud e ha conseguito alcuni risultati significativi perfino in Sicilia. Se consideriamo l'esito del voto amministrativo, in parte diverso, la capacità "autonoma" di scelta degli elettori, in base alla specificità dei contesti e delle situazioni, diventa ancor più evidente. Insomma, ogni elezione è destinata a fare storia a sé. E in ogni futura consultazione, agli elettori, si porrà la questione: "per che", "per chi" e, prima ancora, "se" votare. L'elettore volatile, infatti, è guidato da alcuni interessi. Da alcuni valori. Ma non ha una casa e neppure un territorio dove abitare. Per sempre. Dipende. Dall'offerta di case e dall'appeal dei territori. Dalla proposta politica e dei politici. Ogni elezione: è un voto senza destinazione stabilita.

Il testo presenta la traccia della comunicazione che l'autore proporrà, insieme a Luigi Ceccarini, al seminario della SISE (Società Italiana di Studi Elettorali) dedicato alle elezioni europee (e amministrative) del 25 maggio 2014, che si svolge oggi (27 giugno) a Firenze (Regione Toscana - Palazzo Sacrati Strozzi, Sala Pegaso, Piazza Duomo).

(27 giugno 2014) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/06/27/news/incertezze_elettore_volatile-90116736/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli sbarchi e i morti invisibili che mi assediano
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 10:36:39 am
Gli sbarchi e i morti invisibili che mi assediano

Di Ilvo DIAMANTI

Non so quanti disperati siano partiti verso le nostre coste, negli ultimi mesi. Dal Nord Africa e dell’Africa profonda. Ammassati in barconi incerti e insicuri. Quante povere persone (?) stiano per partire e quante ne partiranno ancora. In fuga dalla violenza e dalla fame. Non so quanti ne siano arrivati. E quanti no. Quanti di essi siano annegati. Quante migliaia di poveri corpi siano sepolti nel fondo di quelle acque. Uomini, donne, bambini. Non lo so. Ma mi fa paura la mia assenza di orrore. Mi fa orrore la mia pena senza disperazione. Come si trattasse di un evento lontano, che non mi riguarda. E mi fa orrore la ricerca di soluzioni senza soluzione. Chiudiamo le frontiere... Ma se l’Italia è una frontiera in-finita!  Aiutiamoli a casa loro… Casa loro? Territori senza stato e senza pace? Senza futuro e senza presente? Attraversati dalla violenza e dalla fame?

Mi fa orrore la tentazione di allontanarli da me, come fossero una realtà distante. Ma quei barconi carichi di disperati, guidati da mercanti di morte, partono da terre vicine. Tanto vicine che, dalle nostre coste più a sud, in alcuni punti e in alcuni giorni, le puoi vedere a occhio nudo. Mi fa orrore la mia abitudine all’orrore. Alla disperazione. Anche se è una reazione di autodifesa. Serve a vivere e a sopravvivere. Ad allontanare l’angoscia.

Così mi concentro su me stesso, sulla mia famiglia, sui miei amici, sul mio lavoro. E sulle mie ferie. (Come potrei riposarmi e distendermi, non dico divertirmi, con quel carico stracarico di disperati negli occhi? Come potrei fare il bagno, entrare in acqua, pensando che il mare intorno a me, in verità, è un sepolcro?) Quei barconi. Li vedo sbarcare, sugli schermi, senza vederli. Come si trattasse di immagini artefatte. Documentari girati altrove, in altri tempi. Anche se sono veri, quei poveri fuggiaschi, diventano persone senza personalità, ai miei occhi. Non migranti, ma “stranieri”: estranei da me. Lontani dal mio mondo.

Per questo li guardo con ostilità. Non perché minaccino la mia vita e la mia condizione. La mia sicurezza. Ma perché mi (im) pongono di fronte alla mia indifferenza. Alla rimozione dell’orrore - dagli occhi e dalla mente. E mi costringono a trasferire su di me la pena che dovrei provare verso gli altri. Così la sofferenza diventa insofferenza.  Risentimento. Verso quei disperati che mi fanno scoprire – e sentire - assediato. Da me stesso.

(25 luglio 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/07/25/news/gli_sbarchi_e_i_morti_invisibili_che_mi_assediano-92343541/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - La democrazia per caso
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2014, 04:33:55 pm
La democrazia per caso

Mappe. Il dubbio di fronte alle accuse di autoritarismo rivolte a Renzi non è che siano infondate ma che siano fuori luogo e fuori tempo.
Perché si tratta di storie vecchie, scritte da tempo. Senza troppo scandalo, anzi nell'indifferenza

di ILVO DIAMANTI
04 agosto 2014

La democrazia per caso
Per definire il disegno di riforma istituzionale avviato dal governo, si parla apertamente di deriva autoritaria. O di attentato golpista alla Costituzione. Mentre Matteo Renzi viene, per questo, descritto come un Pinochet. Un Piccolo Dittatore.

Più ridicolo, seppure (forse) meno pericoloso della rappresentazione - geniale - proposta da Chaplin, in altri tempi. Per tracciare la parabola - tragica - del Grande Dittatore. Più mediocremente, a Renzi viene imputato di avere progressivamente svuotato le istituzioni della democrazia rappresentativa, in particolare il Parlamento. Fino al punto di neutralizzarne un ramo: il Senato. Dove è sempre stato difficile disporre di maggioranze stabili. Renzi, d'altronde, è accusato di insofferenza verso ogni mediazione. Verso i partiti e i corpi intermedi. Sindacato e organizzazioni degli imprenditori, in primo luogo. E verso ogni controllo, si tratti di tecnici oppure di magistrati.

D'altra parte, Renzi ha ri-assunto in sé i ruoli di capo del governo e del partito di maggioranza. Al tempo stesso, ha piegato il Pd a propria misura e immagine. Lo ha trasformato nel PdR, il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In Parlamento, governa con una maggioranza variabile. A cui partecipano Ncd, i Centristi. Ma anche Fi. Dipende dagli argomenti. E, a seconda degli argomenti, appunto, deve affrontare l'opposizione, di Sel, della Lega, ma anche di Fi e - in modo non sempre palese - di componenti del Pd. Mentre diffida, per principio, della concertazione con le organizzazioni di rappresentanza degli interessi. Quanto al governo, si affida ai più fidati e fedeli (si scusi il bisticcio di parole). E per quel che riguarda i tecnici, se rallentano la marcia del governo e del suo Capo, vengono rimossi. Come, in questi giorni, Cottarelli, responsabile della spending review. Insomma, Renzi starebbe conducendo il Paese lungo una china autoritaria.

Il mio dubbio, di fronte a queste accuse, non è che siano infondate, ma fuori tempo e fuori luogo. Perché fanno riferimento a tendenze che Renzi non ha "inventato". Semmai, assecondato. In parte: accelerato. Per convenienza. Perché si tratta di storie vecchie. Scritte da tempo. Senza troppo scandalo e, anzi, nell'indifferenza.

La personalizzazione della politica e dei partiti. È in atto dagli anni Ottanta. Interpretata da Craxi. E, in modo diverso, anche da Berlinguer. Ma ha conosciuto una forte accentuazione negli anni Novanta. Assieme alla fine della Prima Repubblica, fondata sui partiti (di massa). Allora si è sviluppato il rapporto diretto fra cittadini e leader. Soprattutto dopo la "discesa in campo" di Berlusconi. Che ha usato le (proprie) televisioni come canale di partecipazione e di consenso. Gli altri partiti si sono adeguati. O hanno cercato di farlo. Con maggiore o minore successo. Si è aperta così l'era dei "partiti personali", la cui identità ed esistenza coincidono con quella del Capo. Sorti e scomparsi, oppure ridimensionati, insieme ai loro leader. Senza un leader capace di comunicare con gli elettori in modo "diretto", è divenuto pressoché impossibile vincere le elezioni. Per questo il Centrosinistra, da ultimo il Pd, erede dei partiti di massa, ha sempre stentato ad affermarsi. E, ancor più, a durare. Fino all'arrivo di Renzi, appunto.

La stessa - contestata - mutazione "genetica" delle istituzioni democratiche ha origini lontane. Anche in questo caso, è dagli anni Novanta che si assiste alla progressiva presidenzializzazione dei governi, peraltro coerente con quanto avviene altrove in Europa (come ha sottolineato una ricerca di Poguntke e Webb). Da allora, infatti, tutti i capi dei governi territoriali sono eletti "direttamente". Non solo i Sindaci, ma anche i Presidenti di Provincia e di Regione, rispondono direttamente ai cittadini. Allo stesso tempo, il peso politico dei Presidenti del Consiglio è aumentato, coerentemente con il loro legame "diretto" con i cittadini. Sottolineato dalla tendenza, consolidata, ad associare le coalizioni al candidato premier. Il cui nome è accostato al simbolo del partito, nelle stesse schede elettorali. Una consuetudine denunciata, da anni, da Giovanni Sartori come incostituzionale. Perché aggira le logiche della nostra democrazia. Parlamentare. Peraltro, anche il Presidente della Repubblica ha assunto un ruolo ben diverso da quel che eravamo abituati. Da Cossiga a Scalfaro, da Ciampi a Napolitano è divenuto un protagonista delle vicende politiche e istituzionali.

Infine, la concertazione. Il ridimensionamento del negoziato con i gruppi di interesse. Si era affermata negli anni Novanta, non a caso, nel vuoto politico e di governo lasciato dal crollo della Prima Repubblica. Ma, al tempo stesso, ha sottratto competenze e responsabilità alla politica e ai suoi attori. Oggi, però, i sindacati e le stesse associazioni imprenditoriali rappresentano sempre meno il mercato del lavoro. I sindacati: hanno una base composta perlopiù da pensionati e da impiegati pubblici. Mentre molti imprenditori si rappresentano da soli. E le loro organizzazioni si sono frammentate. Come il mercato.

Così, nel corso degli anni, l'Italia ha cambiato forma istituzionale e costituzionale. A metà fra presidenzialismo e premierato. Fra accentramento e federalismo. Senza disegni né riforme di sistema. Di fatto. Inseguendo emergenze continue e in-finite. Reagendo a spinte particolari e faziose. Chi accusa Renzi, oggi, di stravolgere la Costituzione dimentica, dunque, che ciò è già avvenuto. Da tempo. Almeno da vent'anni. E da vent'anni siamo divenuti una Repubblica "preterintenzionale". Dove vige una democrazia ibrida, a metà fra personalizzazione ultrà e partecipazione diretta. Fra leaderismo e rete. Fra Tv e Web. A Renzi, semmai, si dovrebbe imputare di non avere inventato nulla. E di non avere l'intenzione di farlo. Cioè, di non essere interessato tanto a dare senso al caos, pardon, al "caso" istituzionale, che (s) regola il Paese. Ma, semmai, di assecondarlo. Selettivamente. Accentuando e rafforzando gli aspetti più coerenti con i suoi interessi. E con la sua vocazione di Leader del PdR. Alla guida di un governo personale e di una democrazia per caso.

Per andare oltre, ci vorrebbe un progetto coerente, elaborato e discusso in un'assemblea costituente. Eletta dai cittadini, visto che le Bicamerali hanno sempre prodotto esiti improduttivi. (E poi, se il Senato perdesse gli attuali poteri, che Bicamerale sarebbe?). Ma, per procedere in questa direzione, ci vorrebbero tempo e con-divisione. In tempi veloci e divisi - o meglio, frantumati - come questi, non riesco a sperarci.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/04/news/mappe_democrazia_per_caso-93071281/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il piglio del premier e il valore del Pd
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2014, 06:24:37 pm
Il piglio del premier e il valore del Pd
di ILVO DIAMANTI

11 agosto 2014
   
Viviamo tempi di democrazia "immediata". Dove le "mediazioni" e i "mediatori" sono più deboli. I partiti, le istituzioni rappresentative, le organizzazioni di interesse, ma anche i giornali e i giornalisti. Sono messi in discussione.

Mentre hanno conquistato rilievo la rete, i blog e i blogger. Così si è allargato lo spazio della relazione diretta fra leader e cittadini, fra cittadini e leader. Attraverso la rete. Ma anche la TV. Il dualismo fra Renzi e Grillo, alle ultime elezioni europee, ne fornisce un riassunto fedele. E conferma i limiti della rete, quando è il principale, se non unico, canale di comunicazione politica. Mentre Renzi interpreta, meglio degli altri, quel modello di "democrazia personale", ancor più che "personalizzata", che si è affermata in Italia. Ma anche altrove, in Europa.

Lo ha osservato, nel suo editoriale di ieri, Eugenio Scalfari. Il quale, una settimana fa, aveva già parlato di "egemonia individuale". Una tendenza che, a mio avviso, non va confusa con l'autoritarismo. Sul piano della "personalità" (per echeggiare Adorno), il tipo "autoritario" delinea, infatti, una sorta di "fascismo potenziale". Ebbene, io fatico a cogliere, in questi tempi e nel leader che li orienta, il marchio del fascismo potenziale. Anche se, come ho scritto, avrei affidato la riforma del Senato e, dunque, la modifica della Costituzione, a un'Assemblea Costituente eletta dai cittadini. Tuttavia, questa semplificazione istituzionale non mi sembra annunci una svolta "autoritaria". Ma conferma, semmai, la tensione fra diversi tipi di "democrazia".

Tuttavia, questa semplificazione istituzionale non mi sembra annunci una svolta "autoritaria". Nonostante che lo stesso Renzi, intervistato dal Financial Times, si spinga ad affermare che "nemmeno i dittatori riescono a fare le cose così in fretta...". Questa stessa affermazione conferma, piuttosto, la necessità del premier di marcare la sua diversità, rispetto agli altri. Il suo piglio "decisionista" insieme alla sua ricerca di consenso sociale. Il che conferma la tensione fra diversi tipi di "democrazia", che agita questa fase di cambiamento.

D'altronde, la democrazia rappresentativa riflette l'equilibrio instabile fra istanze di governo - legittimo - e partecipazione - diretta - dei cittadini. Ciò che, in fondo, Scalfari definisce "oligarchia democraticamente eletta". E che Bernard Manin chiama "aristocrazia democratica", perché l'elezione esprime, necessariamente, un'èlite. Non è, quindi, fonte di "democrazia in diretta" (per citare un recente saggio di Nadia Urbinati). Ma, semmai, "indiretta". Per tornare al presente, noi viviamo in tempi di "democrazia ibrida", "mediata" da diversi "media", che spingono in direzioni contrastanti. La tv e la rete, in particolare. Alimentano, da un lato, la "democrazia del pubblico" (come la chiama Manin), dove i cittadini sono spettatori. Dall'altro, la "contro-democrazia" (come la chiama Rosanvallon). La democrazia (diretta) del controllo e della sorveglianza.

Al tempo della democrazia ibrida, per governare, occorre, dunque, controllare diversi modelli e luoghi di consenso e partecipazione. Non solo la televisione e la rete, ma anche la piazza. Per questo Grillo, nella recente campagna elettorale, oltre a presidiare la rete, è andato da Bruno Vespa, ma anche, di nuovo, a Piazza San Giovanni. Per questo Berlusconi oggi è "periferico". Rinchiuso nella tivù, oltre che, per alcuni mesi, in casa. In-credibile sui nuovi media. E, inoltre, inefficace nella mobilitazione sociale, perché il suo partito non c'è praticamente più. Per questo, infine, oggi Renzi si propone come leader di successo. Perché è in grado di dialogare con i diversi media e i diversi modelli di democrazia. Abile a comunicare in televisione, ma anche sui social media. Consigliato da esperti di marketing politico e da blogger di grande competenza. Infine, o meglio: anzitutto, Renzi dispone della principale "struttura" della democrazia rappresentativa. Il Partito. Anzi: il Partito democratico.

Io, da tempo, lo definisco PdR. Partito democratico di Renzi. O Partito di Renzi. Per marcare la connotazione "personale" che ha assunto. Tuttavia, occorre chiarirlo con forza, oltre alla R c'è il Pd. Perché se Renzi ha allargato la platea del Pd, è anche vero l'inverso. Il Pd ha offerto a Renzi una base elettorale ampia, fedele e radicata. Che lo ha votato e lo voterebbe anche se non gli piace. Per "fedeltà". Così è avvenuto, in fondo, anche al Senato, negli ultimi giorni. Quando la riforma è stata approvata con il voto di gran parte dei senatori del Pd. Nonostante il dissenso interno.

Possiamo, comunque, fornire qualche indice più preciso di queste componenti. Anzitutto, possiamo ragionare sulla differenza tra il risultato alle politiche del 2013 e alle europee del 2014. (Per quanto si tratti di un indizio molto approssimativo e precario). La progressione del Pd, nelle due occasioni, è di circa 15 punti percentuali. Anche se isoliamo i comuni maggiori dove si è votato lo scorso 25 maggio, però, si osserva una tendenza simile. Alle Europee, infatti, il Pd ha ottenuto circa il 44%, alle comunali il 29%. Di nuovo: 15 punti di differenza.

Sul piano demoscopico, possiamo utilizzare un sondaggio condotto da Demos la settimana dopo le recenti elezioni su un campione nazionale. Messi di fronte all'alternativa tra leader e partito, gli elettori del Pd che si definiscono anzitutto "renziani" sono circa il 41%. Quelli che, pur indicando un leader preferito, si dicono anzitutto "elettori del Pd" sono il 34%. Ma il 19% non indica un leader preferito e può, quindi, essere considerato un leader orientato al partito.

Renzi, dunque, ha allargato il "pubblico" del Pd di oltre un terzo. Ha svuotato Scelta Civica e l'UdC, ha intercettato una quota significativa della base di FI e alcune componenti del M5s. Parallelamente, il Pd ha perduto una parte consistente del suo elettorato "ideologico", a favore di quello "personale". Che oggi pesa, mediamente, più che negli altri partiti. Tuttavia, si tratta di un valore aggiunto, che si somma a una base "fedele" molto più ampia rispetto agli altri partiti. Per questo oggi la leadership di Renzi prevale in modo tanto evidente. Perché nel PdR coabita oltre un terzo di elettori che vota per Renzi, anche se non ama il Pd. Mentre circa il 60% voterebbe per il Pd comunque. Anche "nonostante" Renzi.

Nessun altro partito, in questa democrazia personale, dispone di un leader tanto attraente come Renzi. Ma nessun altro leader dispone di un partito vero - l'unico sulla piazza - come il Pd. È questo il plusvalore del PdR. Oltre alla R, anzi: prima, c'è il Pd. E questo costituisce un grande vantaggio competitivo.
Ma, per Renzi, anche un grande rischio: fino a quando sarà in grado di tenere insieme, uniti e coerenti, questi due "partiti"?

© Riproduzione riservata 11 agosto 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/11/news/il_piglio_del_premier_e_il_valore_del_pd-93543011/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sostiene Tavecchio
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2014, 06:37:10 pm
Sostiene Tavecchio
Di ILVO DIAMANTI

Ebbene sì. Sono anch'io un tifoso, come metà degli italiani. E il tifo è un'appartenenza, quasi una fede. Assai più forte di quella politica. Infatti, molte persone cambiano partito, anche più volte. Talora perfino religione. Ma ne conosco pochi che abbiano cambiato la squadra per cui tifano. Cito, per tutti, il mio amico Mario, milanista da sempre. Una ventina d'anni fa si convertì. Cambiò il suo "credo" (come altri della sua chiesa). Divenne romanista. Non ricordo bene perché...

A chi tifa, però, non importa molto dei dirigenti di Lega e Federazione. Perlopiù, non li conoscono. Sanno appena chi sia il presidente del loro club. E non è detto. L'importante è che abbia risorse. E le investa. Per rendere la squadra più forte. Semmai, sono i presidenti a servirsi del calcio come veicolo di popolarità. E di potere. Politico, economico, commerciale. E, allora, chissenefrega di quel che sostiene Tavecchio. Delle sue parole sugli Opti Poba, che prima mangiavano le banane e oggi giocano alla Lazio... (video)

I più - tifosi e non - ne ignoravano l'esistenza, fino a ieri. Eppure Tavecchio è il rappresentante medio della classe dirigente del nostro calcio - o meglio: dei nostri club. Ma anche di una parte dei tifosi. Di una parte degli ultras. Della curva. E non solo. Perché il razzismo è diffuso. Ben oltre i confini del tifo e degli ultras. Le banane volano in campo dalle curve, ma anche da altri settori dello stadio. Contro i "nemici" di altro colore - e, soprattutto, di altra maglia. Tavecchio, dunque, è un dirigente "rappresentativo", che, con le sue parole, offre "rappresentanza" e visibilità a questa parte del tifo e degli stadi. Ben al di là dei suoi "meriti" e delle sue stesse intenzioni. Rischia, dunque, di dare legittimazione all'intolleranza che affolla le curve e gli stadi. Non solo italiani, ovviamente. Anche se solo in Italia può capitare che chi si esprime in quel modo possa diventare Presidente della Federazione. Il Rappresentante del Calcio Nazionale. Tanto che la stampa estera l'ha messo in prima pagina. Come "Le Monde": "Il razzismo si insedia alla testa del calcio italiano". Ma, appunto, chissenefrega. Se ciò avviene è perché, nel mondo del calcio, Tavecchio non è un caso "singolare", ma "esemplare". E ai suoi Grandi (sic!) Elettori non crea problema essere "rappresentati" da lui e dalle sue parole. D'altronde, in un Paese di piccole imprese, è giusto difendere i piccoli club italiani dagli "agnelli americani". Con i "preziosi" voti dei "lotiti" e dei "galliani". Che, com'è noto, non hanno legami con la politica, gli affari e le televisioni...

Per questo, conviene affidare il governo del calcio a Tavecchio. Specchio delle nostre (loro) società. Grandi e, ancor più, piccole. Non penserete mica che il calcio sia un "affare" per appassionati e idealisti?  Finalizzato a coltivare le buone maniere, il rispetto per gli altri? Il "bene comune"? Anch'io, d'altronde, quando tifo mi trasformo. Divento una specie di mostro. Come Hulk (quello verde, non il calciatore brasiliano). Meglio starmi distante...
E allora, viva Tavecchio! Che ha ideato la nuova bandiera della Nazionale. Simbolo di integrazione. Un tricolore con l'icona del piccolo Opti Poba. Che mangia una banana.

(09 agosto 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/08/09/news/sostiene_tavecchio-93434326/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ci saranno altri Nord
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 06:26:13 pm
Mappe - Ci saranno altri Nord
Di ILVO DIAMANTI
18 agosto 2014
   
VENT’ANNI fa il Nord conquistava l’Italia. Berlusconi e Bossi, Bossi e Berlusconi, vincevano le elezioni politiche. E governavano insieme. Per poco, visto che, pochi mesi dopo, la Lega se ne sarebbe andata.

Incapace di sostenere il ruolo del partito di governo. Eppure per vent’anni Lega e Fi, Fi e Lega hanno percorso un cammino comune. Con interruzioni improvvise. Anche lunghe. Ma, in fondo, hanno proceduto insieme. Al governo o all’opposizione. A livello nazionale e territoriale. La Lega, insieme a Forza Italia, è all’origine della Seconda Repubblica. Ha rappresentato il Nord. Ha fatto divenire la “questione settentrionale” questione “nazionale”. E ha imposto la rivoluzione federalista. Il trasferimento delle competenze e dell’autorità verso Regioni, Province, città. Vent’anni fa la capitale si è spostata. Da Roma al Lombardo-Veneto, patria del forza-leghismo, per ricorrere alla suggestiva definizione di Edmondo Berselli.

Ma oggi, vent’anni dopo, che cosa resta del Nord? Della Lega? Di Forza Italia? Del Forza-leghismo? Francamente poco. La Lega, alle recenti europee, ha ottenuto un buon risultato, ma ha quasi dimezzato i voti rispetto alle politiche del 2008 e alle europee del 2009. A Fi, d’altronde, è andata anche peggio. Entrambi sono in crisi di identità. La leadership di Bossi, in particolare, è stata compromessa dalla malattia e, ancor più, dagli scandali che ne hanno coinvolto familiari e fedeli. L’attuale leader, Matteo Salvini, ha rimesso in cammino la Lega. Ma, rispetto al Senatur, è un’altra cosa… Gli storici raduni di Ferragosto, a Ponte di Legno, non a caso, appartengono alla storia. L’ultimo, nei giorni scorsi, è passato quasi in silenzio, sui media.

Berlusconi, invece, è ancora sulla scena. Ma recita da comprimario. Sempre alle prese con problemi giudiziari. Sconta il declino del modello politico e sociale che interpretava. La società individualista e imprenditiva, fiaccata dalla crisi. Tuttavia, il problema maggiore, per il Nord, non riguarda tanto — e soltanto — la leadership. Ma, anzitutto, il fondamento e l’esistenza stessa della questione che esso ha rappresentato. Il Nord, appunto. Dov’è finito? I temi e le rivendicazioni che ha espresso: dove sono scivolati?

Per quel che riguarda le autonomie territoriali e il federalismo: non è più tempo. I Comuni: schiacciati dalle aspettative dei cittadini, crescenti, in presenza di risorse calanti. Trasformati da attori in esattori — dello Stato. Le Province: sparite. Cancellate con un colpo di penna. Anche se le competenze e i servizi che esse realizzavano verranno ridistribuite tra associazioni di comuni, città metropolitane e altre entità indistinte. Le Regioni: investite da scandali ricorrenti. Percepite come nuove forme di centralismo. Che si sono aggiunte allo Stato. E oggi, per questo, appaiono altrettanto sfiduciate, agli occhi dei cittadini.

Anche se la riforma costituzionale avviata dal governo prevede di cooptare al Senato i rappresentanti dei consigli regionali. Ma per risparmiare… Insomma: il federalismo, invenzione del Nord, sembra “devoluto”. Comunque, emarginato, come i soggetti politici che l’hanno imposto. È sopravvissuta soltanto la rabbia contro lo Stato e il sistema pubblico.

Ma è stata intercettata e raccolta, in larga misura, da nuovi soggetti politici. Per primo: il M5s. Che, tuttavia, non ha radici territoriali. Non ha una geografia politica. Come la Lega, soprattutto. Ma anche Fi. Federazione di lobby e di gruppi di potere locali con la testa (e il portafoglio) a Milano. Oggi è scomparsa la geografia politica nazionale. Il principale partito, il PdR, il Pd di Renzi, non ha confini e punti di forza. Alle elezioni europee ha sfondato nel Nord. Nel territorio leghista. Ma ha una geografia nazionale anche il principale partito di opposizione. Il M5s guidato da Grillo e Casaleggio. D’altronde, il suo spazio è senza territorio: il web. E il principale motivo del suo successo risiede nel rifiuto dei partiti “tradizionali” della Seconda Repubblica. (L’ossimoro non è casuale.) Renzi e il suo partito ne hanno sfruttato la spinta. E nel governo di Renzi, già sindaco di Firenze, non a caso, lo spazio del Nord padano è molto limitato. I ministri che potrebbero evocare il Lombardo-Veneto hanno cittadinanza diversa. E la sottolineano. Pàdoan, non a caso, viene pronunciato con l’accento sulla prima e non sulla seconda “a”. D’altronde, nonostante l’origine, denunciata dal cognome, è “romano”.

La stessa Lega, infine, è cresciuta soprattutto nel Centro-Sud. Si è anch’essa “nazionalizzata”.

Insomma, il Nord oggi appare un’(id)entità rimossa. Insieme al Nordest. Per non parlare della Padania. Mentre il Lombardo-Veneto indica l’asse della crisi della Seconda Repubblica. Segnato dagli scandali scoppiati a Milano (intorno all’Expo) e Venezia (il Mose). Quasi una metafora del declino della “rivoluzione territoriale” degli ultimi vent’anni. Che ha eclissato anche il Sud. Nonostante i problemi del Mezzogiorno restino seri. Anzi, si stiano ulteriormente aggravando.

La percezione della politica e dell’economia, d’altronde, si è “nazionalizzata” perché la geografia è stata sovrastata dalla geopolitica. Che ha confini “globali”. E più del Nord e del Nordest o del Lombardo- Veneto oggi contano (e conteranno) l’Ucraina, il Kurdistan, la Siria, Gaza. Il contrasto — sempre più evidente — fra Usa e Russia. Più di Roma: contano Bruxelles, Pechino, la City. Sul piano georeligioso: la Corea, l’Iraq dove gli Yazidi fuggono all’avanzata dell’Is. Così, i temi del dibattito politico, anche nel Nord (Italia), si globalizzano. Riguardano la Ue e l’immigrazione. La stessa Lega tende a divenire un soggetto politico securitario e antieuro. Come il Fn di Marine Le Pen.

Insomma, il Nord si è perso nelle nebbie della globalizzazione politica ed economica. E la sua rimozione, in qualche misura, segnala quella “fine dei territori”, annunciata da alcuni studiosi (fra cui Bertrand Badie). Una tendenza che gli Stati nazionali (l’Italia per prima) non sembrano in grado di affrontare. Semmai, ne sono un fattore. Anche per questo il declino dei territori è destinato a fare emergere nuovi territori. Nuovi confini e nuovi Limes, reali o “inventati”. Nuove patrie, che soccorrano il bisogno di identità e di autorità. Al posto della Padania e del Nordest, d’altronde, già preme l’indipendentismo regionalista. Anzitutto in Veneto. Così, è meglio prepararsi. Dopo il Nord, oltre il Nord, ci saranno altri Nord. Non solo nel Nord.

Per reagire allo spaesamento. Alla paura del Mondo.

© Riproduzione riservata 18 agosto 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/18/news/mappe_-_ci_saranno_altri_nord-93990288/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Questo non è un Paese per giovani
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2014, 06:34:35 pm
Questo non è un Paese per giovani

di ILVO DIAMANTI
01 settembre 2014
   
Temo che l'immagine di Renzi cominci a risultare inadeguata per raffigurare il Paese. Troppo "giovane" e "giovanile". Troppo spavalda e, perfino, esagerata. Rispetto a un Paese che sembra viaggiare - e guardare - in direzione contraria. Cioè, verso il passato. Perché l'Italia mi sembra un Paese sempre più rassegnato. Che ostenta un ottimismo triste, attraversato da rabbia diffusa.

E' un Paese di pensionati, con tutto rispetto per chi la pensione se l'è guadagnata, dopo anni e anni di lavoro. Però, è difficile non rilevare le tensioni continue intorno al sistema pensionistico. Dal punto di vista sociale e politico. Perché l'età di accesso alla pensione si è "allungata", per contenere il costo della previdenza pubblica, in una società sempre più vecchia. Dove i pensionati sono oltre 7 ogni 10 occupati. Ma, in questo modo, l'ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani si è ulteriormente ristretto.

Così la generazione dei padri - e, talora, dei nonni - sessantenni vorrebbe andare in pensione. Ma non ci riesce. Neppure quando il governo, come ha fatto nelle scorse settimane, lo prevede. Ad esempio: per gli insegnanti (cosiddetti) "quota 96". Che a 61 anni abbiano maturato 35 anni di contributi. Perché, dopo l'annuncio, si scopre che non ci sono le coperture, le risorse. Un po' com'è avvenuto per gli "esodati". Un'invenzione linguistica. Participio passato di un verbo che non c'è. Coniato per significare quelle persone sperdute, in "esodo" verso la pensione. Ma rimasti per strada. Pre-pensionati senza pensione. A causa di im-previsti legislativi. Esistono ma non si vedono. Sono "pensionandi". In attesa che lo Stato trovi le risorse per "pensionarli" davvero, dopo la chiusura anticipata del rapporto di lavoro, negoziata con l'impresa.

D'altronde, l'Italia è un Paese schiacciato dalla spesa pubblica. Dal debito pubblico. Nonostante che il pubblico impiego sia in costante calo. Il 7% in meno negli ultimi 5 anni. Ma circa il 20%, per quel riguarda gli statali. Con l'esito, paradossale, che la spesa pubblica non è calata. Al contrario. Perché, come ha annotato Tito Boeri, alcuni giorni fa su queste pagine, "gli stipendi pubblici in meno si sono trasformati in pensioni in più da pagare, sempre a carico del contribuente".

Questo Paese di esodati, pensionandi e aspiranti pensionati, come può avere e, prima ancora, "immaginare" il futuro? Al massimo: il presente. Ma, più facilmente, il passato prossimo. Nell'Italia di oggi, nonostante Renzi, il futuro: è ieri. Al massimo, stamattina. D'altronde, non per nulla, questo Paese per vecchi, come io stesso ho rilevato altre volte, sta perdendo e ha già perduto i suoi giovani. Che sono pochi e sempre di meno, visto che i tassi di natalità, in Italia, sono fra i più bassi dell'Occidente. Mentre i tassi di occupazione giovanile scendono e quelli di disoccupazione crescono continuamente.

I giovani: sono "esodati" anche loro. Visto che si contano circa due milioni di Neet, un altro neologismo per significare una popolazione fuori dalla scuola e dal lavoro. Dunque, anch'essa s-perduta. Tra le pieghe dell'impiego temporaneo e informale. Protetta dalle famiglie, che offrono loro un ancoraggio, in attesa di una stabilità imprevista e imprevedibile. I giovani. Se ne vanno dall'Italia, se e quando possono. Sempre più numerosi. In particolare, durante i corsi di laurea. Utilizzano l'Erasmus, programma che prevede alcuni mesi di studio presso università straniere in convenzione con quelle italiane. Ma poi, dopo la laurea, ripartono di nuovo. Proseguono la loro "formazione" in altre università straniere. E spesso trovano impiego. Altrove. Perché l'Italia è un Paese di pensionati dove i giovani "esodano". Soprattutto i "laureati". Che sono sempre meno. Il 20% della popolazione fra 25 e 34 anni. Cioè, la metà della media Ocse. D'altronde, il saldo fra giovani laureati che escono e vengono, in Italia, è negativo (-1,2%, secondo un Rapporto di Manageritalia). Il peggiore della Ue.

Così, siamo diventati un paese di vecchi, attraversato da inquietudini e paure. Perché, quando si invecchia, crescono e si diffondono anche le paure. E ci si difende dagli altri, chiudendosi in casa. Guardando tutti con crescente sospetto. In Italia, più di due persone su tre diffidano di chi hanno di fronte (Oss sulla Sicurezza, Demos-Oss. Pavia-Fond. Unipolis). Perché ci potrebbero "fregare". In particolare, preoccupano - e spaventano - gli stranieri che affollano l'Italia, in numero crescente. Perché sono tanti, sempre di più, quelli che arrivano. Con ogni mezzo. In particolare, dal Nord dell'Africa. Non per "piacere", ma spinti da paure ben più immediate e drammatiche delle nostre. Le guerre, la fame, i conflitti. Fuggono dal loro mondo che è lì, a un passo dal nostro. E intraprendono viaggi brevi ma, spesso, infiniti. Perché finiscono in modo tragico. In fondo al mare. Ai nostri mari che assomigliano a cimiteri liquidi, dove si depositano, a migliaia, i corpi di migranti che tentano di scavalcare il muro che li separa da noi. Il Mare Nostrum che ormai è divenuto un Mare Mostrum. Quel tratto di mare: è un muro, una barriera. Costruita con le nostre paure, per difendere la nostra solitudine, la nostra vecchiaia infelice. Per coltivare la nostra indifferenza.

Noi, l'estremo confine d'Europa. Ultima frontiera di una civiltà senza più civiltà. Senza più pietà. Senza più futuro. Perché se fai partire i tuoi giovani (più qualificati) e tieni lontani quelli che vorrebbero entrare, dal Sud ma anche dall'Occidente, i poveri e i disperati, ma anche i più istruiti e specializzati: che futuro vuoi avere? Al massimo un passato. Sempre più incerto, anch'esso. E annebbiato. Come la memoria.
Per questo la rappresentanza, o meglio, la "rappresentazione" offerta da Renzi, oggi, mi appare inadeguata. Troppo giovane e giovanile. Troppo giocosa. Rispetto al Paese: rischia di proporre uno specchio deformante. Difficile predicare la "crescita" se siamo in "declino" - demografico. Se i giovani sono pochi e quando possono se ne vanno. Non basterà, di certo, un gelato a farli rientrare. Né a farci ringiovanire tutti. Più facile, piuttosto, che lui, il premier, rispecchiandosi nel Paese, invecchi presto.

© Riproduzione riservata 01 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/01/news/questo_non_un_paese_per_giovani-94789530/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Renzi ispira meno fiducia e perde 15 punti in tre mesi.
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2014, 06:44:22 pm
Renzi ispira meno fiducia e perde 15 punti in tre mesi. Il Pd resta al 41 %
L'Atlante politico. Il consenso per il capo del governo e per l'esecutivo rimane alto e tocca il 60 e il 54 %. Ma il calo per entrambi è sensibile. Il Pd di Renzi non è più in grado di attrarre tutti i settori elettorali, è diventato soggetto di centrosinistra, più di centro che di sinistra. Gli orientamenti di voto ricalcano l'esito delle Europee. Tra le differenze, la ripresa di Forza Italia che risale sopra il 18 %

Di ILVO DIAMANTI
   
ALLA fine di un’estate attiva e combattiva, Matteo Renzi e il suo governo dispongono di un consenso ancora ampio e maggioritario. Il Pd resta il primo partito, con oltre il 41% dei voti. Conferma, quindi, il significativo risultato ottenuto alle elezioni europee. Tuttavia, il clima d’opinione a favore di Renzi e il suo governo risulta molto ridimensionato rispetto a giugno.

Perché sembra indebolita quella trasversalità emersa, in particolare, nel voto europeo. Si tratta delle prime indicazioni del sondaggio di Demos per l’Atlante Politico, presentato oggi su Repubblica. Il PD di Renzi, il PdR, cioè, oggi appare, in parte, “normalizzato”. Non è più in grado di attingere consensi da tutti i principali settori dello spazio elettorale, ma è divenuto un soggetto politico di centrosinistra, più di centro che di sinistra. Come il suo leader. Come il premier. Che, per questo, non piace più, come prima, a centrodestra, ma neppure agli elettori maggiormente spostati a sinistra. Né, a maggior ragione, agli elettori del M5s.

Chiariamo: la posizione del premier e del governo appare ancora solida. Il consenso per il governo, infatti, tocca il 54%. Mentre la fiducia nei confronti di Renzi è intorno al 60%. Tantissimo, non c’è dubbio.

Soprattutto in confronto agli altri leader, molto lontani, per grado di confidenza. E quasi tutti in declino. Segno di una certa stanchezza politica che pervade la società. La differenza, rispetto agli ultimi sei mesi, è che neppure Renzi e il suo governo “personale” riescono a sottrarsi a questa tendenza. Anzi. La fiducia nei loro confronti, infatti, subisce un calo di circa 15 punti rispetto a giugno. Le ragioni di questo sensibile calo sono diverse e prevedibili. Anzitutto, la crisi, che non riduce la pressione sul reddito personale e familiare. Poi, la delusione. D’altra parte, c’è un’evidente distanza fra le attese dei cittadini e le priorità del governo. Che, fin qui, ha privilegiato le riforme istituzionali. La fine del bicameralismo perfetto (e del Senato), la legge elettorale. Ora: la giustizia. Che, tuttavia, come emerge dal sondaggio dell’Atlante Politico, non suscitano grande passione, fra gli elettori. Molto più interessati, invece, alle riforme che riguardano il mercato del lavoro, il rilancio dell’occupazione, l’adeguamento delle pensioni più basse, il sistema scolastico, il fisco. Naturalmente, Renzi ha scelto la via delle riforme istituzionali e del sistema elettorale per poter, comunque, rivendicare dei risultati, dopo pochi mesi di governo. Ma anche per creare le condizioni favorevoli per “governare”, in futuro. E per andare a elezioni, in tempi non troppo lontani, con regole che permettano la formazione, in Parlamento, di maggioranze stabili.

Il calo della popolarità del premier e del governo, però, sottolinea come l’apertura di credito degli elettori non sia infinita. Quindici punti di fiducia in meno, in tre mesi, non sono pochi. Anche se è cresciuta la quota di elettori che pensa che Renzi governerà fino in fondo. Il 43% degli intervistati, infatti, ritiene che arriverà a fine legislatura. Si tratta di 11 punti in più, rispetto allo scorso giugno. Mentre, al contrario, si è ridotta a poco più del 20% la componente degli scettici, i quali credono che resisterà meno di un anno. Parallelamente, resta maggioritaria - anche se in calo - la componente di chi ritiene che Renzi ci porterà fuori dalla crisi. Gli orientamenti di voto, peraltro, riflettono quelli emersi alle elezioni europee. Con alcune limitate – e significative - differenze. In particolare, la ripresa di FI, che risale oltre il 18%. E il parallelo ridimensionamento di NCD e Udc. Come della popolarità di Alfano e Casini. Risucchiati nella spirale del PdR. Si allarga, invece, il peso della sinistra (SEL), in parte, probabilmente, per il sostegno delle componenti critiche del PD. Dunque, la maggioranza degli italiani pensa che Renzi e il governo arriveranno in fondo alla legislatura. Il partito di Renzi, inoltre, mantiene una larga maggioranza. Perché non sembra avere alternative, né un’opposizione effettiva. Anche il M5s non riesce ad andare oltre il 20%.

Eppure, come si è detto, la fiducia personale nel premier e nel governo ha subito una brusca discesa. La spiegazione “politica” di questo ridimensionamento è comprensibile osservando le tendenze del consenso nei diversi elettorati di partito. Lo scorso giugno, dopo le elezioni europee, il gradimento per Renzi e il governo risultava, infatti, trasversale. Solo fra gli elettori del M5s, infatti, era molto sotto alla maggioranza. Ora, invece, resta larghissimo nella base del PD – prossimo al 90% - e fra gli elettori centristi e del NCD. Ma crolla in tutti gli altri settori. Soprattutto a destra: nella base di FI e degli altri partiti di centrodestra. Oltre che del M5s (dal 36% a 20%).

Oggi, dunque, Renzi appare ed è un leader di centrosinistra, alla guida di un governo di centro-sinistra. E ciò significa che il PDR non può più prescindere dal PD. Il leader ha bisogno del partito, per governare e per imporsi, in caso di elezioni. Anche se il partito – il PD – ha bisogno di Renzi per affermarsi. Per non scivolare di nuovo al 25%.

Per questo i prossimi mesi appaiono importanti e critici. Per il governo e il suo premier. Per il Pd e per il suo leader. E, dopo sei mesi di corsa, Renzi deve fare più attenzione. Al partito, agli elettori, alle parole, ai risultati. Senza riassumere e sovrapporre governo e comunicazione.

© Riproduzione riservata 12 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/12/news/renzi_ispira_meno_fiducia_e_perde_15_punti_in_tre_mesi_il_pd_resta_al_41_di_ilvo_diamanti-95553205/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'articolo 18 e il marketing politico
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2014, 05:08:38 pm
L'articolo 18 e il marketing politico

di ILVO DIAMANTI
22 settembre 2014
   
Il disegno di legge sul lavoro, approvato, nei giorni scorsi, in Commissione al Senato, rispetta una priorità del governo. Ma l’ipotesi di superare l’articolo 18, in particolare, risponde a un obiettivo politico — prima ancora che economico — di Matteo Renzi. Costruire il suo partito. Post- ideologico e post-berlusconiano. Il post-partito di Renzi. Il PPR oppure il PdR. Che vada oltre il Pd. Il dibattito sull’art. 18, infatti, ha ri-evocato e ri-sollevato antichi steccati. Fra la sinistra e il resto del mondo. Anche se l’art. 18, nella realtà, ormai, è poco utilizzato. Gran parte delle vertenze aziendali aperte su questa base si conclude con un accordo fra le parti. Senza considerare che il segno di questa norma è, quantomeno, ambiguo e ambivalente. Perché esclude ampi settori del mercato del lavoro. Peraltro, i più deboli: gli occupati delle piccole imprese, i precari e gli intermittenti. I giovani.

Non a caso, nel 2003 venne promosso un referendum per superarne i limiti. Per iniziativa di gruppi e soggetti di sinistra. Tuttavia, il valore dell’articolo 18 è ad alto contenuto simbolico. Costituisce, infatti, una sorta di bandiera della Legge 300. Lo Statuto dei lavoratori. Per questo ogni tentativo di metterci mano, non importa in che modo e a quale titolo, suscita tante reazioni. Com’è avvenuto, puntualmente, anche in questa occasione. Proprio per questo Renzi ha deciso di intervenire sull’art. 18. Proprio in questo momento. Al di là dell’efficacia e del contenuto del provvedimento. Perché è utile, funzionale a marcare confini e limiti del “suo” partito. Contro i nemici interni ed esterni.

Penso, peraltro, che egli non abbia in mente di riprodurre l’esperimento di Tony Blair, come molti hanno osservato. Non gli interessa, cioè, costruire un NewPd, più lib che lab. Ma andare “oltre” il Pd e il suo tradizionale bacino elettorale di Centro-Sinistra. Un po’ com’è avvenuto alle recenti elezioni europee, quando il “suo” Pd ha conquistato quasi il 41% dei voti. Quattro su dieci: “orientati al leader”. Circa il 17%, sul totale dei votanti, cioè, ha votato per Renzi piuttosto che in base all’appartenenza al partito (indagine post-elettorale Demos- LaPolis, luglio 2014). E ciò gli ha permesso di sconfinare rispetto ai territori di caccia della sinistra. Non a caso, è risultato primo partito praticamente dovunque, in Italia (con le sole eccezioni di Sondrio, Isernia e Bolzano). Ma soprattutto, ha sfondato nelle province del Nord e nel Nord Est. Dunque, fra i lavoratori autonomi: artigiani e commercianti, tradizionalmente attratti dai forzaleghisti (per echeggiare, una volta di più, Edmondo Berselli). Oltre che fra le componenti sociali popolari: operai e disoccupati. Che alle politiche del 2013 avevano privilegiato il M5s. Renzi, dunque, ha rotto il muro anticomunista. E quello della protesta (anti) politica. Per questo il suo consenso personale, all’indomani delle europee, si è allargato, ben oltre il livello, molto ampio, del voto. Ha raggiunto, cioè, il 74%. Mentre la fiducia nel governo ha sfiorato il 70%. Cioè, oltre il 90% fra gli elettori del Pd, ma tra il 55% e il 60% anche nella base dei partiti di Destra: Fi, Lega e Fdi.



Oggi, però, le cose sembrano cambiate. Dopo l’estate, infatti, il consenso nei confronti del governo e del premier ha subito un brusco e sensibile arretramento (Atlante Politico di Demos, settembre 2014). Superiore a 10 punti. Così, Renzi appare ancora forte, nel Paese. Ma soprattutto nel centrosinistra. Fra gli elettori del Pd resta vicino al 90%. Ma crolla (soprattutto) a destra: nella base di Fi e degli altri partiti di centrodestra (20-30 punti in meno). Oltre che fra gli elettori del M5s (dal 36% a 20%).

Allo stesso tempo, nelle stime di voto, il Pd resta saldamente attestato al 41%. In altri termini, come abbiamo sostenuto nei giorni scorsi, Matteo Renzi oggi appare leader indiscusso del Pd. E del Centro-sinistra. E qui è il problema. Perché, oggi, per la prima volta, dopo molto tempo, fatica a intercettare i consensi di destra. E, sul piano sociale, il voto dei ceti medi del Nord. Che cominciano a mostrare impazienza, in attesa delle riforme promesse. Mentre deve fare i conti con le resistenze di un Parlamento eletto “prima” del suo avvento alla guida del partito e del governo. In particolare, deve affrontare le trappole disseminate dal Pd, ma anche da Fi, come si sta verificando di fronte all’elezione dei due nuovi giudici della Corte Costituzionale. D’altronde, il progetto del PdR si rivolge anche a Fi. È questo il significato del dialogo aperto con Berlusconi. A Renzi non interessa negoziare o federare Fi. Ma svuotarla. Com’è avvenuto con i Centristi e l’Ncd (fra i suggeritori del provvedimento). E ciò spiega le tensioni interne ai parlamentari di Fi, quando si tratta di votare insieme al Pd, come se si appartenesse a un unico soggetto politico. Appunto… Così, per Renzi, l’articolo 18 diventa un’occasione, anzi: l’occasione, per superare le divisioni interne al PdR. Per costringere alla ragione il Pd — e i dissidenti. Per riaprire la comunicazione con la Destra. E soprattutto con gli elettori di Fi. E con le componenti sociali della piccola impresa e del lavoro autonomo del Nord. I forza-renziani (come li ha chiamati Fabio Bordignon). In modo da “isolare” il dissenso dei parlamentari di Fi.

Così Renzi insiste — e insisterà ancora — su argomenti ad alto tasso simbolico, relativi al lavoro e, probabilmente, domani, all’etica (come le unioni civili tra omosessuali). Ma accentuerà ancora la connessione fra comunicazione e politica. Fra governo e linguaggio. Marcando le differenze fra sé e gli altri “politici”. Fra sé e le “burocrazie”. Non solo della pubblica amministrazione, ma anche del Sindacato e di Confindustria. In attesa di potersi, davvero, misurare con gli altri, in nuove elezioni. Quando, come ora, si presenterà più antipolitico di Grillo, più berlusconiano di Berlusconi, più “diretto”, nel rapporto con il “popolo”, rispetto ai leader del suo e degli altri partiti.

Il vero problema, per Renzi, è che, per arrivare al voto con una nuova legge elettorale e con risultati da rivendicare, deve passare attraverso questo Parlamento, misurarsi con questi partiti. Con questi leader. Che, di certo, non si faranno rottamare senza resistere. D’altronde, per agire in Parlamento e per correre alle elezioni, serve un partito. Ma il PdR, per ora, è un partito che non c’è. Certo: ha un volto, uno stile. Un linguaggio. Ma per vincere, per affermarsi: non basta.

© Riproduzione riservata 22 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/22/news/l_articolo_18_e_il_marketing_politico-96366040/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Consenso in ripresa, il premier sale al centro.
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2014, 03:02:49 pm
Consenso in ripresa, il premier sale al centro.
Pd oltre il 41%, in affanno Forza Italia

L'Atlante politico. Si ferma il forte calo registrato a settembre e Renzi riconquista due punti, attestandosi al 62 per cento. Stabili i 5Stelle, cresce la Lega, in grave difficoltà Ncd e Udc, mentre Berlusconi è al 15,6 per cento. Il sostegno al capo del governo aumenta soprattutto fa gli elettori di Fi, del Carroccio, fra i lavoratori autonomi e le piccole imprese

di ILVO DIAMANTI
12 ottobre 2014

L'AUTUNNO di Renzi si annuncia caldo. Ma il forte calo di fiducia nei confronti del premier  -  e leader del PD  -  registrato un mese fa, oggi sembra essersi fermato. È quanto emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos (condotto nei giorni scorsi). Che suggerisce, anzi, alcuni  -  limitati  -  accenni di ripresa. Il credito verso il governo, infatti, è risalito di un paio di punti  -  dal 54% al 56%. La stessa crescita che fa osservare la fiducia personale verso il premier: dal 60% al 62%. Non era scontato. Era possibile, infatti, che le indicazioni fornite dall'Atlante Politico di un mese fa annunciassero la fine del legame di confidenza fra Renzi e gli elettori. Questo sondaggio, invece, suggerisce come il ridimensionamento osservato in settembre riflettesse il ritorno alla normalità. Dopo l'euforia prodotta, nel clima d'opinione, dal successo conseguito alle Europee dal PD guidato da Renzi. Il PDR. Una "normalità", peraltro, "eccezionale", rispetto alla storia elettorale del Centrosinistra, rimasto una "minoranza" anche dopo l'avvento di Berlusconi. Oggi non è più così.

LE TABELLE
Il PD, secondo le stime elettorali dell'Atlante Politico, conferma e, anzi, rafforza, seppur di poco, il risultato delle europee. Supera, cioè, il 41%. Di gran lunga, il partito più forte, sul piano elettorale. Gli "sfidanti", invece, restano lontani. Il primo, e più importante, il M5s, si mantiene intorno al 20%. Il partito maggiormente in crescita è, però, la Lega che, ormai, sfiora il 9%. Crescono anche i Fratelli d'Italia, che, tuttavia, pesano poco. Meno del 4%. Ma superano, comunque, il NCD. Che, insieme all'UDC, è sceso al 2,6 %. Insomma, il Centro (destra) è scomparso, oppure è in grave difficoltà. Come dimostra il ripiegamento di Forza Italia, attestata intorno al 15,6%. Cioè, 3 punti meno di un mese fa. A conferma di come il PDR, dopo aver largamente assorbito i partiti di Centro, stia erodendo il voto degli elettori di Forza Italia. Ciò spiega le dinamiche e le ragioni del consolidamento di Renzi.

Il brusco ridimensionamento del consenso verso il governo e verso il Premier rilevato a settembre, infatti, si era concentrato fra gli elettori di Centrodestra. E fra i piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi del Nord. Le componenti dove, oggi, il sostegno risulta cresciuto maggiormente. I giudizi nei confronti del governo, infatti, nell'ultimo mese, sono risaliti proprio "a destra". Fra gli elettori di FI, in particolare: dal 34% al 46%. Ma anche della Lega e dei Fd'I. Sotto il profilo delle categorie professionali, la risalita più evidente, rispetto a settembre, riguarda, non per caso, i piccoli imprenditori, i lavoratori autonomi (dal 46% al 67%) e i liberi professionisti (dal 47% al 60%). Solo nella base del M5s la valutazione del governo resta molto negativa e non accenna a crescere.

Questi mutamenti d'opinione appaiono conseguenti al dibattito intorno alla riforma del lavoro, il Jobs Act, approdato in Parlamento fra polemiche accese. Alimentate, soprattutto, dalla "revisione" dell'art. 18. Che Renzi ha sollevato, consapevolmente, per non vedersi spinto a Sinistra. Mentre il suo PDR guarda al Centro(sinistra). E mira a intercettare il voto di (centro)Destra.

D'altronde, rispetto al marzo 2013, all'indomani delle elezioni politiche, il profilo politico di Renzi, fra gli elettori è cambiato profondamente. La fiducia nei suoi confronti, fra coloro che si definiscono di Sinistra: dall'84% è scesa al 62%. Venti punti in meno. Ma ne ha recuperati, in parallelo, dieci fra quelli di Destra. Mentre fra quelli di Centrosinistra si conferma all'80%. E nella base elettorale del Centro e del Centrodestra oscilla fra il 60 % e il 70%; in sensibile ri-crescita, comunque, rispetto a un mese fa. Anche per questo, il premier si è dimostrato cauto, e quasi elusivo, sul riconoscimento dei matrimoni gay celebrati all'estero. Cui si è opposto il ministro Alfano, leader del NCD. Perché è un tema sensibile, che, come mostra il sondaggio di Demos, ottiene un consenso crescente, fra gli italiani. Ma rischia di dividere il PDR, al suo interno. E, soprattutto, di "dividerlo" dagli alleati e dal Centrodestra.

L'opposizione, così, non sembra più rispondere alla tradizionale alternativa politica, fra Sinistra e Destra, ma segue altre linee di demarcazione. Per prima, la frattura anti-europea, che, non a caso, accomuna il M5s e gli attori politici lepenisti: la Lega, ma anche i Fratelli d'Italia. Beppe Grillo, non a caso, nel corso della manifestazione del M5s al Circo Massimo, ha annunciato un referendum per uscire dall'euro.

L'opposizione si presenta, in questo modo, come un'alternativa "di sistema". In nome di un diverso modello di democrazia: "diretta" invece che "rappresentativa". E per questo anti-parlamentare  -  pur agendo dentro al Parlamento. In nome di un diverso progetto geopolitico. Fuori dall'Europa. Anzitutto: dall'euro e dalla UE.  Per questo, però, oggi Renzi appare senza alternativa. E può dedicarsi alla costruzione di un post-partito, dove l'identità personale si sostituisce alla tradizione e all'organizzazione del partito. Il PdR, per questo, appare un "partito di elettori", in grado di superare i confini territoriali e ideologici del passato. Così, guadagnato voti perdendo iscritti, in modo quasi speculare. Ma, allo stesso modo e per la stessa ragione, gli è difficile esercitare un controllo sui propri elettori. O, almeno, costruire un legame stabile con essi. Privi di fede, patria e comunità. Rischiano di diventare un popolo di apolidi. Scettici. Senza fissa dimora.

© Riproduzione riservata 12 ottobre 2014

DA - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/12/news/consenso_in_ripresa_il_premier_sale_al_centro_pd_oltre_il_41_in_affanno_forza_italia-97902209/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Perché torna la fiducia nei buoni maestri
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 04:48:06 pm
Perché torna la fiducia nei buoni maestri

di ILVO DIAMANTI

18 ottobre 2014
   
La credibilità della scuola: non è più la stessa di un tempo. Ancora nel 2005, meno di 10 anni fa, il 60% degli italiani esprimeva fiducia nei suoi confronti. Oggi non più. Eppure il sondaggio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi per la Repubblica delle Idee, dimostra come la valutazione nei suoi riguardi sia ancora molto positiva. Oltre metà dei cittadini, il 53%, continua, infatti, a guardarla con fiducia. Mentre circa il 60% si dice soddisfatto del funzionamento delle scuole, di diverso tipo e livello. In primo luogo di quelle elementari (65%), quindi dell'università e, in misura più limitata, delle medie. Più di 6 persone su 10, inoltre, manifestano fiducia nei confronti degli insegnanti. Pubblici. Perché la differenza tra istruzione pubblica e privata, negli orientamenti dei cittadini, si conferma elevata e significativa. A tutto vantaggio del pubblico, che appare molto più credibile, fra i cittadini. Che si tratti delle scuole o degli insegnanti.

Peraltro, il prestigio della "professione" del docente continua a essere ritenuto elevato e in crescita rispetto al passato recente. Soprattutto riguardo ai "maestri" e ai "professori universitari". Anche se quasi tutti (docenti compresi) vorrebbero che gli insegnanti venissero valutati e trattati su basi maggiormente "meritocratiche". Perché non tutti i maestri, non tutti i professori sono egualmente disponibili, capaci, preparati, impegnati...

La scuola continua, dunque, a costituire un riferimento importante, anzi, essenziale per i giovani e per le loro famiglie. Accettato e apprezzato, sul piano educativo e formativo, ma anche della socializzazione e dell'inserimento nel mondo del lavoro. Non per caso, 2 persone su 10 indicano il "titolo di studio" tra i fattori più di successo nel lavoro. Al secondo posto, dopo le "capacità personali". Davanti al "sostegno di conoscenti, amici". E parenti.

Tuttavia, se la scuola è -  dovrebbe essere -  un importante meccanismo di promozione sociale, il disincanto appare diffuso e crescente. Il 73% ritiene, infatti, che la posizione sociale dei giovani, rispetto a quella dei genitori, sia destinata a peggiorare. Solo due anni fa, nel 2011, lo pensava il 63%. Dieci punti in meno. Così, parallelamente, è cresciuta la componente di italiani che vede l'unica speranza, per i giovani, altrove. Per avere un futuro migliore, per realizzarsi davvero, i giovani se ne devono andare. Lontano dall'Italia. Ormai lo pensano quasi 7 italiani su 10. Qualche anno fa erano 5. Personalmente, ho sempre osservato con scetticismo le polemiche sulla presunta "fuga dei cervelli". È esattamente questo il "vizio" italiano. Lo scarso potere di attrazione esercitato nei confronti dei "cervelli". Italiani e non. A ciò contribuisce il basso livello di investimenti -  pubblici e ancor più privati - nel sistema formativo e nella ricerca. Ma il limite più evidente, agli occhi dei cittadini, dipende dal limitato grado di relazione fra sistema scolastico e mercato del lavoro. L'indagine di Demos-Coop lo conferma ampiamente. I principali problemi della nostra scuola, secondo gli italiani (intervistati) sono: la mancanza di fondi e di risorse e poi lo scarso collegamento con il mondo del lavoro.



E non per caso oltre 9 persone su 10 vedono con favore riforme e proposte politiche volte a sviluppare l'alternanza fra scuola e lavoro. Ma anche favorire l'apprendimento delle lingue straniere e l'acquisizione di conoscenze informatiche e di competenze digitali.

Così si spiega il giudizio degli italiani su "La Buona Scuola", disegnata dal progetto di riforma del governo Renzi. Sicuramente positivo. Eppure, in qualche misura, ancora "sospeso". A causa delle difficoltà di trovare -  e investire - davvero le risorse necessarie, promesse. Non a caso, solo una minoranza -  per quanto larga: il 44% - ritiene che le riforme proposte da Renzi miglioreranno la scuola italiana. Gli altri ne dubitano. Oppure temono che peggiorerà.

Per questo, prima e più ancora che dal Jobs act, il destino del governo dipende dalla riforma della scuola. Perché non esercita i suoi effetti sui meccanismi che regolano il mercato del lavoro, ma sulle "premesse" che ne condizionano il funzionamento. Sui requisiti tecnici e culturali che favoriscono lo scambio - e la chiusura - tra società e lavoro. Così, la mobilitazione degli studenti "contro" la riforma, mi sembra, comunque, utile. A promuovere, oltre che a "riformare", la riforma stessa. Un modo per ribadire -  gridare - al governo, ai soggetti e agli uomini politici: la scuola, prima di tutto.

© Riproduzione riservata 18 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/palermo2014/2014/10/18/news/perch_torna_la_fiducia_nei_buoni_maestri-98381420/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il partito di Renzi: dopo un anno cambia l’elettorato, con ...
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:20:28 pm
Il partito di Renzi: dopo un anno cambia l’elettorato, con un leader che strizza l’occhio al centrodestra e conquista lavoratori autonomi ma anche operai

Di ILVO DIAMANTI
02 novembre 2014
   
IL CONTROCANTO fra la Leopolda e Piazza San Giovanni: sembra non finire mai. Le polemiche, nell'ultima settimana, si sono moltiplicate. Trainate da diversi protagonisti, di entrambe le parti. Camusso e Renzi. Picierno e Landini. Interpreti e comprimari di una rappresentazione che ha fatto parlare di una frattura profonda. Fra due sinistre. Fra il Pd di Renzi e un nuovo partito. Alla sua sinistra. Tuttavia, il distacco fra la Cgil e il Pd di Renzi, il Pdr, non è recente. Non si è prodotto nelle ultime settimane. Si è consumato molto prima. A causa di un reciproco ri-sentimento, fra la base della Cgil e i vertici del Pdr. Renzi, infatti, ha ri-posizionato il suo PD prendendo le distanze dalle tradizioni della sinistra comunista. Ma anche post-comunista. Da cui proviene la Cgil. In parte, però, questi contrasti sembrano voluti dallo stesso Renzi, per ragioni di mercato elettorale. Il Pdr, infatti, si è definito di Sinistra e ha aderito al Partito del Socialismo Europeo. Ma si è orientato al centro. Volgendo lo sguardo più in là. A Centro-destra.



La polemica con la Cgil riflette questa strategia di marketing politico. Alimentata dalle politiche sul lavoro condotte dal governo, in particolar modo attraverso la revisione dell'articolo 18. Simbolo di una stagione politica e sociale caratterizzata dalla mobilitazione sindacale e dalla concertazione. Alla quale Matteo Renzi ha posto fine definitivamente, dichiarando che "il posto fisso non esiste più". E che, dunque, hanno poco senso anche le organizzazioni dei lavoratori "a tempo indeterminato". I sindacati, appunto, con cui ha stabilito relazioni di reciproca diffidenza. E "senza concertazione". Naturalmente, Renzi ha scelto un bersaglio indebolito da anni di declino, nella percezione sociale. Il sindacato. Dal 2009 ad oggi, negli ultimi 5 anni, la fiducia verso Cisl e Uil, tra i cittadini, è scesa dal 26% al 16%. Nei confronti della Cgil: dal 35% al 22%. Così, Renzi ha fatto della Cgil il simbolo della sinistra della nostalgia, che si accontenta del 25%. E, anche per questo, è finita ai margini del PD di Renzi. Oggi, infatti, fra gli elettori del Pd, i simpatizzanti della Cgil sono circa il 25%. Poco più della media. Ma nel 2012 erano il 53%. Oltre il doppio. E nel 2009 oltre il 60%. Questa tendenza rispecchia, dunque, il reciproco distacco, fra il Pdr e la Cgil.

A Renzi non piace la Cgil. E viceversa. Tuttavia, la "caduta" della fiducia nella Cgil fra gli elettori del Pd (come ha osservato, fra gli altri, Lorenzo Pregliasco, di Quorum) costituisce anche un indice (e una conseguenza) dei cambiamenti avvenuti nella base elettorale del Pd. Che, coerentemente con le intenzioni del leader, si è allargata verso il centro e il centrodestra. Ha, infatti, assorbito Scelta Civica, l'Udc. Ma anche Ncd. Inoltre, ha intercettato frazioni significative di Forza Italia. Aree politiche che hanno scarsa sintonia con il sindacato e, soprattutto, con la Cgil. Altrettanto evidente e profondo è il cambiamento, avvenuto in pochi mesi, nella base sociale del Pdr. Alle elezioni politiche del 2013, infatti, circa il 20% degli operai aveva votato per il Pd. Alle elezioni europee del 2014 questa componente era salita al 34%. Oggi, dopo le polemiche sull'articolo 18, si è ridimensionata al 28%.

Comunque, più che al tempo del Pd di Bersani. Perché è da tempo, ormai, che gli operai non votano più per il Pd. Parallelamente, il peso degli imprenditori e dei lavoratori autonomi è cresciuto in modo sensibile e progressivo: dal 13% alle politiche del 2013 al 28% alle Europee, fino al 40% oggi. Il Pd(R), in altri termini, oggi è più forte fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi  -  ma anche fra i dirigenti, gli impiegati e i liberi professionisti  -  che fra gli operai. E se il suo peso, fra gli studenti, è cresciuto (oggi è il 40%), la categoria sociale che garantisce al Pd i maggiori consensi resta quella dei pensionati: 58%. Anche la fiducia nel governo Renzi, peraltro, risulta molto elevata fra i pensionati, gli imprenditori e i lavoratori autonomi. Mentre appare decisamente bassa fra gli operai e, soprattutto, i disoccupati. È come se Renzi avesse, davvero, spezzato i legami della "sua" sinistra con il passato. Con la sinistra storica, rappresentata dal Pci, dalla Cgil. E con il riferimento sociale  -  simbolico  -  da cui ha tratto senso e radicamento. Il lavoro  -  dipendente. La classe operaia. E, inoltre, con gli "esclusi" (dal mercato del lavoro). Già da tempo, d'altronde, la sinistra, in Italia (e non solo) ottiene i maggiori consensi fra i pensionati e i dipendenti pubblici. Fra le professioni "intellettuali".

Gli operai sembrano, invece, sempre più attratti dalla Lega di Salvini e dal M5s. Mentre il PdR ha intercettato il voto del lavoro "in-dipendente". Degli imprenditori  -  grandi e, ancor più, piccoli. Quelli che, per riprendere il mantra di Renzi, non conoscono "posto fisso". Il problema, però, è che, così, anche il futuro politico di Renzi e del Pdr rischia di divenire instabile e precario. Come il lavoro. Come le organizzazioni e le identità politiche del passato. Dissolte, insieme ai vecchi partiti. Così non resta che correre, alla continua ricerca di nuove parole, nuovi luoghi, nuovi alleati e nuovi nemici. Senza fermarsi mai. Una professione che Renzi, fino ad oggi, ha saputo esercitare abilmente. Ma che nessuno, intorno a lui, è in grado di svolgere con altrettanta efficacia. Correre senza sosta e, in fondo, senza mèta. Detto così, più che una missione sembra una condanna.

© Riproduzione riservata 02 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/02/news/la_cgil_abbandonata_dagli_elettori_pd_solo_1_su_4_la_sostiene-99558243/?ref=HREC1-9


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il ri-partito della nazione
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:38:23 pm
Il ri-partito della nazione

La ripartenza di Renzi dalla quinta Leopolda. In uno scenario in cui è al centro lo scontro tra passato, presente e futuro del mondo del lavoro
di ILVO DIAMANTI
27 ottobre 2014
   
MATTEO Renzi, nella vecchia stazione della Leopolda, è ri-partito. Anche se non si è mai fermato, fino ad oggi. Non è nel suo stile, nel suo temperamento. Ma ha chiarito meglio a quale "partito" guardi. Il PdR, il Partito di Renzi, è, appunto, un "ri-partito". Un partito in continua ri-definizione, riguardo a obiettivi, parole d'ordine, riferimenti sociali. In continua ri-partenza, verso nuove stazioni. È questo il principale messaggio, il messaggio dei messaggi, lanciato a Firenze. Il "suo" partito guarda avanti. E, per questo, non ha un "popolo" specifico di riferimento. Ma sa "contro" chi muovere. Anche perché i suoi "nemici", per primi, hanno scelto Renzi, il suo governo e la convention di Firenze come "nemici" contro cui mobilitarsi. I "nemici" di Renzi sono quelli che hanno sfilato a Roma, contro il Jobs act, contro le politiche sul lavoro del governo. "Convocati" dalla Cgil. E, non a caso, "contro" di loro e ciò che rappresentano si è rivolto Matteo Renzi, nel suo intervento conclusivo alla Leopolda. Li ha "etichettati", politicamente, come nostalgici di un passato che è passato. E ha accostato - per molti versi, assimilato - la manifestazione della Cgil all'iniziativa delle sinistre arcobaleno. Il PdR, invece, guarda altrove. E, per questo, insiste sull'articolo 18. Simbolo del passato. Bandiera del Pd e della sinistra con la quale Renzi intende tagliare i ponti. Perché "è una regola degli anni Settanta che la sinistra allora non aveva nemmeno votato, siamo nel 2014". Così la questione, sollevata da Renzi, è "capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare il futuro". Un'alternativa, ovviamente, retorica. Perché, come scandisce Renzi "non permetteremo a nessuno di far tornare il Pd al 25%".

Il PdR, per questo, si definisce "in opposizione all'opposizione". Ai "nemici", che Renzi continua a scegliere con cura, per precisare la sua differenza. Dagli "altri". Per intercettare gli elettorati che hanno sempre guardato la sinistra con sospetto. Sul piano politico: i moderati di centro, già assorbiti. Quelli di centrodestra e di destra, in gran parte collaterali. Dal punto di vista sociale: gli imprenditori, grandi e piccoli, i lavoratori autonomi del Nord. Componenti tradizionalmente ostili e anticomuniste. Renzi li ha "convocati" alla convention di Firenze. Raccolti intorno al premier e "contro" coloro che manifestavano a Roma. Un popolo di operai, certamente non giovani, insieme ai pensionati (oltre a molti lavoratori immigrati). Secondo il premier: il passato. E "contro" la Cgil, in quanto sindacato, con cui, come ha già detto altre volte, non intende "concertare". Si tratta di argomenti e discorsi già sentiti. Renzi li ha espressi, apertamente, altre volte. Ma questa volta li ha raccolti e presentati insieme, alla sua convention, nella sua capitale: Firenze. Ne ha fatto una sorta di manifesto del PdR. Che, tuttavia, solleva alcuni dubbi. Principalmente due.



Il primo riguarda l'identità del partito. Il PdR, o il PdN, il Partito della Nazione, come l'ha battezzato Renzi. Tutto proiettato verso il futuro. Alla novità, all'innovazione. In contrasto con ogni nostalgia e con ogni richiamo al passato. Ebbene, a rischio di condividere i vizi e i vezzi di "un certo ceto intellettuale" (anche se mi offenderei: intellettuale a chi?), mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato.

In secondo luogo, liquidare la manifestazione della Cgil come una mobilitazione della Sinistra arcobaleno mi pare, a maggior ragione, riduttivo. Fra coloro che hanno sfilato contro il governo e contro Renzi vi sono molti elettori del Pd. E molti elettori del Pd, comunque, ne condividono la protesta. Possiamo tentare, con qualche approssimazione, di stimarne il peso elettorale (base: Oss. Elettorale Demos, ottobre 2014) concentrandoci su coloro che esprimono molta-moltissima fiducia nella Cgil. Fra gli elettori del Pd sono circa il 25%. Cioè, se facciamo riferimento alle elezioni europee di maggio, intorno al 10% del voto. Appare, quindi, azzardato trattare questa componente come fosse esterna ed estranea. E se è vero che gli iscritti al sindacato sono, per la maggior parte, pensionati e lavoratori anziani, è altrettanto vero che proprio questi settori, alle ultime elezioni (politiche ed europee), hanno costituito lo zoccolo duro del voto al Pd.

Per questo conviene rammentare che, se, effettivamente, il Pd, prima di Renzi, si era fermato al 25%, il Pd di Renzi ha superato la soglia del 40% non perché abbia "abolito" il passato, ma perché, al contrario, lo ha incanalato nel suo progetto. Come ho già scritto, Renzi ha sommato i voti del PdR a quelli del vecchio Pd. Il suo post-partito e la "ditta". In altri termini, ha intercettato i consensi di coloro che hanno votato per Renzi "nonostante" il Pd. Ma anche gli elettori che hanno votato per il Pd "nonostante" Renzi.

Per queste ragioni penso che Renzi debba guardarsi dalla prospettiva segnalata da Mauro Calise: presentarsi come un "anti-partito", raccolto intorno al suo leader. Che stigmatizza il passato e la memoria, in nome del "nuovo" ad ogni costo. Ma rischia, in questo modo, di perdersi nel presente.

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Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/27/news/il_ri-partito_della_nazione-99090128/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Governo giù, il premier perde 10 punti.
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2014, 06:00:24 pm
Governo giù, il premier perde 10 punti.
Scende il Pd e vola la "Lega nazionale"

di ILVO DIAMANTI
16 novembre 2014

PER la prima volta, da quando è divenuto premier, Matteo Renzi appare in difficoltà, fra gli elettori. Certo, anche nello scorso settembre gli indici di fiducia nei suoi confronti e verso il governo avevano subito un sensibile calo, rispetto a giugno. Ma in quel caso si trattava di un assestamento, dopo la crescita, tanto forte quanto anomala, seguita al successo nelle elezioni Europee. E poi, soprattutto, non si vedevano conseguenze sugli orientamenti di voto. Il Pd, in particolare, stazionava oltre il 40%. Esattamente come alle Europee. Oggi non è così. Il sondaggio dell’Atlante Politico di Demos, realizzato nei giorni scorsi, rileva un nuovo, forte ridimensionamento, che si consuma in un solo mese. Visto che l’ultimo sondaggio era stato svolto in ottobre, la settimana precedente la manifestazione della Cgil. Questa volta, però, il calo coinvolge non solo la popolarità del governo e del premier, ma lo stesso voto al Pd. Vediamo nel dettaglio.



La fiducia nel governo scivola al 43%, 13 punti in meno in un mese. Molto al di sotto della maggioranza degli elettori. Anche il gradimento personale del premier scende sensibilmente, di 10 punti. Ma Renzi rimane, nettamente, davanti a tutti, nelle preferenze degli elettori. Visto che supera di oltre 20 punti Matteo Salvini, segretario della Lega. Il più apprezzato, dopo di lui. Mentre tutti gli altri sono ancor più distanziati. Per primi, Maurizio Landini, segretario della Fiom, il sindacato metalmeccanico della Cgil. Figura di riferimento della “sinistra” critica. E Giorgia Meloni, leader dei Fratelli d’Italia.

Il calo di popolarità del premier e del governo, però, appare particolarmente significativo perché, a differenza di quanto si era osservato settembre, stavolta si riflette anche sul piano elettorale. Il Pd, infatti, nelle stime di voto, scivola dal 41% al 36,3%. Sempre molto, visto che, alle politiche, aveva raggiunto, al massimo, il 33%, nel 2008. E nel 2013 si era fermato al 25%. Ma si tratta, comunque, quasi 5 punti meno di un mese fa. Risalgono, invece, anche se di poco, Forza Italia, Sel, insieme alle formazioni della sinistra critica e i Centristi, mentre il M5S è stabile, intorno al 20%. Ma il vero progresso, in questa fase, è realizzato dalla Lega, che si avvicina all’11%. Proseguendo nella tendenza espansiva che dura ormai da mesi. E non accenna a rallentare. La Lega di Salvini: oggi è la vera “Destra Nazionale”. Pardon: la Ligue Nationale, per echeggiare le Front National di Marine Le Pen. Non per caso, d’altra parte, la “popolarità” di Salvini appare elevata anche nel Mezzogiorno (intorno al 30%).

Gli orientamenti del voto offrono alcune indicazioni circa le dinamiche del rapido declino del Pd. Che non sembra avere una direzione precisa. Il Pd di Renzi, d’altronde, fino a ieri ha funzionato come un vero “partito pigliatutti”. Capace di intercettare il voto di centrosinistra e di sinistra, di assorbire il centro e di attingere anche a destra. Oggi, invece, una quota importante di quanti avevano votato Pd alle europee (quasi 2 su 10) appare in stand-by. Non esprime alcuna scelta. In attesa. Di quel che avverrà.

La ripresa – per quanto modesta - di Fi, Ncd- Udc, Sel e soprattutto della Lega suggerisce il ritorno della concorrenza, in un mercato elettorale a lungo mono-polarizzato da Renzi. Il quale, oggi, sembra aver perduto appeal nei confronti delle altre aree politiche. Come mostra l’evoluzione della fiducia verso il governo fra i principali elettorati. In particolare, a centro- destra. Fra gli elettori di Fi: l’indice di fiducia in Renzi cala, infatti, di 17 punti, dal 46% al 29%. E di 13 punti nella base leghista: dal 41% al 28%. Si tratta di tendenze che si riflettono sul piano socio-economico. Visto che il maggior calo di popolarità del governo avviene tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi: dal 64% al 42%. Cioè, 22 punti in meno. Inferiore, peraltro, al calo subito fra le casalinghe: 26 punti. Mentre perdite significative si osservano anche fra i disoccupati (15 punti).

E ciò contribuisce a spiegare le ragioni sostanziali di questo improvviso calo di consenso. Riassumibili in una formula: il buio che ha oscurato l’orizzonte. Mi spiego: Renzi è il leader che ha restituito speranza nel futuro a una società oppressa da un cielo grigio. Senza prospettive di crescita. Ha promosso e, soprattutto, promesso il cambiamento economico e istituzionale. Riforme e sviluppo. L’ha fatto adottando un ritmo veloce, come stile di comunicazione e come contenuto. Per spezzare, sul piano cognitivo, il rapporto con il passato. E, tatticamente, per complicare la verifica dei risultati, difficili da realizzare in questi tempi. Oggi, però, questo esercizio di stile fatica a funzionare come prima. Non tanto per colpa del sindacato e della Cgil. Che ha perfino peggiorato la propria immagine, dopo la manifestazione del 15 ottobre. Quella mobilitazione, tuttavia, ha rotto il clima di consenso sociale, che, in precedenza, appariva generalizzato. E ha, invece, accentuato l’attenzione verso la crisi economica, che si fa sempre più pesante. Accentua le disuguaglianze sociali. Fa perdere la speranza. E, appunto, oscura l’orizzonte. Così, la fiducia nel governo cala al 30% fra quanti pensano che, nel prossimo anno, il reddito della loro famiglia e il livello della disoccupazione sono destinati a peggiorare. Ma si riduce ancor di più (27%) tra coloro che scommettono su un ulteriore deterioramento dell’economia italiana.

È come se la delusione avesse oscurato le qualità taumaturgiche attribuite al premier. Chiamato, dai cittadini, “a miracol mostrare”. Il ritorno alla “normalità” – precedente alla sua irruzione sulla scena politica e al governo - ha, dunque, prodotto un impatto pesante. Così si spiega anche il ripiegamento elettorale del Pd. Che mantiene ancora un livello di consensi elevato. Ma arretra. Per l’indebolirsi del consenso “personale” di Renzi. Del sostegno al PdR. Il Partito di Renzi. Che ha permesso al Pd di superare i confini tradizionali, che ne frenavano l’espansione. Politici: al centro e, ancor più, a destra. Territoriali: al Nord. Sociali: fra imprenditori e lavoratori autonomi. Ma anche fra i disoccupati.

Naturalmente, il domani non è scritto. Dipende, in buona parte, dal Pd, dal governo e, anzitutto, da Renzi. Dalla sua capacità di andare oltre il presente im-mediato. Il problema è che, per ottenere – e vedere - risultati, ci vuole pazienza. Tempo. Ma Renzi va veloce. Insegue se stesso. E rischia di non riuscire a raggiungersi.

© Riproduzione riservata 16 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/16/news/governo_gi_il_premier_perde_10_punti_scende_il_pd_e_vola_la_lega_nazionale-100667443/?ref=HRER1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il libro di Thuram contro il razzismo. "Quando a Parigi ...
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2014, 12:55:38 pm
Il libro di Thuram contro il razzismo. "Quando a Parigi diventai un nero"
Il francese con studiosi e intellettuali "Il campo di calcio per educare i figli"

di ILVO DIAMANTI
20 novembre 2014

LILIAN Thuram è un grande campione. Ha giocato per anni in Italia. Prima nel Parma e poi nella Juventus. Ma ha iniziato in Francia, nel Monaco. E ha concluso la sua carriera nel Barcellona, a 36 anni, fermato da una malformazione cardiaca. Nella sua carriera ha vinto molto. Un campionato del mondo e uno d'Europa. In Italia, due scudetti e tre supercoppe. Ma Thuram non è solo questo. Dopo, ma anche durante, la carriera di calciatore, ha contribuito, in modo, direi, militante (anche se all'autore l'espressione non piace), a promuovere l'integrazione. Sul piano sociale. Contro ogni forma di discriminazione. Contro ogni forma di razzismo. A questo fine, ha costituito una Fondazione, che porta il suo nome. E che svolge numerose attività, soprattutto in ambito educativo, nei luoghi della socialità giovanile. Non sorprende, dunque, che Thuram abbia trasferito questa esperienza in un libro, scritto in collaborazione con molti fra coloro che partecipano alla Fondazione. Intellettuali e studiosi, come Todorov e Viewiorka.

Il volume ha un titolo programmatico: "Per l'uguaglianza". È, in parte, autobiografico. In parte, analitico e riflessivo. Racconta, nei primi capitoli, la sua vicenda personale. Thuram, nato in Guadalupa, penultimo di una famiglia con cinque figli nati da padri diversi. Una condizione normale, nella terra d'origine. Ma non in Francia, dove si trasferisce a nove anni. E lì si trova, immediatamente, a porsi domande. Thuram, d'altronde, è curioso. E tutto il libro è una sequenza di domande. Che nascono dalla sua esperienza. E riguardano, dapprima, la "differenza" - vistosa - fra il suo modello di famiglia e quello dei compagni di scuola e di gioco. La sua famiglia, d'altronde, si regge e si fonda sul ruolo della madre. Per questo Thuram afferma di aver voluto figli "molto presto, forse, inconsciamente, per essere il padre che non avevo avuto". Al tempo stesso, è in Francia che l'autore scopre la questione del razzismo. Perché "è stato al mio arrivo a Parigi che sono diventato nero". Prima, non si era mai posto il problema.

Ma a Parigi il colore della pelle è causa di stigmatizzazione. La differenza diventa diversità. Tuttavia, "non si nasce razzisti, lo si diventa", sottolinea Thuram. È una costruzione sociale che si trasmette di generazione in generazione. Fino a divenire "un'abitudine, un riflesso inconscio". Il calcio, nella visione di Thuram, serve a spezzare quest'abitudine. Questo pregiudizio, dato per scontato. Perché "dopo la scuola, il campo è il luogo più importante dove si educano i figli". Ma il calcio è anche uno spazio pubblico, un teatro che permette di comunicare valori, in modo "esemplare". Thuram, non a caso, ha messo in scena, in diverse occasioni, la tolleranza, denunciando apertamente l'intolleranza. Come nel 1998, quando polemizzò con Jean Marie Le Pen, che criticava il numero eccessivo di "neri" presenti nella nazionale di calcio. Gli replicò, allora, che per far parte della nazionale, non conta essere neri o bianchi. Ma francesi.

Ma anche di recente, è intervenuto criticamente contro l'allenatore del Bordeaux, Willy Sagnol, che aveva recriminato contro il ricorso al "giocatore tipico africano, che ha il vantaggio di costare poco, al momento dell'acquisto, e di essere pronto alla lotta, sul terreno di gioco". Ma non sarebbe altrettanto intelligente e tecnico. Parole in libertà, ha osservato Thuram, che rinforzano pregiudizi antichi e resistenti. Parole che, peraltro, echeggiano discorsi pronunciati da figure autorevoli del nostro calcio. Impossibile non rammentare Carlo Tavecchio, quando, alcuni mesi fa, parlava degli "Opti Pobà, che prima mangiavano le banane e oggi giocano alla Lazio". Tavecchio è divenuto presidente della Federazione Italiana di Calcio. Nonostante (non oso dire: grazie a) quella battuta. Perché in Italia non vedo - non ci sono testimoni della tolleranza e dell'integrazione, come Thuram. Fra i dirigenti, gli allenatori e gli stessi giocatori. Anche se tutte le squadre, ormai, sono multietniche. Per questo, il libro di Liliam Thuram è utile. Perché, al di là del valore letterario, restituisce al calcio il valore della relazione e dell'integrazione. Andrebbe, dunque, adottato e letto dove si insegna - e dove si insegna a insegnare - calcio. A Coverciano, anzitutto. Infine, un consiglio: a Natale regalatene una copia a Tavecchio.

© Riproduzione riservata 20 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/sport/calcio/2014/11/20/news/il_libro_di_thuram_contro_il_razzismo_quando_a_parigi_diventai_un_nero-100978836/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quando l'elettore non fa più atti di fede così la Calabria...
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2014, 04:34:12 pm
Quando l'elettore non fa più atti di fede così la Calabria si scopre più rossa dell'Emilia
Mappe
Anche la partecipazione elettorale per la prima volta è stata più alta al Sud che nella storica roccaforte Pd. Non si va più alle urne per confermare un'identità

Di ILVO DIAMANTI
25 novembre 2014
   
Non c'è più religione. Almeno nel rapporto fra elettori e partiti. Il voto non è più un atto di fede, che si replica di volta in volta, per confermare la propria identità e la propria appartenenza a un sistema di valori, a una rete associativa e mondo di relazioni. Lo sapevamo già da tempo, ma mai era apparso così evidente come in queste elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria. Due idealtipi diversi e opposti, avevamo scritto.

L'Emilia Romagna, stabilmente "rossa", di sinistra. Grazie ai legami fra partiti di sinistra -  comunisti e postcomunisti - e società.  La Calabria, instabile e frammentata, dal punto di vista sociale e del comportamento di voto. Stavolta si sono scambiate orientamento e posizione. Per la prima volta nella storia repubblicana, la Calabria è più "rossa" dell'Emilia Romagna. In Calabria, Mario Oliverio, candidato del Centrosinistra, ha vinto con il 61% dei voti validi. Mentre Stefano Bonaccini, anch'esso candidato dal Centrosinistra, in Emilia Romagna, è stato eletto Governatore con il 49%.

LE TABELLE E I GRAFICI

Per la prima volta, inoltre, la partecipazione elettorale è risultata più alta in Calabria che in Emilia Romagna. Ma, forse, converrebbe dire "meno bassa". Infatti, l'affluenza alle urne, in Calabria, ha raggiunto il 44%: quasi 2 punti meno delle Europee dello scorso maggio, ma 15 meno delle Regionali del 2010. Sufficiente, però, a superare l'Emilia Romagna, dove la quota dei votanti, in questa occasione, è crollata sotto il 38%. E, dunque, 32 punti sotto alle recenti Europee e 30 meno delle Regionali del 2010. L'Emilia Romagna, dunque, non è più "rossa". Non ha più un'identità diffusa, che dia un colore politico al territorio. Certo, il cambio d'epoca era già avvenuto in passato. Anzitutto e soprattutto, a Bologna, nel 1999, quando Giorgio Guazzaloca venne eletto sindaco, alla testa di una coalizione di centro-destra. Ma si era colto anche nel 2012, a Parma, dove, alle municipali, Federico Pizzarotti venne eletto sindaco, nelle liste del M5s. Ma questa volta è diverso. Perché non è avvenuto alcun ribaltone. Il candidato del Centrosinistra, Stefano Bonaccini, ha vinto largamente, sfiorando la maggioranza assoluta dei votanti. Lasciando a grande distanza gli sfidanti. Il leghista Alan Fabbri, capolista del Centro-destra (circa il 30%) e l'esponente del M5s, Giulia Gibertoni, poco sopra il 13%. Eppure oggi, più che della sua vittoria, si parla dell'astensione. Ed egli appare un Governatore a metà. Indebolito dall'avanzata del non-voto. Che molti elettori hanno usato come un "voto". Un segno di dissenso o di distacco.




Dalle analisi elettorali condotte dall'Istituto Cattaneo di Bologna -  limitate alla città di Parma -  appare evidente, infatti, che, rispetto al voto europeo, il flusso verso l'astensione ha coinvolto soprattutto il Pd (oltre il 15%). Ma non solo. Perché ha colpito in misura molto pesante anche il M5s: 8%. E, in misura marginale (1-2%), anche altri partiti, da destra (Ncd, Fi, Ln) a sinistra (Sel). Ciò segnala il rilievo assunto dal sentimento di distacco verso la politica. Enfatizzato, in Emilia Romagna, dai legami fra il Partito e la società.

Negli ultimi anni, d'altronde, il cedimento del retroterra della Sinistra era già emerso, evidente. In particolare, alle elezioni politiche del 2013, quando il M5s aveva eroso la Zona Rossa. Allora, il Pd, in Emilia Romagna, aveva ottenuto un "modesto" (per le tradizioni della regione) 37%. Risalendo, però, al 53% alle Europee di pochi mesi fa. Grazie al contributo "personale" di Renzi. A-ideologico ed estraneo alla tradizione comunista e post-comunista. Lontano dai miti e dai riferimenti della sinistra -  storica. Ormai "sinistrati" (per citare un saggio di Edmondo Berselli, profondo conoscitore dei vizi della sinistra e dell'Emilia).

Se alle Europee il Pd e il post-Pd si erano aggregati intorno a Renzi, questa volta sono entrati in contrasto. E se pochi elettori hanno abbandonato il Pd per un altro partito, molti hanno, semplicemente, rinunciato a votare. Tuttavia, ciò non ha dis-integrato il PD(R). Che ha, comunque, ottenuto il 44% - cioè, 4 punti più del 2010 (pur perdendo 300 mila voti). Mentre il neo-governatore, Bonaccini, si è fermato a 3 soli punti da Errani. Questa elezione, semmai, enfatizza la fine di una stagione politica all'insegna dell'appartenenza. Del voto come "fede" radicata sul territorio.

Un passaggio d'epoca sottolineato dalle elezioni politiche del 2013 e dalle Europee di maggio. Quando il M5s e il PD(R) hanno ottenuto consensi distribuiti in tutto il territorio nazionale. In modo omogeneo. Così, stavolta, la stessa Lega, il partito territoriale per eccellenza, ha ottenuto un risultato molto rilevante: 19,4%. Ma senza scendere sotto il 15% in nessuna provincia. Neppure a Bologna e Rimini. FI, invece, è crollata ovunque. Ridotta a meno di metà della Lega. (E in Calabria si è fermata al 12%.) Un "partito personale", incapace di sopravvivere al declino del Capo, Berlusconi. Oscurato dall'alleanza con un leader, Salvini, più visibile e giovane di lui. Un altro segno di questo passaggio d'epoca. Che non garantisce più certezze. Come avviene in altre democrazie rappresentative. Così, anche noi dovremo abituarci -  o, almeno, rassegnarci - a considerare il voto un diritto e non un obbligo. E a valutare l'astensione, il non-voto, non come una malattia della democrazia. Ma una scelta - o una non-scelta. Perché oggi "non c'è più religione". Votare non è più ritenuto un dovere morale e sociale. Riflesso di un'identità. E ogni elezione diventa una competizione aperta. Per vincerla, bisogna offrire agli elettori buone ragioni per votare un partito o un candidato. Ma, prima ancora, per votare.

 © Riproduzione riservata 25 novembre 2014

http://www.repubblica.it/politica/2014/11/25/news/quando_l_elettore_non_fa_pi_atti_di_fede_cos_la_calabria_si_scopre_pi_rossa_dell_emilia-101344080/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Partito del premier all'esame del voto teme l'usura del ...
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2014, 04:38:17 pm
Il Partito del premier all'esame del voto teme l'usura del modello emiliano
Primo test per il Pd de-ideologizzato in Emilia e Calabria Le sfide di Lega e M5S nei territori "rossi" e nel Sud in crisi

Di ILVO DIAMANTI
23 novembre 2014

OGGI si vota in due regioni, lontane e diverse, fra loro. Per economia, società, storia. Territorio. Da un lato, l'Emilia Romagna. Il Nord. Secondo l'Istat: il Nord Est. L'economia di piccola impresa, motore dello sviluppo degli ultimi vent'anni. Dall'altro lato, la Calabria. Il Sud, lo sviluppo senza autonomia (come ha scritto Carlo Trigilia). Un'area che fatica a ridurre le distanze -  economiche, ma non solo - dalle zone più dinamiche del Paese. Due regioni lontane e diverse anche dal punto di vista politico. Eppure, oggi entrambe vanno al voto con qualche mese di anticipo rispetto ai termini previsti, per ragioni analoghe. Legate a irregolarità e abusi commessi dagli amministratori. E questa co-incidenza è un segno del cambiamento avvenuto, rispetto il passato. Anche se le differenze fra i due contesti restano profonde. La Calabria raffigura il Sud, esposto ai gruppi di pressione locali. Instabile e differenziato, dal punto di vista elettorale. Come mostrano gli esiti delle elezioni regionali a partire dal 2000. Quando ha esordito il voto diretto al Presidente.

Tre elezioni, tre presidenti e tre coalizioni differenti. Nel 2000: Giuseppe Chiaravalloti, di Forza Italia, a capo di una maggioranza di Centro-destra. Nel 2005: Agazio Loiero, Popolare, alla guida di una coalizione di Centro-sinistra. Nel 2010: Giuseppe Scopelliti, Pdl, leader del Centrodestra. Oggi, il Centrosinistra presenta Mario Oliverio (Pd, vicino a Bersani). Favorito, secondo i sondaggi. Ma anche dalla regola dell'alternanza. Che prevede, appunto, il cambio di maggioranza a ogni voto. Esattamente all'opposto dell'Emilia Romagna. Il "cuore rosso" dell'Italia (come recita il titolo di un noto saggio di Francesco Ramella). Una regione, da sempre, orientata a sinistra. Intorno al Pci, ieri. In seguito, ai post-comunisti: il Pds e i Ds. E, oggi, il Pd. Insieme alla Toscana, all'Umbria e alle Marche: delimita la "zona rossa". Il perimetro, ma anche il recinto, storico del Centrosinistra. Perché gli ha permesso di resistere, ma gli ha impedito, allo stesso tempo, di volare. D'altronde, la storia politica dell'Italia repubblicana è segnata dall'anticomunismo. Ancora nel 2008, il Centrodestra appariva tanto più debole -  e il Centrosinistra tanto più forte - dove era più esteso il voto della sinistra social-comunista. Nel 1948. Nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. Che, ha usato il passato a proprio vantaggio riproponendo l'anticomunismo senza il comunismo. E senza i comunisti.

Così, l'Emilia Romagna ha continuato ad essere "rossa" e i cittadini hanno continuato a votare allo stesso modo. Ma per "abitudine", più che per "appartenenza" (come ha osservato Arturo Parisi). Una continuità sostenuta dai governi locali e dalle reti associative, diffuse nella società e sul territorio. Negli ultimi anni, tuttavia, la tela rossa della cultura politica e del voto si è smagliata in diversi punti. (Lo ripete da tempo Mario Caciagli.) Ai confini, in particolare. Nelle province emiliane del Nord, dove è penetrata la Lega. Fra il 2006 e il 2010, in particolare. E poi, di nuovo, nel 2014. La Lega, d'altronde, è un partito ideologico, simile al vecchio Pci. E procede per prossimità territoriale. Nello spazio padano (Piacenza, Parma, Modena e Ferrara, soprattutto). Ma la tela rossa si è lacerata anche nelle città. A Bologna, dove Grillo ha organizzato il primo V-Day. E, ancor più, a Parma, nel 2012, quando è stato eletto sindaco Pizzarotti. Il M5s ha messo "in rete" comitati e movimenti locali di rivendicazione su temi specifici. Ma si è affermato, soprattutto, canalizzando l'insoddisfazione politica, nei confronti dei partiti dominanti. In Emilia Romagna: la stanchezza verso le amministrazioni e il sistema di governo locale. Ha, dunque, enfatizzato l'usura del modello emiliano, sottolineata, di recente, dalle dimissioni del governatore Vasco Errani, in seguito a una lunga serie di scandali che hanno coinvolto la giunta e i consiglieri.

Il M5s non ha una geografia politica. Alle elezioni del 2013 si è, infatti, diffuso in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale. Dalla Calabria all'Emilia Romagna. Questa in-differenza geo-politica, peraltro, costituisce una seria minaccia per il "modello emiliano". Erede di una tradizione che afferma la politica "nel" territorio. Mentre il M5s pratica una politica "senza" il territorio. Un progetto annunciato da Berlusconi e riproposto, oggi, da Matteo Renzi. Il quale ha de-ideologizzato e personalizzato il Pd. L'ha trasformato nel Pdr. Il Partito Democratico di Renzi. Alternativo alla "ditta" di Bersani. Che è emiliano, di Bettola. Alle europee del 2014, il Pdr, sfidato dal M5s, ne ha riprodotto l'impianto a-territoriale. Ha vinto ovunque. È divenuto Partito della Nazione. Senza confini. Specchio di una geografia elettorale senza "zone rosse". Ma neppure bianche né verdi. Per questo, le elezioni regionali che si svolgono oggi sono importanti. Perché riguardano due casi esemplari: del passato e, al tempo stesso, del futuro politico in Italia.

I sondaggi, per quel che contano, stimano il Centrosinistra in vantaggio non solo in Emilia Romagna (nettamente), ma anche in Calabria. Comunque vada, sarà interessante verificare l'esito e la geografia del voto. In queste due regioni tanto lontane, eppure avvicinate dalle trasformazioni degli ultimi anni. In particolare, mi pare utile interrogare la geografia elettorale, soprattutto nel "cuore rosso" d'Italia.
Per verificare:
a) la distribuzione territoriale, oltre che l'ampiezza, del voto a Stefano Bonaccini. Vincitore delle Primarie del Pd. Per capire, anzitutto, se, davvero, (come ha scritto Gianfranco Pasquino) "la via Emilia è al capolinea".
b) La penetrazione della Lega di Salvini. Proiettata "oltre" la Padania. Alla guida di tutto il Centrodestra. Meglio: della Destra.
c) La diffusione del M5s, che, alle Europee, ha mantenuto una presenza estesa e omogenea nel Paese. Ma non riesce più a sfondare, in ambito locale. Neppure nelle zone d'origine. Ed è sempre più diviso, scosso da tensioni ed espulsioni.
d) Ma, prima di tutto, occorrerà verificare la coerenza -  e l'ampiezza - del risultato del Pd rispetto alle Europee. Per capire se il Pd, erede del Partito della Sinistra, guidato da un candidato (neo)renziano, accetterà - o almeno sopporterà - il PdR. Il partito di Renzi. Colui che ha il merito e la colpa di aver spezzato il legame del Pd con il passato comunista. E, forse, anche con la (tradizione di) Sinistra. Ora che la "fede" (politica) si è perduta, infatti, è possibile che si perda anche l'abitudine. A votare per la Sinistra.
O, semplicemente, a votare. E si scelga il non-voto come voto. Come alternativa al Pdr.

© Riproduzione riservata 23 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/23/news/il_partito_del_premier_all_esame_del_voto_teme_l_usura_del_modello_emiliano-101203727/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Più fiducia nel governo Renzi e il Pd tengono.
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2014, 06:14:27 pm
Più fiducia nel governo Renzi e il Pd tengono. Boom della Lega di Salvini

Nella rilevazione Demos l’esecutivo guadagna 3 punti rispetto al mese scorso. Il premier quasi stabile al 50% dei consensi, solo il leader del Carroccio gli sta dietro. Continua il calo di Forza Italia, i 5Stelle al 19%

Di ILVO DIAMANTI
21 dicembre 2014
   
Mentre l’anno volge alla fine, il calo di popolarità del governo, osservato dopo l’estate, si arresta. Anzi, secondo il recente sondaggio dell’Atlante Politico di Demos, si assiste a una — per quanto limitata — inversione di tendenza. Anche la fiducia nei confronti del premier, Matteo Renzi, resiste. Mentre il consenso elettorale del PD cresce, seppur di poco. Malgrado tutto. Nonostante i problemi e le tensioni di questa fase. Scandita dalle proteste sindacali e operaie, dalle prospettive oscure dei mercati e del mercato del lavoro. Scossa, nelle ultime settimane, dallo scandalo di Mafia Capitale, ultimo, clamoroso, atto della storia di corruzione che inquina il rapporto fra politica e società in Italia. Ma vediamo più in dettaglio le principali indicazioni emerse dal sondaggio di Demos.



1. Il consenso verso il governo si attesta al 46%: 3 punti in più di un mese fa. Ma ne aveva persi 13, il mese precedente. Parallelamente, il gradimento di Renzi resta (quasi) stabile, rispetto al mese scorso: 50%. Siamo, dunque, lontani dai livelli conosciuti prima dell’estate, ma anche dello scorso ottobre. Tuttavia, si tratta di indici elevati. Senza paragone, rispetto agli altri leader politici e di partito. Soprattutto, però, il declino subìto negli ultimi mesi si è fermato. Contrariamente ai timori o agli auspici (secondo i casi) di molti — attori e osservatori politici.

2. Le stime elettorali, peraltro, registrano una lieve crescita del PD, che si attesta al 37%. Ciò significa: 4 punti al di sotto delle elezioni europee, ma, comunque, moltissimo. Anche senza fare riferimento al disastroso 25% ottenuto alle Politiche del 2013. Se guardiamo alla fiducia nei leader, infatti, dietro a Renzi, solo Matteo Salvini, leader della Lega, supera il 30%, fra gli elettori. Dietro di lui: Giorgia Meloni e Maurizio Landini. Leader di partiti più piccoli o senza partito. Mentre i leader dei partiti (o non partiti) più grandi, Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, sono in coda alla graduatoria. Poco sopra o sotto il 20%. Parallelamente, nelle stime di voto, la Lega di Salvini ha superato il 13% e ha, ormai, raggiunto Forza Italia. Mentre, alle loro spalle, la Sinistra, intorno a SEL, si avvicina al 7%.

3. Dunque, Renzi e il suo governo “tengono”. Nonostante la vicenda di Mafia Capitale abbia ulteriormente deteriorato il clima (anti) politico in Italia. E una larga maggioranza di italiani ritenga che la corruzione politica nel Paese, oggi, sia più diffusa rispetto agli anni di Tangentopoli. Così, Renzi non ne sembra personalmente e politicamente colpito. Perché si tratta di un male antico. E lui è, per (auto) definizione, giovane e nuovo. Peraltro, intorno al “suo” PD, non si vedono vere alternative. A Sinistra, certamente, esiste un malessere, intercettato non solo da SEL, ma anche dal dissenso interno al PD. Tuttavia, occupa uno spazio limitato. Inferiore al 10%.

4. Il dissenso della Sinistra, semmai, ha rafforzato l’appeal del Premier al Centro e, soprattutto, a Destra. Non per caso, il gradimento di Renzi è cresciuto fra gli elettori di Forza Italia. E fra gli indecisi. Gli spaesati, che si attaccano all’unico chiodo rimasto. Alla destra dello schieramento politico, d’altronde, c’è grande instabilità. Al calo (ma ormai potremmo parlare di crollo) di FI corrisponde l’avanzata di Salvini e della “sua” Lega. Tanto più ora, che si è lanciato alla conquista del Centro-Sud, con una nuova sigla: “Noi con Salvini” (NcS). Uno spin-off della Lega, trasformata in “partito personale”. Per proseguire l’espansione territoriale, avviata alle europee di giugno ed espressa, clamorosamente, alle Regionali in Emilia-Romagna. D’altra parte, se osserviamo i dati dell’Atlante Politico di Demos, l’ambizione di Salvini sembra giustificata. La fiducia “personale” nei suoi confronti è, infatti, cresciuta dovunque, ma, soprattutto, nelle regioni (rosse) del Centro (allargato all’Emilia-Romagna), dove raggiunge il 42%. Più che nelle stesse regioni del Nord. Mentre nel Centro-Sud si avvicina al 30%. Un profilo analogo a quello del voto. Visto che nelle Regioni (rosse) del Centro NcS (20%) appare più forte perfino che nella Patria Padana (19%). E nel Centro-Sud raggiunge, comunque, il 7%. In altri termini: più di quanto ottenuto in ambito nazionale alle Europee. Oggi NcS è, dunque, la “Ligue Nationale”, affine e alleata al Front National di Marine Le Pen. Oggi primo partito, in Francia. Interprete, al pari di NcS, del sentimento antieuropeo e della paura dello straniero, come risposte all’insicurezza sociale — e globale. Tuttavia, il partito di Salvini, nel breve periodo, non appare un’alternativa. Mentre i partiti di Centro e la stessa FI sembrano una protesi del PD (R).

5. Resta il M5S. Attestato oltre il 19%. Secondo partito, in Italia. Nonostante le defezioni e le polemiche ripetute che lo scuotono. Al centro e alla periferia. Nonostante sia l’unico partito non coinvolto nelle diverse Tangentopoli, romane e regionali. Nonostante che il portavoce, Beppe Grillo, risulti ultimo, nella graduatoria dei leader, in base alla fiducia. Ma ciò conferma la natura del consenso verso il M5S. Che non ha base “personale” e dipende solo in parte dai contenuti specifici dell’offerta politica. Ma riflette, piuttosto, il malessere nei confronti della democrazia rappresentativa che si respira in Italia. Un non-partito che intercetta il non-consenso verso la non-politica. Così Renzi, insieme al “suo” governo e al “suo” PD (R), prosegue la “sua” marcia. Nonostante tutto. Perché, per ora, non si vedono alternative né alternativi. E per la sua capacità mimetica. Di sfidare e imitare tutti. Berlusconiano, grillino e salviniano, al tempo stesso. Il renzismo: biografia e fotografia dell’Italia post-berlusconiana. Al governo.

© Riproduzione riservata 21 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/21/news/pi_fiducia_nel_governo_renzi_e_il_pd_tengono_boom_della_lega_di_salvini-103414068/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La strategia del noncentrismo
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 04:05:02 pm
La strategia del noncentrismo

Di ILVO DIAMANTI

ORMAI, quando scorro i dati dei sondaggi che conduco, prima ancora di analizzarli e di commentarli, mi deprimo. E fatico a leggere, tanto più a ri-leggere, le Mappe e gli Atlanti che, ormai da tanti anni, scrivo. Perché mi risulta difficile -  e un po' inquietante - ripercorrere i sentieri contorti della sfiducia degli italiani verso tutto quel che si muove intorno a loro. Soprattutto se ha un marchio "pubblico". E "politico".

Si pensi all'indagine 2014 sul Rapporto fra gli Italiani e lo Stato, pubblicata nei giorni scorsi sulla Repubblica. Dalla quale emerge come non nulla e nessuno, ormai, venga risparmiato dal ri-sentimento dei cittadini. Parlamento e parlamentari, sindaci e Comuni, governatori e Regioni, sindacati e sindacalisti, banche, banchieri e bancari. Per non parlare dei partiti e dei politici. Perfino il Presidente della Repubblica: un faro in mezzo alla nebbia, oggi è contaminato dal fastidio verso tutto quel che si aggira intorno e dentro ai palazzi del governo e della politica. Si salva solo Papa Francesco. Per ora.  Forse perché il suo stile "francescano" e le sue parole di condanna contro ogni eccesso e ogni abuso, rivolte ai soggetti, ai luoghi, alle pratiche del potere, anche in ambito ecclesiale, lo fanno apparire, a sua volta, un poco anti-politico. E forse neppure "un poco".

Per questo, di indagine in indagine, di sondaggio in sondaggio, tendo a intristire. E sono indotto a non rileggere i miei testi. (Preferisco delegare il compito a colleghi -  e familiari.) Figurarsi quali (ri)sentimenti possano provare gli altri. Di fronte a quel che scrivo. Alle indagini che realizzo e pubblico. Se ancora le leggono e le scorrono, forse, è per il sottile piacere di navigare in questo mare di sfiducia e delusione, lontani da ogni approdo, da ogni porto sicuro. Immaginando, tuttavia, che si tratti di uno spettacolo. Di cui noi siamo spettatori e non attori direttamente coinvolti.

Considerata così, la rappresentazione degli atteggiamenti sociali fornita dai sondaggi - se ne prendiamo per buoni i risultati, al di là di ogni obiezione metodologica - evoca un altro mondo. O meglio: un mondo "altro". Rispetto al quale ci è possibile rivendicare -  se necessario - la nostra estraneità. Quasi che quel mondo non fosse il nostro. Che noi non ne fossimo parte. D'altra parte, in nessun sondaggio le risposte fornite dal campione -  definito, perlopiù, come il riassunto degli "italiani", senza altre specificazioni -  risultano unanimi. Tutte quante dello stesso segno. C'è sempre una quota di intervistati - ampia, piccola o minima - che si sottrae alle tendenze espresse dalla "maggioranza", per quanto larga. E c'è sempre una quota - per quanto piccola, per quanto minima - che non risponde oppure non sa.

Così, alla fine, la rappresentazione della società, offerta dai sondaggi che conduco e commento, per quanto pessimista e negativa, rischia di apparire perfino rassicurante. Perché riguarda "gli altri". Mentre io, personalmente, mi tiro fuori. Sono "minoranza". Una "non risposta". Non c'entro. E posso, per questo, con questo spirito, tornare a leggermi. A scorrere e valutare i dati delle mie indagini. I miei commenti.  Spiacente e spiaciuto. Per gli altri. Cioè, per voi. Per il vostro malessere incarognito. Per la vostra sfiducia e la vostra delusione patologica. Fingendo di esserne immune. Mentre voi potete difendervi e reagire allo stesso modo. Adottando la stessa strategia di auto-difesa. Rifugiandovi nelle "non risposte". Nel "noncentrismo". In fondo, è una metafora (in)felice dell'Italia d'oggi. Il Paese di quelli che non c'entrano.

(31 dicembre 2014) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/12/31/news/la_strategia_del_noncentrismo-104052203/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Papa unica speranza
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 04:06:54 pm
Partiti, istituzioni, Europa: la fiducia va a picco, cittadini sempre più soli. Il Papa unica speranza
Dall'indagine Demos 2014 emerge una nazione spaesata sfiancata da crisi, fisco e corruzione.
Il quadro già negativo del 2013 peggiora ancora. Anche la magistratura in calo

di ILVO DIAMANTI
28 dicembre 2014
   
UN PAESE spaesato. Senza riferimenti. Frustrato dai problemi economici, dall'inefficienza e dalla corruzione politica. Affaticato. E senza troppe illusioni nel futuro. È l'Italia disegnata dalla XVII indagine su "Gli Italiani e lo Stato", condotta da Demos (per Repubblica). Pare una replica del Rapporto 2013. Se possibile: peggiorata. Tuttavia, c'è una novità: il senso di solitudine. Perché oggi, molto più che nel passato, anche recente, i cittadini si sentono "soli". Di fronte allo Stato, alle istituzioni, alla politica. Ma anche nel lavoro. E nella stessa comunità.

LE TABELLE

1. Soli di fronte allo Stato. Valutato con fiducia dal 15% dei cittadini. Metà, rispetto al 2010, 4 punti meno di un anno fa. Un livello basso, ma non molto diverso, ormai, rispetto agli altri governi territoriali. Perché meno del 20% dei cittadini si fida delle Regioni e meno del 30% dei Comuni. Insomma siamo un Paese senza Stato, secondo le tradizioni. Ma abbiamo perduto anche il territorio. Mentre l'Europa appare sempre più lontana, visto che poco più di un italiano su quattro crede nella UE.

2. D'altra parte, gli italiani si sentono sempre più lontani dalla politica. E, in primo luogo, dai partiti. Ormai non li stima davvero nessuno. Per la precisione, il 3%. Cioè, una quota pari al margine d'errore statistico. Poco meno del Parlamento, comunque (7%). Una conferma del clima di sfiducia che mette apertamente in discussione la "democrazia rappresentativa". Interpretata, in primo luogo, proprio dai partiti, insieme al Parlamento.

3. Al di là dell'ampiezza, colpisce la "velocità" con cui sta crescendo la sfiducia verso i soggetti politici e le istituzioni di rappresentanza democratica. Rispetto al 2010, infatti, la credibilità dello Stato, dei partiti e del Parlamento è dimezzata. Mentre la fiducia nei Comuni e nelle Regioni è calata di oltre 10 punti percentuali. La perdita di riferimenti territoriali ha investito anche l'Unione Europea. Vista con favore dal 27% degli italiani: 22 punti meno del 2010. E 5 punti meno dell'anno scorso.

4. La stessa figura del Presidente della Repubblica appare coinvolta da questo clima di spaesamento. Giorgio Napolitano, "costretto" a subentrare a se stesso, per non creare pericolosi vuoti di potere, ha pagato le tensioni politiche e istituzionali. Anche per questo la fiducia nel Presidente, è scesa dal 71 al 44%, dal 2010 ad oggi. E di 5 punti rispetto all'anno scorso. D'altronde, tutti i livelli e i soggetti di "governo" hanno perduto consenso in misura significativa rispetto allo scorso anno: partiti, Parlamento, Comuni, Regioni. Lo Stato.

5. E ciò suggerisce, come si è già detto, che sia in discussione la credibilità stessa della democrazia rappresentativa. Sfidata apertamente da alcuni soggetti politici, come il M5s, che le oppongono la democrazia "diretta". Solo il 46% degli italiani ritiene, peraltro, che "senza partiti non ci possa essere democrazia". Mentre il 50% pensa il contrario (nel 2010 era il 42%). Certo, i due terzi dei cittadini credono che la democrazia sia ancora la peggior forma di governo, ad esclusione di tutte le altre (come sosteneva Churchill). Ma la scommessa democratica, nel 2008, era sostenuta da una quota di cittadini molto più ampia: il 72%.

6. Insomma, fra gli italiani si è diffusa una certa "stanchezza democratica". Anche perché la nostra democrazia, il nostro Stato, si dimostrano sempre più inefficienti. Non per caso, è cresciuta l'insoddisfazione verso i servizi pubblici. E l'insofferenza verso il sistema fiscale appare, ormai, senza limiti. Come il ri-sentimento verso la corruzione politica. Vizi nazionali, di "lunga durata", che circa 7 italiani su 10 considerano ulteriormente in crescita.

7. Tuttavia, la sfiducia nel governo centrale e locale, la degenerazione della politica e dell'azione dei partiti, manifestata dagli scandali per corruzione non hanno rafforzato la credibilità della Magistratura. Che, fra i cittadini, ha subìto un pesante calo di fiducia. Dal 50%, nel 2010, al 33% oggi. Quasi 17 punti in meno, in quattro anni. E 7 nell'ultimo.

8. Così si spiega lo sguardo scettico verso l'immediato futuro. Per la maggioranza (relativa: 40%) degli italiani, infatti, l'anno che verrà non sarà né migliore né peggiore dell'anno appena finito. Semplicemente: uguale. Cioè, senza istituzioni, senza governo. Senza sicurezza, visto che perfino la fiducia nelle Forze dell’ordine -  apprezzate, comunque, da due italiani su tre - è scesa di 7 punti, rispetto al 2010, 3 dei quali perduti nell'ultimo anno. D'altronde, anche gli indici di partecipazione politica e sociale sono in declino. Mentre la fiducia nelle organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori e, ancor più, dei sindacati, è calata sensibilmente. E quasi 6 persone su 10 diffidano degli "altri", in generale.

9. In pochi anni, dunque, abbiamo perduto i principali riferimenti della vita pubblica e sociale. E abbiamo impoverito quel capitale di partecipazione e di fiducia necessario alla società, alle istituzioni e alla stessa economia per funzionare, non solo per svilupparsi. Anzi, se proprio vogliamo essere precisi, c'è una sola figura che oggi disponga di grande credito. Papa Francesco. Lo apprezzano 9 italiani su 10. Quasi tutti, insomma. Tuttavia, il Papa è un'autorità "religiosa", a capo di un "altro" Stato. La sua grandissima popolarità (che, peraltro, è "personalizzata" e non si estende alla Chiesa) potrebbe suggerire che, ormai, non c'è speranza. E non ci resta che affidarci alla provvidenza divina...

10. Al di là delle battute, l'indagine di Demos sottolinea un rischio concreto. L'assuefazione alla sfiducia. Nelle istituzioni, negli altri, nel futuro. E, anzitutto, in noi stessi. Spinti, per inerzia, a "dare per scontato" che le cose non possano cambiare. Senza interventi "dall'alto". Così, "l'incertezza" rischia di apparire una condanna. Mentre è il "segno" del nostro tempo. "Incerto", ma non "segnato", pre-destinato. L'incertezza: significa che nulla è (ancora) scritto. Che l'anno che verrà non è ancora (av)venuto. Dipende anche da noi "segnarne" il percorso.

© Riproduzione riservata 28 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/28/news/partiti_istituzioni_europa_la_fiducia_va_a_picco_cittadini_sempre_pi_soli_il_papa_unica_speranza-103904923/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_29-12-2014


Titolo: ILVO DIAMANTI - Se torna in campo un leader usurato
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2015, 04:59:17 pm
Se torna in campo un leader usurato

di ILVO DIAMANTI
05 gennaio 2015

MA BERLUSCONI può ancora determinare gli equilibri politici in Italia? Guidare il Centrodestra e, in caso di elezioni, trascinarlo alla vittoria? O, quantomeno, imporlo, come protagonista, nella prossima stagione politica? La questione è tornata attuale dopo la possibile "depenalizzazione" del reato per cui Berlusconi è stato condannato. Un'ipotesi che, se si realizzasse, gli permetterebbe di scendere nuovamente in campo. Il premier Renzi ha, peraltro, annunciato che la norma, contenuta nella riforma sul fisco approvata dal Consiglio dei ministri, verrà cambiata. Tuttavia, il clamore sollevato dalla vicenda ha ribadito quanto Berlusconi conti ancora, sulla scena italiana. Nonostante ne sia, formalmente, escluso. Per ragioni giudiziarie. Ma non politiche. Per questo vale la pena di interrogarsi, di nuovo, circa il suo valore sul "mercato politico".

Sul piano nazionale, anzitutto. Dove Forza Italia ha perduto molti consensi, negli ultimi anni. Già alle elezioni politiche del 2013 il PdL si era fermato al 21,6% dei voti validi. Circa 16 punti meno delle precedenti elezioni. In termini assoluti: un calo di 6.300.000 elettori. Ridotto a quasi la metà, rispetto al 2008. Se, nonostante tutto, era uscito da quel voto quasi da vincitore, è per "merito" del Pd. Calato, a sua volta, al 25%. Circa 8 punti in meno rispetto al 2008. Alle politiche del 2013, tuttavia, Fi costituiva quasi i tre quarti della coalizione di Centrodestra e pesava 5 volte più della Lega Nord (ridotta al 4%).

Oggi il quadro è molto diverso. Alle Europee, Fi è scivolata sotto il 17%. La Lega, invece, è risalita, oltre il 6%. I Fratelli d'Italia hanno ottenuto il 3,7%. Anche senza contare l'Ncd di Alfano, che si è alleato con l'UdC, il Partito Personale di Berlusconi ha, dunque, ridotto il suo peso elettorale nella (ipotetica) coalizione. Tanto più, e soprattutto, se si tiene conto dell'evoluzione degli ultimi mesi, segnalata dai sondaggi. In particolare, l'ultimo Atlante Politico di Demos (dicembre 2014) stima Fi sotto il 14%. Pochi decimali sopra la Lega, che avrebbe superato il 13%. Ciò sottolinea come i rapporti di forza, nel Centro-destra, siano, profondamente, mutati. Perché la Lega, ormai, compete con Fi alla pari. Questione di leadership, oltre che di partito. In quanto Matteo Salvini, divenuto segretario alla fine del 2013, ha trasformato la Lega Nord nella Lega Nazionale, alleata, (anti) europea del Front National di Marine Le Pen. Per allargare la presenza nel Sud, l'ha, inoltre, personalizzata, inaugurando una Lista che ha il suo nome. E il suo volto.

Così, oggi, a Destra, la leadership di Berlusconi non è più indiscussa e indiscutibile. Mentre, nell'ultimo anno, ha perduto il controllo sugli elettori di Centro. E sui "governativi" del Centrodestra. Ncd e UdC, oltre a Scelta Civica: risucchiati dal Pd di Matteo Renzi. Il PDR. Il quale ha ottenuto quasi il 41% alle Europee. E attualmente, nonostante il declino degli ultimi mesi, è, comunque, attestato intorno al 37%. Renzi, d'altronde, ha, indubbiamente, garantito "cittadinanza politica" a Berlusconi, nonostante la condanna e l'ineleggibilità. Ne ha fatto un interlocutore essenziale nel dibattito e nella progettazione intorno alle riforme istituzionali ed elettorali. Sollevando molte critiche (non solo) a sinistra. Tuttavia, al di là dei giudizi "politici", in questo modo ha eroso, anzitutto, la base elettorale di Fi. Attratta, anch'essa, dal PDR. Così Fi si è ritrovata "sola". Sfidata al Centro dal PDR. E a Destra dalla Lega di Salvini. La quale, come si è detto, ha subìto una mutazione profonda. La sua identità padana si è sbiadita. Mentre ha accentuato quella di Nuova Destra. Sulle tracce del Fn di Marine Le Pen. Che, anche in Francia, ha sottratto spazio alla Destra Repubblicana, neo e post-gollista. Fino a superarla largamente, alle elezioni europee. Mentre i sondaggi prevedono un'affermazione significativa del Fn anche alle prossime départementales di marzo.

Per queste ragioni pare difficile che il ritorno di Silvio Berlusconi alla politica attiva possa modificare sostanzialmente lo scenario, in Italia. Oggi, infatti, Berlusconi appare costretto a un ruolo "gregario". A) Sul piano generale: perché la sua possibilità di partecipare ai processi politici e di riforma del Paese  -  e di tutelare anche i "propri" interessi  -  dipende dal dialogo con Renzi. B) Nello schieramento politico che ha "creato". In parte, risucchiato dal PDR. In parte, perché lo spazio di destra è sempre più occupato dalla Lega di Salvini. C) Mentre gli risulta difficile cercare spazi nuovi. Elaborare proposte nuove. E credibili. Anche perché Berlusconi, da sempre, ha "personalizzato" l'offerta politica. Ma oggi la sua immagine è invecchiata. Usurata. Come emerge dal riconoscimento politico "personale". Secondo il recente Atlante Politico di Demos (dicembre 2014), infatti, la fiducia nei confronti di Berlusconi è al 22%. Molto meno di metà rispetto a Renzi (50%). E nettamente al di sotto di Salvini (35% circa). Ma anche della Meloni (29%). Un po' meno perfino di Alfano.

Naturalmente, vent'anni caratterizzati da Berlusconi hanno influenzato profondamente i modelli di azione e di organizzazione politica. Ma anche gli stili di vita e i valori degli italiani. Hanno, cioè, "berlusconizzato" politica e società, contribuendo ad accentuare il (tradizionale) distacco dalle istituzioni e ad affermare il senso "cinico" al posto di quello "civico". Una tendenza sottolineata dall'indagine sul rapporto fra "Gli italiani e lo Stato", pubblicata su Repubblica la settimana scorsa.

Anche per questo l'opposizione, in Italia, ha assunto un segno prevalentemente anti-politico. Interpretata dal M5s. E, in parte, dalla Lega Nazionale di Salvini. La Nuova Destra, che intercetta, inoltre, l'ostilità verso l'Unione Europea e verso lo straniero. Le paure generate dai "rischi" prodotti dalla globalizzazione (a cui ha dedicato la sua riflessione Ulrich Beck).

È l'eredità di Berlusconi, che, contrariamente ai propositi, ha inibito la formazione di una Destra liberaldemocratica. Lasciandoci un Paese dove il PDR di Renzi, oggi, governa senza una vera alternativa.
© Riproduzione riservata 05 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/05/news/se_torna_in_campo_un_leader_usurato-104310876/?ref=HREC1-5


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il buon esempio e la paura
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2015, 05:03:11 pm
Il buon esempio e la paura

Di ILVO DIAMANTI
12 gennaio 2015
   
I SANGUINOSI attentati di Parigi hanno, certamente, una matrice religiosa, prima che politica, come ha argomentato ieri Eugenio Scalfari. Ma sono destinati a produrre - e, anzi, hanno già prodotto - conseguenze politiche molto serie. In Francia, in Italia. E in Europa. Ben al di là delle intenzioni dei terroristi. Gli autori dell'eccidio ai danni della redazione di Charlie Hebdo intendevano, infatti, punire l'offesa contro il Profeta e i simboli dell'Islam. In modo estremo, secondo la loro interpretazione estrema ed estremista del Corano. In questo modo, però, perseguivano - ed eseguivano con ferocia - anche una finalità "politica". Intimidire la patria delle libertà: culturali, di espressione, religiose. Al tempo stesso, intendevano - intendono - radicalizzare l'Islam - in Francia e in Europa - intorno a un solo nucleo. A una sola interpretazione. Jihadista. Anche se l'Islam è un fenomeno complesso, come ogni religione. Lo ha rammentato ieri Corrado Augias. L'eccidio di Parigi, però, rischia di produrre anche altri esiti. Diversi, ma non meno pericolosi. Non solo per i francesi, ma per noi tutti.

In particolare, l'attacco degli jihadisti (francesi) che ha insanguinato Parigi ha, senza dubbio, colpito al cuore anche l'Unione europea. Mettendone in luce l'estrema debolezza e "lateralità" rispetto alle scelte e alle questioni che riguardano la vita - e la morte - delle persone. La sfida terrorista dell'Islam radicale, infatti, è stata affrontata, a Parigi, dai servizi e dalle forze dell'ordine "nazionali". Non da un sistema di difesa e di sicurezza "europeo". Che non esiste. Come non esiste un esercito. Né una politica estera comune e condivisa. Non per caso, in nome della difesa e della sicurezza contro la minaccia terrorista, in questi giorni, sono state messe in discussione le regole sulla libera circolazione dei cittadini fra i paesi europei previste dal trattato di Schengen. Un'ipotesi "rivendicata", per primo, da Roberto Maroni. Importante leader della Lega, ma, anzitutto, governatore della Lombardia. Una Regione aperta - e influente - sull'Europa. La stessa preoccupazione, d'altra parte, ha trovato altri sostenitori autorevoli, nei governi della Ue. In particolare, da parte di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea.

D'altronde, la "politica", nei sistemi democratici, avviene attraverso la competizione per il potere e l'esercizio del governo, fondati sul consenso dei cittadini. Che è regolato dal voto e condizionato dall'opinione pubblica. E ha base saldamente "nazionale". Per questo, risulta chiaro che il sanguinoso attacco a Charlie Hebdo avrà una forte influenza sulla fiducia - e sfiducia - degli elettori nei confronti delle forze "politiche" e delle istituzioni. Nazionali. E contribuirà a (ri)orientare la politica nei diversi sistemi politici. Nazionali. Tanto più per il violento impatto prodotto sul piano "mediale" - previsto e premeditato dai militanti jihadisti.

In particolare, è prevedibile che questa vicenda contribuisca ad allargare i consensi delle forze politiche che agitano la paura degli stranieri e, insieme, l'islamofobia. Anzitutto, le Front National. Che, alle Europee, ha ottenuto oltre il 25% dei voti. Primo partito, in Francia. In Italia, la Lega di Salvini, anch'essa in grande crescita. Ormai vicina a Forza Italia, secondo i sondaggi condotti prima delle festività. Ma oggi, presumibilmente, anche oltre. Salvini, non a caso, è intervenuto immediatamente. In modo esplicito e aggressivo. Ha echeggiato Jean-Marie Le Pen, ancor più della figlia Marine.

D'altronde, dovunque, in Europa, la presenza dei musulmani, nella popolazione, è largamente sovrastimata (indagine Ipsos MORI). Non è, dunque, un caso che tanto il Fn quanto la Lega - "nazionalizzata" e personalizzata da Salvini - siano apertamente anti-europei. Perché i due sentimenti risultano strettamente connessi e reciprocamente intrecciati, non solo nelle strategie di questi (e altri) soggetti politici, ma anche negli orientamenti sociali. Non a caso, in Italia, fra coloro che percepiscono l'immigrazione come una minaccia, la sfiducia nella Ue cresce fin quasi all'80%. Cioè, oltre il doppio rispetto alla popolazione. Si tenga conto che si tratta di stime calcolate in base a sondaggi (di Demos) condotti oltre un mese fa. Quando la "paura degli immigrati" coinvolgeva circa un terzo degli elettori. Un dato, probabilmente, accentuato dagli avvenimenti recenti.

Anti-europeismo e xenofobia (letteralmente: paura dello straniero) appartengono, d'altronde, alla medesima sindrome. Lo spaesamento. Riflette la perdita di riferimenti generata dalla mondializzazione. Dalla progressiva scomparsa dei confini che, comunque, offrono de-finizione, identità, riconoscimento. Una sindrome che si riflette nel crollo della fiducia in tutte le istituzioni pubbliche e nelle principali organizzazioni sociali, rilevato dall'Indagine 2014 sul "Rapporto fra i cittadini e lo Stato".

Per questo, al di là - e oltre - le intenzioni degli autori, è probabile che la sanguinosa aggressione di Parigi crei uno spazio favorevole ai soggetti e ai sentimenti anti-europei. Anche perché l'Europa, tanto attenta e sollecita a vigilare sui parametri economici e di spesa, appare altrettanto distratta e svagata di fronte alle questioni che riguardano la vita e la sicurezza delle persone. E, mentre vigila sulla moneta e sul mercato comune, si disinteressa della costruzione di una "difesa" comune. All'esterno e all'interno. Così, la Ue continua ad apparire una moneta e un mercato senza Stato. Incapace, anche per questo, di neutralizzare - ma anche di affrontare - la sfida del fondamentalismo islamico, che cresce al suo interno. Certo, ieri due milioni di persone e 50 capi di Stato e di governo, di tutto il mondo, hanno marciato a Parigi. In nome della libertà di espressione. Della convivenza fra idee e religioni diverse. Anche questo è un effetto, non previsto, del massacro compiuto dagli jihadisti. Segno di una coscienza collettiva. Che per risvegliarsi, però, ha bisogno di tragedie come questa. Certo, la grande manifestazione di ieri ha offerto un "buon esempio" dell'Europa che vorremmo. Non di quella che conosciamo. Perché marciare e morire per un Euro: non ha "senso".

© Riproduzione riservata 12 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/12/news/mappe_12_gennaio-104765850/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Napolitano, riferimento di un Paese diviso
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:21:36 am
Napolitano, riferimento di un Paese diviso

Di ILVO DIAMANTI
19 gennaio 2015

QUESTA VOLTA Giorgio Napolitano ha davvero concluso il suo mandato presidenziale. Dopo circa nove anni. Quasi due, da quando, nell'aprile 2013, accettò la ri-elezione. Per soccorrere un Parlamento dove ogni soluzione proposta era, puntualmente, naufragata. Fino alla candidatura di Romano Prodi, affondata dagli stessi parlamentari del Pd. Napolitano, allora, accettò per spirito di servizio. Per agevolare il corso delle riforme necessarie a rendere governabile lo Stato. Quasi due anni dopo, le riforme attese sono ancora in corso d'opera. Ma Napolitano si ferma.

D'altronde, ormai, è giunto alla soglia dei novant'anni. E gli ultimi due l'hanno invecchiato assai più dei precedenti. Egli, d'altronde, era succeduto a Carlo Azeglio Ciampi. Il quale aveva rafforzato la credibilità dell'istituto presidenziale, dopo la crisi degli anni Novanta. Napolitano era riuscito ad affermare in fretta la propria immagine. In particolare, dopo il ritorno di Silvio Berlusconi al governo, nel maggio 2008, in seguito al successo elettorale del centrodestra. Da allora, fino al passaggio fra il 2011 e il 2012, ha mantenuto un elevato grado di consenso.

Già alla fine del 2008, d'altronde, oltre il 70 per cento dei cittadini esprime (molta o moltissima) fiducia nei confronti del Presidente (dati e tabelle). Un consenso trasversale anche sotto il profilo politico. Infatti, supera l'80 per cento fra gli elettori del Pd, ma è vicino al 70 per cento anche fra quelli del Pdl. Perfino nella base elettorale della Lega la fiducia nei suoi riguardi è prossima al 60 per cento.

Ciò avviene, soprattutto, per due ragioni: A) la capacità di Napolitano di "bilanciare" la leadership politica di Berlusconi e B) al tempo stesso di garantire rappresentanza a un governo debole e poco credibile, sul piano europeo ma anche interno. Sempre sull'orlo della crisi. Più che un "arbitro", come si tende spesso a sostenere, Napolitano appare, dunque, un "garante". E un "contrappeso democratico". Così, diventa il principale riferimento unitario di un Paese diviso. E rafforza definitivamente questo ruolo in occasione dalle celebrazioni del 150enario dell'Unità nazionale, nel corso del 2011. Non per caso, durante l'anno, raggiunge e talora supera l'80 per cento dei consensi.

Tuttavia, verso la fine del 2011, il clima d'opinione nei confronti del Presidente comincia a cambiare. Soprattutto, a partire da novembre, quando Berlusconi si dimette e gli subentra Monti, alla guida di un governo tecnico di larghe intese. Definito "governo del Presidente". Sottinteso: della Repubblica. Da qui il successivo andamento ondivago del consenso nei suoi confronti. Fino alla conclusione del primo mandato, dopo le elezioni del febbraio 2013. Perché Napolitano è percepito, sempre più, come un attore politico "protagonista". A maggior ragione dopo la ri-elezione, avvenuta nell'aprile 2013. Perché, da allora, si aprono antiche e nuove divisioni, che ne indeboliscono il consenso. In primo luogo, egli perde il sostegno del centrodestra, dopo l'inibizione di Berlusconi dai pubblici uffici e dunque dal Parlamento. E dopo l'uscita di Forza Italia dalla maggioranza.

Così, dopo la fine (forzata) del governo Letta, anch'esso ispirato dal Presidente, il consenso per Napolitano scende. Si attesta intorno al 50 per cento. Quindi scende ulteriormente. Nonostante l'arrivo al governo di Matteo Renzi. Che restituisce il primato "politico", al presidente "del Consiglio". Il Presidente della Repubblica, però, è "stressato" dall'altra, grande, divisione, che attraversa il Paese, in questa fase. La "frattura antipolitica", interpretata da Grillo e dal Movimento 5 stelle. Che alimenta il distacco fra cittadini e istituzioni (sottolineato dalla recente indagine di Demos su "Gli italiani e lo Stato").

Così, alla fine del 2014, la fiducia nei confronti del Presidente si è ridotta al 44 per cento. Che costituisce, comunque, il livello più elevato fra le istituzioni. Circa dieci punti più dei magistrati, ma trenta più dello Stato e 37 più del Parlamento. Mentre la fiducia nei partiti è prossima allo zero. A sua volta, però, il consenso verso Napolitano è sceso di oltre trenta punti rispetto al 2011. È maggioritario solo fra gli elettori di centrosinistra e (seppure di poco) di centro. Mentre è molto basso fra gli elettori di centrodestra e, ancor più, del M5S.

Il Presidente interpretato da Napolitano, dunque, non appare più un riferimento unitario. Ma un soggetto politico e istituzionale. Un testimone della "democrazia rappresentativa". In tempi nei quali si respira un'aria di antipolitica, ostile alle istituzioni, ma anche alla democrazia rappresentativa. Per questo, la stanchezza di Napolitano è comprensibile. Ma non penso che andrà in pensione. Per molti anni ha recitato la parte dell'attore politico, più che del garante. Continuerà a farlo. Finché avrà energie.


© Riproduzione riservata 19 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/19/news/nove_anni_di_presidenza-105248065/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Renzi, fiducia sotto il 50%.
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2015, 05:39:36 pm
Renzi, fiducia sotto il 50%. Berlusconi riprende fiato. Il Pd resiste a quota 36
Il premier resta nettamente il più affidabile tra i leader. Il sondaggio Demos registra però una crisi del suo feeling con l'opinione pubblica. La Lega non incassa l'effetto-Parigi. Grillo a un passo da quota 20

25 gennaio 2015

Di ILVO DIAMANTI

VIVIAMO tempi tragici, segnati dal sanguinoso assalto a Charlie Hebdo, due settimane fa. Mentre in Italia ci attendono scelte meno drammatiche ma, comunque, determinanti per il nostro futuro. Anzitutto, l'elezione del Presidente della Repubblica e l'approvazione della nuova legge elettorale. Eppure il clima d'opinione, rilevato dal sondaggio di Demos per l'Atlante Politico, non fa emergere eccessivi turbamenti. Semmai, alcuni cambiamenti, non del tutto prevedibili. E solo in parte coerenti con la fase recente.

LE TABELLE ---

Il Pd, nelle stime di voto, pur perdendo qualcosa rispetto a un mese fa, resta sopra il 36%. Tutti gli altri seguono a grande distanza. Per primo, il M5s. Nonostante le tensioni e le divisioni interne, è risalito, di poco. E sfiora il 20%. Ma le maggiori novità si osservano nel centro-destra. Forza Italia, dopo il declino degli ultimi mesi, è risalita di oltre due punti. Ora è vicina al 16% (15,8%). Ma, soprattutto, lascia indietro la Lega di Salvini. Sembrava in corsia di sorpasso. Inarrestabile. E invece si ferma al 13%. Un po' meno di un mese fa. Tutte le altre forze (e aree politiche) stazionano, sulle posizioni precedenti. Ad eccezione di Sel e della Sinistra, che arretrano di oltre 2 punti. Attestandosi sul 4%.
Si tratta, ripeto, di tendenze in parte inattese.

Partiamo dalla Lega. L'ondata emotiva sollevata dall'eccidio di Parigi e dalle tensioni intorno ai flussi migratori non sembra averne alimentato i consensi. Almeno, fino ad oggi. Anche se, in effetti, nell'ultimo anno, sono aumentati i timori suscitati dagli sbarchi. E dalla presenza degli immigrati. Percepiti come una minaccia all'ordine pubblico (34%), all'identità religiosa (30%), ma soprattutto all'occupazione (36%). A conferma che le preoccupazioni maggiori, per i cittadini, vengono dalla crisi economica. Dalla disoccupazione. Mentre la "minaccia islamica", il terrorismo non sembrano spaventare troppo. Almeno per ora. Così, la Destra le- penista di Salvini lascia spazio alla Destra filogovernativa. Che oggi non si limita più al Ncd. Ma comprende, appunto, Forza Italia. Silvio Berlusconi. Che, nei giorni scorsi, al Senato, ha garantito i voti necessari alla riforma elettorale. Berlusconi, d'altronde, ha ripetuto, anche di recente, l'auspicio di poter guidare la corrente azzurra del Partito della Nazione. Traduzione politica dell'accordo stretto, giusto un anno fa, da Renzi e Berlusconi. Il Patto del Nazareno: PdN. La stessa sigla del "Partito della Nazione". Una prospettiva che sembra avere restituito fiato a Berlusconi e a Fi. Mentre sta sollevando qualche problema di consenso al governo e al premier. E qualche dubbio fra gli elettori del Pd.

Secondo l'Atlante Politico di Demos, infatti, il gradimento del governo sarebbe sceso al 42% e la fiducia nei confronti di Matteo Renzi al 46%. In entram- bi i casi, si tratterebbe di un calo di 4 punti in un mese. Ma di oltre 10, rispetto a settembre e di quasi 30% rispetto a giugno.  All'indomani della vittoria alle Europee. Il momento di massimo consenso per Renzi e il suo governo. I quali, evidentemente, soffrono le conseguenze della crisi.

Il Jobs Act, la principale riforma avviata per dare risposta ai problemi dell'occupazione e del mercato del lavoro, non ha ancora prodotto effetti visibili. Ma ha, invece, aperto divisioni profonde, nella società e nei rapporti con il sindacato. Così, dopo tante attese, questo è il tempo della delusione e del dissenso. Che appannano l'immagine di Renzi e del suo governo. E alimentano la base elettorale del M5s. Megafono e amplificatore del disagio. Politico e sociale.

Renzi, peraltro, appare incalzato dal dissenso che sale dalla sinistra del Pd. Dove il malessere verso il PdN e, soprattutto, verso il leader della corrente azzurra risulta ampio e visibile. Il gradimento di Berlusconi fra gli elettori del Pd è, infatti, limitato al 12%. Fra gli altri leader  -  per grado di "sfiducia"  -  lo supera solo Grillo. Semmai, è interessante osservare come lo stesso Nichi Vendola disponga, nella base democratica, di un consenso ridotto: 23%. Simile a quello di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Anche se il leader di Sel è tra i riferimenti del nuovo soggetto politi- co di sinistra a cui guardano i parlamentari e i militanti del Pd in polemica e dissenso con Renzi  -  e il suo PD (R).

Il sondaggio di Demos, però, suggerisce che, per ora, queste divisioni interne non abbiano indebolito il Pd. Che mantiene un livello di consensi molto elevato. Nettamente superiore agli altri partiti. Lo stesso Renzi, il segretario-premier, ha visto il proprio consenso personale indebolirsi sensibilmente, negli ultimi mesi. Ma resta ancora nettamente al di sopra di tutti gli altri leader. "Inseguito" (a distanza) solo da Salvini. Mentre, sul piano politico ed elettorale, l'opposizione al Pd è condotta, principalmente, dal M5s e dalla Ligue Nationale, di Salvini.

A sinistra, invece, l'attuale offerta politica non appare ancora in grado di attrarre  -  e allargare  -  il dissenso interno al Pd. Così, per quanto indeboliti, Renzi e il Pd (R) sembrano ancora senza alternativa. E senza opposizione. O meglio, sfidati da un'opposizione anti-europea e/o xenofoba (nel caso della Lega) che, per questo, difficilmente possono presentarsi come alternativa "di governo". In Italia e, ovviamente, in Europa. D'altro canto, Renzi guida una maggioranza a "geometria variabile". Che gli permette di surrogare le defezioni interne con il sostegno di altri soggetti politici, per ora, esterni al Pd. Come Berlusconi. Appunto.

Insomma, Renzi governa questo "Paese impreciso" (come lo ha definito Edmondo Berselli) sfruttando le altrui debolezze. Ma ciò rischia di indebolire anche lui. Perché gli offre un consenso senza fiducia, (s) fondato sulla sfiducia negli altri. D'altronde, è il segno del nostro tempo. Il tempo della sfiducia.

© Riproduzione riservata 25 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/25/news/renzi_fiducia_sotto_il_50_berlusconi_riprende_fiato_il_pd_resiste_a_quota_36-105710166/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Un premier liquido per tempi liquidi
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2015, 08:04:58 am
Un premier liquido per tempi liquidi

di ILVO DIAMANTI
02 febbraio 2015
   
SERGIO Mattarella e Matteo Renzi. I due Presidenti. Formano una strana coppia, tanto sono diversi e lontani. Anche se, fra i due, c'è un filo politico e culturale comune.

Mattarella è stato e resta un democristiano -  di sinistra. Uno di quelli che si definiscono -  e vengono definiti -  cattolici democratici. Renzi, invece, è post-democristiano. Interpreta un modello di (post) democrazia personalizzata e mediatizzata. Dove i partiti contano meno perché, in fondo, si sono liquefatti. Per questo l'elezione di Mattarella permette di precisare il tipo di leadership e di democrazia interpretati da Renzi. Leader dei tempi liquidi, al tempo della democrazia liquida. Secondo la nota formula di Zygmunt Bauman. Cioè: senza appigli stabili e senza riferimenti coerenti. In continua evoluzione e ri-definizione. Renzi ne ha fatto un ambiente amico. Dove agisce e decide, perlopiù, da solo.

Il confronto con la precedente elezione presidenziale, nell'aprile 2013, risulta, al proposito, esemplare. Allora, le elezioni politiche avevano fatto emergere un Parlamento diviso in tre grandi minoranze politiche. In-comunicanti e divise anche al loro interno. Pd, Pdl e M5s. L'elezione del Presidente ne ha fornito una prova decisiva. Ha, infatti, dimostrato che si era alla fine di una stagione in-finita. Il Berlusconismo. Una storia chiusa, ancora nel 2011. Senza che ancora se ne fosse preso atto. Riproponendo gli stessi riti e le stesse procedure. Come se il mondo fosse lo stesso di prima. Diviso in due. Pro oppure contro. Berlusconi. Come non fosse avvenuta l'irruzione del M5s. Veicolo della frattura fra società, politica e istituzioni. Così è stata bruciata la candidatura di Franco Marini, ex leader della Cisl e della Sinistra Dc. Ma, soprattutto, si è consumata la candidatura di Romano Prodi. Padre dell'Ulivo e del Pd. In aula. Per mano dei franchi tiratori del Pd. Molti più dei 101 di cui si è parlato. In questo modo è finita la finzione. Che si potesse continuare come prima. Con le stesse logiche di "partito". Quando i partiti erano finiti, insieme ai loro riferimenti. Crollati, insieme al muro di Arcore. La "proroga" di Napolitano al Colle segna questo passaggio in-compiuto. Perché è una non decisione. In attesa di tempi diversi. Leader diversi.

Due anni dopo, quei tempi sono maturati. Tempi liquidi. Segnati da partiti liquidi. Le tre grandi minoranze, uscite dal voto del 2013 non esistono più. Non sono più grandi come prima. Due di loro, almeno. Il Popolo delle Libertà, si è diviso in diversi popoli. Forza Italia, guidata da Berlusconi. Il Nuovo Centro Destra guidato da Alfano. Entrambi, peraltro, proprio in questa fase si sono scomposti ulteriormente. Mentre il M5s si è, a sua volta, frazionato, in Parlamento. Ormai non è chiaro quanti siano i "fedeli" a Grillo e Casaleggio. E quanti parlamentari abbiano defezionato. Quel che resta del Centro, infine, si è riunito in un'altra sigla: Alleanza Popolare. Ma, in effetti, appare una periferia del PdR. Il Pd di Renzi. Il principale, se non unico, vero "partito" di governo. Sfidato, solamente, da partiti anti-europei e anti-politici. M5s e la Lega di Salvini, per primi. Tuttavia, lo stesso Pd non si presenta unito. È "geneticamente" diviso. Negli ultimi mesi, minacciato dalla tentazione della sinistra interna di integrarsi con Sel. Per formare una sorta di Tsipras all'italiana.

Ripercorro fatti e avvenimenti noti. In modo disordinato e superficiale. Ma in grado, anche così, di rendere più evidente il segno di questa Repubblica. Di questa democrazia. Liquida. Senza schemi né riferimenti stabili. In questo ambiente immateriale e frammentario Matteo Renzi ha affermato la propria leadership. In Parlamento e fra gli elettori. Renzi, come si è detto fin dal suo esordio, è "veloce". Mimetico. Spregiudicato. Spietato, se necessario. Ha stabilito, da subito, un dialogo con il Nemico. Berlusconi. Un Patto, si è detto, intorno alle riforme istituzionali e alla riforma elettorale. Ma poi ha proceduto diritto al "suo" scopo. Scegliendosi di volta in volta i nemici prima ancora degli amici. A Destra e a Sinistra. Il Centro l'ha assorbito subito.

Così, ha avviato e impostato le riforme con alleati diversi. Il Jobs act e l'abolizione del Senato elettivo. Fino alla riforma elettorale. L'Italicum. Di cui è difficile delineare i contorni, dopo tante mediazioni e riscritture. Modellando, di volta in volta, maggioranze a' la carte. Di volta in volta diverse, a seconda dei casi e degli obiettivi. Primo alleato: Berlusconi. Formalmente all'opposizione ma, puntualmente, a sostegno delle maggioranza, nelle occasioni che contano. Fino a ieri. Cioè, fino all'elezione del Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella. Che non piace a Silvio Berlusconi. Per ragioni "storiche", trattandosi di un "cattocomunista". A suo tempo, ostile alla legge Mammì. Ma anche per ragioni "politiche" legate al presente. Anzi, al "momento". Perché Renzi l'ha scelto senza consultarlo. Senza accordarsi con lui. E, in fondo, senza consultare nessuno. Così ha "liquefatto" ulteriormente Fi, Ncd e M5S. Ma ha riunito  -  e solidificato  -  il Pd. E la Sinistra, con cui il Pd si era alleato alle elezioni politiche del 2013.

Da ciò la differenza rispetto al 2013, quando l'elezione del Presidente aveva sancito l'impotenza del Pd e della sua leadership. Avviandone la crisi. La scelta di Mattarella, invece, oltre che al Paese, è utile a Renzi. Perché lo rafforza. Lo àncora alla storia politica del Centrosinistra, mentre lo dis-àncora da ogni alleanza stabile. Fuori e dentro il partito.

Renzi: è il premier dei tempi liquidi. Un "premier liquido". Capace di cambiare forma. E di adattarsi a un sistema politico liquefatto. Renzi. Solo e veloce. Senza veri amici (politici). Questa è la sua forza. Ma anche il suo problema. Perché non ha vincoli. Ma neppure appigli e approdi stabili. Non ha neppure futuro. In questi tempi liquidi: esiste solo il presente. Ogni giorno: un porto nuovo. Un equipaggio diverso. E nuove insidie, nuovi nemici. Il viaggio potrebbe diventare faticoso. E rischioso. Anche per un navigatore liquido.

© Riproduzione riservata 02 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/02/news/un_premier_liquido_per_tempi_liquidi-106326608/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Atlante politico: effetto Quirinale anche sul premier
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2015, 09:43:39 am
Atlante politico: effetto Quirinale anche sul premier
Il nuovo presidente della Repubblica parte da dove aveva cominciato Napolitano nel 2006. La sua elezione sembra giovare a Renzi, la cui popolarità risale di tre punti, toccando il 49 %. In crescita Vendola e Sel, ma anche i partiti di centro: oltre il 5 per cento. 5Stelle stabili. Sì a Mattarella da 6 italiani su 10 e anche il governo recupera Il Pd torna a salire, Fi e Lega giù

Di ILVO DIAMANTI

POCHI giorni dopo l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, il clima d'opinione verso le istituzioni e il sistema politico, fra gli italiani, è cambiato. In particolare, è migliorata l'immagine del governo e del suo premier. Inoltre, si è rafforzato il PD. Ma, soprattutto, è risalita in modo repentino la popolarità del Presidente. Il sondaggio appena concluso da Demos per l'Atlante Politico rileva, infatti, come il 59% degli italiani (intervistati) esprima (molta o moltissima) fiducia nei confronti di Sergio Mattarella. Si tratta, dunque, di 15 punti in più rispetto a Giorgio Napolitano, al momento della conclusione del suo (secondo) mandato. In altri termini, 6 italiani su 10 oggi attendono il Presidente con fiducia.

LE TABELLE …

Una maggioranza larga, come quella, d'altronde, che aveva guardato con fiducia Napolitano, al momento dell'insediamento, nel maggio 2006. E ha continuato a sostenerlo, per molti anni. Unico riferimento unitario di un Paese diviso. Oggi, evidentemente, il Paese attende, spera, di potersi riunire di nuovo intorno al Presidente. Anche se i consensi nei suoi riguardi riflettono, sostanzialmente, le dinamiche politiche che ne hanno accompagnato l'elezione. Il sostegno a Mattarella, infatti, è molto elevato a centrosinistra. Anzitutto fra gli elettori del PD. Ma è ampio anche nella base di SEL e del Centro (prossimo al 60%). Mentre è molto più limitato (30% -40%) fra gli elettori di FI e del M5s. Che, in Parlamento, non hanno votato per Mattarella. Il quale, invece, ottiene un consenso (di poco) maggioritario dalla base elettorale della Lega e dei Fratelli d'Italia.

Il nuovo Presidente della Repubblica, dunque, sembra aver ristabilito il legame di fiducia con gli italiani. Tuttavia, le stesse ragioni che avevano prodotto il distacco fra il Quirinale e l'opinione pubblica, durante l'ultimo anno, incombono ancora. E rischiano di complicare, presto, il percorso presidenziale di Mattarella. Chiamato, da subito, a confrontarsi con la nuova legge elettorale e le riforme costituzionali. In un contesto politico segnato da nuove tensioni. Anzitutto, dal contrasto fra Renzi e Berlusconi, che si è acceso proprio in occasione dell'elezione del Presidente. Il PdN, il Patto del Nazareno, oggi sembra meno solido. Secondo alcuni, si sarebbe perfino dissolto.

A guardare i dati dell'Atlante Politico, però, questa frattura (se di frattura davvero si tratta), ma, soprattutto, l'elezione presidenziale sembrano aver fatto bene al governo e al premier. La fiducia nei confronti del governo, infatti, è risalita di 4 punti nell'ultimo mese. Oggi è al 46%, come in dicembre. Ha recuperato consensi presso gli elettori di tutti i principali partiti. Per primo, evidentemente, il PD (quasi 80%). Ma anche SEL e AP. Perfino FI e il M5s. Unica eccezione: la Lega e i Fratelli d'Italia. Parallelamente, è cresciuta anche la popolarità personale di Renzi. "Stimato" dal 49% degli elettori, 3 punti in più del mese scorso. Una ripresa significativa, per quanto limitata, perché avviene dopo mesi di declino. Renzi, peraltro, è il leader di partito che vede aumentare maggiormente il proprio credito, insieme a Vendola e alla Meloni. Anche se l'unica "opposizione personale" al premier continua ad essere proposta da Matteo Salvini. Il leader della Lega, ormai proiettato decisamente oltre il Po.

È, tuttavia, interessante osservare come gli orientamenti di voto, in questa occasione, siano solo in parte coerenti con le valutazioni "personali" sui leader. Se non per quel che riguarda Renzi e il "suo" partito. Alla ripresa di consensi del Capo, infatti, corrisponde la crescita del PD, che, secondo le stime di Demos, rispetto a gennaio, è aumentato quasi di un punto e mezzo e si attesta al 37,7%. Il livello più alto da ottobre. Peraltro, ormai pare non aver più avversari. Salvo il M5s, che resta attestato poco sotto il 20%. Unica opposizione, che, tuttavia, non riesce a entrare nel gioco delle alleanze. Percepito (e usato) dagli stessi elettori non tanto come alternativa di governo, ma come canale di dissenso. Malessere. Verso tutti. Calano, invece, i consensi ai principali partiti di Destra. Forza Italia: supera di poco il 14%. La stessa Lega, dopo molti mesi, conosce un arretramento significativo. Si ferma all'11%. Molto, rispetto alle Europee, e ancor più rispetto alle politiche del 2013. Ma 2 punti meno di dicembre. Lontana da Renzi e dal PD. Arretra anche di fronte a Berlusconi e a FI. Fra gli altri partiti, infine, crescono, in particolare, SEL e la Sinistra, ma anche i partiti di Centro. Entrambi oltre il 5%. Segno di una crescente "centrifugazione" del voto.

L'elezione di Sergio Mattarella sembra, dunque, aver rafforzato anzitutto l'istituzione che egli rappresenta. Il Presidente della Repubblica. Oggi è guardato con fiducia e speranza dalla maggioranza degli italiani. Questa elezione, però, ha restituito credito al Partito e al Governo di Renzi. Il PdR e il GdR escono rafforzati da questo passaggio. Insieme, ovviamente, al loro Capo (per citare una formula di Fabio Bordignon). Anche se si tratta di una fiducia "a termine". In vista delle prossime, urgenti, scadenze.

Economiche e istituzionali. Di certo, in questa fase, l'Italia appare un sistema mono-polista, più che bi o multi-polare. Perché ha un solo, unico Capo e un solo, unico partito che contino. Anche se, in Parlamento, la maggioranza del Governo di Renzi dipende da alleanze a geometria variabile - e instabile. Soprattutto dopo che il PdN si è logorato, se non spezzato. Anche perché Berlusconi, insieme a FI, appare indebolito dall'elezione presidenziale.

Per questo, a mio avviso, il Capo - del Governo e del PdR continua a pensare a nuove elezioni. Appena possibile. Anche se il percorso e i vincoli imposti dalla nuova legge elettorale rendono questa possibilità poco possibile. Ma governare un Parlamento eletto in epoca prerenziana, con un PD -  allora bersaniano, inseguendo consensi liquidi, di giorno in giorno, penso che per Renzi sia sempre meno sopportabile. Psicologicamente, prima ancora che politicamente.

© Riproduzione riservata 07 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/07/news/effetto_quirinale_anche_sul_premier-106717002/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Repubblica extra-parlamentare
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2015, 04:45:10 pm
La Repubblica extra-parlamentare

Di ILVO DIAMANTI
16 febbraio 2015
   
I parlamentari del M5s hanno ingaggiato una lotta serrata, quasi un corpo a corpo, contro la riforma del Senato, progettata dal governo. Affiancati dai parlamentari di Sel e della Lega, insieme ad alcuni dissidenti del Pd. E alla stessa FI, che, in un'altra epoca politica, aveva contribuito a scrivere e a sostenere la riforma.

Un'opposizione tanto aspra appare dettata da ragioni di metodo, oltre che di merito. È, cioè, una reazione al rifiuto di discutere gli emendamenti. Dunque, di discutere. Votando a oltranza, giorno e notte. Questa vicenda sintetizza, plasticamente, questa difficile fase della nostra democrazia. Da un lato, Renzi e il "suo" Pd, decisi a tutto, pur di raggiungere gli obiettivi dichiarati, nei tempi più rapidi. Dall'altro, il M5s, specializzato nel fare controllo, resistenza. Intorno, gli altri partiti, di sinistra e, soprattutto, di destra. Poco influenti, se non in-influenti.

Da un lato, la "democrazia decisionale e personalizzata", di Renzi. Dall'altra, la "contro-democrazia" (come la chiama Rosanvallon), la democrazia della sorveglianza di Beppe Grillo. Un modello che spiega, in larga misura, il consenso di cui, oggi, sono accreditati i due principali soggetti politici, dai sondaggi. Non solo il Pd, stimato intorno al 36-37%. Ma anche il M5s. Nonostante che il suo gruppo parlamentare appaia diviso e sempre più ridotto. Nonostante svolga un'azione  -  prevalentemente  -  di controllo, difficile da spendere, sul piano del consenso. Eppure, resta il secondo partito in Italia. Stimato, dai principali istituti demoscopici, fra il 18 e il 20%. Lontano dal Pd. Circa la metà. Ma molto sopra gli altri partiti, che non superano il 14-15%. Lega e FI comprese.

La relativa ampiezza del bacino elettorale del M5s, in effetti, si spiega, anzitutto, con la base del dissenso verso le istituzioni e gli attori politici, molto estesa in Italia. Un disagio senza voce e senza bandiere. Senza storia e senza utopia.

La quota di elettori del M5s che esprime (molta o moltissima) fiducia nei confronti del Presidente della Repubblica appena eletto, per esempio, è circa il 30% (Demos, febbraio 2015). Metà, rispetto alla media della popolazione. Mentre la fiducia verso il Parlamento, fra gli elettori del M5s, scende al 5%. Circa un terzo rispetto alla media degli elettori. Si potrebbe, per questo, parlare di un'opposizione "antipolitica". Ma il discorso non è così semplice. La componente "esterna" allo spazio politico, coloro, cioè, che rifiutano di collocarsi lungo l'asse destra/sinistra, è, infatti, ampia, ma comunque, minoritaria (circa un terzo, Demos gennaio 2015). Mentre, in maggioranza, gli elettori del M5s appaiono distribuiti un po' in tutti i settori "politici". A destra (18%), sinistra (28%) e al centro (20%). Peraltro, il M5s è anche il partito meno "personalizzato". Nel senso che Beppe Grillo è il meno "stimato" fra i leader dei principali soggetti politici. Esprime, infatti, fiducia nei suoi riguardi quasi il 19% degli elettori. Circa 10 punti meno, rispetto allo scorso maggio. Certo, fra gli elettori del M5s la sua popolarità sale al 70%. Ma si tratta, comunque, del livello di fiducia più limitato ottenuto dai leader fra gli elettori del proprio partito. A conferma che il voto al M5s non è "personalizzato". E nemmeno "progettuale". Unito da un'identità comune. Ma, piuttosto, largamente e radicalmente "critico". Verso i principali partiti, verso le principali istituzioni. Insomma, verso la democrazia rappresentativa.

E ciò induce a riflettere, di nuovo, su questa particolare fase della nostra storia politica. Della nostra democrazia. Caratterizzata da una sorta di "tri-polarismo imperfetto". Dove agisce un solo soggetto politico di governo, il Pd, sfidato da alcuni soggetti che fanno opposizione, in Parlamento e nella società. Ma senza proporre alternative reali. Una situazione che potrebbe evocare la (cosiddetta) prima Repubblica, quando la Dc governava senza che il principale partito di opposizione, il Pci, potesse davvero subentrare al governo. A causa del vincolo internazionale, risolto solo dopo la caduta del muro  -  e dei regimi comunisti  -  nel 1989.

Oggi, però, la questione è diversa. In quanto il Pd di Renzi appare senza alternativa non per vincoli esterni, ma interni. Anzitutto: per il declino di Berlusconi, che, per vent'anni, ha occupato lo spazio di centrodestra. Personalizzandolo e rendendolo impraticabile per altri soggetti politici liberal-democratici. In secondo luogo, per l'emergere e l'affermarsi di un crescente malessere contro i soggetti e le istituzioni della nostra democrazia rappresentativa, intercettato e canalizzato dal M5s. Così, oggi le opposizioni, in Parlamento e all'esterno, appaiono deboli e improponibili. E ciò appare particolarmente critico, mentre si lavora per riformare le istituzioni democratiche  -  superando, anzitutto, il bicameralismo "paritario". E per ridefinire la legge elettorale. Perché è difficile, oltre che discutibile, riformare la Costituzione e le regole della democrazia senza dialogo e senza condivisione. Tanto più se il partito di maggioranza  -  l'unico soggetto politico effettivamente organizzato  -  è, comunque, "minoranza" (per quanto larga) fra gli elettori. E riesce a garantirsi la maggioranza, alle Camere, attraverso alleanze variabili e la transumanza di diversi parlamentari (come hanno segnalato, nei giorni scorsi, Stefano Folli e Roberto D'Alimonte).

Mentre le opposizioni sono, fra loro, eterogenee, in parte estranee. Lontane. Da ciò questo strano tripolarismo imperfetto, che "oppone" il Pd di Renzi  -  personalizzato come il "suo" governo  -  a soggetti politici, che oggi non appaiono alternativi. Da un lato, a centrodestra, FI e la Lega sono concorrenti.
E nessuna delle due pare in grado di affermare la propria leadership. FI continua a dipendere dal destino di Berlusconi. Mentre la Lega investe sul sentimento anti-europeo e anti-politico. Ma per questo le è difficile proporsi come attore di governo. Anche se si proietta a Sud. D'altra parte, il M5s propone un'alternativa alla democrazia rappresentativa, più che di governo. Per questo, appare in contrasto con il funzionamento stesso del Parlamento. Fino a minacciare le dimissioni dei propri parlamentari, per provocare lo scioglimento delle Camere. Dove, per motivi diversi, "non" siedono Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini, i leader dei principali partiti, di maggioranza e opposizione. È l'ennesima singolarità (per non dire anomalia) della nostra democrazia. Di questa Repubblica extra-parlamentare.

© Riproduzione riservata 16 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/16/news/la_repubblica_extra-parlamentare-107426964/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Dove girano le eliche
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2015, 04:46:22 pm
Dove girano le eliche

17/02/2015
Massimo Gramellini

Colpito da malore durante una vacanza ad Alghero, il dottor Gaetano Marchese ha rifiutato il ricovero nel vicino ospedale di Sassari e si è fatto dare uno strappo fino a Palermo dall’elicottero del 118 siciliano di cui è direttore. La notizia, orgogliosamente sbandierata dal 118 come prova di efficienza, è di sicuro una prova di attaccamento alla propria terra di origine. Tra le lenzuola del nosocomio sardo l’esimio Marchese sarebbe stato accudito meglio di un principe. Ma è nel momento del bisogno che l’uomo sente risuonare con più prepotenza il richiamo delle radici. Ed è commovente che la comunità abbia assecondato quel richiamo, mettendo a disposizione del Marchese in ambasce un velivolo del pronto soccorso diretto dal Marchese medesimo. 

Qualcuno ipotizza favoritismi e abusi di potere. Figuriamoci, la regola del Marchese varrà per tutti i cittadini. Ovunque nel mondo ci colga un malore, basterà chiamare il 118 siciliano per vedere stormi di elicotteri levarsi in volo come in una scena di «Apocalypse Now». Di giorno e di notte, come nel suo caso. Dite di no? Dite che l’altra settimana a Catania, quando si è trattato di farne decollare uno per porre in salvo una neonata, a levarsi in volo sono stati solo i consueti ostacoli burocratici? Temo abbiate ragione. Invece di vantarsi dell’efficienza che il 118 ha dispiegato soltanto per lui, forse il Marchese (del Grillo?) farebbe meglio a provare un po’ di imbarazzo, perché nell’aria si sente già uno straordinario giramento di eliche. Quelle dei contribuenti.

Da - http://www.lastampa.it/2015/02/17/cultura/opinioni/buongiorno/dove-girano-le-eliche-KWJKX0sSjtdGkyqNL4sYuL/pagina.html


Titolo: ILVO DIAMANTI - Dietrofront degli italiani, ora sono i più euroscettici
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:29:58 pm
Dietrofront degli italiani, ora sono i più euroscettici

Il sondaggio. Le risposte di sei Paesi sulla fiducia nell'Unione Europea. Il 37% dei tedeschi vuole uscire dall'euro.
Seconda l'Italia con il 30%, ma la percentuale sale al 42-43% in Forza Italia e Lega e scende al 18% nel Pd

Di ILVO DIAMANTI
23 febbraio 2015

TIRA una brutta aria in Europa. Verso l'Unione e, più ancora, verso l'euro. Anzitutto in Grecia, dove il governo di Tsipras ha siglato con l'Eurogruppo un'intesa tutt'altro che cordiale. Basata sulla reciproca diffidenza. Ciascuno convinto di aver imposto all'altro le proprie ragioni. Un sentimento, tuttavia, molto diffuso anche altrove. Per averne una misura attendibile, è sufficiente scorrere i dati del sondaggio condotto nelle ultime settimane in 6 Paesi europei da Demos e Pragma (per la Fondazione Unipolis). È parte del-l'VIII Rapporto sulla Sicurezza in Europa (a cui ha partecipato l'Osservatorio di Pavia), che verrà presentato a Roma domani pomeriggio (a Montecitorio). Colpisce, anzitutto, il grado di fiducia verso l'Unione Europea. È, infatti, maggioritario soltanto in Germania. Non per caso, peraltro, vista l'influenza tedesca sulle politiche comunitarie. Ma appare limitato altrove. In Francia, in Spagna e in Polonia: coinvolge circa quattro cittadini su dieci. Mentre risulta largamente minoritario in Gran Bretagna e ancor più in Italia. In assoluto, il Paese più euroscettico, fra quelli indagati dall'Osservatorio (solo il 27% ha fiducia nella Ue). Si tratta di un orientamento già osservato, in altre, precedenti, ricerche presentate su Repubblica. Da ultimo: nell'indagine sul "Rapporto fra gli italiani e lo Stato", pubblicata alla fine del 2014.

LE TABELLE …

Una ulteriore conferma che l'Europa unita non piace a gran parte degli europei. E se la maggioranza di essi continua ad accettarla è per prudenza. Anzi, per paura. Di quel che potrebbe accadere se non ci fosse. Di quel che potrebbe capitare a chi uscisse dall'Unione. Questo sentimento è tanto più evidente se si considerano le opinioni verso la moneta unica. L'euro. Causa  -  comunque, indice  -  principale e più evidente del disagio e del dis-amore degli europei verso l'Europa.

L'euro: solo una minoranza ristretta dei cittadini dei Paesi dove è stato introdotto lo ritiene una scelta vantaggiosa. Circa il 10% in Italia. Poco più in Germania. Il 20% in Spagna e in Francia. Mentre per la maggioranza della popolazione (45-50%) è un "male necessario". Teme che abbandonarlo sarebbe peggio. Tuttavia, circa un terzo dei cittadini in Italia, se potesse, lascerebbe l'euro. E in Germania, la "guardiana" (e la padrona) dell'euro, quasi il 37% ha nostalgia del marco. L'euro, peraltro, non suscita alcun desiderio nei Paesi dove non c'è. In Polonia e in GB poco più del 10% della popolazione (intervistata) sarebbe favorevole a introdurlo. Mentre 7-8 persone su 10 non ci pensano proprio. Così, gli europei si scoprono sempre più "euroscettici" e "scettici verso l'euro". Per la reciproca influenza fra "euro-scetticismo" e "scetticismo verso l'euro". Perché l'euro è una moneta senza Stato. Mentre l'Unione Europea sembra affidare, sempre più, alla moneta la propria sovranità. E la propria identità. In politica estera, nelle politiche sociali e demografiche, invece, la UE risulta assente. Basti pensare a quel che avviene sulle nostre coste, di fronte agli sbarchi dei disperati, in fuga dal terrore, che si susseguono, incessanti. Oppure di fronte alla minaccia dell'IS, divenuta devastante in Libia. Praticamente, a due passi da noi. Emergenze scaricate, come sempre, sugli Stati nazionali. Che agiscono seguendo le loro logiche (interne) e i loro interessi (esterni).

Così, un po' dovunque cresce l'Anti-europeismo, insieme ai soggetti politici che ne hanno fatto una bandiera. In Italia, la contrarietà verso l'euro è molto ampia  -  superiore al 40%  -  non solo fra gli elettori vicini alla Lega, ma anche tra i simpatizzanti di Forza Italia e del M5s. Mentre in Francia l'ostilità verso la moneta unica coinvolge circa un terzo degli elettori dell'UMP (centro-destra) e, soprattutto, quasi metà di quelli del Front National. È, però, in GB che l'euro-scetticismo appare più ampio, come si è detto. In tutte le direzioni politiche. Fra i Laburisti e (ancor più) i Conservatori. Ma, ovviamente, soprattutto fra gli Indipendentisti. Visto che oltre 9 elettori su 10 dell'UKIP avversano la moneta unica. E l'85% la UE. D'altronde, questo partito ha fatto dell'antieuropeismo la propria "ragione sociale". E ne ha tratto grande vantaggio alle elezioni locali, ma soprattutto alle successive Europee del 2014, quando si è imposto come primo partito, in GB, con circa il 27% dei voti. D'altronde, in Francia, il FN, guidato da Marine Le Pen, amplificando il messaggio antieuropeo, si è affermato, proprio alle Europee, con il 25%. E oggi è accreditato del 30% dai principali istituti demoscopici, che lo indicano come probabile vincitore alle prossime départementales di fine marzo.

L'antieuropeismo, associato alla paura dello straniero e alla chiusura verso gli immigrati, è, dunque, divenuto una "frattura" che attraversa i sentimenti e i sistemi politici in Europa. In Italia, è interpretata soprattutto, ma non solo, dalla Lega di Salvini. Che dal Nord sta scendendo, sempre più a Sud. Non per caso ha organizzato una manifestazione a Roma, proprio domenica prossima. Ma ne ha annunciata un'altra, in aprile, insieme ai Fratelli d'Italia, con la presenza di Marine Le Pen. Per rafforzare l'alleanza  -  e la frattura  -  antieuropea. La crisi greca, dunque, non può essere trattata come un male "regionale". Confinato ai margini dell'Europa. Perché riflette e riverbera un malessere diffuso. Che si respira dovunque. In Italia, evidentemente. Ma anche in Francia. In Spagna. Nella stessa Germania. Non credo proprio che l'Unione Europea possa proseguire a lungo il suo cammino "confidando" sulla "reciproca sfiducia" e sulla "paura degli altri". In nome di una moneta impopolare. Io, europeista convinto, penso che non sia possibile diventare "europei per forza". O "per paura".

© Riproduzione riservata 23 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/23/news/dietrofront_degli_italiani_ora_sono_i_pi_euroscettici-107966314/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Padana, nazionalista e "personalizzata", ecco la tripla Lega...
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2015, 05:11:45 pm
Padana, nazionalista e "personalizzata", ecco la tripla Lega alleata di CasaPound
La piazza romana ha sancito la mutazione genetica del Carroccio. Baricentro verso il Sud, primi bersagli l'immigrazione e l'"eurocrazia"

di ILVO DIAMANTI
02 marzo 2015

LA LEGA non è più la stessa. L'ultimo partito rimasto, dopo la fine della (cosiddetta) Prima Repubblica. L'unico ad aver mantenuto la stessa etichetta da 25 anni. La Lega, appunto. Dopo la manifestazione romana di sabato non è più la stessa di prima. Soprattutto e anzitutto perché Roma fa parte della sua "identità genetica". "Roma ladrona, la Lega non perdona", era lo slogan dei vecchi tempi. Vecchi, appunto. Quando Roma era luogo e simbolo dello Stato Centrale da espugnare. Per conquistare l'indipendenza del Nord. E per "bonificare" il Sud assistito  -  sfruttando le risorse del Nord produttivo. Certo, la Lega era arrivata già da tempo a Roma, dove i suoi parlamentari si erano trovati piuttosto bene. Così era divenuta anch'essa  -  abbastanza  -  "romana". Un sindacato del Nord insediato nella Capitale. Anche per questo era declinata, dal punto di vista elettorale. Insieme al mito del Nord Padano.

LE TABELLE …

Roma, comunque, era  -  è  -  sempre rimasta il simbolo dell'anticentralismo e dell'antipolitica, secondo la Lega. Fino a sabato, appunto. Quando alcune decine di migliaia di leghisti sono arrivati a Roma. Non per contestarla. Ma per conquistarla. Meglio: per conquistare la legittimità. Di italiani. La Lega Nazionale, la Ligue Nationale, versione italiana del Front National di Marine Le Pen, ha sfilato nella capitale (italiana) e si è radunata a Piazza del Popolo (italiano). Insieme ai Fratelli d'Italia (appunto) e ai circoli di CasaPound. La Destra della Destra. Tutti insieme, intorno al giovane leader, Matteo Salvini. Artefice della mutazione genetica leghista che ha permesso al partito un rilancio impensabile, appena due anni fa. Quando, ricordiamo, la Lega Nord  -  guidata, all'epoca, da Roberto Maroni  -  alle elezioni politiche aveva racimolato il 4,1%. Il dato più basso dal 2001. Salvini, divenuto segretario nel dicembre 2013 (dopo aver schiacciato, alle primarie, Umberto Bossi), ha cambiato l'immagine e l'identità della Lega. Molto rapidamente. Con effetti evidenti. Anzitutto sul piano dei consensi. Non a caso, alle elezioni Europee, lo scorso maggio, la Lega è risalita oltre il 6%. Ma i sondaggi, attualmente, la collocano intorno al 12-13%. Cioè: il livello più elevato della sua storia.

La Lega di Salvini oggi incalza Forza Italia. E le contende la leadership del Centro-destra. Si tratta di un percorso che abbiamo già seguito e descritto in passato. Ma oggi appare più evidente. Dal punto di vista territoriale, anzitutto, la Lega ha spostato il baricentro a Centro-Sud. Infatti (secondo i sondaggi più recenti di Demos) supera il 20% nelle regioni del Nord, si avvicina al 10% nelle regioni del Centro (tradizionalmente di Sinistra) e pare aver sfondato nel Centro-Sud (intorno a Roma e il Lazio), dove ha superato il 13%. Ma è oltre il 6% perfino nel Sud e nelle Isole. Per questo è "scesa" a Roma: perché ormai è nazional-popolare. O forse: nazional-populista, visti gli argomenti che utilizza, come slogan e come bandiera. Non più l'indipendenza  -  affidata ai movimenti regionali, in Veneto e Lombardia. Ma l'opposizione contro il duplice nemico: l'Europa dei burocrati e gli immigrati, che ci invadono. I bersagli comuni ai populismi europei. Per primo il FN di Marine Le Pen. E gli epigoni nazionali (sti) minori ed estremi  -  anzi: estremisti  -  con cui sabato ha sfilato a Roma. Per prima: CasaPound.

La manifestazione di Roma, però, ha accentuato il tratto politico, oltre che antipolitico, della Lega di Salvini: l'opposizione a Renzi e al suo governo. Ha, inoltre, rilanciato la candidatura di Salvini alla guida del Centro-destra. Un progetto che sembra procedere spedito. La popolarità di Salvini, infatti, è intorno al 33%. Secondo solo a Renzi e molto al di sopra rispetto a tutti gli altri leader. Peraltro, il profilo "politico" degli elettori leghisti, in contrasto con le posizioni del leader, sembra essersi spostato a Centro-destra, più che a Destra, rispetto alle elezioni politiche del 2013. Per effetto, probabilmente, dell'afflusso di molti elettori di FI, ma anche dell'NCD. D'altronde, anche il FN, in Francia, ha intercettato molti elettori di Destra, che votavano per i partiti moderati (l'UMP, soprattutto). E oggi, nei sondaggi, appare vicino al 30% dei consensi. Un obiettivo ancora lontano, per la Lega di Salvini. Che deve misurarsi con la "resistenza" di Berlusconi e FI, a Destra, e con la concorrenza del M5s sul versante della protesta anti-politica. Tuttavia, è indubbio che si tratti di un soggetto politico in crescita e in costante evoluzione. In grado di rivolgersi a diversi elettorati. Gad Lerner, nella sua efficace analisi, ieri ha definito la Lega "il camaleonte verdenero". Sottolineandone le capacità mimetiche (come fece, vent'anni fa, Giovanna Pajetta, nel libro "Il grande Camaleonte"). Tuttavia, è possibile descriverla diversamente. Come somma e risultante di tre soggetti politici. Tre Leghe. 1) La Lega Padana: riproduce le radici storiche del partito. Mantiene la sua base elettorale a Nord, dove ha una struttura organizzativa e un elettorato fedele, oltre a una presenza estesa nei governi e nelle amministrazioni. 2) La Ligue Nationale. La Lega Nazionale e Lepenista. Alleata di CasaPound. Antipolitica, impiantata sull'antieuropeismo e sulla paura degli altri. Soprattutto degli stranieri. Riflette una "sindrome" presente in tutto il territorio nazionale. Dove coinvolge e scuote circa il 25% degli elettori. Ma oltre il 50% nella Lega. Ed è diffusa, in modo omogeneo, in tutte le aree del Paese. 3) Infine, la Lega "personalizzata": "Noi con Salvini". Un soggetto politico che integra e compone le altre Leghe. Intorno al figura del Capo, in grado di comunicare con linguaggi diversi a pubblici diversi. Ai Duri e Puri e agli uomini spaventati. Ma anche al "pubblico" medio e mediatizzato. Perché Salvini è Pop. Invitato e inseguito da tutti i media.

Così, le tre Leghe, guidate da Salvini, sono arrivate a Roma e si sono spinte a Sud. Promettono  -  e minacciano  -  di prendere la guida dell'opposizione. Ma è difficile che possano costituire un'alternativa di governo. Il loro equilibrio, peraltro, resta instabile. E rischia di spezzarsi, in ogni momento. Perché la Lega Padana e la Lega Nazionale sono troppo diverse e troppo distanti, per territorio e identità. L'impresa di tenerle unite, nel segno della paura, contro un nemico senza volto (e con molti volti), contro gli stranieri, l'Europa, il mondo, Roma ladrona e contro Renzi: appare ardua. Anche per un Leader Pop  -  agile, abile e determinato  -  come Salvini.

© Riproduzione riservata 02 marzo 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/02/news/padana_nazionalista_e_personalizzata_ecco_la_tripla_lega_alleata_di_casapound-108522142/?ref=HRER2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Landini ha annunciato la sua "discesa in piazza".
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2015, 05:57:46 pm
Una nuova sinistra extra-parlamentare
Mappe.
Landini ha annunciato la sua "discesa in piazza".
Non una lista in prospettiva elettorale, perché non è uno sprovveduto e sa che a sinistra non c'è spazio

Di ILVO DIAMANTI
16 marzo 2015

MAURIZIO Landini ha annunciato la sua prossima “discesa in piazza”. A capo di un movimento di opposizione, che ha già previsto una prima occasione per mobilitarsi. La manifestazione del 28 marzo contro le politiche economiche e sul lavoro del governo Renzi. Per primo: il Jobs Act. Non un partito, dunque.

Non una lista in prospettiva elettorale. Perché Maurizio Landini non è uno sprovveduto. E sa che, a sinistra, in Italia non c’è spazio. Oggi. Anche perché, fino a ieri, gran parte di questo spazio è stato occupato dal Partito Comunista e dai suoi eredi. Il Partito Comunista, prima e dopo Berlinguer, ha presidiato il campo dell’opposizione. In modo permanente e senza possibilità di alternativa. Fino alla caduta del Muro. Berlinguer lo teorizzò apertamente. Unica soluzione possibile: l’intesa con la Dc, pre-destinata a governare. Tradotta nel “compromesso storico”, promosso negli anni Settanta da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sancito — e concluso — dal tragico (e non casuale) rapimento di Moro. A sinistra del Pci, allora, non c’era spazio. Se non per soggetti — temporanei — destinati a svolgere un ruolo di denuncia e testimonianza. La sinistra, cosiddetta, extra-parlamentare. Perché, per quanto la legge elettorale (ultra-proporzionale) permettesse loro una presenza (molto limitata) in Parlamento, la loro azione si svolgeva all’esterno. Nelle piazze, nelle fabbriche e nelle scuole. Fra gli operai e gli studenti. Proprio ciò che si propone di fare oggi — meglio, domani — Maurizio Landini. Intercettando — e alimentando — il clima di insoddisfazione sociale che pervade il Paese. E coinvolge il governo. Che attualmente dispone, secondo diversi sondaggi (oltre a Demos, anche Ipsos), di un consenso ancora elevato, ma non più maggioritario. Intorno al 40%. Ciò significa che il clima di insoddisfazione verso il governo è divenuto molto ampio. Tuttavia, Renzi resta ancora il leader, di gran lunga, più “stimato” nel Paese. Apprezzato da oltre 4 italiani su 10. Mentre il grado di fiducia nei confronti di Maurizio Landini è intorno al 25%. Superato, largamente, da Matteo Salvini, sopra il 30%. Ma anche da Giorgia Meloni (vicina al 30%).

Per imporsi come riferimento dell’opposizione, la soluzione obbligata, per Landini, è, dunque, restare fuori dalla competizione partitica. Fuori dal Parlamento. Dove, peraltro, anche volendo, non potrebbe essere presente, per un periodo non breve, visto che il ritorno alle urne non sembra vicino.

Fuori dal Parlamento e dai partiti, però, ci sono due spazi, due luoghi, dove Landini può agire, per mobilitare l’opposizione e l’opinione pubblica. Il primo è, appunto, la società. In particolar modo, l’area dei lavoratori. Dove, però, il suo consenso appare ampio non tanto fra gli operai, quanto, secondo i sondaggi, fra gli impiegati e i tecnici privati. Ma ancor più, tra gli “intellettuali”, che operano nel mondo della scuola. Oltre ai pensionati. Perché Landini non attrae tanto i giovani, ma le persone di età centrale e medio-alta (fra 45 e 65 anni) e gli anziani. Insomma, raccoglie la base tradizionale della Sinistra. Sfidata e indebolita, fra i giovani e gli studenti, dal M5s. E, fra i lavoratori dipendenti, dalla Lega Il secondo terreno di azione, per Landini, è la “comunic-azione”. In particolare, la televisione. Dove il segretario generale della Fiom-Cgil è una presenza fissa. Invitato dovunque. Nei principali talk politici di tutte le reti nazionali. Come Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Perché garantiscono ascolti. La loro apparizione alza lo share di 1 punto percentuale e anche di più. Un contributo importante, anzi, irrinunciabile per i programmi di dibattito e approfondimento politico, in tempi di declino degli ascolti.

Così Landini — come, soprattutto, Salvini — alterna la piazza e la televisione. Ma ciò ne limita le possibilità di affermazione. Anzitutto, come leader dell’opposizione. Perché la “questione sociale”, per ora, è riassunta da altre rivendicazioni, “rappresentate” da altri soggetti politici di successo. L’antieuropeismo e, in particolare, l’opposizione all’euro. Che la Lega di Salvini agita, insieme alla paura degli immigrati. E il M5s associa al sentimento anti-politico. Alimentato contro i privilegi dei “politici” e dei partiti. Mentre, sulla questione della rappresentanza del lavoro, Landini e la Fiom incrociano, inevitabilmente, il loro percorso con l’azione del sindacato. In particolare, della Cgil. Non a caso, intervistato da Lucia Annunziata, proprio ieri, Landini ha sostenuto che «il sindacato deve essere un soggetto politico». Perché «se non fa politica è aziendale». Mentre la segreteria della Cgil ha preso, apertamente, le distanze dall’iniziativa del segretario Fiom. Per questo, nel discorso politico di Landini, echeggia, di continuo, il richiamo a Renzi e al PdR. Il Pd di Renzi. Il Partito di Renzi. Alleato di Confindustria nel progetto di cancellare i diritti dei lavoratori. E, quindi, un nemico, anzi, “il” nemico da contrastare.

Così, la sfida di Maurizio Landini evoca una “coalizione sociale” e del lavoro. Per ora. Ma è inevitabile, in prospettiva, leggerla sul piano politico. Ed elettorale. Perché è chiaro il riferimento a Syriza, in Grecia, e Podemos, in Spagna. Se valutiamo la fiducia nei confronti di Landini, sul piano politico, è, d’altronde, evidente la sua caratterizzazione a Sinistra. Ma anche una certa trasversalità. È, infatti, elevata non solo fra gli elettori di Sel (intorno al 50%), ma anche del Pd (35% circa) e del M5s (32%).

La “coalizione sociale” evocata da Landini, dunque, mira a divenire coalizione “politica”, che attrae le liste a Sinistra del Pd e l’area del disagio interna al Pd. Magari non un partito — almeno per ora: domani si vedrà. Anche se c’è da sospettare che il più interessato alla costruzione del nuovo soggetto partitico di Landini sia proprio Renzi. Che “neutralizzerebbe” l’opposizione di sinistra in uno spazio, presumibilmente, circoscritto. Intorno al 5% (o qualcosa di più). E allargherebbe ulteriormente lo spazio di influenza del suo PdR verso il centro. Assorbendo quel che resta dell’elettorato berlusconiano. Così resterebbero fuori solo Salvini (e Meloni), il M5s. Insieme a Landini. L’opposizione che piace al premier.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/16/news/una_nuova_sinistra_extra-parlamentare-109602926/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Per nove italiani su dieci Tangentopoli non è mai finita.
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2015, 04:53:15 pm
Gli scandali e la crisi non spostano voti: Pd al 36, Grillo al 20, la Lega non vola più
Per nove italiani su dieci Tangentopoli non è mai finita.
Ma nel sondaggio Demos il disagio si indirizza soprattutto contro le riforme del lavoro.
E il 59% "tifa" per le proteste

Di ILVO DIAMANTI
28 marzo 2015
   
Gli scandali e la crisi non spostano voti: Pd al 36, Grillo al 20, la Lega non vola più(ansa)
IL CLIMA d'opinione è grigio. Oscurato dall'insoddisfazione economica e dalla rabbia contro la corruzione politica. Ma gli orientamenti politici non cambiano. In particolare: non si vedono alternative di governo né, soprattutto, a Renzi. Almeno, in questa fase.

È il riassunto sintetico del sondaggio concluso ieri per l'Atlante Politico di Demos. Racconta di un Paese abituato, ormai, alla sfiducia. E, per questo, poco disponibile a immaginare possibili cambiamenti. Possibili svolte. Nonostante tutto. Quasi metà dei cittadini, infatti, ritiene che non sia cambiato molto, in Italia, dai tempi di Tangentopoli. In particolare considera la corruzione politica ancor più diffusa di allora. E oltre 4 persone su 10, comunque, pensano che sia altrettanto estesa. In definitiva: per 9 italiani su 10 Tangentopoli non è mai finita. D'altronde, la contaminazione fra politica e interessi appare ancora e sempre evidente. E ricorrente. Punteggiata da casi di pesante contiguità. Ma anche da episodi di "familismo amorale", come quello che ha coinvolto, di recente, il ministro Lupi. Costringendolo alle dimissioni. Per un altro verso, emerge un ampio dissenso "contro i provvedimenti del governo e la riforma del mercato del lavoro". Non per caso il 56% del campione si dice (molto o abbastanza) d'accordo con le iniziative di protesta organizzate a questo proposito. E, quindi, con la manifestazione della FIOM che si svolge oggi a Roma. Che incontra un sostegno maggioritario dagli elettori di sinistra, ma anche di Forza Italia. E soprattutto del M5s. Tuttavia, questo malessere diffuso, queste esplosioni di dissenso, non sembrano produrre effetti significativi sugli orientamenti politici. Né sulle aspettative dei cittadini. Il 42% di essi, infatti, ritiene che il governo guidato da Renzi resterà in carica fino alla fine della legislatura. Sette punti in più rispetto allo scorso novembre. Parallelamente, il 28% pensa che, al contrario, non durerà più di un anno. Cinque mesi fa gli scettici erano quasi il 40%.

LE TABELLE …

Dunque, il clima d'opinione è grigio, ma all'orizzonte non si vedono mutamenti politici rilevanti. Il grado di fiducia nei confronti del governo, di conseguenza, dallo scorso autunno resta pressoché immutato. Intorno al 46%. Come il gradimento "personale" verso il premier, Matteo Renzi, che, infatti, sfiora il 50%. Sostanzialmente stabile, anch'esso, negli ultimi mesi. Tutti gli altri leader sono distanziati. Anche se alcuni di essi emergono, fra gli altri. Meloni e Salvini, in particolare, entrambi sopra il 30%. Poi, Landini, al 29. Il leader della FIOM, d'altronde, è molto visibile e mediatico, in questa fase. Sull'onda della manifestazione di oggi. Ma anche della "Coalizione Sociale", il movimento politico di opposizione, annunciato -  e lanciato -  due settimane fa. Landini, peraltro, raccoglie consensi ampi non solo nella "Sinistra della Sinistra" (come l'ha definita Marc Lazar su Repubblica, nei giorni scorsi). Ma anche fra gli elettori del M5s e, soprattutto, anzitutto, nel PD (35%). Segnale dell'esistenza di una base di consenso, meglio, di dissenso politico molto ampia. Priva, per ora, di sbocco, sul piano partitico. Landini, per primo, appare cauto, al proposito. Lo spazio dell'opposizione al governo, d'altronde, appare già affollato e frastagliato. Le stime elettorali, infatti, non sembrano risentire troppo delle tensioni politiche e sociali in atto. Riproducono un quadro stabile e coerente, con quello degli ultimi mesi. Nonostante tutto.

Il PD di Renzi, in particolare, perde qualcosa, rispetto alle rilevazioni di febbraio. Ma, appunto, "qualcosa". Resta, infatti, al 36,6%. Un punto in meno rispetto a un mese fa. Mentre la principale "opposizione" continua ad essere espressa dal M5s. Nuovamente oltre il 20%. Anch'esso stabile, dopo le scorse Europee. Come se l'unica opposizione al PDR fosse costituita dall'insofferenza e dalla domanda di "sorveglianza" democratica. Rappresentate, appunto, dal M5s. Che ha beneficiato, più degli altri, delle dimissioni di Lupi. E, come si è detto, delle proteste contro le politiche del lavoro.

Sul fronte della Destra, invece, la marcia della Lega di Salvini, che, fino a un paio di mesi fa, pareva inarrestabile, si è arrestata. All'11,5%. Come il mese scorso (circa). Le divisioni interne  -  che in Veneto hanno prodotto l'espulsione e l'uscita di Tosi dal partito  -  non sono state indolori. E hanno ridimensionato l'immagine della Ligue Nationale, nuovo riferimento della Destra in Italia. D'altra parte, il "modello originale", il Front National di Marine Le Pen, domenica scorsa, al primo turno delle départementales, in Francia, non ha raggiunto il risultato atteso  -  e largamente annunciato. Pur ottenendo il 25%, infatti, è stato superato dall'alleanza di centro-destra UMP e UDI, guidata da Nicolas Sarkozy, vicina al 29%. Su livelli molto più ridotti, lo stesso è avvenuto in Italia. Dove FI, pur calando lievemente, nell'ultimo mese, resta avanti di due punti, rispetto alla Lega. Tra gli altri partiti, solo i Fratelli d'Italia, guidati dalla Meloni, appaiono in crescita. Molto vicini al 5%, come SEL e i partiti della Sinistra radicale sul versante politico opposto. Tuttavia, il profilo tracciato dall'Atlante politico di Demos conferma il ritratto politico di un Paese senza alternative. Dove Matteo Renzi governa in un clima sociale scettico. Alla guida di un partito sempre più "personale". Sempre più PDR. Circondato da alcuni alleati, poco influenti. E da molte opposizioni, di taglia molto ridotta. Almeno, per ora. Unica vera ombra: l'insoddisfazione e la sfiducia. Verso i politici, la politica e le istituzioni. Mobilitata e amplificata dal M5s.

Così Renzi -  senza troppi ostacoli, davanti, e senza grande entusiasmo, intorno -  prosegue il suo cammino. Nonostante tutto.

© Riproduzione riservata 28 marzo 2015

DA - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/28/news/gli_scandali_e_la_crisi_non_spostano_voti_pd_al_36_grillo_al_20_la_lega_non_vola_piu_-110665498/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La solitudine di Matteo Renzi
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2015, 06:06:44 pm
La solitudine di Matteo Renzi
MAPPE. Un sistema senza corpi intermedi, dove i poteri locali appaiono logori, rischia di diventare un problema di fronte a emergenze

Di ILVO DIAMANTI
07 aprile 2015
   
 FORZA Italia si sta "decomponendo". Un giorno dopo l'altro. Era sorta oltre vent'anni fa. Una federazione di gruppi di pressione e di interesse distribuiti sul territorio. Raccolti intorno a Silvio Berlusconi. Alla sua immagine, ai suoi media, alla sua impresa. Un partito personale che oggi, un pezzo dopo l'altro, si sta decomponendo. Perché non c'è nulla in grado di tenere insieme i pezzi. Manca la colla. L'identità e, insieme, le risorse. Un processo analogo, però, si sta riproducendo negli altri partiti sorti nell'epoca berlusconiana.

Quasi tutti scomparsi, oppure ridotti a misure residuali. Ad eccezione del Pd. L'unico partito che oggi conti davvero. Tuttavia, anche il Pd non sembra vivere un grande momento. Anzi: non è chiaro cosa sia. Anche se le stime elettorali dei sondaggi continuano ad attribuirgli circa il 36% dei voti. Eppure, è difficile considerarlo un "partito". Perché è scosso da tensioni interne, mentre incombe la minaccia di scissione della sinistra. E perché dovunque, sul territorio, appare lacerato. Da scandali, divisioni, conflitti. Anche nelle Regioni dove è da sempre più forte e radicato. La Toscana, l'Emilia- Romagna. La Liguria. È come se risentisse di un doppio limite. La dipendenza dal (l'anti) berlusconismo, ora svanito. E la rapida, improvvisa, ri-generazione intorno a Renzi. Che l'ha spinto in alto, nei consensi, come mai era avvenuto prima. Fino a sfiorare il 41% alle europee di un anno fa. Ma, al tempo stesso, lo ha trasformato in un partito semi-personale, innestando, sulla base del vecchio Pd, prevalentemente post-comunista, il suo PdR. Il Partito di Renzi.

Così oggi il territorio politico, in Italia, appare pressoché desertificato. O meglio "demente, senza strutture di aggregazione e di relazione". Il Berlusconismo, almeno, aveva "strutturato" i rapporti fra partiti e identità politiche, in modo bipolare. Berlusconismo e antiberlusconismo. Mentre oggi è difficile identificare categorie politiche in grado di offrire riconoscimento. In cui riconoscersi. Destra/sinistra, in particolare, al tempo del "renzismo" funzionano poco. La stessa geografia politica, dopo quasi settant'anni, è cambiata. Fino a pochi anni fa era de-finita da regioni e da culture politiche omogenee e radicate. Zone bianche, rosse, verdi, azzurre... Oggi, invece, gli orientamenti politici tendono a nazionalizzarsi. Il PdR: primo dovunque, alle elezioni europee. Seguito, quasi dappertutto, dal M5s. Per auto-dichiarazione: un non-partito. Il principale canale della protesta e del disagio civile. Un soggetto di "contro-democrazia", democrazia della sorveglianza, come la definisce Pierre Rosanvallon. D'altronde, il partito territoriale per definizione, la Ln, ha anch'esso mutato pelle. È divenuto un partito "personale". La Lega di Salvini. La "nuova" Destra Nazionale. Mentre, a sinistra, Landini ha mobilitato una coalizione "sociale". Per ora, esterna ai partiti. Così, resta soltanto lui. Matteo Renzi. Al centro di un sistema politico e tutto partitico che non è un "sistema". Perché non segue logiche, dinamiche e regole precise. Visto che tutto -  istituzioni, costudite leggi elettorali  -  è in corso d'opera. Matteo Renzi: è un uomo solo. Affiancato da una cerchia stretta di persone amiche e fedeli. Agisce e decide  -  prevalentemente  -  da solo. Contro tutti. D'altronde, in Italia, dopo decenni di in-decisione, la maggioranza dei cittadini dimostra consenso verso un premier e un leader che, finalstrutturato". "decide". Anche se da solo. Anzi: proprio perché "da solo".

La solitudine del Capo (per echeggiare la formula di Fabio Bordignon), per questo, può apparire una risorsa, per Renzi. Tuttavia, il discorso cambia quando si allarga lo sguardo "oltre" le relazioni con gli attori politici. Quando l'attenzione si sposta, soprattutto, sul rapporto con la società e con i cittadini. Perché negli ultimi anni si è assistito alla rapida devoluzione di tutti i corpi intermedi, di tutti i principali sistemi e organismi di mediazione fra società e Stato. Fra società e istituzioni.

I partiti di massa, ovviamente, non ci sono più da tempo. Sono scomparsi dalla società. Ma, ormai, sono in crisi anche i meccanismi di mobilitazione e di consultazione sociale. Come le Primarie del Pd. Inquinate, in alcuni casi. Ma, ancor più, burocratizzate. "Neutralizzate" dai gruppi dirigenti. Inagibili, ormai, come canali di partecipazione. Al tempo stesso, però, si sono inarituzione, le organizzazioni di rappresentanza. Sindacati e Associazioni imprenditoriali, in particolare. Hanno perduto consenso. Del 2008 al 2015, il grado di fiducia dei cittadini è sceso dal 27% al 18% nei confronti della Cgil, dal 23% al 15% nei confronti della Cisl e della Uil, dal 30% al 23% nei confronti le Associazioni Imprenditoriali. D'altra parte, Renzi stesso ha contribuito a indebolire i sistemi di rappresentanza degli interessi. Cercando di dimostrare che il governo stesso, cioè lui, è in grado di rispondere agli interessi dei lavoratori e degli imprenditori meglio di un sindacato o di un'associazione di categoria. Senza bisogno di contratti... La stessa riforma delle Camere di Commercio, che ne prevede la riduzione da 105 a 60, concorre a ridimensionare la "mediazione" e la regolazione degli interessi organizzati sul territorio. Si tratta di un percorso consapevole, che ha garantito consenso al premier. Perché la "rivoluzione renziana" passa attraverso la sburocratizzazione. Politica ed economica. Ma anche amministrativa. D'altronde, fra i cittadini, la fiducia nei confronti dei governi territoriali è calata sensibilmente. Dal 2010 al 2014, il consenso verso le Regioni è sceso di 14 punti percentuali; verso i Comuni: di 12.

Così, Matteo Renzi oggi è solo. Intorno a lui: nessun partito vero, a parte il suo PdR, peraltro molto dis-organizzato. Fra lui, il territorio e la società: poche infra-strutture istituzionali, perlopiù deboli. E pochi residui di rappresentanza, scarsamente legittimati.

Probabilmente, è ciò che interessa al premier. Ma non sono certo che rifletta i suoi interessi. Un sistema dis-intermediato, senza più -  o quasi -  corpi intermedi, dove i poteri locali appaiono logori: rischia di diventare un serio problema di fronte a possibili, future emergenze. Economiche, sociali, civili. Interne ed esterne.

Allora la solitudine potrebbe rendere tutto molto più difficile.

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07 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/07/news/la_solitudine_di_matteo-111335289/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - I riflettori sui magistrati
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 04:25:47 pm
I riflettori sui magistrati
MAPPE. Nell'opinione pubblica si è diffusa la tendenza a "politicizzare" l'immagine della magistratura, e l'orientamento dei cittadini verso la politica e i partiti è sempre più disilluso. Ma a differenza di vent'anni fa, non riconoscono più i giudici come moralizzatori

Di ILVO DIAMANTI
13 aprile 2015
   
IL PRESIDENTE Mattarella dopo il massacro avvenuto al palazzo di Giustizia, a Milano, ha lanciato un messaggio esplicito. Contro la campagna di discredito che, da tempo, investe i magistrati. Come, d'altronde, Gherardo Colombo, in passato pm di "Mani pulite", e il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli. D'accordo nel denunciare il clima di rabbia e di veleni, non estraneo all'azione criminale dell'assassino. Il quale, non per caso, ha individuato il "luogo" responsabile del proprio fallimento (in senso letterale) proprio nel palazzo di Giustizia. Dove ha ucciso il giudice Ciampi e altre due persone (tra cui un avvocato). Naturalmente, non è possibile ricondurre a ragioni sociologiche comportamenti criminali, che hanno radici largamente patologiche. Tuttavia, l'idea che esista un clima d'opinione sempre meno favorevole ai magistrati e al sistema giudiziario è sicuramente fondata. E il ri-sentimento verso l'ambiente della giustizia è, anzi, cresciuto negli ultimi tempi.

È lontana l'epoca di Tangentopoli, quando, nei primi anni Novanta, gli italiani affidarono a pm e giudici il compito di decapitare (metaforicamente) la classe politica che aveva governato l'Italia repubblicana fino ad allora. Corrotta e delegittimata. Giudici e pm divennero, allora, gli esecutori della "volontà popolare". In quegli anni, la fiducia nei loro confronti si avvicinò al 70%. Senza grandi differenze di schieramento politico. Pochi anni dopo, però, questo atteggiamento divenne più tiepido e sicuramente meno trasversale. Soprattutto perché l'interprete principale della nuova stagione (anti) politica, Silvio Berlusconi, insieme a Forza Italia, venne coinvolto da indagini e inchieste "giudiziarie" compromettenti. E concatenate, come la trama fitta del conflitto di interessi del Cavaliere.

Così, la fiducia nei magistrati cominciò a declinare, in modo sensibile, soprattutto a centrodestra. Questa tendenza, in seguito, si è allargata. La fiducia nella magistratura, infatti, è scesa costantemente, fino a oscillare intorno al 35-40%, fra il 2005 e il 2010. In seguito è calata ancora. Fino al 30%, rilevato da Demos alcune settimane fa. Dunque, prima degli omicidi avvenuti al palazzo di Giustizia. Si tratta dell'indice di consenso più basso registrato dal 1994 ad oggi. Il clima di sfiducia denunciato dai magistrati, effettivamente, esiste. E ha diverse ragioni. Alcune delle quali, sicuramente, "politiche". Come dimostra la profonda, differenza di atteggiamenti, in base alla posizione politica e alle scelte di partito. Attualmente, infatti, la quota di elettori che esprime fiducia verso i magistrati è intorno al 41%, nella base del Pd, ma scende al 29% nella base del M5S, al 25%, fra gli elettori di Fi e, infine, al 18% fra quelli della Lega. C'è, dunque, un'evidente "frattura" politica, che marca l'atteggiamento verso i magistrati. Guardati con ostilità da destra, con diffidenza dal M5S. Visti, invece, con maggiore favore a sinistra. Tuttavia, il pregiudizio politico nei confronti dei magistrati è cresciuto in modo generalizzato e trasversale. Anche fra gli elettori di centrosinistra, infatti, il consenso nei loro riguardi è calato, di quasi20 punti negli ultimi 5 anni.

La causa di questo mutamento d'opinione è, dunque, in gran parte, "politica". E ha alcune spiegazioni precise. Anzitutto, i magistrati, dagli anni di Tangentopoli in poi, hanno assunto un ruolo "politico". Perché hanno contrastato l'illegalità cresciuta insieme all'intreccio fra partiti e interessi. Sono, dunque, divenuti i controllori di un sistema compromesso e poco credibile. Alessandro Pizzorno ha osservato che si sono trasformati nei "garanti della pubblica virtù". In grado di delegittimare, con un'inchiesta, un leader o un amministratore. In secondo luogo, i magistrati stessi, in alcuni casi, sono divenuti attori politici di rilievo. A partire da Antonio Di Pietro. Fino a Antonio Ingroia. Ma sono molti, oggi, i magistrati in Parlamento, alcuni eletti anche nelle liste di centrodestra. Altri, invece, impegnati come sindaci in città importanti. Emiliano a Bari. De Magistris a Napoli. Mentre Casson è candidato a Venezia. Difficile non venire coinvolti dai (ri) sentimenti politici quando si diviene canale di formazione della classe politica. Perché l'identità del magistrato persiste. E Di Pietro, De Magistris ed Emiliano restano "magistrati" anche se hanno cambiato ruolo e attività.

Così, presso l'opinione pubblica, si è diffusa la tendenza a "politicizzare" l'immagine dei magistrati. A percepirli come "attori", oltre che "controllori", della politica. In altri termini, oggi l'orientamento dei cittadini verso la politica, i politici e i partiti è sempre più disilluso. E, a differenza di vent'anni fa, non riconosce più i magistrati come moralizzatori. Nonostante che la "questione morale", sollevata da Enrico Berlinguer all'inizio degli anni Ottanta, sia sempre attuale. E colpisca settori politici e amministrazioni -  regionali e comunali -  di destra ma anche di sinistra. Non per caso il 48% dei cittadini (Demos, marzo 2015) ritiene che oggi la corruzione politica, in Italia, sia più diffusa che all'epoca di Tangentopoli. Mentre solo l'8% pensa il contrario. Per questo la preoccupazione espressa dal Presidente e dal Csm è fondata. Ma non facilmente risolvibile. Perché lo spazio della magistratura si è allargato nel vuoto della politica. Le sue funzioni di controllo e di intervento si sono moltiplicate parallelamente al riprodursi della corruzione e degli illeciti. Nella realtà politica ma anche nella vita pubblica. Al punto che oggi si assiste a una sorta di "giuridificazione della vita quotidiana". Che accompagna, a fini di controllo, le nostre attività -  pubbliche, ma anche private. Praticamente ogni giorno. Per alleggerire le tensioni sulla magistratura, dunque, dovremmo "rassegnarci" al ritorno della politica. E dell'etica: nella vita pubblica e privata. Si tratta di un'impresa difficile, mi rendo conto. Ma, voglio credere, non impossibile.

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13 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/13/news/i_riflettori_sui_magistrati-111807129/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - I miei studenti che si guardano senza vedersi
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2015, 06:08:17 pm
I miei studenti che si guardano senza vedersi

16 aprile 2015
Ilvo DIAMANTI   

TEMPO fa, all'Università di Urbino, sono passato accanto ad alcuni studenti del mio corso, seduti intorno a un tavolo. Ciascuno davanti al proprio tablet. O allo smartphone. Assorti, concentrati, impegnati a battere sulla tastiera  -  perlopiù touchscreen. Immagine consueta, ma ho sorriso, pensando a quanto la dissociazione spaziale sia diffusa, soprattutto  -  ma non solo - fra i giovani.  Perché capita, sempre più spesso, di comunicare con altre persone lontane, lontanissime da noi. Parlare con amici, oppure dialogare, collaborare con colleghi e interlocutori professionali, collegati in video da altre città, in paesi, continenti.

Inutile stupirsi. Si fa la figura dei preistorici. Nostalgici di un'epoca che non c'è più. Senza contare che le tecnologie della connessione hanno agevolato e moltiplicato le possibilità di relazione. Perché hanno dilatato il nostro spazio cognitivo e operativo. Riducendo e, anzi, annullando la distanza temporale. In fondo, la globalizzazione si traduce e riproduce in stretching dello spazio, per citare Giddens. In altri termini, tutto ciò che avviene dovunque, nei luoghi più lontani, può avere un impatto immediato sulla nostra vita e, anzitutto, sulla nostra coscienza.  Per effetto della comunicazione e dei media. Mentre ciascuno di noi può inter-agire con luoghi e persone che sono "altrove". Sempre e dovunque.

In questo modo, d'altra parte, il senso della relazione con gli altri quasi si perde. Perché io non vedo i miei interlocutori. Sono empaticamente distinto e distante da loro. Così il "mio" spazio si allarga a dismisura e, dunque, svanisce. Diventa sfondo, scenario impersonale. Come avviene a tutti coloro che parlano con qualcuno al telefono, pardon, smartphone, mentre camminano per strada, oppure viaggiano  -  in treno o in autobus. O in auto. Armati di auricolari: non debbono neppure alzare la testa. Guardarsi attorno. Prestano solo attenzione  -  istintiva e inconsapevole  -  agli ostacoli del percorso. Per non schiantarsi addosso a un lampione o a una vetrina. Perché, in quei momenti, durante quelle comunicazioni, sono  -  siamo  -  altrove. Con la testa. Con la coscienza. Siamo incoscienti. Dissociati dal luogo e dal contesto.

Per questo mi divertiva osservare i miei giovani studenti, tutti lì, uno accanto all'altro, e tutti altrove. Lontano. Non c'era nulla di strano, ovviamente. Si tratta di una "routine". Di una pratica "normale". Anche se qualcosa di strano, in effetti, in quell'occasione c'era. Così, almeno, mi pareva. Perché, ciascuno di loro - concentrato e  "perduto" sul proprio tablet o smartphone  -  mostrava reazioni coerenti e sincroniche con gli altri. Smorfie, risolini, cenni del capo. Come se fossero in reciproca e diretta relazione. Così, per curiosità, mi sono intromesso. Ho interrotto la loro comunicazione. E i miei dubbi hanno trovato puntuale conferma. Gli studenti, infatti, dialogavano tra loro. Uno accanto all'altro, uno davanti all'altro, invece di parlarsi direttamente: messaggiavano. Si scambiavano messaggi in rete.
Vista la mia sorpresa, gli studenti mi hanno rassicurato. "Guardi che non stiamo parlando solo tra noi. Ma con molti altri amici, sparsi in Europa. In diverse città e università. Siamo su WhatsApp e chattiamo in un gruppo globale".

Così mi sento più tranquillo. Ho capito che le tecnologie ci permettono di dialogare, in ogni momento, con persone lontanissime, che stanno altrove, come se fossero accanto a noi. E, al tempo stesso, possono allontanare chi ci sta vicino, chi ci sta parlando, fino a renderlo invisibile, ai nostri occhi. Anche se è lì, a un passo. È la comunicazione globale, bellezza. Ci permette di stare sempre insieme e vicino agli altri, in ogni luogo. Ma, al tempo stesso, ci lascia soli. E fuori luogo.

© Riproduzione riservata
16 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2015/04/16/news/i_miei_studenti_che_si_guardano_senza_vedersi-112067948/?ref=HREC1-24


Titolo: ILVO DIAMANTI - Dobbiamo avere pietà di noi
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2015, 05:24:30 pm
Dobbiamo avere pietà di noi

Di ILVO DIAMANTI
20 aprile 2015
   
Oltre novecento persone morte in un barcone, in viaggio dalla Libia verso la Sicilia. Sparite in fondo al mare. Insieme ad altre migliaia, vittime di molti altri naufragi. Accomunate e travolte dalla stessa disperazione. Che spinge ad affrontare il mare "nemico" per sfuggire alla fame, alla miseria, alla violenza.

Oggi: alla guerra. Più che di "migrazione", si tratta di "fuga". Anche se noi percepiamo la "misura" della tragedia solo quando i numeri sono "smisurati". Salvo assuefarci anche ad essi. Ed è questo, come ho già scritto, che mi fa più paura. L'abitudine. La distanza da una tragedia che, invece, è a due passi da noi. La tentazione di "piegarla" e di "spiegarla" in chiave politica. Per guadagnare voti. Eppure le migrazioni sono un fenomeno ricorrente. Tanto più e soprattutto in fasi di cambiamento e di trasformazione violenta (in ogni senso), come questa. Allora, le popolazioni si "mobilitano", alla ricerca di nuove e diverse condizioni di vita.

È capitato a noi italiani, lo sappiamo bene. In passato, ma anche oggi. Soprattutto ai più giovani. D'altronde, due italiani su tre pensano che i loro figli, per fare carriera, se ne debbano andare all'estero (Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis). Come, puntualmente, avviene. Infatti, l'Italia è al quinto posto in Europa, come Paese di immigrazione. Dopo Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia. Ma  -  il fenomeno è meno noto  -  è al quarto posto come Paese di "emigrazione". Gli stranieri che vivono  -  e lavorano  -  in un Paese dell'Ue sono infatti soprattutto turchi, marocchini, rumeni e, appunto, italiani. In Germania, Svizzera e Francia, dunque, noi siamo come i marocchini e i turchi. Proprio per questo, peraltro, le paure sono, al proposito, comprensibili. La xenofobia, letteralmente: paura dello straniero, riflette l'impatto con un fenomeno nuovo. Che si è sviluppato in modo rapido e violento.

Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, gli stranieri in posizione regolare, alla fine del 2013, erano circa 5 milioni e 440 mila. Cioè, l'8% della popolazione. Con un aumento rispetto all'anno precedente di circa il 4%. In confronto al 2004, quando gli immigrati erano meno di 2 milioni, significa un aumento di quasi tre volte. E di 4, rispetto al 2001. Il nostro paesaggio sociale e demografico, dunque, è cambiato profondamente e molto in fretta. Difficile che questo avvenga senza fratture, senza reazioni. Tuttavia, nonostante tutto, la società italiana si è adattata. Per necessità, ovviamente, visto che gli occupati stranieri sono 2,4 milioni, oltre il 10% del totale, mentre nel 2001 erano solo il 3,2%. Ma anche perché ha cominciato ad abituarsi alle diversità, alle differenze etniche e culturali. Come altrove si sono abituati a noi, in passato.

Anche se la recente Indagine dell'Osservatorio sulla sicurezza in Europa (febbraio 2015), condotta da Demos (insieme all'Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis), rileva un deterioramento degli atteggiamenti verso i migranti, in Italia. Più di un italiano su tre percepisce, infatti, gli immigrati come un "pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone" (33%). Tuttavia, occorre rammentare che, fra il 2007 e il 2009, questo indice aveva proporzioni ben diverse: fra il 45 e il 50%. Da allora l'immigrazione non ha smesso di crescere. Ma è cambiato l'approccio. Da parte della società, anzitutto. Perché, come si è detto, ci siamo abituati agli "altri intorno a noi". E abbiamo cominciato, per questo, a percepirli come "altri noi". Così, la diffidenza ha cominciato a declinare.

Per altro verso, è cambiata la narrazione del fenomeno da parte dei media. Come ha sottolineato l'Osservatorio di Pavia, negli ultimi anni le notizie sull'immigrazione, sui notiziari di prima serata delle principali reti nazionali, continuano ad essere numerose: 1007 notizie nel 2013 e 901 nel 2014. Ma, soprattutto dopo la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013, i sopravvissuti al mare diventano "migranti" e non più "clandestini". E le ordinarie storie di intolleranza, raccontate in precedenza, lasciano il passo a storie di solidarietà, altrettanto ordinarie. Dai luoghi dei naufragi. Lo stesso avverrà, sicuramente, anche questa volta. Vale la pena di aggiungere, ancora, che l'immigrazione è vissuta come un problema anche altrove. In Europa.

L'immigrazione è, infatti, considerata una delle due principali emergenze dal 13% degli italiani (Pragma per l'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza in Europa), ma da quasi il 50% in Gran Bretagna e in Germania. D'altronde, da noi l'immigrazione è sempre più di "passaggio". Verso altri Paesi che offrono prospettive di lavoro migliori. Perché l'immigrazione, non dobbiamo dimenticarlo, può essere fonte di preoccupazione, ma è, comunque, un indice di sviluppo. Quando gli immigrati cominciano ad andarsene, come effettivamente avviene da qualche tempo, è perché il nostro mercato del lavoro non è più in grado di attrarli e di assorbirli. Tuttavia, ieri come oggi, in Italia come altrove, gli immigrati possono essere una risorsa politica. Soprattutto in tempo di campagna elettorale. Un argomento agitato da imprenditori politici della paura, per tradurre l'insicurezza  -  e le vittime degli scafisti  -  in voti. Il Front National, in Francia. Ukip di Farage, in Gran Bretagna. La Lega di Salvini, in Italia. Così diversi eppure così vicini. Nel segno dell'Anti-europeismo e della paura degli altri. Ma invocare blocchi navali e respingimenti, di fronte a tragedie immense, come quella avvenuta ieri nel mare di Sicilia, non è in-umano. È semplicemente ir-reale. Come se fosse possibile  -  oltre che giusto  -  fermare la fuga dalla guerra e dal terrore che ci assediano. A pochi chilometri da noi. Ma l'unico modo per fermare i disperati che, a migliaia, si dirigono verso le nostre coste  -  e, a migliaia, muoiono nel viaggio. Ostaggi di mercanti di morte. L'unico modo possibile per respingerli, per tenerli lontani da noi: è chiudere gli occhi. Fingere che non esistano. Rinunciare alla compassione verso gli altri. Non avere pietà di noi stessi.

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20 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/04/20/news/dobbiamo_avere_pieta_di_noi-112376687/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - E intanto avanza il premier Italicum
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 12:02:48 pm
E intanto avanza il premier Italicum

MAPPE.
Matteo Renzi sta cambiando non solo la legge elettorale, ma anche il modello di democrazia che contrassegna il nostro Paese
 
Di ILVO DIAMANTI
27 aprile 2015

MATTEO Renzi sta cambiando non solo la legge elettorale, ma anche il modello di democrazia che contrassegna il nostro Paese. Si tratta, in fondo, di un'osservazione scontata, perché il sistema elettorale è il "primo principio" della democrazia rappresentativa. Attraverso cui i cittadini partecipano alla scelta delle assemblee parlamentari e, quindi, del governo.

L’Italicum, però, delinea, al tempo stesso, una modifica della "forma di governo", perché conduce e induce all'elezione diretta del Presidente del Consiglio. E, insieme, al rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a spese del legislativo. Di fatto, anche se non formalmente. Lo ha chiarito, in Commissione Affari costituzionali, alla Camera, Roberto D'Alimonte. Autore della versione originaria dell'Italicum.

E l'ha ribadito ieri, sul Sole 24 ore: capo del governo e maggioranza parlamentare saranno decisi direttamente dai cittadini.

D'altronde, se, con le nuove regole, le elezioni garantiranno la maggioranza assoluta non a una coalizione ma a un partito, risulta evidente come il leader del partito vincitore diverrebbe automaticamente "premier". E disporrebbe di una maggioranza "fedele", visto che i capilista di circoscrizione, come prevede l'Italicum, sono pre-definiti. Bloccati. E, dunque, scelmente, ti dal "centro". Non si tratta, peraltro, di una novità, perché, da quasi 15 anni, i candidati premier vengono indicati nelle stesse schede elettorali. Insieme e accanto al nome del partito. O della lista. Giovanni Sartori, non per caso, ne ha sempre denunciato l'in-costituzionalità. Perché si tratta di un metodo attraverso il quale si modifica la base "parlamentare" della nostra democrazia. Naturalmente, come hanno chiarito alcuni autorevoli giuristi (Barbera, Ceccanti, Clementi), l'Italicum non prevede cambiamenti sul piano "costituzionale". Ma ne produrrà, sicuramente, sul piano "istituzionale" e politico. Perché il potere legislativo, la fiducia al governo e al premier spetterebbero ancora al Parlamento. Tuttavia, a differenza del passato, anche recente, il leader del partito vincitore non solo diverrebbe, automatica- premier. Ma non dovrebbe più sottostare ai vincoli e ai condizionamenti di coalizioni instabili e frammentate. Di leader di piccoli partiti, ma con un grande potere di "ricatto". Si tratti di Mastella, Bertinotti. Di Rifondazione, dell'Udeur oppure della Lega.

È, dunque, lecito parlare di "premierizzazione". Una tendenza che, nel caso dell'Italia del nostro tempo, verrebbe accentuata dalla marcata personalizzazione dei partiti. Divenuti, ormai da tempo, "personali" (per citare la nota formula coniata da Mauro Calise). Tanto più nel caso del Partito democratico di Renzi, sempre più identificato e accentrato nella persona del Capo. Almeno quanto Forza Italia lo è nei confronti di Silvio Berlusconi. Con una differenza sostanziale, sul piano politico e parlamentare. Che, come si è detto, se il Pd vincesse le prossime elezioni, Renzi potrebbe governare senza il condizionamento degli alleati, con i quali, invece, Berlusconi ha sempre dovuto fare i conti.

Naturalmente, il Pd non è Forza Italia. Non è stato "creato" e modellato da "un" solo leader  -  da solo. Il Pd viene da lontano. Incrocio e confluenza dei partiti di massa che hanno segnato la storia e la politica della nostra Repubblica, per cinquant'anni e oltre. Tuttavia, il Pd, in questa fase, è cambiato profondamente, in tempi molto rapidi. E oggi coincide sempre più con la figura del leader. Dunque, del premier. È divenuto PdR (come ho scritto altre volte). Il Partito democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In quanto il leader si sovrappone  -  in senso letterale: si "pone sopra"  -  al Pd. In modo aperto. In Parlamento e fuori. Come sottolinea la sostituzione, in Commissione Affari Costituzionali della Camera, di tutti gli esponenti della minoranza interna al Pd. Un orientamento confermato in occasione della festa nazionale dell'Unità di Bologna, capitale storica dell'Italia Rossa. Dove non sono stati invitati, fra gli altri, Gianni Cuperlo (poi, sembra, "recuperato") e, soprattutto, Pier Luigi Bersani. Una biografia politica trascorsa nella famiglia del Pci e dei partiti post-comunisti. In Emilia Romagna. Dov'è stato governatore (fra il 1993 e il 1996). Un segno esplicito e perfino sfrontato di sopravvento sul passato. Tanto più perché l'Unità, il giornale a cui si ispira la Festa, è la testata storica del Pci. Bandiera della tradizione e della militanza comunista. Oggi "sottomessa" simbolicamente, e non solo, dal (e al) PdR. Matteo Renzi, peraltro, accompagna questo percorso accentuando lo stile e il linguaggio del "leader che fa e decide". E viceversa: "decide e fa". Così, nei giorni scorsi, ha dichiarato che "se l'Italicum non passa, il governo cade". Detto senza enfasi. Non una minaccia, ma, piuttosto, un annuncio. Quasi una constatazione. Perché "se il governo, nato per fare le cose, viene messo sotto, allora vuol dire che i parlamentari dicono: andate a casa". E, dunque, suggerisce Renzi, implicitamente: "vi manderò a casa". Tutti.

Se si guarda "oltre" l'Italicum, dunque, dentro alla riforma elettorale si scorge l'elezione diretta del premier. Il quale riassumerebbe e concentrerebbe ruolo e poteri del leader del partito. A conferma di una tendenza in atto da tempo, ma che ora verrebbe istituzionalizzata. Per Matteo Renzi si tratterebbe della conclusione  -  coerente e conseguente  -  del percorso condotto nell'ultimo anno e mezzo. Durante il quale ha governato in "solitudine". Il PdR e l'Italia. Renzi, dunque, si appresta a diventare il Premier Italicum.

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27 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/27/news/e_intanto_avanza_il_premier_italicum-112929514/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Con l'emergenza lavoro 6 su 10 ora sono precari.
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 12:41:15 pm
Con l'emergenza lavoro 6 su 10 ora sono precari. I disoccupati bocciano la ricetta del Jobs Act
Mappe.
Per metà del campione la riforma chiave di Renzi non avrà effetti. Cresce la quota dei senza-impiego.
La ricorrenza del Primo Maggio segnata dall’inquietudine per il diritto all’occupazione negato. E dalla diffidenza verso i sindacati.
Il primo scudo anti-crisi resta la famiglia

Di ILVO DIAMANTI
01 maggio 2015
   
OGGI, Primo Maggio, è la Festa del Lavoro e dei lavoratori. Un rito di passaggio, con un mese d'anticipo, verso la Festa della "nostra" Repubblica. Fondata sul lavoro  -  come recita l'articolo 1 della Costituzione. Per questo è difficile vivere questo giorno di festa senza inquietudine. Secondo le stime dell'Istat, infatti, in Italia il tasso di disoccupazione è risalito oltre il 13%. In valori assoluti: 3 milioni e 300mila persone senza lavoro. Ma fra i giovani, la disoccupazione è del 43%. Coinvolge, cioè, quasi un giovane su due. Se il lavoro rende liberi, dunque, in Italia il senso di libertà (dal bisogno, ma non solo) appare molto relativo. Nonostante le riforme approvate dal Governo. Infatti, secondo il sondaggio realizzato nei giorni scorsi dall'Osservatorio Demos-Coop, sia il Jobs Act, sia la revisione dell'art. 18 sono guardati con diffidenza dai cittadini. Non tanto perché vengano ritenuti negativi, ma perché, semplicemente, sono considerati inutili e improduttivi. Metà della popolazione pensa, cioè, che questi provvedimenti non produrranno "nessun effetto". E che, di conseguenza, non cambierà praticamente nulla. I più convinti, al proposito, appaiono proprio i "senza lavoro". I disoccupati. Quelli che più degli altri sono interessati da iniziative che favoriscano la crescita e il dinamismo del mercato del lavoro.



Peraltro, gli italiani non sembrano avere ancora percepito la ripresa, annunciata da tempo. Comunque, non sembrano crederci davvero. Con qualche ragionevole ragione, se  -  come emerge dal sondaggio  -  in metà delle famiglie c'è qualcuno che, nell'ultimo anno, ha perso il lavoro oppure l'ha cercato inutilmente o, ancora, è stato messo in cassa integrazione. Poco più di quanto avevamo rilevato nell'indagine di due anni fa. Ma, appunto, poco-più, non poco- meno. Nello stesso periodo, inoltre, è cresciuta di 4 punti la quota di persone (intervistate da Demos-Coop) che affermano di non aver mai lavorato, nell'ultimo anno. Ora sono il 47%. Quasi metà del campione. Anche se occorre tener conto che nella popolazione intervistata sono compresi i pensionati e gli anziani, non considerati dalle statistiche ufficiali. Ma il distacco dal lavoro  -  come attività e come pratica "regolare"  -  risulta, comunque, largo. E crescente.
Così, non sorprende che quasi 6 italiani su 10 non mostrino alcuna fiducia nel futuro. E che questo atteggiamento divenga particolarmente esteso  -  e quasi "doloroso"  -  tra coloro che hanno familiari "senza lavoro".

Il lavoro degli italiani, comunque, appare a tutti, anche agli occupati, "spezzato". Una condizione tradotta e narrata con termini diversi. Il 18% degli intervistati definisce il proprio lavoro: "flessibile". Il 12%: "temporaneo". Il 27%: "precario". Di conseguenza, solo il 41% si sente (al) "sicuro". E, tra i più giovani (15-34 anni), questa componente è ancor più ristretta. Si riduce a meno di un terzo (32%). Non si tratta di una grande scoperta, mi rendo conto. Da tempo sappiamo bene di vivere in una società "insicura". Dove il primo elemento di in-sicurezza è il "fondamento della nostra Repubblica". Il lavoro. Lo sappiamo bene e lo sanno bene, soprattutto, i più giovani. Eppure non ne sembrano particolarmente contenti. Semmai: rassegnati. Come la maggioranza degli italiani.
Non per caso, si assiste a una rivalutazione delle professioni "stabili", alle dipendenze di grandi imprese oppure nell'impiego pubblico. Insieme, oggi raccolgono la preferenza di metà degli italiani (con un incremento di 10 punti, rispetto al 2009). Mentre, nello stesso arco di tempo, hanno perduto appeal il lavoro autonomo e le professioni libere. A differenza di pochi anni fa, dunque, l'Italia, dunque, non sembra più un Paese dove tutti, per sé e i propri figli, ambiscono a un futuro da imprenditori, artigiani o da liberi professionisti. Cercano, piuttosto, un lavoro, toutcourt. Un lavoro che duri.

Parallelamente, sono cambiati, in modo profondo, i requisiti del lavoro "desiderato". Poco più di dieci anni fa, prima della crisi, la maggioranza degli italiani cercava nel lavoro la "soddisfazione" e un buon clima di relazioni. Considerava, cioè, il lavoro come fonte di auto-realizzazione e di affermazione. Oggi, invece, contano soprattutto la "sicurezza", la "continuità". E poi il reddito, lo stipendio. Il lavoro è, anzitutto, necessità e stabilità.

D'altronde, l'ho già detto e non certo per primo, viviamo nell'età dell'incertezza. E nei tempi incerti, di fronte alle difficoltà economiche e del lavoro, di fronte ai problemi e all'inquietudine che annebbiano il futuro, le persone limitano e accorciano il loro orizzonte. Non solo nel tempo. Anche nel contesto  -  sociale e territoriale. Così, oggi gli italiani cercano ancore e appigli intorno a sé. E per sopportare i rischi del "lavoro spezzato", per tutelare i lavoratori, non si affidano né allo Stato né agli enti locali. Neppure ai partiti  -  di destra, centro, sinistra: non fa differenza. Qualcuno, semmai, guarda ai sindacati. Ma sono pochi: meno di 2 su 10. Il primo guscio, il primo rifugio, per oltre un terzo degli italiani, resta  -  non occorre neppure dirlo  -  la famiglia.

Per questo oggi, Primo Maggio, si celebra il valore del Lavoro e dei Lavoratori. Ma, nel nostro Paese, anche della Famiglia. Per un legame stretto e, quasi, meccanico. Perché l'Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro. E sulla Famiglia.

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01 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/05/01/news/con_l_emergenza_lavoro_6_su_10_ora_sono_precari_i_disoccupati_bocciano_la_ricetta_del_jobs_act-113277097/?ref=HREC1-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - Scuola, la rivincita dei Buoni Maestri adesso insegnare dà ...
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2015, 11:56:37 pm
Scuola, la rivincita dei Buoni Maestri adesso insegnare dà prestigio
Sei italiani su dieci riconoscono un crescente valore sociale ai docenti, ritenuti di questi tempi un autentico punto di riferimento. Anche per questo il governo non può non dialogare con loro

Di ILVO DIAMANTI
   
QUESTA volta Matteo Renzi è stato meno perentorio che in altre occasioni. Di fronte alle manifestazioni contro la riforma della scuola, presentata dal governo, ha preferito mantenere distinto il giudizio sugli attori della protesta dei giorni scorsi. Gli insegnanti, gli studenti. E i sindacati. Per dividerli. Per confermare la sua distanza dal sindacato. Con il quale non intende cambiare registro. Era e resta "l'altra parte". Il passato. Come i "vecchi" partiti, come le "vecchie" istituzioni. Ma gli studenti e gli insegnanti: no. Perché la scuola è un riferimento centrale. Per i giovani. Per le famiglie. Per la società. Oltre metà dei cittadini, il 53%, continua, infatti, a esprimere fiducia nella scuola (Demos, Gli Italiani e lo Stato, Dicembre 2014).

LE TABELLE
Mentre circa il 60% si dice soddisfatto del funzionamento delle scuole, di diverso tipo e livello. In primo luogo di quelle elementari, quindi dell'università e, in misura più limitata, delle medie. Più di 6 persone su 10, inoltre, manifestano fiducia nei confronti degli insegnanti. Pubblici (Osservatorio Demos Coop per la Repubblica delle Idee, ottobre 2014). Perché la differenza tra istruzione pubblica e privata, negli orientamenti dei cittadini, appare elevata. A vantaggio del pubblico. Così il premier si dice disposto a negoziare. "Perché la scuola non è dei sindacati ma degli studenti e del loro futuro". E, ovviamente, dei docenti, che, quotidianamente, sono a contatto con gli studenti e con le loro famiglie. Anche per questo Renzi ha mostrato maggiore apertura al dialogo, che in altre occasioni. Dopo aver promosso una consultazione online molto frequentata. Mentre con altre categorie, con i magistrati in particolare, i rapporti appaiono meno distesi. Anzi molto più tesi. E polemici.

Il fatto è che il divario tra "investimento pubblico" e "rendimento sociale", nel caso della scuola, è particolarmente elevato. E Renzi sa bene che per costruire una "buona scuola" occorrono risorse. Molto più ampie di quelle attuali. E di quelle previste dalla riforma. L'Italia, infatti, impiega il 4,2% del proprio Pil nell'istruzione pubblica. In Europa è 23esima. E investe nella ricerca l'1% del Pil. Metà rispetto all'Unione Europea. Tuttavia, questa è già una Buona Scuola. Nonostante tutto. Un caso esemplare di "investimento dissipativo". Perché ha buoni insegnanti. Coltiva buoni studenti, che diventano buoni diplomati, laureati. Buoni ricercatori  -  "ricercati" dovunque. E, infatti, li trovi dovunque. Nelle università, nelle imprese, nei centri studi di tutto il mondo. Se ne vanno dall'Italia e spesso non rientrano.

D'altronde, oltre due terzi degli italiani (Demos-Coop, aprile 2015) ritengono che i giovani, in futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai loro genitori. Di conseguenza, il 70% si dice convinto che per fare carriera sia necessario andare all'estero. Si spiega così la frustrazione degli insegnanti. Che si sentono s-valutati, nonostante la loro valutazione, sul piano sociale, sia molto positiva. Oggi, infatti, circa 6 persone su 10 considerano elevato il prestigio professionale dei maestri elementari e dei professori delle scuole medie e superiori. E oltre 7 italiani su 10 esprimono la stessa opinione riguardo ai professori universitari. Occorre aggiungere che la crisi, negli ultimi anni, ha incrementato il valore sociale di tutte le professioni. In altri termini: del lavoro in sé. Ma non nella misura registrata dai docenti: 15-20 punti in più, rispetto al 2007. Mentre, nello stesso periodo, il prestigio dei medici è cresciuto di 8 punti, quello degli imprenditori di 5. E quello dei magistrati di 2. Questa tendenza è stata, probabilmente, alimentata dal dibattito sulla riforma della scuola.

Ma anche, vorrei dire: soprattutto, dal forte deficit di riferimenti. Nell'ambito delle istituzioni, nella società. Nel lavoro e nella vita quotidiana. La considerazione nei confronti degli insegnanti  -  e della scuola  -  si è allargata, più che in passato, perché oggi si percepisce un diffuso disorientamento sociale. Un senso di "vuoto" che, più ancora di prima, spinge a cercare "chiodi" a cui attaccarsi. Il prestigio sociale degli insegnanti, la soddisfazione nei confronti della scuola  -  pubblica  -  riflettono, dunque, un sentimento di fiducia che  -  per usare un sinonimo  -  è anche "confidenza". Si rafforza, cioè, attraverso i legami e le relazioni sociali. Un giorno dopo l'altro. Come la (e insieme alla) "famiglia".

Così si spiega la disponibilità al dialogo con gli insegnanti. (Peraltro, particolare non trascurabile, elettori tradizionalmente vicini al centro-sinistra.) Tuttavia, non è detto che, alla fine, non prevalga, anche stavolta, la figura del Premier ipercinetico, che fa-quel-che-dice. Ma questa volta entrerebbe in contraddizione con lo Storytelling dell'innovazione, narrato fino ad oggi. Perché la nostra scuola è l'emblema di un Paese che esporta le sue competenze e i suoi giovani. L'Italia: è un Paese sempre più vecchio, dal quale i giovani più preparati, appena possono, fuggono. E non ritornano. Per questo, una "buona scuola" è importante. Ma perché costruirla "contro" i suoi protagonisti? Contro gli studenti? E contro gli insegnanti?

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07 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/07/news/scuola_la_rivincita_dei_buoni_maestri_adesso_insegnare_da_prestigio-113724611/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Salvini-Le Pen, relazioni pericolose
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 09:36:38 am
Mappe: Salvini-Le Pen, relazioni pericolose di ILVO DIAMANTI
18 maggio 2015

MATTEO Salvini continua il suo viaggio attraverso le province d'Italia. Da Nord verso Sud. Inseguito, dovunque, dalle proteste dei Centri sociali. Così rafforza la costruzione della nuova identità leghista.

Nazionale e di Destra. Nello stesso periodo, si è consumata la frattura nella "famiglia reale dell'estrema destra francese ", come l'ha definita Bernardo Valli. Marine Le Pen, attuale leader del Front National, ha sospeso dal partito il padre -  e fondatore -  Jean-Marie. Il quale l'ha ripudiata come figlia. Un conflitto politico, e familiare, che riflette il tentativo di "normalizzare" l'immagine del FN.

È il tracciato dei percorsi incrociati di Marine Le Pen e Matteo Salvini. Partiti da posizioni -  politiche, simboliche e strategiche -  distanti, per alcuni versi opposte, tendono ad avvicinarsi. Nell'intento di conquistare nuovi spazi politici. Con esiti ancora difficili da verificare.

Marine Le Pen ha ereditato la leadership del FN dal padre. Non è raro, nei partiti populisti, che il "comando" si trasmetta per via familiare. Ma, rispetto al padre, ha riposizionato il partito. Il conflitto "familiare" in atto non sembra, infatti, un semplice gioco delle parti, per allargare i consensi. Al di là degli indubbi elementi di continuità con la tradizione, Marine Le Pen ha "nazionalizzato" l'immagine del partito in senso "popolare" (e populista). E, dunque, anti-europeo. Prima, invece, la "nazione" era utilizzata come simbolo di un'identità "sostanziale" ed esclusiva. Perché il FN è sempre stato "solo". Inavvicinabile per ogni altra forza politica di destra. Oltre che di sinistra. Non per caso, alle presidenziali del 2002, quando Le Pen (padre) andò al ballottaggio (per la frammentazione del voto di sinistra), Jacques Chirac, candidato neo-gollista, venne eletto con oltre l'82% dei voti. Grazie al sostegno massiccio degli elettori di sinistra e di centro, oltre che dei propri. Con una partecipazione elettorale superiore al primo turno.

Marine Le Pen ha cercato di ridimensionare l'isolamento del partito, contraddicendo, in particolare, il tradizionale discorso antisemita -  principale motivo di rottura con il padre. Ha, invece, accentuato il discorso securitario della proposta politica. In particolare, ha amplificato le paure degli stranieri -  e dell'Islam. Drammatizzati dal sanguinoso attacco a Charlie Hebdo. Infine, ha riassunto i temi sociali e il nazionalismo nell'opposizione all'Europa dell'Euro. Una recente indagine, condotta da Ipsos e Sciences Po per Le Monde (e diretta da Pascal Perrineau), osserva il radicamento di queste idee nella società francese, sottolineato dalla crescita elettorale del FN.

La Lega, invece, nella fase di maggiore crescita (1995-2010), si è proposta come un partito "estremista di centro" (vista la posizione politica dichiarata dalla maggioranza dei suoi elettori). Federalista. E governativo. Perché Berlusconi l'ha coinvolta, nei suoi governi, dal 1994 e fino al 2011. Inoltre, si è imposta come partito di governo a livello locale. E regionale. Nelle regioni del Nord ma anche nel Centro. È divenuto il sindacato del (Centro) Nord a Roma. In questo modo ha avvicinato e, talora, superato il 10% dei voti (alle politiche del 1996 e alle europee del 2009). Fino agli scandali "familiari" (anche nella Lega i parenti contano...) che, nel 2012, hanno coinvolto il leader-fondatore, Umberto Bossi. Matteo Salvini, eletto segretario nel dicembre 2013, ha rilanciato il partito in tempi relativamente brevi. Da un lato, ha sfruttato la crisi del Pdl -  "logorato" dal "logoramento" di Silvio Berlusconi. Dall'altro, ha riproposto, con successo, il ruolo dell'Imprenditore politico della Paura. Ha, dunque, ripreso, con violenza, la campagna contro gli immigrati. E, al tempo stesso, contro l'Unione europea. E contro l'euro. Salvini ha, quindi, "lepenizzato" la Lega, proiettandola oltre il Nord Ha, così, delineato una Ligue Nationale, nel solco della nuova Destra (anti) europea. Una scelta marcata dall’alleanza -  esplicita -  con Casa Pound. I dati dei sondaggi, fino ad oggi, gli hanno dato ragione, spingendola oltre il 13%. In attesa delle prossime elezioni regionali che, almeno in Veneto, dovrebbero premiare il suo candidato. Il governatore uscente, Luca Zaia. Tuttavia, per entrambi i partiti ed entrambi i leader, le prospettive di questa via nazional - (anti) europea della Destra restano incerte. Per ragioni, in parte, opposte.

Il FN di Marine Le Pen (come ha osservato Jean-Yves Camus su Le Monde) mira a guidare lo Stato. Il padre non ci aveva mai pensato. E ha sempre agito per massimizzare la sua rendita di op-posizione. Ora, però, le idee del FN (di Marine Le Pen) hanno attecchito. Ma quasi l'80% dei francesi continua a considerare il FN di estrema destra, mentre il 60% lo ritiene "pericoloso per la democrazia", come mostra il sondaggio Ipsos-Sciences Po. Così, al momento del voto, il FN ha ottenuto un buon risultato, ma è stato largamente superato dal Centro-destra repubblicano, trainato dal ritorno di Sarkozy. Perché, fra gli elettori francesi, le paure e i valori promossi dal FN sono largamente condivisi. Ma riesce ancora difficile accettarlo come forza di governo.

In Italia, invece, la Lega di Salvini deve affrontare un problema molto diverso, ma dagli esiti simili. La sua marcia decisa verso destra e centrosud, infatti, ha sollevato da una catena di proteste, che danno ulteriore enfasi alla svolta di Salvini. Un "provocatore di talento", come l'ha definito ieri Francesco Merlo. Tuttavia, resta difficile immaginare che la Lega Padana possa sfondare nel Sud. E la Ligue Nationale nel Nord. Mentre non si comprende come la nuova Destra di Salvini possa tornare al governo, senza il sostegno di Berlusconi, ora marginale. E come possa, dopo il sostegno di Casa Pound, essere "sopportata" a lungo dal FN di Marine Le Pen, impegnata a uscire dal ghetto dell'estrema destra.

L'unione tra FN e LN (nationale), dunque, potrebbe delineare una "relazione pericolosa", anche per i due partiti coinvolti. Con l'esito, contraddittorio, di rafforzarli sul piano elettorale ma, al tempo stesso, di allontanarli dal governo. Costringendoli a interpretare la protesta. Contro i governi nazionali e contro l'Europa dell'euro. Considerata "necessaria", nonostante tutto, dalla maggioranza dei francesi e degli italiani. Così, l'Unione di Front et Ligue Nationale rischia di apparire, agli elettori, uno strumento di "lotta", ma non "di governo". Una prospettiva, forse, accettabile per la Ligue di Salvini, intento a occupare lo spazio di destra. A ogni costo. Ma intollerabile per il FN di Marine Le Pen, che conta di ottenere un risultato importante alle prossime presidenziali.

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18 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/18/news/salvini-le_pen_relazioni_pericolose-114611950/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Lega-forzismo che soffia a destra
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2015, 12:00:55 pm
Il Lega-forzismo che soffia a destra
Mappe.
Rovesciati per la prima volta i rapporti di forza tra Salvini e Berlusconi.
Ma per imporsi davvero al leader padano manca un traguardo ancora lontano: fare breccia nel Sud

Di ILVO DIAMANTI
02 giugno 2015

Non è semplice e neppure scontato leggere in chiave politica nazionale quest'elezione regionale. Anche perché si è svolta in sette Regioni. Meno di metà di quelle a statuto ordinario. Eppure è inevitabile. In Italia ogni elezione diventa un test sulla salute del governo e dell'opposizione. Tanto più in questa occasione, un anno dopo le elezioni europee che avevano sancito il successo di Renzi e del suo partito. Il Pd di Renzi. Il PdR. Difficile, dunque, non usare questo voto per misurare, appunto, il consenso verso Renzi e il PdR. Ma anche e anzitutto per capire cosa sia avvenuto, cosa stia capitando: dopo Berlusconi. Non solo a Renzi. Ma soprattutto al Centro-Destra. Dove, dalla fine del 2013, il declino di Silvio Berlusconi è stato accompagnato, in parte compensato, dalla "nuova" Lega di Matteo Salvini. Il leader che ha sicuramente innovato l'immagine e l'identità del partito. Rilanciandolo. Sui media.

Lo ha chiarito bene anche il voto regionale di domenica. In modo particolarmente chiaro. La Lega di Salvini. Unico partito ad aver davvero guadagnato consensi, negli ultimi 2 anni. Come ha rilevato una puntuale analisi dell'Istituto Cattaneo di Bologna (condotta da Gianluca Passarelli e Filippo Tronconi). Lo stesso M5s ha, infatti, perduto oltre metà dei voti, rispetto alle elezioni politiche del 2013 (in valori assoluti: quasi 2 milioni). E 4 su 10 rispetto alle elezioni europee del 2014. Al contrario, la Lega di Salvini ha più che raddoppiato i voti ottenuti nel 2013 e li ha aumentati del 50% rispetto alle europee di un anno fa. Se consideriamo le sette Regioni al voto, la Lega è, infatti, salita dal 2,9% nel 2013 al 5% nel 2014, per sfiorare il 15% alle elezioni regionali di domenica scorsa. Che, tuttavia, diventa il 18%, se si esclude la Campania, dove non era presente.

Va chiarito che queste stime considerano anche il risultato ottenuto dalle liste personali. In questo caso e soprattutto, dalla Lista Zaia. Il governatore del Veneto, rieletto con una sorta di plebiscito. Questa evoluzione, meglio, questa risalita improvvisa, ha prodotto conseguenze politiche difficili da prevedere. Ma destinate, anzitutto, a modificare le strategie e le relazioni nel Centrodestra. Come si è già detto: la Lega di Salvini è già "oltre" Berlusconi. L'ha superato decisamente, in termini di voti assoluti e in percentuale. Oggi, infatti, nelle Regioni dove si è votato, Forza Italia è indietro, di un punto, rispetto alla Lega. Un anno fa i rapporti di forza erano nettamente diversi. Visto che FI superava il 17%. Tre volte più della Lega, quindi. Naturalmente, il crollo di FI è stato, almeno in parte, rallentato e compensato dall'elezione di Giovanni Toti in Liguria. Dove, però, FI ha ottenuto circa il 13%. E dunque poco più della metà dei voti della Lega (20%). Nonostante il ruolo trainante del governatore eletto. Ma la Lega ha superato FI quasi dovunque. Nel Centro-Nord. Nelle Marche, in Toscana, in Umbria. Oltre che, ovviamente, in Veneto. Dove ha superato il 40%, insieme alla Lista Zaia. Che da sola ha intercettato il 23%. Mentre FI si è "fermata" (letteralmente) al 6%.

Da ciò la tentazione di ri-definire questo bacino elettorale, particolarmente ampio nel Lombardo-Veneto. "Padano" e, al tempo stesso, anticentralista. Meglio: antistatalista. In coabitazione e transizione continua fra Lega e Forza Italia. Edmondo Berselli l'aveva denominato, con il suo linguaggio suggestivo, "forza-leghismo". Ma oggi, visti i diversi rapporti di forza tra i due elementi semantici e politici, è, forse, più utile rovesciare il binomio. Meglio chiamarlo, cioè, "Lega-forzismo". Matteo Salvini, non per caso, ha chiarito subito che si candida come "alternativa di governo". Come dimostra questo voto, è lui "il leader del Centrodestra". Un messaggio rivolto, anzitutto, a Berlusconi, che "sa leggere i numeri". Da ciò la sfida finale a Berlusconi e a Renzi. Perché Salvini si considera "oltre" Berlusconi. L'unico, vero avversario, l'unica vera alternativa a Renzi. E se si guardano i risultati delle elezioni di domenica, si tratta di una sfida fondata. Perché il bacino elettorale dei diversi candidati di Centro-destra supera il 40% dei voti validi. E risulterebbe, dunque, competitivo. Anche in ambito nazionale. Per questa ragione, d'altronde, Salvini ha innovato profondamente l'identità e l'offerta del suo partito. Ha spostato, apertamente e decisamente, il partito oltre la Padania. Ha, cioè, messo fra parentesi il linguaggio autonomista e, tanto più, secessionista. Per contro, ha accentuato i messaggi e le rivendicazioni (non solo verbali) contro la "minaccia" globale. Contro gli stranieri, che sbarcano sulle nostre coste. Contro l'Unione e la moneta europea.

Salvini, come si è già detto in altre, precedenti occasioni, ha "lepenizzato" la Lega. L'ha spinta sulla via della Destra (anti) europea. E lo ha ribadito, attraverso l'alleanza (esclusiva) con i Fratelli d'Italia. In Toscana e nelle Marche. Questo percorso ha pagato, fino ad oggi. Ma lascia aperte alcune incognite. Alcuni problemi. Il primo riguarda la capacità effettiva di conquistare anche il Sud. Comunque, di radicarsi oltre la Padania -  e le regioni rosse. Dove è penetrata da tempo. D'altronde, la Lega ha una parentela stretta con i partiti della Sinistra storica. Per modello organizzativo, radicamento locale, nelle classi popolari e nei ceti medi autonomi. Tuttavia, la "marcia nel Sud" sembra ancora difficile e lunga. Oltre che in Campania, dove ha rinunciato a presentarsi, la Lega ha ottenuto consensi limitati anche in Puglia (poco più del 2%). E nei comuni dove si è votato domenica (in attesa di conoscere i risultati del voto in Sicilia) è andato anche peggio. Per esempio, ad Andria: 2,6%, a Chieti: 2%. A Matera: 0,6%. Peraltro, il Centrodestra, come hanno sottolineato alcuni leader, diventa competitivo quando è "unito". Ma la proposta politica, insieme al linguaggio e allo stile comunicativo di Salvini, appare molto "esclusiva". E, dunque, difficilmente in grado di raccogliere e coalizzare soggetti ed elettori diversi. E moderati. Così il vento del Lega-forzismo soffia forte, verso destra. Ma non è detto che, così, possa raggiungere -  e conquistare -  Roma.

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02 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-regionali-edizione2015/2015/06/02/news/il_lega-forzismo_che_soffia_a_destra-115848653/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Marino onesto ma troppo debole, il 73 per cento oggi non lo...
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2015, 10:17:30 am
Marino onesto ma troppo debole, il 73 per cento oggi non lo voterebbe
Il caso Roma. Città delusa dopo l'inchiesta su Mafia Capitale Il sindaco paga anche il fatto che gli scandali sono avvenuti "a sua insaputa".
Il giudizio dei cittadini è negativo su disoccupazione, viabilità, immigrazione, buche, criminalità, gestione dei campi rom.
Positivo il voto su servizi sociali e cultura Un romano su due è contrario a sciogliere per mafia il Campidoglio, anche se 9 su 10 ritengono che la criminalità organizzata sia molto diffusa per colpa di tutti i partiti

di ILVO DIAMANTI
03 luglio 2015
 
Roma è una città delusa. Forse, disillusa. Perché le indagini del Ros e della Procura rivelano un grado di collusione fra malavita e politica ampio e desolante. Ma, in fondo, largamente pre-supposto dai cittadini. Così Marino e la sua giunta appaiono delegittimati. Difficilmente, oggi, verrebbero rieletti. Anche se il Sindaco, personalmente, viene ritenuto pulito. Irresponsabile. Ma ciò, in fondo, rischia di diventare una colpa. Guidare una nave che affonda nella palude. A sua insaputa. Non è una giustificazione, tanto meno un merito. Per il Capitano. Anche se, sulla piazza, non si vedono nocchieri capaci di emozionare.

Sono alcune, prime, immagini proposte da un sondaggio condotto negli scorsi giorni da Demos per "la Repubblica", presso un campione rappresentativo della popolazione romana. Per tracciare una mappa dell'opinione pubblica nella Capitale in questo momento particolare. Drammatizzata da scandali e rivelazioni continue, circa il peso delle organizzazioni e delle pratiche illegali. E del loro intreccio con le attività della politica e dell'amministrazione.

Quasi 9 romani su 10, secondo il sondaggio di Demos, ritengono la "mafia"  -  e il suo sistema  -  molto oppure abbastanza diffusi a Roma. Per colpa di (quasi) tutte le forze politiche (secondo l'80%). Mentre per il 15% il principale responsabile sarebbe il Centro-destra e per il 4% il Centro-sinistra.

Il Sindaco, Ignazio Marino, è ritenuto direttamente responsabile da poco più di un quarto dei cittadini. Una componente delimitata, quindi. Ma una quota di elettori analoga pensa che, anche se è estraneo al contesto mafioso, si dovrebbe dimettere. Quasi 4 romani su 10, infine, ritengono che Marino dovrebbe restare al suo posto. Perché " irresponsabile" della melma malavitosa che invade la città. Questo, però, sembra il vero problema dell'amministrazione e del Sindaco. L'irresponsabilità. Il fatto che questo sistema di corruzione e di illeciti sia cresciuto "a sua insaputa". Così, anche se la maggioranza lo ritiene "innocente", Marino appare "colpevole". Di "omesso governo" e controllo. D'altronde, quasi 7 elettori su 10 danno una valutazione negativa sul lavoro svolto dall'amministrazione. E il 73% dei romani oggi non lo voterebbe, in caso di nuove elezioni amministrative. La metà dei suoi stessi elettori del 2013 non gli confermerebbe il sostegno.

Il giudizio specifico sulle principali "politiche", peraltro, risulta negativo. In modo pesante, in alcuni casi: disoccupazione, manutenzione delle strade, viabilità, immigrazione, gestione campi Rom, criminalità. Mentre appare più positiva la valutazione sulla qualità dei servizi sociali e, soprattutto, culturali.

Tuttavia, i romani valutano con diffidenza l'ipotesi di sciogliere per mafia e di commissariare il Comune. (Circa il 50% è contrario, il 43% favorevole.) Le ragioni, al proposito, sono diverse.
La prima: Marino appare, come si è detto, un sindaco debole, ma non complice del sistema criminale emerso dalle inchieste dei magistrati.
Anche per questo una componente minoritaria, ma estesa, di cittadini, lo considera in grado di affrontare alcune delle prossime scadenze, particolarmente importanti per la Capitale. Il Giubileo e la candidatura come sede olimpica, nel 2024.
In secondo luogo: non si vedono, per ora, alternative autorevoli e consolidate. Solo Giorgia Meloni dispone di un grado di fiducia superiore a Marino. Ma non di molto: 35% a 30%. Le altre figure testate nel sondaggio di Demos, invece, stanno "sotto" all'attuale sindaco. Alessandro Di Battista, ma anche Alfio Marchini. Gianni Alemanno, infine, è lontano. Il passato. Compromesso con il Mondo di Mezzo... Il discorso non cambia  -  terza ragione  -  se si sposta l'attenzione dai candidati ai partiti. O, ancora, alle "parti" politiche. Perché la frammentazione, in questo caso, risulta particolarmente accentuata. Il M5s, intorno al 30%, è davanti a tutti. In vantaggio di poco rispetto al PD. Il Centro-destra è molto indietro. Come una possibile lista civica "indipendente".

Ovviamente, è poco plausibile fare stime di voto se non si sa quando si andrà al voto. Con quali candidati, coalizioni... Al di fuori della campagna elettorale. Ma i dati del sondaggio di Demos sono, comunque, utili a comprendere come oggi, almeno, non vi siano ancora alternative chiare rispetto a questo sindaco e alla sua attuale maggioranza. Perché Marino non sta sicuramente bene, ma il PD non sta meglio. E, in fondo, non sta bene neppure la città. Ro- ma Capitale. Che accetta di sentirsi "nominare", anche se in un'inchiesta giudiziaria, "Mafia Capitale". Peggio, molto peggio, di Roma Ladrona. Sopporta, cioè, una definizione che trasforma la criminalità e la corruzione da un male metropolitano profondo in una patologia. Peggio: in un sistema di "regolazione" della società, oltre che dei rapporti fra la politica e gli affari. Magari mi sbaglierò, ma non credo che questa sia la verità. Comunque "tutta" la verità. Anche se rischia di diventarlo. Perché l'immagine pubblica e mediale, quando, per interessi faziosi o per pigrizia culturale, non viene messa in discussione, si confonde con la realtà. E, alla fine, si sostituisce ad essa. Così Roma, per non diventare, irrimediabilmente e intimamente, "mafiosa", deve dissolvere il "mondo di mezzo". Anzitutto dal punto di vista "narrativo". Distinguendo, senza indulgenza e senza generalizzare. Tra i mafiosi e il "mondo per bene".

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03 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/03/news/marino_onesto_ma_troppo_debole_il_73_per_cento_oggi_non_lo_voterebbe-118207904/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Trasversale come la Dc, mai al governo: ecco chi vota M5S
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2015, 11:53:20 pm
Trasversale come la Dc, mai al governo: ecco chi vota M5S
La mappa. Il movimento di Grillo è il secondo partito, stabile al 27 per cento, ma solo meno di un terzo dei suoi elettori vuole che vada al potere. Spicca per interclassismo e trasversalità, è il primo partito fra i ceti medi pubblici e quelli privati, ma anche tra gli autonomi, i giovani e i disoccupati.
Il sondaggio Demos

Di ILVO DIAMANTI
13 luglio 2015
   
Il M5s continua a ottenere consensi molto larghi. Secondo i principali istituti demoscopici è il secondo partito, in Italia. Intorno al 26-27%. Molto vicino al PD. Tuttavia, insieme al successo crescono anche le difficoltà. Interne. Soprattutto di fronte alla prospettiva di governare. In Puglia, ad esempio, alla proposta di entrare in giunta, tre donne, elette nelle liste del M5s, hanno risposto, senza mezzi termini: "Mai con Emiliano il satanasso. Faremo una opposizione durissima". Ma vi sono altri motivi che scuotono il MoVimento. In particolare, il dibattito sull'immigrazione e sugli sbarchi. Contrappuntato da posizioni diverse e divise. Fra intransigenza e tolleranza. Il problema del M5s, d'altronde, coincide con la sua principale risorsa. La trasversalità. L'assenza di fratture "unificanti", interne ed esterne. Come l'anticomunismo, nella prima Repubblica. E l'antiberlusconismo, nella seconda. Nella post-democrazia dei nostri tempi, i muri ideologici sono crollati. E Renzi, oggi, divide. Ma anch'egli in modo trasversale. All'interno del suo partito, quasi più che verso l'esterno. Così, la principale frattura politica del nostro tempo è l'antipolitica. Che riflette la sfiducia degli elettori verso i partiti e gli uomini politici. Il principale canale di questo orientamento, oggi, è il M5s. Che, più di altri, interpreta lo spirito (in francese: l'esprit) della contro-democrazia. Concetto elaborato dallo storico Pierre Rosanvallon per definire la "democrazia della sorveglianza". Contro gli eccessi e contro la corruzione. Del potere, meglio, dei poteri e su chi li esercita. Non per caso il M5s, secondo il 31% degli elettori intervistati nel recente sondaggio dell'Atlante Politico di Demos (giugno 2015), è l'unico partito credibile nella lotta alla corruzione. Mentre, per esempio, il credito del PD, al proposito, si ferma all'11%, quello della Lega scende all'8%. E la fiducia verso FI, al proposito, scivola al 6%.

LE TABELLE

Più che di un partito, lo statuto, ispirato da Grillo e Casaleggio, parla, d'altronde, di un "non-partito". Ma forse sarebbe meglio definirlo un contro-partito. Attore protagonista della contro-democrazia. Senza ironia e senza intento denigratorio: è la Contro-Democrazia Cristiana dei nostri tempi. La CDC. Anche se, va chiarito subito, il M5s non può dirsi "cristiano". Perché è laico, privo di connotazioni confessionali. E, come preciseremo più avanti, è molto diverso dalla DC. Che, tuttavia, evoca. Per alcuni tratti specifici. Ben chiariti da una interessante analisi presentata da Fabio Bordignon e Luigi Ceccarini, a Firenze, al recente Convegno della SISE dedicato al voto regionale di maggio.

L'interclassismo, anzitutto. Il M5s, infatti, è il primo partito fra i ceti medi pubblici e privati, fra i lavoratori autonomi e gli imprenditori. Come la DC. A differenza della quale, però, esprime maggiore capacità di attrazione fra i giovani e gli studenti. Fra i disoccupati. Minore, invece, fra gli elettori anziani e le donne. Dunque, fra le casalinghe.

Poi la trasversalità politica. Un terzo dei suoi elettori si definisce, infatti, di centro-sinistra o di sinistra, oltre il 20% di centro-destra o di destra. Mentre una quota più ridotta (10%) si pone al "centro". Ma i "centristi puri", in Italia, hanno sempre costituito una componente limitata. Oltre un terzo degli elettori del M5s, invece, rifiuta lo spazio politico sinistra-destra. E si pone al di "fuori" e, quindi, "contro" di esso.

La base elettorale del M5s, di conseguenza, si sente contigua a partiti molto diversi (e dunque a nessuno, in particolare). Alla Lega di Salvini – antipolitica e di Destra – anzitutto (20%). Poi, all'opposto, alla sinistra radicale e a Sel (15%). Quindi, ma in minor misura, al PD (12%). Il cui elettorato, peraltro, risulta politicamente meno "trasversale".

Il M5s, quindi, appare un vero "partito pigliatutti" (per citare la nota formula di Otto Kircheimer, nella versione di Arturo Parisi). Per questa ragione, è costantemente in bilico fra diverse scelte, diverse opzioni. Politiche e di valore. Populista e popolare, a seconda dei casi – e delle convenienze. Intransigente e tollerante, al tempo stesso, verso gli immigrati. Ma anche verso i diritti dei gay. Ostile verso la UE e l'euro. Comunque, contrario ai privilegi dell'impiego pubblico. Deciso a "spianare" i campi Rom. E, invece, favorevole al reddito di cittadinanza. Quindi, ad allargare il Welfare. Insomma, la proposta politica del M5s presenta una miscela di elementi diversi. E contrastanti. Come gli elettori che rappresenta. E che lo "usano" con diversi fini e per diverse ragioni. Per questo, in passato, l'ho paragonato a un autobus, sul quale salgono con diversi obiettivi e diverse destinazioni. Passeggeri che pagano un biglietto e dopo un percorso, più o meno lungo, scendono. Mentre, nel frattempo, altri salgono. Così il M5s è "condannato" a cambiare continuamente strada. A fermarsi solo per un attimo. E poi ripartire. D'altronde, meno di un terzo dei suoi elettori vorrebbe che il M5s partecipasse a coalizioni di governo. In ambito locale e tanto più nazionale. La maggioranza di essi accetterebbe di allearsi solo in poche, specifiche occasioni. In funzione di alcuni obiettivi, particolarmente importanti. Mentre quasi un terzo della base del M5s rifiuta qualsiasi intesa. A priori. Da soli o all'opposizione. Per controllare e sorvegliare il potere, tendenzialmente corrotto e corruttore. Per questo il M5s è condannato a cambiare direzione di continuo. E a correre. Senza fermarsi mai. Speculare alla Democrazia Cristiana, che, era dovunque, sempre in movimento, eppure sempre ferma. Distesa sul territorio, nei luoghi del potere. Nazionale e locale. Dove, invece, il M5s agisce da contro-potere. È la contro-democrazia (cristiana).

La CDC - senza la C. impegnata a sorvegliare assai più che a governare. Contrassegna la nostra democrazia ibrida. Affollata di post-partiti, guidati da post-leader post-ideologici. Faticosamente intenti a personalizzare una politica senza personalità. In questo tempo senza politica.

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13 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/13/news/trasversale_come_la_dc_mai_al_governo_ecco_chi_vota_m5s-118948987/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Matteo Renzi prosegue la sua corsa solitaria.
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 12:05:59 pm
La post-democrazia fondata sul premier
Le mappe.
Contro il sindacato, contro i sindaci. Matteo Renzi prosegue la sua corsa solitaria.
Un intento non solo politico ma di strategia istituzionale

Di ILVO DIAMANTI
03 agosto 2015

Il Premier Matteo Renzi prosegue nella sua marcia solitaria. Un giorno dopo l'altro, una parola dopo l'altra, disegna una democrazia personale e immediata. Centrata sulla sua persona. Refrattaria alle "mediazioni". Diffidente verso i "mediatori". Si tratti di organizzazioni, associazioni o di soggetti istituzionali. Così, in pochi giorni, è intervenuto "direttamente" contro i sindaci e, prima ancora, contro il sindacato. Colpevoli, entrambi, di ostacolare, in modo diverso, il turismo e, quindi, l'economia italiana. Il sindacato. Con le iniziative che hanno reso difficile l'ingresso agli scavi di Pompei. E con lo sciopero dei piloti Alitalia, che ha generato disagio ai passeggeri. A Pompei come negli aeroporti le iniziative sono state condotte da sigle autonome e singoli comitati. D'altronde, nei servizi, poche persone, collocate in posizione strategica, possono generare grandi disagi pubblici. Tuttavia, il premier ha polemizzato, esplicitamente, contro il sindacato. Senza specificazioni. D'altronde, Renzi, da tempo, conduce la sua polemica contro il sindacato. Che ha il volto di Landini, leader della Fiom e di "Coesione Sociale", che nello scorso autunno ha promosso manifestazioni e scioperi contro il Jobs act e le politiche del lavoro del governo. Il sindacato evocato da Renzi. Chiama in causa Susanna Camusso, che, non per caso, ieri, su Repubblica, ha replicato che la "la Cgil non ci sta a essere usata in modo strumentale dal premier per recuperare il voto moderato".

Ma l'intento di Renzi non sembra semplicemente "politico" ma "di strategia istituzionale". Anche se le preoccupazioni di "marketing politico" sono sempre presenti negli interventi del premier. Che, per questo, agisce e inter-agisce in rapporto diretto con gli elettori. E dialoga di continuo con l'Opinione Pubblica. Che contribuisce, a sua volta, a modellare e a orientare. Intervenendo sui temi sensibili. Per esempio, in questa stagione, sui servizi e i disservizi pubblici, appunto. In un periodo nel quale i flussi turistici sono il principale antidoto contro gli altri flussi che affollano e attraversano l'Italia. Ad opera dei migranti. Il turismo, attratto dall'immensa risorsa artistica e ambientale offerta dal nostro Bel Paese. Non sempre valorizzato adeguatamente. Come ha rammentato, di nuovo, il premier, in visita a Tokio. Da dove ha auspicato che "nei prossimi mesi i nostri sindaci lavorino di più". Per rendere le nostre città più attraenti. Per restituire appeal a un territorio troppo spesso degradato. Più che un invito: un rimprovero. Un messaggio e un ammonimento esplicito. Rivolto ai primi cittadini. Fra i principali protagonisti della democrazia rappresentativa. Eletti direttamente su base territoriale. Renzi stesso, d'altra parte, è stato sindaco. Di Firenze. Anzi, il sindaco è la più importante carica elettiva che abbia ricoperto. Visto che la sua ascesa alla guida del governo è avvenuta attraverso le primarie del Pd. Una consultazione di partito  -  per quanto aperta. E ciò ribadisce la singolare fase che attraversa la nostra democrazia rappresentativa.

Ribadita, polemicamente, dalla minoranza del Pd, che ha minacciato di contrastare le riforme costituzionali in Senato, nel prossimo settembre, scatenando una sorta di "Vietnam parlamentare". Una formula che è stata apertamente condannata dal presidente del Pd, Matteo Orfini. Tuttavia, si tratta di una sfida significativa. Sul piano del linguaggio, oltre che della pratica e dell'azione. Perché sposta, decisamente, in ambito "parlamentare" un confronto che, nel frattempo, si è trasferito altrove. All'esterno. Nelle piazze e sui media  -  vecchi e nuovi.

D'altronde, il capo del governo - e del partito di maggioranza - è un leader "non eletto" in Parlamento. Come i suoi principali oppositori. Beppe Grillo, leader  -  pardon: portavoce e megafono  -  del M5s. E Matteo Salvini, segretario della Lega: parlamentare europeo. Insomma, Renzi è, per ora, il premier di una Repubblica extra-parlamentare. Impegnato a costruire uno specifico modello di democrazia. Maggioritaria e personalizzata. Come prevedono le riforme istituzionali (in particolare, il monocameralismo) e la stessa riforma elettorale. L'Italicum. Che non delineano un "presidenzialismo di fatto" (come ha sottolineato il costituzionalista Stefano Ceccanti sull'Huffington Post ). Piuttosto, una Repubblica ancora "indistinta" (per citare Edmondo Berselli). Ma fondata sul premier. Renzi, d'altronde, nel frattempo agisce "come se" fosse già premier-presidente. Agisce e decide  -  o meglio: promette di agire  -  in fretta. Veloce. Così, dal Giappone annuncia l'approvazione della riforma della pubblica Amministrazione. "Entro giovedì". E si rivolge ai cittadini e agli elettori. Saltando mediazioni e mediatori. Sindacati e sindacalisti. Sindaci e governatori. Scavalca perfino il Parlamento e, soprattutto, i partiti. Compreso il "proprio". Che, d'altronde, costituisce il principale luogo, il principale soggetto-oggetto del suo esperimento.

Il Pd. Tradotto e trasformato nel PDR. Il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, nel PdR. Il Partito di Renzi. Un post-partito, veicolo e portabandiera della PDR. La Post-Democrazia di Renzi. Fondata sul premier.

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03 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/03/news/la_post-democrazia_fondata_sul_premier-120321952/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - La saga estiva della gioventù consumata
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 04:52:51 pm
La saga estiva della gioventù consumata
14 agosto 2015

Questa gioventù consumata. Esaurisce la vitalità e la vita stessa in discoteca e nei dintorni. Questi giovani: che si avvelenano con pasticche e droghe.

Stupefacenti. Sono loro i protagonisti di questa estate torrida. D’altronde, i giovani suscitano sempre – e da sempre - l’attenzione sociale. Perché sono l’icona del futuro. Il luogo della speranza. Ma quando interpretano, da protagonisti, episodi di morte, generano un’angoscia che va oltre il fatto specifico. D’altronde, le tragedie si ripetono, da qualche settimana. In diverse parti d’Italia. Nella riviera romagnola, ma anche in Salento e, ancora, nel messinese. Dove alcuni giovani sono morti. Stroncati, pare, da “ecstasy killer”. Pasticche di ultima generazione “consumate” da chi insegue grandi emozioni. Oltre ogni limite. Non solo dai giovani. Ma i giovani, si sa, affollano maggiormente gli ipermarket delle droghe. Che, spesso, affiancano i locali da ballo. E da sballo. Bacini di mercato ampi.

Tuttavia, le principali “cause di morte giovanile” sono diverse. Secondo l’Istat, in primo luogo, gli incidenti stradali. In auto e in moto. Accentuati, anch’essi, dalle droghe, ma, soprattutto, dall’abuso di alcol. Che spingono alla ricerca e al piacere del rischio, alimentato dalla velocità. Non da oggi. Come dimenticare “Il Sorpasso”, capolavoro di Dino Risi, girato nei primi anni Sessanta e interpretato da Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant?

Anche oggi la cronaca degli incidenti mortali che coinvolgono giovani e giovanissimi scandisce le giornate. Con cupa regolarità. Ma la narrazione mediale che accompagna la nostra estate si sofferma soprattutto sui giovani consumati, anzi, fulminati dalle droghe. Fuori dalle discoteche. In riva al mare. Giovani consumati. Come Ismaele. Ammazzato perché colpevole di aver mostrato simpatia verso una ragazza. Impegnata con un altro giovane dello stesso paese. Intorno a Urbino.

Eppure le morti dei giovani associate agli sballi alcolici e tossici in discoteca ci sono sempre state. Soprattutto in estate. Ma non hanno sempre sollevato la stessa attenzione mediale. Non hanno sempre fatto “notizia”. Negli anni precedenti abbiamo assistito ad altri serial ansiogeni. Anch’essi drammatici, anche se impostati su episodi meno frequenti. Come registra, da tempo, l’Osservatorio sulla Sicurezza, curato da Demos, Oss. di Pavia e Fondazione Unipolis.
I “cani killer”, ad esempio, che, all’improvviso, aggrediscono e sbranano i “padroni”, dopo aver vissuto a lungo, fedeli, accanto a loro. Una follia che esplode soprattutto in estate. Quando la politica fa meno notizia. E non vi sono altri drammi “mediatici”, su cui soffermarsi.

Quest’anno, però, la politica non si è mai fermata. Renzi non va in ferie. E Salvini, Grillo, insieme alla Sinistra Dem: lo (in)seguono. Poi, c’è il dramma degli sbarchi. Che proseguono, un giorno dopo l’altro. Come le morti dei disperati in fuga, che affondano nel mare. Ma non fanno notizia. Perché sono morti e non hanno volto. Mentre i sopravvissuti suscitano polemiche infinite. Dovunque ne sia prevista l’accoglienza. In Italia e nel resto d’Europa.

Così la “saga della gioventù consumata”, fra pasticche e sballi alcolici, orienta la nostra angoscia estiva in direzione a noi più familiare. Perché i giovani riflettono sempre e da sempre le nostre paure. Ma oggi, più di ieri, ci preoccupa la “triste gioventù” (come la definisce Elisa Lello in un saggio di prossima pubblicazione per Maggioli). “Triste”, perché la attende – e si attende - un futuro precario. Da precari. In una società certamente incerta. Dove il tempo è ridotto a un eterno presente. “Triste”, perché l’immagine dei giovani riprodotta sui media riflette il sentimento degli adulti. Le loro paure: sono anzitutto le nostre. La tristezza di questa “gioventù consumata”, in effetti, è la nostra. Noi, schiacciati sull’immediato, proiettiamo sui giovani la nostra in-capacità di progettare. Di immaginare il domani. “Un” domani. E questa cronaca estiva di tragici sballi giovanili rispecchia la nostra paura di perderci. Nel presente infinito.

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14 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2015/08/14/news/la_saga_estiva_della_gioventu_consumata-120947844/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli amplificatori della paura
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2015, 04:56:07 pm
Gli amplificatori della paura

Di ILVO DIAMANTI
17 agosto 2015
   
VULNERABILI. Assediati dal mondo che incombe. Sopra di (e intorno a) noi. È il nostro ritratto, delineato, un giorno dopo l'altro, dalla Lega. E, anzitutto, dal leader, Matteo Salvini. Che, a Ponte di Legno, nel tradizionale raduno estivo dei militanti padani, ha "promesso" di bloccare l'Italia per alcuni giorni, il prossimo novembre.

In segno di protesta. Contro l'invasione dei migranti. Una questione evocata anche dal M5s. In particolare, dal portavoce e megafono, Beppe Grillo. Si cerca, in questo modo, di amplificare la "paura degli altri" che ci invadono da Sud. Magrebini e nord-africani: scavalcano i muri, pardon: i mari. A bordo di navicelle e barconi, guidati da pirati e briganti. E arrivano da noi, lasciando dietro di sé un numero innumerevole di morti. Annegati e abbandonati, senza sepoltura e con pochi rimpianti. Perché non possiamo e non dobbiamo rimpiangere chi se l'è cercata. Chi ha perfino pagato per intraprendere questa crociera dell'orrore. In fuga dalle guerre e dalla fame. E non possiamo rimpiangere chi non ha volto. Chi è senza biografia. E senza patria. (Altrimenti, perché lasciarla?). Se gran parte di questi disperati parte dalla Libia, comunque, noi che c'entriamo?

La Libia oggi è libera. Non c'è più il Tiranno. Anzi non c'è più nessun potere. Nessuna autorità. Non per nulla vi si è installato l'Is... Se i poveri ci invadono, noi ci dobbiamo difendere. Abbiamo impiegato decenni e decenni a conquistare il benessere. Dopo che i nostri avi  -  anche i miei  -  se ne sono andati altrove. Lontano. Oltre oceano. Dove ci trattavano con diffidenza. Per questo oggi è giusto contrastare l'invasione. I nuovi barbari. Ed è giusto difenderci dal mondo. Non solo dall'Africa. Anche dall'Europa. Che ci impone le sue regole, le sue politiche. Ma non è disposta a condividere i costi delle scelte "comunitarie". L'Euro(pa). Una moneta senza Stato. Un Marco mascherato. Sul quale incombe il profilo minaccioso di Schäuble. Accanto a quello, non meno inquietante, della Merkel. Viviamo tempi difficili. E indecifrabili. Dove si fatica a individuare il pericolo. A dargli un nome e un volto. Per questo la sfiducia cresce e si diffonde in modo rapido e profondo. Lo abbiamo già segnalato. Da gennaio ad oggi, il timore dell'immigrazione, in tema di sicurezza, è salito dal 33% al 42%, fra i cittadini (Sondaggio Demos, giugno 2015). Contemporaneamente, nella percezione sociale, si assiste al declino di ogni istituzione e di ogni potere. La fiducia nell'Unione Europea, in particolare, è ormai ridotta al 27%. Mentre la convinzione che "stare nell'Euro", per noi, sia vantaggioso è condivisa dall'11%. In meno di dieci anni, dunque, ci siamo trasformati nel popolo più euroscettico, mentre prima eravamo i più euro-entusiasti.



Il problema è che ci sentiamo indifesi. Senza autorità che ci proteggano. Senza ideologie che ci offrano certezze. Ma soprattutto, senza frontiere. Perché senza confini perdiamo identità. E l'identità serve a distinguere (ciascuno di) noi dagli altri. Serve a capire di chi ci possiamo fidare. A separare gli amici dai nemici. Senza confini: non riusciamo più a riconoscere gli altri e noi stessi. E la globalizzazione ha complicato tutto. Perché  -  per citare Giddens  -  ha "stressato" il rapporto spazio-temporale. La comunicazione globale, in particolare, ci fa sentire ancora più esposti, fragili. Interdipendenti dalle mille crisi  -  economiche, politiche, sociali  -  che, in ogni attimo, avvengono dovunque. Noi le percepiamo immediatamente. (Subito e senza mediazioni). E il nostro senso di impotenza si moltiplica. Figurarsi il flusso, quotidiano dei migranti. Seguito e amplificato, sui media, minuto per minuto, sbarco dopo sbarco, un morto dopo l'altro. La pietà? Quando non sfinisce nell'indifferenza (non ci possiamo far carico di tutti i problemi del mondo...), sconfina nell'ostilità. È un sentimento irrazionale. Materia di fede. Se ne occupino Papa Francesco e Monsignor Galantino. "Pietosi" di professione. Basta che poi non pretendano di rovesciare su di noi la loro Caritas irresponsabile.

Per questo  -  ci esortano Salvini, ma anche Grillo e altre grida di "all'armi"  -  dobbiamo reagire: contro ogni invasione. Che provenga dal Nord Africa, da Bruxelles o da Berlino. Prendiamo esempio dalla Gran Bretagna, disposta a bloccare il tunnel della Manica. Pur di arrestare l'invasione e difendere i propri "confini". La propria identità. Anche noi, sostiene Salvini, per tornare "padroni a casa nostra": presidiamo le frontiere. I mari del Sud. Allarghiamo le distinzioni e le distanze dall'Europa.

Ma, seguendo questo percorso logico e politico (non, per carità, politologico), potremmo spingerci perfino oltre. Oltre lo stesso Salvini, che vorrebbe conquistare il Sud e Roma, con la sua Lega Nazionale. Meglio, invece, rilanciare la Questione Meridionale. Per rammentare che l'Italia non esiste. È un'invenzione. Esistono, semmai, le Italie. La più affluente e sviluppata: il Nord. Pardon: la Padania. Perché dovrebbe pagare i costi "dei" Sud?  Noi, orfani di frontiere e confini, di bandiere e ideologie. Oggi non sappiamo più chi siamo. Molto meglio, allora, seguire l'esempio di Viktor Orbán. Un faro. Il premier dell'Ungheria, per fermare i profughi, ha avviato la costruzione di un muro. Lungo i confini con la Serbia. Per difenderci dal Mondo, allora, erigiamo anche noi  -  non uno, ma  -  molti muri. Lungo le coste del Sud. Anche in Italia. Per difenderci dal "nostro" Sud. E visto che tutto è cominciato nel 1989, ricostruiamo il muro di Berlino. Neutralizzerà la Germania.

E ci restituirà un mondo "finito". Diviso. Un mondo più sicuro. Prima di allora, però, avvertitemi.

Preferisco emigrare.

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17 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/17/news/gli_amplificatori_della_paura-121096309/?ref=fbpr


Titolo: ILVO DIAMANTI - La sfida di Salvini a Papa Francesco
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2015, 11:56:09 am
La sfida di Salvini a Papa Francesco
Le mappe. I conflitti tra Chiesa e Carroccio durano da molti anni, ma si sono moltiplicati negli ultimi tempi sul rapporto con "gli altri". E con le "altre" religioni.
Con il leader leghista che si erge a unico difensore degli interessi territoriali.
Contro la vocazione universale del cattolicesimo

Di ILVO DIAMANTI
24 agosto 2015

FRA la Lega di Salvini e la Chiesa di Papa Francesco il clima dei rapporti non è propriamente evangelico. Al contrario: volano parole grosse se non proprio insulti. Mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, ha liquidato le critiche leghiste a papa Francesco come "affermazioni insulse di piazzisti da quattro soldi". Il Pontefice, lo rammentiamo, aveva equiparato la scelta di respingere gli immigrati a un "atto di guerra". Di più: "violenza omicida". E, per questo, in precedenza, aveva chiesto "perdono". Per le persone e le istituzioni che "chiudono la porta ai disperati che fuggono dalla morte e cercano la vita". Parole gravi, riferite a una platea ampia. Perché è ampio il fronte degli "amplificatori della paura". Che raccolgono  -  e alimentano  -  l'inquietudine sollevata dal flusso dei migranti. Ma Salvini si è affrettato a reagire. Perché si è sentito chiamato in causa, in prima persona. Ma anche perché, così, ha inteso "farsi carico", in prima persona, di rappresentare le paure. Contro la minaccia dell'invasione. Così, da un lato, ha chiesto: "Quanti rifugiati ci sono in Vaticano?". Per sottolineare l'atteggiamento "irresponsabile" della Chiesa. Mentre, dall'altro, ha sostenuto che chi difende l'invasione  -  ancora la Chiesa  -  "o non capisce o ci guadagna". Puntando il dito sugli interessi dell'associazionismo cattolico. Sostenuto e finanziato con i fondi pubblici.

Il conflitto fra Lega e Chiesa (tematizzato da Roberto Cartocci in un bel libro di alcuni anni fa) è acceso. Proseguirà a lungo. Non solo perché gli sbarchi continueranno per molto tempo ancora. Ma perché le polemiche fra Lega e Chiesa durano da molto tempo. A partire dalle invettive di Bossi contro "il Papa polacco" e contro "i vescovoni". I conflitti, però, si sono moltiplicati negli ultimi anni, proprio intorno a questo tema. Il rapporto con gli "altri". Con le religioni degli "altri". Con le "altre" religioni. Come nel 2009, quando la Lega di Bossi polemizzò aspramente contro il Cardinale Dionigi Tettamanzi. Arcivescovo di Milano. "Colpevole" di aver sostenuto il diritto di culto e di fede religiosa per tutti. Anche per gli islamici. E, quindi, in contraddizione con le "guerre di religione" contro i minareti e le moschee dichiarate dalla destra. Per prima, dalla Lega. Un tempo separatista, comunque padana e nordista, nel 2009 aveva proposto di inserire la croce nel tricolore. La Lega. Già allora si era "evoluta" in Lega nazionale. A difesa dell'identità cristiana del Paese. Per questo la polemica sollevata da Salvini non costituisce una rottura nella storia leghista. Ma si presenta, al contrario, in continuità con il passato, non solo recente. Soprattutto oggi che la "questione religiosa" incrocia la "questione politica" posta dai rifugiati e dai migranti. Salvini, traduce i messaggi e gli ammonimenti del Papa e di mons. Galantino non in accuse ma in titoli di merito. Che esibisce con orgoglio. La Lega: sta con Bagnasco come ha detto ieri Maroni. E Salvini si erge a difensore della sicurezza e, al tempo stesso, dell'identità nazionale. Lui, unico, italiano vero. Unico, vero interprete degli interessi, dei timori e della cultura territoriale. Contro tutti i nemici. Mentre la Chiesa è, per vocazione e missione: "universale". Al di là delle accuse mediocri, che riconducono le posizioni del Papa e dei vescovi agli "interessi locali": come sottovalutare l'importanza della presenza della Chiesa in Africa? Nelle zone maggiormente coinvolte da conflitti etnici e povertà? Da cui partono i disperati verso le nostre coste?

Papa Bergoglio, d'altronde, viene dal Sud America. Dove queste tragedie  -  e queste "mobilitazioni" dolorose  -  sono ben più evidenti che da noi. Dove l'azione e la presenza della Chiesa, anche per queste ragioni, sono ben più estese che in Italia. E in Europa. Così la Lega di Salvini rivendica, in continuità con il passato recente, il proprio primato sulla stessa Chiesa. Almeno in Italia, è lei, la Lega, la vera religione. La vera rappresentante dei valori e delle tradizioni in ambito territoriale. A livello locale. La vera difesa della Croce contro gli infedeli e contro i nuovi barbari. Dal mondo che ci invade. Dalla globalizzazione che produce e riproduce solo insicurezza. Dalla perdita di ogni confine. La Lega di Salvini: è l'unica la vera, interprete dell'"Italia dei campanili". I campanili. Prima di evocare luoghi di culto, richiamano il sentimento locale e localista dell'Italia. Un "popolo di compaesani", per citare Paolo Segatti. Oggi il campanilismo, la religione del paese e dei paesi con l'iniziale minuscola, ha scavalcato i confini padani. La Lega di Salvini l'ha imposto anche nell'Italia rossa, dei municipi.

D'altronde, la Chiesa ha smesso da tempo di orientare le scelte politiche degli italiani. Non solo perché in Italia quasi tutti si dicono cattolici, ma a messa ci va, regolarmente, circa un italiano su quattro. Non 8 su 10, come negli anni Cinquanta. Ma perché gli stessi cattolici praticanti si distribuiscono, senza grandi differenze, fra schieramenti e partiti. Presso gli elettori della Lega, la pratica religiosa è coerente e quasi aderente a quella della popolazione. Mentre in origine la Lega era la Chiesa dei "cattolici non praticanti". Quelli che andavano a messa solo in poche occasioni. Pasqua, Natale. Matrimoni e funerali. Oggi però non c'è più il partito "dei" cattolici. Ma neppure un partito "di" (soli) cattolici. Come Arturo Parisi definiva la Dc degli anni Ottanta. I cattolici, praticanti, tiepidi e indifferenti, non hanno più appartenenze. Semmai, si distinguono per un maggior grado di incertezza e distacco. Dai partiti e dal voto. La Chiesa, anche per questo, oggi  -  e da tempo  -  agisce autonomamente, a tutela dei propri valori e - ovviamente - dei propri interessi. Così la Lega la incalza, la contesta. Le fa concorrenza. In ambito nazionale e locale. La Lega di Salvini. La "vera" Chiesa dei "veri" italiani. Che si illudono di fermare il tempo e di chiudersi entro i propri confini. Perché tutto il mondo è paese. Se riusciamo a presidiare i muri che difendono il "nostro" paese dal mondo.

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24 agosto 2015

DA - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/24/news/la_sfida_di_salvini_a_papa_francesco-121508468/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Mappe. La solitudine del sindacato
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2015, 04:50:34 pm
Mappe. La solitudine del sindacato

Di ILVO DIAMANTI
   
MA a cosa, e a chi, serve ancora il sindacato? Il dubbio si giustifica leggendo le cronache degli ultimi mesi. Delle ultime settimane. Degli ultimi giorni. Dove i sindacati (confederali) ricorrono, con frequenza, come bersaglio polemico. Da ultimo, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi alla festa del Pd, a Milano. Dove ha sostenuto: "Il sindacato in Italia è stato mediamente un fattore di ritardo" che ha ostacolato "l'efficienza e la competitività complessiva del Paese". Motivo della critica: la vicenda dell'Electrolux, dove i dipendenti hanno lavorato a Ferragosto, accogliendo la richiesta dell'azienda, nonostante il rifiuto dei rappresentanti di categoria. Squinzi è il capo degli industriali. La sua polemica con il sindacato è nella logica del gioco (delle parti. La sua, in particolare). Ma arriva dopo altri leader, più "rappresentativi" di lui. Per primo, Matteo Renzi. Il quale, lo scorso autunno, in conflitto con la Fiom, ha dichiarato che "il posto fisso non esiste più". E, implicitamente, hanno poco senso anche le organizzazioni sindacali. Ma le occasioni di polemica hanno, spesso, origine tutta interna al sindacato. Come dimenticare le perplessità (per non dir di peggio) sollevate dalla pensione percepita dal precedente segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni? Oltre 8 mila euro lordi al mese.

Conseguenti a uno stipendio salito, negli ultimi anni (non per caso), da 118mila a 336mila euro. Ma anche le retribuzioni di altri dirigenti nazionali della Cisl sembrano (un poco...) "esagerate". Il segretario nazionale dei pensionati, per esempio, incassa più di 200mila euro lordi l'anno. Tutto regolare, sicuramente. Ma parecchio, se pensiamo a questi tempi "magri" per i lavoratori. E i pensionati. Unico a pagare, in questa vicenda penosa: Fausto Scandola, il sindacalista veronese "colpevole" di aver denunciato i (mis)fatti. Espulso per aver leso  -  lui, non i dirigenti ultra pagati - la reputazione della Cisl. Così si spiega la reazione di Gigi Manza, vicentino, dirigente della Cisl Scuola, oggi in pensione. Il quale, dopo oltre 50 anni di militanza, comunica, pubblicamente: "Ho deciso con amarezza di ritirare la mia adesione alla Cisl, sperando di ritornarvi quando rinascerà il sindacato dei lavoratori che ho conosciuto, perché ce n'è bisogno". Non credo, peraltro, che si tratti di un caso isolato.

Il clima nella Cgil appare meno teso. Ma le tensioni non mancano. La segretaria nazionale, Susanna Camusso, di recente, ha preso apertamente le distanze dalla Coalizione Sociale promossa da Landini, ove divenisse un nuovo soggetto politico. Anche se, almeno per ora, Maurizio Landini appare piuttosto un soggetto "mediatico". Di successo.

Tuttavia, la questione del sindacato va oltre le polemiche e le divisioni che scuotono il gruppo dirigente e i suoi rapporti con gli iscritti. Riflette e riproduce, anzitutto, il declino di credibilità e fiducia che coinvolge tutte le sigle maggiori. Dal 2009 al 2015, infatti, la quota di popolazione che esprime (molta o moltissima) fiducia nella Cgil è scesa di circa 13 punti. (Da qui in poi: dati di sondaggi Demos-Coop). Dal 37% al 24%. Mentre la Cisl è passata dal 28% al 20%. È interessante osservare, inoltre come il clima d'opinione peggiori proprio nella base naturale del sindacato. Gli operai. Fra i quali il grado di fiducia verso la Cgil è ridotto al 21,3%. Verso la Cisl e Uil: al 18,7%.

D'altra parte è da anni che il sindacato sta perdendo adesioni. Soprattutto nell'impiego privato. Per contro, "rappresenta", sempre di più, i pensionati: circa metà degli iscritti. Mentre è cresciuto nel pubblico impiego. D'altronde, le adesioni sindacali nell'impiego privato non sono facilmente verificabili.

Tuttavia, ciò non dipende solo dall'incapacità del sindacato e del suo gruppo dirigente. Rispecchia, invece, il cambiamento della società. Sempre più vecchia. Dove i posti di lavoro sono sempre meno e sempre più frammentati. Circa il 60% della popolazione definisce il proprio lavoro: precario, temporaneo, flessibile. Insomma, non c'è più "un" tipo di lavoro a cui fare riferimento. Semmai, lavori e lavoratori "atipici". E "atopici". Senza un "posto" fisso. Presso i quali il sindacato "attecchisce" a fatica. Per difficoltà ambientali. Ma anche culturali. Proprie. Perché sembra aver perduto il ruolo sociale che, ancora pochi anni fa, occupava. Nel 2004, il 30% della popolazione lo indicava come il primo elemento di difesa dei lavoratori. Oggi appena più della metà: il 16%. Mentre, parallelamente, è cresciuto, anche su questo piano, il ruolo della famiglia: dal 10% al 36%.

Il fatto è che tra i cittadini e i lavoratori si è fatta largo la convinzione che il sindacato serva soprattutto a chi ci opera. Ai sindacalisti. In primo luogo: ai gruppi dirigenti.
Tuttavia, non credo vi sia di che rallegrarsi.

Perché il sindacato è "servito" a tutelare gli ultimi e i penultimi. Quelli che da soli non ce la possono fare. E, per difendersi, hanno bisogno di unirsi agli altri, che condividono la loro condizione. Ormai non è più così. Il sindacato rappresenta i garantiti. Mentre la questione dei "diritti", posta da un grande leader sindacale come Bruno Trentin,  -  ha osservato Bruno Manghi  -  è "brandita per la difesa della rivendicazione specifica, mai per quelle altrui".

Ma a quel punto "i diritti" perdono valore. E ciò costituisce un problema. Per i lavoratori, per gli "esclusi", ma anche per il sindacato.

Tuttavia, non hanno di che rallegrarsi nemmeno Squinzi e Confindustria. Il "sindacato degli imprenditori" ha perduto a sua volta credito. Dal 32,9% nel 2009 al 25,2% registrato alcuni mesi fa. (E quando si utilizza esplicitamente la denominazione "Confindustria" i valori scendono ulteriormente.) Le polemiche e le tensioni, comunque, si sono allargate anche all'interno. Molte imprese  -  soprattutto le più grandi - si "tutelano" e si rappresentano sempre più da sole. A partire dalla Fiat di Sergio Marchionne. "Il tempo è scaduto anche per Confindustria", ha affermato Alessandro Barilla due anni fa.

Neppure questa, però, è una buona notizia. Per nessuno.

Perché, nell'epoca dei partiti personali e personalizzati, al tempo dei partiti senza società, dove avanzano leader "soli" e da "soli": la burocratizzazione del sindacato e delle organizzazioni imprenditoriali, lascia i cittadini ancora più "soli". Più lontani dalla politica e dalle istituzioni.

Così, senza mediazione e mediatori, la democrazia rappresentativa diventa sempre più incolore.
Una parola insignificante.

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31 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/08/31/news/mappe_diamanti-121920695/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - In salita Pd e Renzi, M5s al 27%, massimo storico.
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 04:36:21 pm
In salita Pd e Renzi, M5s al 27%, massimo storico.
Crolla Forza Italia
Atlante politico.
Stabile al 14% la Lega di Salvini. Il partito di Berlusconi è al minimo da quando è nato: 11%.
Nel centrodestra in ascesa Giorgia Meloni. Immigrati, cala la paura

Di ILVO DIAMANTI
12 settembre 2015
   
LA MARCIA di Matteo Renzi al governo procede senza scosse e senza accelerazioni particolari. Da tempo non riesce più a sollevare entusiasmo. Le speranze, attorno a lui, si sono raffreddate. Ma, per ora, non sembra in pericolo. Le vicende politiche interne e le emergenze esterne - per prima: la vicenda drammatica dei profughi - non hanno indebolito il sostegno al governo. Questa, almeno, è l'idea che si ricava dal sondaggio dell'Atlante Politico condotto nei giorni scorsi da Demos per Repubblica. Oggi, infatti, Renzi appare un leader senza alternativa, anche se è incalzato da opposizioni che hanno basi ampie e radicate. Il PD resta, comunque, il primo partito, fra gli elettori. Conserva il livello di consensi rilevato prima dell'estate. Anzi, lo migliora, seppure di poco. Supera, infatti, il 33%. Seguito, a distanza, dal M5s. Che si avvicina al 27%, il dato più elevato, da quando è sorto (secondo l'Atlante Politico). Dietro di loro, la Lega di Salvini staziona, intorno al 14%. Ma supera, per la prima volta, in modo netto, Forza Italia. Più che per meriti propri, per demerito del partito di Berlusconi, che scivola all'11%. Il minimo da quando, oltre vent'anni fa, è "sceso in campo", trainato dal suo leader e padrone. Tra le altre forze politiche, si osserva il declino dei centristi NCD e Udc. Ormai ridotti ai minimi termini (meno del 3%).

Anche il PD di Renzi, in caso di elezioni con il nuovo sistema elettorale, l'Italicum, appare comunque lontano dal 40%. La soglia prevista per conquistare la maggioranza dei seggi al primo turno. Dovrebbe, dunque, affrontare un ballottaggio, nel quale, secondo le stime del sondaggio di Demos, nessuno dei possibili sfidanti sembra in grado di batterlo. Tuttavia, solo nei confronti della Lega il distacco del PD appare largo. Quasi 30 punti. Di fronte al M5s oppure contro un "cartello" di destra, che riunisse Lega e FI, il PD si affermerebbe, ma non di larga misura. Sfiorando il 54%.

Nell'insieme, non si colgono segni di svolta né di grande cambiamento, in questo sondaggio. Semmai, la conferma di una fase di fragile stabilità. Ribadita dagli orientamenti verso i principali leader. Anche in questo caso, Matteo Renzi primeggia. Ma si attesta sugli stessi livelli degli ultimi mesi. Il 42%. È, dunque, il "preferito" fra gli elettori. Davanti a Matteo Salvini, in sensibile calo di gradimento personale. E a Giorgia Meloni. Che dispone di un consenso assai maggiore del proprio partito. È, invece, interessante osservare come Luigi Di Maio ottenga un indice di fiducia superiore a Beppe Grillo, fra gli elettori nell'insieme. Nella base del M5s, il fondatore -  e "amplificatore” -  risulta, però, ancora il più apprezzato (da circa il 70%). Ma Di Maio, il successore più accreditato, dispone anche qui di un livello di gradimento, comunque, ampio, prossimo al 60%. Segno che il M5s si è, in parte, autonomizzato da Grillo. Comunque, non è più identificato solo con la sua figura. E, probabilmente, anche per questo mantiene una base di consensi molto ampia.

Così, Renzi e il suo governo procedono in mezzo a molte difficoltà, ma non ne sembrano penalizzati in misura eccessiva. Il gradimento del governo, come quello personale del premier, è sceso di oltre 10 punti rispetto a un anno fa. Ma dall'inizio dell'anno appare stabile. E, negli ultimi mesi, perfino in lieve crescita. Sopra il 40%. La valutazione sulle principali politiche del governo, peraltro, non è peggiorata. In alcuni casi, anzi, è perfino migliorata. In tema di lavoro, di fisco. Ma, soprattutto, in tema di immigrazione. Argomento della lettera inviata dal premier a Repubblica. L'ondata degli sbarchi, l'emergenza dei profughi, negli ultimi mesi, non sembrano aver danneggiato l'immagine del governo e di Renzi. Al contrario. Infatti, la quota di cittadini che vede negli immigrati un "pericolo per la sicurezza" oggi è poco più di un terzo della popolazione. Il 35%. In giugno era il 42%. Le immagini del grande esodo dall'Africa e dalla Siria verso l'Europa hanno modificato il sentimento popolare, oltre che l'atteggiamento di molti leader di governo (per prima: Angela Merkel). Così, alla paura e all'ostilità si sono sostituite l'apertura e la pietà. E se, fino a pochi mesi fa, tra gli italiani gli sbarchi erano considerati un'invasione, da respingere, erigendo muri e barriere, oggi prevale il sentimento -  e l’orientamento -  di "accoglienza". Sostenuto da oltre il 60% degli intervistati: ben 20 punti in più rispetto a giugno. Una vera "svolta d'opinione".

Nella politica italiana, dunque, si annuncia un autunno tiepido. Con un leader solo al comando, circondato da opposizioni che faticano a presentarsi come vere alternative di governo. Il M5s: è canale dell'insoddisfazione popolare. Ma anche soggetto di controllo democratico a livello centrale e locale. La Lega di Salvini: appare sempre più Ligue Nationale. Versione italiana del Front National di Marine Le Pen. Che, tuttavia, si è affermata interpretando le paure degli elettori moderati. Forza Italia, infine, declina, in modo inevitabile e inesorabile, insieme al leader che l'ha inventata. E da cui non può prescindere.

Matteo Renzi, dunque, prosegue la sua marcia. Aiutato dalla ripresa positiva del mercato e dell'economia. Dalla timidezza degli avversari. Visto che l'opposizione più insidiosa, oggi, appare quella "interna" al PD.
Così, il 46% degli elettori, ormai, ritiene che governerà fino alla scadenza naturale della legislatura. Il dato più elevato da quando è in carica. A differenza del passato, paradossalmente, ciò avviene proprio quando sembra avere smesso i panni del velocista. Del leader ipercinetico, sempre in movimento, una riforma dopo l'altra, un "fatto" dopo l'altro. Mentre, al contrario, ha rallentato la corsa, ridimensionato le pretese. Il linguaggio. Renzi. Un premier (più) lento, che riflette il sentimento di un Paese stanco. Di miracoli e di promesse.

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12 settembre 2015
Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/12/news/in_salita_pd_e_renzi_m5s_al_27_massimo_storico_crolla_forza_italia-122705989/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli euroscettici nel Mediterraneo
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2015, 11:41:26 am
Gli euroscettici nel Mediterraneo
26 anni dopo la caduta del muro di Berlino, in Europa ne sorgono altri. Non solo simbolici. Marcano il cammino di una costruzione che si è sviluppata senza un disegno politico e culturale

Di ILVO DIAMANTI
29 settembre 2015

IL RISULTATO delle elezioni in Catalogna conferma l'ampiezza del sentimento separatista che anima la Comunidad autónoma. Il fronte a favore dell'indipendenza (Junts pel Sì + Cup) ha ottenuto il 47,8% dei voti. Ha, così, conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti. Si fosse trattato di un referendum, questo esito non sarebbe sufficiente a sancire la secessione da Madrid. Ma oggi appare adeguato ad amplificare lo spirito indipendentista che spira, forte, in altre aree della Spagna.

Anzitutto nei Paesi Baschi. Questo voto, inoltre, rischia di produrre "una rivoluzione geopolitica su scala europea", come ha osservato Lucio Caracciolo, ieri, su Repubblica. Una Catalogna indipendente, infatti, non troverebbe posto nella Ue. Tuttavia, il voto catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene, da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea. Dove si allarga il contagio dell'Ues: l'Unione Euro-Scettica. Trasmesso da una catena di attori politici, impolitici e anti-politici. Uniti da un comune bersaglio. L'Europa dell'euro. Dunque, l'Europa, tout court. Visto che l'Unione è stata prevalentemente costruita, appunto, sul terreno economico e monetario. Mentre i soggetti politici di maggiore successo, negli ultimi anni, sono quelli che hanno esercitato una critica aperta all'Euro-zona. E, spesso, alla stessa Unione Europea, in quanto tale.

In Italia: la Lega di Salvini. Esplicitamente contraria all'Euro, ma anche alla Ue. Appunto. Inoltre: il M5s. Anch'esso esplicitamente ostile all'Euro-zona. Tanto che, nei mesi scorsi, Alessandro Di Battista, deputato del M5s, fra i più autorevoli, ha proposto un "cartello tra i Paesi del Sud Europa" per "uscire dall'euro" e "sconfiggere la Troika che ha distrutto l'Ue". Un aperto invito, dunque, a costruire la Ues. Rivolto, anzitutto, alla Grecia, governata da Alexis Tsipras e dal suo partito, Syriza. Che, come ha confermato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze, aveva pianificato un programma per trasformare l'euro in dracma. E per liberarsi del controllo della Troika. Prima, ovviamente, della recente crisi. Che ha condotto la Grecia a scontrarsi con la Germania della Merkel. E con il "governo" della Ue. Anche se ora, ovviamente, questo progetto è divenuto impraticabile. Dopo il prestito- ponte erogato dalla Ue, per fare fronte all'enorme debito che opprime la Grecia. Mentre Tsipras ha estromesso dal governo Varoufakis e gli altri esponenti del partito, reticenti e indisponibili ad accogliere le pesanti condizioni poste dalla Ue.

Nonostante tutto, pochi giorni fa, Tsipras ha ri-vinto le elezioni. Si è confermato alla guida del governo e del Paese. E la Grecia è rimasta nella Ue e nell'euro. Non certo per passione, ma per necessità. E per costrizione. Ma l'Ues ha messo radici anche in Francia. A sua volta, Paese mediterraneo. Soggetto protagonista della scena europea, insieme alla Germania. Ebbene, com'è noto, in Francia, negli ultimi anni, si è assistito all'ascesa di Marine Le Pen, che ha spinto il Front National ben oltre il 25%. Al di là delle zone di forza tradizionali, nelle regioni "mediterranee". Per affermarsi, Marine Le Pen ha moderato i toni -  più che i contenuti -  del messaggio politico tradizionale. E ha preso le distanze dal padre, Jean-Marie. Fondatore e "padrone" del Fn. Fino alla rottura. Sancita dall'espulsione del padre, avvenuta a fine agosto, per decisione del comitato esecutivo del partito.

Il Fn di Marine e Bleu Marine, la coalizione costruita intorno al partito, hanno, tuttavia, mantenuto i due orientamenti tradizionali forse più importanti. La xeno-fobia. Letteralmente: paura dello straniero. E l'opposizione all'Europa dell'euro. Così, i confini mediterranei della Ue oggi sono occupati dalla Ues. Che tende ad allargarsi rapidamente altrove. Nei Paesi della Nuova Europa. A Est: in Polonia, Ungheria. E a Nord. In Belgio, Olanda, Danimarca, Scandinavia. Per non parlare della Gran Bretagna. Dove l'euroscetticismo è radicato da tempo. La Germania, il centro dell'Europa dell'euro, intanto, si è indebolita. Messa a dura prova, da ultimo, dallo scandalo che ha coinvolto e travolto la Volkswagen. Un grande gruppo automobilistico. Ma, soprattutto, un marchio dell'identità (non solo) economica tedesca nel mondo. Intanto, la xeno-fobia si è propagata ovunque. Alimentata dall'esodo dei profughi degli ultimi mesi. Dall'Africa e dal Medio Oriente, attraverso l'Italia, la Grecia, i Balcani.

Così, 26 anni dopo la caduta del muro di Berlino, in Europa sorgono nuovi muri. Non solo simbolici. Marcano il difficile cammino di una costruzione che si è sviluppata senza un disegno. Politico. Culturale. Perché l'Europa "immaginata", fra gli altri, da Adenauer, De Gasperi, Churchill, Schuman, l'Europa di Jean Monnet e Altiero Spinelli: è rimasta, appunto, "un'immagine". Un orizzonte. Lontano.

D'altra parte, (come dimostra l'Osservatorio europeo curato da Demos-Oss. di Pavia- Fond. Unipolis, gennaio 2015), l'Europa dell'euro non suscita passione. Tanto meno entusiasmo. La maggioranza dei cittadini -  in Italia e negli altri Paesi europei -  la accetta, per prudenza. Teme che, al di fuori, potrebbe andare peggio. Così, il progetto europeo non cammina. Perché ha gambe molli e non ha un destino. Mentre il sentimento scettico si fa strada. In Spagna. In Italia. In Francia. In Europa. A Destra (e al Centro), ma anche a Sinistra. E alla Ue si sovrappone la Ues. L'Unione Euro-Scettica. Più che un soggetto e un progetto organizzato: una sindrome. Densa e grigia. Diffusa nell'area mediterranea. Oggi si sta propagando rapidamente altrove. Conviene prenderla sul serio, prima che sia troppo tardi. Prima che contagi anche noi.

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29 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/29/news/gli_euroscettici_nel_mediterraneo-123894525/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Cosa resta della politica se la tv diventa il nemico
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 03:16:51 pm
Cosa resta della politica se la tv diventa il nemico
Mappe. Lo scontro tra leader e giornalisti in Italia si infiamma quando i protagonisti sono il centro-sinistra e i programmi di Rai 3. Fino a far evocare "l'editto bulgaro".
Ma è difficile assimilare Renzi a Berlusconi

Di ILVO DIAMANTI
05 ottobre 2015

LA POLEMICA tra leader politici e giornalisti tv è una costante in Italia, da almeno un paio di decenni. Ma il discorso cambia quando le tensioni si accendono fra esponenti di centro-sinistra e programmi di Rai 3. La rete "amica". Storicamente. Così, i dissensi espressi dal premier contro il Tg3 e, anzitutto, contro Ballarò, il talk "politico" del martedì, hanno suscitato sorpresa e molte critiche. Intimidazioni all'autonomia e alla libertà dell'informazione. Tanto che si è parlato di "editto bulgaro". Echeggiando le dichiarazioni di Silvio Berlusconi - al tempo capo del governo - pronunciate a Sofia, nel 2002, contro Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi. Puntualmente allontanati dalla Rai.

Tuttavia, è difficile assimilare Renzi a Berlusconi. Nonostante le analogie. Perché Renzi non è affetto né afflitto dal conflitto di interessi. Non è proprietario dell'azienda concorrente della Rai. Non può trarre vantaggi economici e di affari dalle sorti delle reti radiotelevisive pubbliche. Peraltro, mi riesce difficile anche vedere i vantaggi politici di questa iniziativa. Perché non solo il Tg3, ma, soprattutto, Ballarò ora appaiono più forti. Ballarò, in particolare. Subisce, da oltre un anno, la crisi che investe tutti i talk politici. "Affaticati" dalla moltiplicazione di programmi analoghi, a ogni ora del giorno, in ogni rete. Penalizzati dal deteriorarsi del "contenuto e dei protagonisti della politica italiana": i partiti e i politici. Ballarò, per questo, ha continuato a perdere ascolti. Non solo per la concorrenza, su La7, del clone guidato dal suo storico conduttore, Giovanni Floris. Ma, come si è detto, per l'esaurirsi di un format.

L'intervento di Renzi e di alcuni parlamentari a lui vicini, come Michele Anzaldi, rischia però di produrre un esito opposto alle intenzioni. Perché adesso sarà difficile "metter mano" su Ballarò e sui programmi di informazione di Rai 3 senza evocare editti bulgari. Senza riesumare i fantasmi della censura. L'ombra del Cavaliere. Risulta difficile, per questo, sovrapporre l'immagine di Renzi a quella di Berlusconi. Per la stessa ragione, è difficile scacciare questo accostamento. Non per ragioni polemiche. Matteo Renzi: non è il "Cavaliere mascherato". Ma è indubbio che sia, anzi è, un leader post-berlusconiano. Come, peraltro, lo sono tutti i leader e tutti i partiti "dopo" Berlusconi. Perché, lo sappiamo, "dopo" Berlusconi la politica è cambiata. Meglio: era già cambiata da tempo. Ma la sua discesa in campo ha impresso un'accelerazione evidente a questa trasformazione. I partiti si sono personalizzati. E, allo stesso tempo, hanno progressivamente abbandonato la società e il territorio. Sostituiti dai media. E, in particolare, dalla televisione. In misura crescente, ma ancora più limitata, dalla rete.

Rammentiamo, a questo proposito, i dati dell'ultimo sondaggio di Demos-Coop, dedicato al rapporto fra "Gli italiani e l'informazione" (novembre 2014). L'indagine, infatti, rileva come oltre l'80% degli italiani, per informarsi, utilizzi quotidianamente la televisione. Mentre quasi il 50% ricorre a Internet (10 punti in più rispetto al 2012). Molto minore è, invece, l'accesso ad altri media. Radio (39%) e quotidiani (24%), in particolare. Se, però, ci concentriamo sul pubblico dei talk, la specificità di Ballarò risulta molto chiara. Un anno fa, almeno, (e non c'è motivo di credere che l'orientamento, da allora, sia mutato) la trasmissione condotta da Giannini riscuoteva il gradimento del 55% della base del Pd. Era, inoltre, apprezzata da circa il 60% tra gli elettori di sinistra. In altri termini: per quanto in declino di ascolti, Ballarò costituisce (o almeno costituiva) un riferimento attendibile e credibile per la maggioranza degli elettori del Pd. E soprattutto per le componenti di sinistra. Così si spiega la "sensibilità reattiva" di Renzi e del suo Pd, il PdR, nei confronti dei programmi di informazione e dei talk politici della Terza rete. Al Premier, infatti, come ha ben sottolineato ieri Eugenio Scalfari, "piace piacere". A tutti. Ma, soprattutto, alla base elettorale del suo partito. Per la stessa ragione, è attento ai luoghi dove si forma l'opinione ostile alla sua politica. Soprattutto nel suo partito. Perché l'opposizione più insidiosa al PdR, in questa fase, proviene dalle fila del Pd senza la R. Così Renzi  -  e gli esponenti che gli sono più vicini  -  criticano le reti e i talk televisivi perché lì si è trasferita la politica. Inseguendo, si dice, il "modello americano" del partito "elettorale". Ma negli Usa si vota spesso, per selezionare i candidati ed eleggere diverse cariche. E i partiti - non ideologici, né burocratici - in campagna elettorale riescono a coinvolgere molti volontari, che fanno "porta a porta". Mentre in Italia i leader vanno in Tv, a "Porta a porta", per farsi intervistare da Bruno Vespa.

Negli Usa, inoltre, i partiti elaborano mappe aggiornate delle principali città, con gli orientamenti elettorali precisati quartiere per quartiere, strada per strada. Un "controllo politico" sulla società e sul territorio che, in Italia, avveniva solo al tempo dei partiti di massa. Ma oggi, in Italia, non c'è più religione politica. Il che è meglio. Ma c'è anche poca politica. Dopo Berlusconi, nell'epoca del post-berlusconismo, sono scesi in campo i "post-partiti" (evocati dal titolo di un recente saggio di Paolo Mancini, per il Mulino), guidati da leader post-politici. Abili e visibili in Tv. E sulla Rete. Come Matteo Renzi. Leader del Post-Pd. Oltre Berlusconi, per tecnologia e stile di comunicazione.

Così, chi crede ancora nella politica come luogo di partecipazione sociale e di organizzazione del territorio, oltre che di decisione pubblica, oggi rischia di scoprirsi fuori luogo e fuori tempo. A-topico e A-cronico. Ma è un rischio che, forse, vale la pena di affrontare.

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05 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/05/news/cosa_resta_della_politica_se_la_tv_diventa_il_nemico-124342389/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Roma non tollera i comprimari
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 03:20:36 pm
Roma non tollera i comprimari

Di ILVO DIAMANTI
12 ottobre 2015

Le dimissioni di Ignazio Marino annunciano una fase dagli esiti non chiaramente decifrabili. Pare, infatti, improbabile che il sindaco lasci l'incarico senza disseminare di trappole il percorso di chi lo spinge a uscire di scena al più presto. Per primo, il suo partito, il Pd. E il segretario, Matteo Renzi. Eppure, le sorti di questa amministrazione e del suo capo erano scritte, da tempo. Dettate, anzi: imposte, dalla crescente sfiducia dei cittadini verso l'amministrazione e le istituzioni, oltre che verso il sindaco. Basta rileggere, a questo proposito, i dati del sondaggio condotto da Demos per Repubblica, pochi mesi fa. Quasi 7 cittadini su 10, allora, esprimevano un giudizio negativo sul lavoro svolto dalla giunta Marino. D'altronde, oltre metà dei romani ritenevano che la Capitale fosse governata peggio rispetto alle altre principali città italiane. Marino, dunque, non disponeva da tempo del consenso necessario a governare Roma. Il che non significa che fosse privo di consenso. Come dimostrano le manifestazioni di solidarietà in suo sostegno, che si stanno svolgendo in questi giorni. Ma si tratta, comunque, di un orientamento limitato. Solo un quarto dei romani, infatti, affermava l'intenzione di votare nuovamente per Marino, in caso di nuove elezioni. Mentre oltre il 70% escludeva questa possibilità.

Certo, nei tre mesi trascorsi da quel sondaggio sono avvenute molte cose. Ma è difficile immaginare che questi orientamenti si siano rovesciati. Che il consenso dei romani verso Marino sia cresciuto al punto da ri-conquistare la maggioranza. Anche perché le ragioni di sfiducia sono diverse e profonde. Riguardano la viabilità, la manutenzione delle strade, la gestione dell'immigrazione e dei campi rom. Che suscitano l'insoddisfazione di 8 — o più — cittadini su 10. Poco più, comunque, del malessere sollevato dal problema della criminalità e della sicurezza. Anche perché il "mondo di mezzo" scoperto e scoperchiato, neppure un anno fa, dalle indagini dei magistrati, è ritenuto molto più di una deviazione. Assai più di un fenomeno ampio, ma delimitato. Infatti, la Mafia (nella) Capitale è considerata (molto o abbastanza) diffusa da quasi 9 romani su 10. Praticamente: da tutti.

In "mezzo" a questo "mondo", Ignazio Marino era percepito come un estraneo. Secondo alcuni, un "marziano". "Ir-responsabile" del contesto malavitoso cresciuto intorno a lui. Una persona sostanzialmente "onesta" e "modesta". Incapace di fronteggiare i problemi della città e della vita quotidiana. E, ancor più, di contrastare il fenomeno mafioso che infiltra le istituzioni, le azioni e gli attori pubblici. Per questi motivi, la bufera politica che ha investito il sindaco Marino era largamente annunciata. Dall'insoddisfazione verso le politiche dell'amministrazione e verso il sindaco. Perché (ir)responsabile del degrado cresciuto intorno a lui. A sua insaputa.

In fondo, alcuni episodi che hanno accentuato la crisi di credibilità del sindaco dipendono proprio dalla reazione di Marino all'immagine di "marginalità" e di "irresponsabilità" in cui era — ed è — imprigionato. In particolare, il viaggio a Filadelfia, in occasione della visita di papa Francesco negli Usa. Senza riuscire a incontrarlo. Da pellegrino, invece che da invitato. Lo ha delegittimato ulteriormente. Ne ha enfatizzato il divario fra ambizione e realtà. Vizio imperdonabile per chi deve "rappresentare" — cioè: raffigurare, offrire identità a — Roma Capitale.

Le stesse rivelazioni sull'uso delle carte di credito del Comune per spese personali hanno danneggiato Marino soprattutto a causa della (relativa) "mediocrità" delle vicende e delle cifre contestate.

Così Marino rischia di venire "espulso" perché incapace di assumere un ruolo da protagonista sulla scena pubblica della Capitale, che non tollera comprimari né, tanto meno, figure mediocri. Tanto più — tanto meno — nella Seconda Repubblica, fondata sui media e sui sindaci. E ciò costituisce un problema serio, non solo per Marino e per Roma. Ma, in generale, per i partiti nazionali e, in particolare, per il Pd. Nato dall'esperienza dei sindaci. Di Napoli, Venezia, Torino. E, soprattutto, Roma. Che ha fornito all'Ulivo e al Pd leader nazionali, come Rutelli e Veltroni. Non per caso le elezioni del 2008 — segnate dalla vittoria di Berlusconi in ambito nazionale e di Alemanno a Roma, ma anche dalla parallela sconfitta di Veltroni alle politiche e di Rutelli a Roma — hanno segnato una svolta critica nel percorso del Pd, appena nato.

Oggi, 7 anni dopo, il problema di Roma appare ancora lo specchio di quello nazionale. E viceversa. Perché il Pd è "governato" da un sindaco, Matteo Renzi, che ha rafforzato il profilo "personale" del partito. Così, la soluzione a chi verrà "dopo Marino" viene cercata, ancora, inseguendo nuovi nomi, nuovi volti. Interpreti della "buona politica" (quale? dove?) o della "società civile" (come, d'altronde, si era presentato lo stesso Marino, nel 2013). Rinunciando, invece, alle "primarie", sulle quali si è costruito il rapporto del Pd con la società. La scelta del candidato verrà, dunque, assunta e risolta da un partito poco radicato sul territorio e sempre più personalizzato. Cioè, da Renzi. Con un rischio, ben segnalato da Stefano Folli. Che, il voto di Roma — e delle altre capitali dove si voterà il prossimo anno: Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trieste, Cagliari — assuma non solo un significato nazionale. Ma coinvolga — e investa — direttamente il Sindaco d'Italia e il suo partito. Matteo Renzi e il PdR. Si tradurrebbe, cioè, in un voto di "fiducia". Oppure — se il consenso del M5s si allargasse ancora, come ipotizzano i sondaggi — di "sfiducia".

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12 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/12/news/roma_non_tollera_i_comprimari-124873561/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI La Lega Nazionale di Matteo Salvini sembra aver perduto la spinta
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 26, 2015, 11:49:05 am
Noi con Salvini. Contro tutti

Di ILVO DIAMANTI
22 ottobre 2015
   
La Lega Nazionale di Matteo Salvini sembra aver perduto la spinta propulsiva. Dopo oltre un anno di espansione elettorale, sottolineata dai sondaggi. E, prima ancora, dai risultati alle elezioni europee e regionali, dopo l'estate ha rallentato la sua marcia. Almeno, secondo i sondaggi dell'Atlante Politico di Demos. Che, naturalmente, sono solo sondaggi. Ma, fino all'estate, avevano rilevato la crescita costante dei leghisti, che avevano varcato il Po. Occupato le regioni rosse. Affacciandosi anche a Sud. Così, negli ultimi mesi, era riuscita a superare Forza Italia. E a intercettare molti elettori di Centro-Destra, spaesati e delusi, dopo il declino di Berlusconi.

La Lega di Salvini: li aveva intercettati spingendosi  -  e spingendoli  -  a Destra. Moltiplicando l'insicurezza prodotta dal costante  -  e crescente  -  flusso di profughi degli ultimi mesi. La Lega Nord si è, così, trasformata, progressivamente, in Lega Nazionale. Meglio: nella Ligue Nationale, per echeggiare il modello francese. Si è, inoltre, personalizzata e mediatizzata, come i principali partiti italiani, in questa fase. Sulla scia di Berlusconi. Per primo, il PDR di Renzi. Abile in TV e sui social media. Come la Lega di Salvini. O meglio: "Noi con Salvini".

Tuttavia, ora questa Lega incontra qualche difficoltà. Non riesce a sfondare nel Mezzogiorno. Mentre in ambito National non corre più come prima. Forse perché i profughi inquietano meno di qualche settimana fa. D'altronde, la "paura spaventa", ma, a gioco lungo, ci si abitua. Comunque, questa Lega, che dice di ispirarsi al Front National, segue un percorso molto diverso. In parte, inverso. Infatti, Marine Le Pen ha moderato contenuti e linguaggio, per attirare i voti dei partiti di centro-destra. Per legittimarsi. Mentre la Lega di Salvini si è, invece, avvicinata a Casa Pound. E ha accentuato il linguaggio e il messaggio xenofobo. Così, per diventare opposizione competitiva e credibile deve allearsi con Forza Italia.

Insieme, il loro peso elettorale, in caso di ballottaggio, si avvicina molto a quello del PdR (come mostra il sondaggio di Demos dei giorni scorsi). Così, la Lega si prepara a sfidare tutti. E mobilita militanti, sostenitori e simpatizzanti, in vista della manifestazione nazionale del prossimo 8 novembre. Dove si presenterà senza simboli di partito. A Bologna. Capitale storica dell'Italia rossa. Peraltro, già "espugnata" dal centrodestra nel 1999, quando venne eletto Giorgio Guazzaloca. La Lega: ambisce a diventare "Noi con Salvini. E contro tutti". Contro il governo, contro la sinistra, contro il PD e contro Renzi. Contro i profughi che ci invadono. Contro i Rom (senza la a. Visto che Rom-a è divenuta una piazza attraente, anche per i leghisti). Contro Berlusconi e Forza Italia, che promette e minaccia di convocare, lo stesso giorno, un'altra manifestazione.
Poco lontano. A casa di Renzi. A Firenze, l'altra capitale dell'Italia di sinistra.

"Noi con Salvini e contro tutti". È la manifestazione annunciata dalla Lega e dal suo leader per rilanciarsi. E per ritrovarsi. Per ritrovare un senso, un fine, una missione. Un nemico. Meglio. Molti nemici. Renzi. E tutto il mondo che incombe. Intorno a noi. Intorno alla Lega di Salvini. Intorno a Salvini.

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22 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2015/10/22/news/noi_con_salvini_contro_tutti-125624659/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - E il clan Alemanno ha più colpe di Marino Sondaggio Demos.
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 06:08:05 pm
Mafia e malgoverno dietro la crisi di Roma.
E il clan Alemanno ha più colpe di Marino
 Sondaggio Demos.
Gli italiani seguono le vicende della capitale, e vi scorgono lo specchio delle deviazioni che inquinano il Paese. Sotto accusa le amministrazioni di centrodestra, ma anche il Pd.
Che per scegliere il nuovo candidato sindaco non deve rinunciare alle primarie

Di ILVO DIAMANTI
18 ottobre 2015

Le dimissioni di Ignazio Marino non riguardano solo Roma. Ovviamente. Ma tutta l'Italia. Perché Roma è la capitale. Dove risiedono il governo e le istituzioni centrali dello Stato. Gli organismi dirigenti della politica e dell'economia. Roma, per questo, è anche un simbolo. Un riferimento usato in senso, talora, polemico, da molti italiani. Soprattutto, ma non solo, del Nord. Dove, negli anni Novanta, si è imposta la cosiddetta " questione" settentrionale, per dare voce e potere ai nuovi attori e ai nuovi luoghi dello sviluppo. Al " capitalismo dei beni immateriali" (per citare Arnaldo Bagnasco: finanza, comunicazione, servizi ) cresciuti intorno a Milano. Al " micro-capitalismo della piccola impresa", che, in quegli anni, si era diffuso nel Nordest e nella provincia lombarda. Berlusconi e la Lega ne sono stati, allora, il " megafono" (come direbbe, oggi, Beppe Grillo). Allora, nel Nord, Roma echeggiava spesso, negli slogan e nei discorsi polemici. Rifletteva la frattura che opponeva i nuovi Nord e i nuovi capitalismi alla capitale storica dell'Italia. Roma. Alleata del " vecchio Nord", polarizzato intorno a Torino. Capitale della grande industria (protetta). Roma, al tempo stesso: complice dell'economia assistita del Mezzogiorno. Roma: il " centro" dei partiti e dei poteri nazionali a cui si opponeva la Lega. Quando i suoi militanti - e sostenitori - gridavano (e scrivevano sui muri e sui cavalcavia delle autostrade): " Roma ladrona, la Lega non perdona!", il successo politico di Berlusconi e della Lega si era, per questo, accompagnato all'affermarsi di due capitali alternative. La metropoli diffusa del Nordest. Insieme a Milano. Non per caso, nei primi anni Novanta (quando i talk politici facevano grandi ascolti), la trasmissione tv di tendenza, condotta da Gad Lerner, era " Milano, Italia".

Roma, però, ha dimostrato grande capacità di resistenza. Adattamento. E di mimetismo. È cambiata ma, soprattutto, ha cambiato coloro che l'hanno frequentata. Per professione e per missione. Ha cambiato anche coloro che vi si sono insediati con il proposito - esplicito - di cambiarla. Per cambiare lo Stato, cambiandone, anzitutto, il Centro. Basti pensare alla Lega di Bossi, che è divenuta, progressivamente, " romana", fino a riprodurne le cattive abitudini. Mentre la Lega di Salvini, dopo aver vinto ed emarginato la Lega di Bossi, ha accettato il significato stesso di Roma-Capitale. Divenendo " Lega Nazionale".

Per questo, anche per questo, ciò che avviene sulla scena romana è osservato con interesse da chi vive oltre i confini della capitale. Lo conferma il sondaggio condotto, nei giorni scorsi, da Demos per Repubblica, in ambito nazionale. Le polemiche che hanno coinvolto il sindaco Marino, infatti, sono state seguite con - molta o abbastanza - attenzione da poco più della metà degli italiani. Mentre oltre un terzo ha riservato loro uno sguardo più disattento. Ma solo una piccola componente, circa una persona su dieci, dichiara di non essersene interessata per nulla. Insomma, un talk di successo. Seguito, però, come fosse una fiction. Una sorta di " Romanzo criminale". La spiegazione principale della crisi, non per caso, è ricondotta dal 31% degli italiani alla scoperta di Mafia Capitale. All'intreccio tra (mal)affari, malavita e politica, che affonda le radici nel " mondo di mezzo". Una causa importante della crisi, segnalata da un quarto degli italiani (intervistati), è, inoltre, il mal-governo della città. Mentre alle polemiche sollevate dall'uso della carta di credito del Comune, da parte del sindaco, per spese personali, non viene attribuito grande peso. Come, d'altronde, alle tensioni interne al Pd. Minima, infine, l'importanza riconosciuta alle interferenze vaticane. Dietro alla crisi romana dunque, gli italiani vedono soprattutto le influenze incrociate della corruzione - politica e sociale - con la mediocre qualità del governo.

Per questo, non esiste " un solo" responsabile. La crisi di Roma, secondo gli italiani, ha diversi artefici. Tra questi, sicuramente, il sindaco Marino. Il quale, però, non è individuato come il principale " colpevole". All'origine del degrado, invece, quasi due italiani su tre vedono, anzitutto, l'amministrazione di centro-destra che ha governato Roma nel passato recente. Mentre le colpe del sindaco Marino e quelle del Pd, secondo gli italiani, pesano in egual misura, (57%). Molto di più rispetto al premier - e segretario nazionale del Pd - Matteo Renzi. Che, non per caso, nel commento ai dati dell'Atlante Politico pubblicato ieri, ho definito " Presidente senza partito". Visto che il suo consenso personale non si trasmette automaticamente al Pd. Sul quale, semmai, si scarica il risentimento sociale.

Infine, una componente più limitata, ma significativa, punta il dito sui cittadini romani. A conferma dell'immagine confusa prodotta dalla crisi di Roma. Dove il mal-affare si intreccia con gli affari. La corruzione politica sconfina nell'incapacità politica - e di governo - locale. E la società civile coabita, talora, con quella in-civile.

È, tuttavia, interessante notare come un'ampia maggioranza degli italiani (il 62%, che sale al 71% fra gli elettori del PD) continui a considerare le " primarie" il metodo migliore per scegliere il candidato. Segno che, al di là delle riserve e delle critiche (anche giustificate) emerse al proposito in molti ambienti politici - e non -, questa pratica, fra i cittadini, riscuote ancora larghi consensi. Tanto più a centrosinistra. Dove la domanda di partecipazione è particolarmente intensa e diffusa.

Nell'insieme, il sondaggio conferma come Roma, anche in fasi critiche come questa, non sia percepita, dagli italiani, come un luogo distante e distinto dal contesto nazionale. Al contrario. È vista come lo specchio delle deviazioni che coinvolgono il Paese. A ogni latitudine. A Nordest come a Nordovest. E - proprio in questi giorni - a Milano. Ma è, al tempo stesso, teatro della " Grande bellezza", narrata da Paolo Sorrentino. Centro di contrasti. E di paradossi estremi.

Per questo è guardata con attenzione e con interesse da tutti gli italiani. Nonostante le ironie e le invettive, è " Roma, Italia". O meglio: " Roma, Italie". Perché, in fondo, siamo tutti un po' romani.

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18 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/18/news/mafia_e_malgoverno_dietro_la_crisi_di_roma_e_il_clan_alemanno_ha_piu_colpe_di_marino-125326208/?ref=fbpr


Titolo: ILVO DIAMANTI - Cresce la fiducia in Renzi, ma non nel Pd / Atlante politico
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 06:16:33 pm
Cresce la fiducia in Renzi, ma non nel Pd / Atlante politico
Il sondaggio di Demos mostra un leader senza partito.
Il M5S si avvicina ancora, Forza Italia controsorpassa la Lega

Di ILVO DIAMANTI
17 ottobre 2015
   
Renzi prosegue la sua marcia. Tra una riforma e l'altra, senza sosta e senza quiete. Quasi un corpo a corpo. Con le opposizioni e con la maggioranza - peraltro, a geometria variabile. Mentre il PD è, a sua volta, scosso da tensioni interne. Un cammino contrastato, che lascia tracce visibili nell'opinione pubblica. Come emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos, condotto nei giorni scorsi, in ambito nazionale.

L'aspetto, forse, più inatteso dell'indagine - almeno dal mio punto di vista - è la distanza crescente, per non dire la dissociazione, fra Matteo Renzi e il PD. Il Partito: sembra in maggiore difficoltà rispetto al Premier. Che ha, ormai, " personalizzato" il governo, più ancora del partito.

Certo, il giudizio dei cittadini su Renzi e sul governo non è più quello del periodo aureo, successivo alle elezioni europee. Ma nell'ultima fase si è mantenuto, sostanzialmente, costante. Oggi, il 42% degli elettori (intervistati) esprime una valutazione (sufficientemente o molto) positiva sull'azione del governo. Più o meno come nel novembre 2014. Ma un po' più rispetto allo scorso giugno (39%). Il giudizio " personale" su Matteo Renzi ha, invece, subì to variazioni più rilevanti. Oggi il 44% degli italiani mostra di gradire il suo operato. Molto meno rispetto a un anno fa, quando l'indice superava il 60%. Ma, comunque, più degli ultimi mesi. Visto che lo scorso giugno era appena sopra al 40%. Tuttavia, Renzi resta il leader politico, di gran lunga, più apprezzato. Dietro a lui, Giorgia Meloni, assai più popolare del partito che guida (Fratelli d'Italia). Mentre i suoi avversari diretti sono lontani. Matteo Salvini, leader della Lega, è, infatti, valutato positivamente dal 33% dei cittadini (intervistati). In calo di 4 punti rispetto allo scorso giugno. Luigi Di Maio e Beppe Grillo, i portavoce del M5s: è gradito al 31%. Mentre Silvio Berlusconi, nemico-amico del premier, secondo la convenienza, è ancora più in basso. Apprezzato dal 26% dei cittadini. Un consenso, comunque, maggiore degli amici che lo hanno abbandonato strada facendo. Visto che il gradimento per Alfano, leader dell'NCD, si ferma al 23%. Mentre Verdini, ultimo ad aver lasciato Berlusconi, è ancora sconosciuto a molti (41%). E, comunque, sono in pochi (8%) ad apprezzarne le virtù politiche.

Così, Matteo Renzi appare, sempre più, il Capo di un Governo modellato a sua immagine. Che riesce a proseguire la marcia, nonostante le difficoltà e le insidie. E nonostante il malessere diffuso

nei confronti delle sue politiche. Visto che la maggioranza dei cittadini non sembra soddisfatta delle riforme avviate e approvate. In particolare, in materia di scuola, tasse e immigrazione. Lo stesso iper-attivismo del Premier - il suo marchio - rischia, a gioco lungo, di ridurre l'efficacia - per non dire l'utilità - delle sue iniziative, nella percezione dei cittadini. Si pensi alle riforme istituzionali. Soprattutto, alla riforma del Senato, che abolisce il bicameralismo perfetto. La bandiera di Renzi. Della sua volontà - e capacità - di voltar pagina. Quasi tre italiani su quattro la ritengono poco o per nulla influente, se non (il 9%) perfino dannosa. Oppure (il 16%) non ne sanno e non ne capiscono nulla.

Così, in tempi di distacco dalla politica e, anzi, di antipolitica, il Premier risulta, nonostante tutto, " moderatamente" apprezzato. Da una parte di italiani minoritaria. Ma, comunque, in misura superiore a tutti gli altri " politici". Il rischio principale, per Renzi, è semmai, di apparire sempre più " solo". Il Capo di una Repubblica fondata sul Premier. Una " Repubblica indistinta", per citare Edmondo Berselli. E imprevista, dalle riforme costituzionali e istituzionali approvate.

Per contro, la delusione e il malessere sociale, prodotti da una ripresa economica incerta e dagli scandali che si susseguono, lo sfiorano, senza investirlo direttamente. La stessa crisi politica romana, che ha spinto il sindaco Marino alle dimissioni, non sembra aver logorato il consenso di Renzi. I costi più elevati, semmai, li ha pagati il PD. Secondo le stime di voto di Demos, sarebbe sceso sotto il 32%. Il livello più basso dalle elezioni europee fino ad oggi. Mentre il M5s ha raggiunto il livello più elevato: il 27,2%. La distanza fra i due partiti si è, dunque, ridotta a circa 4 punti e mezzo. Alle europee era di quasi 20. Un anno fa: di oltre 16.

Gli altri partiti sono lontani. La Lega di Salvini sembra aver interrotto la sua corsa. La " pausa" nel flusso dei profughi - sui media, se non nella realtà - ha, probabilmente, ridotto l'efficacia del messaggio leghista. Così, attualmente, Forza Italia ha superato, di nuovo, la Lega. O, forse, è avvenuto il contrario. La Lega è scivolata sotto Forza Italia. Di poco. Meno di un punto percentuale. Entrambe attestate intorno al 13%. Anche per questo, i due partiti sembrano " condannati alla coalizione". Perché da soli rischiano la marginalità. Insieme, invece, diverrebbero competitivi. Soprattutto in caso di ballottaggio, come previsto dall'Italicum, la nuova legge elettorale voluta da Renzi. Secondo le stime di Demos, l'asse Lega-Forza Italia supererebbe il 48%. E si avvicinerebbe, dunque, al PD. Anche la sfida con il M5s, d'altronde, risulterebbe insidiosa, per il PD. Che non arriverebbe al 53%. In entrambi i casi, la distanza è ridotta. Al punto da non permettere previsioni sicure. Il PD appare, dunque, " favorito", ma non " predestinato" a un successo sicuro.

Naturalmente, sappiamo bene che i sondaggi sono fallaci. Esercizi teorici. Tanto più oggi, quando la scadenza delle prossime elezioni è lontana e, comunque, non prevedibile. Eppure anche questi dati servono a segnalare come il problema politico, forse, maggiore, per Renzi, oggi, non sia il governo. Ma il partito. Diviso fra PdR e PD. Una situazione insidiosa. Non solo per il PD. Anche per Renzi. Capo di un " governo personale". Ma può avere futuro un premier senza partito?
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17 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/17/news/renzi_leader_senza_partito_lui_sale_ma_il_pd_scende_m5s_ancora_in_crescita_fi_controsorpassa_la_lega-125255076/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ma il Papa più amato non porta consensi a una Chiesa sotto...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 02, 2015, 08:33:31 pm
Ma il Papa più amato non porta consensi a una Chiesa sotto assedio
Il sondaggio.
La spinta innovativa di Bergoglio ha creato un divario con le istituzioni religiose che non è mai stato così ampio in nessun pontificato

Di ILVO DIAMANTI
28 ottobre 2015

IL Sinodo, che si è appena concluso, ha confermato i cambiamenti in atto nella Chiesa. Sui temi etici e sociali. È stato, peraltro, scosso dalle rivelazioni, poi smentite, circa un presunto tumore al cervello, da cui sarebbe afflitto il Pontefice. Segnali che confermano come la spinta innovativa, impressa da papa Francesco, abbia prodotto tensioni che trascendono il campo religioso. Papa Francesco e la Chiesa, infatti, si rivolgono a pubblici, in parte, diversi. Per dimensione. E orientamento. Difficile incontrare un divario altrettanto ampio, nei precedenti pontificati. Dai primi anni Duemila, nessun Papa è stato altrettanto apprezzato. Almeno, in Italia. Dove ha sede il Vaticano. Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II, era, a sua volta, molto popolare. Secondo un sondaggio condotto da Demos nel 2003, più di 3 italiani su 4 esprimevano fiducia nei suoi confronti. All'epoca, fra gli italiani, anche la Chiesa disponeva di un consenso elevato. Superiore al 60%.
IL SONDAGGIO - LE TABELLE
Nel decennio successivo, tuttavia, il clima d'opinione si raffredda. In particolare, dopo il 2005, anno di elezione di Joseph Ratzinger, Benedetto XVI. Allora la fiducia nel Papa e, insieme, nella Chiesa declina. Si allinea, intorno al 50%. Joseph Ratzinger, d'altronde, è troppo intellettuale e  -  all'apparenza  -  distaccato, per suscitare passione. Benedetto XVI, per scelta consapevole, intraprende un cammino diverso. Deve confrontarsi con nuove sfide. Fra tutte: la secolarizzazione "consumista" e le migrazioni, che allargano il campo religioso. Attraverso l'ingresso di comunità che praticano altre fedi. Fra tutte: l'Islam. Così, la Chiesa di Ratzinger si dedica a marcare i confini: religiosi ed etici. Coltiva quello che, il suo maestro, Romano Guardini, definì "il distintivo cristiano". Ciò che "distingue" e differenzia i cristiani -  e, in particolare, i cattolici -  dagli altri "fedeli". Il messaggio di Benedetto XVI, dunque, si orienta principalmente al mondo cattolico. Per rafforzarne la coesione e le convinzioni. Anche così si spiega la riduzione dei consensi. Verso il Papa e, al contempo, verso la Chiesa. Visto che il Papa agisce, consapevolmente, anzitutto, "nella" Chiesa. E parla, principalmente, al mondo cattolico. La fiducia nei suoi confronti, di conseguenza, si "concentra" e si de-limita. Fino alle sue dimissioni, che ne umanizzano e valorizzano l'identità.

Così il suo credito, presso gli italiani, nel febbraio 2013, risale oltre il 53%. Mentre nei confronti della Chiesa si ferma al 44%. D'altronde, allora, oltre il 70% degli italiani si diceva d'accordo con la scelta di Ratzinger. Ritenuta una reazione, di fronte a una Chiesa (romana) lacerata da lotte interne e scossa dagli scandali. Gli succede Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco. E ottiene, subito, la fiducia di una larghissima maggioranza di italiani. Più di 8 su 10. Oltre il doppio rispetto alla Chiesa, che, nei primi mesi del suo pontificato, vede scendere la propria credibilità intorno al 40% dei consensi. Da ciò l'impressione che la fiducia nel Papa dipenda, in parte, da una condotta alternativa rispetto alla curia vaticana. Non per nulla l'ha definita e (stigmatizzata) come "l'ultima corte d'Europa". Nei due anni successivi, comunque, il consenso verso Bergoglio si è, in qualche misura, riverberato sulla Chiesa. Che ha visto crescere la propria credibilità, fino a superare il 50%. Come nella prima fase del pontificato di Benedetto XVI. Attualmente la fiducia nella Chiesa si aggira intorno al 47%. In altri termini: quasi 40 punti meno di papa Bergoglio, apprezzato da oltre l'80% degli italiani. Il distacco fra i due soggetti, il Papa e la Chiesa, in effetti, non è mai stato così ampio. Neppure all'epoca di papa Wojtyla. Le ragioni di questa differenza sono evidenti se si valutano gli orientamenti in base alla pratica religiosa. Papa Francesco, infatti, è guardato con fiducia dalla quasi totalità dei praticanti più assidui e saltuari.

Ma anche da una larga maggioranza (57%) di coloro che non vanno a messa. La fiducia verso la Chiesa, invece, è molto elevata, fra i praticanti assidui, ma crolla fra i saltuari e scompare insieme alla pratica. Per un confronto, il consenso verso papa Ratzinger, nel 2009 (Demos per Repubblica), superava il 60%, fra i praticanti e i saltuari, ma scendeva alla metà, fra i non praticanti.

Papa Francesco: "Il Sinodo è stato faticoso, ma porterà molto frutto"
In altri termini, papa Francesco unifica il sentimento degli italiani, al di là della fede e della pratica religiosa. La Chiesa, invece, lo divide. Non solo per ragioni di fede. Anche perché non sempre riesce a offrire un'immagine credibile. A causa di alcuni comportamenti che papa Francesco non ha esitato a denunciare. Anche per questo il sostegno a Francesco risulta così alto. E trasversale. Anche dal punto di vista politico. Il Papa, infatti, piace a sinistra ma anche a destra. Agli elettori del PD ma anche, e ancor più, a quelli di FI. Piace alla base del M5S, un po' meno ai leghisti. Che non ne apprezzano la pietà verso i profughi. Tuttavia, anche tra loro il gradimento per Francesco supera l'80%.

Questi dati, peraltro, suggeriscono il motivo, forse principale, di ri-sentimento verso il Papa, all'interno di alcune componenti della Chiesa-istituzione. Al di là delle logiche difensive di alcuni soggetti privilegiati, c'è una questione sostanziale. Questo Papa: è troppo popolare - per alcuni un po' populista. Troppo proiettato - e amato - all'esterno. Troppo aperto. Mentre la Chiesa, in questi tempi, si sente minacciata dalla secolarizzazione. Dalla cultura del consumo. Vede il proprio spazio conteso da altre religioni. Questo Papa: piace troppo a troppi, per essere accettato senza problemi da una Chiesa-fortezza. Assediata dal mondo.

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28 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/vaticano/2015/10/28/news/ma_il_papa_piu_amato_non_porta_consensi_a_una_chiesa_sotto_assedio-126039401/?ref=fbpr


Titolo: ILVO DIAMANTI - La controdemocrazia.
Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2015, 06:09:47 pm
La controdemocrazia.

Ilvo DIAMANTI

Non è facile governare, in Italia. A nessun livello. Al di là dei limiti della classe politica, l'azione dei gruppi dirigenti è frenata da molti vincoli. Istituzionali e legislativi. Volti a impedire lo sconfinamento dei poteri politici in ambito economico, sociale. E nella sfera dei diritti dei cittadini. La tiranno-fobia, alimentata dall'esperienza del fascismo, ha contribuito, in fase costituente, a rafforzare i poteri di controllo. Perché "ogni buona costituzione è un atto di sfiducia nei confronti del potere", osservava Benjamin Constant nel 1829. Così, le istituzioni di garanzia, per prima la magistratura, hanno assunto grande autorità. Anche se i poteri " politici" hanno cercato, spesso, di neutralizzarla. Fino a quando, nei primi anni Novanta, Tangentopoli ha travolto la classe politica della cosiddetta Prima Repubblica. Indebolita dagli scandali per corruzione. Da allora, magistrati, giudici, avvocati, insomma, le diverse istituzioni e figure del sistema giudiziario, hanno assunto un ruolo prioritario. Più che " garanti della giustizia": " giustizieri". Nel senso che i cittadini hanno affidato loro il compito di " giustiziare" la classe politica, inefficace e - appunto - corrotta. " Garanti della pubblica virtù", li definì Alessandro Pizzorno. In grado di delegittimare un leader, un partito, un'amministrazione. Tanto più al tempo della " democrazia del pubblico", dove i media e, soprattutto, la televisione hanno costituito il principale spazio della politica. Il centro dell'opinione pubblica.

Da allora, cioè, negli ultimi vent'anni, i " professionisti della giustizia", oltre che garanti, sono divenuti attori politici di primo piano. Magistrati e avvocati sono, infatti, numerosi: alla Camera e in Senato. Ma anche fra i sindaci e i governatori. Oppure, fra i " custodi" della legalità, in occasione di manifestazioni dove l'interesse pubblico si associa a grandi interessi economici e commerciali. Come l'Expo e le celebrazioni - imminenti - per il Giubileo. Allora la figura del magistrato, ma anche del prefetto, insomma: del " garante del bene pubblico", è divenuta una soluzione, quasi, obbligata. Per ragioni di " sfiducia" nei confronti del potere politico. Per citare un altro filosofo francese, in questo caso contemporaneo, Pierre Rosanvallon, l'Italia è un caso esemplare di " contro-democrazia". Che non significa anti-democrazia, ma " democrazia della sorveglianza". Dove la sfiducia si traduce in controllo democratico. Esercitata dai magistrati, ma anche da movimenti, comitati e dagli stessi cittadini. Soprattutto dopo l'avvento di Internet, che è divenuto un canale di controllo e denuncia largamente accessibile e frequentato.

Per questo, il nostro Paese dovrebbe essere considerato una " vera" democrazia. Benjamin Constant ne sarebbe ammirato. Perché, se la sfiducia è una " virtù democratica", l'Italia dovrebbe essere una democrazia particolarmente virtuosa. Visto che le istituzioni rappresentative sono sempre più " sfiduciate" dai cittadini. Parlamento, Regioni, Comuni. Perfino la fiducia verso lo Stato oggi non supera il 15% (Sondaggi Demos). Cioè: la metà rispetto al 2010. Mentre la fiducia nei partiti - lo abbiamo ripetuto spesso - è ormai scesa al 3%. D'altronde, oggi, oltre vent'anni dopo Tangentopoli, secondo il 47% degli italiani, la corruzione politica sarebbe più diffusa di allora. Secondo il 42%: allo stesso modo. Meno del 10% pensa, al contrario, che sia diminuita. Insomma, partiti e politici: tutti corrotti, proprio come allora.

Anche per questo, da molti anni, per ricoprire cariche e ruoli di amministrazione e di governo, si cercano figure " non politiche". Come confermano le recenti vicende romane. Dove al posto del sindaco Ignazio Marino, chirurgo trapiantista, sfiduciato dai consiglieri comunali, è stato nominato commissario Francesco Paolo Tronca, prefetto di Milano. Alla guida dell'Expo. A Roma era già stato chiamato Franco Gabrielli. Anch'egli prefetto. In precedenza direttore del Sisde. Fra i possibili candidati sindaci, si parla di Giovanni Malagò, Alfio Marchini. Non per caso: " non politici". D'altronde, a Napoli governa De Magistris, in Puglia: Emiliano (già sindaco di Bari). Entrambi magistrati. A Venezia è divenuto sindaco Luigi Brugnaro, imprenditore. Sfidato da Felice Casson, a lungo magistrato della città.

Il problema, semmai, in Italia, è che la contro-democrazia è " una" faccia della democrazia. Che è anche " governo". Ma in Italia l'azione di governo risulta più faticosa del contro-governo. Non per caso, il Movimento 5 Stelle, percepito dagli elettori come uno strumento di " sorveglianza democratica", secondo i sondaggi, oggi avrebbe superato il 27%. E si starebbe avvicinando al PdR. Mentre si assiste al declino dei canali della rappresentanza e della partecipazione. I corpi intermedi e i partiti: tradizionali canali di formazione della classe politica. E di promozione dei valori e delle domande sociali.

Il trionfo della contro-democrazia, però, sta logorando i suoi stessi protagonisti. La fiducia nei magistrati, infatti, fra i cittadini, dal 47%, nel 2003, è scesa al 35% nel giugno 2015. Tuttavia, anche se non è popolare (e neppure populista) affermarlo, io ritengo che una democrazia (rappresentativa) senza partiti non esista. Non sia " democratica". La politica, i politici: non possono essere rimpiazzati da magistrati, prefetti, imprenditori, giudici, avvocati, chirurghi. Scelti on demand perché " impolitici". Senza generare un senso di " vuoto". D'altronde, 7 persone su 10, in un sondaggio (Demos) di alcuni mesi fa, sostenevano che, in questo clima di confusione, " ci vorrebbe un uomo forte a guidare il Paese".

Matteo Renzi interpreta questi tempi inquieti. Li traduce " a modo suo". Per quanto " politico di professione" che rivendica il primato della politica, Renzi: decide (o dice di farlo) " da solo". È il premier di un governo " personale", il segretario di un partito che non c'è (più). Alla guida di un Paese dove non ci si fida di nessuno. Emblema di un presidenzialismo preterintenzionale, che sfida attori e vincoli della contro-democrazia. Specchio di una democrazia liquida. Fin troppo.

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03 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/03/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_1682479-126511352/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il forzaleghismo al test ballottaggio: la sfida ai democratici
Inserito da: Arlecchino - Novembre 09, 2015, 04:51:31 pm
Il forzaleghismo al test ballottaggio: la sfida ai democratici in 4 punti
Nel sondaggio Demos la "finalissima" Renzi-Salvini ha un esito netto a favore del centrosinistra.
Ma con l'asse Lega-Forza Italia la partita è sul filo.
Perché in quel caso si muoverebbero un quarto degli astenuti al primo turno


Di ILVO DIAMANTI
09 novembre 2015
   
La manifestazione che si è svolta ieri a Bologna ha saldato l'intesa tra Lega e Forza Italia. Tra Salvini e Berlusconi. Nonostante le incertezze delle ultime settimane, quando pareva che Berlusconi non avrebbe partecipato. Nonostante le polemiche interne ai partiti, soprattutto in Forza Italia. Nonostante tutto: Salvini e Berlusconi si sono presentati insieme. A marcare l'identità del Soggetto Politico Forza-leghista. O, meglio, Lega-forzista. Perché molti commentatori hanno visto in questa manifestazione una sorta di sottomissione di Berlusconi e di FI alla "nuova" destra, riunita da Salvini a Bologna. Dov'era presente anche Giorgia Meloni con i suoi Fratelli d'Italia. D'altronde, Salvini aveva scelto di non esibire marchi, né bandiere di partito. Perché, come ha ribadito dal palco, a Piazza Maggiore: "Qui nasce qualcosa di nuovo guidato da noi". E, quindi, da lui. Da parte sua, Silvio Berlusconi non pare intenzionato a farsi da parte. Ha, infatti, scandito, in modo inequivocabile: ‘Con Matteo, Giorgia e il ritorno di Silvio non ce ne sarà più per nessuno''. Sollevando fra i militanti presenti più di qualche dissenso. D'altronde, i rapporti fra i gruppi dirigenti e la base dei due partiti non sono mai stati particolarmente caldi. Troppo diversi, per storia e identità. La Lega: sorta come partito "dei" Nord. Radicato nelle classi popolari e nel lavoro autonomo. Indipendentista. Organizzata sul territorio. Identificata e rappresentata dalla figura del leader. Umberto Bossi.

Forza Italia. Partito "personale", inventato e costruito da Silvio Berlusconi. A immagine del "capo". Imprenditore mediale. Proprietario del principale gruppo televisivo privato. Oltre che di aziende del settore immobiliare, finanziario, pubblicitario. Forza Italia: ha attratto il voto dei ceti popolari, oltre che dalla piccola borghesia. Ma, soprattutto, ha occupato lo spazio lasciato vuoto dai partiti di governo dopo la fine della (cosiddetta) Prima Repubblica. Intercettando la sfiducia politica, diffusa in Italia, dopo Tangentopoli. Berlusconi. Ha coalizzato soggetti politici per molti versi lontani. Accomunati anche dal radicamento nel Nord. A Milano e nel Lombardo-Veneto. E dal sentimento (anti)politico. Berlusconi: ha canalizzato il voto dei "poli esclusi" (come li ha definiti Piero Ignazi). La Lega nel Nord, la Destra nel Sud. Li ha trasformati in maggioranza di governo. Per quanto instabile. Perché le componenti anti- politiche di questi gruppi dirigenti ostacolavano la "continuità".

Lo stesso problema, in fondo, si ripropone oggi. Anche se molto è cambiato, da allora. La Lega di Salvini ha, ormai, raggiunto Forza Italia, sul piano elettorale (almeno, nei sondaggi). Soprattutto, a causa del declino di Berlusconi e del suo partito personale. Ma anche per l'ascesa, parallela, della Lega, che Salvini ha trasformato in un soggetto politico di destra. Personalizzato. Xenofobo e antieuropeo. Che mira a espandersi a Centro-Sud. "Noi con Salvini". Una Ligue Nationale, sulle tracce del FN di Marine Le Pen. Anche se è difficile, per Salvini, affermarsi davvero su base Nationale. Perché, comunque, la storia nordista del suo partito gli impedisce di sfondare a Sud. E perché la Lega di Salvini è percepita dagli elettori come un soggetto anti-politico, più che politico. La nuova legge elettorale, l'Italicum, fatta approvare da Renzi, accentua queste difficoltà. Lo possiamo verificare dalle stime ricavate dal sondaggio di Demos di alcune settimane fa.

In caso di ballottaggio, infatti, la Lega Nord non sembra avere possibilità di successo. Risulta, infatti, distanziata di quasi 20 punti dal PD di Renzi. Il PdR. Oltre ai propri elettori, infatti, nel secondo turno potrebbe intercettare il consenso di 6 elettori di FI su 10. Mentre gli altri sceglierebbero il PdR oppure l'astensione. Otterrebbe, inoltre, il voto di quasi 3 elettori su 10 del M5s. E di un terzo di coloro che, al primo turno, si asterrebbero. Mentre raccoglierebbe poco o nulla dagli elettori dei partiti di Centro -  e di Centro-Destra. Troppo poco per ambire alla vittoria. Lo scenario, però, cambierebbe in modo significativo se Salvini e Berlusconi, Lega e Forza Italia, si presentassero uniti. Sotto le bandiere del Lega-forzismo, parafrasando la formula coniata da Edmondo Berselli, circa dieci anni fa. Allora diverrebbero sicuramente più competitivi. Secondo le stime di Demos (ottobre 2015), il PdR sarebbe ancora avanti. Ma di poco: 52% a 48%. Ciò significa: una partita apertissima e incerta. Il maggiore differenziale di consensi, rispetto alla Lega solitaria, giungerebbe, appunto, dalla base elettorale di FI.

Il Nuovo Soggetto Lega-Forzista otterrebbe anche il 27% degli astenuti del primo turno. E "convertirebbe" un quarto degli elettori del M5s. Infine, esprimerebbe maggiore capacità di attrazione verso gli altri partiti di Destra e, in qualche misura, di Centro. Ma, al di là delle dinamiche dei flussi, contano le dinamiche politiche. La Lega di Salvini, come prima quella di Bossi, fatica a legittimarsi come soggetto di governo. A intercettare il voto dei moderati. A causa di un linguaggio e un messaggio sempre più estremi. Il contrario della strategia condotta da Marine Le Pen in Francia. Così, Berlusconi, per quanto indebolito, diventa, come in passato, un lasciapassare. Un "mediatore". Perché è la figura che ha contrassegnato la politica italiana degli ultimi vent'anni. Il Berlusconismo: il marchio di un'epoca che continua, ancora oggi, a proiettare i suoi riflessi.

Naturalmente, si tratta di un passaggio complicato. Anche se i due partiti condividono circa metà del loro bacino di simpatizzanti, non è detto che farli marciare dietro alla stessa bandiera e allo stesso leader possa funzionare. Oggi, questa via è intrapresa non per confidenza, ma per - reciproca -convenienza. Per "stato di necessità". Domani è un altro giorno: si vedrà.
 
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09 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/09/news/il_forzaleghismo_al_test_ballottaggio_la_sfida_ai_democratici_in_4_punti-126937849/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Valeria non deve morire
Inserito da: Arlecchino - Novembre 17, 2015, 06:55:18 pm
Valeria non deve morire

16 novembre 2015

INSEGNO a Urbino da venticinque anni e a Parigi da venti. Non mi è mai stato facile far convivere i miei impegni in due Università e in due città così lontane. E così diverse. Eppure mi è stato utile. Dal punto scientifico, professionale. E umano. Perché sono due città bellissime, nella loro assoluta differenza. La Metropoli e la piccola "Città ideale". Eppure, per quanto distanti e distinte, per quanto incomparabili, queste due città, dal mio punto di vista, hanno almeno un aspetto che le accomuna. I giovani. Gli studenti.

A Urbino, ormai, quando incontri uno della mia età, non ci sono alternative: se non è un turista, è un professore. I residenti, quelli si sono trasferiti all'esterno. Hanno "affittato" la città agli studenti.

Quanto a Parigi, secondo il Qs World University Ranking, è al primo posto nella classifica delle Best Student Cities in the World. Cioè: delle migliori città dove studiare. A Parigi, d'altronde, ci sono 13 Università, più le Grandes Ecoles, che accolgono, ogni anno, decine di migliaia di studenti stranieri. Fra loro, Valeria Solesin, uccisa venerdì scorso dai fanatici jihadisti che hanno terrorizzato la Ville Lumière. Ammazzato 150 persone. Ferendone altrettante. In larga misura giovani. E studenti. Valeria era dottoranda in Demografia alla Sorbonne. Una vita per gli studi. Alternata all'impegno volontario.  Con Emergency. Accanto ai poveri del mondo. Un "cervello in fuga", si è detto, come altre migliaia di giovani. Non solo studenti. Che hanno a Parigi quella "Metropoli ideale", che gli jihadisti hanno voluto colpire. Lasciando dietro di sé una scia di sangue lungo un itinerario che io stesso sono solito percorrere. Suggestivo e ad alto contenuto simbolico. Da Place de la République a Rue Voltaire. Dove ha sede il Bataclan. Teatro del massacro di tanti giovani, accorsi a un concerto hard rock. Prima di tutto, per stare insieme. Per questo è stato scelto come bersaglio esemplare. Da chi non ha più ideali, né speranze, né futuro. E vorrebbe, per questo, uccidere gli ideali, le speranze e il futuro, che Valeria e gli altri giovani come lei, interpretano. Colpevoli -  esemplari - di essere giovani. E studenti. Tanto più, per gli jihadisti, se donne.

Ma, proprio per questo, Valeria non deve morire. Invano. Per i miei studenti di Paris II, in gran parte stranieri (non francesi). Per i miei studenti di Urbino. Per tutti gli studenti e per tutti i giovani e le giovani d'Europa. Molti di loro: arabi e musulmani. Per tutti loro. Per tutti noi. Valeria non deve morire.

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16 novembre 2015

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2015/11/16/news/valeria_non_deve_morire-127512483/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'incertezza congela la politica. M5s vera alternativa a Renzi
Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:29:04 pm
L'incertezza congela la politica. M5s vera alternativa a Renzi
Atlante politico, sondaggio Demos. La distanza tra il partito del premier e i pentastellati si sta riducendo a meno di 4 punti.
Per il presidente del Consiglio invece la partita sarebbe in discesa in caso di scontro con il centrodestra.
Spunta anche Diego Della Valle con una popolarità al 33 per cento. Controsorpasso della Lega su FI. SI al 5,5

di ILVO DIAMANTI
22 novembre 2015

I tragici avvenimenti di Parigi hanno "congelato" il clima d'opinione - politica - in Italia. Come se l'esigenza di "unità" avesse, in parte, stemperato le tensioni interne. Le polemiche fra leader e partiti, al proposito, sono apparse meno violente che in altre occasioni. Anche così si spiegano gli orientamenti emersi nel sondaggio dell'Atlante Politico di Demos, condotto nei giorni scorsi, in ambito nazionale. L'indice di gradimento del governo: sale al 46%, 4 punti più di un mese fa. Anche la fiducia personale nei confronti di Matteo Renzi risale al 48%. In entrambi i casi, un grado di consenso che non si osservava dalla scorsa primavera. Tuttavia, la richiesta di " tregua politica", nell'opinione pubblica, non favorisce solo il premier e il governo.

La fiducia nei confronti dei leader politici, infatti, fa osservare un miglioramento generalizzato. Tutti, infatti, rafforzano la loro immagine, agli occhi dei cittadini. Ad eccezione di Giorgia Meloni, il cui gradimento scende al 33%: 3 punti in meno, rispetto a un mese fa. Quando, però, aveva beneficiato del dibattito seguito alle polemiche "romane". Fra gli altri, risulta interessante la crescita di fiducia verso Salvini. Trainato, probabilmente, dalle polemiche sugli stranieri. E sul pericolo generato dai profughi in arrivo dal mare. Salvini, infatti, raggiunge il 38%: 5 punti più di un mese fa. Dietro di lui - e a Renzi - incontriamo i due leader del M5s: Grillo e Di Maio. Insieme a Bersani e, appunto, a Giorgia Meloni, compresi fra 32 e 34%. Unica novità: Diego Della Valle. L'ultimo arrivato sulla scena politica, insieme a un nuovo marchio: " Noi italiani". L'imprenditore marchigiano - presidente della Fiorentina - ottiene un buon grado di consensi: 35%. Meno di Salvini. Molto meno di Renzi. Ma (poco) più di Grillo, Di Maio e tutti gli altri. Tuttavia, come si è visto in passato, il vantaggio competitivo delle figure " nuove", provenienti dall'esterno, tende a sfumare quando " si scende in campo" e la novità finisce.

Così, in attesa che il clima internazionale si raffreddi - oppure, malauguratamente, si riscaldi ulteriormente - gli italiani guardano alle vicende e ai personaggi della scena politica interna con un certo distacco. Comprensibilmente. Le stime di voto lo confermano. E riproducono un profilo con pochi (anche se significativi) scostamenti, rispetto al mese scorso. Davanti a tutti, il PD di Matteo Renzi. Quindi, il M5s. Il PD: 31,6%, appena sotto un mese fa. Il M5s appena sopra: 27,4. La distanza fra i due partiti, dunque, si consolida, intorno a 4 punti. L'arretramento del PD di Renzi, peraltro, si spiega anche con l'avvio della Sinistra Italiana (SI), a cui hanno aderito SEL e altri gruppi, insieme agli esponenti della sinistra del PD usciti dal partito. SI, infatti, potrebbe intercettare una quota di elettori dalla base del PD. Non è detto che si tratti di un prezzo eccessivo, per Renzi. Il quale mira ad attrarre maggiormente gli elettori moderati. E, quindi, a distinguersi dalle posizioni di Sinistra più marcate. Ora interpretate ed espresse dalla SI.

Tuttavia, è interessante osservare come una maggioranza - limitata - di elettori del PD (53%) sosterrebbe l'ipotesi di un'intesa, in vista delle prossime elezioni politiche. Si tratta, tuttavia, di un consenso assai più ridotto rispetto a quello espresso dalla base elettorale di Sel-SI. La cui " sopravvivenza", senza il traino del PD, verrebbe messa seriamente in discussione dalla nuova legge elettorale. Un motivo in più, probabilmente, per spingere il premier a non tornare indietro. E ad " allontanare" il nuovo soggetto politico dal (sempre più) suo Pd(R).

Riprendendo le stime elettorali, l'unica vera novità appare la risalita della Lega di Salvini, oltre il 14%. E il parallelo arretramento di FI, sotto il 13%. Da ciò, il ri-sorpasso della Lega, che ri-supera, anche se di poco, FI. Da ciò, anche il consenso, largamente maggioritario, per una lista comune, che unisca Lega e FI. Una prospettiva sostenuta da circa 8 elettori su 10, in entrambi i partiti. Per necessità. Ma se il percorso unitario, a destra, appare con-diviso, le idee su chi lo debba guidare appaiono divise. Prevale, fra gli altri, Matteo Salvini. Oltre un terzo degli elettori di Centrodestra lo vorrebbe leader di una lista unitaria. Ma il 27% preferirebbe Silvio Berlusconi. Mentre il 17% punta su Giorgia Meloni. Le opinioni, al proposito, sono ovviamente influenzate dagli orientamenti di partito. E ciò potrebbe, al momento della scelta, complicare la confluenza degli elettorati dentro a un unico collettore politico. Dietro a un'unica bandiera. Per ora, osserviamo che, in caso di ballottaggio (come prevede la nuova legge elettorale, se nessuna lista superasse il 40%), il PdR prevarrebbe senza troppi problemi contro i soggetti di Centrodestra. Di larga misura (20 punti) contro la Lega - da sola. Ma in modo netto (più di 11 punti) anche contro una lista unitaria, che associasse la Lega di Salvini e il partito di Berlusconi.

Così, l'unica sfida veramente incerta appare (e sarebbe) quella fra il PdR e il M5s. Come si era già osservato un mese fa. Ma oggi l'incertezza appare ancora maggiore. Una distanza di poco più di 4 punti, 52% a 48%, si traduce, infatti, in una differenza di 2 punti. Perché ogni punto in più per una lista è sottratto, automaticamente, all'altra. In altri termini: ogni esito pare possibile. Anche perché il M5s non sembra più condannato al ruolo dell'opposizione " non alternativa". Certo, due terzi degli elettori pensano che non sarebbe in grado di governare, a livello nazionale. Ma quasi metà lo ritiene, al contrario, adeguato, in caso di vittoria, ad amministrare le grandi città dove si vota l'anno prossimo. Come Roma, Milano, Torino. Un'idea condivisa da quasi tutti gli elettori del M5s. Due anni fa non era così. Il M5s era " solo" un voto di protesta. Per quasi tutti gli elettori italiani. E per gran parte degli elettori del M5s. Ma i tempi cambiano. E il clima di insicurezza, alimentato dal terrorismo, vicino e lontano, contribuisce a modificare, ancora, e profondamente, il nostro sentimento politico. Anzi: i nostri sentimenti.

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22 novembre 2015

DA - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/22/news/ora_nell_incertezza_i_cinquestelle_sono_la_vera_alternativa_a_renzi-127895859/?ref=HREC1-8


Titolo: ILVO DIAMANTI - Don Luigi, il viandante generoso
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 07:05:39 pm
Don Luigi, il viandante generoso

03 dicembre 2015
   
È trascorsa una settimana da quando don Luigi Mazzucato ci ha lasciati. Ma non mi stupirei di vederlo (ri)apparire di nuovo. All'improvviso. Com'è avvenuto altre volte. Don Luigi era fatto così. Non dava mai nell'occhio. Preferiva l'impegno, il lavoro. Nel Cuamm. L'Associazione padovana impegnata nella formazione - e nella "missione" - dei medici "con" l'Africa. E sottolineo: "con".

Quando mi capitò, sovrappensiero, di parlare di Medici "per" l'Africa, don Luigi mi corresse subito. "Con" l'Africa. Perché, a differenza di altre organizzazioni, il Cuamm non agisce in Africa con proprie strutture sanitarie, in propri ospedali. Ma negli ospedali e nelle strutture santarie degli stessi Paesi africani dove interviene. In Sud Sudan, Sierra Leone, Mozambico. In Angola, Etiopia, Tanzania. E in altri ancora. Così, il Cuamm, i medici legati ad esso (ne sono partiti oltre 1000, nel corso degli anni), operano "insieme" e "accanto" al personale, meglio, alle persone di quel Paese. Non "per", ma "con" l'Africa.

Non si tratta solo di una filosofia e di un metodo di azione, ma, anzitutto, di un diverso modo di pensare e definire il rapporto fra "noi" e "loro". Agire "con" l'Africa significa, infatti, chiarire che lo facciamo anche -  soprattutto - per noi stessi. Oggi lo dicono in molti - con altri fini - che è meglio "aiutarli a casa loro". Ma per il Cuamm è diverso. Lavorare "con" l'Africa significa sostenere che l'impegno serve anzitutto a noi, italiani, veneti. Perché non potremmo essere noi stessi, senza incontrarci "con" gli altri. Don Luigi lo sapeva e, per questo, era sempre in movimento. In Africa e "con" l'Africa. Dove si è recato, in "missione", oltre 100 volte. E quand'era qui, stava sempre al telefono, in contatto con medici e operatori della sanità, volontari e volontarie che operano in Africa. Oppure con quelli presenti in Italia: per chiedere loro, in caso di urgenza, di partire. Non domani: subito. Appena una decina di giorni fa, un amico, primario ospedaliero, mi ha mandato un sms per disdire un appuntamento a cena, poche ore dopo. Si era appena imbarcato per volare in Sierra Leone. L'aveva chiamato -  convocato -  don Dante, il successore di don Luigi.

E adesso è ancora lì, all'ospedale di Lunsar. Dove si era già recato mesi addietro, al tempo dell'Ebola. Che aveva contribuito attivamente a contrastare. Vincenzo, come gli altri medici del Cuamm, utilizza così le ferie. Anche quelle accumulate in precedenza. Le trascorre in Africa. Negli ospedali dov'è presente il Cuamm. Mi accorgo, a questo punto, di non avere ancora parlato di don Luigi. Se non indirettamente. Attraverso il Cuamm, i suoi medici volontari, l'Africa e gli ospedali. Ma, in fondo, è ciò che egli avrebbe voluto. Il riassunto della sua vita. Vissuta sempre "con" l'Africa. Testimone e attore di quel "bene ostinato", a cui Paolo Rumiz, alcuni anni fa, un libro suggestivo (pubblicato da Feltrinelli). "Ostinato", perché capace di resistere a ogni pressione e a ogni pregiudizio. Figurarsi: proprio nel Veneto "egoista" un'esperienza di "altruismo" così importante. Animata da veneti.

Ma - non smetterò mai di insistere - il bene fa bene a chi lo fa, non solo ai destinatari. Anzi, i primi a beneficiarne, sono proprio i benefattori. Perché fare bene fa stare bene. Stare con gli altri è meglio che restare soli. Permette di rafforzare la nostra identità. Lo ha spiegato bene Carlo Mazzacurati, un altro amico che non posso e non voglio dimenticare, in un docu-film dedicato proprio ai "Medici con l'Africa". Attraverso le parole di una dottoressa che, da anni, continua a recarsi in Mozambico. "Non lo faccio per gli ammalati, i poveri. Non solo per loro. Lo faccio anche per me. Soprattutto per me. Perché ne ho bisogno. Senza l'Africa e senza di loro: non riuscirei a vivere".

Don Luigi, anche per questo, ha vissuto a lungo. Ha vissuto bene. Sempre in viaggio. Silenzioso. Un viandante infaticabile e generoso. Mite e forte, al tempo stesso. Appariva e scompariva all'improvviso. Lo ricordo, pochi giorni dopo il mio infarto. Nella mia camera d'ospedale. Alzai la testa dal cuscino e lo vidi. Non l'avevo sentito arrivare. E non mi accorsi neppure quando se ne uscì. Chissà: forse era già in Africa. Con l'Africa. E, anche adesso, non mi sorprenderei se fosse tornato proprio là. Non mi stupirei di vederlo riapparire. Per scomparire di nuovo. D'altronde, ha seminato bene. Molti volontari, molte persone, di buona volontà, ne hanno seguito le tracce e l'esempio. Perché il bene è ostinato. Si riproduce. È sempre in viaggio. Insieme agli altri. Accanto agli altri. "Con" gli altri. Ri-torna e poi ri-parte.  Come don Luigi.
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03 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2015/12/03/news/don_luigi_il_viandante_generoso-128674929/?ref=HREC1-35


Titolo: ILVO DIAMANTI Elettori di sinistra affezionati al Tg3, destra a Mediaset e ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2015, 07:22:26 pm
Il disincanto digitale: la metà degli italiani si informa su Internet ma la fiducia va in crisi
Il rapporto Demos-Coop conferma il dominio della tv.
Ma scopre anche che due italiani su tre ormai utilizzano la Rete per leggere i giornali. Nel 2007 si aggiornava sul web il 25%, oggi sono il doppio.
Spunta la categoria dei net-ibridi Il credito dei notiziari tv tiene.
Elettori di sinistra affezionati al Tg3, destra a Mediaset e 5Stelle a La7


Di ILVO DIAMANTI
06 dicembre 2015

FORSE è iniziata l'era del disincanto digitale. Lo suggerisce l'Osservatorio Demos-Coop su "Gli italiani e l'informazione" giunto alla nona edizione. Per la prima volta infatti Internet viene guardato con prudenza dagli stessi utenti abituali della rete. Anche nel 2015, comunque, la televisione si conferma il canale di informazione più consultato. È, infatti, frequentato, quotidianamente, dall'82% degli intervistati. Mentre il 49% afferma di informarsi ogni giorno attraverso Internet, il 38% mediante la radio. Il 26%, infine, sui quotidiani.

Gli scostamenti rispetto al 2014 appaiono minimi: 1-2 punti. Cioè, nulla, se consideriamo il margine di errore statistico. Per rilevare cambiamenti significativi, dobbiamo allungare lo sguardo più indietro. Almeno di 7-8 anni. Rispetto ad allora, infatti, la TV appare in calo di circa 5 punti, come, d'altronde, i giornali quotidiani (-4, per la precisione), mentre il ricorso alla radio diminuisce un po' di meno. Unico medium ad aumentare la propria diffusione sociale, nel sistema informativo, è, appunto, Internet. Nel 2007, utilizzato, ogni giorno, dal 25% degli italiani (intervistati). Da quasi il doppio, oggi. La distanza rispetto alla TV, rispetto al 2007, risulta, quindi, dimezzata: da (oltre) 60 a (oltre) 30 punti.

LE TABELLE

Tuttavia, negli ultimi due anni il sistema informativo sembra essersi consolidato, fra i cittadini. Anche -  e soprattutto perché, ormai, l'informazione è divenuta un sistema largamente "ibrido” -  per riprendere la nota definizione di Andrew Chadwick. L'accesso ai New Media, infatti, non esclude i media tradizionali. Al contrario, li include, li contamina. E viceversa. Solo una componente ridotta di persone si informa esclusivamente su Internet. Intorno al 4-5% dei cittadini. Mentre il 40% degli italiani sono "net-ibridi". Alternano internet con gli altri media. Due su tre, fra loro, utilizzano la rete per leggere i giornali. E, comunque, quasi tutti continuano a guardare la TV. Dove il riferimento ai social- media è costante.

La TV, appunto, continua ad essere frequentata, quotidianamente, da 8 italiani su 10. Perlopiù, come si è detto, in combinazione con altri media. Ma per oltre 2 su 10 (per la precisione: il 22%) si tratta dell'unico luogo attraverso cui si accede all'informazione. Si tratta di settori sociali definiti. Soprattutto donne, casalinghe, di età medio-alta e di istruzione medio-bassa, residenti nel Mezzogiorno e nelle Isole. Un tempo, elettori ed elettrici "fedeli" dei partiti "governativi". Da qualche anno, però, sono divenuti più incerti e distaccati. Quelli che decidono all'ultimo se e per chi votare. Il loro voto (o non-voto) è, dunque, strategico ai fini del risultato. Non per nulla, nelle campagne elettorali recenti, tutti i principali leader, anche i più critici verso l'informazione TV e chi la guida, si sono, puntualmente, recati nei salotti e nei talk televisivi. Per primi: quelli più "istituzionali". In particola- re, a Porta a Porta, ospiti di Bruno Vespa.

Il pubblico dei new media è, invece, simmetrico rispetto a quello degli spettatori "tele-centrici". Più giovane, istruito. Maggiormente esteso nel ceto impiegatizio, nelle professioni intellettuali. E fra gli studenti. Politicamente, si presenta orientato in modo preciso, anche se non esclusivo. La maggiore familiarità con la Rete e con i new media emerge, secondo le attese, fra gli elettori del M5s. I più "ibridi". Mentre il Pd si conferma trasversale. La base elettorale del PdR, il PD di Renzi, non mostra, infatti, particolari distinzioni nel rapporto con i media. Vecchi e nuovi. Si tratti di Tv oppure della Rete.
Neppure se spostiamo l'attenzione dai canali ai programmi di informazione si osservano grandi novità.

In termini di fiducia, non di ascolti, l'atteggiamento verso i Tg conferma, infatti, le tendenze degli ultimi anni. I più apprezzati restano i Tg Rai e in particolare il Tg3. Mentre, fra i Tg di Mediaset, solo il Tg5 mantiene un grado di stima elevato. Nel complesso, il credito nei confronti di tutti i notiziari tiene, oppure cresce, anche se di poco. Ma le performance migliori, negli ultimi anni, premiano ancora le reti All-News: Rai-News 24, Sky Tg24, insieme al Tg7. Soprattutto i Tg di Sky e di Rai News 24, i quali, rispetto al 2009, vedono salire la fiducia nei loro confronti di oltre 10 punti.

Se osserviamo gli orientamenti politici del pubblico, il legame fra media (soprattutto: TV) e politica appare ancora saldo. Indirizzato maggiormente a destra, nel caso dei Tg di Mediaset. A sinistra, per quel che riguarda i programmi della Rai. Ma, soprattutto, il Tg3. Gli elettori leghisti, invece, si fidano soprattutto del Tg5 e, quindi, del Tg2. Mentre gli elettori del M5s apprezzano il Tg de La7. Inoltre, il Tg3 e RaiNews24. Il Tg di Sky, infine, appare il più "trasversale".

La sola, vera, novità di questo Atlante dell'Informazione, è, però, costituita dal disincanto verso Internet. Certo: resta ancora lo spazio dove l'informazione appare più libera e indipendente (36%). Ma questa convinzione appare in calo significativo: 4 punti in meno solo nell'ultimo anno. Anche la fiducia nella rete sta diminuendo. Oggi è espressa dal 37% degli italiani: 3 punti meno di un anno fa, oltre 10 rispetto al 2013. Così gli italiani navigano su Internet, sempre più numerosi, per sempre più tempo. Ma si sentono osservati e sempre meno sicuri. Così, anche se non si fidano, per distrarsi un po', continuano a guardare la TV.

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06 dicembre 2015

Da -  http://www.repubblica.it/politica/2015/12/06/news/il_disincanto_digitale_la_meta_degli_italiani_si_informa_su_internet_ma_la_fiducia_va_in_crisi-128887933/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Più amato e odiato, l'Italia del 2016 è il paese di Matteo
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:11:59 pm
Più amato e odiato, l'Italia del 2016 è il paese di Matteo
Una timida ripresa di fiducia nelle istituzioni e nel futuro. E per la prima volta, dopo dieci anni di lenta erosione, il sentimento democratico che torna a stabilizzarsi, nonostante i partiti e i politici continuino a suscitare "risentimento". Così il rapporto Demos fotografa la difficile relazione tra cittadini e servizi pubblici. Con una speranza: andrà meglio l'anno prossimo

ILVO DIAMANTI
31 dicembre 2015

Il 2015, secondo gli italiani, è stato un anno grigio. Senza traumi e senza entusiasmi. Senza grandi cambiamenti e senza grandi novità. Nel rapporto con le istituzioni, ma anche nella vita quotidiana, tutto sembra essere avvenuto in modo tollerabile - e tollerato. Anche se non proprio "sereno". Così, il Rapporto 2015 di Demos per Repubblica - il XVIII - sulle relazioni fra gli Italiani e lo Stato rileva una timida ripresa di confidenza nelle istituzioni e, ancor più, nel futuro. Anzitutto, nel 2016. Gli italiani, dunque, si sono abituati a vivere al tempo della crisi. Hanno rafforzato la loro capacità di adattamento, di fronte alle difficoltà. Molte indagini, d'altronde, segnalano, da anni, che la principale specificità del carattere nazionale è l'arte di arrangiarsi. Un'arte appunto. Perché non è da tutti reagire alle emergenze, trasformandole in occasioni per ripartire e riprendere il cammino.

RAPPORTO DEMOS - LE TABELLE …

È già avvenuto altre volte, in passato. D'altronde, noi italiani siamo specialisti della "ri-costruzione". E oggi ne vediamo qualche segno, anche se ancora incerto. Dopo quasi dieci anni di crisi economica e di declino della fiducia verso il sistema pubblico, i servizi, le autorità. Unica eccezione: le Forze dell'ordine, per reazione alla domanda di sicurezza. E, nell'ultimo periodo, Papa Francesco. Il faro nella lunga notte della crisi. Nel 2015, invece, il sondaggio di Demos fa osservare una risalita -  per quanto lieve - degli indici di fiducia nelle istituzioni pubbliche. E del livello di soddisfazione nei confronti dei servizi. Lo stesso "sentimento" democratico, dopo 10 anni di lenta erosione, si consolida. Meglio: si stabilizza. Nonostante i partiti e i "politici" continuino a suscitare "ri-sentimento".

Certo, la fine della crisi sembra ancora lontana. La maggioranza dei cittadini (oltre i due terzi) la sposta avanti nel tempo. Oltre due anni. Perché più in là è difficile vedere, prevedere. Perfino immaginare. Eppure le attese nell'anno che verrà migliorano. Di poco, ma migliorano. Dopo una lunga penombra, gli italiani intravedono, dunque, un po' di luce. Anche perché, lo ripeto, si sono abituati all'oscurità e riescono a cogliere ogni bagliore. Ogni riflesso.



Naturalmente, non si tratta solo di abitudine. Qualcosa, effettivamente, è cambiato - secondo gli italiani. In meglio. Magari: in "meno peggio". Nell'economia, nella lotta all'evasione fiscale, nella credibilità internazionale dell'Italia. Insomma, nella politica. E questa tendenza dovrebbe essere confermata nel 2016, l'anno che verrà. Secondo gli italiani. Si tratta, certo, di un auspicio. Una speranza. Non di una previsione argomentata. Ma, comunque, riflette - e sottolinea - un cambiamento del clima d'opinione. Nel bene e nel male, vi ha contribuito, sicuramente, la figura del premier. Perché l'Italia, oggi, appare il "Paese di Matteo". Visto che Renzi, secondo il sondaggio di Demos, è il personaggio "migliore", ma anche il "peggiore" del 2015. In ogni caso: è il "personaggio dell'anno". Insidiato, da lontano, da un altro Matteo: Salvini. Mentre la principale "opposizione", il M5s, non ha leader che suscitino emozioni. Positive o negative, non importa. È un non-partito, dove coabitano e confliggono molti non-leader. Intorno a Grillo, megafono sempre meno ascoltato. Nel 2015, invece, dopo tanti anni da "protagonista", Silvio Berlusconi si scopre "comprimario". Lo troviamo nella classifica dei "peggiori", indicato da un modesto 7% del campione. Poco, quasi nulla, per chi, fino a ieri, aveva diviso gli italiani. Erigendo un nuovo muro intorno a sé. Ora non è più così. E, insieme a lui, è declinato anche il suo partito. Personale. Eppure la sua eredità resiste.

Dopo vent'anni, trascorsi a dividerci e a catalogarci in base al "berlusconismo", ci ritroviamo ancora lì. A dividerci e a contarci intorno a un (nuovo) Capo. Tra renziani e anti - renziani. Tra gufi e tifosi. Senza appartenenze né ideologie. Nostalgie inaccettabili, per chi coltiva l'immagine e viaggia veloce nella rete. È il segno di questi anni. Del 2015 e, sicuramente, del 2016. Tempi aridi. Speriamo (io, almeno, spero) di sopravvivere.
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31 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/31/news/piu_amato_e_odiato_l_italia_del_2016_e_il_paese_di_matteo-130401227/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_31-12-2015


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il vuoto che lascia il Cavaliere sparito
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2016, 05:53:54 pm
Mappe.

Il vuoto che lascia il Cavaliere sparito

Di ILVO DIAMANTI
04 gennaio 2016

È difficile rendersi davvero conto che Berlusconi non è più il centro della politica. Il muro che divide gli italiani. Antiberlusconiani contro anticomunisti. Anche se le sue dimissioni, nel novembre 2011, ne hanno segnato l'uscita dal governo.

 Eppure, un anno dopo, alla fine del 2012, nel Rapporto condotto da Demos, il 48% degli italiani lo indicava, ancora, come "il peggiore". Più che nel 2004, dieci anni dopo la discesa in campo. Quando era definito "il peggiore" dal 38%. Capace, per questo, più di ogni altro politico, di suscitare sentimenti opposti, nel Paese. Ebbene, quel tempo, quel mondo è finito. Il XVIII Rapporto sugli Italiani e lo Stato, pubblicato su Repubblica la settimana scorsa, lo mostra in modo esplicito. Berlusconi, infatti, nella graduatoria dei "peggiori" del 2015 è "solo" terzo. Indicato dal 7% del campione. Non perché la sua immagine sia, improvvisamente, migliorata. Nella classifica dei migliori, non c'è proprio. Segno che Berlusconi, nel sentimento e nel risentimento politico nazionale, conta molto poco. Pressoché nulla. E questo costituisce un problema. Anche per chi non ne ha mai apprezzato né approvato il ruolo e le scelte politiche. Perché, per oltre vent'anni, la politica italiana, com'è noto, si è organizzata, strutturata, intorno a lui. Berlusconi: ha fornito riferimenti etici (e anestetici) a un Paese dove i partiti erano scomparsi, insieme alla classe politica della Prima Repubblica. Dissolti da Tangentopoli. Berlusconi ha imposto il suo modello di "democrazia del pubblico", dove i partiti sono subordinati alle persone e ai leader, l'organizzazione è rimpiazzata dalla comunicazione. Mentre le identità e i messaggi sono elaborati in base ai sondaggi e al marketing. Nulla di nuovo rispetto a ciò che avveniva, già da tempo, altrove. Con la differenza che qui tutto è capitato all'improvviso. E il protagonista, Berlusconi, era, anzitutto, un imprenditore mediatico. Inventore e proprietario di un partito personale. Forza Italia. Da allora, la politica in Italia è cambiata profondamente. E tutto, tutti, si sono strutturati a sua immagine. I partiti si sono personalizzati e leaderizzati. Mediatizzati. I sentimenti e i risentimenti, i soggetti politici: si sono coalizzati e divisi intorno a lui. Al muro di Arcore, costruito sulle rovine della Prima Repubblica - e del muro di Berlino. Oggi quel muro non c'è più, ma il "berlusconismo", i modelli e i (risentimenti) politici che egli ha imposto, resistono, diffusi e radicati. Tuttavia, il nostro sistema politico, insieme a Berlusconi, ha perso la "bussola".

 In primo luogo, e in particolare, si è perduta la destra. Questa destra, in fondo, l'aveva inventata lui. Scongelando i post-fascisti guidati da Fini. E, coalizzando, anzi: portando al governo, la Lega padana di Bossi. Lega Nord e Lega Sud. Nazionalisti e secessionisti, uno dei tanti miracoli italiani, di cui Berlusconi costituisce un caso esemplare. Parallelamente, aveva re-inventato i comunisti. Cioè: tutti coloro che si collocavano contro. Di lui. Un vero "centro", in questo Paese, non c'è mai stato. Eredità del bipartitismo imperfetto della Prima Repubblica. Impostato sull'opposizione fra comunisti e anticomunisti, riprodotta da Berlusconi. Fino a ieri, appunto. Perché oggi non esiste più. Certo l'eredità di Berlusconi conta ancora molto. Tutti i partiti sono mediali e personali.

 Anche il Pd, oggi, appare più "personale" che "personalizzato". Mentre il leader (e premier) è abile con i media, vecchi e nuovi. Ma se Renzi è post-berlusconiano, come altri leader del nostro tempo, non è un nuovo Berlusconi. Non solo perché non è segnato dal conflitto di interessi. Ma perché, a differenza di Berlusconi, non spacca in due il sistema partitico. È molto più trasversale. Non per caso, risulta, al tempo stesso, il più apprezzato e deprecato dagli italiani. Il migliore e il peggiore del 2015.

 Non solo, ma la curva della fiducia nei suoi confronti, fra gli elettori, non appare "spezzata" lungo l'asse sinistra-destra. Certo, a centrosinistra è più apprezzato (meno nei settori più a sinistra). Ma anche a destra e a centrodestra dispone di consensi significativi. Berlusconi, invece, quando aveva successo, concentrava tutti i suoi consensi a destra. La sinistra, per lui, era una parola blasfema.

 Ma oggi Berlusconi ha smesso di fare da bussola. La principale opposizione a Renzi e al suo PdR (Partito di Renzi) è espressa dal M5s. Che raccoglie il ri-sentimento degli elettori. In modo trasversale. Parallelo al PdR. Mentre a destra non si vede un'opposizione "alternativa". La Lega di Salvini si è nazionalizzata. È divenuta Ligue Nationale. Lepenista. Per questo, anche per questo, nei sondaggi non va oltre il 14%. Per questo, anche per questo, da sola, non ha chance di vincere le elezioni politiche. Né di governare. Da sola. Neppure in caso di ballottaggio, com'è previsto dall'Italicum. Anche per questo, la Lega di Salvini "ha bisogno" di Berlusconi. Come garante e moltiplicatore dei suoi consensi. Localizzati e troppo marcati a destra. Mentre Berlusconi, da parte sua, "ha bisogno" di Salvini. Per tornare ad essere competitivo. Anzitutto, a livello territoriale. Nelle città dove si voterà questa primavera. Dove Berlusconi, con Fi, il suo partito personale, correndo da solo, rischia non solo di perdere, ma di finire male. Messo sotto dalla stessa Lega, sul piano elettorale. Non per caso ha già annunciato la possibilità di rinunciare al marchio di Forza Italia, sostenendo solo liste civiche. Alleate con Salvini.

 Prove generali di un nuovo soggetto politico: Dlf. La Destra Lega-Forzista. Per scongiurare il rischio che, alle prossime elezioni nazionali, il gioco si risolva fra due soggetti politici "pigliatutti" e trasversali. Pdr e M5s. L'ultimo muro contro il crollo definitivo dei muri.

© Riproduzione riservata 04 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/04/news/il_vuoto_che_lascia_il_cavaliere_sparito-130583620/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Schengen, la nostra identità in quel trattato.
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2016, 11:39:22 pm
Schengen, la nostra identità in quel trattato.
Non può bastare la moneta unica

Di ILVO DIAMANTI
25 gennaio 2016
   
Un giorno dopo l'altro, l'Europa appare sempre più divisa. D'altronde, è difficile affidare il progetto unitario a una moneta. Tanto più in tempi di crisi economica e finanziaria. Perché se l'Europa si riduce a un euro, allora si svaluta. E l'anti-europeismo si allarga. Tuttavia, la questione europea diventa critica quando vengono messi in discussione i confini. Meglio: quando vengono ripristinati i controlli sui confini. Non per caso, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, a Davos, ha espresso il timore che l'emergenza prodotta dai flussi di migranti possa compromettere il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone tra gli Stati dell'Unione. Perché in quel caso verrebbe — implicitamente — rimesso in discussione il progetto di costruzione europea. Lo stesso timore è stato ribadito dal premier Matteo Renzi. D'altronde, l'euro, come i mercati, non ha confini. Può circolare comunque e dovunque. Le persone no. E i limiti imposti ai migranti si riproducono e rimbalzano anche sui residenti. Perché le frontiere sottolineano la sovranità degli Stati nazionali rispetto a quella europea. In definitiva: riflettono — e accentuano — la debolezza dell'Europa. Come progetto e come soggetto.

Tuttavia, sarebbe sbagliato trattare i "confini" semplicemente come un problema. Da superare e, possibilmente, eliminare. Per dare forza alla sovranità e all'identità europea.

Le frontiere e i confini: servono. Sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. Come la geografia, le mappe. Servono a orientarci, a rappresentare il mondo intorno a noi. I cambiamenti dei confini — e della geografia — riflettono, a loro volta, i cambiamenti nella distribuzione e nell'organizzazione del potere, su base territoriale. Il nostro disorientamento, negli ultimi decenni, negli ultimi anni, riflette il declino, in alcuni casi, il dissolversi dei nostri punti di riferimento. La trasformazione rapida e violenta del limes, com'era definito il confine (in continua evoluzione) dell'Impero romano. (E come recita il titolo di una nota rivista di geopolitica: liMes, appunto). Noi, infatti, siamo orfani dei muri che per decenni hanno (de)marcato il nostro mondo. Eppure, al tempo stesso, gli davano senso, oltre che rappresentazione. Il muro di Berlino, a Est. Il Mediterraneo a Sud. Erano frontiere politiche, ma anche sociali e culturali. Ideologiche. Oggi non ci sono più. A Est: dallo sfaldamento dell'Unione Sovietica è ri-emersa la Russia. Che, tuttavia, non costituisce più, come prima, "l'altro" polo del Mondo. Ma "un" polo, per quanto importante. Mentre, nel caso del Mediterraneo, non si tratta più di un muro. Non ci separa (e non ci difende) più dall'Africa, né dal Medio-Oriente. È, invece, un confine stretto. Mentre il mondo è divenuto sempre più largo. E sempre più vicino. Incombe su di noi. La globalizzazione, per riprendere una nota definizione di Antony Giddens, è stretching spazio-temporale. Allungamento dei processi e delle relazioni nello spazio e nel tempo. E, dunque, perdita dei confini. Perché tutto ciò che


avviene dovunque, nel mondo, anche molto lontano da noi, può avere riflessi immediati qui. Adesso.

Anche perché tutto avviene e scorre sotto i nostri occhi. Riprodotto e amplificato dai media. In diretta. E tutto rimbalza sulla rete. A cui tutti possono accedere. In tempo reale. Per questo, i confini non ci possono difendere. Ma, proprio per questo, abbiamo bisogno di confini. Di frontiere. Perché, come ha sostenuto Régis Debray, in un testo alcuni anni fa (dal titolo significativo Eloge des frontières, Gallimard 2010, pubblicato in Italia da ADD, 2012): "…una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino possibile contro l'epidemia dei muri". (D'altronde, neppure i muri possono frenare i movimenti di persone, quando si tratta di esodi spinti dal terrore e dalla fame). Né, tanto meno, possono — né vogliono — fermare i flussi economici e monetari. Per questo, tanto più per questo, abbiamo bisogno di frontiere. Per dare ordine alla nostra visione del mondo. Per sentirci sicuri. Per avere la sensazione che esistano autorità in grado di governare la società. Capaci di esercitare la sovranità nel territorio in cui viviamo.

Perché, in fondo, è questo il fondamento — e il significato — dello Stato. Senza confini e senza frontiere, noi rischiamo di perderci. Di divenire, noi stessi, eterni migranti. Alla ricerca di una terra. Non "promessa". Una terra e basta. Noi abbiamo bisogno di mappe per orientarci. Il trattato di Schengen è importante. Perché supera e apre i confini "interni" all'Europa. Ma, al tempo stesso, marca i confini "esterni". Dentro i quali è possibile la libera circolazione. In base ai quali è possibile negoziare con gli "altri". Così, definisce (cioè, delimita) l'Europa. Lo spazio entro il quale non abbiamo bisogno di passaporti da esibire alle frontiere. Perché non ci sono controlli alle frontiere. Anzi, non ci sono frontiere. Lo spazio dove, cioè, possiamo dirci — e sentirci — europei. Non uno Stato nazionale, ma una Confederazione di Stati nazionali. Che condivide alcuni interessi ma, anzitutto, un sentimento comune.

Per questo, come hanno osservato, polemicamente, Lagarde e Renzi, le limitazioni imposte alle frontiere di alcuni Stati europei rischiano di provocare il fallimento del Trattato di Schengen. E, insieme, del progetto europeo. Perché l'Europa, questa Europa, è senza confini. L'Europa: dove comincia e dove finisce? Chi ne fa parte? Chi ne farà parte? Difficile comprenderlo. Tanto più se, invece di indicare un limes, un territorio condiviso, che distingua noi dagli altri, i governi nazionali sono impegnati a erigere barriere interne all'Europa, invece di delineare e condividere quelle esterne. E in questo modo confermano e, anzi, accentuano l'in-capacità di costruire l'Europa.

Perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com'è possibile costruire un'identità europea? Sentirsi e dirsi europei?

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25 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/01/25/news/la_nostra_identita_in_quel_trattato_non_puo_bastare_la_moneta_unica-131980704/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'Italia, un passante verso altrove
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 01, 2016, 09:03:03 pm
L'Italia, un passante verso altrove
27 gennaio 2016
   
Le immagini e le parole sono importanti. Raffigurano e rappresentano un fenomeno sociale. Anzi, lo costruiscono. Oppure lo de-costruiscono. Come sta avvenendo in questi tempi di grandi movimenti demografici. Difficili da definire e da concepire, anche a causa della pluralità di parole e immagini che usiamo per "dirli". Immigrati, profughi, rifugiati, clandestini. Migranti. Non è la stessa cosa. Questi termini non hanno lo stesso significato. Anche se, insieme, evocano un fiume impetuoso, che non riusciamo a frenare, tanto meno, a incanalare. Così emerge e si afferma l'immagine dell'invasione.

Anche se non è facile comprendere come si possa essere invasi e occupati da una massa di uomini in fuga. Spinti da povertà e paura. Oppure "deportati" da mercanti di disperazione. Ma ci mancano le parole per dire quel che sta capitando intorno a noi. A stento, riusciamo a manifestare il nostro sconcerto, la nostra difficoltà di comunicare - e di capire - le grandi trasformazioni che ci attraversano. Letteralmente. Perché siamo un Paese a metà. Una terra di mezzo. E abbiamo il problema di collocarci. Di capire dove e, quindi, cosa siamo. Quale posto occupiamo in Europa. E in questa parte del mondo. Perché intorno a noi, a Est, si erigono muri. Steccati. Barriere di filo spinato. Per contrastare e per frenare, magari: per deviare, l'esodo che arriva dalla Grecia e dalla Turchia.  Mentre Nord e a Ovest si ripristinano le frontiere. O meglio: i controlli al confine. Per scrutare se, in mezzo ai flussi dei migranti (emigranti, immigrati, profughi...), vi siano dei possibili terroristi infiltrati.

Visto dall'alto, questo spostamento da Sud verso Nord appare evidente. Rispecchia la storica tensione, anzi, la fuga, dalla povertà al benessere. Dal sottosviluppo allo sviluppo. In questo grande movimento, in questo grande esodo che segna il nostro tempo, l'Italia appare soprattutto, se non solo, un luogo di passaggio. Di transizione. Verso altri Paesi, altre destinazioni. Si fermano in Italia il tempo necessario per proseguire la fuga. Così, noi ci difendiamo dagli altri che percepiamo come una minaccia. Ma dovremmo difendere noi stessi. Dalla nostra perifericità crescente. Che rischia di ridurci a custodi di un non-luogo. Attraversato da popoli che guardano "oltre". Impegnati in un grande esodo. Verso una terra promessa che sta al-di-là, più a Nord. Mentre noi diventiamo una sorta di svincolo. Un passante per l'Europa. Cioè: verso "altrove".

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27 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/01/27/news/l_italia_un_passante_verso_altrove-132119086/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il popolo senza età del Paese vuoto
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 01, 2016, 09:04:09 pm
Il popolo senza età del Paese vuoto

Di ILVO DIAMANTI
01 febbraio 2016
   
È il tempo della demografia. Argomento importante e discusso almeno quanto la democrazia. È sufficiente, a questo proposito, osservare le manifestazioni e gli avvenimenti che hanno mobilitato il Paese, in questa fase.

In nome della famiglia e delle unioni civili. Delle adozioni e della maternità surrogata. Questioni di grande rilievo etico e politico. Ma, indubbiamente, anche "demografico".

Come, a maggior ragione, le migrazioni che, da mesi, proseguono, dall'Africa e dal Medio Oriente. E premono alle nostre frontiere. È il tempo della demografia. Un tempo inquieto, pervaso di paure e tensioni. E grandi discussioni. In ambito politico, mediatico. E sociale. Perché la demografia è importante quanto la democrazia. I due piani: si incrociano e si condizionano reciprocamente. Basti pensare a come democrazie considerate all'avanguardia dei diritti reagiscano alle sfide demografiche. Ai movimenti migratori che "risalgono" da Sud verso il Nord. La Svezia: ha deciso di espellere 80mila immigrati. Di rimpatriarli, con voli speciali. Mentre la Finlandia intende seguirne l'esempio. Promette di rimandarne a casa almeno 20mila. In Danimarca, invece, il governo liberale, con il sostegno dell'opposizione socialdemocratica, ha deciso effettuare prelievi forzosi sui beni personali dei richiedenti asilo, per sostenere le spese di accoglienza. In Italia non sono state ancora prese decisioni di questo genere. Ma le tensioni e le discussioni politiche sono accese. Da anni. D'altronde, Lampedusa è stata, fino a poco tempo fa, la prima "porta verso l'Europa" dell'immigrazione in fuga dalla Libia. Prima che i flussi si spostassero verso la Grecia e la Turchia. Spinti dai conflitti con l'Is nell'area fra Siria e Iraq. Ma la "questione migratoria" ha continuato a essere agitata dagli "imprenditori della paura". Che alimentano la minaccia dell'invasione. Gli stranieri alle porte, che minacciano il nostro benessere. Il nostro futuro. Un argomento inquietante - e dunque attraente - in questi tempi inquieti.

Noi, d'altronde, siamo un Paese in "transizione", sotto il profilo democratico (anche se la transizione, suggerisce Stefano Ceccanti, in un saggio in uscita per Giappichelli, sarebbe "quasi finita"). Ma in via di "estinzione" sotto il profilo demografico (come suggerisce il dossier del Foglio di lunedì scorso). I dati, al proposito, sono noti da tempo. Ma, di recente, appaiono perfino drammatizzati. Per la prima volta, dopo il biennio 1917-18, cioè dall'epoca della Grande Guerra, la popolazione residente in Italia, nel 2015, è diminuita. Di circa 150 mila unità, segnala il demografo Gian Carlo Blangiardo (sul portale neodemos.info). Perché sono aumentati i decessi, mentre le nascite hanno continuato a calare. E il contributo demografico degli immigrati si è molto ridimensionato, rispetto ad alcuni anni prima. La paura dell'invasione, dunque, contrasta con la

realtà dei fatti. Ma anche con la posizione (e la percezione) dell'Italia, presso gli stranieri. Il nostro Paese, infatti, agli immigrati che arrivano appare prevalentemente un "luogo di passaggio". Una stazione provvisoria. Verso altre destinazioni, più ambite. D'altronde, i flussi migratori sono strettamente legati agli indici di crescita economica e dell'occupazione. Ma anche all'estensione del welfare. Condizioni favorevoli all'accoglienza, che, tuttavia, si stanno deteriorando ovunque, in Europa. E da noi in modo particolare.

La nostra "demografia", dunque, soffre. Come la nostra economia e la nostra occupazione, che difficilmente avrebbero potuto svilupparsi, negli ultimi vent'anni, senza il "soccorso" degli immigrati. Noi, tuttavia, non ce ne accorgiamo. E soffriamo l'arrivo degli "altri". Il nostro declino demografico riflette, inoltre, l'invecchiamento. La popolazione anziana (da convenzione: oltre 65 anni), in Italia, costituisce, infatti, il 21,4% della popolazione. Il dato più alto in Europa, dove la media è del 18,5%. Accanto a noi, solo la Germania. Per avere un'idea della crescita, si pensi che, nel 1983, la quota di popolazione anziana, da noi, era intorno al 13%. Sul piano globale, l'Italia è già oggi il terzo paese per livello di invecchiamento, anche perché appena il 14% dei residenti è al di sotto dei 15 anni. D'altronde, noi invecchiamo in misura maggiore che altrove non solo per la caduta dei tassi di natalità e per l'aumento della mortalità, ma perché l'emigrazione colpisce anche noi. Sono partiti dall'Italia quasi 95mila italiani nel 2013 (secondo il Rapporto della Fondazione Migrantes), poco meno di 80mila nell'anno precedente. Molti più degli stranieri arrivati in questi anni. Si tratta, soprattutto, di giovani (fra 18 e 34 anni). In possesso di titolo di studio elevato. I nostri giovani, i nostri figli. Soprattutto se dispongono di un grado di istruzione elevato. E ambiscono a occupazioni adeguate. Se ne vanno. Praticamente tutti. Perché l'Italia non riesce a trattenerli. A offrire loro opportunità qualificanti. Così invecchiamo sempre di più. E ci sentiamo sempre più soli. Anche se ci illudiamo di restare giovani sempre più a lungo. Per sempre giovani. Basti pensare che (secondo un sondaggio dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos-Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, di prossima pubblicazione) il 19% degli italiani pensa che la giovinezza possa durare anche oltre i 60 anni. Il 45% che finisca tra 50 e 60 anni.

Io, che, a 63 anni compiuti, mi considero (almeno) anziano, senza rimpianti e, anzi, con una certa soddisfazione, per aver conquistato il "privilegio" di una maturità avanzata, mi devo rassegnare. Alla condanna di non invecchiare. O meglio (peggio...), di non diventare adulto. Una minaccia che, come hanno rammentato di recente Ezio Mauro (su Repubblica) e Gustavo Zagrebelsky (in un saggio pubblicato da Einaudi), incombe su di noi. In particolare, sugli italiani. Abitanti di un Paese che non c'è. In un tempo che non c'è. Per questo dovremmo fare appello alla demografia. Leggerne le indicazioni e gli ammonimenti. Ma per non estinguerci, per non finire ai margini, dovremmo davvero chiudere le frontiere. Verso Nord. Per impedire agli immigrati - come ai nostri giovani - di andarsene altrove. E di lasciarci "a casa nostra". Sempre più vecchi. Sempre più soli. Sempre più incazzati. Con gli altri. Ma, in realtà: con noi stessi.

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01 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/01/news/il_popolo_senza_eta_del_paese_vuoto-132455930/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quei sindaci senza territorio
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 18, 2016, 11:59:25 am
Quei sindaci senza territorio

Di ILVO DIAMANTI
15 febbraio 2016

Siamo in tempo di primarie e di scelta dei candidati sindaci, in vista delle amministrative della prossima primavera. Quando si voterà per rinnovare sindaci e amministrazioni di oltre 1300 comuni. Tra questi, alcuni importanti capoluoghi di Regione: Bologna, Cagliari, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste. Poco più di vent'anni da quando entrò in vigore l'elezione diretta del sindaco. Ma pare passato un secolo, un millennio, da allora. L'unico partito che contasse, in quegli anni, era il "partito dei sindaci". Delle grandi città. Fra gli altri: Cacciari a Venezia, Illy a Trieste, Castellani a Torino, Bassolino a Napoli, Rutelli a Roma.

L'avvento del "partito dei sindaci" sanciva il superamento della "democrazia dei partiti" tradizionali. I partiti di massa, sepolti, insieme alla Prima Repubblica, sotto le macerie del muro di Berlino. E di Tangentopoli. Il rapporto dei cittadini con la politica, da quel momento, si trasferì: dalle organizzazioni alle persone. Mentre la ricerca del consenso venne affidata alla comunicazione e ai media, invece che all'ideologia e alla partecipazione. Questo cambiamento, in ambito nazionale, venne interpretato e imposto, soprattutto, da Silvio Berlusconi, l'anno seguente. Quando, inventò un partito mediale e personale, Forza Italia, che si affermò alle elezioni politiche del 1994. Quel modello ha trasformato la politica e i modelli di partito. Fino ad oggi.

L'elezione diretta dei sindaci, nel 1993, segnò, inoltre, lo spostamento degli equilibri di potere dal centro alla periferia. I sindaci, infatti, imposero il territorio come principio di legittimazione politica e di governo. Proseguirono, così, il cammino lungo la strada aperta dalla Lega, che fece del territorio una bandiera. Ma lo identificò con il Nord e con la Padania. I sindaci, eletti direttamente dai cittadini, invece, promossero e "rappresentarono" il trasferimento istituzionale dei poteri dal Centro dello Stato ai contesti locali. In altri termini, il "federalismo". Rafforzato, negli anni seguenti, dall'elezione diretta dei Presidenti di Regione. Ri-nominati, per questo, "governatori". Si realizzò, così, lo "Stato delle autonomie". Imposto, anzitutto e soprattutto, dal Nord e dal Nordest. Dal Lombardo-Veneto. Protagonisti: Berlusconi, la Lega. E (alcuni) sindaci. Vent'anni dopo, è difficile riconoscere il filo di quella storia. Soprattutto se facciamo riferimento ai candidati emersi dalle primarie che si sono svolte - a Milano. E a quelli che verranno espressi fra qualche settimana. Non tanto perché me ne sfuggano i nomi, in alcuni casi. (Non è possibile sapere tutto quel che avviene dovunque...) Ma perché, nel frattempo, è cambiato il fondamento e, dunque, il significato, della loro investitura. Certo, saranno sempre i cittadini a votare, direttamente, per il sindaco. Tuttavia, appare sicuramente difficile ricondurre la loro scelta alla società civile, ai comitati e alle forze locali. Dunque: al "territorio". Nelle città più importanti - per fare due esempi: a Milano e a Roma - i candidati sindaci del Pd sono stati scelti in primo luogo - e talora in prima persona - dal Sindaco d'Italia. Già sindaco di Firenze. In altri termini: da Matteo Renzi. Leader del Pd e del governo. Principale esempio dell'attuale "democrazia del leader" (come l'ha definita Mauro Calise, in un libro appena uscito per Laterza) che regola e governa l'Italia. D'altra parte, e dall'altra parte, le scelte - a Roma e a Milano, ancora per esempio - sono orientate personalmente da Silvio Berlusconi. Mentre la selezione dei candidati del M5s avviene attraverso il blog di Beppe Grillo, con la supervisione e le regole dettate da Gianroberto Casaleggio. Vent'anni dopo, dunque, l'elezione dei sindaci avverrà in un clima e in contesto - politico - ben diverso. Governato da leader senza partiti. O meglio, da leader che sovrastano i partiti. Da partiti "personali" o "personalizzati", al servizio dei leader. Mentre il territorio ha perduto colore e potere. Le stesse Regioni: sono ridotte a grandi Asl, che gestiscono la sanità (circa l'80% dei loro bilanci) con risorse sempre più ridotte. Il loro compito maggiore, nel prossimo futuro, sembra ridotto a fornire il "personale" a un Senato senza più poteri. Infine, i Sindaci. Insieme ai comuni che governano, sono costretti a far fronte a domande e aspettative crescenti, ma con fondi e trasferimenti in continuo declino. Erano "attori" di governo e delle istituzioni. Oggi sono ridotti a "esattori". Per conto dello Stato.

La Lega, d'altra parte, ha scolorito la sua identità padana, la sua vocazione nordista. Matteo Salvini ha rilanciato il partito, spingendolo al Centro e al Sud. Ne ha spostato l'asse politico - e l'identità - a Destra. Oggi, è Ligue Nationale. Anch'essa, partito "personalizzato", al servizio del Capo (per dirla con Fabio Bordignon).

Così, vent'anni dopo, ne sembrano passati mille. È un'altra era, un altro mondo. Perché, se ci guardiamo intorno, scopriamo un panorama politico e istituzionale senza territorio. Senza partiti. Ma con molti piccoli capi, i sindaci. Sparsi e dispersi nel Paese. A governare su tutti: un solo Leader. Circondato da pochi consiglieri fidati. Sfidato solo da alcuni anti-leader.

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15 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/15/news/quei_sindaci_senza_territorio-133450155/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sì alle unioni civili, no alla stepchild: gli italiani approvano
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 28, 2016, 11:57:06 pm
Sì alle unioni civili, no alla stepchild: gli italiani approvano la nuova legge
L'intesa tra il Pd e Alfano rispecchia gli orientamenti degli elettori, non solo tra i moderati.

Renzi e M5s pagano gli scontri dei giorni scorsi

Di ILVO DIAMANTI
27 febbraio 2016

ALLA FINE, il maxiemendamento sulle "Unioni civili" è stato approvato dal Senato. Con lo stralcio delle norme sulla stepchild adoption e dei riferimenti diretti al matrimonio. Ha ottenuto il sostegno dell'Ncd di Angelino Alfano e del gruppo guidato da Denis Verdini. Così Matteo Renzi è riuscito a sbloccare una legge-bandiera. Facendo, però, attenzione agli orientamenti degli elettori. Come emerge dal sondaggio di Demos, realizzato nei giorni scorsi e pubblicato oggi da Repubblica. L'Atlante Politico di Demos, infatti, mostra come le Unioni civili fra coppie omosessuali siano approvate da oltre due elettori su tre. Al contrario della stepchild adoption. Accettata da poco più di un elettore su tre. E, soprattutto, da una quota minoritaria, seppure di poco (46%), di elettori del Pd. Ma anche del M5S (41%). Così si spiega il percorso contorto seguito da Renzi - e dai leader del M5S – in questa vicenda. Renzi e il M5S rivolgono, infatti, grande attenzione agli elettori "moderati". Decisivi per affermarsi e governare, nel Paese.

LE TABELLE

Naturalmente, la geometria variabile delle alleanze scelta da Renzi, in Parlamento, apre nuove divisioni. Anzitutto, nel suo partito, nel Pd, dove la sinistra appare, ormai, ostile. Un'opposizione al PdR dentro al PD. Ma il dissenso si sta allargando anche in altri ambienti. D'altronde, intorno a questa legge, nelle scorse settimane, si sono mobilitate piazze animate da sentimenti opposti. Da un lato, il "popolo arcobaleno", a sostegno del ddl Cirinnà. Dall'altro, il "Family day", ovviamente contrario.

Si spiega anche così il relativo calo della fiducia nei confronti del governo e di Matteo Renzi rilevato dall'Atlante di Demos. La fiducia nel governo, anzitutto, è scesa al 41%: 5 punti in meno rispetto a novembre 2015, quando è stato condotto l'ultimo sondaggio. Ma ancor più significativa appare l'evoluzione del gradimento personale nei riguardi del premier. Oggi è espresso dal 41% degli elettori. Come il governo. Cioè, 7 punti percentuali in meno rispetto allo scorso novembre. Ma, soprattutto, poco più del consenso ottenuto da Pier Luigi Bersani (39%). Era dai tempi in cui vinse le primarie, nel 2012, che Bersani non risultava così apprezzato dagli elettori. A conferma delle divisioni interne al Pd e, in particolare, nella sinistra.

Certo, Renzi è ancora il primo, nella graduatoria dei leader. Ma le distanze dagli altri esponenti politici sono molto strette. Dopo Renzi e Bersani, in una decina di punti incontriamo: Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Luigi di Maio, Diego Della Valle e Maurizio Landini. A un'incollatura: Beppe Grillo (peraltro, in sensibile calo). Solo Giorgia Meloni, leader dei FdI, e Di Maio, (candidato) leader del M5S, fanno osservare una crescita del loro consenso personale. Comunque, limitata. Non paragonabile alla progressione di Bersani (7 punti in più). Tuttavia, è interessante osservare come il Pd - sul piano elettorale, almeno - non paghi queste crescenti tensioni intorno al segretario-premier (e viceversa). Le stime di voto – proporzionale – elaborate da Demos riportano, infatti, il Pd oltre il 32%. Poco più rispetto allo scorso novembre. Ma era dall'estate scorsa che non raggiungeva questo livello. Peraltro, il M5S – unica vera opposizione, fino ad oggi - è danneggiato dalle polemiche di questi giorni sulle Unioni civili. Ma, soprattutto, dai conflitti – interni oltre che con gli altri partiti - a Bologna, a Livorno, a Parma... E, prima ancora, a Quarto, dov'è accusato di essere stato "infiltrato" dalla camorra.

Certo, il M5S resta la forza politica più accreditata nella lotta alla corruzione. Ma la quota di elettori che lo ritiene il soggetto più credibile, su questo piano, scende di qualche punto: dal 31% al 27%. Mentre, al contempo, si allarga l'area di quelli che non credono a nessuno. Secondo quasi metà del campione (il 46%), di fronte alla corruzione, tutte le forze politiche sono in-credibili. Nonostante questi problemi, il M5S paga un prezzo, tutto sommato, relativo. Si attesta poco sotto il 26%. Un punto e mezzo in meno, negli ultimi tre mesi. Ma oltre 6 punti sotto al Pd. La distanza più elevata dalla scorsa estate. Tra le altre forze politiche, si osserva il riallineamento di Forza Italia, in crescita lieve, alla Lega Nord, in calo di quasi un punto. È significativo, infine, il risultato attribuito ai FdI, che raggiungono il 5,5%. Favoriti dalla visibilità di Giorgia Meloni.

Dunque, il Pd oggi mantiene le sue posizioni, anche se il suo leader ha perduto qualche punto, negli ultimi mesi. O, forse, proprio per questo. In passato ho scritto che nel PD coabitano due identità. Quella "storica" e quella "personalizzata". Il Pd e il PdR. Riuniscono coloro che votano Pd nonostante Renzi. E quelli che votano per Renzi nonostante il Pd. Quando le due identità coabitano, allora il successo è grande. Come alle elezioni europee del 2014. Ma la coesistenza non è sempre facile. Anzi lo è sempre meno. Anche se Renzi è abile e agile. Persegue e realizza iniziative ad alta visibilità e, comunque, gradite. Le sue polemiche con L'Unione Europea: contro i vincoli di spesa che costringono all'austerità. Contro coloro che non condividono la ripartizione delle quote di migranti. Sono largamente apprezzate dagli elettori. Non solo nel Pd, ma ben oltre.

Tuttavia, Matteo Renzi appare, sempre più, un leader "solo". Che si affida soprattutto – anzitutto - a collaboratori fidati. Nel partito, nel governo: al centro c'è lui. Il Capo. Il Premier. Tutto il resto gli ruota intorno. Così, se, in termini proporzionali, il Pd si conferma primo partito, in caso di ballottaggio, il suo successo risulta più incerto.

Secondo le stime di Demos, due punti soli lo dividono dal M5S, ma anche da un soggetto politico di destra, che riunisse FI, Lega e FdI. Naturalmente, nel ballottaggio, il Pd potrebbe contare sull'immagine – ancora forte - del Capo. Mentre non è chiaro chi sarebbe alla testa degli altri partiti. Però, anche per questo, la coabitazione fra i due Pd potrebbe diventare un problema. Trasformando il Pd-R – cioè, il Pd di Renzi - in un faro. Che indica il porto verso cui dirigersi. O da cui fuggire. Una specie di nuovo muro. Come Berlusconi, fino a ieri.

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27 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/27/news/si_alle_unioni_civili_no_alla_stepchild_gli_italiani_approvano_la_nuova_legge-134331362/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - A qualcuno piace Brexit
Inserito da: Arlecchino - Aprile 08, 2016, 08:56:08 pm
A qualcuno piace Brexit
Nel Regno Unito l'atteggiamento euroscettico si è tradotto in voglia di distacco.
L'emergenza sollevata dalla grande migrazione degli ultimi mesi ha accentuato le tensioni

Di ILVO DIAMANTI
04 aprile 2016

Si è aperta, in Italia, una stagione di democrazia diretta. Segnata da due referendum con diverso contenuto e diverso significato. Fra due settimane: la trivellazione dei pozzi petroliferi. In autunno: le riforme costituzionali. Ma il ricorso alla consultazione referendaria va ben oltre i nostri confini e le nostre questioni interne, per quanto importanti. Nel Regno Unito, nei prossimi mesi, si voterà per restare nell'Unione Europea. O meglio: per uscirne. D'altronde, i cittadini del Regno Unito non hanno mai amato l'Europa.

LE TABELLE

Come comunità economica. Tanto meno come soggetto politico. E questo sentimento si è complicato e accentuato negli anni della crisi economica. Quando il debito comunitario e degli Stati membri è cresciuto. Minacciando anche coloro che ne erano e ne sono meno responsabili. Come, appunto, l'Uk. Così lo spirito euroscettico si è diffuso ulteriormente. Solo un terzo dei cittadini del Regno Unito, infatti, esprime fiducia nei confronti della Ue. Come in Italia, peraltro. Dove, però, prevale un atteggiamento tattico e disincantato. Visto che la maggioranza della popolazione non "ama" la Ue - e tanto meno l'euro. Ma teme di uscirne. Per prudenza. Gli italiani: si dicono europei "malgrado". Nonostante tutto. I cittadini del Regno Unito: molto meno. Il loro legame con le istituzioni europee è più precario. Perché confidano maggiormente nel loro sistema di governo. E, tanto più, nella loro moneta. In politica internazionale, peraltro, si sentono "atlantici". Guardano, cioè, agli Usa piuttosto che all'Europa. Piuttosto che alla Ue.

Così, l'atteggiamento euroscettico si è tradotto in voglia di distacco. Tanto che Ukip, il partito guidato da Nigel Farage che predica apertamente l'uscita dalla Ue, alle elezioni europee del 2014 ha superato il 27%. L'emergenza sollevata dalla grande migrazione degli ultimi mesi ha accentuato le tensioni. All'interno del Regno Unito. E fra il Regno Unito e i Paesi europei. Per prima: la Francia.

Oggi, dunque, ci stiamo avvicinando a questo passaggio. Senza ritorno. Perché un voto favorevole all'uscita dalla Ue aprirebbe una crisi probabilmente fatale in una costruzione fragile e instabile come la Ue. Con il rischio di riprodurre le fratture anche nel continente. Dove i legami con l'istituzione europea risultano poco solidi. Ad eccezione che in Germania e nei Paesi dell'Est che ambiscono a farne parte. I sondaggi, al proposito, confermano dubbi e incertezze. Visto che disegnano uno scenario aperto. Dove i sì e i no all'uscita dall'Unione Europea si equivalgono (intorno al 35-40%). Mentre gli indecisi sono ancora molti. Circa un quarto. E risulteranno, per questo, decisivi. Così, la campagna in vista della scadenza referendaria si fa sempre più accesa. E l'argomento che sta assumendo importanza crescente è il costo della Brexit. Per gli europei, ma ancor più nel Regno Unito. La cui economia, si sostiene, soffrirebbe molto, in caso di "defezione". Tuttavia, questa minaccia non sembra scoraggiare chi, in fondo, ne tiene già conto. E, nonostante tutto, sceglie la strada della "secessione".

Diverso, semmai, è il discorso per i cittadini europei che non vivono nel Regno Unito. I quali verrebbero, inevitabilmente, coinvolti da questa scelta. Tuttavia, gli atteggiamenti, in proposito, appaiono differenziati e incerti. Almeno in Italia. Perché, probabilmente, molte persone non ci hanno ancora pensato. D'altronde, se per i cittadini del Regno Unito, è difficile decidere, figurarsi per gli altri...

In Italia, comunque, metà della popolazione (intervistata da Demos) teme l'uscita del Regno Unito dalla Ue. Ritiene, infatti, che produrrebbe effetti negativi non solo nel Regno Unito. Anche da noi. Ma ciò significa che l'altra metà la pensa diversamente. In particolare, due italiani su dieci non percepiscono il rischio di conseguenze particolari. Si tratta, soprattutto, degli elettori più disincantati e indifferenti. Gli "astenuti". Non solo dalla politica, anche dall'Europa. Quelli che tracciano i confini del proprio orizzonte pubblico a poca distanza da loro. Una frazione molto limitata vede questa scelta pericolosa per il Regno Unito ma non per l'Europa. Mentre è molto più elevata (15% circa) la quota di coloro che ritengono l'uscita dell'Uk un problema per gli europei, ma, al contrario, un beneficio per i cittadini britannici. Poco inferiore è il consenso alla Brexit "senza se e senza ma". Considerata un beneficio per tutti. Senza eccezione.

I tifosi della defezione sono, in tutti i casi, ben definiti e identificabili. Hanno, cioè, un profilo politico coerente. Partecipano, infatti, alla corrente euroscettica. Sono, per questo, particolarmente numerosi fra gli elettori della Lega e di Forza Italia. In misura relativamente più limitata, nella base del M5s. Tra coloro che esprimono sfiducia nei confronti della Ue, in particolare, sono tre volte di più che tra gli euro-convinti. Rispecchiano, in qualche misura, le preferenze politiche di coloro che vedono nella Brexit un beneficio esclusivo per chi vive nel Regno Unito.

È facile comprendere la ragione di questo orientamento. Non si tratta solo di empatia. È di più: identità. Sostegno convinto. Segno che anche in Italia c'è chi tifa per la Brexit. In modo aperto. Esplicito. Perché favorisce un progetto sostenuto da altri movimenti e soggetti politici, di altri Paesi. In altri termini: chi tifa per la Brexit, in Italia, tifa per la fine della Ue. Immagina e spera che la costruzione europea, in seguito alla defezione del Regno Unito, non solo subirebbe una battuta di arresto, ma potrebbe intraprendere un percorso inverso. Verso la disgregazione invece che verso l'unità.

Per questo il referendum che si svolgerà nell'Uk ci riguarda direttamente. Quanto, almeno, quello sulle trivelle. E persino il referendum costituzionale. Perché nel Regno Unito, in quell'occasione, si voterà anche per noi. Visto che si scrive Brexit, ma si può leggere Itexit.

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04 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/04/news/a_qualcuno_piace_brexit-136860650/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - E le intenzioni di voto fanno tremare Renzi
Inserito da: Arlecchino - Aprile 11, 2016, 05:38:30 pm
Grillo e il M5S ora tallonano il Pd e vincerebbero al ballottaggio: è l'effetto delle inchieste
Atlante politico. Sondaggio Demos, svolta di opinione.
Il 45% giudica peggiore la corruzione di oggi rispetto alla Prima Repubblica.
E le intenzioni di voto fanno tremare Renzi

Di ILVO DIAMANTI
10 aprile 2016
   
TIRA una cattiva aria sull'opinione pubblica. Avvelenata dagli scandali che hanno coinvolto leader politici e di governo. In particolare: la ministra Federica Guidi. Ma hanno investito anche personaggi noti dell'impresa, dello sport e dello spettacolo, non solo italiani. Risucchiati nella vicenda dei patrimoni offshore. Il sondaggio condotto, nei giorni scorsi, da Demos per l'Atlante Politico e pubblicato oggi su Repubblica mostra come questi avvenimenti abbiano prodotto effetti significativi sugli orientamenti politici ed elettorali degli italiani.

D'altronde, le dimissioni della ministra Guidi vengono considerate doverose, meglio: obbligate, da quasi tutti gli italiani (intervistati): 85%. Ma quasi 3 elettori su 4 ritengono questa vicenda grave e problematica anche per il governo. Il 45% di essi, quasi metà, dunque, pensa che il governo dovrebbe dimettersi. Perché troppo invischiato in conflitti di interessi. Anche se la maggioranza degli italiani (quasi il 50%) ritiene, al contrario, che, il governo debba "andare avanti". L'Atlante Politico di Demos, dunque, propone l'immagine di un Paese diviso. Dove metà dei cittadini vorrebbe voltare pagina. Affidarsi a una guida diversa. Il problema, però, è che mancano alternative credibili. "Più" credibili, almeno. La fiducia nel governo, infatti, scende poco sotto il 40%. Cioè: il punto più basso dalla scorsa estate. Ma, comunque, vicino ai livelli osservati negli ultimi mesi.

LE TABELLE

Peraltro, il 20% (degli intervistati) pensa che il governo Renzi durerà, al massimo, qualche mese. Ma il 44% è convinto, al contrario, che riuscirà a concludere la legislatura. Parallelamente, la fiducia "personale" nel premier si attesta sul 40%. Lontano dai fasti del 2014, quando, dopo le elezioni europee, volava verso il 70%. Tuttavia, negli ultimi mesi, non ha subìto cali significativi. Nonostante i problemi economici e politici. Nonostante vicende sgradevoli, come quella che ha coinvolto la ministra Guidi. Peraltro, Renzi si conferma ancora il leader politico più apprezzato dagli italiani. Avvicinato da Giorgia Meloni, candidata dei FdI e della Lega (Nord?) nella corsa al Campidoglio. Molto competitiva, secondo i sondaggi. E da Matteo Salvini, segretario della Lega. Non lontano da loro – e dunque da Renzi – incontriamo anche Luigi Di Maio, vice-presidente della Camera. Fra gli esponenti più autorevoli del M5s. Silvio Berlusconi, invece, conferma il proprio declino politico. "Stimato" da poco più del 20% degli elettori. La metà rispetto a Renzi. E 4 punti in meno di due mesi fa.

Si assiste, dunque, a un raffreddamento del clima d'opinione. Lo ripeto, perché, questa volta e in questa fase, il cambiamento risulta evidente. Quasi una svolta. Dettata dal cumularsi di sfiducia e delusione sociale. Un po' come 25 anni fa. Ai tempi di Tangentopoli. Non per caso il 45% degli italiani ritiene che la corruzione politica, oggi, sia più diffusa di allora. Mentre una parte altrettanto ampia di cittadini pensa che sia altrettanto estesa.

Nove italiani su dieci, praticamente tutti, ritengono, dunque, che Tangentopoli non sia mai finita. Ma sia, se possibile, più opprimente. Fra i protagonisti, manca solo la magistratura. Differenza di non piccolo rilievo. Oggi, semmai, gli elettori hanno sostituito i magistrati con alcuni soggetti politici. A cui hanno affidato il compito di "vendicarli". Comunque, di gridare forte il disprezzo e la sfiducia popolare. Per primo e soprattutto: il M5s. Non per caso, il partito ritenuto più credibile (dal 31%) nel contrasto alla corruzione. Anche per questo i suoi esponenti ottengono un favore crescente. Luigi Di Maio, in particolare. Il consenso popolare nei suoi riguardi è salito di 7 punti nell'ultimo anno. Ormai, molto vicino a Renzi. Come Salvini, d'altronde. Che si presenta, a sua volta, come "giustiziere" della politica e dei politici corrotti.

Gli effetti di questo clima (anti)politico sul piano delle stime elettorali sono evidenti. La distanza fra i primi due partiti, PD e M5s, infatti, si è sensibilmente ridotta. In seguito al calo del PD (circa 2 punti) e alla concomitante crescita del M5s, la distanza fra i due soggetti si riduce a poco meno di 3 punti. A destra, invece, si muove poco. La Lega di Salvini si avvicina al 14% e scavalca FI. Mentre, più indietro, i FdI si attestano intorno al 5,5%. Come, sul versante opposto, SEL, SI e le altre formazioni a sinistra del PD.

Ma gli scenari cambiano sensibilmente quando si prende in considerazione il ballottaggio, previsto dalla nuova legge elettorale. L'Italicum, nel "linguaggio politico" corrente. Allora la partita appare incerta. Anche se i meccanismi del nuovo sistema elettorale non sono ancora chiari. Nel caso che gli sfidanti fossero la Lega e FI (federate, insieme ai FdI, in una lista-cartello, per istinto di sopravvivenza), il PD si affermerebbe di appena 1 punto. Troppo poco per fare previsioni. Lo stesso avverrebbe se al ballottaggio arrivasse il M5s. In questo caso, però, il sondaggio di Demos disegna uno scenario inedito. Che prevede il sorpasso del M5s sul Pd. Anche in questo caso, occorre prudenza, vista la distanza, ridotta, fra i due partiti (che non supera il margine di "errore statistico").

Naturalmente, il PD, nel ballottaggio, potrebbe contare sul voto "personale" al premier. Molto più conosciuto e visibile rispetto ai candidati del M5s. Tuttavia, è anche vero il contrario. La capacità del M5s di intercettare il voto "contro" potrebbe trasformare il confronto elettorale in una sorta di referendum. "Contro" Renzi. Replicando, all'inverso, l'operazione concepita dal premier in occasione del referendum costituzionale del prossimo autunno. Secondo alcuni (fra gli altri, Gianfranco Pasquino), un "plebiscito".

Così, se il clima d'opinione e l'insoddisfazione degli elettori continuassero a scaricarsi sul PD, Renzi potrebbe cambiare strategia. Investire sul governo più che sul partito. Presentarsi come "uomo di Stato" più che da "leader politico". Così, il soggetto politico centrale, in Italia, non sarebbe più il PDR. Ma il GdR: il Governo (personale) di Renzi.

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10 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/10/news/grillo_ora_tallona_il_pd_e_vincerebbe_al_ballottaggio_e_l_effetto_delle_inchieste-137293611/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sei anni senza Berselli: siamo ancora post italiani
Inserito da: Arlecchino - Aprile 16, 2016, 05:45:54 pm
Sei anni senza Berselli: siamo ancora post italiani

15 aprile 2016
Ilvo Diamanti
   
SEI anni senza Edmondo Berselli: sono tanti. Anche se io lo "consulto" con frequenza assidua, attraverso i suoi testi. Per trovare parole che diano significato ai cambiamenti e alle persistenze della politica, della società, della cultura. Dello sport. Perché Eddy è stato anzitutto - anche se non solo - un virtuoso del linguaggio.

Usato e modellato per spiegare quel che è successo - e succede - in questi anni inquieti. Di grande mutamento. Nel corso dei quali siamo divenuti "Post italiani", come recita un catalogo dei "tipi italiani" tratteggiati da Berselli. Abitanti spaesati di un "Paese provvisorio", dove scarseggiano i "Venerati maestri". Perché, come rammentava icasticamente Eddy, riprendendo le categorie di Alberto Arbasino, in Italia ci sono molte giovani brillanti promesse, che, tuttavia, raramente diventano, appunto, "venerati maestri". Ma, a un certo punto, all'improvviso, si trasformano, perlopiù, in "emeriti stronzi". Incapaci di vedersi e riconoscersi per quel che sono veramente. E, dunque, di correggersi. Berselli, nell'autunno del 2008, poco tempo dopo la pesante sconfitta del (neo) Pd, guidato da Veltroni, travolto da Berlusconi e dal suo cartello di Destra, scrisse un altro saggio ironico, quanto puntuale e puntuto. Dedicato ai "Sinistrati". Affetti e afflitti dal "gene altruista". Che li predispone alla sconfitta. Perché "quando la sinistra attraversa la strada, c'è sempre di mezzo un tram".

Chissà cosa scriverebbe ora, nell'epoca di Renzi, che, ormai da anni, governa alla guida di un (post) partito di (centro)sinistra. Anche se molti, a sinistra, dicono che Renzi non è di sinistra. Ma un post-berlusconiano. Di certo, non un "venerato maestro".

Mi manca, Eddy. Ci manca il suo sguardo (dis)incantato - ma non distaccato - sulle vicende e sui protagonisti del nostro mondo. Della nostra vita. Ci mancano le sue "Canzoni", attraverso cui rivisitava i fasti e i nefasti della nostra storia. Mi mancano le discussioni sul calcio. Sul più "mancino" dei tiri. Inventato da Mariolino Corso. Un genio e un artista. Anche se nerazzurro… Io e lui, bianconeri per vizio (e pre-giudizio) genetico. Parlavamo di calcio, politica e canzoni, senza soluzione di continuità, nei lunghi dialoghi - in viva voce - durante i miei - perenni - viaggi in auto. Oppure durante le passeggiate, ciascuno con il proprio cane. La sua esuberante labrador, Liù, il mio feroce Mambo. Uno schnauzer (che non sapeva di essere) nano.

Edmondo Berselli, filosofo, politologo, analista, saggista. Senza mai prendersi sul serio. In grado di non prendere troppo sul serio le cose serie. Costringeva, proprio per questo, a prendere sul serio i suoi saggi, le sue note, i suoi appunti. Scritti sul Mulino, di cui è stato direttore. Ma anche sulla Stampa, sul Sole 24 ore. Infine, sul Carlino, sull’Espresso e sulla Repubblica. Berselli, come ha osservato Aldo Grasso, è sempre stato un "adulto con riserva". Coinvolto e distaccato, impegnato e riflessivo. E, per questo, in grado di vedere lontano. Come nel caso di Beppe Grillo, di cui Berselli aveva colto per tempo la capacità di intercettare il clima anti-politico. Ne aveva scritto nel 2009, quando Grillo manifestò l’'intenzione di presentarsi alle primarie per eleggere il segretario del Partito democratico. Una provocazione, sicuramente. Che, però, Berselli, sull'Espresso, nella sua rubrica ("Porte girevoli"), aveva invitato a "prendere sul serio".  Perché "non ci si può permettere di esorcizzare Grillo, come ha fatto Piero Fassino, segnalando il rischio 'Helzapoppin'. La politica è la politica, chiunque entri in campo. (…) E Grillo non vincerà le primarie, ma se è appena capace mostrerà la nudità del re".

Ho il sospetto che questo suggerimento, se ascoltato, avrebbe reso più complicata la discesa in campo di Grillo. Sicuramente, gli avrebbe reso più difficile, in seguito, recitare la parte del non-politico alla guida di un non-partito. Figurarsi: dal V-Day al PD-Day…

Confesso che oggi non vedo altri in grado di "provocarmi" allo stesso modo. Con la stessa efficacia. E lungimiranza. Anche per questo, ma non solo per questo, sento la mancanza di Eddy. E penso di non essere il solo. Per questo continuo ad attingere ai suoi testi, ai suoi contesti. Al suo linguaggio. Perché mi offrono suggerimenti e spiegazioni. Le parole di Eddy: servono a spiegare e a rammentare. E, dunque, a farlo sentire ancora tra noi.

Per citare di nuovo Berselli: solo quel che si ricorda conta. Per questo, sei anni dopo, siamo in molti a ricordarlo.

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15 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/04/15/news/sei_anni_senza_berselli_siamo_ancora_post_italiani-137669042/?ref=HRER2-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - Quattro presidenti per un referendum
Inserito da: Arlecchino - Aprile 16, 2016, 06:05:04 pm
Quattro presidenti per un referendum
Mappe. Per il quesito sulle trivelle sono scesi in campo Renzi, Napolitano, Grossi e Boldrini. Com'è possibile garantire il funzionamento delle istituzioni quando le consultazioni referendarie diventano forme di lotta politica?
Dal nostro inviato ILVO DIAMANTI
16 aprile 2016

Domani gli italiani sono chiamati a esprimersi su un argomento specifico e definito. Riguarda le concessioni degli impianti di trivellazione attivi entro le 12 miglia dalla costa italiana "fino all'esaurimento dei giacimenti". Anche se, in effetti, la questione ha assunto, progressivamente, un significato diverso. Molto più "politico". Che chiama in causa il governo e, in particolare, il premier. I sostenitori del referendum, infatti, puntano a "trivellare" direttamente Renzi. Anzitempo. A delegittimarlo. La riuscita della consultazione, nelle loro intenzioni, si tradurrebbe in un giudizio immediato - cioè: senza mediazioni - sul presidente del Consiglio. Il quale, d'altronde, pare d'accordo con questa impostazione "strumentale" della campagna referendaria. Visto che, a sua volta, ha definito il referendum una "bufala". Esprimendo il suo sostegno alla scelta di non scegliere. Schierandosi, cioè, a favore del "voto di chi non vota". L'astensione. Definita, d'altronde, legittima dal presidente della Repubblica emerito, Giorgio Napolitano. Intervenuto in aperta polemica con il presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, che nei giorni scorsi aveva, invece, stigmatizzato gli inviti all'astensione. E, in fondo, gli astensionisti dichiarati.

Così, chi pensa che sia in gioco la qualità dell'ambiente e delle nostre coste, in effetti, si sbaglia. Perché la posta in gioco è diversa. Nell'ultimo periodo, almeno, è cambiata radicalmente. Votare sì oppure no, ma, soprattutto, votare oppure "non" votare, si tradurrà in voto "per" oppure "contro" la stabilità di governo. "Per" oppure "contro" questo governo. In filosofia si parlerebbe di "eterogenesi dei fini". Per sottolineare la trasformazione del significato e dei risultati di un'azione rispetto agli obiettivi originari. O, almeno, rispetto ai fini e agli obiettivi espliciti e dichiarati. Renzi, d'altronde, ha avviato, a sua volta, un'operazione simile. Su una questione di contenuto molto diverso. Il presidente del Consiglio ha, infatti, dichiarato che il referendum sulla riforma costituzionale, che si svolgerà il prossimo autunno, avrà, come posta in palio, la sorte stessa del suo governo. Visto che, se gli elettori bocciassero la sua riforma, Renzi si dimetterebbe. Considerando la scelta degli elettori, in questo caso, come una scelta sul suo operato. E, dunque, come un voto di sfiducia popolare.

Naturalmente, c'è un'evidente asimmetria tra le due sfide. Non solo per il contenuto: da un lato le trivelle, dall'altro il superamento del bicameralismo paritario e il ridimensionamento del Senato. Ma anche per le regole della consultazione. Perché, nel caso del referendum sulla riforma costituzionale, non è richiesto il quorum. Non c'è bisogno che voti la maggioranza degli elettori aventi diritto. L'esito dipenderà dal confronto fra voti a favore e contrari alla riforma. Al contrario di quanto avverrà nella consultazione sulle trivelle, che avrà luogo domani. Che dipenderà non solo dal sostegno al quesito proposto, ma, anzitutto, dalla partecipazione al voto. E, quindi, dall'astensione. Non votare, in questo caso, assumerà lo stesso significato di un voto contrario. Visto che per "validare" la consultazione occorre un'affluenza superiore alla maggioranza assoluta degli elettori "aventi diritto". Così, il non voto diventa un voto a tutti gli effetti. È "il voto di chi non vota", come recita il titolo di una nota ricerca dell'Istituto Cattaneo pubblicata nel 1983 (a cura di Pasquale Scaramozzino e Mario Caciagli). È, infatti, questa la principale spiegazione del "fallimento" di gran parte dei referendum degli ultimi 20 anni. Solo uno su sette, infatti, ha superato il quorum (come ha segnalato ieri Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore). Quello sul nucleare e sull'acqua pubblica, che si è svolto nel 2011. Nessun altro. Lo stesso referendum del 1999, che mirava ad abolire la quota proporzionale dagli eletti con il Mattarellum, fallì, anche se per pochi voti. Visto che superò, allora, il 49% dell'affluenza. D'altra parte, l'astensione cumula componenti diverse. Oltre alla scelta "strategica", di chi non vota consapevolmente, per tecnica di opposizione al referendum, c'è la componente "fisiologica", di chi non vota per inerzia, dis-interesse. Svalutazione e indifferenza. Due orientamenti opposti e quasi alternativi, che, tuttavia, convergono nella stessa direzione. Verso il medesimo risultato.

Il problema di questa impostazione è l'evidente dissonanza cognitiva tra finalità dichiarate e reali. Latenti ed evidenti. Domani, per esempio, chi parteciperà al voto perché è sinceramente convinto del danno ambientale prodotto dalle trivelle voterà, comunque, anche contro Renzi. Mentre, al contrario, chi scegliesse di non votare, perché si sente del tutto estraneo e indifferente rispetto al quesito referendario, esprimerebbe il proprio sostegno - non solo implicito - al governo. In attesa della prossima contesa, intorno alla riforma costituzionale. Destinata a diventare, anch'essa, un referendum su Renzi.

Non so davvero come sia possibile garantire il funzionamento delle nostre istituzioni e - mi si perdoni l'ardire - della nostra stessa democrazia, quando le consultazioni referendarie diventano forme di lotta politica con altri mezzi. E quando diventa difficile capire per chi e per cosa si vota. Così può capitare che, sulla questione delle trivelle - importante, ma specifica - scendano in campo, in modo polemico, il presidente del Consiglio, ma anche il presidente della Repubblica emerito, il presidente della Corte Costituzionale e la stessa presidente della Camera. Insomma, quattro presidenti.

Non oso pensare cosa avverrà nei prossimi mesi, quando partirà la campagna del referendum su Renzi, pardon, sulla riforma costituzionale. Per rispettare le proporzioni fra il Senato e le trivelle, potrebbero scendere in campo anche Hollande, la Merkel. Mentre Obama si asterrebbe solo perché è a fine mandato. E perché avrebbe problemi ad arrivare dagli Usa in tempo per votare. Certo, i fatti nostri non li riguardano. Ma quando mettono in discussione la stabilità del sistema di alleanze a livello europeo e internazionale, perché stupirsi?

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16 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/16/news/referendum_trivelle-137740417/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Dall'Ulivo al PdR, il volto e le radici
Inserito da: Arlecchino - Aprile 26, 2016, 12:21:52 am
Dall'Ulivo al PdR, il volto e le radici
Mappe. Le prossime elezioni locali e il referendum d'autunno ci diranno cos'è oggi il Pd

Di ILVO DIAMANTI
25 aprile 2016
   
SONO passati vent'anni dal 21 aprile 1996. Quando l'Ulivo, guidato da Romano Prodi, vinse le elezioni. Di fronte alla coalizione di Centro-destra costruita da - e intorno a - Silvio Berlusconi. Il Polo per le Libertà. Anche l'Ulivo, d'altronde, era una coalizione. Aggregava i post-comunisti del Pds, i post-democristiani (di sinistra) del Ppi, insieme alle forze della sinistra socialista, riformista. Cattolico-sociale ed ecologista.

Dopo la vittoria elettorale, l'Ulivo di Prodi governò poco più di due anni. Nell'ottobre del 1998, infatti, il governo venne sfiduciato da alcuni parlamentari della sinistra neo-comunista. Ma proseguì, sotto la guida di Massimo D'Alema. Fin dalle origini, dunque, emergono i limiti di questo nuovo soggetto politico, che riunisce le tradizioni e le componenti del centrosinistra. Anzitutto: la difficile coesistenza fra tradizioni politiche e sociali diverse. Tra centro e sinistra. In particolare: fra post-democristiani e post- comunisti. In secondo luogo: il conflitto fra leader. Meglio, l'assenza di una leadership condivisa. O, comunque, dominante. Così, dal 1996, il Centro-sinistra inizia un faticoso cammino. Alla ricerca del Centrosinistra- senza-trattino. I suoi soci fondatori, a loro volta, hanno cambiato nome e ragione sociale. Per limitarci a soggetti principali: da Pds a Ds, da Ppi alla Margherita, passando per i Democratici. Mentre, fra il 2005 e il 2007, l'Ulivo si è trasferito sotto le bandiere dell'Unione. Dunque, "coalizione". E questa resta la discriminante nel concepire il Centrosinistra. Con o senza trattino. Cioè: come coalizione oppure soggetto unitario. Una novità importante, anzi, essenziale, sotto questo profilo, è l'introduzione delle Primarie. Come metodo di scelta dei candidati. E dei dirigenti. Ciò avviene nel 2005, in occasione delle elezioni regionali. Quindi, in vista delle elezioni politiche del 2006. Che riporteranno Romano Prodi alla guida del Centrosinistra e del governo.

Ispiratore del progetto, accanto a Romano Prodi, è Arturo Parisi. Che vede nelle primarie non solo un metodo di selezione del gruppo dirigente e dei leader. Ma un marchio, un elemento di distinzione politica. Per usare le sue stesse parole: il "mito fondativo" del Partito dell'Ulivo, in alternativa all'Ulivo dei partiti. Un progetto che, nel 2007, sfocia nel Partito Democratico. Echeggia, non per caso, l'esperienza americana, di una democrazia maggioritaria, bipolare e tendenzialmente bipartitica. Personalizzata. In fondo: presidenziale. Tuttavia, il Partito Democratico non dissolve le divisioni da cui sorge. E a cui vorrebbe - dovrebbe - dare risposta. La distanza, nel Centrosinistra, fra tradizione comunista e democristiana, in particolare, rimane evidente. E si riproduce nella geografia elettorale del Paese. Come emerge chiaramente alle elezioni del 2008, quando il Centrosinistra si presenta unito nel Pd, guidato da Walter Veltroni. E viene sconfitto nettamente da Silvio Berlusconi. Anche perché non riesce a liberarsi dei vincoli territoriali del passato. Il Pd, infatti, risulta tanto più forte dove, nei primi anni Cinquanta, lo era già la Sinistra comunista. E, dunque, appare tanto più debole dove, invece, era più forte, sul piano elettorale, la Democrazia Cristiana. Così, quasi sessant'anni dopo, il Pd fatica ad affermarsi nel Nord e, in particolare, nel Lombardo-Veneto, presidiato dal Forza-Leghismo.

D'altro canto, dentro al Pd si riproducono tensioni "personali" che complicano l'affermarsi di "un" leader. Il passaggio dall'Ulivo all'Unione, fino al Partito Democratico, non risolve le difficoltà del Centrosinistra-senza-trattino. E il Pd resta un progetto e un soggetto incompiuto. Almeno, fino all'"irruzione" di Matteo Renzi. Il quale è favorito, anzitutto, dal declino di Berlusconi. Che apre un vuoto in-colmabile in un Centrodestra creato a sua immagine. Renzi è, per storia personale, un post-democristiano. Cresciuto nell'Ulivo di Prodi. Nella Toscana Rossa. Si afferma attraverso le Primarie. Dopo aver perduto, dapprima, "contro" Bersani. Cioè: contro l'eredità post-comunista. Nel Pd diventa, così, segretario "contro" il passato. Contro D'Alema e Rosy Bindi. Cioè: contro la tradizione post-comunista e post-democristiana. Così, alle elezioni europee del 2014, per la prima volta, il "suo" Pd supera e scavalca gli antichi confini. E vince dovunque. Ben oltre le regioni rosse. Espugna, infatti, le province del Nordest e della Lombardia. Bianche e anticomuniste. Da sempre. D'altronde, l'antica frattura ideologica è stata rimpiazzata, negli ultimi anni, da una nuova frattura. All'anti-comunismo si è sostituita l'antipolitica. Interpretata da Grillo e dal M5s. Che, per questo, non hanno una geografia specifica. Perché l'antipolitica, l'opposizione alla politica e ai politici "tradizionali" sono trasversali. Da destra a sinistra, da Nord a Sud, passando per il Centro. Renzi è abile a interpretare entrambe le fratture. Quella ideologica ma anche quella anti-politica. Lui, il "rottamatore", non ha vincoli né appartenenze. Inoltre - e soprattutto - fa del Pd un "partito del leader". Centralizzato e personalizzato. Il PdR. Il Partito Democratico di Renzi. Che tende ad evolvere nel PdR, il Partito di Renzi. Soprattutto se il referendum costituzionale di ottobre, trasformato in un referendum personale pro o contro di lui, si traducesse una investitura personale.

Così, vent'anni dopo l'avvento dell'Ulivo, il Centrosinistra sembra approdato a un Partito del Leader, a-ideologico e a-territoriale. Maggioritario, referendario e, tendenzialmente, presidenziale. Resta da vedere quanto sia stabile, questo approdo. Quanto possa resistere al ritorno dei personalismi e delle tradizioni - ben espresse dall'opposizione della Sinistra interna. Quanto possa proseguire senza il sostegno della storia e del territorio. Dell'organizzazione e della società. Quanto e se il PdR si possa affermare, senza il contributo del Pd, com'è avvenuto alle Europee. Non ci vorrà molto a verificarlo. Basterà attendere qualche mese. Le prossime amministrative e il referendum d'autunno ci diranno se davvero l'Ulivo sia divenuto un albero senza radici. Un volto senza storia. O se la sua storia possa continuare, con volti e nomi diversi.

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25 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/25/news/dall_ulivo_al_pdr_il_volto_e_le_radici-138394413/?ref=HRER2-3


Titolo: Arlecchino risponde a ILVO DIAMANTI ...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 26, 2016, 12:26:56 am


Il Partito della Nazione sarebbe un pretendere troppo, inoltre potrebbe essere aperto a infiltrazioni da destra.

Il Partito di Renzi è una speculazione antirenzi voluta da elementi della conservazione per affossare di nuovo il centrosinistra.

L'Ulivo ripiantato e ben potato può invece essere vitale e produttivo se lo si "concima", con progetti sul futuro dell'Italia ricchi di contenuti socio-politici di buon spessore e soprattutto credibili.

Il Partito dell'Ulivo, quindi, potrà vincere se non continuerà ad essere soggetto ad un involutivo "eleatismo" (eleatico = eternamente immobile e sottratto a ogni mutazione) ma diverrà con una forma di cambiamento "eracliteo", trasversale all'interno dei partiti democratici di Centro e della Sinistra non massimalista.

ciaooo





Titolo: ILVO DIAMANTI - Lavoro e ripresa, il 70% non ci crede. (...e il gufo è felice).
Inserito da: Arlecchino - Maggio 02, 2016, 04:30:35 pm
Lavoro e ripresa, il 70% non ci crede. E senza posto fisso il futuro è un rebus
Per gli italiani è ancora giusto ricordare il Primo maggio, ma per la stragrande maggioranza è in aumento solo il precariato.
Per il 40% è presto per vedere i risultati del Jobs Act, solo l’8% crede abbia funzionato

Di ILVO DIAMANTI
01 maggio 2016
   
OGGI si celebra la Festa del lavoro. E dei lavoratori. Ma i lavoratori - e, in generale, gli italiani - non sembrano trovare grandi motivi per festeggiare. O meglio, vorrebbero. Secondo il sondaggio condotto dall'Osservatorio di Demos-Coop negli ultimi giorni, quasi 7 persone su 10 (nel campione intervistato) ritengono che abbia senso celebrare questa giornata. Ma, in effetti, questo sentimento sembra suggerito da nostalgia più che da speranza.

Contrariamente alle indicazioni fornite dalle statistiche dell'Istat e rilanciate dal premier Renzi, una larga maggioranza della popolazione (intervistata) non crede alla ripresa. Oltre 7 persone su 10 pensano che non sia vero. Che l'occupazione non sia ripartita. Solo l'8%, invece, ritiene che il Jobs Act abbia funzionato. Mentre, secondo la maggioranza (40%), è ancora presto per vederne i risultati. Ma oltre 3 persone su 10 sono convinte che abbia perfino "peggiorato la situazione". Le uniche "forme" di impiego effettivamente aumentate sarebbero, infatti, quelle "informali". Il lavoro nero e quello precario. Così, infatti, la pensa circa il 70% degli italiani (intervistati da Demos-Coop). I quali non vedono grandi cambiamenti nel futuro. Poco più di 2 persone su 10 (per la precisione: il 23%), infatti, contano che la loro situazione lavorativa possa migliorare, nei prossimi anni. Solo cinque anni fa questa sorta di "speranza di vita" - lavorativa - era coltivata da una componente molto più estesa: il 36%.

LE TABELLE

È un segno evidente dell'incertezza che agita la nostra società, il nostro tempo. Non solo nel lavoro. Due italiani su tre, infatti, ritengono inutile, oggi, affrontare progetti impegnativi, perché il futuro è troppo incerto e rischioso. Così, meglio concentrarsi sul presente. Cercando stabilità. Radicamento. Per questo, il lavoro preferito è il "posto pubblico". Celebrato, con ironia e realismo, da Checco Zalone, nel suo ultimo film (di grande successo) intitolato "Quo vado?". "Posto pubblico", infatti, nel linguaggio e nel discorso corrente, coincide con "posto fisso". Solo alcuni anni fa, invece, l'occupazione preferita era il lavoro autonomo, da libero professionista. Oggi non più. O meglio, non si vede "un" lavoro preferito. Impiego pubblico, lavoro autonomo e da libero professionista, nel sondaggio di Demos-Coop sono guardati con interesse, ciascuno, da circa il 20% degli intervistati. Con una preferenza per l'attività professionale fra i giovanissimi (15-24 anni) e per l'impiego pubblico fra le persone adulte, ma anche fra i "giovani adulti" (25-34 anni).

C'è, dunque, un'evidente tensione fra domanda di stabilità e di autorealizzazione professionale. La domanda di stabilità appare chiara nel riferimento alla famiglia, come principale istituto di tutela. La famiglia. Assai più del sindacato e delle associazioni di categoria. Ma anche dello Stato e degli enti locali. La famiglia. È vista come difesa e sostegno: per chi ha un lavoro, stabile oppure atipico. Ma anche come un faro, per chi naviga nel mercato del lavoro, senza aver trovato una direzione definita e definitiva. In particolare, per i giovani e i giovanissimi. Le componenti maggiormente interessate - e penalizzate - dall'occupazione precaria. E, soprattutto, dalla disoccupazione. I giovani e i giovanissimi, infatti, sembrano destinati, a una posizione sociale peggiore rispetto ai loro genitori. Così la pensano, almeno, i due terzi degli italiani (intervistati da Demos-Coop). E il 73% della popolazione ritiene che i giovani, per fare carriera se ne debbano andare all'estero. Un'opinione diffusa da tempo, ma mai come oggi, se cinque anni fa, nel 2011, era condivisa dal 56%. Dunque, la maggioranza degli italiani, Eppure: 17 punti meno di oggi. I giovani e i giovanissimi: una "generazione altrove". Segno (e minaccia) di una società - la nostra - senza futuro. Che non ha pensato e organizzato un futuro. Per i propri giovani e, dunque, per se stessa. D'altronde, circa l'85% degli italiani, cioè quasi tutti, condividono l'avvertimento - o meglio: la minaccia - dell'INPS. La generazione del 1980 andrà in pensione a 75 anni. Se non più tardi.

Così i dati di questo sondaggio trovano un senso, comunque, una convergenza. Intorno all'incertezza generata dall'eclissi, se non dalla scomparsa, del futuro. Un futuro senza sicurezza (sociale), senza pensione, peraltro, rende più im- portante, anzi, necessaria, la famiglia. Polo di solidarietà intergenerazionale. Che tiene uniti genitori, figli. E nonni. Offre ai giovani, soprattutto, un sostegno nel percorso precario fra studio e lavoro. Che si sviluppa senza più confini. L'idea che i giovani, per realizzarsi a livello professionale, e prima ancora negli studi, debbano trasferirsi all'estero, si è, infatti, tradotta, da tempo, in un'esperienza di massa. E viene guardata con preoccupazione dagli adulti e ancor più dagli anziani. Dai genitori e dai nonni. Non certo dai figli e dai nipoti. Dai giovani e dai giovanissimi. I quali sono biograficamente una generazione "nomade". Migranti, anch'essi. Non per fuggire dalle guerre e dalla povertà. Non per costrizione e per necessità. Ma, ormai, per "vocazione".

E ciò spiega perché i giovani mostrino minore preoccupazione verso i flussi migratori. (Come ha dimostrato il recente Sondaggio 2015 di Demos-Fondazione Unipolis per l'Osservatorio sulla Sicurezza in Europa.) Sono globalizzati, di fatto. Mentre i genitori e la famiglia, garantiscono loro un riferimento sicuro. Un posto dove tornare. Per poi partire di nuovo. Anche per questo, i giovani hanno meno paura della disoccupazione e della precarietà, rispetto alle generazioni più anziane. Anche se ne sono particolarmente colpiti.
E appaiono meno preoccupati dei tempi dell'età pensionabile, che si allungano.

I giovani. Non hanno "nostalgia" del futuro. Perché il futuro è davanti a loro. Mentre gli adulti e gli anziani il futuro ce l'hanno alle spalle.

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01 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/economia/2016/05/01/news/lavoro_e_ripresa_il_70_non_ci_crede_e_senza_posto_fisso_il_futuro_e_un_rebus-138824537/?ref=HRER3-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Comunali 2016, schemi saltati e confronti incerti: ecco il...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 09, 2016, 11:13:54 am
Comunali 2016, schemi saltati e confronti incerti: ecco il tripolarismo imperfetto
La mappa del voto. L'esito delle elezioni è ancora aperto


Di ILVO DIAMANTI
07 giugno 2016

IL DATO più chiaro del primo turno della consultazione amministrativa di domenica scorsa è che, ormai, non c'è più nulla di chiaro. E di prevedibile. Nel rapporto fra cittadini e politica. Fra elettori e partiti. Così, l'esito delle elezioni è ancora aperto. Tra i 143 comuni maggiori (oltre 15 mila abitanti) al voto domenica scorsa, infatti, 121 andranno al ballottaggio. Cioè, non tutti, ma quasi. Alle precedenti elezioni erano molti di meno: 92. Questa tendenza appare evidente soprattutto nelle regioni dell'Italia centrale. Un tempo definite "rosse", perché politicamente di sinistra. Ebbene, fra i 19 comuni maggiori al voto, in questa zona, quasi tutti (17) andranno al ballottaggio. In primo luogo, Bologna. Dove il sindaco in carica, Merola, si è avvicinato al 40% dei voti. E fra due settimane dovrà, quindi, affrontare Lucia Borgonzoni, candidata leghista del Centro-destra. Una prova sulla quale incombe, minaccioso, il precedente del 1999, quando Giorgio Guazzaloca, del Centro-destra, prevalse su Silvia Bartolini, di Centro-sinistra. Al ballottaggio.

LE TABELLE

Nel complesso, i candidati del Centro-sinistra vanno al ballottaggio in 88 comuni (sono primi in 47), quelli di Centro-destra, della Lega o dei FdI in 69 (primi in 38 Comuni). Infine, il M5s raggiunge il ballottaggio in 20 comuni (è primo in 6). Questo rapido profilo quantitativo serve a chiarire una ragione importante - se non la più importante - dell'incertezza che pervade questa competizione amministrativa: la pluralità degli attori in gioco. In altri termini, se per molti anni abbiamo inseguito un bipolarismo senza preclusioni, senza fratture, Oltre l'anticomunismo e il berlusconismo (o il suo contrario), oggi dobbiamo fare i conti con un modello diverso. Sicuramente più aperto. Anzi: fin troppo. Siamo entrati, infatti, in un sistema a "tripolarismo imperfetto". Dove il centrosinistra, imperniato sul PD(R), si oppone non solo al Centro-destra, impostato sull'asse FI-Lega - allargato, in alcuni contesti, ai FdI. Ma anche al M5s che ha ottenuto risultati importanti a Roma, con Virginia Raggi e a Torino, con Chiara Appendino a Torino. Mentre in alcuni casi, è sfidato da soggetti diversi ma, comunque, alternativi ai due poli tradizionali. Come Luigi De Magistris, a Napoli. Ciò rende il confronto complicato. Non solo nel primo turno, ma anche e tanto più nei ballottaggi. Perché non è chiaro se e per chi voteranno gli elettori dei partiti esclusi. Nello specifico: chi sceglieranno gli elettori di Centrosinistra fra un candidato leghista, forzista o dei 5s? Oppure, reciprocamente, chi sceglieranno gli elettori leghisti, forzisti o del M5s nel caso il loro candidato di riferimento fosse, a sua volta, escluso dal ballottaggio? In linea teorica, ove fosse rimasto in gioco, sarebbe favorito il candidato del M5s. Perché a-ideologico. Esterno alle fratture tradizionali. Visto che gli elettori del M5s sono, politicamente, trasversali. Riassumono il disagio verso i partiti ma anche la mobilitazione su temi "civici" e territoriali. Così, i loro candidati possono venire utilizzati dagli altri elettori, “contro" gli avversari storici. Post-berlusconiani, leghisti oppure renziani. A seconda dei casi e delle esigenze.

È probabile, allora, che molti elettori, nel dubbio, ricorrano al non-voto. Si astengano. Non per scelta, ma per non-scelta. D'altronde, si tratta di un orientamento diffuso, anche in questo caso. La partecipazione al voto, infatti, ha superato il 60%. Cinque punti in meno rispetto alla precedente scadenza elettorale. Tuttavia, non si è verificato il crollo temuto. Piuttosto, è interessante osservare che l'affluenza - e parallelamente l'astensione - elettorale ha colpito il Nord e le regioni rosse, più del Mezzogiorno. Certo, il voto amministrativo, nel Sud, è condizionato - e incentivato - da logiche particolaristiche. Ma è singolare che oggi, nel Centro-Nord, la partecipazione elettorale sia calata molto più che nel Sud.

Ciò sottolinea un'altra tendenza, emersa dopo le elezioni del 2013. La perdita delle specificità territoriali. Meglio: la "nazionalizzazione" del voto. E dei partiti. Fino allo scorso decennio, infatti, gli orientamenti politici ed elettorali riproducevano legami sociali e territoriali di lungo periodo. Veicolati da partiti di massa, che esprimevano ideologie di lunga durata e disponevano di organizzazioni diffuse. I partiti di sinistra, in particolare, si imponevano nelle regioni rosse del centro. Mentre al Nord erano più forti i partiti di centrodestra e la Lega. Ma alle elezioni del 2013, per la prima volta, si afferma un partito senza una specifica "vocazione" territoriale. Il Movimento 5 Stelle, appunto. Primo oppure secondo in quasi tutte le province italiane. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Alle elezioni europee del 2014, il PD di Renzi, il PdR ne riproduce la traccia. Primo oppure secondo partito, dovunque. Inseguito dal M5s. E da un centrodestra spaesato e diviso, dopo il declino di Berlusconi. Nume tutelare e identitario. Così le diverse Italie politiche, oggi, si sono omogeneizzate. La stessa Lega si è "nazionalizzata". È la Ligue Nationale di Salvini, alleata con i FdI di Giorgia Meloni. Guarda a Roma e al Sud. Così, non c'è più religione. E non c'è più fedeltà. Non solo a Bologna. Neppure a Torino. Dove le tradizioni operaie e industriali hanno perduto rilievo. E la crisi economica incombe (come ha osservato Piero Fassino). Mentre a Milano Sala e Parisi appaiono due candidati allo specchio. Roma è, dunque, la capitale esemplare di questa Italia - senza colori e con poche passioni. Dove ogni voto - politico, europeo, amministrativo - diventa un'occasione im-prevedibile. E ogni elezione, come ho già scritto, è "un salto nel voto".

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07 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-edizione2016/2016/06/07/news/comunali_2016_schemi_saltati_e_confronti_incerti_ecco_il_tripolarismo_imperfetto-141458639/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI Le parole del futuro: vincono ambiente e Internet, giù la politica
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2016, 11:31:44 am
Le parole del futuro: vincono ambiente e Internet, giù la politica
Il sondaggio. Sicurezza, sviluppo sostenibile, social media. Perdono peso i partiti. Tra le istituzioni: famiglia e papa Francesco. L'Osservatorio Demos-Coop per la Repubblica delle Idee

Di ILVO DIAMANTI
03 giugno 2016

Proponiamo anche quest'anno una Mappa delle parole del nostro tempo. Raffigura l'atteggiamento degli italiani (intervistati da Demos-Coop) di fronte a una serie di termini che ricorrono frequenti nei discorsi pubblici e nella vita quotidiana. Raccolti e selezionati dalla comunicazione mediale e dal linguaggio comune. Le parole, d'altronde, non sono solamente un modo per dire e comunicare la realtà. Ma contribuiscono a definirla. A costruirla. Senza parole, la realtà non esiste perché le parole la rivelano. Così, attraverso questo sondaggio, abbiamo cercato di "rivelare" la realtà "rilevando" le parole che utilizziamo per dirla. Abbiamo, dunque, sollecitato gli italiani (intervistati) a esprimere il grado di approvazione/dissociazione, che suscitano le parole selezionate. Ma anche la loro capacità di suggerire il futuro. Oppure di re-spingerlo verso il passato.

Ne esce una rappresentazione, a nostro avviso, interessante. Certamente non scontata. Per alcuni versi non prevedibile. Utile a presentare l'edizione della Repubblica delle Idee, che si apre oggi a Roma. Con il titolo, programmatico: "Rep2056, idee per i prossimi 40 anni". Ma anche per capire quale e come sia il futuro prossimo - magari non dei prossimi 40 anni - immaginato dagli italiani. Quali valori, quali istituzioni e quali attori - politici, sociali, religiosi - possano offrire - e offrirci - un orientamento. E quali, invece, siano destinati a perdersi. Se non ad essere dimenticati.

Il sondaggio delinea una mappa articolata in regioni di significato chiare e distinte. Alcune, in modo particolare. Soprattutto due, opposte e lontane. Nello spazio ma anche nel tempo.

LE TABELLE …

In basso a sinistra, si delinea la Regione del tempo perduto. Dove incontriamo le parole della politica e della rappresentanza degli interessi. I partiti, i politici, i sindacati. I leader. Tutti. Grillo, Salvini, ma anche Renzi. In due anni è scivolato anch'esso, dalle Regioni che indicano il cambiamento, comunque, la transizione, via via più in basso. Verso il passato. O meglio, verso un presente senza futuro. È interessante e significativo osservare la posizione in cui è collocato - sospinto - Silvio Berlusconi. In fondo a tutti. Ai confini estremi della Mappa. Una parola quasi in-significante. Eppure assolutamente significativa, per capire cosa stia succedendo. Perché Berlusconi fino a pochi anni fa ha marcato il nostro linguaggio. Non solo nel campo della politica. In bene e in male: il berlusconismo ha costituito un sistema di valori, uno stile di vita e di comportamento. Un riferimento (a)morale. Oggi non più. Così diventa più difficile dare significato al lessico degli italiani. Perché mancano indicazioni e chiavi di lettura chiare. Soprattutto, ma non solo, in campo politico.

Osservando la regione del futuro possibile e auspicato, collocata nel settore in alto a destra della mappa, si osservano, infatti, parole che associano due diversi campi semantici. La domanda di bene comune. Di economia e di azione condivisa. Di sicurezza sociale e alimentare. Le energie rinnovabili e il bio. La cooperazione. Accanto a loro: i valori e gli obiettivi senza tempo. L'egualitarismo, l'equità fiscale, la legalità. Unici riferimenti istituzionali nominati: la famiglia e Papa Francesco. Peraltro, meno "santificato" rispetto a un anno fa.

Proiettati nella stessa direzione, verso il futuro, alcune parole che indicano obiettivi e metodi di crescita economica e sviluppo responsabile. La sobrietà dei consumi. La cooperazione. Ma anche istituzioni che garantiscono promozione sociale e conoscenza. Per prima, la scuola. Sempre negletta, nel dibattito pubblico. Ma sempre apprezzata, nella percezione sociale. Nella stessa direzione - cioè, verso il futuro auspicabile - sono proiettate le nuove forme di comunicazione. I social media e internet.

Scendendo, incontriamo il territorio della transizione. Affollato di luoghi e parole della vita pubblica. Della partecipazione. Dallo Stato alla democrazia. Dai media tradizionali - la radio, la televisione, i giornali - alla Chiesa. Dall'Unione europea all'euro, agli imprenditori. Alla magistratura. Una rete complessa, che riproduce la difficoltà di leggere il cambiamento attraverso il presente. Nel paesaggio sociale e istituzionale che ci circonda. Perché le istituzioni e i processi della vita quotidiana e dello spazio pubblico disegnano una selva complessa. Oscurata dalla routine. Che rende difficile identificare la via verso il cambiamento. I percorsi verso il futuro.

Anche perché, in fondo alla mappa del nostro lessico, restano le parole della rappresentanza e della mediazione. Lontane dagli obiettivi e dai valori che gli italiani vorrebbero soddisfare. Perseguire. Una regione distante dalla terra promessa. Costellata dalle bandiere che marcano il confine del futuro atteso, e auspicato. Non è una novità. Lo stesso distacco era emerso già un anno fa. Ma anche negli anni precedenti. Quest'anno, però, la distanza appare, se possibile, più netta. E più chiara. Da un lato, obiettivi e valori - cioè, le domande della società - sono proiettati all'orizzonte. Mentre, dall'altro lato, gli attori di governo e della rappresentanza, che li dovrebbero realizzare, comunque, promuovere, dar loro voce: sono all'ombra del passato. Non è chiaro come avvicinare queste due dimensioni, queste due regioni. Certamente non sarà facile. Neppure a Renzi. Tallonato da Grillo. E da Salvini. Allineati uno accanto all'altro. Impegnati a sfuggire alla sorte di Berlusconi. Quasi scomparso all'orizzonte. Al confine estremo della mappa - e della terra - conosciuta. A cui proprio la sua presenza ha fornito una bussola. Mentre oggi l'unico riferimento disponibile per orientarsi è l'antipolitica. Il distacco e la distanza da ogni soggetto, attore, leader. Politico.

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03 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/roma2016/2016/06/03/news/parole-141177818/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_03-06-2016


Titolo: ILVO DIAMANTI - Antipolitici e contro il governo, nasce il Carroccio a 5 Stelle
Inserito da: Arlecchino - Giugno 13, 2016, 12:59:32 pm
Grillo e Salvini. Antipolitici e contro il governo, nasce il Carroccio a 5 Stelle
Le Mappe. Ciò che unisce lepenisti e grillini è l’avversione a Renzi. Ma anche profondi risentimenti nei confronti delle istituzioni e dell’Europa

Di ILVO DIAMANTI
09 giugno 2016

IN VISTA dei ballottaggi che si svolgeranno nelle principali città, si delinea una convergenza fra i principali soggetti politici anti-renziani. Questa, almeno, sembra la principale logica che ispira le scelte della Lega e del M5S. Remare contro i candidati del PdR. Votare per l'avversario del Capo e del partito di governo, chiunque esso sia. Di qualunque partito. In questo modo, ha osservato Ezio Mauro, nei giorni scorsi, M5S e Lega, gli antagonisti più determinati di Renzi, si apprestano a celebrare le "nozze del caos". Che stabiliscono un rapporto stretto fra gli opposti populismi.

LE TABELLE

A Roma e a Torino, in particolare, l'indicazione di Salvini a sostegno di Virginia Raggi e Chiara Appendino è netta. Ed esplicita. Così come a Milano Lega e M5S si sono espressi, entrambi, per Parisi e, soprattutto, contro Sala. Il candidato di Renzi. Cioè: il comune nemico. Il "tripolarismo imperfetto", di cui avevo parlato nei giorni scorsi, commentando i risultati del primo turno, in questa occasione, si ricompone e si bipolarizza. Spinto, in questa direzione, dalle regole del gioco elettorale. Ma anche dai reali orientamenti degli elettorati. Infatti, se guardiamo le indagini condotte da Demos (ma non solo) negli scorsi mesi, le affinità elettive fra gli elettori di questi partiti, peraltro molto diversi, appaiono evidenti. Palesi. In particolare, quasi 3 elettori della Lega su 10 si dicono (molto o abbastanza) vicini al M5S. Un legame, dunque, più stretto che con ogni altro partito. In particolare, rispetto al Pd (16%). Si tratta, peraltro, di una relazione reciproca, visto che fra gli elettori del M5S viene espressa una preferenza particolarmente intensa per la Lega, oltre che per i FdI. Vale la pena di osservare che questa attrazione Lega-stellata era già emersa in passato. In occasione delle elezioni politiche del 2013. Allora, nei comuni a forte radicamento leghista, si erano verificati rilevanti flussi elettorali a favore del M5S. "Restituiti", in gran parte, l'anno seguente, in occasione delle elezioni europee.

Cosa spinge gli elettori dei due partiti gli uni verso gli altri, appassionatamente? Anzitutto, la comune insofferenza verso le istituzioni dello Stato e verso i partiti. In quanto tali. Si tratta, cioè, di attori politici dell'antipolitica. Poi, i comuni bersagli polemici. Per prima, l'immigrazione. Quindi, l'Unione Europea. In altri termini, le due facce della globalizzazione. La perdita di sovranità politica ed economica a favore di entità sovranazionali, perlopiù controllate da burocrati. E condizionate dagli interessi dei mercati e dell'economia globale. In secondo luogo, le migrazioni che provengono dal Sud del mondo. E aumentano il nostro senso di vulnerabilità. E di spaesamento. Lega e M5S, per quanto abbiano una sociologia e una geografia diverse, condividono questi sentimenti. E ciò spiega le tendenze al reciproco soccorso, in occasione dei prossimi ballottaggi.

Dalle indagini condotte nelle scorse settimane da Demos, in particolare, a Roma oltre metà degli elettori di Giorgia Meloni, sostenuta dalla Lega di Salvini, sembra orientata a favore di Virginia Raggi. Mentre un altro terzo potrebbe astenersi. Pressoché identici i movimenti possibili - e probabili - a Torino. Dove, nel ballottaggio, oltre metà della base elettorale del "leghista" Morano sembra intenzionata a votare per la candidata dei 5 Stelle. Un terzo ad astenersi. A Bologna, dove, a sfidare il sindaco in carica, Merola, del PD, sarà la leghista Lucia Borgonzoni, invece, queste tendenze appaiono meno marcate, ma, comunque, coerenti. Circa il 40% degli elettori di Bugani, del M5S, propendono, infatti, per la candidata della Lega. Gli altri si dividono, in egual misura, fra Merola e l'astensione.

Così, nelle città al voto, sta prendendo forma un'opposizione lega-stellata, che, in alcune zone, si allarga ad altri soggetti politici, di destra più estrema. Questa sorta di "terra di mezzo" canalizza e coagula sentimenti inquieti e risentimenti anti-istituzionali. Antieuropei, antigovernativi. Che riflettono e amplificano l'insicurezza. Si tratta di alleanze e intese ispirate e dettate dagli specifici contesti e confronti in cui avvengono. Elezioni amministrative, che presentano confini locali e territoriali definiti. Eppure è difficile non immaginare - e prevedere - che si tratti di esperienze e di esperimenti che potrebbero riprodursi e proiettarsi altrove. Su scala più ampia. Soprattutto, in ambito nazionale. Dove l'opposizione populista lega-stellata minaccia di divenire la principale opposizione a Renzi e al suo PdR.

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09 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/09/news/antipolitici_e_contro_il_governo_nasce_il_carroccio_a_5_stelle-141606952/?ref=HREC1-6


Titolo: ILVO DIAMANTI Nelle periferie dove nasce il grande scontento (se lo dice lui...)
Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 12:05:45 pm
Nelle periferie dove nasce il grande scontento: gli esclusi in rivolta contro il centro
La geografia del potere va ridisegnata.


Di ILVO DIAMANTI
26 giugno 2016

La frattura fra centro e periferia costituisce una delle più importanti spiegazioni del comportamento politico. Definita, con chiarezza, da Stein Rokkan, insieme a Seymour Lipset (fra gli anni Sessanta e Settanta). I quali, però, facevano riferimento, principalmente, alla dimensione territoriale. Alle tensioni delle periferie, nella ricerca di difendere la loro autonomia e la loro identità di fronte all'egemonia del centro. Tuttavia, ai nostri giorni, il segno della periferia va oltre. Evoca la dimensione sociale, insieme a quella territoriale. D'altronde, periferie sociali e territoriali, inevitabilmente, si incrociano e si influenzano reciprocamente. Ma con effetti diversi. La periferia può delineare i luoghi lontani ed esclusi dalla geografia del potere e della cultura. Oppure, in alternativa, le sedi dove i cambiamenti avvengono senza strappi, in modo meno vistoso, le "province" dove si riesce a produrre, a lavorare, a crescere economicamente senza traumi, senza rinunciare a vivere bene. Restando nell'ombra. In periferia, appunto. Dov'è più semplice agire e reagire, limitando le interferenze esterne.

Tuttavia, ciò che sta succedendo in questi tempi non riflette dipendenza, né distacco ma, per certi versi, una rivolta delle periferie territoriali, economiche, sociali. Le quali rinunciano alla strategia dell'attesa per emergere in modo appariscente. Servendosi di media e attori ad alta visibilità. Leader, partiti, movimenti. Agitati e attivi. Si tratta di una tendenza globale che spiega alcuni dei fenomeni politici più rilevanti di questo periodo.

Negli Stati Uniti, Donald Trump ha intercettato la paura delle classi agiate bianche contro la minaccia delle altre componenti dell'universo multietnico americano. Inoltre alimenta la paura di nuove migrazioni, che spingano ancor più in basso, ancor più in periferia, la classe media.

Così, in Gran Bretagna, il motore della Brexit è certamente il sentimento di declino delle aree extraurbane inglesi, dei settori sociali colpiti dalla crisi, dei più anziani. Che imputano all'Europa — "centrata" sulla Germania — la propria crescente perifericità. E vorrebbero isolarsi di più. Se non possono più essere centro, meglio non diventare periferia. Europea. Scozia e Irlanda del Nord, invece, hanno votato no alla Brexit. Perché si sentono periferia di Londra.

D'altronde, almeno in Europa, ormai da molto tempo classe operaia e ceti esclusi — dal mercato del lavoro — non votano più per la sinistra ma per i partiti di destra. E per le forze politiche definite populiste. In Francia per il Front National di Marine Le Pen, primo partito della classe operaia, tradizionalmente forte nelle aree periferiche — di confine — a sud e nel nord est. In Italia la classe operaia (ciò che ne resta) fino a ieri si era avvicinata alla Lega. Ma oggi vota, in misura crescente, per il Movimento Cinque Stelle. In Italia, d'altronde, la maggioranza della popolazione — il 53 per cento — si sente e si definisce di classe sociale bassa e medio-bassa. Fra gli elettori del M5S la percentuale sale al 60 per cento. Insomma la periferia della società preferisce le scelte antipolitiche e impolitiche.

Peraltro, se poniamo attenzione sulle recenti elezioni amministrative, la crescente centralità della periferia diventa evidente. A Torino la neo-sindaca, Chiara Appendino, si è imposta — soprattutto — nei quartieri periferici. Fra i giovani. Mentre Fassino resiste al centro e in collina. Fra i più anziani. La frattura generazionale è, dunque, divenuta importante. Anche se con effetti diversi. Privati di futuro, i giovani se ne vanno. Oppure votano contro. Com'è avvenuto in Spagna, dove si vota proprio oggi. Là, i più giovani si sono rivolti a Podemos (oggi alleato di Izquierda Unida). Perché, rispetto alle politiche dei partiti maggiori (Partito socialista e Partito Popolare), si sentono periferici.

Per tornare in Italia, a Roma, nelle amministrative, Virginia Raggi ha dominato a Ostia e nei quartieri periferici più popolosi. Mentre Roberto Giachetti resiste solo nel centro storico e nei quartieri borghesi, Parioli e Nomentano. A Napoli, infine, Luigi De Magistris, portabandiera della periferia alla conquista dei centri, ha vinto in tutti i quartieri, a partire dal Vomero. Spingendo i concorrenti, per prima la candidata del Partito democratico, Valeria Valente, non in periferia, ma fuori dalla città. Nel complesso, queste elezioni amministrative disegnano un'Italia senza radici, come abbiamo scritto in sede di analisi del risultato. Un paese dove le specificità (politiche) territoriali si stanno scolorendo. D'altronde, il M5S, dichiarato vincitore, non ha radici. Al di là delle due metropoli dove ha vinto, si è affermato in altre diciassette città maggiori distribuite in tutto il territorio. Mentre il Pd si è perduto. Non solo perché ha perduto in metà delle città maggiori dove prima governava: 45 su 90. Ma perché è arretrato soprattutto nel suo territorio. Nelle regioni rosse del Centro. La Lega "nazionale" di Salvini, a sua volta, ha perduto a Varese. La sua patria. E non è riuscita a proseguire la propria marcia oltre il nord. Da parte loro, i Forza-leghisti non sono riusciti a riprendersi Milano. La loro capitale storica. E mitica.

Così si delinea la mappa di un paese incerto e instabile. Senza colori. Che non ha più capitali. Oppure ne ha troppe. Perché la periferia si è allargata dovunque. Da nord a sud. Ovunque, in Italia, è periferia. Dovunque cresce la voglia di cambiare. Di diventare centro. Oppure, di ribellarsi al centro. Per sfuggire al declino. Il vento del cambiamento, in fondo, ha questo significato. Evoca il rifiuto di rassegnarsi: a scivolare verso la periferia. E a rimanere lì. Senza speranza.

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26 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/26/news/diamanti_periferie_scontento-142828410/?ref=HREC1-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - La fede politica che perde le radici
Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 05:02:11 pm
La fede politica che perde le radici

Di ILVO DIAMANTI
21 giugno 2016

Queste elezioni amministrative segnano, indubbiamente, una svolta. Annunciata da qualche tempo, ma oggi evidente. E irreversibile. La riassumerei in questo modo: in Italia il voto non ha più una geografia.

In altri termini: ha perduto le sue radici. E, quindi, i suoi legami con la storia, la società, le identità che gli garantivano senso e continuità. D'altronde, fino a pochi anni fa, la geografia elettorale in Italia riproduceva in larga misura il profilo emerso nel dopoguerra. Dove gli orientamenti di voto, in alcune zone, si riproponevano sempre uguali, nel corso del tempo. Nonostante il mutamento del clima politico e degli stessi partiti. Alcuni dei quali, scomparsi. In fondo, nel 1994, Silvio Berlusconi aveva "fondato" Forza Italia sull'anti-comunismo. Recuperando le fratture sociali e territoriali del passato. Questa geografia era stata ridisegnata, profondamente, dall'irruzione del M5s, alle elezioni del 2013. Matteo Renzi ne aveva seguito le tracce, alle elezioni europee del 2014. Il suo Pd aveva sfondato il muro del 40%, affermandosi, a sua volta, in tutte — o quasi — le aree del Paese.

Così le Italie politiche si erano confuse. Zone rosse, bianche, verdi, azzurre: tutte scolorite. Ebbene, queste elezioni amplificano queste tendenze. Infatti, se osserviamo il risultato dei 143 Comuni maggiori, risulta chiara l'impossibilità di individuare una chiave di lettura. Se non l'inutilità delle chiavi di lettura che utilizziamo per analizzare e interpretare il voto. Oltre un terzo delle amministrazioni — cioè, circa 50 — ha, infatti, cambiato colore.

Nello specifico, i governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro-destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5s è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti. Cioè, 19. Tra questi, Roma e Torino sono quelli che fanno più notizia. Comprensibilmente. Però il M5s si è affermato in tutte le aree. In particolare nel Mezzogiorno.

A Roma e a Torino, peraltro, le sue candidate hanno intercettato il voto dei giovani, dei professionisti, dei tecnici. Ma anche dei disoccupati. In altri termini: la domanda di futuro e la delusione del presente.

Colpisce, soprattutto, il cambiamento che ha coinvolto le regioni dell'Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Tradizionalmente le più stabili. Dove, però, oltre metà dei Comuni di centrosinistra hanno cambiato colore. Ciò conferma la non-chiave di lettura suggerita in precedenza. Sottolineata dal risultato del non-partito per definizione. Il M5s. Che fra il primo e il secondo turno ha allargato i suoi consensi da 650 mila a più di 1 milione e 100 mila voti. Cioè, di oltre il 70%. Un segno della sua capacità di intercettare elettori "diversi". Che provengono da partiti e da aree "diverse". Ma soprattutto da "destra", quando si tratta di opporsi ai governi di centrosinistra. Com'è avvenuto, in modo appariscente, a Roma e Torino, dove, nei ballottaggi, le candidate del M5s hanno allargato in misura molto ampia i loro consensi elettorali.

Per questo penso che il significato di questo voto vada oltre i contesti locali. Riflette una tendenza consolidata, che Matteo Renzi ha contribuito a rafforzare. Non tanto perché abbia personalizzato il voto amministrativo, anche se in qualche misura ciò è avvenuto. Ma perché ha accentuato il distacco fra politica e territorio. Enfatizzando la personalizzazione e la mediatizzazione. Il Pd, trasformato in PdR. E la campagna elettorale condizionata dal dibattito sul referendum "costituzionale". Pardon, "personale". Su Renzi medesimo. Così i sindaci e le città hanno perduto significato, importanza. E le elezioni amministrative sono divenute un'arena dove si giocano altre partite, con altri protagonisti. Dove il M5s, più di altri soggetti politici, è in grado di affermarsi. Nel passato, invece, il suo rendimento elettorale risultava molto superiore nelle scadenze nazionali, quando poteva riprodurre il disagio e la protesta. Mentre nelle elezioni amministrative non riusciva a ottenere risultati analoghi, in quanto non disponeva di figure credibili, come soggetti di governo. In ambito locale. Oggi, evidentemente, non è più così. Perché il M5s è presente, ormai da anni, sul territorio. E ha raccolto, intorno a sé, militanti e attivisti. Tuttavia, più degli altri attori politici, è in grado di canalizzare la "domanda di cambiamento". Meglio ancora: i sentimenti e i risentimenti "in tempi di cambiamento". Come quelli che stiamo attraversando.

Così questo voto rappresenta, al tempo stesso, una risposta e un segnale. Una risposta al dis-orientamento che ha investito molte zone del Paese. E, soprattutto, le aree urbane e metropolitane. In particolare: le periferie. Dove la "politica" ha perduto senso e radici. Ma anche un segnale, a modo suo, fragoroso, quanto il silenzio degli astenuti. Rammenta, infatti, che la "messa è finita". Le fedeltà si sono perdute. Liquefatte. Come i partiti. Non per nulla ne ha beneficiato un non-partito liquido come il M5s. Così, ogni scadenza elettorale diviene — e diverrà — un passaggio senza destinazioni precise. Senza mappe e senza bussole che permettano ai cittadini e agli elettori di orientarsi. E agli analisti, come me, di interpretarne — e prevederne — i percorsi. Le ragioni. Le destinazioni.

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21 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/21/news/la_fede_politica_che_perde_le_radici-142473244/?ref=HRER2-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Fare sondaggi o "gufare" ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 01, 2016, 05:30:40 pm
I Cinquestelle sorpassano il Pd, con l'Italicum gioverebbero. Di Maio più popolare di Renzi
Sondaggio Demos: al ballottaggio staccherebbero i Dem di quasi 10 punti. Crolla la destra. Gli italiani difendono la Ue: due su tre bocciano Brexit. Si riaccende la battaglia sull’Italicum

Di ILVO DIAMANTI
01 luglio 2016

LE RECENTI elezioni amministrative hanno lasciato il segno, anche sul piano politico nazionale. Il recente sondaggio condotto da Demos per l’Atlante Politico di Repubblica lo conferma. Infatti, secondo gli italiani (intervistati) alle amministrative di giugno c’è un solo vincitore. Il M5S. L’unico partito a essersi rafforzato in ambito nazionale (lo pensa circa l’80 per cento). Mentre gli altri si sono indeboliti. Più di tutti, il Pd di Renzi. Le stime elettorali riflettono queste valutazioni.

In caso di elezioni politiche, infatti, Demos attribuisce al M5S oltre il 32% dei voti validi. Circa 5 in più, rispetto alla precedente rilevazione, condotta in aprile. Mentre il Pd si attesta poco oltre il 30%. Stabile, rispetto ai mesi scorsi. Dietro queste due forze politiche c'è quasi il vuoto. Lega e Forza Italia non raggiungono il 12%. Anche se si coalizzassero, "costretti" dalle regole dell'Italicum, avrebbero poche possibilità (ad essere prudenti) di arrivare al ballottaggio. Gli altri partiti, tutti, arrivano a fatica al 5%.

LE TABELLE

Su queste basi, si rafforzerebbe ulteriormente il M5S, ma, soprattutto, si ridisegnerebbe il sistema dei rapporti di forza fra soggetti politici. Il tripolarismo imperfetto, emerso nel voto amministrativo, in ambito nazionale si ridurrebbe a un bipartitismo. Infatti, il Pd di Renzi e il M5S, insieme, intercetterebbero quasi i due terzi dei voti. Mentre il rimanente terzo degli elettori appare diviso e frammentato. Il M5S, peraltro, in caso di ballottaggio vincerebbe largamente. Come, d'altronde, è avvenuto, alle amministrative, nei comuni maggiori dove il M5S, è riuscito ad arrivare al secondo turno, riuscendo ad affermarsi praticamente dovunque. In 19 comuni maggiori su 20. Tra i quali, anzitutto, Roma e Torino. Il M5S, infatti, oggi appare il principale canale per raccogliere il dissenso contro i partiti "tradizionali". Ma, soprattutto, di intercettare il voto "anti-renziano" dall'intero arco politico. In particolare al centro e a destra.

Infatti, secondo il sondaggio, il M5S, in caso di ballottaggio, prevarrebbe di quasi 10 punti sul Pd (54,7 a 45,3). Mentre nel confronto con i Forza-leghisti non ci sarebbe storia. Quasi 20 punti di distacco. Si spiegano anche – soprattutto – così le crescenti perplessità, nella maggioranza, verso l'Italicum, la legge elettorale approvata da questo governo. Che entra in vigore proprio oggi. Riproduce, per molti versi, il dispositivo adottato per l'elezione dei sindaci. Con effetti sicuramente poco gradevoli e graditi per il PdR. E il suo leader.

Peraltro, echeggiando la nota definizione di Giorgio Galli, emerge un bipartitismo "meno" imperfetto di qualche tempo fa. Quando il M5S si proponeva come un'opposizione, ma non come un'alternativa. Appariva, cioè, un collettore e un contenitore del risentimento. Ma senza speranza. Senza possibilità di governare. Perché non veniva votato per questa ragione. Dopo le elezioni amministrative di giugno, però, le opinioni degli elettori, al proposito, sembrano cambiate. Oggi, infatti, quasi due elettori su tre considerano il M5S in grado di governare le città dove si è affermato. Mentre la maggioranza non lo ritiene ancora una forza di governo a livello nazionale. Tuttavia gli orientamenti stanno cambiando, anche sotto questo profilo. Visto che oltre 4 elettori su 10 pensano che il M5S sarebbe in grado di governare il Paese. Ancora una minoranza. Ma larga. Cresciuta di oltre 10 punti negli ultimi mesi.

La polarizzazione politica, che emerge a livello elettorale, si riflette anche sul piano della "fiducia" personale. Beppe Grillo, infatti, raggiunge – quasi – Renzi. Mentre Di Maio lo supera. E De Magistris, rieletto sindaco di Napoli senza problemi, lo affianca. Segno che anche a sinistra esiste un'area di dissenso nei confronti del premier. Tuttavia, nonostante i deludenti risultati delle amministrative, la fiducia personale verso Renzi, negli ultimi mesi, resta stabile. Intorno al 40%. E il consenso nei confronti del suo governo cresce di qualche punto. Fino al 42%, Probabilmente, per due ordini di ragioni. La prima, di natura politica interna, riflette la tensione bipolare, alimentata dalla sfida antipolitica del M5s. Che polarizza i consensi e i dissensi intorno ai due protagonisti: il M5s e Renzi. D'altra parte, vi sono altri fattori, che attraggono l'opinione pubblica intorno al governo. Di natura prevalentemente esterna. La domanda di sicurezza, in primo luogo. Alimentata dall'immigrazione, che continua a generare preoccupazione. Poi, la questione europea, drammatizzata dalla Brexit.

Gran parte degli italiani ne teme gli effetti. E per questo si assiste a una crescita di consensi verso la UE. E a un aumento del sostegno all'euro. Si tratta del riflesso di tendenze note. Fra gli italiani, infatti, anche in passato il timore dei possibili effetti dell'uscita dalla UE e dall'euro prevaleva largamente sull'insoddisfazione nei confronti di entrambe le istituzioni. Oggi che questa prospettiva non è più così ipotetica e che la costruzione europea scricchiola in modo preoccupante, il sentimento euro-peista si rafforza. Per reazione. Se venisse proposto anche in Italia un referendum Itæxit, sull'uscita del nostro Paese dall'Unione europea, secondo il sondaggio di Demos, i due terzi degli elettori italiani voterebbero contro. Cioè, per rimanere nella Ue. Solo fra gli elettori della Lega la maggioranza voterebbe per uscire. Tutti gli altri, compresi quelli del M5S, sceglierebbero di rimanere "uniti". Per prudenza, perché non si sa mai…

Il clima di tensione internazionale, l'instabilità europea, l'insicurezza interna, dunque, sembrano rafforzare, in qualche misura, anche il sostegno al governo nazionale. A chi lo guida. Nonostante tutto. Magari per reazione alle "minacce" che provengono dall'esterno. Ma anche perché, di fronte al bipolarismo tra politica e anti-politica, in questa fase il richiamo della "politica" diventa più forte. Più credibile.

D'altronde, in tempi tanto incerti, aggiungere altri motivi di incertezza: suscita ulteriore incertezza.

E il richiamo del "nuovo ad ogni costo", almeno quando si tratta del governo nazionale, diventa meno attraente. Sul mercato politico, molti preferiscono, per prudenza, affidarsi al semi-nuovo. Almeno per adesso. Domani è un altro giorno. Si vedrà.
   
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01 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/07/01/news/i_cinquestelle_sorpassano_il_pd_con_l_italicum_governebbero_di_maio_piu_popolare_di_renzi-143164287/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ricordare Rocard, per non arrendersi
Inserito da: Arlecchino - Luglio 08, 2016, 04:11:07 pm
Ricordare Rocard, per non arrendersi
Elogio di un socialista francese, lontano dalla politica dell'immediato.
Con una sua frase: "Se piantate un albero non vale la pena di spingere per farlo crescere più in fretta”.
Ma oggi in prima pagina vanno solo i populisti. O i pop

Di ILVO DIAMANTI
06 luglio 2016

Michel Rocard se n’è andato senza far rumore, come nel suo stile. A 85 anni. Dopo una lunga malattia. In Francia sono in molti a ricordarlo. Per la sua militanza socialista, per le sue esperienze politiche e di governo. E per il suo «parler vrai», con cui sottolineava l’esigenza morale di dire sempre la verità delle cose ai cittadini. Eppure in Italia la sua scomparsa ha sollevato poca attenzione. I nostri media gli hanno dedicato poco spazio. Me l’ha fatto osservare, deluso, Alessandro Giacone. Un collega – e amico. Franco-italiano. Professore all’università di Grenoble. Storico di valore. Studioso dell’Italia repubblicana. Giacone non si capacita di tanta distrazione. Di tanta svalutazione. E ha, sicuramente, ragione. Tuttavia, anche se conosce bene l’Italia, sottovaluta, a sua volta, la dissociazione dei nostri media di fronte alle vicende e alle biografie degli “altri”.  Paesi. Anche i più vicini.

Dei “cugini” francesi, per esempio, ci interessano soprattutto i protagonisti dello spettacolo e della cultura. Registi, attori, scrittori. Molto meno i “politici”. A meno che non si tratti di casi estremi. “Spettacolari”, appunto. Populisti di vario genere e tipo. In Francia: Marine Le Pen. D’altronde, anche in Italia i riflettori dei media sono puntati, a pieno tempo, su Grillo e Salvini. Al più, su Renzi. Perché è pop, come Berlusconi. Michel Rocard, invece, era un leader realista. Moderato. E socialista. In Italia, di socialisti non ce ne sono più. Da tempo. L’unico soggetto politico che conti è il Pd. Un post-partito che riassume post-comunisti e, soprattutto, post-democristiano. Guidato da un post-leader, come Matteo Renzi. Di fronte, a sfidarli, antipartiti. E antipolitici. M5s, Lega e FdI. Di Berlusconi si sono perse le tracce. Così, Michel Rocard non fa notizia perché è troppo “normale”. Come la sua biografia. Come la sua esperienza politica. D’altronde, in questi tempi veloci, nei quali, soprattutto in politica, conta l’immagine. Contano i media.  In questi tempi senza tempo, bloccati in un presente infinito: Rocard era, ormai, più fuori luogo. Perché privilegiava i tempi lunghi. Lo mostra in modo esemplare questa sua frase (che mi ha segnalato Eric Jozsef). “Le buone cose hanno bisogno di tempo. Sono lente a nascere. Se piantate un albero non vale la pena di spingere per farlo crescere più in fretta. In politica è la stessa cosa”.

Ricordare Rocard: spero che possa restituirci almeno un po’ di memoria. Un po’ di pazienza. E ci aiuti a non arrenderci alla politica dell’immediato.
 
 
 
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06 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/07/06/news/ricordare_rocard_per_non_arrendersi-143572487/?ref=HRER2-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - Referendum costituzionale, i Sì avanti di un soffio ma in ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 12, 2016, 11:41:04 am
Referendum costituzionale, i Sì avanti di un soffio ma in netto calo

Di ILVO DIAMANTI
11 luglio 2016

Il referendum sulla riforma costituzionale, che si svolgerà (probabilmente) nel prossimo autunno, ha cambiato e sta, progressivamente, cambiando di significato. Di contenuto. In origine, mirava a dare legittimazione sociale alla riforma costituzionale che si propone di superare il bicameralismo paritario. Un sistema istituzionale che ha, da sempre, complicato il processo decisionale del Parlamento. Limitando l'efficacia della nostra democrazia rappresentativa. La riforma ha goduto, all'inizio, di un largo consenso popolare. Così Matteo Renzi l'ha utilizzata per altri fini, oltre a quello originale e originario. In primo luogo: per caratterizzare l'azione del suo governo. Un governo "riformatore". In secondo luogo, per rafforzarne il sostegno, attirando settori di elettorato estranei e lontani. Non solo al PD, ma alla politica. Il ridimensionamento dei poteri del Senato e del numero di senatori, infatti, piace a molti italiani. Non solo per ragioni di "rendimento istituzionale". Ma, ancor più, per ragioni "antipolitiche". Perché tagliare una Camera e un buon numero di senatori, risparmiare sui "costi" dei "politici": intercetta la diffidenza diffusa verso il "Palazzo".

LE TABELLE

Annunciando l'intenzione di dimettersi, nel caso la riforma non venisse approvata, Renzi ha ulteriormente ri-definito il significato della consultazione. L'ha trasformata in un referendum (secondo Gianfranco Pasquino: un plebiscito) sul proprio governo e su se stesso.

In questo modo il premier ha inteso non solo esercitare pressione sugli elettori. Ma "rimediare" al deficit di legittimazione che lo angustia. In quanto governa con una maggioranza variabile, in un Parlamento nel quale non è stato eletto. In questo modo, però, come ho già scritto, Renzi ha politicizzato un referendum antipolitico. E ne ha eroso, in parte contraddetto, le ragioni che gli garantivano consenso.

Si spiega così l'in-voluzione degli orientamenti nei confronti del referendum rilevata da Demos, nel corso degli ultimi mesi. Lo scorso febbraio, infatti, si esprimeva a favore della riforma una maggioranza molto ampia: 50%. Mentre i contrari erano la metà, 24%. Poco meno di quanti non rispondevano, perché indecisi, oppure perché la materia risultava loro poco comprensibile. Oggi, però, la prospettiva appare molto più incerta. Il sostegno alla riforma, infatti, è sceso al 37%: 13 punti meno di 4 mesi fa. Mentre l'opposizione è, parallelamente, salita al 30%. Insieme, è cresciuta anche la componente di quanti non si esprimono: 33%. La distanza, a favore del Sì, dunque, è calata sensibilmente: da 26 a 7 punti. Ma tra coloro che si dicono certi di votare si è ridotta a 3 soli punti. Praticamente: nulla.
Le ragioni di questo cambiamento non si possono spiegare attraverso la "conversione" degli elettori favorita dalla comprensione dei temi posti dal referendum. La crescita dell'incertezza segnala, piuttosto, il peso assunto dall'incomprensione. Assai maggiori appaiono, invece, a mio avviso, le ragioni "politiche". Sottolineate, anzitutto, dalla distribuzione delle opinioni in base alla scelta di voto. Che riflette, in larga misura, i rapporti fra maggioranza e opposizione. In Parlamento e fra gli elettori. Il massimo livello di consenso alla riforma costituzionale si osserva, infatti, fra gli elettori del PD e dei partiti di Centro. In entrambi i casi, oltre il 60%. Più limitato risulta, invece, il sostegno alla riforma fra gli elettori di FI (42%). Comunque, superiore, seppur di poco, alla quota dei No (35%). All'inizio del percorso parlamentare, d'altronde, Berlusconi aveva dato il proprio appoggio alla riforma. Ritirato, successivamente, dopo il mancato coinvolgimento del partito nella scelta del nuovo presidente della Repubblica

L'opposizione più decisa e irriducibile viene, invece, dal M5s, dalla Lega e dalla Sinistra. Nella cui base il peso dei No al referendum supera largamente quello dei favorevoli.

La riduzione del consenso alla riforma, dunque, riflette, la riduzione del consenso ai partiti della maggioranza. Ma evoca, al tempo stesso, la "radicalizzazione" delle posizioni verso il premier. Che, oggi, divide anche il PD. Infatti, la quota di favorevoli alla riforma proposta alla consultazione referendaria oggi supera il 50%, fra chi esprime fiducia nel premier. Il doppio di quel che emerge fra chi lo guarda con diffidenza.

La politicizzazione del dibattito referendario ha, dunque, modificato l'atteggiamento degli elettori. Ben al di là delle critiche di merito, che hanno indotto, fino a poco tempo addietro, alcuni autorevoli opinionisti e intellettuali a dichiarare il loro sostegno al referendum, pur aggiungendo che "la riforma fa schifo". Oppure, al contrario, a schierarsi per il No, perché è una "finta riforma". Che non neutralizza il Senato, ma lo rende un corpo informe e opaco.

Così, l'opposizione a Renzi e al referendum si incrociano e si rafforzano reciprocamente. Tanto più dopo le elezioni amministrative. Che hanno avuto un esito non molto positivo per il premier e per il governo. Circa 8 elettori su 10 (Atlante Politico di Demos, giugno 2016) pensano, infatti, che il PD di Renzi esca indebolito dal voto delle città.

Lo stesso Renzi, d'altra parte, ha contribuito a confondere la scena, perché, in vista delle elezioni, ha spostato l'attenzione sul referendum. Rendendo, così, difficile ai candidati del PD e del Centrosinistra fare campagna sui temi locali. Così, ora, l'esito deludente del voto amministrativo condiziona le aspettative nei confronti del referendum. Il cui contenuto, presso gli elettori, appare complementare, se non subalterno, rispetto alla vera posta in palio. Il giudizio politico sul premier e sul governo. Dopo aver puntato in modo intransigente sul referendum per auto-legittimarsi, oggi il premier cerca, dunque, di "sopravvivere" al referendum stesso. Il cui esito appare sempre più incerto. E problematico. Così Renzi, da un lato, pensa ad allontanare la data del voto. Dall'altro, contrariamente al passato, appare disponibile a "spacchettare" i quesiti del referendum, per isolare i temi più critici.

Ma, in questo caso, Renzi, premier e segretario del PDR, che ambisce al ruolo di Riformatore di una nuova Repubblica, rischia di "spacchettare se stesso".

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11 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/07/11/news/nella_consultazione_politicizzata_i_si_avanti_di_un_soffio_ma_in_netto_calo-143819083/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Docenti siciliani protestano contro i trasferimenti
Inserito da: Arlecchino - Agosto 15, 2016, 06:47:54 pm
Se gli esami non finiscono mai
Docenti siciliani protestano contro i trasferimenti
Mappe. In questo periodo la scuola fa discutere per il maggior numero di voti alti alla maturità tra gli studenti meridionali e per i trasferimenti dei docenti dal Sud al Nord

Di ILVO DIAMANTI
15 agosto 2016

IN TEMPI di vacanze scolastiche, la scuola resta, comunque, un argomento di discussione. Nelle famiglie e nella vita quotidiana. D'altronde tutti hanno figli, nipoti, parenti che studiano. Frequentano scuole di vario ordine e livello. E, parallelamente, molti sono gli insegnanti. Così non sorprendono le polemiche che "accendono" questa pausa estiva. Fra un anno scolastico e l'altro. Riguardano, in primo luogo, i voti conseguiti alla maturità dagli studenti. In secondo luogo, i trasferimenti dei docenti, nella scuola primaria e nella scuola secondaria. In entrambi i casi, il "terreno" (letteralmente) del contendere coinvolge la storica differenza, meglio, frattura fra Nord e Sud.

Nel caso dei voti attribuiti negli esami di maturità, infatti, è emerso un evidente squilibrio di punteggi favorevoli, a tutto vantaggio del Mezzogiorno. I dati diffusi dal ministero dell'Istruzione, infatti, hanno sottolineato una vera crescita di 100 e lode, soprattutto a Sud. In Puglia, Campania, Sicilia. Tutte al di sopra della media nazionale. Mentre le principali regioni del Nord e del Centro - Lombardia, Veneto, Toscana - risultano indietro nella graduatoria nazionale. Si tratta di dati che contrastano con le indagini di Ocse Pisa e con i test Invalsi, a cui sono sottoposti gli studenti per verificarne il livello di apprendimento. In questo caso, infatti, si ripropone il divario fra Nord e Sud. Ma in senso inverso. In quanto le regioni del Sud ottengono risultati peggiori rispetto a quelle del Nord.

Come si spiega questa prospettiva rovesciata? Al di là delle riserve sui criteri adottati nei test di verifica dei livelli di apprendimento, appaiono legittime le perplessità sui metri di valutazione adottati dai docenti. In base al contesto. Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera, alcuni giorni fa, ha sostenuto la tesi che "i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po' più larga". Questa disparità di giudizi, peraltro, condiziona anche i canali di reclutamento, soprattutto nel pubblico impiego. Dunque, nella stessa scuola. Dove il punteggio ottenuto nella maturità assume importanza.

Si spiega anche così l'altra questione che scuote la scuola, in questo periodo. Riguarda l'assegnazione degli incarichi agli insegnanti, da parte del ministero. Un provvedimento che prevede numerosi trasferimenti. In larga misura, dal Sud verso il Nord. Al proposito, alcuni docenti e sindacalisti hanno parlato di "deportazione coatta". Tuttavia, le ragioni di questo "esodo" sono ben chiarite in un recente Focus preparato da Tuttoscuola. Che apre rammentando: "Lo spostamento del baricentro della scuola italiana: più studenti e più posti al Nord, sempre meno al Sud, dove però risiede l'80% di chi vuole insegnare". Così, ha commentato, ancora, Stella: "Non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti".

Queste polemiche intorno alla scuola riflettono le questioni storiche che attraversano il Paese. Anzitutto: la tensione fra Nord e Sud. In altri termini: la "questione meridionale". Tuttavia, tanta attenzione richiama, anzitutto, l'importanza della Scuola, per gli italiani. Non solo sul piano dell'organizzazione sociale, ma, prima ancora, della "reputazione" dei cittadini. La Scuola, infatti, è al terzo posto fra le istituzioni più stimate, secondo il rapporto "Gli italiani e lo Stato" realizzato, nel 2016, da Demos per la Repubblica. Riscuote, infatti, la fiducia del 56% dei cittadini. Superata solamente da papa Francesco e dalle forze dell'ordine. E gli insegnanti della Scuola pubblica, a loro volta, risultano tra le figure professionali che dispongono di maggiore prestigio sociale. Per primi, i "docenti universitari", superati solo dai medici. Quindi, gli insegnanti delle scuole elementari, superiori e medie. Ottengono, tutti, un credito superiore al 55%. In crescita significativa, negli ultimi anni. Segno che la scuola, per quanto criticata, per gli italiani, conta molto. Come, d'altronde, gli insegnanti. In tutte le aree del Paese. Nel Sud, infatti, la fiducia nei loro riguardi risulta superiore alla media nazionale. Ciò si spiega, a mio avviso, per la loro "funzione sociale". L'istruzione. Spesso svalutata, a parole. Mentre, nella realtà, gode di grande reputazione. Anche per questo ai "professionisti" della cultura e dell'istruzione è richiesta mobilità territoriale. Il problema, semmai, è che la considerazione sociale e il prestigio professionale non sono sostenuti adeguatamente dal punto di vista delle condizioni normative e di reddito.

Io, comunque, per insegnare, da 26 anni mi reco a Urbino. In auto. Da Vicenza. Con cadenza settimanale. Certo, un paio d'anni fa mi sarei potuto avvicinare. Ma ho preferito restare. Perché, nel tempo, ho "cresciuto" una scuola, con alcuni studiosi e ricercatori di valore. E perché mi trovo bene. Naturalmente, me lo posso permettere. Perché la mobilità "settimanale" non mi sarebbe possibile se insegnassi alle scuole medie o alle superiori. Tuttavia, insegnare, fare ricerca, scrivere sui giornali, insomma, poter fare quel che mi piace, nonostante la fatica: è un privilegio. Che io stesso ho "coltivato". Perché le valutazioni scolastiche contano. Ma non sanciscono il nostro destino. Per anni, a Padova, alla facoltà di Statistica, ho potuto seguire i lavori di Lorenzo Bernardi. Che se n'è andato, troppo presto. Si occupava, in particolare, dei percorsi scolastici-professionali. Dalle sue ricerche ho appreso che non c'è una relazione stretta e diretta fra il successo scolastico alle Scuole superiori e le performance in ambito professionale. Ma, francamente, me n'ero convinto prima. Anche senza condurre studi specifici. D'altronde, io e Gian Antonio Stella abbiamo fatto il liceo insieme. Per tre anni siamo stati vicini di banco. E agli esami di maturità siamo usciti, entrambi, con un voto basso. Fra i peggiori. Ci siamo rifatti più avanti. Perché gli esami, come ha scritto il grande Eduardo, non finiscono mai. Per fortuna.

Per questo, quando mi chiamano in qualche scuola, agli studenti dico: "Ragazzi, guardatemi. Io sono la prova che c'è speranza per tutti".

© Riproduzione riservata 15 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/15/news/gli_esami_non_finiscono_mai-146001372/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Senza Partito non c'è Festa
Inserito da: Arlecchino - Agosto 23, 2016, 11:06:15 pm
Senza Partito non c'è Festa
Non ci sono più i partiti di una volta. E neppure le feste di partito di una volta

Di ILVO DIAMANTI
22 agosto 2016

NON ci sono più i partiti di una volta. E neppure le feste di partito di una volta. Le feste dell'Unità, per esempio. Oggi sollevano interesse solo quando suscitano polemiche. Com'è avvenuto in questi giorni, dopo che l'Anpi ha deciso di non partecipare alle feste dell'Unità, a partire dall'appuntamento di Bologna.

Per una ragione esplicita. L'associazione dei partigiani, infatti, è stata invitata a non promuovere le ragioni del No al referendum costituzionale alle feste. Renzi sta peraltro tentando di ridimensionare le tensioni. Ha infatti proposto al presidente dell'Anpi un confronto sul tema del referendum la settimana prossima a una festa dell'Unità in Emilia-Romagna.

Al di là di valutazioni sul merito, questa polemica fornisce un segno significativo. Dei tempi che cambiano. Perché, come ha osservato, sulla Repubblica, la storica Anna Tonelli: "Le feste hanno sempre costituito un luogo aperto. Anche ai cosiddetti nemici e agli avversari, negli anni degli scontri più duri". Michele Serra lo ha rammentato ieri, senza mezzi termini: "Le feste dell'Unità sono per loro natura e da sempre il luogo classico della discussione a sinistra".

Naturalmente, non bisogna attribuire un significato paradigmatico a un episodio specifico. Ma le feste dell'Unità, forse più di altri aspetti della realtà politica, spiegano bene quanto siano cambiati i "partiti". Ammesso che sia ancora possibile definirli così. Perché i "partiti" di massa sono scomparsi 25 anni fa. Non per caso. Ma perché non avevano più senso. Il "senso", almeno, offerto dalla storia che li aveva generati. Nell'Italia del dopoguerra, la politica era strutturata dalla frattura fra l'anticomunismo, impiantato sul muro di Berlino, e, sul versante opposto, l'anticlericalismo, l'antagonismo verso la Chiesa. D'altra parte, uno slogan in occasione delle elezioni del 1948 recitava: "nel segreto dell'urna, solo Dio ti vede, Stalin no". Mentre un giovane veneto, in un questionario distribuito nei primi anni '50 (anche allora si facevano sondaggi...), accanto al marchio del Pci scriveva: "belve assetate di sangue. Con la falce ci taglieranno la testa e con il martello ci inchioderanno alla croce" (in Allum e Diamanti, ' 50/' 80: vent'anni. Due generazioni di giovani a confronto, pubblicato dalle Edizioni Lavoro nel 1986). Quanto alla Dc, lo stesso giovane ne definiva i dirigenti "ladri". "Lontani dai poveri e da chi lavora". Opinione condivisa da molti altri, nell'inchiesta. Eppure, il loro sostegno andava proprio alla "Democrazia" (implicitamente: Cristiana). Perché i "comunisti" erano servi della Russia. E nemici della Religion.

Cioè, del mondo cattolico. Il sistema di servizi, associazioni, valori che sosteneva la società locale. La Chiesa: il retroterra della Dc. E il Pci, insieme alle associazioni sindacali e della sinistra, offriva un'alternativa. Capace di evocare gli orizzonti di valore e di organizzare la realtà sociale. Di indicare grandi destini, ma anche le routine quotidiane. Per questo le feste dell'Unità sono importanti. Perché danno continuità a quella storia. Quando la politica era inserita nella vita quotidiana. E contava nel momento del voto, nel rapporto con il governo nazionale, ma anche nella socialità e nel tempo libero.

Certo, da allora è cambiato tutto. Più della politica oggi conta l'anti-politica. Eppure anche un tempo l'antipolitica era diffusa. Nei giudizi sui partiti espressi nell'inchiesta condotta negli anni '50, gli insulti si sprecano. I politici pensano tutti ai fatti e agli affari loro. Senza distinzione fra destra e sinistra. Anche perché allora esistevano solo comunisti e democristiani. La questione decisiva era il Contesto. La condivisione di un linguaggio, di un ambiente. Così eri e ti sentivi comunista oppure democristiano, meglio: anti-comunista, a seconda del luogo dove vivevi. E delle relazioni che intrattenevi.

Si tratta di cose note. A ripeterle si rischia di apparire nostalgici. Anche se la nostalgia è utile, perché spinge a rivisitare il passato in modo selettivo. A isolare gli aspetti più interessanti. Tuttavia, nel caso delle feste dell'Unità mi pare che il problema vada oltre. Perché si tratta di feste popolari ("di popolo") che riproducevano il legame della politica, ma anche dell'anti- politica, con la società.

Ma oggi "quel" legame sembra essersi spezzato. Perché "quei" partiti non ci sono più. Così, la festa dell'Unità è divenuta un'altra cosa. Non ne giudico, ovviamente, la qualità. Per rispetto della sua storia, almeno. Tuttavia, il cambiamento di clima sociale intorno all'unica Festa di partito sopravvissuta, insieme al giornale a cui fa riferimento, permette, più di altri segni, di ragionare sulle difficoltà del "partito" che la ispira. Oggi: il Pd. A differenza del Pci, non è un soggetto "unitario", come suggerisce la testata del suo storico giornale. L'Unità, appunto. Riassume, invece, due "popoli" per molti anni alternativi. Comunisti e anticomunisti. Post- comunisti e post-democristiani. Cioè, post-anticomunisti. Oggi, peraltro, il Pd deve fare i conti con una nuova distinzione. Post-ideologica. Perché al suo interno si è imposto il PdR. Il Partito di Renzi. Un soggetto, in parte, specifico. Distinto. Ma stare insieme a fini strategici è una cosa. Camminare e discutere insieme, perché insieme si sta bene, è un'altra. "Festeggiare", ascoltando pareri diversi su un referendum (fin troppo personalizzato), decisivo per il futuro della leadership e quindi del partito: è un'altra cosa ancora.

Per questo il Pd ha "senso". Futuro. Ma solo se riuscirà a trovare un equilibrio, anche instabile, con il PdR. E, viceversa. Oggi, però, ha poco da festeggiare. Perché l'Unità, più che un giornale, per gli elettori e i militanti del Pd-PdR costituisce un (difficile) obiettivo da conquistare. Con impegno e fatica. Ma anche per passione e "piacere". Perché, altrimenti, restano solo gli interessi. E allora, a far politica: che gusto c'è?

© Riproduzione riservata 22 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/22/news/senza_partito_non_c_e_festa-146414128/?ref=HREC1-2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il dopo-terremoto sommerso di parole
Inserito da: Arlecchino - Agosto 26, 2016, 08:54:26 pm
Il dopo-terremoto sommerso di parole
La terra ha tremato in modo violento. Un'altra volta.
E ci siamo trovati di nuovo dentro un incubo

Di ILVO DIAMANTI
26 agosto 2016

Ho percepito in diretta la lunga scossa di terremoto, che ha sconvolto alcune zone dell'Italia Centrale. In questo periodo, da molti anni, mi trasferisco a Urbania. Al confine con Urbino - e anch'essa città ducale. Così, nella notte fra martedì 23 e mercoledì 24 agosto ho sentito muri e pavimento muoversi, le lampade oscillare e molti oggetti battere e scivolare. Ho cercato subito sui siti una notizia, un'informazione. Ma avevo capito. Troppo facile immaginare cosa fosse successo. Il problema era "dove". E con quali effetti.

Pochi istanti e la mia attesa veniva - per così dire - soddisfatta. La terra aveva tremato. In modo violento. Un'altra volta. Al crocevia fra le Marche, il Lazio e l'Umbria. Così ci siamo trovati, di nuovo, dentro un incubo. Assolutamente reale. Un altro terremoto che ha travolto molte località, molti borghi, molte abitazioni e, insieme, molte vite. Era già avvenuto altre volte, non tanti anni fa, non lontano da qui. E purtroppo avverrà ancora. In qualche altro paese, in qualche altra città. D'altronde, come si sente dire spesso, in questi giorni, si tratta di un evento prevedibile. Anche se non proprio in quei luoghi e in quei giorni. Perché il nostro è uno "Stato di emergenza". Permanente. Noi, per abbassare il rischio, dovremmo praticare la prevenzione, in modo sistematico. Nella realizzazione del patrimonio immobiliare. Nella gestione del territorio.

E qualcosa si è fatto, si fa. Ma in misura assolutamente inadeguata. Non intendo, qui, riprendere il dibattito sui motivi della nostra amnesia permanente, su questi problemi. Ma mi disturba assistere a un palinsesto già scritto. Delineato e sperimentato tante volte. Lo spettacolo del disastro e della tragedia. Lo spettacolo del dolore e dei soccorsi. Della solidarietà e della generosità. Del sostegno istituzionale, espresso da presidenti e uomini di governo in visita ai luoghi colpiti dal sisma. Questa narrazione, scritta, descritta e sceneggiata tante volte: mi disturba.

Anche perché, sui media, questa tragedia reale, tremenda, prende il posto di altre tragedie private, sceneggiate e replicate altre volte. Tante volte. Troppe volte. Omicidi e violenze familiari, tra coniugi, genitori e figli. Tra vicini, conoscenti e sconosciuti. Femminicidi. Li abbiamo visti e li vediamo, trasmessi da tanti anni. D'altronde, da noi i processi e le indagini non finiscono mai. Così, gli stessi spazi mediali oggi sono occupati dalle storie del terremoto e del dopo-terremoto. Riproposte, sugli schermi televisivi, di giorno in giorno, meglio ancora, di pomeriggio in pomeriggio. Poi, di sera, fino a notte inoltrata. La vita e la morte, assolutamente in diretta. I bambini deceduti e quelli salvati. Le polemiche sulle responsabilità dello Stato, dei Comuni e dei privati. Sulle risorse impiegate per gli stranieri e gli immigrati, invece che per aiutare i nostri cittadini.

Mi disturba il reality show che si svolge intorno al dolore. E solleva rumore, anche quando ci sarebbe bisogno di silenzio. Mi rendo conto, però, che è inevitabile. Come, purtroppo, il ripetersi delle tragedie che devastano il nostro territorio. Però, se i terremoti sono imprevedibili e, in Italia, non finiscono mai, proviamo, almeno, a non rassegnarci alla riduzione mediale del dopo-terremoto, sepolto da fiumi di parole. Per rispetto. Nei confronti delle comunità e delle persone colpite dal sisma. E verso noi stessi.

Tags Argomenti: terremoto 24 agosto 2016Protagonisti:
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Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/08/26/news/il_dopo-terremoto_sommerso_di_parole-146638118/?ref=fbpr


Titolo: ILVO DIAMANTI - Terremoto, le due facce del volontariato
Inserito da: Arlecchino - Settembre 02, 2016, 05:33:13 pm
Terremoto, le due facce del volontariato
Il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno 'assistito' a questi eventi non solo da 'spettatori'

Di ILVO DIAMANTI
29 agosto 2016

L'ALTRA faccia del terremoto, della tragedia che ha devastato alcune zone dell'Italia centrale, è il ritorno del volontariato. Che ha partecipato, attivamente, ai soccorsi. E continuerà anche domani e dopo. Nelle aree colpite, in modo tanto violento e doloroso. Ma anche intorno. E per "intorno" intendo l'intero Paese. Perché il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno "assistito" a questi eventi non solo da "spettatori". Di uno spettacolo doloroso riprodotto su tutti i media, ad ogni orario. Gli italiani, infatti, in gran parte, si sono sentiti coinvolti - e sconvolti - dal dramma di Accumoli, Amatrice, Pescara del Tronto. E degli altri paesi situati nell'epicentro del terremoto. Al crocevia fra Marche, Lazio e Umbria. Così, in breve, si è diffusa e allargata la partecipazione solidale dei cittadini di tutta Italia. Al punto da costringere i coordinatori dei soccorsi a frenare questa spinta generosa. Cercando, quantomeno, di regolare la qualità e la quantità dei contributi, in direzione delle domande "locali". Per evitare l'eccesso di "doni" e di "beni" - già eccedenti.

Questa premessa permette di comprendere la complessità di quella realtà che, nel discorso quotidiano, è riassunta con un solo termine. Una sola parola. Volontariato. Pronunciato, spesso, senza precisazioni. Dato per scontato. Mentre si tratta di un fenomeno distinto e molteplice. Che, nel tempo, ha cambiato immagine e significato. Il volontariato. È un modello di azione, individuale e sociale, orientato allo svolgimento di "attività gratuite a beneficio di altri o della comunità". Per citare la prima indagine sul settore condotta dall'Istat (nel 2014). La quale stima, il numero di volontari, in Italia intorno a 6 milioni e mezzo di persone. Cioè, circa il 12,6% della popolazione. In parte (4 milioni) coinvolti in associazioni e in gruppi, gli altri (2 milioni e mezzo) impegnati in forme e sedi non organizzate. Ma, se spostiamo l'attenzione anche su coloro che operano in questa direzione anche in modo più occasionale, allora le misure si allargano sensibilmente. Il Rapporto 2015 su "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica, infatti, rileva come, nell'ultimo anno, quasi 4 persone su 10 abbiano preso parte ad attività di volontariato sociale. Che si producono e si riproducono in base a necessità e ad emergenze. Locali e nazionali. Come in questa occasione.

Il "volontariato", infatti, è utile. Alla società e allo Stato. Ai destinatari della sua azione e alle persone che lo praticano. Il volontariato "organizzato", d'altronde, ha progressivamente surrogato l'azione degli enti locali e dello Stato. Si è, quindi, istituzionalizzato. In molti casi, è divenuto "impresa". Sistema di imprese, che risponde a problemi ed emergenze. Di lunga durata oppure insorgenti. Il disagio giovanile, le povertà vecchie e nuove. Negli ultimi anni, in misura crescente: gli immigrati. E di recente: i rifugiati. Fra le conseguenze di questa tendenza c'è la "normalizzazione della volontà". Che rischia di venir piegata e di ripiegarsi in senso prevalentemente "utilitario". Divenendo una risorsa da spendere sul mercato del lavoro e dei servizi. Il "volontario", a sua volta, rischia di divenire un professionista. Una figura professionale. E, non a caso, sono molti i "volontari di professione", che operano in "imprese sociali". Il principale rischio di questa tendenza - sottolineato da tempo - richiama, anzitutto, la dipendenza del volontariato e, di conseguenza, dei volontari "di professione" da logiche prevalentemente istituzionali. E dunque politiche. Visto che questo volontariato e questi volontari dipendono, in misura determinante, da finanziamenti e contributi "pubblici". Locali, regionali e nazionali. Talora, com'è noto, sono perfino divenuti canali di auto-finanziamento. Per soggetti e interessi politici e impolitici, non sempre leciti e trasparenti.

Bisogna, dunque, diffidare del "volontariato"? Sicuramente no. Perché il volontariato è, comunque, un fenomeno ampio e articolato. In parte organizzato, in parte no. Espresso e praticato, in molti casi, su base individuale. Un modo per tradurre concretamente la solidarietà. Un'altra parola poco definita e molto usata. Perfino abusata. Ma che riassume un fondamento della società. Perché senza "relazioni di reciprocità", dunque, di solidarietà, la società stessa non esiste. Così, il volontariato organizzato fornisce riferimento e continuità al volontariato individuale. Al sentimento diffuso di altruismo che anche in questa occasione si è manifestato. Il volontariato organizzato offre visibilità - e dunque sostegno - al grande popolo del "volontariato involontario". Che fa solidarietà fuori dalle organizzazioni, dalle associazioni. Dalle istituzioni e dalle imprese.

© Riproduzione riservata 29 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/29/news/terremoto_le_due_facce_del_volontariato-146799372/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Urbino, cronache dalla periferia (universitaria) del terremoto
Inserito da: Arlecchino - Novembre 05, 2016, 10:39:51 am
Urbino, cronache dalla periferia (universitaria) del terremoto

04 novembre 2016
Ilvo Diamanti

Urbino, cronache dalla periferia (universitaria) del terremoto Urbino è alla periferia del terremoto. Abbastanza lontana dagli epicentri da non aver subito danni rilevanti. Ma comunque dentro alla regione tellurica. L’area umbro-marchigiana. Città universitaria. Perché gli abitanti, gli urbinati, se ne sono usciti da tempo. E hanno ceduto, meglio, affittato le case e gli spazi pubblici agli studenti. E ai docenti. Un po’ quel che è avvenuto alle altre città universitarie dell’area. Penso a Macerata ma, soprattutto, a Camerino. Colpita in modo pesante dal terremoto.

Urbino, invece, è stata ripetutamente investita da scosse violente, ma senza conseguenze significative sulle abitazioni, i monumenti, le strutture universitarie. Eppure la sua immagine è rimasta impigliata nello sciame sismico degli ultimi mesi. Sono, infatti molti i colleghi e i conoscenti di altre città (e Paesi) che mi chiamano per sapere cosa sia successo qui. Io, d’altronde, ho ballato il 24 agosto, in piena notte. Quando ho visto saltare tutti gli oggetti appoggiati sulle mensole della mia casa. Mercoledì 26 ottobre, quando sono riprese le scosse, il tardo pomeriggio. Alla sera, dopo la seconda scossa, ho visto gli studenti scendere lungo le vie di Urbino con i loro trolley. E partire. Ad attenderli, sotto le mura, nella piazza del Mercatale, i genitori in auto. Per riportar(se)li a casa.

Ieri sera, giovedì, tradizionale festa (settimanale) di arrivederci degli studenti – e di altri giovani – Urbino era vuota e silenziosa. Anche a lezione, peraltro, gli studenti erano pochi. E non solo “per effetto” del ponte lungo di Ognissanti. Ma “per effetto” del terremoto. Le scosse ripetute, generate da epicentri fluidi e sempre più vicini, hanno invitato alla prudenza. Anche se non bisogna esagerare. Urbino, infatti, è un punto periferico, eppure esemplare, delle possibili conseguenze sociali del terremoto nelle città universitarie. Camerino, soprattutto, ma, in misura minore, anche Macerata. Colpite dalle scosse, minacciate dal terremoto: rischiano di venire svuotate di senso.

Perché, se per paura, gli studenti si allontanano, allora queste città perdono il loro significato. Diventano musei, silenziosi e malinconici. Mentre, fino ad oggi, sono stati - e ancora sono - luoghi centrali – anche geograficamente – della storia culturale del Paese. Per questo, anche per questo, non bisogna arrendersi. Alla paura. Per questo, anche per questo, io non me ne andrò.

Da Urbino.
© Riproduzione riservata 04 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/11/04/news/urbino_cronache_dalla_periferia_universitaria_del_terremoto-151316784/?ref=HRER2-3


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il trumpismo all'italiana e la destra senza leader
Inserito da: Arlecchino - Novembre 14, 2016, 05:55:40 pm
Il trumpismo all'italiana e la destra senza leader

Mappe
Di ILVO DIAMANTI
14 novembre 2016

LEGA e Forza Italia, Forza Italia e Lega. Oggi sembrano distanti e distinte. Lega o Forza Italia. Forza Italia o Lega. La Lega di Salvini si è mobilitata per il No al referendum. A Firenze. La città di Renzi. Che una settimana fa, proprio a Firenze, alla Leopolda, ha presieduto la convention del PdR. Forza Italia, invece, si è riunita intorno a Stefano Parisi.
A Padova. Dove, il giorno prima, è stato sfiduciato il sindaco leghista, Massimo Bitonci. Per la defezione, determinante, di due consiglieri di Fi.

Così, Bitonci ha sostenuto che ci sono due Forza(e) Italia(e). Anche perché a Firenze, insieme a Salvini, manifestavano Toti, presidente — forzista — della Liguria. Ma anche Brunetta e la Santanché. Però è altrettanto vero che non c’è una sola Lega. Visto che Manuela Dal Lago, ex Presidente della Provincia di Vicenza, ex deputata, ex triumvira della Lega Padana, non ha rinnovato la tessera. Perché si sente lontana da questa Lega, che ha rinunciato all’indipendenza padana. E, per questo, lascia insoddisfatto il padre fondatore, Umberto Bossi. Una Lega Nazionale e lepenista. Antieuropea e anti-immigrati. Che, invece di marciare contro Roma, si è scagliata contro Bruxelles. Tuttavia, il problema di fondo, a Destra, appare proprio l’identità e la leadership. Della Destra. In particolare oggi, dopo la vittoria di Donald Trump negli Usa. Perché gli Usa costituiscono, comunque, la guida e il riferimento della politica globale. Tanto più in Italia. Per decenni, il confine dell’Occidente. Cioè, del Mondo ispirato e guidato dall’America. Alternativo al sistema socialista. Il baricentro impiantato a Mosca. Oggi non è più così. Da tempo ormai. Ma l’elezione di Trump ha accelerato e accentuato questo passaggio. In modo traumatico. Perché Trump guarda oltre l’Europa. E si rivolge direttamente alla Russia di Putin. Mentre marca maggiormente i confini interni. Nei confronti del Messico. E fra le popolazioni, vista l’importanza, per il risultato, del voto dei “bianchi”. Così, la distinzione fra Destra e Sinistra, in Italia, diventa ancor più problematica. Ma soprattutto nella Destra, dove convivono componenti e leadership molto distinte. Soprattutto dopo il declino di Silvio Berlusconi, in seguito alle dimissioni del suo governo, giusto cinque anni fa. Il 12 novembre 2011. Infatti, la Destra, meglio: il Centro-destra, in Italia, è stato improntato da Berlusconi. La sua “discesa in campo”, nel 1994, divise il (nostro) mondo in due. Fra Berlusconiani e Comunisti. Perché, sulle macerie del muro di Berlino, Silvio Berlusconi ricostruì il muro di Arcore. Puntualmente ricambiato — e confermato — dagli avversari. Che hanno diviso il mondo fra berlusconiani e anti-berlusconiani. In questo modo, peraltro, la Lega secessionista riuscì a divenire forza di governo. “Sdoganata” da Berlusconi. Che riuscì nell’impresa di “legare la Lega” con i post-fascisti di An. E di “unire”, così, il Nord con il Sud.


Oggi, però, è rimasto poco di quella stagione. Di quel progetto. Di quelle fratture. An si è disciolta nel PdL. Mentre il leader, Gianfranco Fini, è scivolato al Centro, insieme a Futuro e Libertà. Ai confini della Destra è rimasta Giorgia Meloni, con i suoi “Fratelli d’Italia”. Mentre la Lega e Fi faticano a tenere i loro elettori. Secondo i sondaggi — che, naturalmente, sbagliano, ma continuano ad essere considerati con timore dagli attori politici — Fi oggi si aggira intorno al 12 per cento. In crescita negli ultimi mesi. Ma 5 punti sotto il risultato delle europee. La Lega, invece, è stimata un po’ meno del 10 per cento. In aumento, rispetto alle Europee. Ma in calo significativo nell’ultimo anno, visto che a giugno 2015 il suo peso elettorale era valutato al 14 per cento. Il problema, per la Lega e per Forza Italia, è che la spinta anti-sistema, contro l’establishment e contro le èlite, in Italia, non è interpretata da loro. O meglio, non tanto da loro. Perché il posto di Trump, da noi, è già stato occupato da tempo. Dal M5s. Che, non a caso, nei sondaggi, è molto vicino al Pd, nel voto proporzionale. Ma, in caso di ballottaggio, prevarrebbe. Certo, fra gli elettori del M5s, Trump non appare popolare quanto presso la base della Lega e dei FdI. Perché l’elettorato del M5s è distribuito in modo trasversale da destra a sinistra passando per il centro. Mentre il sostegno a Trump, in Italia, fra gli elettori di centro-destra e di destra, (prima del voto Usa) appariva più che doppio, rispetto alla media (sondaggio Demos). Tuttavia, Trump non si è affermato perché ha attratto — specificamente — gli elettori di “destra”. Cioè, per ragioni “ideologiche”. Si è affermato, invece, perché ha intercettato il voto degli elettori “arrabbiati” (per usare un eufemismo) contro la politica, i politici e, soprattutto, le dinastie politiche — come i Clinton. Perché ha raccolto il consenso — e amplificato il dissenso — dei ceti medi in declino. E delle classi declinate da tempo. Insomma, per dirla “all’italiana”, Trump ha vinto perché si è presentato come l’anti- politico contro l’erede dichiarata della politica — tradizionale. Contro Washington, la capitale. Che, in Italia, non coincide più con Roma, dove, ormai, stazionano tutti i “politici”. Del Pd, ma anche di Fi, della Lega e del M5s. La capitale, ormai, è Bruxelles. Il nemico è l’Europa.
Per i soggetti politici di Destra, dunque, il problema è che, in Italia, lo spazio di Trump e del trumpismo risulta già occupato. Dal M5s. E da Grillo. Tuttavia, è probabile, anzi: certo, che tutti cercheranno di trarre spunto — e spinta — dalla “lezione americana”. Soprattutto in Italia. Così non mi sorprenderei se lo stesso Renzi tentasse di trumpizzarsi. Almeno un po’. Tanto più in caso di vittoria del No al referendum. In fondo, la “rottamazione” l’ha inventata lui. Potrebbe presentare Trump come un imitatore…

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14 novembre 2016.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/14/news/il_trumpismo_all_italiana_e_la_destra_senza_leader-151955810/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Referendum, il No avanza. Il Sì è indietro di 7 punti
Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2016, 12:02:40 pm
Referendum, il No avanza. Il Sì è indietro di 7 punti
Nell'ultimo mese i contrari cresciuti del 3%. Un italiano su quattro, però, è ancora indeciso. Un esame elettorale, Renzi forte solo al Nord

Di ILVO DIAMANTI
18 novembre 2016

A due settimane dal referendum costituzionale gli orientamenti di voto sembrano definiti. Infatti, nell'ultimo periodo, il No ha allargato il proprio vantaggio. Secondo il sondaggio condotto nei giorni scorsi da Demos per Repubblica, ha raggiunto il 41%, mentre il Sì è sceso al 34%. La distanza è, dunque, di 7 punti, mentre il mese scorso era di 4. E in settembre di 8, ma a favore del Sì. In due soli mesi, dunque, le posizioni si sono decisamente invertite. E il No ha recuperato ben 15 punti.

Ovviamente, occorre usare prudenza prima di considerare conclusa la partita. Meglio tener conto della "lezione americana", impartita in occasione delle elezioni presidenziali. D'altronde, gli elettori incerti e reticenti, in questa occasione, sono ancora il 25%. Uno su quattro. La decisione ritardata (o non dichiarata) e l'in-decisione potrebbero determinare variazioni profonde, nell'esito del voto. Fino a rovesciare le previsioni. Com'è avvenuto proprio la settimana scorsa negli Usa. Dove il successo di Trump è apparso imprevisto.

Anche se non era del tutto imprevedibile, visto che le distanze emerse dei sondaggi non erano così lontane dal margine di errore statistico. Nel caso del referendum, si aggiunge la complessità del quesito, che quasi il 45% degli italiani (intervistati) ammette di conoscere "poco o per niente". La geografia degli orientamenti, anche per questo, appare composita. Il "fronte del Sì", in particolare, è più esteso nel Nord, ma si restringe nelle regioni del Centro e del Sud. Mentre il No prevale fra i più giovani e nelle componenti sociali più istruite. Tuttavia, sul voto referendario, più delle motivazioni sociali ed economiche, pesano quelle politiche. Solo fra gli elettori del Pd, infatti, il Sì risulta (nettamente) maggioritario (75%). Mentre negli altri partiti (con la parziale eccezione dell'Ncd) prevale la posizione opposta. In modo più o meno largo.

Nella Lega e nel M5S, in particolare, il No è espresso dai 3 quarti degli elettori. Tra i Fratelli d'Italia: dal 60% - circa. I dati dell'Atlante Politico di Demos, però, evocano, soprattutto, l'idea di un voto marcatamente personalizzato. Da - e intorno a - Renzi. In modo coerente e conseguente alle scelte originarie del Premier. Il quale, attraverso il referendum, vorrebbe ottenere la legittimazione elettorale che ancora non ha avuto. D'altronde, oltre il 60% del campione nazionale (intervistato da Demos) considera il prossimo voto proprio così. Un referendum "a favore o contro Renzi e il suo governo", che sta assumendo un orientamento decisamente negativo. Anche perché il giudizio popolare, al proposito, si sta deteriorando in modo rapido e profondo.

Oggi, infatti, il 40% degli elettori attribuisce un voto positivo al governo. Dunque, 4 punti in meno rispetto al mese scorso e 6 rispetto a un anno fa. Questo giudizio, però, può essere letto anche in modo inverso e speculare. Che 6 persone su 10, dunque la larga maggioranza, valuta il governo negativamente. Peraltro, la stessa tendenza si osserva in rapporto alla figura e alla leadership di Renzi. Stimata positivamente nella stessa misura del governo: 41%. E in calo, anche in questo caso, di 4 punti nell'ultimo mese. Ma di 7 nell'ultimo anno. È una conferma del legame stretto fra il governo e il premier, nella percezione dei cittadini. Che si riflette sulle intenzioni di voto al referendum. Per questo una vittoria del No implicherebbe le dimissioni da Capo (del governo), secondo la maggioranza degli elettori: il 56%. In crescita di 3 punti nell'ultimo mese. Ma sancirebbe anche la fine della sua leadership nel Pd, secondo il 51% degli intervistati. Anche per questo il Pd, nelle stime elettorali, non cresce. Perché è, ormai, un partito personale. Il PdR. E ruota intorno alle sorti del Capo. Così, staziona intorno al 30%. Affiancato dall'unico soggetto di opposizione, oggi, plausibile. Il M5S. Che "rischierebbe" di vincere, in caso di ballottaggio. Mentre la Lega e Forza Italia sembrano riprendere quota. Ma volano basso. Intorno al 13%. A lunga distanza dai due rivali: Renzi e Grillo. PdR e M5S.

È come se la politica in Italia fosse sospesa. In attesa del referendum. Da cui dipenderà non solo la sorte di Renzi e del suo governo, ma anche degli altri principali partiti. Degli altri leader. Così, purtroppo, in pochi discutono della materia del referendum. Salvo i costituzionalisti e alcuni esperti. Oltre ai leader e ai militanti (schierati a prescindere). La posta in palio è un'altra. Il destino politico di Renzi. Il futuro - prossimo della politica, in Italia. E non ci sono parole per dire quel che sarà e saremo. Fra poco più di due settimane. Dopo il 4 dicembre. Ci mancano le parole perché non sappiamo. Quel che sarà e saremo.

© Riproduzione riservata
18 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/18/news/referendum_sondaggio_distacco_no_7_punti-152239357/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - L'elogio della mediazione. La democrazia rappresentativa al ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 21, 2016, 11:41:29 am
L'elogio della mediazione
Le mappe.
La democrazia rappresentativa al tempo dei social

Di ILVO DIAMANTI
21 novembre 2016

NON E' da oggi che, non solo in Italia, si accentuano le spinte verso un presidenzialismo di fatto. Verso una democrazia immediata, più-che-diretta, che rimpiazza ogni mediazione rappresentativa con i media. Ne ho scritto altre volte in passato. E non solo io. Ma oggi, in Italia, questa tendenza si è accelerata.

Fra meno di due settimane si voterà a un referendum, per decidere - anzitutto ma non solo - di ridimensionare i poteri del Senato. E, dunque, il bicameralismo paritario. Per rendere i processi decisionali più rapidi. Più diretti. Più immediati. Il referendum stesso è un metodo di democrazia immediata. Che affida la scelta e la decisione al "popolo sovrano". Ma la posta in palio di questo referendum va ben oltre la riforma costituzionale, peraltro, importante. Chiama in causa, in modo diretto, anzi, immediato, il premier, Matteo Renzi. Il quale, per primo, ha attribuito al referendum una finalità "politica" e "personale". Annunciando che, nel caso non fosse stato approvato dal voto popolare, si sarebbe dimesso. Così, per citare Gianfranco Pasquino, il referendum si è trasformato in un plebiscito. In un'investitura o, al contrario, una dis-investitura. Diretta. Anzi im-mediata. Questa "piega" è divenuta esplicita nelle ultime settimane. Perché, al di là di tutto e di tutti, il confronto pone, ormai, di fronte il Capo e il Popolo sovrano. Al quale Renzi si è rivolto. Saltando ogni mediazione. Così sarà difficile, in caso di approvazione, mettere in discussione i suoi poteri. La sua legittimità. Riconosciuta dal Popolo sovrano. Direttamente. Così, nei prossimi giorni, il premier si rivolgerà direttamente ai cittadini. Inviando ad ogni famiglia un opuscolo che spiegherà le ragioni del Sì. Al tempo stesso, Renzi ha denunciato "l'accozzaglia di tutti contro una sola persona". Lui. Solo. Di fronte ai nemici che operano contro di lui e contro la riforma.

Al tempo stesso, Renzi ribadisce che, se il referendum non venisse approvato, il governo seguirebbe il destino del premier. Cioè, le dimissioni. Ripeto e metto in fila cose note. A tutti. Perché espresse e comunicate pubblicamente. Tuttavia, non mi interessa tanto entrare nei contenuti del dibattito sul referendum. Ma, piuttosto, ragionare sulle dinamiche del rapporto fra società e politica che emergono in questa fase. In particolare, sulla rapida riduzione delle distanze fra autorità e cittadini. Insieme alla personalizzazione della politica e delle istituzioni. Oggi, infatti, ma non solo da oggi, il governo e i partiti sono personalizzati, in modo sempre più estremo. In Italia in particolare, il Pd, partito di maggioranza e di governo, appare iper-personalizzato. Direi quasi personale, com'era Forza Italia. Anche se Renzi ha "conquistato" democraticamente la guida del partito, attraverso le primarie. Tuttavia, anch'egli ha centralizzato decisioni e poteri. Si è circondato da una cerchia di persone fedeli e amiche. Ha, di fatto, rimpiazzato i congressi con la convention "personale" alla Leopolda. La stazione di Firenze vicino a casa. Sua. Per questo ho ri-definito il Pd: PdR. Partito di Renzi. D'altronde, Renzi interpreta in modo esemplare il tempo della "democrazia im-mediata". Oppure, per citare Nadia Urbinati, "in diretta". Certo, come Berlusconi, sa comunicare efficacemente attraverso i media tradizionali. Per prima la televisione. Ma, più e meglio di altri, utilizza i social media. Twitter e Facebook. I canali della "comunicazione im-mediata". Che bypassano ogni "mediazione". E mettono in relazione diretta, anzi, im-mediata, il Capo con il suo popolo. Non è un caso e non è per caso che il principale soggetto politico di opposizione sia il M5S. Fondato e guidato da Beppe Grillo, ispirato da Gianroberto Casaleggio. Il M5S ha utilizzato la rete come una nuova Agorà. Dove i cittadini possono deliberare direttamente sulle questioni di maggiore interesse pubblico. Come nell'Atene di Pericle. Il M5S: un soggetto e un progetto di democrazia diretta. Meglio: im-mediata. Senza mediazioni. Anzi: contro ogni mediazione e ogni mediatore. E, dunque, contro i "media" e i giornalisti. Visto che al tempo del digitale ogni cittadino può e dovrebbe discutere e decidere sulle questioni di interesse comune. Nell'Agorà digitale.

I canali e gli attori tradizionali della mediazione, d'altronde, si sono rarefatti. I partiti per primi, sempre più personalizzati e abbandonati dagli iscritti. Intorno a noi vediamo leader senza partiti e partiti senza società e senza territorio. Così i leader si rivolgono direttamente ai cittadini. Senza mediazioni. D'altronde, le mediazioni sono sempre più difficili da proporre e da imporre. Perché i cittadini appaiono, a loro volta, più soli. Visto che non solo i partiti, ma anche le associazioni tradizionali si stanno indebolendo. Il sindacato, le organizzazioni di rappresentanza degli interessi: hanno perduto la loro base sociale. E, insieme, la fiducia dei cittadini. Ormai, meno del 20% delle persone, in Italia, esprime fiducia nei sindacati. Mentre, fra le istituzioni, mantengono un buon grado di credibilità solo le Forze dell'ordine, il presidente della Repubblica. E Papa Francesco. Sintomi e segni della diffusa domanda di sicurezza. E di "fede". In qualcuno. In qualcosa.

Per questa ragione, in questi tempi di democrazia im-mediata, attraversati e interpretati da uomini soli al comando, chiamati a decidere subito e senza mediazioni, in rete o attraverso i referendum popolari, mi sento un po' a disagio. D'altronde, Evgenij Morozov ha insegnato a diffidare della visione ottimista di internet, (non sempre) canale di promozione democratica. E ha mostrato il "lato oscuro della rete". Così a volte provo un po' di nostalgia. Dei (buoni) partiti. Capaci di rappresentare la società. Capaci di indicare percorsi futuri, perché hanno un passato, una storia. E ammetto la mia preferenza per la democrazia rappresentativa. Per la "buona" mediazione, realizzata da "buoni" mediatori.

© Riproduzione riservata 21 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/21/news/l_elogio_della_mediazione-152437425/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Allarme bullismo, dalle aule ai social network: ne è vittima...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 28, 2016, 08:34:38 pm
Allarme bullismo, dalle aule ai social network: ne è vittima un adolescente su tre
Genova, un episodio di bullismo nel 2015: due ragazze di 16 e 17 anni si accaniscono contro una dodicenne
Mappe. L'avvento della Rete ha delineato un nuovo territorio per un fenomeno che, rivela il sondaggio Demos, preoccupa una parte sempre più larga della popolazione

Di ILVO DIAMANTI 28 novembre 2016

"Bulli troppo giovani per finire in tribunale, ma ci sono altre pene"
Torino: vittima delle vessazioni dei compagni bulli, diventa disabile a undici anni

Il bullismo è un fenomeno serio e odioso. Ma solo da pochi anni ha ottenuto un'attenzione pubblica adeguata. Anche se ha una storia lunga. Narrata dal cinema e dalla letteratura. Oggi, però, è oggetto di preoccupazione diffusa. E, per questo, numerosi istituti di ricerca conducono analisi e ricerche sistematiche, sul fenomeno. Dall'Istat all'Istituto Toniolo dell'Università Cattolica, al Centro di ascolto di Telefono Azzurro.
 
Tanta attenzione riflette l'effettiva crescita del fenomeno, ma anche il diverso significato che ha assunto. In passato, infatti, era "accettato" come una sorta di rito di passaggio all'età adulta. Pochi lo definivano come un sopruso o un abuso. A scuola, ma anche nella vita quotidiana, nei gruppi, nei quartieri, il bullo era, spesso, la figura dominante. Il bullismo: un metodo di affermarsi attraverso l'umiliazione di altri giovani. Più deboli o, comunque, meno capaci di reagire. Meno disposti ad agire nello stesso modo. Tuttavia, per quanto serio e grave, il fenomeno appariva "circoscritto". O almeno localizzato, non solo nello spazio, ma ancor più nel tempo. Passati alcuni anni, il contesto cambiava. Tanto più e soprattutto se si cambiava, appunto, contesto. Residenza, località. E soprattutto: scuola. Perché la scuola ne è sempre stato l'ambiente privilegiato.
 
Oggi non è più così. Perché, da un lato, la "giovinezza" si è allungata. Come gli anni di studio. E, soprattutto, perché le distanze territoriali non contano più come un tempo. Anzi: non contano più. Perché l'avvento della rete, dei social media le ha vanificate. E, anzi, ha delineato e costruito un nuovo "territorio" nel quale il bullismo, anzi, il cyber-bullismo, si è affermato. E diffuso. Senza più limiti.

L'osservatorio di Repubblica.it sul cyberbullismo
Secondo un'indagine Doxa Kids svolta su tutto il territorio italiano, il 35% dei ragazzi dagli 11 ai 19 anni è stato vittima di episodi di bullismo. E il fenomeno appare in aumento, soprattutto negli ultimi anni. Anche se bisogna tener conto che, ormai, ogni "atto violento" commesso da giovani ai danni di altri giovani, presso l'opinione pubblica, tende a venir catalogato come "bullismo". Senza ulteriore specificazione.
 
Le vittime coinvolte, comunque, sono principalmente femmine (nel 56,3% dei casi), tra gli 11 e i 14 anni (nel 40,6% dei casi). Infine, il 10,2% dei bambini e adolescenti coinvolti è di nazionalità straniera.
 
L'Istat traccia un profilo ancor più pesante del fenomeno. Secondo le sue indagini, infatti, nel 2014, oltre metà dei giovani (e giovanissimi) compresi fra 11 e 17 anni è stato oggetto di episodi violenti ad opera di altri ragazzi o ragazze. Due su dieci, inoltre si dichiarano bersaglio di "offese" ripetute. Più volte al mese. Circa il 6% è stato vittima di questi episodi per via digitale. Sui social network. In questo caso si tratta, soprattutto, di ragazze. Il bersaglio privilegiato (si fa per dire) di cyber-bullismo.

Se questa è la "realtà" del fenomeno, il sondaggio di Demos, condotto nelle scorse settimane in Italia, ne conferma la gravità e la diffusione, nella "percezione" sociale. Infatti, 7 persone su 10 considerano il bullismo "inaccettabile". Rispetto al 2007 (cioè, quasi 10 anni fa) si tratta di oltre 5 punti percentuali in più. Nello stesso tempo, fra gli italiani, è cresciuta la convinzione che il fenomeno sia diffuso nella maggioranza delle scuole. Lo pensa, infatti, quasi un quarto della popolazione. Ed è interessante osservare come questa idea non sia concentrata in una specifica coorte d'età. Risulta, invece, trasversale. Distribuita ed estesa in diversi settori sociali e generazionali. Certo, la preoccupazione appare molto elevata soprattutto fra i giovani da 15 a 24 anni. E fra gli studenti. In entrambi i casi, la convinzione che il bullismo sia diffuso in gran parte delle scuole è condivisa da circa il 30% degli intervistati. Giovanissimi e studenti, d'altronde, in larga parte coincidono. E sono, per questo, il bersaglio (ma, spesso, anche gli autori principali) del fenomeno.

LE TABELLE
 Tuttavia, la diffusione del bullismo viene denunciata dai "giovani-adulti", fra 25 e 34 anni, in misura perfino più ampia: 33%. Si tratta dei "fratelli maggiori", che, presumibilmente, hanno appena concluso la loro "carriera" di studenti. E, per questo, percepiscono l'esperienza del bullismo in misura più intensa e diretta. Perché l'hanno lasciata alle spalle. Ma la diffusione del bullismo è denunciata, in misura esplicita ed estesa anche presso le generazioni successive. Soprattutto fra le persone fra 55 e 64 anni. Mentre fra gli "anziani" (oltre 65 anni) la percezione del fenomeno risulta decisamente limitata (12%). Probabilmente perché è stata metabolizzata nel tempo. Oppure perché, come si è detto, viene ritenuta inevitabile. Quasi un passaggio obbligato oltre l'adolescenza.
 
Infine, l'influenza esercitata dalla rete e dai social network sulla crescita degli atti di bullismo appare "data per scontata" da una quota maggioritaria della popolazione. Ne sembrano convinte, soprattutto, le persone più anziane, con oltre 65 anni d'età e livello di istruzione meno elevato. Le componenti sociali, dunque, che hanno meno confidenza e meno pratica rispetto ai media digitali. Così si conferma l'idea che il bullismo "spaventi" soprattutto chi ne ha notizia solo - o soprattutto - attraverso la radio e la TV.
Il "bullismo mediale", insomma, rischia di suscitare più paura di quello "digitale".

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28 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2016/11/28/news/mappe_allarme_bullismo-152982524/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_28-11-2016


Titolo: ILVO DIAMANTI - Referendum, così Renzi ha perso i giovani e il Sud
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2016, 04:31:02 pm
Referendum, così Renzi ha perso i giovani e il Sud
Dopo le dimissioni di Renzi, è venuto meno uno dei pochi elementi unificanti della politica nazionale. Il Capo del PD(R). E il "nemico", che ha permesso alle altre forze politiche di aggregarsi

Di ILVO DIAMANTI
05 dicembre 2016

Il referendum costituzionale, alla fine, si è tradotto in un referendum su Renzi.  Ma il risultato ha travolto anche il Premier, insieme alla riforma costituzionale. Perché il significato "politico" del voto è indubbio. Sottolineato, non solo dalla misura raggiunta dai No, circa il 60%, ma, anzitutto, dall'ampiezza della partecipazione elettorale. Quasi il 70%. Molto più elevata rispetto ai precedenti referendum costituzionali. Impossibile per Renzi non rassegnare le dimissioni, insieme al governo.

D'altra parte, sia l'affluenza al voto, sia il risultato del Sì riflettono quasi fedelmente ciò che era avvenuto alle elezioni europee del 2014. Il momento di maggiore affermazione per Renzi e il suo PD. Il problema è che da allora molte cose sono cambiate nel Paese ma anche a livello internazionale. La crisi, in particolare, ha generato incertezza. E ha aperto divisioni nel Paese. Non per caso si è riaperta la distanza rispetto al Mezzogiorno, l'area dove il No ha raggiunto risultati fra i più elevati. Ma anche nel Nord l'affluenza e il distacco nei confronti del referendum appaiono ampi ed estesi. Perché l'economia non funziona più come un tempo. Mentre, sul piano generazionale, è significativa la sfiducia espressa dai giovani, con il voto. Segno che oggi credono poco nel futuro di questo Paese. E per questo se ne vanno altrove, appena possono. L'analisi del risultato referendario, condotta a partire dalle elaborazioni di Demos e dell'Osservatorio elettorale del LaPolis, dell'Università di Urbino, non permette di produrre scenari politici. Che, peraltro, sono incerti. Di certo c'è solo il fatto che, dopo le dimissioni di Renzi, è venuto meno uno dei pochi elementi unificanti della politica nazionale. Il Capo del PD(R). E il "nemico", che ha permesso alle altre forze politiche di aggregarsi, in assenza di altri progetti e obiettivi unitari. Ma da domani tutto tornerà instabile. Quanto alla "riduzione" del Bicameralismo paritario e dei poteri del Senato, tutto rinviato. A data da destinarsi.

LA MAPPA DI ILVO DIAMANTI CON LE TABELLE DEMOS-LAPOLIS DOMANI SU REPUBBLICA



Titolo: ILVO DIAMANTI - La solitudine dei giovani elettori: ecco perché hanno votato No
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 14, 2016, 04:51:54 pm
La solitudine dei giovani elettori: ecco perché hanno votato No al referendum costituzionale
Il 70% tra 25 e 34 anni secondo un sondaggio Demos-Coop, ha dato un segnale di rifiuto a Renzi. Dal governo non ha ottenuto la svolta che era stata promessa

Di ILVO DIAMANTI
12 dicembre 2016

IL POST-referendum procede rapido. Dopo le dimissioni di Matteo Renzi, il premier incaricato, Paolo Gentiloni, ha già iniziato le consultazioni. E presto presenterà il programma e la compagine del nuovo esecutivo. Tuttavia, conviene valutare bene il voto referendario, prima di riprendere a governare. E a fare opposizione. Insomma, a "far politica". Perché il risultato ha, sicuramente, "punito" Renzi, che, per primo, aveva "personalizzato" questo voto. Ma è difficile individuare il vincitore. Meglio "un" vincitore. Visto che i partiti del No sono diversi. Anzi, diversissimi… per storia, progetto, identità.

Per questo, è impossibile, sulla base di questo voto, individuare una nuova e diversa maggioranza "elettorale". Conviene, invece, ragionare ancora – e di più - sul significato di questo voto. Da dove origina, che destinazione e che bersagli abbia. Oltre a Renzi. L'analisi del risultato ha già offerto alcune indicazioni chiare ed evidenti. Riguardo al "retroterra" – letteralmente – del No.

Le radici territoriali del rifiuto, infatti, affondano anzitutto e soprattutto nel Mezzogiorno. Nel Sud il No ha, infatti, superato il 70%, nelle Isole. E vi si è avvicinato altrove. In Campania e in Calabria, in particolare. Più del sentimento contrario al Pd e anti-renziano, in alcuni casi (come in Campania) difficile da sostenere, hanno pesato altre ragioni di ri-sentimento. Collegate al malessere sociale che pervade quelle aree. Sul piano economico e occupazionale. Si tratta di un'indicazione utile a valutare un'altra "frattura", che ha caratterizzato il voto referendario in modo evidente. Quella generazionale. Com'è già stato osservato, il No è stato espresso, in misura largamente superiore alla media, soprattutto dai giovani.

L'indagine dell'Osservatorio di Demos-Coop, condotta giusto alla vigilia della consultazione, lo conferma. Ma fornisce alcune ulteriori precisazioni. Importanti. In particolare, sottolinea come il dissenso verso la riforma e verso il Pd di Renzi sia meno ampio presso i giovanissimi, che hanno fra 18 e 24 anni. Mentre ha raggiunto il livello più elevato (7 su 10 No) tra i "fratelli maggiori", fra 25 e 34 anni. I "giovani adulti", come vengono spesso definiti. Per sottolineare la "difficoltà" di affrancarsi dai vincoli della giovinezza. In particolare, dalla dipendenza dalla famiglia. Sotto il profilo economico, ma anche "domestico".

Due su tre, fra loro, vivono (meglio: risiedono) ancora con i genitori. Il doppio rispetto ai coetanei francesi e tedeschi. Ricordo ancora quando, dieci anni fa, a Parigi, chiesi ai miei studenti i motivi della protesta giovanile – allora dilagante - contro la riforma sul Contrat première embauche (primo impiego), che agevolava alle aziende la possibilità di licenziare i giovani senza giustificazione, nei primi due anni. Gli studenti mi risposero, senza imbarazzo: «Non siamo italiani come lei. Quando andiamo a lavorare, poi non rientriamo. A casa e in famiglia. Andiamo a vivere – e ci manteniamo - da soli».

In realtà, anche in Italia i giovani vorrebbero diventare autonomi. Dalla famiglia. Come i coetanei di altri Paesi europei. Ma non se lo possono permettere. Perché la legislazione in materia non li aiuta. Mentre i tassi di disoccupazione giovanile non hanno pari, in Europa. Così, quando finiscono gli studi, spesso defluiscono nel mondo dei Neet. Quelli che non studiano e non lavorano. Non perché non vogliano, ma perché non trovano occupazione. Si muovono, invece, nella selva oscura dei lavori intermittenti e precari. Dove riescono a sopravvivere grazie all'appiglio familiare. Al quale ricorrono in caso di emergenza.

Cioè, spesso. Così si spiega la ragione per cui fra i giovani-adulti si osservino i picchi di incertezza nel futuro (62%), ma anche la convinzione generalizzata della necessità di "emigrare" all'estero, per fare carriera (73%). Mentre la maggioranza di essi (63%) è consapevole che difficilmente riuscirà a raggiungere – non dico a superare - la posizione sociale dei genitori. D'altronde, solo il 21% di loro pensa che esistano opportunità e possibilità adeguate.

Così, nonostante l'età, circa il 40% dei "giovani adulti" ammette di sentirsi spesso "solo". Molto più, rispetto ai genitori e ai nonni. Ma anche rispetto ai fratelli minori, che hanno meno di 25 anni. Sono "le pene del giovane adulto". Che, perlopiù, ha concluso gli studi, oppure li prosegue, per non sentirsi "disoccupato". Magari intermittente o precario. Come, inevitabilmente, avverrà. I giovani nati negli anni Ottanta. Sono divenuti "invisibili". Mimetici. In continua fuga. Alla ricerca di un lavoro. Un futuro.

Così, non è difficile comprendere le ragioni del No al giovane Renzi. Proprio perché "giovane". Perché aveva "promesso" di rottamare i vecchi e di dare più spazio ai più giovani. Ma i "giovani adulti" vivono sospesi. Non più giovani e non ancora adulti. Confusi. Perché nella nostra società, tutti, o quasi, si dicono giovani. E all'improvviso diventano vecchi. Senza mai conquistare l'età adulta. La maturità. Così "giovani adulti" si sentono vicini al M5s. E hanno votato No perché non hanno speranza. Non vedono il futuro. Ma senza speranza e senza futuro anche la famiglia diventa una prigione. Anche l'Italia. E a loro non resta che la speranza di "fuggire" dal Paese. E dalla solitudine che incombe. Tanto più quando vivono in mezzo ad altri giovani. In-sofferenti come loro. Ma senza dare loro risposta neppure l'Italia può avere un futuro. È destinata a restare un Paese "giovane adulto".

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12 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/12/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_5455560-153921732/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_12-12-2016


Titolo: ILVO DIAMANTI - Pd fermo al 30%, Grillo paga il caso Roma.
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 22, 2016, 04:42:06 pm
Pd fermo al 30%, Grillo paga il caso Roma.
Governo a bassa fiducia
Atlante politico. Sondaggio Demos: Renzi difende il suo "gradimento" dopo la sconfitta al referendum. M5s cede l'1,5%. L'esecutivo di Gentiloni al 38%, il livello minimo per uno appena insediato

Di ILVO DIAMANTI
22 dicembre 2016

Sorprende un poco, anzi, non poco (questa, almeno, la mia reazione) il sondaggio dell'Atlante Politico condotto da Demos nei giorni scorsi sugli elettori italiani. Il primo realizzato dopo il referendum, che ha bocciato la riforma costituzionale promossa dal governo e approvata in Parlamento lo scorso aprile. Un voto che ha assunto un significato politico e personale preciso. Visto che il premier, Matteo Renzi, ha tradotto la consultazione in un referendum su se stesso e sulla propria leadership di governo. Renzi, peraltro, ha tratto immediatamente le conseguenze del risultato, dimettendosi subito. (Mi) sorprende un poco, anzi, non poco, questo sondaggio, perché, dai dati delle interviste, non sembra sia cambiato molto, nell'orientamento degli elettori. Verso il governo, verso i partiti, verso lo stesso Renzi. Nonostante le grandi polemiche e le mobilitazioni che, negli ultimi mesi, hanno opposto il "fronte del Sì" e "il fronte del No", le stime di voto non mostrano cambiamenti significativi rispetto alle settimane prima del referendum. Il Pd - malgrado la "sconfitta personale" del leader - risulta stabile, primo partito, appena sopra il 30%. Seguito dal M5S, quasi 2 punti sotto. In calo di poco più di un punto. Nonostante le difficoltà e gli scandali che ostacolano il percorso della giunta romana, guidata da Virginia Raggi. Il confronto elettorale sembra ancora polarizzato nell'alternativa fra Pd e M5S.

Gli altri partiti restano a distanza. Esattamente come prima. La Lega e FI (in lieve crescita) intorno al 13%. Tutto il resto, dal 5% in giù. Il referendum, dunque, non sembra aver cambiato i rapporti di forza tra i partiti. Ma neppure la considerazione nei confronti dei leader. Se Renzi, per primo, ha ammesso la sconfitta "personale", non per questo risulta piegato, marginalizzato, presso gli elettori. Infatti, la fiducia nei suoi confronti si conferma allo stesso livello degli ultimi mesi. Anzi, sembra perfino risalita, seppure di poco. Ora ha raggiunto il 44%, appena sotto Paolo Gentiloni, il nuovo premier, che si attesta al 45%. La fiducia verso Beppe Grillo, portabandiera del No, e vincitore del referendum, risulta, invece, molto più bassa. Circa il 31%.

Tuttavia, il giudizio nei confronti del governo risulta diverso. È, infatti, apprezzato dal 38% degli elettori. Dunque, in declino di fiducia, rispetto all'ultimo mese e al precedente governo: 2 punti in meno. Poco. Ma si tratta, comunque, del grado di stima più basso ottenuto da un governo all'indomani del voto di fiducia delle Camere negli ultimi 5 anni. Mario Monti, in particolare, disponeva di un livello di fiducia quasi doppio (74%). Lo stesso governo Renzi, all'avvio, nel febbraio del 2014, era "stimato" dal 56% degli elettori.

Come spiegare questi orientamenti, in parte contrastanti? La stabilità del voto e della fiducia nei confronti di Renzi, "lo sconfitto", sostanzialmente eguale a quella verso il successore e nuovo premier, Gentiloni? E come valutare il calo, seppure limitato, della valutazione del governo?

La mia idea, da verificare con altre indagini, più approfondite, è che il referendum abbia "congelato" il clima d'opinione. Radicalizzando le posizioni dentro gli schieramenti che si sono confrontati - e scontrati - in modo sempre più aspro, negli ultimi mesi. Nell'ultimo anno. D'altronde, in caso si rivotasse per il referendum, secondo il sondaggio Demos, oggi si ripeterebbe lo stesso risultato. Ciò significa che i pentimenti e i ripensamenti restano limitati. Così, se l'83% degli elettori del M5S voterebbe di nuovo No, gli elettori del Pd farebbero l'esatto contrario. L'84% di essi, infatti, voterebbe ancora Sì. D'altronde, l'89% degli elettori del Pd continua ad esprimere fiducia nei confronti di Renzi. Mentre il consenso verso Gentiloni, nel Pd, è un poco più basso, 82%. Ma, in compenso, è più "largo" e trasversale. In particolare, supera il 70% fra gli elettori di centro. Circa il doppio rispetto a Renzi. E si avvicina al 60% nella base elettorale delle formazioni a sinistra del Pd.

Il referendum, dunque, pare aver consolidato, quasi radicalizzato, gli schieramenti. Il "renzismo" oggi appare un nuovo muro. Come, ieri, il "berlusconismo". Così, nonostante la sconfitta del Sì, sembra essersi rafforzata la fedeltà nei confronti del leader del Pd. Che oggi, più di ieri, evoca il PdR. Il Partito di Renzi. Al quale quasi tutti gli elettori del Pd si dichiarano "fedeli". Mentre Gentiloni è il nuovo premier. A capo di un governo che, secondo quasi due terzi degli elettori, non arriverà alla scadenza naturale della legislatura, nel 2018. Gentiloni: appare, ai più, il premier di transizione di un governo di transizione. In attesa che Renzi, dal suo Aventino, decida quando e come rientrare. (Mi pare difficile che resti a lungo lontano dalla politica. Che accetti il ruolo dello "sconfitto" per troppo tempo.) Questo governo, però, a differenza del precedente, non si presenta come il "governo personale" del Premier. Non è il GdG. Il Governo di Gentiloni. Ma non è detto che sia uno svantaggio. Perché la doppia personalizzazione politica del partito e del governo, alla fine, non ha portato bene a Renzi.

Nota metodologica. Il sondaggio è stato realizzato da Demos&Pi per la Repubblica. La rilevazione è stata condotta nei giorni 12-20 dicembre 2016 da Demetra con metodo mixed mode (Cati-Cami-Caw). Il campione intervistato (N=1.664, rifiuti/sostituzioni: 7.190) è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 2,4%). Documentazione completa su www.sondaggipoliticoelettorali.it.

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22 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/22/news/gradimento_politici_dopo_referendum_caso_roma-154629186/?ref=HREC1-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Gli italiani e lo Stato: giù la fiducia nei partiti, ma tra ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 08, 2017, 11:42:16 pm
Gli italiani e lo Stato: giù la fiducia nei partiti, ma tra politica e social cresce la partecipazione
Rapporto Demos: si acuisce il distacco cittadini-istituzioni mentre la campagna referendaria ha riacceso l’interesse per le questioni pubbliche

Di ILVO DIAMANTI
07 gennaio 2017

Nell'anno dell'anti-politica, mentre si acuisce il distacco dallo Stato e dai partiti, si assiste a un prepotente ritorno della politica. O meglio: della "partecipazione politica". Attraverso nuovi "media". Ma anche attraverso le forme più tradizionali. Internet e la piazza, insieme. A rinforzarsi a vicenda. Peraltro, all'indomani del referendum che ha bocciato la proposta di riformare la Costituzione, riemerge e si ripropone, ancora ampia, la domanda di riformare la Costituzione. E le istituzioni. Di emendare il bicameralismo. Di ridurre i costi della politica. Sono alcuni paradossi - apparenti - del XIX Rapporto "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica.
   
LE TABELLE

D'altronde, la campagna referendaria, per quanto aspra, ha, comunque, ri-educato gli italiani ai temi della Carta costituzionale. E ne ha concentrato l'attenzione intorno alle questioni pubbliche. Non solo, ma ha mobilitato gran parte dei cittadini. Li ha spinti al voto e, prima ancora, al dibattito. Nelle sedi politiche, ma anche nella vita quotidiana, negli ambienti privati. Sono gli effetti imprevisti di tanti mesi di confronto e divisioni. Alla fine hanno realizzato un esito unificante. Sotto altri profili, questo Rapporto riproduce un ritratto coerente con il passato.

In alto, davanti a tutto e a tutti, nella classifica dei soggetti pubblici: Papa Francesco. E le Forze dell'Ordine. Rispondono a una domanda - diffusa e radicata - di certezza etica e, d'altro canto, di sicurezza personale. Mentre le istituzioni dello Stato riscuotono la consueta diffidenza. Al tempo stesso, i cittadini sono insoddisfatti dei servizi pubblici. Provano sfiducia nei confronti delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Ma, soprattutto, verso i soggetti di rappresentanza politica. I partiti, lo stesso Parlamento. Sono, come sempre, in fondo alla classifica. Evidentemente, è in questione il fondamento della nostra democrazia, visto che i principali attori della rappresentanza, i partiti, non sono solamente sfiduciati, ma vengono ritenuti "corrotti". Quanto e più che ai tempi di Tangentopoli.

Il No al referendum costituzionale, d'altronde, ha avuto - anche - questo significato. Un No al sistema dei partiti. E ai politici che li guidano. In testa: il Premier. La sfiducia diffusa nella società, peraltro, avvolge anche la sfera delle relazioni personali, dei "rapporti con gli altri". Guardati con prudenza da gran parte dei cittadini. Chissà: ci potrebbero fregare... E poi ci sentiamo "invasi". La paura degli immigrati non è mai stata così alta.

Eppure, come sempre quando si tratta dell'Italia e degli italiani, il quadro non è mai così lineare e coerente come potrebbe apparire a prima vista. La considerazione dei servizi pubblici, anzitutto. Gli italiani non ne sono soddisfatti, come detto. Eppure pochi, anzi, pochissimi richiedono davvero "più privato". È l'atteggiamento di prudenza critica, radicato nella nostra società. La democrazia: sarà anche corrotta, ma "un uomo solo al comando" potrebbe essere più pericoloso. Per non parlare della UE e dello stesso Euro. Gli italiani ne pensano il peggio. Però pochi, pochissimi, tra loro, vorrebbero abbandonare l'Euro. E la UE. Perché, anche se non piacciono, non si sa mai... Restarne fuori potrebbe costarci parecchio.

Lo stesso discorso vale per le riforme costituzionali. Non più tardi di un mese fa largamente bocciate. Tuttavia, la necessità di emendare la Costituzione, per renderla più efficiente, è largamente condivisa. E molti che un mese fa avevano votato No, oggi si dicono d'accordo con alcuni dei punti più importanti del referendum. Il superamento del bicameralismo e, soprattutto, la riduzione dei parlamentari.

Il problema è che il referendum, nella percezione generale, assai più della Costituzione, riguardava il sistema politico e di governo. Per primo, Renzi. Oggi quel governo e quel premier non ci sono più. Mentre le riforme possono attendere. Quanto, non si sa. Sicuramente, parecchio.

In questo cielo chiaroscuro c'è una zona di luce interessante e significativa. La partecipazione. Nell'ultimo anno appare cresciuta in modo significativo. In massima misura quella "im-mediata", realizzata attraverso la rete e i social-media. Strumento di "democrazia della sorveglianza". Mentre la partecipazione sociale e il volontariato segnano il passo. Probabilmente, fra queste tendenze c'è una relazione. In quanto le nuove forme di partecipazione hanno, in parte, surrogato e, talora, rimpiazzato la partecipazione sociale e volontaria. Ma si è allargata anche la partecipazione politica "tradizionale", incentivata, nel corso degli ultimi mesi dalla mobilitazione referendaria. In ogni caso, la "critica democratica" ha allargato le basi della "partecipazione democratica". Ha spinto i cittadini a interrogarsi sui valori e sui limiti della Costituzione. Sui rischi che corriamo, nel tentativo di correggerla e ridisegnarla. Ma anche su quanto ci costa la resistenza a ogni innovazione.

Insomma, nel corso dell'ultimo anno, mi pare sia cresciuto, fra i cittadini, il senso civico e critico. Insieme alla domanda di riforme. Che potrebbe essere assecondata meglio evitando di "politicizzarla". O meglio, di piegarla a fini politici contingenti. Ma mi pare sia stato un buon anno per la nostra democrazia. Nonostante tutto. Perché si è allargata la voglia e anzitutto la pratica della partecipazione. Politica e critica. Attraverso vecchie e, soprattutto, nuove vie. La mobilitazione e l'affluenza inattesa, per dimensione, al referendum, ne sono un segnale evidente. Meglio seguirlo con attenzione.

Certo, continuiamo ad essere un popolo di riformisti scettici, animati da un rapporto con lo Stato: critico e disincantato. E da un orientamento politico polemico. Eppure attivo e partecipe. Ci sentiamo europei: nonostante tutto. Siamo italiani. Una nazione con poco Stato. Oppure troppo. Dipende dai punti di vista.

© Riproduzione riservata 07 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/07/news/a_picco_la_fiducia_nei_partiti_ma_tra_politica_e_social_cresce_la_partecipazione-155539074/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Chi cerca l'uomo forte non vuole autoritarismo ma autorità
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 03, 2017, 08:27:42 pm
Chi cerca l'uomo forte non vuole autoritarismo ma autorità
L'Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini. Un Duce. Non manifesta una richiesta di "autoritarismo". Piuttosto: di "autorità

02 febbraio 2017

Ha sollevato dibattito e qualche polemica la Mappa pubblicata, nei giorni scorsi, dove ho segnalato quanto sia diffusa, fra i cittadini, la domanda di un "Uomo Forte". D'altronde, da oltre 10 anni (per la precisione: dal 2004), i sondaggi dell'Osservatorio Demos ricostruiscono la tendenza di questo orientamento. Che è sempre apparso molto ampio. Ma, fino ad oggi, o meglio: fino a ieri (novembre 2016), non aveva mai raggiunto una misura tanto estesa: 8 italiani su 10. Otto su dieci significa, praticamente, (quasi) tutti i cittadini. Come (e forse più che) nelle precedenti occasioni, i dati del sondaggio hanno suscitato reazioni accese. Sono, infatti, stati considerati un segnale inquietante, che richiamerebbe una minaccia "autoritaria". Alcuni hanno evocato perfino Mussolini. In Italia, d'altronde, l'esperienza del ventennio non è così lontana. E pesa ancora nella memoria nazionale. Forse più della resistenza.

Eppure, come (e forse più che) nelle precedenti occasioni, occorre essere chiari. L'Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini. Un Duce. Non manifesta una richiesta di "autoritarismo". Piuttosto: di "autorità". Cioè: di una leadership dotata di legittimità. Questa domanda, nel corso degli anni, si è progressivamente "personalizzata". Indirizzata sulle persone. Perché i partiti e le associazioni di rappresentanza hanno perduto i legami con la società. Mentre le istituzioni di governo - locale, centrale, e ancor più, europee - sono apparse sempre più lontane. "Ai" e "dai" cittadini. Burocrazie anonime. Distanti e indistinte. Così, fra i cittadini è cresciuto il distacco dalla dimensione pubblica. Al "senso civico" è subentrato il "senso cinico". Mentre - per citare Bauman - si è diffusa "la solitudine del cittadino globale".

Così, la prospettiva di "un Uomo Forte al governo" è divenuta tanto "popolare". Che non significa "populista". Ma lo può diventare, se non trova risposta nei partiti. Nelle istituzioni democratiche, nelle organizzazioni di rappresentanza politica e sociale. Se i cittadini restano soli. Davanti agli schermi. E dialogano, interagiscono e reagiscono con il mondo soprattutto attraverso la rete. Mediante i PC, i tablet e, soprattutto, gli smartphone. Basta guardarsi intorno, nei luoghi pubblici, per trovarsi circondati da persone che camminano oppure stanno ferme, ma con gli occhi fissi sullo smartphone. Mentre le dita battono sui tasti. Una "folla solitaria" (per echeggiare il noto saggio di David Riesman, pubblicato nel 1950).

"Affollata" di persone che sono sempre in comunicazione con gli altri, con il mondo. Ma sono sempre sole.

Meglio non stupirsi, allora, se cresce la domanda di un Uomo Forte. "Autorevole" non "autoritario". Un "leader", non un "dittatore". Questa società è allergica ai vincoli e alle regole. Figurarsi se accetterebbe figure troppo "forti". Basta vedere che fine ha fatto Silvio Berlusconi. Le difficoltà che incontra Matteo Renzi. La "forza" del leader sta nella capacità di dare volto e voce ai cittadini. In cerca di valori, ma anche di persone in cui riconoscersi. Per non sentirsi deboli. E disorientati.

© Riproduzione riservata
02 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2017/02/02/news/chi_cerca_l_uomo_forte_non_vuole_autoritarismo_ma_autorita_-157403106/?ref=HRER2-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Sondaggio: Pd e M5s ai minimi, il 70% contro il voto-lampo
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2017, 05:48:08 pm
Sondaggio: Pd e M5s ai minimi, il 70% contro il voto-lampo
Atlante politico. Nella rilevazione Demos, conclusa mentre esplodeva il caso polizza-Raggi, l'onda favorevole ai 5Stelle subisce uno stop. Democratici sotto il 30%. In crescita Forza Italia, Lega e FdI. Si rafforza Sinistra italiana-Sel. Un fronte largo vuole una "legge omogenea" per le due Camere prima di andare alle urne

Di ILVO DIAMANTI

IL SONDAGGIO di Demos per l'Atlante Politico si è chiuso giovedì, in tarda serata. Quando le polemiche intorno a Virginia Raggi, per la polizza donata "a sua insaputa" e le nomine di collaboratori discussi (come il fratello di Raffaele Marra) erano già esplose. Ma non con il clamore che stanno assumendo ora. D'altronde, questa è una fase di instabilità e di tensioni politiche accese. Che investono non solo il M5S romano. Ma anche il Pd, nel quale leader storici della sinistra interna hanno minacciato una scissione.
 
In generale, tutte le forze politiche sono entrate in fibrillazione, dopo la decisione della Corte Costituzionale, che ha emendato l'Italicum. Dichiarando inammissibile il ballottaggio. E dopo la bocciatura della riforma costituzionale, al referendum dello scorso 4 dicembre, che ha determinato le dimissioni del(l'ex) premier Matteo Renzi. Così, siamo entrati in una fase politica fluida. Nella quale il dibattito si è spostato sulla prospettiva e sulla data delle prossime elezioni. Il sondaggio riflette questo clima incerto. Anzi (Bauman mi perdonerà), "liquido". Anche se le intenzioni di voto non appaiono in grande movimento. Mostrano, tuttavia, alcuni segnali di mutamento. Significativi. Anzitutto, l'indebolirsi, parallelo, dei due partiti che dominano la scena, ormai da anni. Il Pd, perde poco. Mezzo punto appena. Ma scivola sotto il 30%. E tocca il livello più basso degli ultimi due anni, nelle nostre rilevazioni. Il M5s, a sua volta, perde consensi. Quasi due punti, anche se, nel corso del sondaggio, il "caso Raggi" era appena emerso. Tuttavia, anche il M5s scivola sui valori più bassi, (stimati) dalla primavera del 2016. Parallelamente, risalgono i soggetti politici della Destra e del Centro-Destra. Forza Italia, la Lega e, ancor più, i Fratelli d'Italia guidati da Giorgia Meloni. Come se, come in altri Paesi, fosse in atto un processo di radicalizzazione. Anche i soggetti a sinistra del Pd, d'altronde, risalgono. Seppure in misura limitata. In attesa che l'ipotesi di "scissione", avanzata, fra gli altri, da Massimo D'Alema, divenga maggiormente concreta. Quasi 6 elettori su 10 , peraltro, pensano che il Pd finirà per dividersi. Si tratta di un'opinione cresciuta sensibilmente, negli ultimi mesi: 10 punti in più rispetto allo scorso ottobre. Ma, soprattutto, questa idea risulta condivisa, in misura pressoché identica (57%), dagli stessi elettori del Pd.

LE TABELLE
 
Tuttavia, Massimo D'Alema, autorevole sostenitore del rischio "secessionista" nel Pd, non pare aver tratto beneficio sul piano del consenso, da questa posizione. E resta in coda alla graduatoria dei leader, in base al grado di popolarità (20% di fiducia).
 
In effetti, siamo in una fase politica strana. La definirei "post-renziana", se Matteo Renzi non fosse ancora in pista. Nonostante le dimissioni. Perché è evidente che non ha alcuna intenzione di ritirarsi. Eppure qualcosa è sicuramente cambiato, dopo le sue dimissioni da premier. E dopo la bocciatura del referendum. Il primo, evidente, segno di cambiamento nel clima d'opinione è fornito dal grado di fiducia personale espresso dagli elettori. Nell'ultimo mese, infatti, Renzi è sceso di 8 punti. È il leader che ha subito il calo più sensibile. Insieme a Salvini e Grillo, che, tuttavia, hanno perduto minore credito (4-5 punti in meno). D'altronde, il ritiro - temporaneo di un leader si riflette anche sui principali "antagonisti".
 
Ripeto, si tratta di un momento politico singolare. Il post-renzismo al tempo di Renzi. Nel quale agisce un premier sicuramente vicino a Renzi. Sicuramente diverso da Renzi. Paolo Gentiloni. "Personifica" un governo "impersonale". Perché l'attuale premier non ha lo stile di azione e di comunicazione di Renzi. Né di Berlusconi. È post-renziano e post-berlusconiano. Anche se ha una lunga storia politica personale. Questo stile "impersonale", in tempo di partiti e di leader "personali", però, non sembra nuocergli. Almeno fin qui. Anche se la maggioranza degli elettori, il 53%, ritiene che il suo governo sia destinato a concludersi prima della scadenza naturale del 2018. Tuttavia, un mese fa la quota degli scettici, al proposito, era più elevata di 10 punti percentuali. La fiducia nel governo, inoltre, rispetto al momento in cui si è insediato, è salita di 5 punti. E oggi ha raggiunto il 43%. D'altronde, Gentiloni, per quanto "impopulista", oggi è il più popolare fra i leader. Dichiara di aver fiducia verso di lui il 47% degli elettori. Oltre 10 punti più di Renzi. E poi: 9 più di Giorgia Meloni. E 13-14 di più, rispetto a Di Maio, De Magistris, Pisapia e Salvini. I quali, almeno per ora, non esprimono una possibile alternativa di governo.
 
Probabilmente, lo stile "impersonale" del premier asseconda una stanchezza diffusa del Paese. Nel quale la maggioranza dei cittadini invoca l'avvento di un Uomo Forte. Ma solo perché in giro non se ne vede traccia. D'altronde, molti elettori sono stanchi di miracoli annunciati e di guerre - politiche - praticate.
 
E per quanto credano che il voto incomba, in fondo, lo temono. Perché vorrebbero affrontare le prossime elezioni con regole e soggetti che permettano di immaginare governi e parlamenti stabili. Ma nessuna alleanza, fra i principali partiti, raccoglie il consenso degli elettori. E senza alleanze - parlamentari - nessun governo appare possibile. Visto che non è immaginabile - anche in base ai risultati di questo sondaggio - che un partito, da solo, superi il 40% dei voti validi, come prevede l'attuale legge elettorale, per conquistare da solo la maggioranza dei seggi.
 
Così, 7 elettori su 10, prima di andare al voto, preferiscono attendere. Che si approvi una legge elettorale che garantisca una maggioranza comune alle due Camere. Solo nella base della Lega e del M5s la "voglia" di andare comunque al voto "subito" è più ampia. Ma non
di troppo.
 
Così, è possibile che l'era del post-renzismo al tempo di Renzi possa durare più del previsto. Più di quanto vorrebbe lo stesso Renzi. Alla finestra, ma pronto a rientrare in gioco.
 
© Riproduzione riservata 04 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/04/news/sondaggio_pd_m5s_arretrano-157529834/?ref=HREA-1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Scissione Pd, contro il PdR sta nascendo il PD'A (sic)
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2017, 11:59:21 am
Scissione Pd, contro il PdR sta nascendo il PD'A
Le mappe. Da due anni il partito si è personalizzato su Matteo Renzi. E la nuova stagione politica vede opporgli come figura più significativa Massimo D'Alema

Di ILVO DIAMANTI
20 febbraio 2017

È difficile definire - e prima ancora: comprendere - cosa sia avvenuto e stia avvenendo nel Partito democratico in questi giorni. Dopo l'assemblea del Pd che si è svolta ieri. Ma è ancora più difficile immaginare il futuro. Del Pd. Dopo la scissione che si è consumata ad opera di alcuni esponenti.

D'altronde, parafrasando Walter Veltroni, "il passato non è il futuro". Anche se, nel nostro tempo, il futuro è sempre più corto. Il futuro: è già passato. Tuttavia, Walter Veltroni conosce bene il Pd. Visto che ha contribuito a "fondarlo". Giusto dieci anni fa, nel 2007. Quando ne divenne il primo segretario. Il Pd costituì l'approdo di un percorso durato oltre un decennio. Durante il quale — per citare Arturo Parisi che ne fu un ispiratore influente — l'Ulivo dei Partiti si tradusse, progressivamente, nel Partito dell'Ulivo. L'Ulivo, com'è noto, è sorto, a metà degli anni Novanta, dall'incontro delle forze politiche di tradizione cattolica democratica con quelle laiche e di sinistra. Di tradizione, prevalentemente, socialista e (post)comunista. L'Ulivo dei partiti: si costruì intorno a Romano Prodi, nel 1996. Che governò per due anni e mezzo. Fino all'ottobre del 1998. Quando venne messo in minoranza, alla Camera, da Rifondazione comunista.

A Prodi successe Massimo D'Alema, primo presidente del Consiglio, in Italia, di "esperienza" comunista. Un passaggio importante per la nostra democrazia. Il Pci, d'altronde, aveva già cambiato nome. Da tempo. Si chiamava, infatti, Pds. Partito democratico di sinistra. E divenne, quindi, Ds. Democratici di sinistra. In seguito alla fusione con altre componenti della sinistra moderata e riformista. Il Pd riassume, dunque, tradizioni e identità diverse. Di certo, sancisce il superamento della frattura storica che aveva accompagnato la Prima Repubblica. La frattura anti-comunista. Ciò avviene, fra le altre ragioni, per l'irruzione di un nuovo attore politico. Silvio Berlusconi. Il quale erige un nuovo muro. Impiantato e fondato su se stesso. Sulla propria figura, sulla propria proposta politica. L'antiberlusconismo, così, si affianca all'anticomunismo. Lo sfida. Lo utilizza come argomento. Come fattore di consenso. E rende difficile, sempre e comunque, la legittimazione dei Ds. Che continuano ad apparire, per molti elettori ex-post-democristiani, gli eredi del Pci. E dunque: comunisti. Basta osservare le difficoltà che hanno incontrato i Ds ad affermarsi in zone e in aree tradizionalmente "bianche". Cioè: democristiane e post-dc. Come nelle province venete e pedemontane del Nord. Il Partito dell'Ulivo e, soprattutto, il Pd permettono di superare, almeno in parte, questo "vizio" originario del sistema politico italiano nella Prima Repubblica. Quando si affrontavano soggetti politici alternativi, ma senza possibilità di alternanza. Così il Pd diventa e si impone come forza di governo. La più forte, sul piano elettorale, dopo la crisi di Silvio Berlusconi. Tanto più oggi, visto che il (non)partito maggiormente in grado di "sfidarlo", in termini di consensi, è il M5S. La cui legittimazione a governare è messa in discussione. A maggior ragione oggi, dopo i primi mesi alla guida di Roma.

Tuttavia, le divisioni emerse nel Pd, nell'ultima fase, hanno riaperto la questione. Anzitutto per il cambiamento avvenuto nella natura e nell'identità del partito. Il Partito dell'Ulivo, il Pd, riassume, infatti, l'esperienza dei principali partiti di massa. Delle principali culture e tradizioni politiche. In Italia. Ma, non solo da oggi, il partito si è personalizzato. Io stesso, da un paio d'anni, l'ho (ri)definito il PdR. Partito di Renzi.

È il marchio con cui l'ha etichettato Pier Luigi Bersani nell'Assemblea nazionale. Polemicamente. Mentre nel mio linguaggio il PdR ha un significato descrittivo, non prescrittivo. Sottolinea come, in una certa misura, sia divenuto un Partito Personale (per usare la definizione di Mauro Calise). Centrato sulla persona del leader. Che gli offre immagine, riconoscimento, identità. Mentre, parallelamente, stanno sfumando le basi sociali, organizzative. I valori e le tradizioni che ne fondavano l'appartenenza.

È con questi argomenti che si sono accentuate le divisioni interne al Pd(R). Che riflettono il disagio di alcuni esponenti, che minacciano di uscire. Oppure lo stanno facendo. Soprattutto, ma non solo, di sinistra. Bersani, come si è detto, ma anche i governatori Enrico Rossi e Michele Emiliano. Oltre ai leader della "sinistra" interna. Per primo, Roberto Speranza. Inoltre, Guglielmo Epifani e Gianni Cuperlo. Mentre altri — Pippo Civati e Stefano Fassina — se ne sono già usciti. Intanto, a sinistra del Pd stanno sorgendo laboratori politici, come il "Campo Progressista" promosso da Giuliano Pisapia. Si tratta di figure ed esperienze non sempre riconducibili alla tradizione del Pci. Tuttavia, è difficile non cogliere in queste tensioni il rischio della divisione (e del "peccato") originale. D'altronde, alla presentazione romana del libro-intervista firmato da Enrico Rossi, sulla "Rinascita Socialista", c'erano molti leader dissidenti e scissionisti. Accompagnati da una coreografia eloquente. Costellata di bandiere rosse. Introdotta da

Ma la figura più significativa di questo passaggio è Massimo D'Alema. Leader Ds e Pds. Stratega accorto. Riferimento possibile anche di questa nuova stagione politica. Che al PdR potrebbe opporre il PD'A.

© Riproduzione riservata
20 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/20/news/scissione_pd_contro_il_pdr_sta_nascendo_il_pd_a-158729015/?ref=fbpr


Titolo: ILVO DIAMANTI - Scissione e scandali, il Pd perde voti e Grillo lo sorpassa.
Inserito da: Arlecchino - Marzo 05, 2017, 11:14:56 pm
Scissione e scandali, il Pd perde voti e Grillo lo sorpassa.
Bene Gentiloni Il premier è il leader più apprezzato. Cresce la domanda di stabilità.
I Democratici perdono quasi due punti in un mese, il centrosinistra si allarga ma è frammentato. Il 70% ritiene gravi i fatti emersi con l’indagine Consip

Di ILVO DIAMANTI
04 marzo 2017

Nel Pd - e intorno al Pd - è successo di tutto nelle ultime settimane. È il riflesso del voto al referendum del 4 dicembre 2016. E delle immediate dimissioni di Matteo Renzi da capo del governo. Il sondaggio dell'Atlante politico di Demos per Repubblica mostra come questi eventi abbiano prodotto conseguenze significative non solo nel Pd. Ma sugli orientamenti degli elettori. Di sinistra e nell'insieme. Il Pd, infatti, paga la scissione con oltre due punti percentuali. Si attesta poco oltre il 27% e viene superato dal M5S.

Il Movimento 5Stelle, grazie ai guai del PD riesce a contenere gli effetti dei propri. A Roma, in particolare. I "Democratici e Progressisti" - DP - sono accreditati di circa il 4% dei consensi. Abbastanza per "contare", con l'attuale legge elettorale. Proporzionale. Ma non per andare oltre il ruolo di "minoranza attiva".

Tuttavia, se consideriamo anche il Campo Progressista, appena "aperto" dall'ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e le altre componenti di Sinistra, per prima SI, diventa evidente come l'area di centro-sinistra si sia, complessivamente, allargata. Ora sfiora il 38%. Circa 3 punti in più rispetto a un mese fa. Il problema, però, è che allargamento e frammentazione, a sinistra, procedono insieme. E, anzi, si moltiplicano. Le differenze: divengono divisioni. Confini profondi.

LE TABELLE …

Anche a destra, conclusa la lunga stagione ispirata da Silvio Berlusconi, si stenta a cogliere segni di ripresa. Soprattutto, di aggregazione. Da un lato, si assiste alla crescita dei Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. Oltre il 6%. Ormai costituiscono un concorrente: per FI e, anzitutto, per la Lega di Salvini. Entrambi in calo di 2-3 punti.

Nell'insieme, emerge un quadro più frammentato del consueto. A Destra e a Sinistra. Ma, soprattutto, più difficile da ricomporre, vista la difficile coabitazione fra i principali pezzi del mosaico. Per quasi 3 anni, d'altronde, il sistema politico italiano si è raccolto e diviso intorno a Matteo Renzi. Così oggi è difficile trovare nuovi riferimenti, nuovi muri. In base ai quali "schierarsi". Basta scorrere la graduatoria delineata a partire dal grado di fiducia verso i leader. Mai tanto frastagliata come oggi. Soprattutto, ovviamente, a sinistra. Su tutti svetta la figura del Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Apprezzato da quasi un elettore su due. Non per caso. Perché, per scelta, recita la parte del comprimario. E rimane fuori dalla scena "rissosa" di questa fase. Gentiloni è seguito dagli "antagonisti". Di Maio, Salvini e Meloni. Nell'ordine. Tutti fra il 35 e il 37%. Mentre i "protagonisti" della scissione nel PD sono in fondo alla classifica. Roberto Speranza, Enrico Rossi e Massimo D'Alema galleggiano fra il 15 e il 17%. Solo Pier Luigi Bersani ottiene un consenso maggiore, intorno al 30%. Ma solo un anno fa superava il 39%.

D'altra parte, la scissione non incontra grandi consensi, dentro e fuori il PD. Salvo che a sinistra, com'era prevedibile. Gli stessi leader dell'opposizione interna, Andrea Orlando e Michele Emiliano, dispongono, a loro volta, di un grado di fiducia limitato. Circa il 25%.

Difficile affermarsi, quando il leader che ha riassunto gli orientamenti elettorali - a favore o contro, ma, comunque, "intorno" alla propria persona - ha cambiato ruolo. Posizione. Matteo Renzi. Non è più premier. Né segretario del PD. Così, in attesa di nuove elezioni politiche e delle primarie del partito, il PD appare sospeso. Perché Renzi, nel bene e nel male, resta ancora "al" centro (e "il" centro) del sentimento e del ri-sentimento politico.

Il PdR, infatti, per quanto discusso, appare un riferimento più solido e radicato, fra gli elettori, del PD'Al. Il Partito di D'Alema. Il quale non è il promotore né l'organizzatore della scissione. Ma, di certo, ne è l'ispiratore.

Anche a destra, d'altronde, i rapporti di forza non appaiono molto chiari. Berlusconi ottiene un apprezzamento personale del 30%. Non sovrasta e non divide più la politica italiana, come un tempo. Ma non soccombe. Semmai: "incombe". E Luca Zaia, governatore del Veneto, indicato dal Cavaliere alla guida del Centro-destra, incontra il favore di circa un terzo degli elettori. Non solo del Nord. D'altronde, ha un profilo politico poco "leghista". Semmai, "democristiano". Non per caso, il primo a reagire contro questa candidatura è stato proprio Matteo Salvini.

Tuttavia, in questo clima incerto, si coglie un diffuso senso di attesa. Perché il protagonista della scena resta Matteo Renzi. Dimissionario, ma solo per marcare il peso della propria assenza. E per scandire i tempi del proprio ritorno. Alla guida del partito, anzitutto, visto che - per sua stessa decisione - le Primarie del PD si svolgeranno il prossimo 30 aprile. Certo, gli incidenti di percorso imprevisti non mancano. Di recente, il padre, Tiziano Renzi, è stato indagato per "traffico di influenze". Quasi 7 elettori su 10 ritengono che si tratti di fatti "gravi". Ma, per ora, questa vicenda non pare aver condizionato la credibilità del leader del PD(R). Secondo il sondaggio di Demos, infatti, Renzi, alle prossime primarie, non sembra avere avversari.

Si spiega anche così il sentimento positivo che accompagna il premier Paolo Gentiloni. Di gran lunga il più apprezzato dei leader. Anche se appare più impegnato a sottrarsi alle occasioni del dibattito politico. Piuttosto che a parteciparvi, in prima linea. O forse proprio per questo. Perché, in mezzo a tante polemiche, a tanta incertezza, cresce la richiesta di continuità e di governo. Di continuità al governo. Così, in poco meno di due mesi, "l'aspettativa di vita" del governo guidato da Gentiloni è cresciuta. E se due mesi fa il 63% riteneva che non sarebbe arrivato a fine legislatura, oggi, la maggioranza (52%) pensa che, al contrario, durerà fino alla scadenza naturale del voto. L'anno prossimo.

Certo, viste le vicende attuali e le prossime incombenze, più che una certezza appare un auspicio. Segno di una domanda di stabilità. Molto diffusa in questo Paese instabile.

© Riproduzione riservata 04 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/04/news/pd_scissione_sondaggio-159703843/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Scende la fiducia nella Ue Europei sì, ma con disincanto.
Inserito da: Arlecchino - Marzo 26, 2017, 11:42:13 pm
Europei sì, ma con disincanto. Scende la fiducia nella UeEuropei sì, ma con disincanto.
Scende la fiducia nella Ue
Mattarella con i rappresentanti dei gruppi parlamentari europei (ansa)
"Giusto e incompiuto", così è visto il progetto sessant'anni dopo.
Ma la maggioranza considera rischioso uscire dall'Unione. Il sondaggio Demos

Di ILVO DIAMANTI
25 marzo 2017

OGGI a Roma si celebra il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Che segnano l'avvio della costruzione europea. Anche se gli accordi originari si limitavano alla Comunità economica e all'energia atomica. Mentre, in seguito, le materie si sono moltiplicate. E anche la Ue si è allargata. A Roma, però, oltre a chi celebra l'Europa, si riuniranno coloro che la contestano.

Tuttavia, il sentimento critico verso la Ue non si esprime solo attraverso le mobilitazioni nelle strade e nelle piazze romane. C'è, infatti, un'insofferenza diffusa, verso la Ue, che attraversa tutti i Paesi che ne fanno parte. Vecchi e nuovi. Non per caso, i partiti euroscettici o apertamente anti-europei hanno assunto proporzioni sempre più ampie. In particolare, in Francia, ma anche in Italia. E mirano, apertamente, a conquistare il governo. Nazionale. Questo orientamento risulta chiaro nel sondaggio dell'Osservatorio europeo sulla sicurezza condotto, nei mesi scorsi, da Demos (per la Fondazione Unipolis). La fiducia nella Ue appare, infatti, in declino, quasi dovunque. Ad eccezione dei Paesi che vi hanno aderito più di recente.

Fra quelli monitorati nel sondaggio: Polonia e Ungheria. Nei quali si osservano gli indici di fiducia più elevati, superiori al 60%. Il consenso appare maggioritario anche in Germania (55%), che costituisce il centro e il riferimento della Ue. Ma anche in Spagna, che si è affidata alla Ue per ottenere sostegno alla propria "giovane" democrazia e alla propria incerta economia. Il sentimento europeista si presenta, invece, molto più debole nel Regno Unito, dove si è consumata, di recente, la Brexit. Ma soprattutto in Francia e, da ultimo, in Italia, dove si osserva l'indice di fiducia verso la Ue più limitato: 34%. Meno di metà, rispetto a vent'anni fa. D'altronde, nel nostro Paese, dirsi europeisti è "impopolare". Fra i simpatizzanti dei maggiori partiti, solo nella base del Pd il consenso alla Ue appare maggioritario. Senza, peraltro, essere plebiscitario. Si ferma, infatti, poco sopra la maggioranza assoluta. Ma fra i sostenitori di Fi, del M5s e, soprattutto, della Lega il sentimento europeista risulta debole. Fra i leghisti: fragilissimo.

Dovunque, i dubbi riguardano non tanto il progetto, ma il percorso: il modo in cui è stato perseguito e realizzato. In Italia, Francia, Germania, Spagna, perfino in Polonia e in Ungheria: oltre 7-8 cittadini su 10 definiscono l'Unione Europea "un obiettivo giusto realizzato in modo sbagliato". Solo nel Regno Unito si osserva un orientamento più scettico. Il problema è che dovunque è cresciuta la convinzione che si tratti di una via che non porta da nessuna parte.

Infatti, tra i "soci fondatori", solo in Germania, la capitale di questa Patria incompiuta, la maggioranza dei cittadini ritiene che "il progetto della Ue sia ancora importante e vada rilanciato". Nonostante tutto. Mentre negli altri Paesi nei confronti dell'Europa prevale il senso di distacco. Soprattutto in Italia e in Francia, per non parlare del Regno Unito, dove è larga la convinzione che si tratti di un ideale ormai logorato. Oppure, semplicemente, in-credibile. Al quale guardare con scetticismo. Così, la convinzione europeista prevale in misura larga soprattutto in Ungheria e Polonia. Gli ultimi arrivati.

Forse perché il tempo non ha consumato l'entusiasmo popolare. Oppure perché l'Unione Europea costituisce ancora un appiglio importante, sul piano economico, ma anche della democrazia.

Gli orientamenti dei cittadini emersi in questo sondaggio, peraltro, spiegano bene il significato della "questione europea". Che, sessant'anni dopo l'avvio, agli occhi dei cittadini, risulta irrisolta. Un progetto giusto e incompiuto. Realizzato in modo sbagliato. L'Europa: appare, cioè, un "progetto", ma non ancora un "soggetto". Si pone, infatti, all'incrocio di diversi progetti e soggetti "nazionali".

Che si incontrano e si scontrano su basi negoziali. Mantenendo salde le identità e gli interessi "nazionali". Così, dovunque, i cittadini si dicono europei "nonostante". In altri termini, non hanno fiducia verso la Ue, ma, in maggioranza, ritengono rischioso uscirne. Non per convinzione. Ma per timore di quel che potrebbe avvenire "senza". Se, cioè, il percorso unitario si interrompesse. E ciascun Paese se ne andasse per la propria strada.

Così, a mio avviso, la minaccia alla Ue non viene dal dissenso aperto di chi manifesta, oggi, a Roma. Ma dal distacco implicito e silenzioso. Perché la protesta è un segno di riconoscimento. Seppure critico e polemico. Per questo la minaccia non viene tanto dal sentimento anti-europeo, ma dal disincant-europeo.

© Riproduzione riservata 25 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/25/news/europei_si_ma_con_disincanto_scende_la_fiducia_nella_ue-161340683/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: ILVO DIAMANTI - M5s, né destra né sinistra: il partito "pigliatutti" che punta
Inserito da: Arlecchino - Aprile 11, 2017, 06:20:10 pm
M5s, né destra né sinistra: il partito "pigliatutti" che punta ai delusi della politica

Le mappe.
È difficile isolare priorità specifiche del programma Cinquestelle, ma si tratta di una scelta strategica.
Grillo e Casaleggio devono fare i conti con un elettorato molto differenziato, sia socialmente che politicamente. Come in passato la vecchia Dc

Di ILVO DIAMANTI
10 aprile 2017

Nei giorni scorsi il M5S si è recato a Ivrea. A celebrare Gianroberto Casaleggio, un anno dopo la sua morte. Ma anche, indubbiamente, a celebrare se stesso. Il MoVimento. Infatti, in questa fase politica fluida, il M5S si muove a proprio agio. D'altronde, si definisce un non-partito. Simbolo della non-politica di questo (non)Paese.

Casaleggio, d'altronde, è stato figura significativa della non-politica italiana e del non-partito che ne è divenuto il riferimento. Co-fondatore del M5s, ne interpreta l'anima digitale. Ma anche il modello "personale" ed "ereditario". A presiedere l'evento, infatti, era il figlio, Davide, che ne ha preso il posto. Non solo in azienda, ma anche nel M5s. Accanto a Grillo. D'altra parte, la personalizzazione, contestuale alla mediatizzazione, è divenuta regola dominante della politica. Osservata da tutti i partiti – o sedicenti tali. Tanto più dopo l'irruzione della rete. Ivrea è stata scelta perché da lì è partita la "carriera" professionale – e quindi politica – di Casaleggio. Alla Olivetti. Più di un'azienda: un modello di ricerca applicata all'economia e alla società. "Insediato" sul territorio. Si pensi all'Istao, un centro studi e formazione, alle porte di Ancona, intitolato ad Adriano Olivetti. Importante anche per chi si occupa di politica e di amministrazione. A Ivrea, non per caso, era presente anche Chiara Appendino. Sindaca 5s di Torino. Eletta lo scorso giugno. Bocconiana. Così Ivrea, per il M5s, costituisce un luogo "esemplare". Adeguato, peraltro, a rappresentare il suo "bacino elettorale", che non pare risentire delle polemiche sollevate da recenti episodi. Da ultimo: la bocciatura di Marika Cassimatis, la candidata vincitrice delle Comunarie online a Genova, esclusa da Beppe Grillo. Nonostante tutto, Il M5s non perde colpi e i sondaggi lo indicano davanti a tutti, o, comunque, accanto al PD, per consensi elettorali. Ivrea, come ho detto, raffigura efficacemente l'identità sociale del M5s. Il soggetto politico più rappresentativo – e attraente – presso gli imprenditori, i lavoratori autonomi e presso i tecnici del privato. Peraltro, raccoglie consensi ampi e superiori alla media anche in altri settori. Fra gli operai, gli impiegati pubblici. E tra gli studenti. Anche perché è il (non)partito di gran lunga preferito fra i giovani (sotto i 30 anni). E fra gli adulti-giovani (30-44 anni).

LE TABELLE

In definitiva, è un "partito pigliatutti", che batte sul tasto dell'innovazione e del futuro, per caratterizzare il marchio della sua offerta politica sul piano generazionale.

Peraltro, è difficile isolare le priorità specifiche del suo programma. Non per caso Davide Casaleggio, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo, venerdì sera, ha evitato accuratamente di fornire riferimenti e contenuti precisi, riguardo alle scelte del M5s, nella prossima fase. Preferendo, al proposito, sottolineare la propria in-competenza. In quanto ad altri spetterebbe questo compito. Allo stesso tempo, ha rifiutato di dire per quale partito, o meglio, quali partiti avesse votato in passato. Non per timidezza e neppure per ambiguità. Ma per opportunità. Per strategia. Non diversamente da Grillo, il quale, all'opposto, ha espresso posizioni diverse e talora divergenti, su temi e materie sensibili. Per prime: l'immigrazione, l'euro e l'Europa. Il fatto è che entrambi, Grillo e, dunque, Casaleggio, debbono fare i conti con un elettorato molto differenziato. Sotto il profilo sociale, ma anche della posizione politica. Solo la Dc, nella Prima Repubblica, mostrava un elettorato altrettanto spalmato, da destra verso sinistra. E, per questo, ancorato al centro. Così, la base del M5s oggi si divide e si colloca, politicamente: intorno al centro e fuori dallo spazio politico.

Infatti, il 45% dei suoi elettori si dichiara "esterno" ed "estraneo" alla distinzione fra destra e sinistra. Mentre gli altri si distribuiscono, senza troppi squilibri, nello spazio politico. E gravitano, dunque, "mediamente" al centro. Così si spiega la reticenza dei leader del M5s a "esporsi", esprimendo posizioni apertamente schierate. Perché al M5s si dice vicino circa uno su 4 fra gli elettori della Lega, di FI, della Destra-FdI e, sul versante opposto, di Sinistra Italiana. Ma suscita interesse, per quanto in misura minore, anche fra gli elettori del PD e dei Centristi. Perché "deluderli"? Perché scoraggiare la tentazione, da parte loro, di votare proprio per il M5s, nel caso, più che possibile, prevalesse la delusione verso il proprio partito di riferimento? Verso la politica?

LO SCENARIO - Metodo 'quirinarie' per Palazzo Chigi: gli anti-Di Maio puntano su Casaleggio jr

D'altronde, se osserviamo lo spazio politico, le "tensioni" fra i partiti che si posizionano intorno e vicino al M5s appaiono evidenti. Soprattutto nel Centro-sinistra. Dove gli elettori del PD e gli scissionisti del MDP-Articolo 1, guidati da D'Alema e Bersani, condividono, lo stesso, identico punto dello spazio politico. E ciò conferma il sospetto che le differenze e le divergenze che hanno prodotto la scissione abbiano ragioni non tanto "politiche". Ma, piuttosto e soprattutto, "personali". Dettate da rivalità e incompatibilità ricorrenti e di lunga data. Non per caso, proprio Renzi, a Bari, ha lamentato che "da noi non può funzionare se il primo che ti accoltella è il tuo compagno di partito".

Così, non può sorprendere la capacità competitiva, sul mercato politico, del M5s. Il non-partito "centrale" (senza essere "centrista", per echeggiare Emmanuel Macron) di uno spazio politico "senza stelle". Dove si agitano post-partiti divisi. Oppure cresciuti all'ombra del Capo. E oggi logorati dal declino del Capo e dalla competizione fra capi non altrettanto autorevoli.

© Riproduzione riservata 10 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/04/10/news/m5s_ne_destra_ne_sinistra_il_partito_pigliatutti_che_punta_ai_delusi_della_politica-162607510/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ri-leggere Eddy. Sette anni dopo
Inserito da: Arlecchino - Aprile 22, 2017, 12:20:19 am
Ri-leggere Eddy. Sette anni dopo

Di ILVO DIAMANTI
17 aprile 2017

Sette anni dopo, il dubbio che mi dis-turba è che Eddy non gradirebbe. Di essere commemorato. In modo quasi rituale. Lui, così ir-rituale, contro-intuitivo e ironico. Nel linguaggio e, prima ancora, nello sguardo.

Temo che non approverebbe di essere commemorato così, regolarmente, quasi di routine. Eppure la memoria è non solo utile, ma necessaria. Serve a vivere. A guardare oltre. La memoria. Serve a scrivere e a riscrivere la nostra biografia. E io coltivo la memoria di Eddy per egoismo. Perché mi aiuta. A osservare il mondo intorno a me. Io, peraltro, non ho mai smesso di utilizzare le sue categorie, le sue definizioni. E, anzitutto, il suo modo ibrido di affrontare i problemi. Di "dirli". Passando dalla filosofia, alla politica, dal calcio alle canzoni. Senza soluzione di continuità.

Citare Berselli, ha scritto di recente Riccardo Bocca, sull'Espresso, è un esercizio d'obbligo per decodificare la politica e il flusso inesauribile degli stili di vita. D'altronde, viviamo tempi ibridi, nei quali tutto scorre davanti a noi, intorno a noi. La politica, la filosofia, le canzoni: si susseguono. Senza soluzione di continuità. Come uno spettacolo, nel quale ciascuno di noi recita diversi ruoli, diverse parti. Senza soluzione di continuità. Il digitale ha, poi, aggiunto la possibilità di comunicare sempre, dovunque, comunque. Con chiunque. Senza soluzione di continuità. Anche se, forse, più che di possibilità si tratta di illusione. Perché nell'era digitale noi siamo sempre connessi. E sempre soli.

Tuttavia, Berselli ha colto, come pochi altri, segni e passaggi significativi, nella loro apparente ir-rilevanza. Negli anni Sessanta, ad esempio, (in "Adulti con riserva", pubblicato da Mondadori nel 2007) racconta che, ascoltando una trasmissione radiofonica pomeridiana, capì "che la storia aveva subìto un'accelerazione". Si trattava di "Bandiera Gialla", programma musicale di Gianni Boncompagni, "con la complicità di Renzo Arbore. Severamente vietato ai maggiori di anni diciotto". Gianni Boncompagni se n'è andato anche lui. Berselli ne aveva seguito, con cura, le tracce. Alla ricerca dei cambiamenti etici, estetici e an-estetici che attraversavano il Paese.

Segnalati, per esempio, da "Non è la Rai", programma cult che, negli anni Ottanta, annunciò "la dissacrazione televisiva sulle reti Fininvest". Così, continuo a parlare con Eddy, a leggere e rileggere i suoi testi. Anche se venire ritualizzato non gli piacerebbe. Lui, "venerato maestro". Suo malgrado. Ma, caparbiamente "bianconero", senza esitazioni. Come me.

Berselli. Post-italiano. In attesa di diventare europeo. Io continuo a (re)citarlo, perché pochi, al pari di lui, sono stati capaci di pre-dire il destino dei soggetti politici. In particolare, quelli che guardava con maggiore attenzione. E passione. Come quando, dopo il voto del 13-14 aprile 2008, sulla rivista "Il Mulino", definì il PD un "partito ipotetico". In difficoltà a scegliere un percorso preciso fra "Partito mediatico, partito liquido, partito volatile; oppure partito solido e radicato nel territorio".

Un'alternativa ancora irrisolta, che riproduce e moltiplica la sua incertezza sul popolo dei "sinistrati", sempre in bilico fra la "nostalgia di rivoluzioni impossibili" e l'idea, fin troppo razionale, di "riforme possibili". I "sinistrati". Contaminati dal "gene altruista". Predisposti alla sconfitta. Anche perché incapaci di rassegnarsi a governare a lungo, senza dividersi, senza lacerazioni. Per questo continuo e continuerò a "commemorare" Eddy. Perché parlare con lui mi serve. A dare risposte a problemi mai risolti. Anche se rischio, ogni anno, di concludere la mia memoria berselliana allo stesso modo. Con le stesse parole. Chiedendomi, di fronte alle vicende e alle figure che affollano il nostro mondo, il mondo intorno a noi: "Che cosa avrebbe scritto Eddy?".

© Riproduzione riservata 17 aprile 2017

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2017/04/17/news/ri-leggere_eddy_sette_anni_dopo-163187375/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P3-S1.4-T1


Titolo: ILVO DIAMANTI Italia senza certezze: sorpasso Pd sul M5s, ma la crisi della ...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 16, 2017, 01:55:57 pm
Italia senza certezze: sorpasso Pd sul M5s, ma la crisi della politica genera sfiducia
Il sondaggio. Risale anche il centrodestra unito. Ma nessun polo supererebbe oggi il 40 per cento.
La confusione tra i partiti provoca il caos anche sulle questioni legate al quotidiano.
Lo dimostra il parere della gente su legittima difesa e Ong

Di ILVO DIAMANTI
13 maggio 2017

Alcuni importanti eventi hanno segnato la politica in Italia, negli ultimi mesi. In particolare, le primarie del Pd, (stra)vinte da Matteo Renzi. Il quale, dopo la bocciatura del referendum costituzionale, si è ripreso il partito. Quanto al governo, si vedrà. Il sondaggio di Demos per l'Atlante Politico pubblicato da Repubblica sengala, comunque, alcuni mutamenti significativi nel clima d'opinione.

Anzitutto, negli orientamenti di voto. Secondo le stime di Demos, infatti, il Pd ha nuovamente superato il M5s. Di poco. Un punto solamente. Sufficiente, però, a cambiare le gerarchie elettorali fra i due soggetti politici principali, dopo il declino di Silvio Berlusconi e del suo partito. I quali, tuttavia, resistono. Forza Italia, infatti, è stimata oltre il 13% e la Lega di Salvini le è vicina. Così si ripropone una triangolazione, per alcuni versi, simile a quella emersa dalle elezioni politiche del 2013. Quando Pd, M5S e Forza Italia - insieme alla Lega - avevano conquistato una quota di elettori molto simile. Intorno al 25%. Naturalmente, molto è cambiato da allora. Anzitutto, gli equilibri tra Fi e Lega. Nel 2013 la Lega, guidata da Roberto Maroni, superava di poco il 4%, mentre il Pdl intercettava quasi il 22%. Poi, ovviamente, è cambiato il volto del Pd. Proposto, allora, da Bersani, oggi da Renzi. Mentre il M5s ha ancora il profilo di Grillo. Ma ha consolidato la sua presenza nel Paese. Visto che, nel frattempo, ha conquistato, fra l'altro, il governo di Roma e Torino. Due Capitali (anche se in senso diverso). Questo scenario è confermato dalle stime di voto degli altri partiti. A destra di Fi, come a sinistra del Pd, si osserva un complessivo arretramento. I soggetti politici di Centro, infine, occupano uno spazio quasi residuale. Schiacciati dai tre "poli" maggiori. Che, nel sondaggio, intercettano oltre l'80% dei voti. Questo assetto, però, appare tutt'altro che strutturato. Soprattutto a Centro-destra, dove l'asse tra Fi e Lega è messo in discussione. Dalla Lega di Salvini.

LE TABELLE

È, tuttavia, chiaro che, se queste stime venissero, almeno, "approssimate", in caso di elezioni, nessuna maggioranza sarebbe possibile. Perché nessun Polo o Partito riuscirebbe a superare la soglia del 40%, necessaria a conquistare la maggioranza dei seggi. Occorrerebbe, dunque, formare coalizioni più "larghe". Fra soggetti di famiglie politiche diverse e perfino contrastanti. Ma l'operazione appare difficile. Gli elettori del Pd, infatti, non sembrano gradire un'alleanza con Fi, ancor meno con il M5s. Mentre appare maggiore (ma complicata) l'attrazione reciproca tra M5s, Lega e Fdi. Per ora, comunque, la prospettiva del voto anticipato interessa una minoranza di elettori (43%). Più ampia nella Lega, nei Fdi e, soprattutto, nel M5s. Ma la maggioranza assoluta degli intervistati auspica che l'attuale governo duri fino a fine legislatura. Prevista l'anno prossimo. Il governo Gentiloni, d'altronde, mantiene un buon livello di gradimento. Intorno al 40%. Come due mesi fa. Insomma, non entusiasma, ma, in tempi come questi, è difficile sollevare passioni, in politica.

La fiducia verso il premier, Paolo Gentiloni, per quanto in calo di qualche punto, resta elevata: 44%. La più elevata fra i leader testati. Matteo Renzi, dopo le Primarie, ha ripreso quota: 39%, 6 punti in più rispetto a due mesi fa. È affiancato da Giorgia Meloni. Molto più apprezzata del proprio partito. Salvini, Di Maio e Pisapia si attestano fra il 32 e il 35%. Gli altri, più sotto. In fondo, con meno del 20%, troviamo Roberto Speranza e Massimo D'Alema. La scissione dal Pd non pare aver giovato loro, sul piano del consenso personale.

Attraversiamo, dunque, una fase instabile. Mentre diverse questioni agitano il dibattito pubblico. Ne segnaliamo alcune.

Anzitutto, l'uso delle armi per legittima difesa, definito dalla legge appena approvata alla Camera. In particolare, a proposito della possibilità di usare un'arma di notte "nel proprio domicilio". Tuttavia, la maggioranza delle persone ritiene che, in casa nostra, "sparare" all'aggressore sia sempre legittimo. Lo pensano, soprattutto, gli elettori di Centro-destra, ma anche del M5s. Lo dimostra la legittima difesa. Mentre la base del Pd si divide in modo quasi eguale. E solo più a "Sinistra" si vorrebbe limitare al massimo la possibilità di "sparare" in casa propria.

C'è poi la questione dei vaccini, intorno alla quale non c'è proprio discussione, visto che oltre 9 persone su 10 li ritengono indispensabili a garantire la salute dei bambini. Senza se e senza ma.

Infine: le Ong. Le Organizzazioni di Volontariato Internazionale Non Governative. Al centro di numerose polemiche, in seguito alle recenti affermazioni del procuratore di Catania, secondo il quale "alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti". Al fine di "destabilizzare l'economia italiana per trarne dei vantaggi". Senza entrare nel merito, queste parole sembrano aver indebolito la credibilità delle Ong, che ottengono un grado di fiducia (42%) molto inferiore rispetto alle "Associazioni di volontariato", tout-court (63%). Quasi a sottolineare come, per la maggioranza degli italiani, le Ong non siano "associazioni di volontari". Ma, appunto, qualcosa di diverso. E oscuro.

Il dibattito politico, quindi, incrocia e confonde questioni tanto più critiche quanto più riguardano la nostra vita quotidiana. Anche perché non sono chiari i riferimenti politici generali. Intanto, la scadenza del voto si avvicina. Non è chiaro, però, quando sarà. Fra un anno? Prima? È la cronaca di un Paese incerto. Dove l'incertezza politica logora la fiducia della società, nelle istituzioni. E, ovviamente, nell'economia. Ma al ceto politico non sembra interessare troppo.

© Riproduzione riservata 13 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/13/news/italia_senza_certezze_sorpasso_pd_sul_m5s_ma_la_crisi_della_politica_genera_sfiducia-165308855/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Dall'Ulivo al PdR, il volto e le radici
Inserito da: Arlecchino - Maggio 19, 2017, 02:11:36 pm

Dall'Ulivo al PdR, il volto e le radici
Mappe. Le prossime elezioni locali e il referendum d'autunno ci diranno cos'è oggi il Pd

Di ILVO DIAMANTI
25 aprile 2016
   
SONO passati vent'anni dal 21 aprile 1996. Quando l'Ulivo, guidato da Romano Prodi, vinse le elezioni. Di fronte alla coalizione di Centro-destra costruita da - e intorno a - Silvio Berlusconi. Il Polo per le Libertà. Anche l'Ulivo, d'altronde, era una coalizione. Aggregava i post-comunisti del Pds, i post-democristiani (di sinistra) del Ppi, insieme alle forze della sinistra socialista, riformista. Cattolico-sociale ed ecologista.

Dopo la vittoria elettorale, l'Ulivo di Prodi governò poco più di due anni. Nell'ottobre del 1998, infatti, il governo venne sfiduciato da alcuni parlamentari della sinistra neo-comunista. Ma proseguì, sotto la guida di Massimo D'Alema. Fin dalle origini, dunque, emergono i limiti di questo nuovo soggetto politico, che riunisce le tradizioni e le componenti del centrosinistra. Anzitutto: la difficile coesistenza fra tradizioni politiche e sociali diverse. Tra centro e sinistra. In particolare: fra post-democristiani e post- comunisti. In secondo luogo: il conflitto fra leader. Meglio, l'assenza di una leadership condivisa. O, comunque, dominante. Così, dal 1996, il Centro-sinistra inizia un faticoso cammino. Alla ricerca del Centrosinistra- senza-trattino. I suoi soci fondatori, a loro volta, hanno cambiato nome e ragione sociale. Per limitarci a soggetti principali: da Pds a Ds, da Ppi alla Margherita, passando per i Democratici. Mentre, fra il 2005 e il 2007, l'Ulivo si è trasferito sotto le bandiere dell'Unione. Dunque, "coalizione". E questa resta la discriminante nel concepire il Centrosinistra. Con o senza trattino. Cioè: come coalizione oppure soggetto unitario. Una novità importante, anzi, essenziale, sotto questo profilo, è l'introduzione delle Primarie. Come metodo di scelta dei candidati. E dei dirigenti. Ciò avviene nel 2005, in occasione delle elezioni regionali. Quindi, in vista delle elezioni politiche del 2006. Che riporteranno Romano Prodi alla guida del Centrosinistra e del governo.

Ispiratore del progetto, accanto a Romano Prodi, è Arturo Parisi. Che vede nelle primarie non solo un metodo di selezione del gruppo dirigente e dei leader. Ma un marchio, un elemento di distinzione politica. Per usare le sue stesse parole: il "mito fondativo" del Partito dell'Ulivo, in alternativa all'Ulivo dei partiti. Un progetto che, nel 2007, sfocia nel Partito Democratico. Echeggia, non per caso, l'esperienza americana, di una democrazia maggioritaria, bipolare e tendenzialmente bipartitica. Personalizzata. In fondo: presidenziale. Tuttavia, il Partito Democratico non dissolve le divisioni da cui sorge. E a cui vorrebbe - dovrebbe - dare risposta. La distanza, nel Centrosinistra, fra tradizione comunista e democristiana, in particolare, rimane evidente. E si riproduce nella geografia elettorale del Paese. Come emerge chiaramente alle elezioni del 2008, quando il Centrosinistra si presenta unito nel Pd, guidato da Walter Veltroni. E viene sconfitto nettamente da Silvio Berlusconi. Anche perché non riesce a liberarsi dei vincoli territoriali del passato. Il Pd, infatti, risulta tanto più forte dove, nei primi anni Cinquanta, lo era già la Sinistra comunista. E, dunque, appare tanto più debole dove, invece, era più forte, sul piano elettorale, la Democrazia Cristiana. Così, quasi sessant'anni dopo, il Pd fatica ad affermarsi nel Nord e, in particolare, nel Lombardo-Veneto, presidiato dal Forza-Leghismo.

D'altro canto, dentro al Pd si riproducono tensioni "personali" che complicano l'affermarsi di "un" leader. Il passaggio dall'Ulivo all'Unione, fino al Partito Democratico, non risolve le difficoltà del Centrosinistra-senza-trattino. E il Pd resta un progetto e un soggetto incompiuto. Almeno, fino all'"irruzione" di Matteo Renzi. Il quale è favorito, anzitutto, dal declino di Berlusconi. Che apre un vuoto in-colmabile in un Centrodestra creato a sua immagine. Renzi è, per storia personale, un post-democristiano. Cresciuto nell'Ulivo di Prodi. Nella Toscana Rossa. Si afferma attraverso le Primarie. Dopo aver perduto, dapprima, "contro" Bersani. Cioè: contro l'eredità post-comunista. Nel Pd diventa, così, segretario "contro" il passato. Contro D'Alema e Rosy Bindi. Cioè: contro la tradizione post-comunista e post-democristiana. Così, alle elezioni europee del 2014, per la prima volta, il "suo" Pd supera e scavalca gli antichi confini. E vince dovunque. Ben oltre le regioni rosse. Espugna, infatti, le province del Nordest e della Lombardia. Bianche e anticomuniste. Da sempre. D'altronde, l'antica frattura ideologica è stata rimpiazzata, negli ultimi anni, da una nuova frattura. All'anti-comunismo si è sostituita l'antipolitica. Interpretata da Grillo e dal M5s. Che, per questo, non hanno una geografia specifica. Perché l'antipolitica, l'opposizione alla politica e ai politici "tradizionali" sono trasversali. Da destra a sinistra, da Nord a Sud, passando per il Centro. Renzi è abile a interpretare entrambe le fratture. Quella ideologica ma anche quella anti-politica. Lui, il "rottamatore", non ha vincoli né appartenenze. Inoltre - e soprattutto - fa del Pd un "partito del leader". Centralizzato e personalizzato. Il PdR. Il Partito Democratico di Renzi. Che tende ad evolvere nel PdR, il Partito di Renzi. Soprattutto se il referendum costituzionale di ottobre, trasformato in un referendum personale pro o contro di lui, si traducesse una investitura personale.

Così, vent'anni dopo l'avvento dell'Ulivo, il Centrosinistra sembra approdato a un Partito del Leader, a-ideologico e a-territoriale. Maggioritario, referendario e, tendenzialmente, presidenziale. Resta da vedere quanto sia stabile, questo approdo. Quanto possa resistere al ritorno dei personalismi e delle tradizioni - ben espresse dall'opposizione della Sinistra interna. Quanto possa proseguire senza il sostegno della storia e del territorio. Dell'organizzazione e della società. Quanto e se il PdR si possa affermare, senza il contributo del Pd, com'è avvenuto alle Europee. Non ci vorrà molto a verificarlo. Basterà attendere qualche mese. Le prossime amministrative e il referendum d'autunno ci diranno se davvero l'Ulivo sia divenuto un albero senza radici. Un volto senza storia. O se la sua storia possa continuare, con volti e nomi diversi.
 
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25 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/25/news/dall_ulivo_al_pdr_il_volto_e_le_radici-138394413/


Titolo: RILVO DIAMANTI -
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2017, 08:51:44 pm
Le amministrative, il primo vero test politico
Le mappe. Comunque vada dal voto ci saranno effetti determinanti sul piano nazionale: potrebbero segnare il tramonto della 'stagione dei sindaci' e dei 'partiti personali'

Di ILVO DIAMANTI
29 maggio 2017

IN ITALIA tutte le elezioni hanno significato "politico nazionale". Le consultazioni amministrative del mese prossimo non fanno eccezione. Anzi. D'altra parte, si voterà in oltre 1000 Comuni, distribuiti in tutto il Paese. Tra questi, 4 capoluoghi di Regione (Catanzaro, Genova, L'Aquila e Palermo) e 25 Capoluoghi di Provincia. Ancora: 8 città al voto hanno più di 100mila abitanti e 153 più di 15mila.

Per questo si tratta di un test "politico" importante. Il più importante, dopo il referendum costituzionale dello scorso dicembre. Ed è probabile che l'esito stesso dell'imminente voto amministrativo contribuisca ad assecondare oppure a scoraggiare la tentazione di chiudere anzitempo la legislatura.

Le elezioni "comunali", d'altronde, hanno assunto un ruolo "politico" particolare, fin dai primi anni Novanta. Quando permisero di sperimentare nuovi modelli istituzionali, di fronte alla crisi della Prima Repubblica. L'elezione diretta dei sindaci, nel 1993, divenne, infatti, il metodo per rispondere alla crisi dei partiti e della classe politica, in mezzo al terremoto di Tangentopoli. I sindaci divennero, allora, gli interpreti delle istituzioni. Per dare un volto a una democrazia "impersonale", lontana dalla società.

Dal 1993 in poi, non a caso, l'elezione diretta è stata estesa in ogni direzione. In particolare, ai Presidenti delle Regioni. In seguito, anche ai leader dei partiti, attraverso le primarie. Infine, agli stessi Capi di governo, "indirettamente eletti in modo diretto", vista la tendenza a indicare sulle schede elettorali il nome dei leader delle coalizioni. In questo modo, la politica si è "personalizzata".

Spinta dai media e, in particolare, dalla televisione, che hanno progressivamente riempito il vuoto lasciato nella società e sul territorio dal declino dei partiti di massa. Difficile dimenticare la generazione dei sindaci eletti direttamente in quella fase. In tutte le latitudini del Paese. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Basti pensare, fra gli altri, ad Antonio Bassolino, Francesco Rutelli, Riccardo Illy, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Enzo Bianco. Così, i sindaci si sono imposti come soggetti di democrazia - e di rappresentanza - diretta. In soccorso al logoramento della democrazia rappresentativa. Anche per questo, in seguito, alcuni di essi sono divenuti leader "nazionali". Talora: capi del governo. Si pensi (ancora) a Rutelli, Veltroni. Allo stesso Renzi.

Infine, le elezioni comunali hanno favorito l'affermazione di nuovi soggetti politici. Da ultimo, ma non certo per importanza, il M5s. Proprio 5 anni fa. Nel 2012. Quando Federico Pizzarotti conquistò Parma. E offrì al M5s non solo visibilità, ma fondamento. Perché fornì la prova che il M5s non era solo una rete di movimenti e di associazioni. Ma un "partito". Magari, un "non-partito". In grado di conquistare il governo. Delle città, dapprima. Poi, si vedrà... Le ambizioni di governo del M5s, peraltro, sono state amplificate alle amministrative dell'anno scorso. Per questo il voto di giugno sollecita tanta attenzione. Perché, comunque vada, determinerà effetti rilevanti. Non solo nelle città coinvolte. Ma sul piano nazionale. Sul consenso dei leader di partito e di governo. Sulle alleanze attuali e potenziali.

I sondaggi condotti da Demos per Repubblica e pubblicati nei giorni scorsi sono, dunque, interessanti. Anche se mancano due settimane dal primo turno e un mese dall'eventuale ballottaggio. La realtà potrebbe rivelarsi diversa, com'è già avvenuto in passato. Perché, senza considerare i limiti del metodo adottato, la campagna elettorale è tuttora in corso. Molti elettori (oltre 2 su 10) devono ancora decidere. E l'esito del primo turno può cambiare profondamente il clima d'opinione. Com'è avvenuto l'anno scorso, quando ha, certamente, "lanciato" i candidati del M5s. A Roma, ma soprattutto a Torino.

Il sondaggio di Parma, comunque, suggerisce come Pizzarotti oggi disponga di una notevole legittimazione personale. Se 5 anni fa era il portabandiera della sfida del M5s al sistema, oggi appare protagonista della sfida del sistema al M5s. Un "non-partito" che, tuttavia, ha assunto alcuni vizi dei partiti contro i quali è nato e dichiara di combattere. Anzitutto, la centralizzazione. Meglio: la "personalizzazione centralizzata". È, infatti, significativo come al possibile successo di Pizzarotti, a capo di una lista "personale", corrisponda l'insuccesso (possibile) del candidato e della lista del M5s.

Anche a Genova, dove la storia di Grillo ha "radici" profonde, il candidato del M5s, Luca Pirondini, è minacciato dalla concorrenza, per quanto limitata, espressa dalle liste presentate da due fuoriusciti. Fra loro: Marika Cassimatis, bocciata da Grillo, dopo essersi affermata alle Comunarie. Ma Genova appare un caso esemplare dell'equilibrio instabile che oggi caratterizza l'Italia.

La conferma viene da Palermo. Un osservatorio particolarmente significativo della personalizzazione, in ambito urbano e nazionale. Leoluca Orlando, infatti, è "nato", politicamente, a Palermo. Negli anni Ottanta. Prima della stagione dei sindaci. Che ha, peraltro, interpretato, nel decennio successivo. Quando, tuttavia, ha svolto un ruolo significativo anche in ambito nazionale. In partiti-movimenti apertamente critici verso il sistema. Dalla Rete all'Italia dei Valori. Orlando: non ha mai rinunciato alla parte del Capo popolar- populista, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è utile ad allargare i consensi. Proprio per questo, attrae e divide. Potrebbe passare subito, al primo turno. Ma, in caso di ballottaggio, rischia di subire l'aggregarsi del "voto contro".

Naturalmente, molte altre e diverse sono le ragioni di interesse offerte dalle prossime amministrative. Ci sarà tempo per valutarne il significato. Per ora, mi limito a osservare che si tratterà, a mio avviso, di "elezioni critiche". Perché potrebbero segnare il tramonto della stagione dei sindaci.

E, insieme, dei "partiti personali", che ne sono gli eredi.

Ma anche dei "non-partiti", poco credibili di fronte alla prospettiva di governo, anche in ambito locale. E indeboliti dalla debolezza degli "antagonisti": i partiti. Personali e impersonali. L'Italia dei Comuni, insomma, non si rassegna alla politica della non-politica.

© Riproduzione riservata 29 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/29/news/le_amministrative_il_primo_vero_test_politico-166687417/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L


Titolo: ILVO DIAMANTI - Le amministrative, il primo vero test politico
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2017, 08:52:21 pm
Le amministrative, il primo vero test politico
Le mappe. Comunque vada dal voto ci saranno effetti determinanti sul piano nazionale: potrebbero segnare il tramonto della 'stagione dei sindaci' e dei 'partiti personali'

Di ILVO DIAMANTI
29 maggio 2017

IN ITALIA tutte le elezioni hanno significato "politico nazionale". Le consultazioni amministrative del mese prossimo non fanno eccezione. Anzi. D'altra parte, si voterà in oltre 1000 Comuni, distribuiti in tutto il Paese. Tra questi, 4 capoluoghi di Regione (Catanzaro, Genova, L'Aquila e Palermo) e 25 Capoluoghi di Provincia. Ancora: 8 città al voto hanno più di 100mila abitanti e 153 più di 15mila.

Per questo si tratta di un test "politico" importante. Il più importante, dopo il referendum costituzionale dello scorso dicembre. Ed è probabile che l'esito stesso dell'imminente voto amministrativo contribuisca ad assecondare oppure a scoraggiare la tentazione di chiudere anzitempo la legislatura.

Le elezioni "comunali", d'altronde, hanno assunto un ruolo "politico" particolare, fin dai primi anni Novanta. Quando permisero di sperimentare nuovi modelli istituzionali, di fronte alla crisi della Prima Repubblica. L'elezione diretta dei sindaci, nel 1993, divenne, infatti, il metodo per rispondere alla crisi dei partiti e della classe politica, in mezzo al terremoto di Tangentopoli. I sindaci divennero, allora, gli interpreti delle istituzioni. Per dare un volto a una democrazia "impersonale", lontana dalla società.

Dal 1993 in poi, non a caso, l'elezione diretta è stata estesa in ogni direzione. In particolare, ai Presidenti delle Regioni. In seguito, anche ai leader dei partiti, attraverso le primarie. Infine, agli stessi Capi di governo, "indirettamente eletti in modo diretto", vista la tendenza a indicare sulle schede elettorali il nome dei leader delle coalizioni. In questo modo, la politica si è "personalizzata".

Spinta dai media e, in particolare, dalla televisione, che hanno progressivamente riempito il vuoto lasciato nella società e sul territorio dal declino dei partiti di massa. Difficile dimenticare la generazione dei sindaci eletti direttamente in quella fase. In tutte le latitudini del Paese. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Basti pensare, fra gli altri, ad Antonio Bassolino, Francesco Rutelli, Riccardo Illy, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Enzo Bianco. Così, i sindaci si sono imposti come soggetti di democrazia - e di rappresentanza - diretta. In soccorso al logoramento della democrazia rappresentativa. Anche per questo, in seguito, alcuni di essi sono divenuti leader "nazionali". Talora: capi del governo. Si pensi (ancora) a Rutelli, Veltroni. Allo stesso Renzi.

Infine, le elezioni comunali hanno favorito l'affermazione di nuovi soggetti politici. Da ultimo, ma non certo per importanza, il M5s. Proprio 5 anni fa. Nel 2012. Quando Federico Pizzarotti conquistò Parma. E offrì al M5s non solo visibilità, ma fondamento. Perché fornì la prova che il M5s non era solo una rete di movimenti e di associazioni. Ma un "partito". Magari, un "non-partito". In grado di conquistare il governo. Delle città, dapprima. Poi, si vedrà... Le ambizioni di governo del M5s, peraltro, sono state amplificate alle amministrative dell'anno scorso. Per questo il voto di giugno sollecita tanta attenzione. Perché, comunque vada, determinerà effetti rilevanti. Non solo nelle città coinvolte. Ma sul piano nazionale. Sul consenso dei leader di partito e di governo. Sulle alleanze attuali e potenziali.

I sondaggi condotti da Demos per Repubblica e pubblicati nei giorni scorsi sono, dunque, interessanti. Anche se mancano due settimane dal primo turno e un mese dall'eventuale ballottaggio. La realtà potrebbe rivelarsi diversa, com'è già avvenuto in passato. Perché, senza considerare i limiti del metodo adottato, la campagna elettorale è tuttora in corso. Molti elettori (oltre 2 su 10) devono ancora decidere. E l'esito del primo turno può cambiare profondamente il clima d'opinione. Com'è avvenuto l'anno scorso, quando ha, certamente, "lanciato" i candidati del M5s. A Roma, ma soprattutto a Torino.

Il sondaggio di Parma, comunque, suggerisce come Pizzarotti oggi disponga di una notevole legittimazione personale. Se 5 anni fa era il portabandiera della sfida del M5s al sistema, oggi appare protagonista della sfida del sistema al M5s. Un "non-partito" che, tuttavia, ha assunto alcuni vizi dei partiti contro i quali è nato e dichiara di combattere. Anzitutto, la centralizzazione. Meglio: la "personalizzazione centralizzata". È, infatti, significativo come al possibile successo di Pizzarotti, a capo di una lista "personale", corrisponda l'insuccesso (possibile) del candidato e della lista del M5s.

Anche a Genova, dove la storia di Grillo ha "radici" profonde, il candidato del M5s, Luca Pirondini, è minacciato dalla concorrenza, per quanto limitata, espressa dalle liste presentate da due fuoriusciti. Fra loro: Marika Cassimatis, bocciata da Grillo, dopo essersi affermata alle Comunarie. Ma Genova appare un caso esemplare dell'equilibrio instabile che oggi caratterizza l'Italia.

La conferma viene da Palermo. Un osservatorio particolarmente significativo della personalizzazione, in ambito urbano e nazionale. Leoluca Orlando, infatti, è "nato", politicamente, a Palermo. Negli anni Ottanta. Prima della stagione dei sindaci. Che ha, peraltro, interpretato, nel decennio successivo. Quando, tuttavia, ha svolto un ruolo significativo anche in ambito nazionale. In partiti-movimenti apertamente critici verso il sistema. Dalla Rete all'Italia dei Valori. Orlando: non ha mai rinunciato alla parte del Capo popolar- populista, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è utile ad allargare i consensi. Proprio per questo, attrae e divide. Potrebbe passare subito, al primo turno. Ma, in caso di ballottaggio, rischia di subire l'aggregarsi del "voto contro".

Naturalmente, molte altre e diverse sono le ragioni di interesse offerte dalle prossime amministrative. Ci sarà tempo per valutarne il significato. Per ora, mi limito a osservare che si tratterà, a mio avviso, di "elezioni critiche". Perché potrebbero segnare il tramonto della stagione dei sindaci.

E, insieme, dei "partiti personali", che ne sono gli eredi.

Ma anche dei "non-partiti", poco credibili di fronte alla prospettiva di governo, anche in ambito locale. E indeboliti dalla debolezza degli "antagonisti": i partiti. Personali e impersonali. L'Italia dei Comuni, insomma, non si rassegna alla politica della non-politica.

© Riproduzione riservata 29 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/29/news/le_amministrative_il_primo_vero_test_politico-166687417/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-L


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il paradosso 5Stelle: sconfitti ma radicati. ...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 13, 2017, 05:36:33 pm

Il paradosso 5Stelle: sconfitti ma radicati. Darli per finiti sarebbe un errore
Il Movimento ha alternato risultati importanti, alle elezioni nazionali – ed europee – con esiti più deludenti, alle elezioni amministrative. Soprattutto in quelle comunali. Dove più della protesta conta la proposta.

Di ILVO DIAMANTI
13 giugno 2017

Meglio essere prudenti prima di dare per “finito” il M5S. Prima di leggere il risultato delle amministrative di ieri come segno, inatteso, di un’inversione di rotta. Il primo passo di un declino inarrestabile. Conviene attendere altri test elettorali. Perché le elezioni amministrative costituiscono un passaggio politico importante, soprattutto quando hanno l’ampiezza di questa consultazione. Ma sono, più di ogni altra elezione, condizionate da ragioni e fattori “locali”. Tanto più dopo il 1993, quando la nuova legge sull’elezione diretta dei sindaci ha “personalizzato” il voto, per restituire legittimità allo Stato e alle istituzioni, dopo il crollo della Prima Repubblica e le inchieste sulla corruzione dei partiti e della classe politica della Prima Repubblica. In effetti, anche l’affermazione del M5S riflette la crisi dei partiti e della classe politica, dopo il crollo del “muro di Arcore”, che aveva segnato i confini della cosiddetta Seconda Repubblica, fondata “da” e “su” Berlusconi. L’ascesa del M5S era avvenuta proprio cinque anni fa, alle amministrative del 2012.

Quando Federico Pizzarotti, allora sconosciuto ai più, era divenuto sindaco di Parma, nella sorpresa generale. Anche a Parma. Tuttavia, in seguito, il rendimento elettorale del M5s ha seguito un modello preciso. Forte e competitivo in ambito nazionale, molto meno alle elezioni amministrative.

LEGGI LE TABELLE

Per due ragioni, fra le altre. Perché a livello locale contano i candidati. E, in secondo luogo, occorre disporre di tradizioni e di basi organizzative. Per questo il M5S ha alternato risultati importanti, alle elezioni nazionali – ed europee – con esiti più deludenti, alle elezioni amministrative. Soprattutto in quelle comunali. Dove più della protesta conta la proposta.

Per dare un’idea e una misura di questa tendenza bastano poche cifre. Nel 2013, alle elezioni politiche, con oltre il 25% dei voti validi, il M5S diventa primo partito in Italia. Ma, solo due mesi dopo, alle elezioni comunali vince in 2 soli comuni “maggiori” (con oltre 15 mila abitanti) sui 92 nei quali si vota. Successivamente, questo trend si ripete, talora amplificato. Nel 2014 si rinnovano le amministrazioni in 243 comuni maggiori: il M5S ne conquista solo 3. Eppure, alle – concomitanti – elezioni europee, aveva ottenuto il 21% dei voti validi. Secondo, a distanza, dietro al Pd di Renzi (oltre il 40%). La tendenza non cambia neppure nel 2015, quando il M5S vince in 5 comuni, fra i 108 nei quali si vota. Oggi, infine, è al ballottaggio in 9 fra i 160 comuni maggiori al voto.

Così, la vera discontinuità con la breve storia elettorale del M5S, è costituita dalle elezioni amministrative di un anno fa. Nel 2016. Quando il MoVimento ispirato da Grillo conquista la guida di 19 comuni, fra i 143 al voto. Ma, soprattutto, vince a Roma e Torino. Due capitali. Che danno a quel voto un chiaro significato “nazionale”. Anche allora, dunque, il M5S riproduce l’impronta di “partito senza territorio”, apparsa evidente fin dalle elezioni politiche del 2013. Quando risultò primo o secondo partito praticamente in tutte le province italiane. Mentre gli altri partiti maggiori, nella storia della Repubblica, hanno ri-proposto una geografia specifica. La DC e, in seguito, i Forza-leghisti: “impiantati” nella periferia produttiva del Nordest e del Nord, ma anche in molte aree del Mezzogiorno. Mentre le basi elettorali dei partiti della Sinistra – a partire dal Pci e dai suoi eredi – sono sempre state “forti” nelle zone definite, non per caso, “rosse” dell’Italia Centrale. Il M5S, invece, non ha radici né tradizioni territoriali. O meglio: sfrutta quelle degli altri. Perché intercetta i propri elettori dal rifiuto verso i partiti e la politica tradizionali. Canalizza e amplifica il ri-sentimento. Politico e sociale. Contro tutti. Così, spesso, allarga i suoi consensi nei ballottaggi, quando si vota non per il “più vicino”, ma per il “meno lontano”.

Per questo, come abbiamo mostrato in un Atlante Politico di pochi giorni fa, ha basi forti fra i più giovani, fra gli operai, fra gli stessi imprenditori. I più esposti alla globalizzazione. E per questo fatica a rendere stabili le proprie basi elettorali. D’altronde, ha rimpiazzato il territorio con la rete e con il digitale. O meglio: il suo territorio è digitale. E dunque fluido. La sua azione è ispirata alla contro-democrazia, come la definisce Pierre Rosanvallon. La democrazia del controllo e della sorveglianza. Che stenta a sedimentare. A costruire un “popolo” di riferimento. Anche per questo il M5S fatica a “stare sul territorio”, a selezionare e presentare candidati conosciuti e autorevoli. La Rete, a questo fine, non basta. Tanto più perché, a sua volta, è sorvegliata dal Garante. In modo non sempre comprensibile ai “suoi” stessi elettori. Com’è avvenuto a Parma, dove Pizzarotti oggi è un avversario.

Mentre nei “luoghi amici” del fondatore, come a Genova, gli elettori preferiscono rivolgersi altrove. Perché il M5S appare in bilico. Canale di critica e mobilitazione. Ma anche soggetto politico che mira a governare. Visto che nei sondaggi contende il primato al Pd, con quasi il 30% dei consensi. A livello nazionale. Questo è il vero rischio per il M5s. Di apparire, agli occhi degli elettori, un partito come gli altri. E di perdere la sua “diversità”. Mentre per la classe politica dei partiti nazionali il rischio è di considerare la battuta d’arresto del M5S in questo primo turno una svolta.
Irreversibile. Sul piano nazionale. Salvo scoprire, alle prossime elezioni politiche, una realtà molto diversa. Dai propri desideri. Perché, come recita un antico proverbio, è meglio non vendere la pelle di Grillo prima di averlo catturato davvero…

© Riproduzione riservata
13 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/13/news/il_paradosso_5stelle_sconfitti_ma_radicati_darli_per_finiti_sarebbe_un_errore-167964436/


Titolo: ILVO DIAMANTI - Un appunto per non dimenticare Stefano Rodotà
Inserito da: Arlecchino - Luglio 04, 2017, 05:37:52 pm
25 giugno 2017
Un appunto per non dimenticare Stefano Rodotà

Ilvo DIAMANTI

Ho incontrato Stefano Rodotà in molte occasioni. Pubbliche e private. A convegni e seminari. Al “Festival del Diritto”, di Piacenza, del quale è stato ispiratore e guida, per tanti anni. Non intendo, qui, ricostruirne i meriti e le qualità, in ambito scientifico e politico. In particolare, sul piano del diritto e dei diritti. Altri - con maggiore competenza di me al proposito - l’hanno già fatto. E altri ancora lo faranno. Perché Rodotà ha lasciato un segno difficile da oscurare.

Al di là delle opere, conta il suo esempio. Conta la sua presenza sulla scena pubblica. Stefano Rodotà. Intellettuale e protagonista di iniziative mai banali. In tempi in cui la banalità incombe sulle iniziative e sulle figure pubbliche. Così, non mi interessa recitarne le lodi proprio oggi. In questa sede, in questa occasione. Anche perché talora –più di una volta – non ho condiviso le sue posizioni. Le sue scelte. Tuttavia, non mi hanno mai lasciato mai indifferente. Mi hanno sempre fatto pensare. Reagire. Anche – e tanto più - quando ero in disaccordo, magari marcato. Proprio questo, però, è il compito di un intellettuale pubblico. Far pensare, reagire. Scuotere l’in-differenza.

Stefano Rodotà, per questo, ci mancherà.  Almeno: “mi” mancherà. La sua voce. La sua presenza. Non lo dimenticheremo. Io, di certo, non lo dimenticherò.
 
© Riproduzione riservata 25 giugno 2017

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2017/06/25/news/un_appunto_per_non_dimenticare_stefano_rodota_-169096564/


Titolo: ILVO DIAMANTI Partiti e i leader confinati nella mappa lessicale nella ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 10, 2017, 01:45:14 pm

Nel dizionario degli italiani la politica da Renzi a Grillo è sinonimo di sfiducia
Partiti e i leader confinati nella mappa lessicale nella regione del passato.


Papa Francesco l’unico che suscita speranza.
Ambiente e lavoro gli obiettivi condivisi, i valori del futuro in base al sondaggio Demos-Coop

Di ILVO DIAMANTI
10 luglio 2017

Le parole sono importanti. Servono a rappresentare la realtà. Ma anche a costruirla. Perché la realtà sociale non esisterebbe senza le nostre parole. Senza le nostre rappresentazioni. (L’eco del famoso saggio di Berger e Luckmann non è casuale). Per questo ci pare utile ri-proporre la “Mappa delle parole”, come avviene ormai da 7 anni.

Perché attraverso le parole è possibile ricostruire i significati, ma anche la prospettiva e la valutazione, del mondo intorno a noi. Così, anche quest’anno, abbiamo condotto un sondaggio (Demos-Coop) su un campione rappresentativo, particolarmente ampio. Alle persone intervistate sono state proposte una quarantina di parole, che evocano diversi soggetti, eventi, valori; diverse persone e istituzioni del nostro tempo. Ci siamo concentrati, in particolare, sul contesto politico-sociale e mediale. In senso lato.

GUARDA LE TABELLE DEMOS

La mappa che tratteggiamo in queste pagine “proietta” le parole esaminate in base a due diversi “assi” di giudizio. Anzitutto, il gradimento espresso dagli italiani (intervistati), in misura crescente, da sinistra verso destra, cioè, lungo l’ascissa. Mentre dal basso verso l’alto (seguendo l’ordinata): le parole riflettono la tensione fra passato e futuro.
In questo modo abbiamo cercato di combinare il tempo e il sentimento. Ne emerge una mappa suggestiva. In qualche misura, complessa. Ma chiara, nelle indicazioni di fondo. Appare de-finita in tre aree, tre regioni di significato, dai confini - e soprattutto dai contenuti – piuttosto precisi. Agli estremi si oppongono due contesti alternativi.

In alto a destra, c’è il ponte verso il futuro condiviso. Dove insistono obiettivi attraenti e, appunto, condivisi. La promozione dell’ambiente e delle energie rinnovabili. Quindi: il lavoro. Perché è necessità “materiale”, ma anche un “valore”. Accanto al lavoro: la ripresa, da un lato, e la meritocrazia, dall’altro. Nel duplice auspicio: che il lavoro riprenda, insieme allo sviluppo; e che sia orientato dal – e al – “merito”. Criterio universalista, oltre ogni raccomandazione e privilegio. Più in basso, tre parole “pubbliche”, ben incastrate fra loro. Popolo, democrazia. E l’Italia. Dunque: il governo del “demos”. Il popolo sovrano e responsabile. Dotato di diritti e doveri. Limiti e poteri. Fonte di “democrazia”, oltre ogni “populismo”. In mezzo: l’Italia. Popolare e democratica. Più in alto, a dare senso a questa regione di significato: la speranza e il cuore. Sentimento e passione che guardano lontano. Trainati dal volontariato. Più sopra, Papa Francesco. Nonostante tutto: l’unica figura, l’unica persona capace di suscitare passione. E speranza.

Nello spazio opposto, si incontrano politica, politici e partiti. Senza distinzione. Lo sguardo degli italiani, in questa direzione, è pervaso da sfiducia, verso un passato che non passa. E non cambia. Leader, partiti e anti-partiti. Sono tutti là in fondo. Salvini e la Lega, poco sopra il Pd. Vicino al M5s c’è Fi. In fondo a tutti, come sempre, Silvio Berlusconi. L’Uomo Nuovo degli anni Novanta. Il Capo. Oggi sfiora i confini dello spazio politico percepito dagli italiani. Quasi in-visibile. Non lontano, incombe Beppe Grillo. Ieri, il Nuovo contro tutti.

Oggi, a sua volta, ai margini. Non per insofferenza ma, piuttosto, per indifferenza. Accanto ai politici e ai partiti, che non piacciono agli italiani, c’è Donald Trump. Spinto alla presidenza degli Usa dal sostegno delle “aree periferiche”. Dall’inquietudine dei “ceti in declino”. Per gli italiani: un politico come gli altri.

Ma la novità più sorprendente, in mezzo a questo non-luogo semantico, è la presenza di Matteo Renzi. Solo due anni fa: campeggiava nello “spazio futuro”. Alternativo a Berlusconi. Mentre oggi sta proprio accanto a Berlusconi. La speranza di ieri si è consumata in fretta. Come le sorti del suo Pd. Il Pdr. Confuso in mezzo agli altri partiti. “Legato” a Fi. E, quindi, risucchiato nell’indifferenza, che è molto peggio dell’anti-politica.

Nella “terra di mezzo”, tra il “futuro condiviso” e la “marcia verso il passato”, si addensa una pluralità di parole che evocano contrasti e divisioni. Quasi un “Campo di battaglia”. L’euro e la Ue. Accanto alle “unioni gay”. E al mito dell’Uomo Forte, che negli ultimi anni sembrava il marchio della “nuova” politica. Mentre oggi sta a metà fra passato e futuro. Incapace di “emozionare”. Non per caso sia Renzi che Grillo, oggi, nella mappa, stanno “sotto” i loro partiti: Pd e M5s. All’opposto di qualche anno fa. A significare che oggi la personalizzazione non è più, necessariamente, una virtù.

Nel “Campo di battaglia” incontriamo l’immigrazione. Sul crinale fra accoglienza e integrazione. Fra “Ius soli” e respingimento. Le stesse ong si sono istituzionalizzate. E oggi appaiono distanti dal volontariato.

Fra le parole che stanno “in mezzo”, non per caso, ritroviamo i “media”. Vecchi. Tv e giornali. Mentre la radio resiste, ai confini della “terra promessa”. Sull’asse del futuro, i social media li sovrastano. Tuttavia, per costruire il consenso, i media, “tradizionali” restano centrali. La tv, per prima. Da ciò la questione evocata dalle parole del nostro tempo. Il futuro della democrazia.

Perché i soggetti tradizionali della “democrazia rappresentativa” partiti e politici - appaiono delegittimati. Isolati nella regione del “passato”. Mentre la Democrazia digitale, “immediata” più che “diretta”: è il futuro. Nella Mappa tracciata dagli italiani, si posiziona in alto. Eppure è spostata, anche se di poco, verso il quadrante della sfiducia. Meglio, della “prudenza”. Come i social media. Tra diffidenza e delusione. Gli italiani, per definire il futuro della democrazia, non usano parole rassicuranti.

© Riproduzione riservata 10 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/07/10/news/nel_dizionario_degli_italiani_la_politica_da_renzi_a_grillo_e_sinonimo_di_sfiducia-170413982/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1


Titolo: ILVO DIAMANTI Se i giovani non sperano nel Paese...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 18, 2017, 04:36:46 pm
Se i giovani non sperano nel Paese...
 
Tra i 15 ai 34 anni l'opinione generale è che per far carriera l'unica speranza è andare all'estero. Siete d'accordo? Raccontate la vostra esperienza

Di ILVO DIAMANTI
17 luglio 2017

L'ITALIA non è un Paese per giovani. Lo sappiamo bene, ormai da tempo. Infatti, ogni 100 ragazzi, sotto i 15 anni, ce sono quasi 160, oltre i 65. E nei prossimi 10 anni, secondo l'Istat, sono destinati a crescere in misura esponenziale. Fin quasi a 260. D'altronde, l'età mediana, nel nostro Paese, sfiora i 50 anni. Sono dati ormai noti, anche ai non addetti ai lavori. Basta guardarsi intorno, per accorgersi che i giovani e i giovanissimi sono una razza in via di estinzione.

Fino a qualche anno fa la nostra demografia era sostenuta dagli immigrati. Ma anch'essi si sono adeguati. Infatti, gli immigrati di seconda generazione hanno, in media, 1,9 figli per coppia. Un numero ben superiore rispetto agli italiani, ormai scesi a circa 1,3. Ma comunque in calo costante. E ormai al di sotto dell'equilibrio generazionale. Così invecchiamo, sempre di più. E diventiamo sempre più in-felici e scontenti, visto che è difficile essere ottimisti e soddisfatti quando si invecchia. E il futuro scivola dietro alle nostre spalle.

TABELLE - LE PAROLE DEL FUTURO

Aggiungiamo che i flussi migratori non ci vedono solo come un Paese di destinazione. Ma soprattutto di passaggio, visto che buona parte degli immigrati che giunge in Italia lo fa per andare altrove. In Germania e in Gran Bretagna, anzitutto. Peraltro, anche l'Italia è divenuta Paese di "emigrazione". Nell'ultimo periodo, infatti, sono espatriati, in media, oltre 100 mila italiani l'anno. Nel 2016: 106 mila. In maggioranza: giovani, fra 18 e 34 anni. Con titolo di studio e livelli professionali elevati. Se ne vanno dall'Italia perché qui non trovano sbocchi occupazionali adeguati.

Ormai, si tratta di una convinzione diffusa e consolidata: circa 6 persone su 10, infatti, pensano, realisticamente, che i figli - a differenza del passato - non riusciranno a riprodurre o, a maggior ragione, a migliorare la posizione sociale dei genitori. Mentre 2 italiani su 3 ritengono che, per fare carriera, i giovani se ne debbano andare altrove. E si comportano di conseguenza. Se ne vanno e non ritornano. Per questo, la rappresentazione del mondo delineata dai giovani appare sempre più ripiegata sul passato. Sempre meno aperta. Il linguaggio riflette e ripropone, in modo marcato, questa visione.

Lo conferma il sondaggio dell'Osservatorio di Demos-Coop, dedicato al Dizionario dei nostri tempi, condotto e presentato nei giorni scorsi su Repubblica.

Le parole dei giovani, infatti, si distinguono e si caratterizzano proprio per questo. Perché richiamano il passato più del futuro. I giovani: guardano indietro. Ancor più dei loro genitori. La parola "Speranza", nella popolazione, è proiettata nel "futuro", da quasi due persone su tre. Ma fra i giovanissimi (15-24 anni) la proporzione si riduce sensibilmente: 57%. E fra i giovani-adulti (25-34 anni) crolla al 41%. La nostra gioventù: ha poca speranza. Tanto più nella transizione verso l'età adulta. Più che in avanti, pare scivolare indietro. Verso il passato prossimo. Per questo i giovani non credono molto nella "ripresa". I giovani-adulti ancor di meno. Più che a "riprendere" pensano a "resistere". Perché sono disillusi. Secondo loro, il "merito" conta poco, nel lavoro. E, in generale, nella vita. Oggi. E tanto più domani. Per questo di fronte all'Italia appaiono disillusi. Anche se non delusi.
 
Il problema, per loro, non è la "democrazia". Soprattutto i giovanissimi: ci credono. Magari con un po' di distacco. Perché sono cresciuti nell'era dei "Social media". E per loro l'orizzonte è marcato dalla "democrazia digitale". Il problema, invece, è proprio il futuro. Che non riescono a disegnare, ma neppure a immaginare. La famiglia, l'istituzione che ha sempre fondato e radicato la nostra società, oggi non basta più. Non perché abbia perduto importanza e significato. Al contrario. È sempre il riferimento obbligato per gli italiani. Un marchio oltre che un centro del nostro sistema. Ma, appunto, non garantisce più sicurezza nel futuro. Fra i giovani: molto meno che per il resto degli italiani. È in grado di offrire protezione, ma non proiezione. Tutela, ma non spinta.
 
Nel complesso, come abbiamo già osservato, il maggior senso di disagio pervade i giovani-adulti, fra 25 e 34 anni. Non più giovani. Non ancora adulti. Questo passaggio fra diverse stagioni della vita ne condiziona il sentimento. Perché i giovani-adulti non dispongono degli stessi strumenti per comunicare con gli altri. Per informarsi e per informare. La loro confidenza con i Social media, con il digitale: appare molto più limitata rispetto ai "fratelli minori". Cresciuti fra smartphone e tablet. Abituati a twittare prima che a parlare. Anzi, prima "di" parlare. Così, i giovani-adulti non riescono a vedere la "democrazia digitale" come metodo di governo di domani. Anzi, anche per questo, non sembrano molto convinti del futuro della democrazia.
 
L'orizzonte dei giovani e dei giovanissimi, d'altra parte, è oscurato dalla minaccia del terrorismo. Percepita in misura molto maggiore rispetto al resto della popolazione. Così, molto più degli adulti e dagli anziani, i giovani sembrano attratti dalle figure che riflettono e interpretano le paure del nostro tempo. I Nuovi Capi, che evocano Nuovi Muri. Popolari e populisti. Anzi, popolari perché populisti. Per tutti: Donald Trump.

Il Presidente degli USA, discusso per lo stile e i contenuti del suo messaggio, prima ancora che per le sue scelte politiche. Ebbene, secondo un quarto degli italiani, Trump è destinato ad avere più importanza. Domani. Nel futuro. Ma fra i giovani e ancor più fra i giovanissimi questa misura cresce ancora. Di più. Fino al 36%. Questi giovani: sembrano in difficoltà a orientarsi. A spingersi, a proiettarsi e a progettarsi. In avanti. A uno sguardo d'insieme, magari affrettato: evocano l'idea di una generazione che ha perduto la speranza. E non riesce a trovare buone ragioni per credere nel futuro. Questa generazione. Evoca un'ombra che incombe su tutta la nostra società. Perché i giovani sono il nostro futuro. E se i giovani perdono la speranza come possiamo sperare nel futuro della nostra società? Come possiamo sperare nel futuro?
 
© Riproduzione riservata 17 luglio 2017

DA - http://www.repubblica.it/politica/2017/07/17/news/se_i_giovani_non_sperano_nel_paese_-170953045/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: ILVO DIAMANTI - Ora avanza il Partito impersonale: dai leader troppe delusioni
Inserito da: Arlecchino - Agosto 03, 2017, 05:53:25 pm
Ora avanza il Partito impersonale: dai leader troppe delusioni
Le mappe. La personalizzazione iniziata con Berlusconi e proseguita con Renzi pare al capolinea. La sigla torna ad essere più importante. L'eccezione è Salvini

Di ILVO DIAMANTI
31 luglio 2017

STIAMO attraversando una fase politica di attesa. Perché nella prossima primavera si voterà. E non è chiaro chi vincerà. O meglio: se qualcuno vincerà. Ma soprattutto: se riuscirà davvero a governare. Da solo o in coalizione con altri. I motivi per dubitarne sono molti e fondati. Fra gli altri, ne cito uno, in particolare. Dopo la lunga era dei "partiti di massa", è finito il tempo della "democrazia del leader", come la definisce Mauro Calise (in un saggio pubblicato da Laterza). Senza che si riesca a capire verso dove siamo "in marcia". A partire dagli anni Novanta, infatti, i partiti si sono rapidamente "personalizzati", anche in Italia. Fino all'affermazione del "partito personale", imposto da Silvio Berlusconi, nel 1994. Forza Italia: il suo partito-azienda. Altri, con risorse ed esperienze diverse, comunque più limitate, ne hanno seguito l'esempio. Lo stesso Pd, sotto la guida di Matteo Renzi, è divenuto PdR. Il Partito di Renzi. Il Partito del Capo. Indifferibile dall'immagine e dalla figura del leader.

Un leader che ha portato a Palazzo Chigi e, prima ancora nel Pd, un "abito mentale da sindaco" (come ha scritto lo stesso Renzi su 'Avanti', l'auto-biografia politica, appena pubblicata da Feltrinelli). D'altra parte, la Lega, il partito che più degli altri riflette il modello tradizionale del "partito di massa", si è a sua volta personalizzato. È divenuta "Noi con Salvini". Meglio: il PdS. Il Partito di Salvini. Il quale ha archiviato i riferimenti originari. Per primo, il Capo storico: Umberto Bossi. Ma lo stesso "non-partito" per (auto)definizione, il M5s, resta impensabile senza Beppe Grillo. Il proprietario legale del marchio. Ma, soprattutto, il "centro di gravità permanente" di un universo (non) politico sparso. Sul territorio e nella rete. Ebbene, ho l'impressione che quel tempo, questo tempo, stia finendo.

Ne offre una rappresentazione efficace la "Mappa delle Parole" costruita attraverso un sondaggio di Demos-Coop realizzato e pubblicato su Repubblica nelle scorse settimane. Basta concentrarsi, al proposito, sullo spazio occupato dalle parole della politica. Isolato. Alla periferia del linguaggio pubblico. Rivolto verso il passato. Oscurato dalla delusione. Proprio lì si concentrano tutti i principali partiti e i loro leader. Con una chiara differenza rispetto al passato. I leader non sono più davanti e sopra ai partiti. Non ne costituiscono più la bandiera. Almeno, i porta-bandiera. Solo Salvini, negli ultimi anni, è risalito, rispetto alla Lega. E oggi la affianca, senza, però, sovrastarla. Diversamente dagli altri. Per primo, il Pd che appare ai cittadini (intervistati) maggiormente gradito - e proiettato nel futuro - del proprio leader, Matteo Renzi. Il quale, rispetto al passato recente, ha subìto un forte arretramento. Oggi è, infatti, scivolato sotto al Pd, nella percezione dei cittadini. Lo stesso discorso vale per Grillo, che si pone all'ombra del M5s (almeno nella raffigurazione sociale). Ma riguarda, soprattutto, Berlusconi. L'archetipo e inventore del "partito personale", anch'egli sopravanzato da FI.

GUARDA LE TABELLE

La tentazione, di fronte a questo mutamento di scenario, è di affermare che il tempo dei "capi" è finito. Ci troveremmo, invece, di fronte al declino dei leader (come ha sostenuto Giuseppe De Rita sul Corriere). E al parallelo ritorno dei partiti al loro posto "tradizionale", Così, il Pd avrebbe ri-preso il sopravvento sul PdR. Il M5s si sarebbe "normalizzato". Un partito come tutti. Mentre la Lega avrebbe riaffermato la propria identità di partito, oltre o almeno accanto a Salvini.

Questa idea appare confermata dai sondaggi d'opinione che registrano il calo - più o meno sensibile - o comunque lo "stallo" della popolarità dei principali "capi di partito". Renzi, Berlusconi e Di Maio (insieme a Grillo), in primo luogo. Mentre, non per caso, il leader attualmente - e largamente - più apprezzato fra tutti risulta Paolo Gentiloni. "Capo del governo", ma non "capo-partito". E, per stile di comunicazione e di azione, in fondo, neppure un Capo. Ciò costituisce un indizio interessante di quanto sta avvenendo. Più che a un "ritorno dei partiti", a mio avviso, assistiamo al declino del "Partito del Capo" (come lo ha definito Fabio Bordignon). Perché i Capi hanno deluso. La loro esuberanza, nella vita pubblica e sui media, ha suscitato stanchezza. Soprattutto di fronte all'aggravarsi dei problemi economici e sociali. Al diffondersi dell'insicurezza sociale e della sfiducia verso le istituzioni. Così Paolo Gentiloni è divenuto il personaggio pubblico più popolare. Perché non è "il" leader del Pd. Non ambisce a diventarlo (altrimenti Renzi...). Né a fondare, tantomeno a imporre, un nuovo partito personale. Il PdG. Ma agisce sottotraccia. Mentre gli altri leader interpretano, con enfasi, un partito che non c'è. Perché sul territorio e nella società i partiti non si vedono. Appaiono e si esprimono solo in tv. È il tempo dei "partiti impersonali", che confliggono e si dividono al loro interno. Soprattutto a centro-sinistra. Ma non solo. Perché non si vedono più grandi fratture ideologiche e di valore. Mentre le fratture "personali" - l'anti-berlusconismo prima e l'anti- renzismo poi - non riescono più a mobilitare i sentimenti. Né i risentimenti.

Il "partito impersonale", ormai, diventa visibile soprattutto nelle campagne elettorali. Quando deve, comunque, "personalizzarsi". Visto che in tv ci vanno le persone, in nome dei partiti. Non le segreterie e le burocrazie. Mentre sui social media è il leader, meglio, la persona, a twittare. A cinguettare con altre persone. Oppure a "esporsi" nella sua pagina FB.
Per questo è facile prevedere, presto e per alcuni mesi, un ritorno dei partiti e dei loro leader. Ma per la stessa ragione è lecito immaginare che sia difficile, su queste basi, costruire governi solidi. Di lunga durata. L'affermarsi di un partito im-personale e s-radicato disegna, infatti, un futuro politico senza volto. Uno spazio in-finito. Senza fini e senza confini da difendere. Ma così ogni alleanza e ogni coalizione risulta instabile. E la politica, per echeggiare Bauman, diventa "liquida".

 Riproduzione riservata 31 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/07/31/news/ora_avanza_il_partito_impersonale_dai_leader_troppe_delusioni-172011802/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P3-S1.4-T1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il sondaggio. Rabbia e voglia di stabilità, lo strano mix ...
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2017, 05:19:09 pm
M5s cresce: è sopra il Pd. Gentiloni miglior leader.
E Salvini stacca Berlusconi M5s cresce: è sopra il Pd.

Il sondaggio. Rabbia e voglia di stabilità, lo strano mix pre-elezioni. Di Maio ha il trend più positivo. Si fanno largo i nomi di Bonino e del ministro Minniti

di ILVO DIAMANTI

08 settembre 2017

ORMAI SIAMO in campagna elettorale. Lo rivelano le tensioni “fra” partiti e coalizioni. Ma anche “dentro” alle coalizioni. D’altronde, mancano due mesi alle elezioni regionali in Sicilia. Ma poco più di un mese al referendum sull’autonomia nel Lombardo-Veneto. Il dibattito politico, dunque, si è fatto acceso. E alimenta l’incertezza, come emerge dal sondaggio condotto nei giorni scorsi per l’Atlante Politico di Demos. Pubblicato oggi su Repubblica. Due le principali indicazioni, in apparenza, contrastanti. Perché rivelano insofferenza e, al tempo stesso, domanda di stabilità. Politica.

Le tabelle

Da un lato, la crescita sensibile dei consensi del M5S e del suo attuale leader, Luigi Di Maio. Dunque, della principale opposizione. Dall’altro, la fiducia personale verso il premier, Paolo Gentiloni. Elevatissima - e in aumento. Ma analizziamo nel dettaglio queste tendenze.Sul piano degli orientamenti di voto, rispetto allo scorso giugno, si assiste a una maggiore concentrazione dei consensi intorno ai due principali partiti, PD e M5S. Entrambi si rafforzano, negli ultimi mesi. Soprattutto il M5S, che cresce di circa 2 punti. Oggi, con oltre il 28%, è il primo partito. Più di un punto sopra al PD di Matteo Renzi. Dietro, nel Centro-destra, non cambia molto. La Lega e i Fratelli d’Italia appaiono stabili. Fra 13 e 14%. Ma Forza Italia scivola di oltre un punto. Superata dalla Lega di Matteo Salvini. A sinistra del PD, di scissione in scissione, il panorama appare confuso. Frammentario. Articolo 1-MdP, guidato da Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, perde qualcosa. Ora è poco sotto il 4%. Il Campo Progressista di Giuliano Pisapia si attesta al 2%. Anch’esso in calo. Poco più su, al 2,5%, c’è Sinistra Italiana, insieme alle altre formazioni dell’area. A loro volta in de-crescita.Fra gli altri, al Centro, AP di Alfano si aggrappa, a fatica, al 2%.

Detto in altri termini: oggi ci troviamo di fronte a un “bipolarismo imperfetto”. Da un lato, il PD e le forze di Centro-sinistra, che, insieme, potrebbero raggiungere il 40%. Dall’altro, il M5S, che trae la propria forza dalle divisioni degli altri. E dalla frustrazione della società. Accentuata dall’insoddisfazione (anti)politica.Tuttavia, i due principali partiti di Centro-destra, Lega e FI, insieme ai Fd’I, supererebbero il 30%. Sarebbero, dunque, competitivi. Tuttavia, si tratta di una prospettiva complicata. Da dinamiche di leadership. Come segnala l’analisi di Biorcio e Bordignon. Anzitutto perché l’unico soggetto “consolidato” sulla scena politica italiana, oggi, non è un partito, neppure il PD. Né un leader di partito. Ma il premier, Paolo Gentiloni. In aumento costante di consensi “personali”, dal momento dell’investitura. Oggi, prossimo alla maggioranza assoluta (49%).

La fiducia nel suo governo appare più limitata, ma è, comunque, (poco) oltre il 40%. Superiore, anche se di poco, rispetto al momento dell’investitura, lo scorso dicembre. Questi dati riassumono l’orientamento “diviso” degli elettori. Insoddisfatti dell’andamento politico – ma anche economico e sociale – del Paese. E quindi sensibili alla critica, espressa ad alta voce, dal M5S. Eppure, al tempo stesso, in cerca di stabilità. Di rassicurazione. Sentimenti ben interpretati – e rappresentati – da Gentiloni. Un leader “impopulista” - come ho scritto altre volte - in tempi di “populismo” intenso e diffuso. Non per caso, nella graduatoria dei leader, dopo di lui, incontriamo Emma Bonino, una leader estranea alla “politique politicienne”. Mentre, a notevole distanza, per grado di fiducia (intorno al 35-37%), si collocano Giorgia Meloni, Matteo Salvini, e Luigi Di Maio (il leader maggiormente in crescita di consensi). Accanto a Matteo Renzi. In lieve ripresa. Tutti, in diversa - e più evidente - misura, “populisti”. Peraltro, ben più comunicativi e appariscenti di Gentiloni. Tutti gli altri leader politici dispongono di un credito più limitato. Pisapia vicino al 30%. Alfano: poco sopra il 20%. Speranza: poco sotto. Fra gli altri, però, si distingue il ministro Marco Minniti. Oggi sotto osservazione critica per l’azione di “contenimento” degli sbarchi. Definito, dai critici, lo “sceriffo”. Ma anche per questo apprezzato. A destra. E non solo.
 
Il premier, dunque, è molto “stimato” come uomo di governo, e, personalmente, come leader “politico”. Ma non altrettanto come possibile leader di “partito”, o meglio, di coalizione. L’unico possibile candidato premier, secondo gli elettori di Centro- sinistra, risulta, infatti, Matteo Renzi. Senza alternative. Senza discussione. Senza avversari. Mentre nel Centro-destra gli orientamenti sono più distinti e distanti. Silvio Berlusconi non è candidabile (lo ha rammentato nei giorni scorsi Giovanni Toti), ma appare l’unico in grado di raccogliere consensi trasversali fra gli elettori della coalizione (e anche oltre). Matteo Salvini, infatti, è sostenuto da oltre un terzo della base di Centro-destra, ma fatica ad attrarre consensi oltre i confini della Lega. Come, a maggior ragione, Giorgia Meloni all’esterno dei Fd’I.Luigi Di Maio, infine, appare saldamente in testa alle preferenze degli elettori del M5S. Fra i quali non ha avversari. D’altra parte, guida un non-partito fortemente centralizzato. La sua leadership è “data per scontata”.
 
Così, ci avviamo al voto di primavera, mentre la campagna elettorale è già iniziata, in un clima di incertezza. Perché è “incerta” la struttura dell’offerta politica. In altri termini: le coalizioni, le alleanze. E le leadership. Di partito. Ma, ancor più, i candidati di coalizione. E i programmi. A sinistra, meglio, a Centro-sinistra, incombe l’ombra delle “larghe intese”, che coinvolgerebbero anche Berlusconi. Per approvare quelle riforme istituzionali ancora ir-realizzate. Ma che hanno segnato la fine del governo Renzi. Berlusconi, dunque, costituisce ancora il riferimento obbligato della prossima fase politica del Paese. Con lui, tanto più senza di lui, sarà difficile procedere. Per il Centro- sinistra. E non solo, ovviamente.
Insomma, la Seconda Repubblica non è ancora finita

da repubblica


Titolo: ILVO DIAMANTI - La Lega oltre Bossi. E oltre la Padania
Inserito da: Arlecchino - Settembre 20, 2017, 10:37:53 pm
La Lega oltre Bossi. E oltre la Padania
Le mappe.
Il nuovo programma del partito è: richiamo all'ordine. E Matteo Salvini vola nel consenso personale.
Ma appare difficile che il Carroccio senza il traino e la mediazione di Berlusconi possa candidarsi a guidare il Paese

Di ILVO DIAMANTI
18 settembre 2017

A Pontida, anche quest'anno si è celebrato il rito dell'identità leghista. Come avviene, ormai, dal 1990. Si tratta, infatti, di un appuntamento importante, per i militanti e gli elettori della Lega.

Ma non solo. Perché la Lega occupa un ruolo importante, nella politica italiana. Pontida costituisce, dunque, un'occasione utile per verificare le strategie di questo soggetto politico. Per molti anni ha sottolineato la natura movimentista e nordista della Lega. Raccolta e mobilitata, nel "sacro suolo", situato nelle valli bergamasche. Intorno al Capo. Interpretato, oggi, da Matteo Salvini. Che ha sancito, definitivamente, la rottura con il leader storico, Umberto Bossi. Il quale ieri, per la prima volta, a Pontida, non ha parlato. E ha commentato, acido, più che deluso: "È un segnale che devo andarmene via".
 
Bossi, d'altronde, era stato "allontanato" dalla Lega già da tempo. In fondo, Pontida, oggi, è un teatro situato "oltre" il territorio. "Oltre" la Padania. Un teatro dove recita un attore protagonista, un one man show, presente e visibile in molti e diversi media. Perché fa ascolti. Personalmente: ha un pubblico più ampio del partito. E ciò, in qualche misura, suscita qualche preoccupazione nel suo stesso partito. Fra gli stessi leader storici. Roberto Maroni, suo predecessore alla guida della Lega, ha criticato apertamente la decisione di "silenziare Bossi". Perché, ha scandito, "Pontida è Bossi". Ma, dietro alla dichiarazione di lealtà verso "il padre della patria padana", si coglie anche l'inquietudine nei confronti di un leader poco disposto ad ascoltare - e accettare - altri leader autorevoli, intorno a sé.

D'altronde oggi il programma, ribadito ieri da Salvini, indica orientamenti piuttosto chiari. Il richiamo all'ordine. Meglio: alle "forze dell'ordine". Alle quali ha promesso di dare "mano libera ". Quindi: l'abolizione dell'obbligo dei vaccini, ma anche della legge Fiano che punisce la propaganda del fascismo e del nazismo con immagini o contenuti di cui vieta produzione e vendita. Ancora, propone l'elezione popolare dei giudici. Infine, ma certo non per importanza: rivendica il contrasto all'immigrazione. All'invasione che minaccia la nostra società, la nostra vita, la nostra sicurezza. Si tratta di un discorso dai contenuti precisi. Anche sul piano simbolico e dei valori. Coerenti con l'azione e la comunicazione dei principali soggetti neopopulisti di destra, in Europa. D'altronde, non per caso, il modello - e interlocutore - politico privilegiato, di Salvini, è il Front National di Marine Le Pen. A sua volta, la leader verso la quale il "Capo" leghista dimostra maggiore confidenza. Puntualmente ricambiato. Per questo ho sostenuto, ormai da un paio d'anni, che la Lega Padana ha lasciato il posto alla "Lega Nazionale", un partito personale, più che personalizzato. Ben raffigurato dalla denominazione "Noi con Salvini", proposta nel Centro-Sud.

La Lega Nazionale di Salvini (LNdS), peraltro, oggi è stimata, dai sondaggi, intorno al 13-14%. Più o meno, come Forza Italia. Insieme a Fratelli d'Italia, di Giorgia Meloni, il Centro-destra supererebbe il 32%. Qualche punto sotto rispetto alle forze di Centro-sinistra. Che, tuttavia, hanno maggiori difficoltà e problemi crescenti a "coalizzarsi". Perché le tensioni e le divisioni, fra loro, sono molto più profonde. E meno superabili, anche in vista della competizione elettorale. Peraltro, Salvini, come abbiamo osservato, dispone di un livello di consenso personale elevato: 37% (Sondaggi Demos). Superiore a Renzi. E a Silvio Berlusconi. Matteo Salvini, secondo gli elettori di Centro-destra, costituisce, inoltre, il candidato premier migliore. Preferito allo stesso Berlusconi. Ulteriormente penalizzato perché, attualmente, non è candidabile, a causa della condanna definitiva (nel 2013) per frode fiscale. Tuttavia, Salvini fatica a intercettare consensi politici "personali" oltre i confini della Lega. La stessa Lega fatica a sfondare oltre i territori tradizionali. Oggi, infatti, appare forte e radicata nel Nord Ovest e ancor più nel Nord Est. Si è consolidata anche nelle regioni - un tempo "rosse" - dell'Italia centrale. Ma è ancora "straniera" (per quanto meno di un tempo) nel Sud e nelle Isole.

Il problema principale della Lega (e della LNdS), però, è che, senza il traino e la mediazione di Berlusconi, la sua candidatura alla guida del Paese, apertamente annunciata a Pontida, appare improponibile. Non ha possibilità di realizzarsi. Per la posizione anti-europea, ma soprattutto: anti-Euro. E perché non è in grado di "saldare" il Centro-destra. In quanto è troppo spostata a Destra. Silvio Berlusconi stesso, nella Convention azzurra, che si è svolta (anch'essa) ieri a Fiuggi, ha rammentato, in modo inequivocabile, che: "il Centro-destra l'abbiamo fatto noi e abbiam sempre avuto il leader per realizzare il programma. Siamo noi che abbiamo portato al governo forze che erano sempre state escluse ". Non per caso, l'interlocutore privilegiato della LNdS, fra i leader di Forza Italia, oggi è Giovanni Toti. Eletto governatore della Liguria. Insieme alla Lega ha "vinto tutto quel che c'era da vincere ". Come ha scandito ieri, a Pontida. Emozionato, perché (parole sue) è "il primo non-della- Lega a parlare da questo palco". Toti, per Salvini, è un interlocutore affidabile (e affezionato a Pontida, dove era già venuto, pur senza parlare). Con il quale è più facile negoziare.

A Pontida, dunque, è partita la campagna elettorale della Lega. In vista del voto politico del prossimo anno. Ma anche - e anzitutto - in vista dei referendum per l'autonomia del Veneto e della Lombardia. In caso di successo, la LNdS (la Lega Nazionale di Salvini) rafforzerebbe la propria immagine personale e politica. Ma, forse, indebolirebbe la nuova identità territoriale. Nazionale. Perché rischierebbe di riprodurre la tradizionale immagine. Nordista, se non (solo) Padana. Salvini-Zaia-Maroni-Toti, insieme, interpreterebbero "la marcia su Roma" del Lombardo- Veneto. Con la mediazione della Liguria.

© Riproduzione riservata 18 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/18/news/le_lega_oltre_bossi_e_oltre_la_padania-175818649/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2


Titolo: Il Paese dei campanili così legato alle tradizioni: Noi prima di tutto italiani.
Inserito da: Arlecchino - Settembre 25, 2017, 11:59:29 am
Il Paese dei campanili così legato alle tradizioni: "Noi prima di tutto italiani"
Nell’indagine realizzata da Demos, Veneto e Lombardia sono lontani da Barcellona: i venti d’autonomia spirano sempre più deboli

Di ILVO DIAMANTI
25 settembre 2017

L'IDENTITÀ territoriale, in Italia, appare, fin dai tempi dell'Unità, attraversata da tensioni profonde. I referendum sull'autonomia, che si svolgeranno in Lombardia e nel Veneto, fra meno di un mese, sono destinati ad acuire le divisioni. Tanto più perché il clima del confronto fra centro e periferia, fra Stato e Regioni, si è surriscaldato, dopo l'intervento del governo contro la legge veneta che prevede l'esposizione del gonfalone di San Marco negli edifici pubblici.

Un provvedimento che rischia di accendere una campagna elettorale fin qui piuttosto spenta. Evocando, con qualche forzatura, l'esempio catalano.

L'Italia è storicamente segnata dalla distinzione, per alcuni versi una "frattura", fra Nord e Sud. E, quindi, dalla "questione meridionale", affiancata e sfidata, negli ultimi decenni, da una "questione settentrionale", polemica non solo verso il Mezzogiorno, ma, anzitutto, contro lo Stato. L'Italia, peraltro, ha sempre presentato un'identità frammentata da particolarismi. Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica nella seconda metà degli anni Novanta, una fase particolarmente accesa da conflitti territoriali, era solito dire che "l'Italia è un Paese di paesi. E di città. Unito dalle sue differenze." In altri termini, dal suo pluralismo di tradizioni, culture, paesaggi. Un "Paese di paesi". Mi sembra una definizione efficace e di lunga durata dell'Italia. Evoca, infatti, un profilo che si ripropone ancora oggi, quando si indaga sulle diverse e principali appartenenze territoriali dei cittadini.

Lo dimostrano i dati di un sondaggio di Demos (per Intesa Sanpaolo), condotto nelle scorse settimane. Dal quale emerge un sentimento di appartenenza territoriale composito e frastagliato. I contesti nei quali si riconoscono gli italiani, infatti, sono diversi. Anzitutto, l'Italia, indicata come primo riferimento dal 23% del campione. Quasi 1 italiano su 4. Ma ciò significa che gli altri 3 guardano altrove. In particolare: alla loro città (quasi 2 su 10). Quindi, alla loro Regione (12%). Poi alla "macro- area". Nord, Centro e Sud, insieme, raccolgono quasi il 20% delle preferenze "territoriali". Ci sono, infine, molte persone che si orientano oltre i confini nazionali e locali. L'8% si definisce, anzitutto, europeo. Mentre il 18% si rivolge in primo luogo "al mondo". Esprime, dunque, uno spirito apertamente "cosmopolita".

LE TABELLE

Nell'insieme, dunque, circa metà delle persone intervistate si richiama anzitutto all'ambito "locale". Gli italiani. Si dicono milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Romani. Marchigiani. Ma anche: del Nord oppure meridionali. Nel Mezzogiorno, in particolare, il sentimento "meridionalista" scavalca il 22%. Tuttavia, se consideriamo anche la seconda indicazione, cioè l'altra identità territoriale possibile per i cittadini, l'Italia si ripropone con forza, su livelli molto elevati. E ciò sottolinea una tendenza anch'essa di "lunga durata", del nostro "Paese di paesi". Ne ho scritto altre volte, in passato, visto il mio vizio di osservare il territorio, come chiave di lettura degli orientamenti politici, ma anche sociali. Noi siamo un popolo di "e italiani". Oppure, reciprocamente, di "italiani e". Detto in altri termini: siamo milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Cuneesi e vicentini. Romani. Marchigiani. Meridionali, settentrionali. "E" italiani. Ma anche viceversa. Italiani "e"... romani, napoletani, emiliani. E via dicendo. Le diverse identità territoriali, dunque, non appaiono in contrasto con quella nazionale. Ma ne costituiscono, semmai, il complemento.

La conferma giunge se osserviamo questi orientamenti in controluce. Attraverso il contesto territoriale ritenuto "più lontano". Il distacco dall'Italia, infatti, continua ad apparire limitato. Espresso da una quota di persone inferiore al 10% (il 7%, per la precisione). Nonostante i localismi e le pulsioni indipendentiste - anche se non più apertamente secessioniste - che agitano il Paese. L'ambito che ha visto crescere maggiormente il distacco dei cittadini, negli ultimi 10 anni, è, invece, l'Europa. Com'era prevedibile.

Dunque, siamo e restiamo un "Paese di paesi". Di città e di regioni. Un Paese dall'identità incompiuta e, quindi, "debole". Ma, per questo, dotato di "resistenza". In grado di superare le sfide che vengono dall'esterno. Dalla globalizzazione. Dal cammino incerto dell'Europa. Dalle presunte "invasioni". Perché il perimetro delle nostre appartenenze è aperto e flessibile. Capace, per questo, meglio di altri, di adattarsi ai cambiamenti e alle tensioni che giungono anche dall'interno.

Così, i referendum che si svolgeranno nel Lombardo-Veneto vanno ricondotti al significato reale che assumono presso i cittadini. Esprimono, cioè, una domanda di autonomia, non di distacco. (Il quesito referendario, d'altronde, parla di autonomia, non di indipendenza). Ma riflettono anche la ricerca di consenso politico e personale, da parte dei partiti e dei governatori - leghisti - che guidano le Regioni. (Come suggerisce un sondaggio dell'Osservatorio Nordest di Demos, di prossima pubblicazione sul Gazzettino). Così, a mio avviso, ha ragione Massimo Cacciari quando recrimina contro coloro (il governo regionale del Veneto) che hanno approvato la legge sull'esposizione della bandiera con il "Leone di San Marco". Ma anche contro chi l'ha "impugnata" (il governo nazionale). Perché: "queste cose non fanno che alimentare le pulsioni di quelli che andranno a votare al referendum". In altri termini: questa polemica rischia di amplificare la campagna elettorale in vista del referendum autonomista. Con l'effetto - imprevisto e non voluto dal governo nazionale - di mobilitare i cittadini. Fino ad oggi piuttosto distratti, intorno a questa scadenza.

Peraltro, anche l'iniziativa del governo regionale del Veneto potrebbe avere effetti imprevisti, dai promotori. Perché la bandiera "venetista" issata non "al posto di", ma "accanto a" quella italiana potrebbe essere concepita come una conferma ai dati presentati in questa Mappa. Che non pre-vedono l'alternativa: veneti O italiani. Ma, al contrario, l'integrazione reciproca: veneti E italiani. Guidati da Luca Zaia: il governatore di una Regione italiana. Perché il Lombardo-Veneto non è la Catalogna.

© Riproduzione riservata 25 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/25/news/il_paese_dei_campanili_cosi_legato_alle_tradizioni_noi_prima_di_tutto_italiani_-176427225/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1


Titolo: ILVO DIAMANTI - Il Pd ha 10 anni, ma ne dimostra molti di più
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 09, 2017, 05:48:04 pm
Il Pd ha 10 anni, ma ne dimostra molti di più
Il 14 ottobre 2007 nasceva il principale partito del centrosinistra, l'ultimo erede di Dc e Pci. Ma da allora molte cose sono cambiate

Di ILVO DIAMANTI
09 ottobre 2017

IL PARTITO democratico compie (quasi) dieci anni. Il 14 ottobre del 2007 si svolgevano, infatti, le primarie per l'elezione dell'Assemblea costituente. E del segretario. Le primarie rappresentano, dunque, il "rito fondativo" del Pd, per citare la formula coniata da Arturo Parisi. Insieme a Prodi, il sostenitore più determinato - e determinante - del passaggio dall'Ulivo dei partiti al partito dell'Ulivo. Un soggetto politico unitario del centrosinistra (senza trattino) capace di aggregare i principali partiti che avevano accompagnato la storia della Prima Repubblica: Dc e Pci. Per allargarne i confini. Da allora, molto tempo è passato e molte cose sono cambiate. Mi limito a indicarne due. La "scissione" recente delle componenti - e di alcuni leader - di sinistra, che ne ha mutato l'identità originaria. E la progressiva personalizzazione, che ha segnato il passaggio da Pd a PdR. Tanto più dopo le primarie (stra)vinte da Matteo Renzi, lo scorso fine aprile.

LE TABELLE …

C'è però un aspetto, meno dibattuto, che vale la pena di analizzare. Perché, a mio avviso, ha contribuito e contribuirà a modificare ulteriormente l'identità del PD. Ma, soprattutto, la sua capacità di interpretare un progetto. Di agire da "spina dorsale di un sistema malato" come ha scritto di recente, su queste pagine, Ezio Mauro. Mi riferisco alla struttura sociale della base attiva. Coinvolta nelle Primarie. Riguarda, soprattutto, il profilo dell'età. Infatti, il PD compie 10 anni, ma, in realtà, ne (di)mostra molti di più.

È invecchiato, soprattutto negli ultimi anni. Un aspetto significativo, che va tenuto sotto osservazione. Da chi si riconosce nel PD. Ma non solo. Anche se, considerando le intenzioni di voto "politico", emergono indicazioni più articolate. Il PD (Demos, settembre 2017) ottiene, infatti, consensi molto maggiori rispetto alla media fra gli "anziani" (con oltre 65 anni). Ma anche fra i più "giovani" (sotto i 30 anni). Presso i quali il PD "compete" con il M5s. Che, invece, cala sensibilmente fra gli "anziani". PD e M5s, secondo i sondaggi, risulterebbero i partiti più "votati", in questa fase.

È significativo che entrambi si affidino alle primarie, per selezionare i propri candidati. E, nel caso del M5s, per scegliere il leader. Naturalmente, interpretano due modelli diversi. Anzi: alternativi. Come rivelano i metodi utilizzati per le Primarie. Online, in-rete, nel caso del Movimento 5 Stelle. Un non-partito anti-partito, che tende a distanziarsi dagli altri. Anche nelle forme di partecipazione. Dall'altro lato, il PD. Erede dei partiti di massa.

Che, per questo, adotta metodi di partecipazione più tradizionali. Le Primarie costituiscono il tentativo di superare il passato. Adottando il modello utilizzato negli USA. Non per caso, per il PD, viene evocata la "via americana". Con la differenza, decisiva, che in Italia le (sue) Primarie avvengono nel solco dei partiti storici, che facevano della partecipazione un metodo di radicamento sul territorio.

Per questo è particolarmente interessante osservare come sia cambiata la partecipazione nel corso del tempo. Dal 2007 ad oggi, nel 2017. Anzitutto dal punto di vista della base coinvolta. Che si riduce progressivamente. In modo molto rilevante. Da oltre 3milioni e 550mila elettori (militanti), nel 2007 (quando si afferma Veltroni), si scende, infatti, a 3 milioni e 100mila, nel 2009 (affermazione di Bersani). Nel 2013 l'affluenza si ridimensiona ancora: 2 milioni e 800mila. Quest'anno, infine, scivola di circa un milione. E si attesta intorno a 1 milione e 800 mila. È interessante osservare come il calo più sensibile, per non dire il crollo, della partecipazione avvenga con l'avvento di Matteo Renzi. L'innovatore. Anzi: il "rottamatore". Il quale, lo scorso aprile, trionfa con il circa 70% dei voti. Eppure non riesce a frenare il disincanto politico, che consuma la passione verso i partiti. Ma soprattutto il PD. Perché il PD resta "l'ultimo partito", come recita il titolo di un interessante saggio di Paolo Natale e Luciano Fasano, appena pubblicato (da Giappichelli). Insieme all'ampiezza, cambia, in modo significativo, anche la struttura della partecipazione. Soprattutto, riguardo all'età. Se ci limitiamo alle due ultime consultazioni, l'evoluzione appare evidente. I votanti più giovani (16-34 anni) scendono dal 19%, nel 2013, al 15% nel 2017. Ma, soprattutto, nelle Primarie, è la quota di elettori "anziani" (65 anni e oltre) a crescere in misura rilevante: dal 29% nel 2013, al 42% nel 2017. Mentre, per quel che riguarda il voto al PD alle elezioni politiche, dal 2007 al 2017 (stime Demos) l'incidenza delle classi di età più giovani (18-34 anni) e anziane (65 anni e oltre), appare costante. Rispettivamente, intorno al 23-24%, i giovani, e al 40%, gli anziani.

Questi dati suggeriscono come sia in atto un cambiamento sensibile nella base del PD. Sta invecchiando. In misura molto più rapida e sensibile rispetto alla popolazione - e all'elettorato nell'insieme. Ma se il partito riesce ancora a intercettare il voto dei più giovani, in misura perfino superiore alla media, non riesce, però, ad appassionarli. I "giovani- adulti" (30-40enni), d'altronde, sono sempre più attratti dal M5s. Così, alle Primarie, come abbiamo osservato alcuni mesi fa, si è recato un "popolo dai capelli grigi" (o con pochi capelli...). Affiancato e accompagnato, talora, dai figli (e dai nipoti...). E ciò proietta ombre inquietanti sul futuro.

Perché è vero che la partecipazione attraverso i partiti è in declino.
Ma senza partecipazione i partiti non hanno speranza. Tanto più i partiti che hanno una storia radicata nella società e nel territorio. Come il PD. Per loro, oggi, la "rete" è utile, anzi necessaria. La televisione: inevitabile. Ma non possono bastare. Parallelamente, la "personalizzazione" procede senza sosta. Tanto più in tempi di "democrazia del pubblico". Di "democrazia digitale". Ma rischia di diventare deleteria. Trasformarsi in un "Partito personale", nel "Partito del capo" (per citare le note definizioni di Calise e Bordignon), diventare PdR. Distaccarsi dalla società e dal territorio.

A dispetto dei propositi di rottamazione: significa "invecchiare". Perdere il futuro.
 

© Riproduzione riservata 09 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/09/news/il_pd_ha_10_anni_ma_ne_dimostra_molti_di_piu_-177744552/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P9-S3.4-T2


Titolo: ILVO DIAMANTI No a politica e religione, per i giovani è l’era delle passioni...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2017, 07:33:33 am
No a politica e religione, per i giovani è l’era delle passioni tiepide
Osservatorio Demos-Coop: si assottigliano le differenze tra generazioni e cresce la dipendenza dalla famiglia. Italiani sempre più incapaci di accettare le responsabilità della vita adulta.
La vecchiaia è l’unica paura comune e la gioventù dura fino a 52 anni

Di ILVO DIAMANTI
30 ottobre 2017

PARAFRASANDO il titolo di un noto libro, potremmo dire che viviamo in un'epoca di "passioni tiepide". Non "tristi", come quelle evocate da Miguel Benasayag e Gérard Schmit nel loro saggio (pubblicato nel 2004 da Feltrinelli). Piuttosto: "disincantate". Interpretate con realismo. In particolare dai giovani. Abituati a proiettare il futuro nel loro sguardo. E a orientare il nostro. Perché i giovani "sono" il futuro.

È l'immagine suggerita dal sondaggio dell'Osservatorio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi e proposto oggi su Repubblica.

D'altronde, la società, e soprattutto i giovani, si sono abituati al clima di sfiducia che grava su di noi. Ormai da troppi anni. Così, lo attraversano senza troppa paura. In particolare, i "giovani-adulti" (secondo i demografi), la "generazione del millennio", secondo l'Istat.

Insomma, coloro che hanno fra 25 e 36 anni e stanno a metà fra giovinezza ed età adulta. E cumulano l'insicurezza di chi ha di fronte un futuro carico di incognite e la sicurezza di chi i problemi del futuro ha iniziato a sperimentarli. È la metafora di una società che non accetta di invecchiare. Dove tanti, quasi tutti, vorrebbero restare "per sempre giovani". A costo di protrarre all'infinito le incertezze degli adolescenti. È un aspetto che avevamo già osservato altre volte, in passato. Ma oggi si ripropone, in modo, se possibile, più marcato. La giovinezza, secondo gli italiani, si allunga sempre più. Quanto più gli anni passano. Fra coloro che non superano i 36 anni, la giovinezza finisce poco più avanti: a 42 anni. Poi, via via che gli anni passano, anche la giovinezza si allunga. Fino a 62 anni, per coloro che hanno superato 71 anni. La "generazione della ricostruzione". Parallelamente, si allontana anche la soglia della vecchiaia. Tanto che, secondo i più anziani, pardon, i "meno giovani", si diventa "vecchi" solo dopo aver compiuto 80 anni. Non è una novità. La nostalgia della giovinezza spinge a negare la vecchiaia. E induce ad accettare di essere vecchi... solo dopo la morte. Eppure, ogni volta mi stupisco. Non riesco a farmene una ragione. La vecchiaia come dis-valore: significa negare l'importanza dell'esperienza. La maturità. D'altra parte, l'età adulta si restringe sempre di più. Così, la nostra biografia accosta e oppone gioventù e vecchiaia. Una accanto all'altra. E riduce l'età adulta a un passaggio rapido. Quasi occasionale. "Diventare grandi", una promessa attesa, quando ero bambino, oggi appare quasi una minaccia. Al più ci è concessa la condizione di "adulti con riserva" (per citare un bel libro di Edmondo Berselli).

Le fratture generazionali, così, appaiono meno evidenti e meno marcate di un tempo. Io stesso, alla fine degli anni Novanta, avevo definito i giovani una "Generazione invisibile" (Ed. Il Sole 24ore, 1999). Per sottolineare la progressiva marginalità dei giovani, ma, ancor più, la loro coerenza con gli orientamenti degli... adulti. Meglio, dei genitori. Al punto da non coglierne più le distanze. Cioè: le specificità generazionali. D'altronde, gli anni delle contestazioni sociali, ma prima ancora, familiari - dei figli contro i genitori - erano lontani. In seguito, non si sono più riproposte. Anzi: i genitori, la famiglia, sono divenuti l'appiglio che permette ai figli di condurre la loro transizione infinita all'età adulta. Si spiega soprattutto così l'importanza attribuita dai più giovani ai rapporti con la famiglia. Ma soprattutto all'indipendenza e all'autonomia. Tre su quattro, fra quanti hanno fino a 24 anni, li considerano molto importanti. Nel 2003 erano poco più di uno su due. Segno evidente che il sostegno della famiglia è necessario, ma, al tempo stesso, aumenta, la domanda di in-dipendenza. Di crescere e auto- realizzarsi. Di affermarsi e "fare carriera". Obiettivo ambito dal 41% dei più giovani: quasi 10 punti in più rispetto ai primi anni 2000. Una speranza che, per essere realizzata, li spinge a guardare - e andare - altrove.

I più giovani, insieme ai giovani-adulti, i millennials, sono la generazione della rete, la generazione più globalizzata. Abituati a comunicare a distanza. E a orientarsi verso "altrove", sostenuti dai genitori. E dai nonni. Per questo non riescono a sfuggire al senso di solitudine, che grava su tutta la società. Certo, i giovani-più-giovani sono sostenuti e aiutati da reti amicali più fitte. Ma i loro fratelli maggiori, i giovani-adulti, la "generazione del millennio", ne soffrono più degli altri. Nel sondaggio di Demos-Coop, il 39% di essi, quasi 4 su 10, ammettono di "sentirsi soli". D'altra parte, internet e i social media permettono di restare sempre in contatto con gli altri. Gli amici. Ma sei tu, davanti al tuo schermo. Da solo. Oppure in mezzo agli altri. A comunicare. Da solo. Con il tuo smartphone.

Così, le passioni non diventano "tristi", ma più tiepide. Perché le stesse "fedi" sbiadiscono. E si perdono. La politica: non interessa più quasi a nessuno. Anche fra i più giovani. Presso i quali la componente che considera importante la politica non va oltre il 14%. Poco sopra alla media generale. Sono lontani i tempi della "contestazione". La stessa "generazione dell'impegno" - del '68 - appare disillusa. Elisa Lello, in una ricerca pubblicata alcuni anni fa, ha parlato di una "triste gioventù", (Maggioli, 2015). Insomma, non c'è più fede. Soprattutto fra i più giovani. Lo ha spiegato Franco Garelli, studioso delle religioni giustamente ri-conosciuto, in un testo dal titolo esplicito: "Piccoli atei crescono" (Il Mulino, 2016). L'indagine di Demos- Coop lo conferma, visto che la religione è ritenuta importante solo dal 7% della "generazione della rete". Un quarto, rispetto alla popolazione nell'insieme. Meno di un terzo rispetto al 2003.

In altri termini, "non c'è più religione". Soprattutto fra i più giovani. Così, diventa difficile provare "passioni". Accese e perfino tristi. Prevale il disincanto.
E le passioni si raffreddano. Divengono tiepide. Eppure conviene "credere" nei giovani. Perché, comunque, più di tutti gli altri, "credono" nell'Europa. Perché sono il nostro futuro. E più di tutti gli altri, "credono" nel futuro.

© Riproduzione riservata 30 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/30/news/no_a_politica_e_religione_per_i_giovani_e_l_era_delle_passioni_tiepide-179732808/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1


Titolo: ILVO DIAMANTI - POPOLOCRAZIA La metamorfosi delle nostre democrazie
Inserito da: Arlecchino - Aprile 19, 2018, 09:06:16 pm

Ilvo Diamanti, Marc Lazar

POPOLOCRAZIA

La metamorfosi delle nostre democrazie

Argomenti:
Attualità politica ed economica

La dinamica politica è diventata elementare: il popolo contro le élite, quelli in basso contro quelli in alto, i ‘buoni’ contro i ‘cattivi’. La ‘popolizzazione’ degli spiriti e delle pratiche politiche ha disseppellito il mito della ‘vera democrazia’ forgiata dal “popolo autentico” con ciò minando alle fondamenta la democrazia rappresentativa che si avvia a diventare una popolocrazia. Il populismo è comparso e compare sempre in periodi di forti incertezze, di traumatici, di fasi di crisi. Crisi economiche, sociali, culturali. E, soprattutto, crisi politiche quando rientrano nell’ambito dell’eccezionale, dell’inatteso, dell’imprevisto, dell’inedito: la delegittimazione dei governanti, delle istituzioni, delle regole e delle norme in vigore, delle abituali procedure di mediazione. È su questo terreno che i populisti possono prosperare, dipingendo un quadro apocalittico del presente e proponendo il ritorno a un passato favoleggiato o facendo intravedere un futuro radioso. Sono contemporaneamente i prodotti di queste crisi e i loro creatori. Come sta rispondendo la democrazia a tutto questo? Ahimè inglobando elementi di populismo: adeguando gli stili e il linguaggio politico, i modelli di partito, le scelte e le strategie di governo. In una parola, sta trasformando se stessa in una popolocrazia.

Da https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=