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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277639 volte)
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« Risposta #420 inserito:: Gennaio 05, 2015, 04:59:17 pm »

Se torna in campo un leader usurato

di ILVO DIAMANTI
05 gennaio 2015

MA BERLUSCONI può ancora determinare gli equilibri politici in Italia? Guidare il Centrodestra e, in caso di elezioni, trascinarlo alla vittoria? O, quantomeno, imporlo, come protagonista, nella prossima stagione politica? La questione è tornata attuale dopo la possibile "depenalizzazione" del reato per cui Berlusconi è stato condannato. Un'ipotesi che, se si realizzasse, gli permetterebbe di scendere nuovamente in campo. Il premier Renzi ha, peraltro, annunciato che la norma, contenuta nella riforma sul fisco approvata dal Consiglio dei ministri, verrà cambiata. Tuttavia, il clamore sollevato dalla vicenda ha ribadito quanto Berlusconi conti ancora, sulla scena italiana. Nonostante ne sia, formalmente, escluso. Per ragioni giudiziarie. Ma non politiche. Per questo vale la pena di interrogarsi, di nuovo, circa il suo valore sul "mercato politico".

Sul piano nazionale, anzitutto. Dove Forza Italia ha perduto molti consensi, negli ultimi anni. Già alle elezioni politiche del 2013 il PdL si era fermato al 21,6% dei voti validi. Circa 16 punti meno delle precedenti elezioni. In termini assoluti: un calo di 6.300.000 elettori. Ridotto a quasi la metà, rispetto al 2008. Se, nonostante tutto, era uscito da quel voto quasi da vincitore, è per "merito" del Pd. Calato, a sua volta, al 25%. Circa 8 punti in meno rispetto al 2008. Alle politiche del 2013, tuttavia, Fi costituiva quasi i tre quarti della coalizione di Centrodestra e pesava 5 volte più della Lega Nord (ridotta al 4%).

Oggi il quadro è molto diverso. Alle Europee, Fi è scivolata sotto il 17%. La Lega, invece, è risalita, oltre il 6%. I Fratelli d'Italia hanno ottenuto il 3,7%. Anche senza contare l'Ncd di Alfano, che si è alleato con l'UdC, il Partito Personale di Berlusconi ha, dunque, ridotto il suo peso elettorale nella (ipotetica) coalizione. Tanto più, e soprattutto, se si tiene conto dell'evoluzione degli ultimi mesi, segnalata dai sondaggi. In particolare, l'ultimo Atlante Politico di Demos (dicembre 2014) stima Fi sotto il 14%. Pochi decimali sopra la Lega, che avrebbe superato il 13%. Ciò sottolinea come i rapporti di forza, nel Centro-destra, siano, profondamente, mutati. Perché la Lega, ormai, compete con Fi alla pari. Questione di leadership, oltre che di partito. In quanto Matteo Salvini, divenuto segretario alla fine del 2013, ha trasformato la Lega Nord nella Lega Nazionale, alleata, (anti) europea del Front National di Marine Le Pen. Per allargare la presenza nel Sud, l'ha, inoltre, personalizzata, inaugurando una Lista che ha il suo nome. E il suo volto.

Così, oggi, a Destra, la leadership di Berlusconi non è più indiscussa e indiscutibile. Mentre, nell'ultimo anno, ha perduto il controllo sugli elettori di Centro. E sui "governativi" del Centrodestra. Ncd e UdC, oltre a Scelta Civica: risucchiati dal Pd di Matteo Renzi. Il PDR. Il quale ha ottenuto quasi il 41% alle Europee. E attualmente, nonostante il declino degli ultimi mesi, è, comunque, attestato intorno al 37%. Renzi, d'altronde, ha, indubbiamente, garantito "cittadinanza politica" a Berlusconi, nonostante la condanna e l'ineleggibilità. Ne ha fatto un interlocutore essenziale nel dibattito e nella progettazione intorno alle riforme istituzionali ed elettorali. Sollevando molte critiche (non solo) a sinistra. Tuttavia, al di là dei giudizi "politici", in questo modo ha eroso, anzitutto, la base elettorale di Fi. Attratta, anch'essa, dal PDR. Così Fi si è ritrovata "sola". Sfidata al Centro dal PDR. E a Destra dalla Lega di Salvini. La quale, come si è detto, ha subìto una mutazione profonda. La sua identità padana si è sbiadita. Mentre ha accentuato quella di Nuova Destra. Sulle tracce del Fn di Marine Le Pen. Che, anche in Francia, ha sottratto spazio alla Destra Repubblicana, neo e post-gollista. Fino a superarla largamente, alle elezioni europee. Mentre i sondaggi prevedono un'affermazione significativa del Fn anche alle prossime départementales di marzo.

Per queste ragioni pare difficile che il ritorno di Silvio Berlusconi alla politica attiva possa modificare sostanzialmente lo scenario, in Italia. Oggi, infatti, Berlusconi appare costretto a un ruolo "gregario". A) Sul piano generale: perché la sua possibilità di partecipare ai processi politici e di riforma del Paese  -  e di tutelare anche i "propri" interessi  -  dipende dal dialogo con Renzi. B) Nello schieramento politico che ha "creato". In parte, risucchiato dal PDR. In parte, perché lo spazio di destra è sempre più occupato dalla Lega di Salvini. C) Mentre gli risulta difficile cercare spazi nuovi. Elaborare proposte nuove. E credibili. Anche perché Berlusconi, da sempre, ha "personalizzato" l'offerta politica. Ma oggi la sua immagine è invecchiata. Usurata. Come emerge dal riconoscimento politico "personale". Secondo il recente Atlante Politico di Demos (dicembre 2014), infatti, la fiducia nei confronti di Berlusconi è al 22%. Molto meno di metà rispetto a Renzi (50%). E nettamente al di sotto di Salvini (35% circa). Ma anche della Meloni (29%). Un po' meno perfino di Alfano.

Naturalmente, vent'anni caratterizzati da Berlusconi hanno influenzato profondamente i modelli di azione e di organizzazione politica. Ma anche gli stili di vita e i valori degli italiani. Hanno, cioè, "berlusconizzato" politica e società, contribuendo ad accentuare il (tradizionale) distacco dalle istituzioni e ad affermare il senso "cinico" al posto di quello "civico". Una tendenza sottolineata dall'indagine sul rapporto fra "Gli italiani e lo Stato", pubblicata su Repubblica la settimana scorsa.

Anche per questo l'opposizione, in Italia, ha assunto un segno prevalentemente anti-politico. Interpretata dal M5s. E, in parte, dalla Lega Nazionale di Salvini. La Nuova Destra, che intercetta, inoltre, l'ostilità verso l'Unione Europea e verso lo straniero. Le paure generate dai "rischi" prodotti dalla globalizzazione (a cui ha dedicato la sua riflessione Ulrich Beck).

È l'eredità di Berlusconi, che, contrariamente ai propositi, ha inibito la formazione di una Destra liberaldemocratica. Lasciandoci un Paese dove il PDR di Renzi, oggi, governa senza una vera alternativa.
© Riproduzione riservata 05 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/05/news/se_torna_in_campo_un_leader_usurato-104310876/?ref=HREC1-5
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« Risposta #421 inserito:: Gennaio 13, 2015, 05:03:11 pm »

Il buon esempio e la paura

Di ILVO DIAMANTI
12 gennaio 2015
   
I SANGUINOSI attentati di Parigi hanno, certamente, una matrice religiosa, prima che politica, come ha argomentato ieri Eugenio Scalfari. Ma sono destinati a produrre - e, anzi, hanno già prodotto - conseguenze politiche molto serie. In Francia, in Italia. E in Europa. Ben al di là delle intenzioni dei terroristi. Gli autori dell'eccidio ai danni della redazione di Charlie Hebdo intendevano, infatti, punire l'offesa contro il Profeta e i simboli dell'Islam. In modo estremo, secondo la loro interpretazione estrema ed estremista del Corano. In questo modo, però, perseguivano - ed eseguivano con ferocia - anche una finalità "politica". Intimidire la patria delle libertà: culturali, di espressione, religiose. Al tempo stesso, intendevano - intendono - radicalizzare l'Islam - in Francia e in Europa - intorno a un solo nucleo. A una sola interpretazione. Jihadista. Anche se l'Islam è un fenomeno complesso, come ogni religione. Lo ha rammentato ieri Corrado Augias. L'eccidio di Parigi, però, rischia di produrre anche altri esiti. Diversi, ma non meno pericolosi. Non solo per i francesi, ma per noi tutti.

In particolare, l'attacco degli jihadisti (francesi) che ha insanguinato Parigi ha, senza dubbio, colpito al cuore anche l'Unione europea. Mettendone in luce l'estrema debolezza e "lateralità" rispetto alle scelte e alle questioni che riguardano la vita - e la morte - delle persone. La sfida terrorista dell'Islam radicale, infatti, è stata affrontata, a Parigi, dai servizi e dalle forze dell'ordine "nazionali". Non da un sistema di difesa e di sicurezza "europeo". Che non esiste. Come non esiste un esercito. Né una politica estera comune e condivisa. Non per caso, in nome della difesa e della sicurezza contro la minaccia terrorista, in questi giorni, sono state messe in discussione le regole sulla libera circolazione dei cittadini fra i paesi europei previste dal trattato di Schengen. Un'ipotesi "rivendicata", per primo, da Roberto Maroni. Importante leader della Lega, ma, anzitutto, governatore della Lombardia. Una Regione aperta - e influente - sull'Europa. La stessa preoccupazione, d'altra parte, ha trovato altri sostenitori autorevoli, nei governi della Ue. In particolare, da parte di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea.

D'altronde, la "politica", nei sistemi democratici, avviene attraverso la competizione per il potere e l'esercizio del governo, fondati sul consenso dei cittadini. Che è regolato dal voto e condizionato dall'opinione pubblica. E ha base saldamente "nazionale". Per questo, risulta chiaro che il sanguinoso attacco a Charlie Hebdo avrà una forte influenza sulla fiducia - e sfiducia - degli elettori nei confronti delle forze "politiche" e delle istituzioni. Nazionali. E contribuirà a (ri)orientare la politica nei diversi sistemi politici. Nazionali. Tanto più per il violento impatto prodotto sul piano "mediale" - previsto e premeditato dai militanti jihadisti.

In particolare, è prevedibile che questa vicenda contribuisca ad allargare i consensi delle forze politiche che agitano la paura degli stranieri e, insieme, l'islamofobia. Anzitutto, le Front National. Che, alle Europee, ha ottenuto oltre il 25% dei voti. Primo partito, in Francia. In Italia, la Lega di Salvini, anch'essa in grande crescita. Ormai vicina a Forza Italia, secondo i sondaggi condotti prima delle festività. Ma oggi, presumibilmente, anche oltre. Salvini, non a caso, è intervenuto immediatamente. In modo esplicito e aggressivo. Ha echeggiato Jean-Marie Le Pen, ancor più della figlia Marine.

D'altronde, dovunque, in Europa, la presenza dei musulmani, nella popolazione, è largamente sovrastimata (indagine Ipsos MORI). Non è, dunque, un caso che tanto il Fn quanto la Lega - "nazionalizzata" e personalizzata da Salvini - siano apertamente anti-europei. Perché i due sentimenti risultano strettamente connessi e reciprocamente intrecciati, non solo nelle strategie di questi (e altri) soggetti politici, ma anche negli orientamenti sociali. Non a caso, in Italia, fra coloro che percepiscono l'immigrazione come una minaccia, la sfiducia nella Ue cresce fin quasi all'80%. Cioè, oltre il doppio rispetto alla popolazione. Si tenga conto che si tratta di stime calcolate in base a sondaggi (di Demos) condotti oltre un mese fa. Quando la "paura degli immigrati" coinvolgeva circa un terzo degli elettori. Un dato, probabilmente, accentuato dagli avvenimenti recenti.

Anti-europeismo e xenofobia (letteralmente: paura dello straniero) appartengono, d'altronde, alla medesima sindrome. Lo spaesamento. Riflette la perdita di riferimenti generata dalla mondializzazione. Dalla progressiva scomparsa dei confini che, comunque, offrono de-finizione, identità, riconoscimento. Una sindrome che si riflette nel crollo della fiducia in tutte le istituzioni pubbliche e nelle principali organizzazioni sociali, rilevato dall'Indagine 2014 sul "Rapporto fra i cittadini e lo Stato".

Per questo, al di là - e oltre - le intenzioni degli autori, è probabile che la sanguinosa aggressione di Parigi crei uno spazio favorevole ai soggetti e ai sentimenti anti-europei. Anche perché l'Europa, tanto attenta e sollecita a vigilare sui parametri economici e di spesa, appare altrettanto distratta e svagata di fronte alle questioni che riguardano la vita e la sicurezza delle persone. E, mentre vigila sulla moneta e sul mercato comune, si disinteressa della costruzione di una "difesa" comune. All'esterno e all'interno. Così, la Ue continua ad apparire una moneta e un mercato senza Stato. Incapace, anche per questo, di neutralizzare - ma anche di affrontare - la sfida del fondamentalismo islamico, che cresce al suo interno. Certo, ieri due milioni di persone e 50 capi di Stato e di governo, di tutto il mondo, hanno marciato a Parigi. In nome della libertà di espressione. Della convivenza fra idee e religioni diverse. Anche questo è un effetto, non previsto, del massacro compiuto dagli jihadisti. Segno di una coscienza collettiva. Che per risvegliarsi, però, ha bisogno di tragedie come questa. Certo, la grande manifestazione di ieri ha offerto un "buon esempio" dell'Europa che vorremmo. Non di quella che conosciamo. Perché marciare e morire per un Euro: non ha "senso".

© Riproduzione riservata 12 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/12/news/mappe_12_gennaio-104765850/?ref=HREA-1
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« Risposta #422 inserito:: Gennaio 24, 2015, 10:21:36 am »

Napolitano, riferimento di un Paese diviso

Di ILVO DIAMANTI
19 gennaio 2015

QUESTA VOLTA Giorgio Napolitano ha davvero concluso il suo mandato presidenziale. Dopo circa nove anni. Quasi due, da quando, nell'aprile 2013, accettò la ri-elezione. Per soccorrere un Parlamento dove ogni soluzione proposta era, puntualmente, naufragata. Fino alla candidatura di Romano Prodi, affondata dagli stessi parlamentari del Pd. Napolitano, allora, accettò per spirito di servizio. Per agevolare il corso delle riforme necessarie a rendere governabile lo Stato. Quasi due anni dopo, le riforme attese sono ancora in corso d'opera. Ma Napolitano si ferma.

D'altronde, ormai, è giunto alla soglia dei novant'anni. E gli ultimi due l'hanno invecchiato assai più dei precedenti. Egli, d'altronde, era succeduto a Carlo Azeglio Ciampi. Il quale aveva rafforzato la credibilità dell'istituto presidenziale, dopo la crisi degli anni Novanta. Napolitano era riuscito ad affermare in fretta la propria immagine. In particolare, dopo il ritorno di Silvio Berlusconi al governo, nel maggio 2008, in seguito al successo elettorale del centrodestra. Da allora, fino al passaggio fra il 2011 e il 2012, ha mantenuto un elevato grado di consenso.

Già alla fine del 2008, d'altronde, oltre il 70 per cento dei cittadini esprime (molta o moltissima) fiducia nei confronti del Presidente (dati e tabelle). Un consenso trasversale anche sotto il profilo politico. Infatti, supera l'80 per cento fra gli elettori del Pd, ma è vicino al 70 per cento anche fra quelli del Pdl. Perfino nella base elettorale della Lega la fiducia nei suoi riguardi è prossima al 60 per cento.

Ciò avviene, soprattutto, per due ragioni: A) la capacità di Napolitano di "bilanciare" la leadership politica di Berlusconi e B) al tempo stesso di garantire rappresentanza a un governo debole e poco credibile, sul piano europeo ma anche interno. Sempre sull'orlo della crisi. Più che un "arbitro", come si tende spesso a sostenere, Napolitano appare, dunque, un "garante". E un "contrappeso democratico". Così, diventa il principale riferimento unitario di un Paese diviso. E rafforza definitivamente questo ruolo in occasione dalle celebrazioni del 150enario dell'Unità nazionale, nel corso del 2011. Non per caso, durante l'anno, raggiunge e talora supera l'80 per cento dei consensi.

Tuttavia, verso la fine del 2011, il clima d'opinione nei confronti del Presidente comincia a cambiare. Soprattutto, a partire da novembre, quando Berlusconi si dimette e gli subentra Monti, alla guida di un governo tecnico di larghe intese. Definito "governo del Presidente". Sottinteso: della Repubblica. Da qui il successivo andamento ondivago del consenso nei suoi confronti. Fino alla conclusione del primo mandato, dopo le elezioni del febbraio 2013. Perché Napolitano è percepito, sempre più, come un attore politico "protagonista". A maggior ragione dopo la ri-elezione, avvenuta nell'aprile 2013. Perché, da allora, si aprono antiche e nuove divisioni, che ne indeboliscono il consenso. In primo luogo, egli perde il sostegno del centrodestra, dopo l'inibizione di Berlusconi dai pubblici uffici e dunque dal Parlamento. E dopo l'uscita di Forza Italia dalla maggioranza.

Così, dopo la fine (forzata) del governo Letta, anch'esso ispirato dal Presidente, il consenso per Napolitano scende. Si attesta intorno al 50 per cento. Quindi scende ulteriormente. Nonostante l'arrivo al governo di Matteo Renzi. Che restituisce il primato "politico", al presidente "del Consiglio". Il Presidente della Repubblica, però, è "stressato" dall'altra, grande, divisione, che attraversa il Paese, in questa fase. La "frattura antipolitica", interpretata da Grillo e dal Movimento 5 stelle. Che alimenta il distacco fra cittadini e istituzioni (sottolineato dalla recente indagine di Demos su "Gli italiani e lo Stato").

Così, alla fine del 2014, la fiducia nei confronti del Presidente si è ridotta al 44 per cento. Che costituisce, comunque, il livello più elevato fra le istituzioni. Circa dieci punti più dei magistrati, ma trenta più dello Stato e 37 più del Parlamento. Mentre la fiducia nei partiti è prossima allo zero. A sua volta, però, il consenso verso Napolitano è sceso di oltre trenta punti rispetto al 2011. È maggioritario solo fra gli elettori di centrosinistra e (seppure di poco) di centro. Mentre è molto basso fra gli elettori di centrodestra e, ancor più, del M5S.

Il Presidente interpretato da Napolitano, dunque, non appare più un riferimento unitario. Ma un soggetto politico e istituzionale. Un testimone della "democrazia rappresentativa". In tempi nei quali si respira un'aria di antipolitica, ostile alle istituzioni, ma anche alla democrazia rappresentativa. Per questo, la stanchezza di Napolitano è comprensibile. Ma non penso che andrà in pensione. Per molti anni ha recitato la parte dell'attore politico, più che del garante. Continuerà a farlo. Finché avrà energie.


© Riproduzione riservata 19 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/19/news/nove_anni_di_presidenza-105248065/
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« Risposta #423 inserito:: Gennaio 30, 2015, 05:39:36 pm »

Renzi, fiducia sotto il 50%. Berlusconi riprende fiato. Il Pd resiste a quota 36
Il premier resta nettamente il più affidabile tra i leader. Il sondaggio Demos registra però una crisi del suo feeling con l'opinione pubblica. La Lega non incassa l'effetto-Parigi. Grillo a un passo da quota 20

25 gennaio 2015

Di ILVO DIAMANTI

VIVIAMO tempi tragici, segnati dal sanguinoso assalto a Charlie Hebdo, due settimane fa. Mentre in Italia ci attendono scelte meno drammatiche ma, comunque, determinanti per il nostro futuro. Anzitutto, l'elezione del Presidente della Repubblica e l'approvazione della nuova legge elettorale. Eppure il clima d'opinione, rilevato dal sondaggio di Demos per l'Atlante Politico, non fa emergere eccessivi turbamenti. Semmai, alcuni cambiamenti, non del tutto prevedibili. E solo in parte coerenti con la fase recente.

LE TABELLE ---

Il Pd, nelle stime di voto, pur perdendo qualcosa rispetto a un mese fa, resta sopra il 36%. Tutti gli altri seguono a grande distanza. Per primo, il M5s. Nonostante le tensioni e le divisioni interne, è risalito, di poco. E sfiora il 20%. Ma le maggiori novità si osservano nel centro-destra. Forza Italia, dopo il declino degli ultimi mesi, è risalita di oltre due punti. Ora è vicina al 16% (15,8%). Ma, soprattutto, lascia indietro la Lega di Salvini. Sembrava in corsia di sorpasso. Inarrestabile. E invece si ferma al 13%. Un po' meno di un mese fa. Tutte le altre forze (e aree politiche) stazionano, sulle posizioni precedenti. Ad eccezione di Sel e della Sinistra, che arretrano di oltre 2 punti. Attestandosi sul 4%.
Si tratta, ripeto, di tendenze in parte inattese.

Partiamo dalla Lega. L'ondata emotiva sollevata dall'eccidio di Parigi e dalle tensioni intorno ai flussi migratori non sembra averne alimentato i consensi. Almeno, fino ad oggi. Anche se, in effetti, nell'ultimo anno, sono aumentati i timori suscitati dagli sbarchi. E dalla presenza degli immigrati. Percepiti come una minaccia all'ordine pubblico (34%), all'identità religiosa (30%), ma soprattutto all'occupazione (36%). A conferma che le preoccupazioni maggiori, per i cittadini, vengono dalla crisi economica. Dalla disoccupazione. Mentre la "minaccia islamica", il terrorismo non sembrano spaventare troppo. Almeno per ora. Così, la Destra le- penista di Salvini lascia spazio alla Destra filogovernativa. Che oggi non si limita più al Ncd. Ma comprende, appunto, Forza Italia. Silvio Berlusconi. Che, nei giorni scorsi, al Senato, ha garantito i voti necessari alla riforma elettorale. Berlusconi, d'altronde, ha ripetuto, anche di recente, l'auspicio di poter guidare la corrente azzurra del Partito della Nazione. Traduzione politica dell'accordo stretto, giusto un anno fa, da Renzi e Berlusconi. Il Patto del Nazareno: PdN. La stessa sigla del "Partito della Nazione". Una prospettiva che sembra avere restituito fiato a Berlusconi e a Fi. Mentre sta sollevando qualche problema di consenso al governo e al premier. E qualche dubbio fra gli elettori del Pd.

Secondo l'Atlante Politico di Demos, infatti, il gradimento del governo sarebbe sceso al 42% e la fiducia nei confronti di Matteo Renzi al 46%. In entram- bi i casi, si tratterebbe di un calo di 4 punti in un mese. Ma di oltre 10, rispetto a settembre e di quasi 30% rispetto a giugno.  All'indomani della vittoria alle Europee. Il momento di massimo consenso per Renzi e il suo governo. I quali, evidentemente, soffrono le conseguenze della crisi.

Il Jobs Act, la principale riforma avviata per dare risposta ai problemi dell'occupazione e del mercato del lavoro, non ha ancora prodotto effetti visibili. Ma ha, invece, aperto divisioni profonde, nella società e nei rapporti con il sindacato. Così, dopo tante attese, questo è il tempo della delusione e del dissenso. Che appannano l'immagine di Renzi e del suo governo. E alimentano la base elettorale del M5s. Megafono e amplificatore del disagio. Politico e sociale.

Renzi, peraltro, appare incalzato dal dissenso che sale dalla sinistra del Pd. Dove il malessere verso il PdN e, soprattutto, verso il leader della corrente azzurra risulta ampio e visibile. Il gradimento di Berlusconi fra gli elettori del Pd è, infatti, limitato al 12%. Fra gli altri leader  -  per grado di "sfiducia"  -  lo supera solo Grillo. Semmai, è interessante osservare come lo stesso Nichi Vendola disponga, nella base democratica, di un consenso ridotto: 23%. Simile a quello di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Anche se il leader di Sel è tra i riferimenti del nuovo soggetto politi- co di sinistra a cui guardano i parlamentari e i militanti del Pd in polemica e dissenso con Renzi  -  e il suo PD (R).

Il sondaggio di Demos, però, suggerisce che, per ora, queste divisioni interne non abbiano indebolito il Pd. Che mantiene un livello di consensi molto elevato. Nettamente superiore agli altri partiti. Lo stesso Renzi, il segretario-premier, ha visto il proprio consenso personale indebolirsi sensibilmente, negli ultimi mesi. Ma resta ancora nettamente al di sopra di tutti gli altri leader. "Inseguito" (a distanza) solo da Salvini. Mentre, sul piano politico ed elettorale, l'opposizione al Pd è condotta, principalmente, dal M5s e dalla Ligue Nationale, di Salvini.

A sinistra, invece, l'attuale offerta politica non appare ancora in grado di attrarre  -  e allargare  -  il dissenso interno al Pd. Così, per quanto indeboliti, Renzi e il Pd (R) sembrano ancora senza alternativa. E senza opposizione. O meglio, sfidati da un'opposizione anti-europea e/o xenofoba (nel caso della Lega) che, per questo, difficilmente possono presentarsi come alternativa "di governo". In Italia e, ovviamente, in Europa. D'altro canto, Renzi guida una maggioranza a "geometria variabile". Che gli permette di surrogare le defezioni interne con il sostegno di altri soggetti politici, per ora, esterni al Pd. Come Berlusconi. Appunto.

Insomma, Renzi governa questo "Paese impreciso" (come lo ha definito Edmondo Berselli) sfruttando le altrui debolezze. Ma ciò rischia di indebolire anche lui. Perché gli offre un consenso senza fiducia, (s) fondato sulla sfiducia negli altri. D'altronde, è il segno del nostro tempo. Il tempo della sfiducia.

© Riproduzione riservata 25 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/25/news/renzi_fiducia_sotto_il_50_berlusconi_riprende_fiato_il_pd_resiste_a_quota_36-105710166/?ref=HRER2-1
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« Risposta #424 inserito:: Febbraio 04, 2015, 08:04:58 am »

Un premier liquido per tempi liquidi

di ILVO DIAMANTI
02 febbraio 2015
   
SERGIO Mattarella e Matteo Renzi. I due Presidenti. Formano una strana coppia, tanto sono diversi e lontani. Anche se, fra i due, c'è un filo politico e culturale comune.

Mattarella è stato e resta un democristiano -  di sinistra. Uno di quelli che si definiscono -  e vengono definiti -  cattolici democratici. Renzi, invece, è post-democristiano. Interpreta un modello di (post) democrazia personalizzata e mediatizzata. Dove i partiti contano meno perché, in fondo, si sono liquefatti. Per questo l'elezione di Mattarella permette di precisare il tipo di leadership e di democrazia interpretati da Renzi. Leader dei tempi liquidi, al tempo della democrazia liquida. Secondo la nota formula di Zygmunt Bauman. Cioè: senza appigli stabili e senza riferimenti coerenti. In continua evoluzione e ri-definizione. Renzi ne ha fatto un ambiente amico. Dove agisce e decide, perlopiù, da solo.

Il confronto con la precedente elezione presidenziale, nell'aprile 2013, risulta, al proposito, esemplare. Allora, le elezioni politiche avevano fatto emergere un Parlamento diviso in tre grandi minoranze politiche. In-comunicanti e divise anche al loro interno. Pd, Pdl e M5s. L'elezione del Presidente ne ha fornito una prova decisiva. Ha, infatti, dimostrato che si era alla fine di una stagione in-finita. Il Berlusconismo. Una storia chiusa, ancora nel 2011. Senza che ancora se ne fosse preso atto. Riproponendo gli stessi riti e le stesse procedure. Come se il mondo fosse lo stesso di prima. Diviso in due. Pro oppure contro. Berlusconi. Come non fosse avvenuta l'irruzione del M5s. Veicolo della frattura fra società, politica e istituzioni. Così è stata bruciata la candidatura di Franco Marini, ex leader della Cisl e della Sinistra Dc. Ma, soprattutto, si è consumata la candidatura di Romano Prodi. Padre dell'Ulivo e del Pd. In aula. Per mano dei franchi tiratori del Pd. Molti più dei 101 di cui si è parlato. In questo modo è finita la finzione. Che si potesse continuare come prima. Con le stesse logiche di "partito". Quando i partiti erano finiti, insieme ai loro riferimenti. Crollati, insieme al muro di Arcore. La "proroga" di Napolitano al Colle segna questo passaggio in-compiuto. Perché è una non decisione. In attesa di tempi diversi. Leader diversi.

Due anni dopo, quei tempi sono maturati. Tempi liquidi. Segnati da partiti liquidi. Le tre grandi minoranze, uscite dal voto del 2013 non esistono più. Non sono più grandi come prima. Due di loro, almeno. Il Popolo delle Libertà, si è diviso in diversi popoli. Forza Italia, guidata da Berlusconi. Il Nuovo Centro Destra guidato da Alfano. Entrambi, peraltro, proprio in questa fase si sono scomposti ulteriormente. Mentre il M5s si è, a sua volta, frazionato, in Parlamento. Ormai non è chiaro quanti siano i "fedeli" a Grillo e Casaleggio. E quanti parlamentari abbiano defezionato. Quel che resta del Centro, infine, si è riunito in un'altra sigla: Alleanza Popolare. Ma, in effetti, appare una periferia del PdR. Il Pd di Renzi. Il principale, se non unico, vero "partito" di governo. Sfidato, solamente, da partiti anti-europei e anti-politici. M5s e la Lega di Salvini, per primi. Tuttavia, lo stesso Pd non si presenta unito. È "geneticamente" diviso. Negli ultimi mesi, minacciato dalla tentazione della sinistra interna di integrarsi con Sel. Per formare una sorta di Tsipras all'italiana.

Ripercorro fatti e avvenimenti noti. In modo disordinato e superficiale. Ma in grado, anche così, di rendere più evidente il segno di questa Repubblica. Di questa democrazia. Liquida. Senza schemi né riferimenti stabili. In questo ambiente immateriale e frammentario Matteo Renzi ha affermato la propria leadership. In Parlamento e fra gli elettori. Renzi, come si è detto fin dal suo esordio, è "veloce". Mimetico. Spregiudicato. Spietato, se necessario. Ha stabilito, da subito, un dialogo con il Nemico. Berlusconi. Un Patto, si è detto, intorno alle riforme istituzionali e alla riforma elettorale. Ma poi ha proceduto diritto al "suo" scopo. Scegliendosi di volta in volta i nemici prima ancora degli amici. A Destra e a Sinistra. Il Centro l'ha assorbito subito.

Così, ha avviato e impostato le riforme con alleati diversi. Il Jobs act e l'abolizione del Senato elettivo. Fino alla riforma elettorale. L'Italicum. Di cui è difficile delineare i contorni, dopo tante mediazioni e riscritture. Modellando, di volta in volta, maggioranze a' la carte. Di volta in volta diverse, a seconda dei casi e degli obiettivi. Primo alleato: Berlusconi. Formalmente all'opposizione ma, puntualmente, a sostegno delle maggioranza, nelle occasioni che contano. Fino a ieri. Cioè, fino all'elezione del Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella. Che non piace a Silvio Berlusconi. Per ragioni "storiche", trattandosi di un "cattocomunista". A suo tempo, ostile alla legge Mammì. Ma anche per ragioni "politiche" legate al presente. Anzi, al "momento". Perché Renzi l'ha scelto senza consultarlo. Senza accordarsi con lui. E, in fondo, senza consultare nessuno. Così ha "liquefatto" ulteriormente Fi, Ncd e M5S. Ma ha riunito  -  e solidificato  -  il Pd. E la Sinistra, con cui il Pd si era alleato alle elezioni politiche del 2013.

Da ciò la differenza rispetto al 2013, quando l'elezione del Presidente aveva sancito l'impotenza del Pd e della sua leadership. Avviandone la crisi. La scelta di Mattarella, invece, oltre che al Paese, è utile a Renzi. Perché lo rafforza. Lo àncora alla storia politica del Centrosinistra, mentre lo dis-àncora da ogni alleanza stabile. Fuori e dentro il partito.

Renzi: è il premier dei tempi liquidi. Un "premier liquido". Capace di cambiare forma. E di adattarsi a un sistema politico liquefatto. Renzi. Solo e veloce. Senza veri amici (politici). Questa è la sua forza. Ma anche il suo problema. Perché non ha vincoli. Ma neppure appigli e approdi stabili. Non ha neppure futuro. In questi tempi liquidi: esiste solo il presente. Ogni giorno: un porto nuovo. Un equipaggio diverso. E nuove insidie, nuovi nemici. Il viaggio potrebbe diventare faticoso. E rischioso. Anche per un navigatore liquido.

© Riproduzione riservata 02 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/02/news/un_premier_liquido_per_tempi_liquidi-106326608/?ref=HRER2-1
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« Risposta #425 inserito:: Febbraio 07, 2015, 09:43:39 am »

Atlante politico: effetto Quirinale anche sul premier
Il nuovo presidente della Repubblica parte da dove aveva cominciato Napolitano nel 2006. La sua elezione sembra giovare a Renzi, la cui popolarità risale di tre punti, toccando il 49 %. In crescita Vendola e Sel, ma anche i partiti di centro: oltre il 5 per cento. 5Stelle stabili. Sì a Mattarella da 6 italiani su 10 e anche il governo recupera Il Pd torna a salire, Fi e Lega giù

Di ILVO DIAMANTI

POCHI giorni dopo l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, il clima d'opinione verso le istituzioni e il sistema politico, fra gli italiani, è cambiato. In particolare, è migliorata l'immagine del governo e del suo premier. Inoltre, si è rafforzato il PD. Ma, soprattutto, è risalita in modo repentino la popolarità del Presidente. Il sondaggio appena concluso da Demos per l'Atlante Politico rileva, infatti, come il 59% degli italiani (intervistati) esprima (molta o moltissima) fiducia nei confronti di Sergio Mattarella. Si tratta, dunque, di 15 punti in più rispetto a Giorgio Napolitano, al momento della conclusione del suo (secondo) mandato. In altri termini, 6 italiani su 10 oggi attendono il Presidente con fiducia.

LE TABELLE …

Una maggioranza larga, come quella, d'altronde, che aveva guardato con fiducia Napolitano, al momento dell'insediamento, nel maggio 2006. E ha continuato a sostenerlo, per molti anni. Unico riferimento unitario di un Paese diviso. Oggi, evidentemente, il Paese attende, spera, di potersi riunire di nuovo intorno al Presidente. Anche se i consensi nei suoi riguardi riflettono, sostanzialmente, le dinamiche politiche che ne hanno accompagnato l'elezione. Il sostegno a Mattarella, infatti, è molto elevato a centrosinistra. Anzitutto fra gli elettori del PD. Ma è ampio anche nella base di SEL e del Centro (prossimo al 60%). Mentre è molto più limitato (30% -40%) fra gli elettori di FI e del M5s. Che, in Parlamento, non hanno votato per Mattarella. Il quale, invece, ottiene un consenso (di poco) maggioritario dalla base elettorale della Lega e dei Fratelli d'Italia.

Il nuovo Presidente della Repubblica, dunque, sembra aver ristabilito il legame di fiducia con gli italiani. Tuttavia, le stesse ragioni che avevano prodotto il distacco fra il Quirinale e l'opinione pubblica, durante l'ultimo anno, incombono ancora. E rischiano di complicare, presto, il percorso presidenziale di Mattarella. Chiamato, da subito, a confrontarsi con la nuova legge elettorale e le riforme costituzionali. In un contesto politico segnato da nuove tensioni. Anzitutto, dal contrasto fra Renzi e Berlusconi, che si è acceso proprio in occasione dell'elezione del Presidente. Il PdN, il Patto del Nazareno, oggi sembra meno solido. Secondo alcuni, si sarebbe perfino dissolto.

A guardare i dati dell'Atlante Politico, però, questa frattura (se di frattura davvero si tratta), ma, soprattutto, l'elezione presidenziale sembrano aver fatto bene al governo e al premier. La fiducia nei confronti del governo, infatti, è risalita di 4 punti nell'ultimo mese. Oggi è al 46%, come in dicembre. Ha recuperato consensi presso gli elettori di tutti i principali partiti. Per primo, evidentemente, il PD (quasi 80%). Ma anche SEL e AP. Perfino FI e il M5s. Unica eccezione: la Lega e i Fratelli d'Italia. Parallelamente, è cresciuta anche la popolarità personale di Renzi. "Stimato" dal 49% degli elettori, 3 punti in più del mese scorso. Una ripresa significativa, per quanto limitata, perché avviene dopo mesi di declino. Renzi, peraltro, è il leader di partito che vede aumentare maggiormente il proprio credito, insieme a Vendola e alla Meloni. Anche se l'unica "opposizione personale" al premier continua ad essere proposta da Matteo Salvini. Il leader della Lega, ormai proiettato decisamente oltre il Po.

È, tuttavia, interessante osservare come gli orientamenti di voto, in questa occasione, siano solo in parte coerenti con le valutazioni "personali" sui leader. Se non per quel che riguarda Renzi e il "suo" partito. Alla ripresa di consensi del Capo, infatti, corrisponde la crescita del PD, che, secondo le stime di Demos, rispetto a gennaio, è aumentato quasi di un punto e mezzo e si attesta al 37,7%. Il livello più alto da ottobre. Peraltro, ormai pare non aver più avversari. Salvo il M5s, che resta attestato poco sotto il 20%. Unica opposizione, che, tuttavia, non riesce a entrare nel gioco delle alleanze. Percepito (e usato) dagli stessi elettori non tanto come alternativa di governo, ma come canale di dissenso. Malessere. Verso tutti. Calano, invece, i consensi ai principali partiti di Destra. Forza Italia: supera di poco il 14%. La stessa Lega, dopo molti mesi, conosce un arretramento significativo. Si ferma all'11%. Molto, rispetto alle Europee, e ancor più rispetto alle politiche del 2013. Ma 2 punti meno di dicembre. Lontana da Renzi e dal PD. Arretra anche di fronte a Berlusconi e a FI. Fra gli altri partiti, infine, crescono, in particolare, SEL e la Sinistra, ma anche i partiti di Centro. Entrambi oltre il 5%. Segno di una crescente "centrifugazione" del voto.

L'elezione di Sergio Mattarella sembra, dunque, aver rafforzato anzitutto l'istituzione che egli rappresenta. Il Presidente della Repubblica. Oggi è guardato con fiducia e speranza dalla maggioranza degli italiani. Questa elezione, però, ha restituito credito al Partito e al Governo di Renzi. Il PdR e il GdR escono rafforzati da questo passaggio. Insieme, ovviamente, al loro Capo (per citare una formula di Fabio Bordignon). Anche se si tratta di una fiducia "a termine". In vista delle prossime, urgenti, scadenze.

Economiche e istituzionali. Di certo, in questa fase, l'Italia appare un sistema mono-polista, più che bi o multi-polare. Perché ha un solo, unico Capo e un solo, unico partito che contino. Anche se, in Parlamento, la maggioranza del Governo di Renzi dipende da alleanze a geometria variabile - e instabile. Soprattutto dopo che il PdN si è logorato, se non spezzato. Anche perché Berlusconi, insieme a FI, appare indebolito dall'elezione presidenziale.

Per questo, a mio avviso, il Capo - del Governo e del PdR continua a pensare a nuove elezioni. Appena possibile. Anche se il percorso e i vincoli imposti dalla nuova legge elettorale rendono questa possibilità poco possibile. Ma governare un Parlamento eletto in epoca prerenziana, con un PD -  allora bersaniano, inseguendo consensi liquidi, di giorno in giorno, penso che per Renzi sia sempre meno sopportabile. Psicologicamente, prima ancora che politicamente.

© Riproduzione riservata 07 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/07/news/effetto_quirinale_anche_sul_premier-106717002/?ref=HRER2-1
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« Risposta #426 inserito:: Febbraio 24, 2015, 04:45:10 pm »

La Repubblica extra-parlamentare

Di ILVO DIAMANTI
16 febbraio 2015
   
I parlamentari del M5s hanno ingaggiato una lotta serrata, quasi un corpo a corpo, contro la riforma del Senato, progettata dal governo. Affiancati dai parlamentari di Sel e della Lega, insieme ad alcuni dissidenti del Pd. E alla stessa FI, che, in un'altra epoca politica, aveva contribuito a scrivere e a sostenere la riforma.

Un'opposizione tanto aspra appare dettata da ragioni di metodo, oltre che di merito. È, cioè, una reazione al rifiuto di discutere gli emendamenti. Dunque, di discutere. Votando a oltranza, giorno e notte. Questa vicenda sintetizza, plasticamente, questa difficile fase della nostra democrazia. Da un lato, Renzi e il "suo" Pd, decisi a tutto, pur di raggiungere gli obiettivi dichiarati, nei tempi più rapidi. Dall'altro, il M5s, specializzato nel fare controllo, resistenza. Intorno, gli altri partiti, di sinistra e, soprattutto, di destra. Poco influenti, se non in-influenti.

Da un lato, la "democrazia decisionale e personalizzata", di Renzi. Dall'altra, la "contro-democrazia" (come la chiama Rosanvallon), la democrazia della sorveglianza di Beppe Grillo. Un modello che spiega, in larga misura, il consenso di cui, oggi, sono accreditati i due principali soggetti politici, dai sondaggi. Non solo il Pd, stimato intorno al 36-37%. Ma anche il M5s. Nonostante che il suo gruppo parlamentare appaia diviso e sempre più ridotto. Nonostante svolga un'azione  -  prevalentemente  -  di controllo, difficile da spendere, sul piano del consenso. Eppure, resta il secondo partito in Italia. Stimato, dai principali istituti demoscopici, fra il 18 e il 20%. Lontano dal Pd. Circa la metà. Ma molto sopra gli altri partiti, che non superano il 14-15%. Lega e FI comprese.

La relativa ampiezza del bacino elettorale del M5s, in effetti, si spiega, anzitutto, con la base del dissenso verso le istituzioni e gli attori politici, molto estesa in Italia. Un disagio senza voce e senza bandiere. Senza storia e senza utopia.

La quota di elettori del M5s che esprime (molta o moltissima) fiducia nei confronti del Presidente della Repubblica appena eletto, per esempio, è circa il 30% (Demos, febbraio 2015). Metà, rispetto alla media della popolazione. Mentre la fiducia verso il Parlamento, fra gli elettori del M5s, scende al 5%. Circa un terzo rispetto alla media degli elettori. Si potrebbe, per questo, parlare di un'opposizione "antipolitica". Ma il discorso non è così semplice. La componente "esterna" allo spazio politico, coloro, cioè, che rifiutano di collocarsi lungo l'asse destra/sinistra, è, infatti, ampia, ma comunque, minoritaria (circa un terzo, Demos gennaio 2015). Mentre, in maggioranza, gli elettori del M5s appaiono distribuiti un po' in tutti i settori "politici". A destra (18%), sinistra (28%) e al centro (20%). Peraltro, il M5s è anche il partito meno "personalizzato". Nel senso che Beppe Grillo è il meno "stimato" fra i leader dei principali soggetti politici. Esprime, infatti, fiducia nei suoi riguardi quasi il 19% degli elettori. Circa 10 punti meno, rispetto allo scorso maggio. Certo, fra gli elettori del M5s la sua popolarità sale al 70%. Ma si tratta, comunque, del livello di fiducia più limitato ottenuto dai leader fra gli elettori del proprio partito. A conferma che il voto al M5s non è "personalizzato". E nemmeno "progettuale". Unito da un'identità comune. Ma, piuttosto, largamente e radicalmente "critico". Verso i principali partiti, verso le principali istituzioni. Insomma, verso la democrazia rappresentativa.

E ciò induce a riflettere, di nuovo, su questa particolare fase della nostra storia politica. Della nostra democrazia. Caratterizzata da una sorta di "tri-polarismo imperfetto". Dove agisce un solo soggetto politico di governo, il Pd, sfidato da alcuni soggetti che fanno opposizione, in Parlamento e nella società. Ma senza proporre alternative reali. Una situazione che potrebbe evocare la (cosiddetta) prima Repubblica, quando la Dc governava senza che il principale partito di opposizione, il Pci, potesse davvero subentrare al governo. A causa del vincolo internazionale, risolto solo dopo la caduta del muro  -  e dei regimi comunisti  -  nel 1989.

Oggi, però, la questione è diversa. In quanto il Pd di Renzi appare senza alternativa non per vincoli esterni, ma interni. Anzitutto: per il declino di Berlusconi, che, per vent'anni, ha occupato lo spazio di centrodestra. Personalizzandolo e rendendolo impraticabile per altri soggetti politici liberal-democratici. In secondo luogo, per l'emergere e l'affermarsi di un crescente malessere contro i soggetti e le istituzioni della nostra democrazia rappresentativa, intercettato e canalizzato dal M5s. Così, oggi le opposizioni, in Parlamento e all'esterno, appaiono deboli e improponibili. E ciò appare particolarmente critico, mentre si lavora per riformare le istituzioni democratiche  -  superando, anzitutto, il bicameralismo "paritario". E per ridefinire la legge elettorale. Perché è difficile, oltre che discutibile, riformare la Costituzione e le regole della democrazia senza dialogo e senza condivisione. Tanto più se il partito di maggioranza  -  l'unico soggetto politico effettivamente organizzato  -  è, comunque, "minoranza" (per quanto larga) fra gli elettori. E riesce a garantirsi la maggioranza, alle Camere, attraverso alleanze variabili e la transumanza di diversi parlamentari (come hanno segnalato, nei giorni scorsi, Stefano Folli e Roberto D'Alimonte).

Mentre le opposizioni sono, fra loro, eterogenee, in parte estranee. Lontane. Da ciò questo strano tripolarismo imperfetto, che "oppone" il Pd di Renzi  -  personalizzato come il "suo" governo  -  a soggetti politici, che oggi non appaiono alternativi. Da un lato, a centrodestra, FI e la Lega sono concorrenti.
E nessuna delle due pare in grado di affermare la propria leadership. FI continua a dipendere dal destino di Berlusconi. Mentre la Lega investe sul sentimento anti-europeo e anti-politico. Ma per questo le è difficile proporsi come attore di governo. Anche se si proietta a Sud. D'altra parte, il M5s propone un'alternativa alla democrazia rappresentativa, più che di governo. Per questo, appare in contrasto con il funzionamento stesso del Parlamento. Fino a minacciare le dimissioni dei propri parlamentari, per provocare lo scioglimento delle Camere. Dove, per motivi diversi, "non" siedono Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini, i leader dei principali partiti, di maggioranza e opposizione. È l'ennesima singolarità (per non dire anomalia) della nostra democrazia. Di questa Repubblica extra-parlamentare.

© Riproduzione riservata 16 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/16/news/la_repubblica_extra-parlamentare-107426964/?ref=HRER2-1
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« Risposta #427 inserito:: Febbraio 24, 2015, 04:46:22 pm »

Dove girano le eliche

17/02/2015
Massimo Gramellini

Colpito da malore durante una vacanza ad Alghero, il dottor Gaetano Marchese ha rifiutato il ricovero nel vicino ospedale di Sassari e si è fatto dare uno strappo fino a Palermo dall’elicottero del 118 siciliano di cui è direttore. La notizia, orgogliosamente sbandierata dal 118 come prova di efficienza, è di sicuro una prova di attaccamento alla propria terra di origine. Tra le lenzuola del nosocomio sardo l’esimio Marchese sarebbe stato accudito meglio di un principe. Ma è nel momento del bisogno che l’uomo sente risuonare con più prepotenza il richiamo delle radici. Ed è commovente che la comunità abbia assecondato quel richiamo, mettendo a disposizione del Marchese in ambasce un velivolo del pronto soccorso diretto dal Marchese medesimo. 

Qualcuno ipotizza favoritismi e abusi di potere. Figuriamoci, la regola del Marchese varrà per tutti i cittadini. Ovunque nel mondo ci colga un malore, basterà chiamare il 118 siciliano per vedere stormi di elicotteri levarsi in volo come in una scena di «Apocalypse Now». Di giorno e di notte, come nel suo caso. Dite di no? Dite che l’altra settimana a Catania, quando si è trattato di farne decollare uno per porre in salvo una neonata, a levarsi in volo sono stati solo i consueti ostacoli burocratici? Temo abbiate ragione. Invece di vantarsi dell’efficienza che il 118 ha dispiegato soltanto per lui, forse il Marchese (del Grillo?) farebbe meglio a provare un po’ di imbarazzo, perché nell’aria si sente già uno straordinario giramento di eliche. Quelle dei contribuenti.

Da - http://www.lastampa.it/2015/02/17/cultura/opinioni/buongiorno/dove-girano-le-eliche-KWJKX0sSjtdGkyqNL4sYuL/pagina.html
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« Risposta #428 inserito:: Febbraio 27, 2015, 04:29:58 pm »

Dietrofront degli italiani, ora sono i più euroscettici

Il sondaggio. Le risposte di sei Paesi sulla fiducia nell'Unione Europea. Il 37% dei tedeschi vuole uscire dall'euro.
Seconda l'Italia con il 30%, ma la percentuale sale al 42-43% in Forza Italia e Lega e scende al 18% nel Pd

Di ILVO DIAMANTI
23 febbraio 2015

TIRA una brutta aria in Europa. Verso l'Unione e, più ancora, verso l'euro. Anzitutto in Grecia, dove il governo di Tsipras ha siglato con l'Eurogruppo un'intesa tutt'altro che cordiale. Basata sulla reciproca diffidenza. Ciascuno convinto di aver imposto all'altro le proprie ragioni. Un sentimento, tuttavia, molto diffuso anche altrove. Per averne una misura attendibile, è sufficiente scorrere i dati del sondaggio condotto nelle ultime settimane in 6 Paesi europei da Demos e Pragma (per la Fondazione Unipolis). È parte del-l'VIII Rapporto sulla Sicurezza in Europa (a cui ha partecipato l'Osservatorio di Pavia), che verrà presentato a Roma domani pomeriggio (a Montecitorio). Colpisce, anzitutto, il grado di fiducia verso l'Unione Europea. È, infatti, maggioritario soltanto in Germania. Non per caso, peraltro, vista l'influenza tedesca sulle politiche comunitarie. Ma appare limitato altrove. In Francia, in Spagna e in Polonia: coinvolge circa quattro cittadini su dieci. Mentre risulta largamente minoritario in Gran Bretagna e ancor più in Italia. In assoluto, il Paese più euroscettico, fra quelli indagati dall'Osservatorio (solo il 27% ha fiducia nella Ue). Si tratta di un orientamento già osservato, in altre, precedenti, ricerche presentate su Repubblica. Da ultimo: nell'indagine sul "Rapporto fra gli italiani e lo Stato", pubblicata alla fine del 2014.

LE TABELLE …

Una ulteriore conferma che l'Europa unita non piace a gran parte degli europei. E se la maggioranza di essi continua ad accettarla è per prudenza. Anzi, per paura. Di quel che potrebbe accadere se non ci fosse. Di quel che potrebbe capitare a chi uscisse dall'Unione. Questo sentimento è tanto più evidente se si considerano le opinioni verso la moneta unica. L'euro. Causa  -  comunque, indice  -  principale e più evidente del disagio e del dis-amore degli europei verso l'Europa.

L'euro: solo una minoranza ristretta dei cittadini dei Paesi dove è stato introdotto lo ritiene una scelta vantaggiosa. Circa il 10% in Italia. Poco più in Germania. Il 20% in Spagna e in Francia. Mentre per la maggioranza della popolazione (45-50%) è un "male necessario". Teme che abbandonarlo sarebbe peggio. Tuttavia, circa un terzo dei cittadini in Italia, se potesse, lascerebbe l'euro. E in Germania, la "guardiana" (e la padrona) dell'euro, quasi il 37% ha nostalgia del marco. L'euro, peraltro, non suscita alcun desiderio nei Paesi dove non c'è. In Polonia e in GB poco più del 10% della popolazione (intervistata) sarebbe favorevole a introdurlo. Mentre 7-8 persone su 10 non ci pensano proprio. Così, gli europei si scoprono sempre più "euroscettici" e "scettici verso l'euro". Per la reciproca influenza fra "euro-scetticismo" e "scetticismo verso l'euro". Perché l'euro è una moneta senza Stato. Mentre l'Unione Europea sembra affidare, sempre più, alla moneta la propria sovranità. E la propria identità. In politica estera, nelle politiche sociali e demografiche, invece, la UE risulta assente. Basti pensare a quel che avviene sulle nostre coste, di fronte agli sbarchi dei disperati, in fuga dal terrore, che si susseguono, incessanti. Oppure di fronte alla minaccia dell'IS, divenuta devastante in Libia. Praticamente, a due passi da noi. Emergenze scaricate, come sempre, sugli Stati nazionali. Che agiscono seguendo le loro logiche (interne) e i loro interessi (esterni).

Così, un po' dovunque cresce l'Anti-europeismo, insieme ai soggetti politici che ne hanno fatto una bandiera. In Italia, la contrarietà verso l'euro è molto ampia  -  superiore al 40%  -  non solo fra gli elettori vicini alla Lega, ma anche tra i simpatizzanti di Forza Italia e del M5s. Mentre in Francia l'ostilità verso la moneta unica coinvolge circa un terzo degli elettori dell'UMP (centro-destra) e, soprattutto, quasi metà di quelli del Front National. È, però, in GB che l'euro-scetticismo appare più ampio, come si è detto. In tutte le direzioni politiche. Fra i Laburisti e (ancor più) i Conservatori. Ma, ovviamente, soprattutto fra gli Indipendentisti. Visto che oltre 9 elettori su 10 dell'UKIP avversano la moneta unica. E l'85% la UE. D'altronde, questo partito ha fatto dell'antieuropeismo la propria "ragione sociale". E ne ha tratto grande vantaggio alle elezioni locali, ma soprattutto alle successive Europee del 2014, quando si è imposto come primo partito, in GB, con circa il 27% dei voti. D'altronde, in Francia, il FN, guidato da Marine Le Pen, amplificando il messaggio antieuropeo, si è affermato, proprio alle Europee, con il 25%. E oggi è accreditato del 30% dai principali istituti demoscopici, che lo indicano come probabile vincitore alle prossime départementales di fine marzo.

L'antieuropeismo, associato alla paura dello straniero e alla chiusura verso gli immigrati, è, dunque, divenuto una "frattura" che attraversa i sentimenti e i sistemi politici in Europa. In Italia, è interpretata soprattutto, ma non solo, dalla Lega di Salvini. Che dal Nord sta scendendo, sempre più a Sud. Non per caso ha organizzato una manifestazione a Roma, proprio domenica prossima. Ma ne ha annunciata un'altra, in aprile, insieme ai Fratelli d'Italia, con la presenza di Marine Le Pen. Per rafforzare l'alleanza  -  e la frattura  -  antieuropea. La crisi greca, dunque, non può essere trattata come un male "regionale". Confinato ai margini dell'Europa. Perché riflette e riverbera un malessere diffuso. Che si respira dovunque. In Italia, evidentemente. Ma anche in Francia. In Spagna. Nella stessa Germania. Non credo proprio che l'Unione Europea possa proseguire a lungo il suo cammino "confidando" sulla "reciproca sfiducia" e sulla "paura degli altri". In nome di una moneta impopolare. Io, europeista convinto, penso che non sia possibile diventare "europei per forza". O "per paura".

© Riproduzione riservata 23 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/23/news/dietrofront_degli_italiani_ora_sono_i_pi_euroscettici-107966314/?ref=HRER2-1
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« Risposta #429 inserito:: Marzo 03, 2015, 05:11:45 pm »

Padana, nazionalista e "personalizzata", ecco la tripla Lega alleata di CasaPound
La piazza romana ha sancito la mutazione genetica del Carroccio. Baricentro verso il Sud, primi bersagli l'immigrazione e l'"eurocrazia"

di ILVO DIAMANTI
02 marzo 2015

LA LEGA non è più la stessa. L'ultimo partito rimasto, dopo la fine della (cosiddetta) Prima Repubblica. L'unico ad aver mantenuto la stessa etichetta da 25 anni. La Lega, appunto. Dopo la manifestazione romana di sabato non è più la stessa di prima. Soprattutto e anzitutto perché Roma fa parte della sua "identità genetica". "Roma ladrona, la Lega non perdona", era lo slogan dei vecchi tempi. Vecchi, appunto. Quando Roma era luogo e simbolo dello Stato Centrale da espugnare. Per conquistare l'indipendenza del Nord. E per "bonificare" il Sud assistito  -  sfruttando le risorse del Nord produttivo. Certo, la Lega era arrivata già da tempo a Roma, dove i suoi parlamentari si erano trovati piuttosto bene. Così era divenuta anch'essa  -  abbastanza  -  "romana". Un sindacato del Nord insediato nella Capitale. Anche per questo era declinata, dal punto di vista elettorale. Insieme al mito del Nord Padano.

LE TABELLE …

Roma, comunque, era  -  è  -  sempre rimasta il simbolo dell'anticentralismo e dell'antipolitica, secondo la Lega. Fino a sabato, appunto. Quando alcune decine di migliaia di leghisti sono arrivati a Roma. Non per contestarla. Ma per conquistarla. Meglio: per conquistare la legittimità. Di italiani. La Lega Nazionale, la Ligue Nationale, versione italiana del Front National di Marine Le Pen, ha sfilato nella capitale (italiana) e si è radunata a Piazza del Popolo (italiano). Insieme ai Fratelli d'Italia (appunto) e ai circoli di CasaPound. La Destra della Destra. Tutti insieme, intorno al giovane leader, Matteo Salvini. Artefice della mutazione genetica leghista che ha permesso al partito un rilancio impensabile, appena due anni fa. Quando, ricordiamo, la Lega Nord  -  guidata, all'epoca, da Roberto Maroni  -  alle elezioni politiche aveva racimolato il 4,1%. Il dato più basso dal 2001. Salvini, divenuto segretario nel dicembre 2013 (dopo aver schiacciato, alle primarie, Umberto Bossi), ha cambiato l'immagine e l'identità della Lega. Molto rapidamente. Con effetti evidenti. Anzitutto sul piano dei consensi. Non a caso, alle elezioni Europee, lo scorso maggio, la Lega è risalita oltre il 6%. Ma i sondaggi, attualmente, la collocano intorno al 12-13%. Cioè: il livello più elevato della sua storia.

La Lega di Salvini oggi incalza Forza Italia. E le contende la leadership del Centro-destra. Si tratta di un percorso che abbiamo già seguito e descritto in passato. Ma oggi appare più evidente. Dal punto di vista territoriale, anzitutto, la Lega ha spostato il baricentro a Centro-Sud. Infatti (secondo i sondaggi più recenti di Demos) supera il 20% nelle regioni del Nord, si avvicina al 10% nelle regioni del Centro (tradizionalmente di Sinistra) e pare aver sfondato nel Centro-Sud (intorno a Roma e il Lazio), dove ha superato il 13%. Ma è oltre il 6% perfino nel Sud e nelle Isole. Per questo è "scesa" a Roma: perché ormai è nazional-popolare. O forse: nazional-populista, visti gli argomenti che utilizza, come slogan e come bandiera. Non più l'indipendenza  -  affidata ai movimenti regionali, in Veneto e Lombardia. Ma l'opposizione contro il duplice nemico: l'Europa dei burocrati e gli immigrati, che ci invadono. I bersagli comuni ai populismi europei. Per primo il FN di Marine Le Pen. E gli epigoni nazionali (sti) minori ed estremi  -  anzi: estremisti  -  con cui sabato ha sfilato a Roma. Per prima: CasaPound.

La manifestazione di Roma, però, ha accentuato il tratto politico, oltre che antipolitico, della Lega di Salvini: l'opposizione a Renzi e al suo governo. Ha, inoltre, rilanciato la candidatura di Salvini alla guida del Centro-destra. Un progetto che sembra procedere spedito. La popolarità di Salvini, infatti, è intorno al 33%. Secondo solo a Renzi e molto al di sopra rispetto a tutti gli altri leader. Peraltro, il profilo "politico" degli elettori leghisti, in contrasto con le posizioni del leader, sembra essersi spostato a Centro-destra, più che a Destra, rispetto alle elezioni politiche del 2013. Per effetto, probabilmente, dell'afflusso di molti elettori di FI, ma anche dell'NCD. D'altronde, anche il FN, in Francia, ha intercettato molti elettori di Destra, che votavano per i partiti moderati (l'UMP, soprattutto). E oggi, nei sondaggi, appare vicino al 30% dei consensi. Un obiettivo ancora lontano, per la Lega di Salvini. Che deve misurarsi con la "resistenza" di Berlusconi e FI, a Destra, e con la concorrenza del M5s sul versante della protesta anti-politica. Tuttavia, è indubbio che si tratti di un soggetto politico in crescita e in costante evoluzione. In grado di rivolgersi a diversi elettorati. Gad Lerner, nella sua efficace analisi, ieri ha definito la Lega "il camaleonte verdenero". Sottolineandone le capacità mimetiche (come fece, vent'anni fa, Giovanna Pajetta, nel libro "Il grande Camaleonte"). Tuttavia, è possibile descriverla diversamente. Come somma e risultante di tre soggetti politici. Tre Leghe. 1) La Lega Padana: riproduce le radici storiche del partito. Mantiene la sua base elettorale a Nord, dove ha una struttura organizzativa e un elettorato fedele, oltre a una presenza estesa nei governi e nelle amministrazioni. 2) La Ligue Nationale. La Lega Nazionale e Lepenista. Alleata di CasaPound. Antipolitica, impiantata sull'antieuropeismo e sulla paura degli altri. Soprattutto degli stranieri. Riflette una "sindrome" presente in tutto il territorio nazionale. Dove coinvolge e scuote circa il 25% degli elettori. Ma oltre il 50% nella Lega. Ed è diffusa, in modo omogeneo, in tutte le aree del Paese. 3) Infine, la Lega "personalizzata": "Noi con Salvini". Un soggetto politico che integra e compone le altre Leghe. Intorno al figura del Capo, in grado di comunicare con linguaggi diversi a pubblici diversi. Ai Duri e Puri e agli uomini spaventati. Ma anche al "pubblico" medio e mediatizzato. Perché Salvini è Pop. Invitato e inseguito da tutti i media.

Così, le tre Leghe, guidate da Salvini, sono arrivate a Roma e si sono spinte a Sud. Promettono  -  e minacciano  -  di prendere la guida dell'opposizione. Ma è difficile che possano costituire un'alternativa di governo. Il loro equilibrio, peraltro, resta instabile. E rischia di spezzarsi, in ogni momento. Perché la Lega Padana e la Lega Nazionale sono troppo diverse e troppo distanti, per territorio e identità. L'impresa di tenerle unite, nel segno della paura, contro un nemico senza volto (e con molti volti), contro gli stranieri, l'Europa, il mondo, Roma ladrona e contro Renzi: appare ardua. Anche per un Leader Pop  -  agile, abile e determinato  -  come Salvini.

© Riproduzione riservata 02 marzo 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/02/news/padana_nazionalista_e_personalizzata_ecco_la_tripla_lega_alleata_di_casapound-108522142/?ref=HRER2
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« Risposta #430 inserito:: Marzo 19, 2015, 05:57:46 pm »

Una nuova sinistra extra-parlamentare
Mappe.
Landini ha annunciato la sua "discesa in piazza".
Non una lista in prospettiva elettorale, perché non è uno sprovveduto e sa che a sinistra non c'è spazio

Di ILVO DIAMANTI
16 marzo 2015

MAURIZIO Landini ha annunciato la sua prossima “discesa in piazza”. A capo di un movimento di opposizione, che ha già previsto una prima occasione per mobilitarsi. La manifestazione del 28 marzo contro le politiche economiche e sul lavoro del governo Renzi. Per primo: il Jobs Act. Non un partito, dunque.

Non una lista in prospettiva elettorale. Perché Maurizio Landini non è uno sprovveduto. E sa che, a sinistra, in Italia non c’è spazio. Oggi. Anche perché, fino a ieri, gran parte di questo spazio è stato occupato dal Partito Comunista e dai suoi eredi. Il Partito Comunista, prima e dopo Berlinguer, ha presidiato il campo dell’opposizione. In modo permanente e senza possibilità di alternativa. Fino alla caduta del Muro. Berlinguer lo teorizzò apertamente. Unica soluzione possibile: l’intesa con la Dc, pre-destinata a governare. Tradotta nel “compromesso storico”, promosso negli anni Settanta da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sancito — e concluso — dal tragico (e non casuale) rapimento di Moro. A sinistra del Pci, allora, non c’era spazio. Se non per soggetti — temporanei — destinati a svolgere un ruolo di denuncia e testimonianza. La sinistra, cosiddetta, extra-parlamentare. Perché, per quanto la legge elettorale (ultra-proporzionale) permettesse loro una presenza (molto limitata) in Parlamento, la loro azione si svolgeva all’esterno. Nelle piazze, nelle fabbriche e nelle scuole. Fra gli operai e gli studenti. Proprio ciò che si propone di fare oggi — meglio, domani — Maurizio Landini. Intercettando — e alimentando — il clima di insoddisfazione sociale che pervade il Paese. E coinvolge il governo. Che attualmente dispone, secondo diversi sondaggi (oltre a Demos, anche Ipsos), di un consenso ancora elevato, ma non più maggioritario. Intorno al 40%. Ciò significa che il clima di insoddisfazione verso il governo è divenuto molto ampio. Tuttavia, Renzi resta ancora il leader, di gran lunga, più “stimato” nel Paese. Apprezzato da oltre 4 italiani su 10. Mentre il grado di fiducia nei confronti di Maurizio Landini è intorno al 25%. Superato, largamente, da Matteo Salvini, sopra il 30%. Ma anche da Giorgia Meloni (vicina al 30%).

Per imporsi come riferimento dell’opposizione, la soluzione obbligata, per Landini, è, dunque, restare fuori dalla competizione partitica. Fuori dal Parlamento. Dove, peraltro, anche volendo, non potrebbe essere presente, per un periodo non breve, visto che il ritorno alle urne non sembra vicino.

Fuori dal Parlamento e dai partiti, però, ci sono due spazi, due luoghi, dove Landini può agire, per mobilitare l’opposizione e l’opinione pubblica. Il primo è, appunto, la società. In particolar modo, l’area dei lavoratori. Dove, però, il suo consenso appare ampio non tanto fra gli operai, quanto, secondo i sondaggi, fra gli impiegati e i tecnici privati. Ma ancor più, tra gli “intellettuali”, che operano nel mondo della scuola. Oltre ai pensionati. Perché Landini non attrae tanto i giovani, ma le persone di età centrale e medio-alta (fra 45 e 65 anni) e gli anziani. Insomma, raccoglie la base tradizionale della Sinistra. Sfidata e indebolita, fra i giovani e gli studenti, dal M5s. E, fra i lavoratori dipendenti, dalla Lega Il secondo terreno di azione, per Landini, è la “comunic-azione”. In particolare, la televisione. Dove il segretario generale della Fiom-Cgil è una presenza fissa. Invitato dovunque. Nei principali talk politici di tutte le reti nazionali. Come Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Perché garantiscono ascolti. La loro apparizione alza lo share di 1 punto percentuale e anche di più. Un contributo importante, anzi, irrinunciabile per i programmi di dibattito e approfondimento politico, in tempi di declino degli ascolti.

Così Landini — come, soprattutto, Salvini — alterna la piazza e la televisione. Ma ciò ne limita le possibilità di affermazione. Anzitutto, come leader dell’opposizione. Perché la “questione sociale”, per ora, è riassunta da altre rivendicazioni, “rappresentate” da altri soggetti politici di successo. L’antieuropeismo e, in particolare, l’opposizione all’euro. Che la Lega di Salvini agita, insieme alla paura degli immigrati. E il M5s associa al sentimento anti-politico. Alimentato contro i privilegi dei “politici” e dei partiti. Mentre, sulla questione della rappresentanza del lavoro, Landini e la Fiom incrociano, inevitabilmente, il loro percorso con l’azione del sindacato. In particolare, della Cgil. Non a caso, intervistato da Lucia Annunziata, proprio ieri, Landini ha sostenuto che «il sindacato deve essere un soggetto politico». Perché «se non fa politica è aziendale». Mentre la segreteria della Cgil ha preso, apertamente, le distanze dall’iniziativa del segretario Fiom. Per questo, nel discorso politico di Landini, echeggia, di continuo, il richiamo a Renzi e al PdR. Il Pd di Renzi. Il Partito di Renzi. Alleato di Confindustria nel progetto di cancellare i diritti dei lavoratori. E, quindi, un nemico, anzi, “il” nemico da contrastare.

Così, la sfida di Maurizio Landini evoca una “coalizione sociale” e del lavoro. Per ora. Ma è inevitabile, in prospettiva, leggerla sul piano politico. Ed elettorale. Perché è chiaro il riferimento a Syriza, in Grecia, e Podemos, in Spagna. Se valutiamo la fiducia nei confronti di Landini, sul piano politico, è, d’altronde, evidente la sua caratterizzazione a Sinistra. Ma anche una certa trasversalità. È, infatti, elevata non solo fra gli elettori di Sel (intorno al 50%), ma anche del Pd (35% circa) e del M5s (32%).

La “coalizione sociale” evocata da Landini, dunque, mira a divenire coalizione “politica”, che attrae le liste a Sinistra del Pd e l’area del disagio interna al Pd. Magari non un partito — almeno per ora: domani si vedrà. Anche se c’è da sospettare che il più interessato alla costruzione del nuovo soggetto partitico di Landini sia proprio Renzi. Che “neutralizzerebbe” l’opposizione di sinistra in uno spazio, presumibilmente, circoscritto. Intorno al 5% (o qualcosa di più). E allargherebbe ulteriormente lo spazio di influenza del suo PdR verso il centro. Assorbendo quel che resta dell’elettorato berlusconiano. Così resterebbero fuori solo Salvini (e Meloni), il M5s. Insieme a Landini. L’opposizione che piace al premier.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/16/news/una_nuova_sinistra_extra-parlamentare-109602926/?ref=HRER2-2
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« Risposta #431 inserito:: Marzo 28, 2015, 04:53:15 pm »

Gli scandali e la crisi non spostano voti: Pd al 36, Grillo al 20, la Lega non vola più
Per nove italiani su dieci Tangentopoli non è mai finita.
Ma nel sondaggio Demos il disagio si indirizza soprattutto contro le riforme del lavoro.
E il 59% "tifa" per le proteste

Di ILVO DIAMANTI
28 marzo 2015
   
Gli scandali e la crisi non spostano voti: Pd al 36, Grillo al 20, la Lega non vola più(ansa)
IL CLIMA d'opinione è grigio. Oscurato dall'insoddisfazione economica e dalla rabbia contro la corruzione politica. Ma gli orientamenti politici non cambiano. In particolare: non si vedono alternative di governo né, soprattutto, a Renzi. Almeno, in questa fase.

È il riassunto sintetico del sondaggio concluso ieri per l'Atlante Politico di Demos. Racconta di un Paese abituato, ormai, alla sfiducia. E, per questo, poco disponibile a immaginare possibili cambiamenti. Possibili svolte. Nonostante tutto. Quasi metà dei cittadini, infatti, ritiene che non sia cambiato molto, in Italia, dai tempi di Tangentopoli. In particolare considera la corruzione politica ancor più diffusa di allora. E oltre 4 persone su 10, comunque, pensano che sia altrettanto estesa. In definitiva: per 9 italiani su 10 Tangentopoli non è mai finita. D'altronde, la contaminazione fra politica e interessi appare ancora e sempre evidente. E ricorrente. Punteggiata da casi di pesante contiguità. Ma anche da episodi di "familismo amorale", come quello che ha coinvolto, di recente, il ministro Lupi. Costringendolo alle dimissioni. Per un altro verso, emerge un ampio dissenso "contro i provvedimenti del governo e la riforma del mercato del lavoro". Non per caso il 56% del campione si dice (molto o abbastanza) d'accordo con le iniziative di protesta organizzate a questo proposito. E, quindi, con la manifestazione della FIOM che si svolge oggi a Roma. Che incontra un sostegno maggioritario dagli elettori di sinistra, ma anche di Forza Italia. E soprattutto del M5s. Tuttavia, questo malessere diffuso, queste esplosioni di dissenso, non sembrano produrre effetti significativi sugli orientamenti politici. Né sulle aspettative dei cittadini. Il 42% di essi, infatti, ritiene che il governo guidato da Renzi resterà in carica fino alla fine della legislatura. Sette punti in più rispetto allo scorso novembre. Parallelamente, il 28% pensa che, al contrario, non durerà più di un anno. Cinque mesi fa gli scettici erano quasi il 40%.

LE TABELLE …

Dunque, il clima d'opinione è grigio, ma all'orizzonte non si vedono mutamenti politici rilevanti. Il grado di fiducia nei confronti del governo, di conseguenza, dallo scorso autunno resta pressoché immutato. Intorno al 46%. Come il gradimento "personale" verso il premier, Matteo Renzi, che, infatti, sfiora il 50%. Sostanzialmente stabile, anch'esso, negli ultimi mesi. Tutti gli altri leader sono distanziati. Anche se alcuni di essi emergono, fra gli altri. Meloni e Salvini, in particolare, entrambi sopra il 30%. Poi, Landini, al 29. Il leader della FIOM, d'altronde, è molto visibile e mediatico, in questa fase. Sull'onda della manifestazione di oggi. Ma anche della "Coalizione Sociale", il movimento politico di opposizione, annunciato -  e lanciato -  due settimane fa. Landini, peraltro, raccoglie consensi ampi non solo nella "Sinistra della Sinistra" (come l'ha definita Marc Lazar su Repubblica, nei giorni scorsi). Ma anche fra gli elettori del M5s e, soprattutto, anzitutto, nel PD (35%). Segnale dell'esistenza di una base di consenso, meglio, di dissenso politico molto ampia. Priva, per ora, di sbocco, sul piano partitico. Landini, per primo, appare cauto, al proposito. Lo spazio dell'opposizione al governo, d'altronde, appare già affollato e frastagliato. Le stime elettorali, infatti, non sembrano risentire troppo delle tensioni politiche e sociali in atto. Riproducono un quadro stabile e coerente, con quello degli ultimi mesi. Nonostante tutto.

Il PD di Renzi, in particolare, perde qualcosa, rispetto alle rilevazioni di febbraio. Ma, appunto, "qualcosa". Resta, infatti, al 36,6%. Un punto in meno rispetto a un mese fa. Mentre la principale "opposizione" continua ad essere espressa dal M5s. Nuovamente oltre il 20%. Anch'esso stabile, dopo le scorse Europee. Come se l'unica opposizione al PDR fosse costituita dall'insofferenza e dalla domanda di "sorveglianza" democratica. Rappresentate, appunto, dal M5s. Che ha beneficiato, più degli altri, delle dimissioni di Lupi. E, come si è detto, delle proteste contro le politiche del lavoro.

Sul fronte della Destra, invece, la marcia della Lega di Salvini, che, fino a un paio di mesi fa, pareva inarrestabile, si è arrestata. All'11,5%. Come il mese scorso (circa). Le divisioni interne  -  che in Veneto hanno prodotto l'espulsione e l'uscita di Tosi dal partito  -  non sono state indolori. E hanno ridimensionato l'immagine della Ligue Nationale, nuovo riferimento della Destra in Italia. D'altra parte, il "modello originale", il Front National di Marine Le Pen, domenica scorsa, al primo turno delle départementales, in Francia, non ha raggiunto il risultato atteso  -  e largamente annunciato. Pur ottenendo il 25%, infatti, è stato superato dall'alleanza di centro-destra UMP e UDI, guidata da Nicolas Sarkozy, vicina al 29%. Su livelli molto più ridotti, lo stesso è avvenuto in Italia. Dove FI, pur calando lievemente, nell'ultimo mese, resta avanti di due punti, rispetto alla Lega. Tra gli altri partiti, solo i Fratelli d'Italia, guidati dalla Meloni, appaiono in crescita. Molto vicini al 5%, come SEL e i partiti della Sinistra radicale sul versante politico opposto. Tuttavia, il profilo tracciato dall'Atlante politico di Demos conferma il ritratto politico di un Paese senza alternative. Dove Matteo Renzi governa in un clima sociale scettico. Alla guida di un partito sempre più "personale". Sempre più PDR. Circondato da alcuni alleati, poco influenti. E da molte opposizioni, di taglia molto ridotta. Almeno, per ora. Unica vera ombra: l'insoddisfazione e la sfiducia. Verso i politici, la politica e le istituzioni. Mobilitata e amplificata dal M5s.

Così Renzi -  senza troppi ostacoli, davanti, e senza grande entusiasmo, intorno -  prosegue il suo cammino. Nonostante tutto.

© Riproduzione riservata 28 marzo 2015

DA - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/28/news/gli_scandali_e_la_crisi_non_spostano_voti_pd_al_36_grillo_al_20_la_lega_non_vola_piu_-110665498/?ref=HRER2-1
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« Risposta #432 inserito:: Aprile 12, 2015, 06:06:44 pm »

La solitudine di Matteo Renzi
MAPPE. Un sistema senza corpi intermedi, dove i poteri locali appaiono logori, rischia di diventare un problema di fronte a emergenze

Di ILVO DIAMANTI
07 aprile 2015
   
 FORZA Italia si sta "decomponendo". Un giorno dopo l'altro. Era sorta oltre vent'anni fa. Una federazione di gruppi di pressione e di interesse distribuiti sul territorio. Raccolti intorno a Silvio Berlusconi. Alla sua immagine, ai suoi media, alla sua impresa. Un partito personale che oggi, un pezzo dopo l'altro, si sta decomponendo. Perché non c'è nulla in grado di tenere insieme i pezzi. Manca la colla. L'identità e, insieme, le risorse. Un processo analogo, però, si sta riproducendo negli altri partiti sorti nell'epoca berlusconiana.

Quasi tutti scomparsi, oppure ridotti a misure residuali. Ad eccezione del Pd. L'unico partito che oggi conti davvero. Tuttavia, anche il Pd non sembra vivere un grande momento. Anzi: non è chiaro cosa sia. Anche se le stime elettorali dei sondaggi continuano ad attribuirgli circa il 36% dei voti. Eppure, è difficile considerarlo un "partito". Perché è scosso da tensioni interne, mentre incombe la minaccia di scissione della sinistra. E perché dovunque, sul territorio, appare lacerato. Da scandali, divisioni, conflitti. Anche nelle Regioni dove è da sempre più forte e radicato. La Toscana, l'Emilia- Romagna. La Liguria. È come se risentisse di un doppio limite. La dipendenza dal (l'anti) berlusconismo, ora svanito. E la rapida, improvvisa, ri-generazione intorno a Renzi. Che l'ha spinto in alto, nei consensi, come mai era avvenuto prima. Fino a sfiorare il 41% alle europee di un anno fa. Ma, al tempo stesso, lo ha trasformato in un partito semi-personale, innestando, sulla base del vecchio Pd, prevalentemente post-comunista, il suo PdR. Il Partito di Renzi.

Così oggi il territorio politico, in Italia, appare pressoché desertificato. O meglio "demente, senza strutture di aggregazione e di relazione". Il Berlusconismo, almeno, aveva "strutturato" i rapporti fra partiti e identità politiche, in modo bipolare. Berlusconismo e antiberlusconismo. Mentre oggi è difficile identificare categorie politiche in grado di offrire riconoscimento. In cui riconoscersi. Destra/sinistra, in particolare, al tempo del "renzismo" funzionano poco. La stessa geografia politica, dopo quasi settant'anni, è cambiata. Fino a pochi anni fa era de-finita da regioni e da culture politiche omogenee e radicate. Zone bianche, rosse, verdi, azzurre... Oggi, invece, gli orientamenti politici tendono a nazionalizzarsi. Il PdR: primo dovunque, alle elezioni europee. Seguito, quasi dappertutto, dal M5s. Per auto-dichiarazione: un non-partito. Il principale canale della protesta e del disagio civile. Un soggetto di "contro-democrazia", democrazia della sorveglianza, come la definisce Pierre Rosanvallon. D'altronde, il partito territoriale per definizione, la Ln, ha anch'esso mutato pelle. È divenuto un partito "personale". La Lega di Salvini. La "nuova" Destra Nazionale. Mentre, a sinistra, Landini ha mobilitato una coalizione "sociale". Per ora, esterna ai partiti. Così, resta soltanto lui. Matteo Renzi. Al centro di un sistema politico e tutto partitico che non è un "sistema". Perché non segue logiche, dinamiche e regole precise. Visto che tutto -  istituzioni, costudite leggi elettorali  -  è in corso d'opera. Matteo Renzi: è un uomo solo. Affiancato da una cerchia stretta di persone amiche e fedeli. Agisce e decide  -  prevalentemente  -  da solo. Contro tutti. D'altronde, in Italia, dopo decenni di in-decisione, la maggioranza dei cittadini dimostra consenso verso un premier e un leader che, finalstrutturato". "decide". Anche se da solo. Anzi: proprio perché "da solo".

La solitudine del Capo (per echeggiare la formula di Fabio Bordignon), per questo, può apparire una risorsa, per Renzi. Tuttavia, il discorso cambia quando si allarga lo sguardo "oltre" le relazioni con gli attori politici. Quando l'attenzione si sposta, soprattutto, sul rapporto con la società e con i cittadini. Perché negli ultimi anni si è assistito alla rapida devoluzione di tutti i corpi intermedi, di tutti i principali sistemi e organismi di mediazione fra società e Stato. Fra società e istituzioni.

I partiti di massa, ovviamente, non ci sono più da tempo. Sono scomparsi dalla società. Ma, ormai, sono in crisi anche i meccanismi di mobilitazione e di consultazione sociale. Come le Primarie del Pd. Inquinate, in alcuni casi. Ma, ancor più, burocratizzate. "Neutralizzate" dai gruppi dirigenti. Inagibili, ormai, come canali di partecipazione. Al tempo stesso, però, si sono inarituzione, le organizzazioni di rappresentanza. Sindacati e Associazioni imprenditoriali, in particolare. Hanno perduto consenso. Del 2008 al 2015, il grado di fiducia dei cittadini è sceso dal 27% al 18% nei confronti della Cgil, dal 23% al 15% nei confronti della Cisl e della Uil, dal 30% al 23% nei confronti le Associazioni Imprenditoriali. D'altra parte, Renzi stesso ha contribuito a indebolire i sistemi di rappresentanza degli interessi. Cercando di dimostrare che il governo stesso, cioè lui, è in grado di rispondere agli interessi dei lavoratori e degli imprenditori meglio di un sindacato o di un'associazione di categoria. Senza bisogno di contratti... La stessa riforma delle Camere di Commercio, che ne prevede la riduzione da 105 a 60, concorre a ridimensionare la "mediazione" e la regolazione degli interessi organizzati sul territorio. Si tratta di un percorso consapevole, che ha garantito consenso al premier. Perché la "rivoluzione renziana" passa attraverso la sburocratizzazione. Politica ed economica. Ma anche amministrativa. D'altronde, fra i cittadini, la fiducia nei confronti dei governi territoriali è calata sensibilmente. Dal 2010 al 2014, il consenso verso le Regioni è sceso di 14 punti percentuali; verso i Comuni: di 12.

Così, Matteo Renzi oggi è solo. Intorno a lui: nessun partito vero, a parte il suo PdR, peraltro molto dis-organizzato. Fra lui, il territorio e la società: poche infra-strutture istituzionali, perlopiù deboli. E pochi residui di rappresentanza, scarsamente legittimati.

Probabilmente, è ciò che interessa al premier. Ma non sono certo che rifletta i suoi interessi. Un sistema dis-intermediato, senza più -  o quasi -  corpi intermedi, dove i poteri locali appaiono logori: rischia di diventare un serio problema di fronte a possibili, future emergenze. Economiche, sociali, civili. Interne ed esterne.

Allora la solitudine potrebbe rendere tutto molto più difficile.

© Riproduzione riservata
07 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/07/news/la_solitudine_di_matteo-111335289/?ref=HRER2-1
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« Risposta #433 inserito:: Aprile 16, 2015, 04:25:47 pm »

I riflettori sui magistrati
MAPPE. Nell'opinione pubblica si è diffusa la tendenza a "politicizzare" l'immagine della magistratura, e l'orientamento dei cittadini verso la politica e i partiti è sempre più disilluso. Ma a differenza di vent'anni fa, non riconoscono più i giudici come moralizzatori

Di ILVO DIAMANTI
13 aprile 2015
   
IL PRESIDENTE Mattarella dopo il massacro avvenuto al palazzo di Giustizia, a Milano, ha lanciato un messaggio esplicito. Contro la campagna di discredito che, da tempo, investe i magistrati. Come, d'altronde, Gherardo Colombo, in passato pm di "Mani pulite", e il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli. D'accordo nel denunciare il clima di rabbia e di veleni, non estraneo all'azione criminale dell'assassino. Il quale, non per caso, ha individuato il "luogo" responsabile del proprio fallimento (in senso letterale) proprio nel palazzo di Giustizia. Dove ha ucciso il giudice Ciampi e altre due persone (tra cui un avvocato). Naturalmente, non è possibile ricondurre a ragioni sociologiche comportamenti criminali, che hanno radici largamente patologiche. Tuttavia, l'idea che esista un clima d'opinione sempre meno favorevole ai magistrati e al sistema giudiziario è sicuramente fondata. E il ri-sentimento verso l'ambiente della giustizia è, anzi, cresciuto negli ultimi tempi.

È lontana l'epoca di Tangentopoli, quando, nei primi anni Novanta, gli italiani affidarono a pm e giudici il compito di decapitare (metaforicamente) la classe politica che aveva governato l'Italia repubblicana fino ad allora. Corrotta e delegittimata. Giudici e pm divennero, allora, gli esecutori della "volontà popolare". In quegli anni, la fiducia nei loro confronti si avvicinò al 70%. Senza grandi differenze di schieramento politico. Pochi anni dopo, però, questo atteggiamento divenne più tiepido e sicuramente meno trasversale. Soprattutto perché l'interprete principale della nuova stagione (anti) politica, Silvio Berlusconi, insieme a Forza Italia, venne coinvolto da indagini e inchieste "giudiziarie" compromettenti. E concatenate, come la trama fitta del conflitto di interessi del Cavaliere.

Così, la fiducia nei magistrati cominciò a declinare, in modo sensibile, soprattutto a centrodestra. Questa tendenza, in seguito, si è allargata. La fiducia nella magistratura, infatti, è scesa costantemente, fino a oscillare intorno al 35-40%, fra il 2005 e il 2010. In seguito è calata ancora. Fino al 30%, rilevato da Demos alcune settimane fa. Dunque, prima degli omicidi avvenuti al palazzo di Giustizia. Si tratta dell'indice di consenso più basso registrato dal 1994 ad oggi. Il clima di sfiducia denunciato dai magistrati, effettivamente, esiste. E ha diverse ragioni. Alcune delle quali, sicuramente, "politiche". Come dimostra la profonda, differenza di atteggiamenti, in base alla posizione politica e alle scelte di partito. Attualmente, infatti, la quota di elettori che esprime fiducia verso i magistrati è intorno al 41%, nella base del Pd, ma scende al 29% nella base del M5S, al 25%, fra gli elettori di Fi e, infine, al 18% fra quelli della Lega. C'è, dunque, un'evidente "frattura" politica, che marca l'atteggiamento verso i magistrati. Guardati con ostilità da destra, con diffidenza dal M5S. Visti, invece, con maggiore favore a sinistra. Tuttavia, il pregiudizio politico nei confronti dei magistrati è cresciuto in modo generalizzato e trasversale. Anche fra gli elettori di centrosinistra, infatti, il consenso nei loro riguardi è calato, di quasi20 punti negli ultimi 5 anni.

La causa di questo mutamento d'opinione è, dunque, in gran parte, "politica". E ha alcune spiegazioni precise. Anzitutto, i magistrati, dagli anni di Tangentopoli in poi, hanno assunto un ruolo "politico". Perché hanno contrastato l'illegalità cresciuta insieme all'intreccio fra partiti e interessi. Sono, dunque, divenuti i controllori di un sistema compromesso e poco credibile. Alessandro Pizzorno ha osservato che si sono trasformati nei "garanti della pubblica virtù". In grado di delegittimare, con un'inchiesta, un leader o un amministratore. In secondo luogo, i magistrati stessi, in alcuni casi, sono divenuti attori politici di rilievo. A partire da Antonio Di Pietro. Fino a Antonio Ingroia. Ma sono molti, oggi, i magistrati in Parlamento, alcuni eletti anche nelle liste di centrodestra. Altri, invece, impegnati come sindaci in città importanti. Emiliano a Bari. De Magistris a Napoli. Mentre Casson è candidato a Venezia. Difficile non venire coinvolti dai (ri) sentimenti politici quando si diviene canale di formazione della classe politica. Perché l'identità del magistrato persiste. E Di Pietro, De Magistris ed Emiliano restano "magistrati" anche se hanno cambiato ruolo e attività.

Così, presso l'opinione pubblica, si è diffusa la tendenza a "politicizzare" l'immagine dei magistrati. A percepirli come "attori", oltre che "controllori", della politica. In altri termini, oggi l'orientamento dei cittadini verso la politica, i politici e i partiti è sempre più disilluso. E, a differenza di vent'anni fa, non riconosce più i magistrati come moralizzatori. Nonostante che la "questione morale", sollevata da Enrico Berlinguer all'inizio degli anni Ottanta, sia sempre attuale. E colpisca settori politici e amministrazioni -  regionali e comunali -  di destra ma anche di sinistra. Non per caso il 48% dei cittadini (Demos, marzo 2015) ritiene che oggi la corruzione politica, in Italia, sia più diffusa che all'epoca di Tangentopoli. Mentre solo l'8% pensa il contrario. Per questo la preoccupazione espressa dal Presidente e dal Csm è fondata. Ma non facilmente risolvibile. Perché lo spazio della magistratura si è allargato nel vuoto della politica. Le sue funzioni di controllo e di intervento si sono moltiplicate parallelamente al riprodursi della corruzione e degli illeciti. Nella realtà politica ma anche nella vita pubblica. Al punto che oggi si assiste a una sorta di "giuridificazione della vita quotidiana". Che accompagna, a fini di controllo, le nostre attività -  pubbliche, ma anche private. Praticamente ogni giorno. Per alleggerire le tensioni sulla magistratura, dunque, dovremmo "rassegnarci" al ritorno della politica. E dell'etica: nella vita pubblica e privata. Si tratta di un'impresa difficile, mi rendo conto. Ma, voglio credere, non impossibile.

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13 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/13/news/i_riflettori_sui_magistrati-111807129/?ref=HRER2-1
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« Risposta #434 inserito:: Aprile 20, 2015, 06:08:17 pm »

I miei studenti che si guardano senza vedersi

16 aprile 2015
Ilvo DIAMANTI   

TEMPO fa, all'Università di Urbino, sono passato accanto ad alcuni studenti del mio corso, seduti intorno a un tavolo. Ciascuno davanti al proprio tablet. O allo smartphone. Assorti, concentrati, impegnati a battere sulla tastiera  -  perlopiù touchscreen. Immagine consueta, ma ho sorriso, pensando a quanto la dissociazione spaziale sia diffusa, soprattutto  -  ma non solo - fra i giovani.  Perché capita, sempre più spesso, di comunicare con altre persone lontane, lontanissime da noi. Parlare con amici, oppure dialogare, collaborare con colleghi e interlocutori professionali, collegati in video da altre città, in paesi, continenti.

Inutile stupirsi. Si fa la figura dei preistorici. Nostalgici di un'epoca che non c'è più. Senza contare che le tecnologie della connessione hanno agevolato e moltiplicato le possibilità di relazione. Perché hanno dilatato il nostro spazio cognitivo e operativo. Riducendo e, anzi, annullando la distanza temporale. In fondo, la globalizzazione si traduce e riproduce in stretching dello spazio, per citare Giddens. In altri termini, tutto ciò che avviene dovunque, nei luoghi più lontani, può avere un impatto immediato sulla nostra vita e, anzitutto, sulla nostra coscienza.  Per effetto della comunicazione e dei media. Mentre ciascuno di noi può inter-agire con luoghi e persone che sono "altrove". Sempre e dovunque.

In questo modo, d'altra parte, il senso della relazione con gli altri quasi si perde. Perché io non vedo i miei interlocutori. Sono empaticamente distinto e distante da loro. Così il "mio" spazio si allarga a dismisura e, dunque, svanisce. Diventa sfondo, scenario impersonale. Come avviene a tutti coloro che parlano con qualcuno al telefono, pardon, smartphone, mentre camminano per strada, oppure viaggiano  -  in treno o in autobus. O in auto. Armati di auricolari: non debbono neppure alzare la testa. Guardarsi attorno. Prestano solo attenzione  -  istintiva e inconsapevole  -  agli ostacoli del percorso. Per non schiantarsi addosso a un lampione o a una vetrina. Perché, in quei momenti, durante quelle comunicazioni, sono  -  siamo  -  altrove. Con la testa. Con la coscienza. Siamo incoscienti. Dissociati dal luogo e dal contesto.

Per questo mi divertiva osservare i miei giovani studenti, tutti lì, uno accanto all'altro, e tutti altrove. Lontano. Non c'era nulla di strano, ovviamente. Si tratta di una "routine". Di una pratica "normale". Anche se qualcosa di strano, in effetti, in quell'occasione c'era. Così, almeno, mi pareva. Perché, ciascuno di loro - concentrato e  "perduto" sul proprio tablet o smartphone  -  mostrava reazioni coerenti e sincroniche con gli altri. Smorfie, risolini, cenni del capo. Come se fossero in reciproca e diretta relazione. Così, per curiosità, mi sono intromesso. Ho interrotto la loro comunicazione. E i miei dubbi hanno trovato puntuale conferma. Gli studenti, infatti, dialogavano tra loro. Uno accanto all'altro, uno davanti all'altro, invece di parlarsi direttamente: messaggiavano. Si scambiavano messaggi in rete.
Vista la mia sorpresa, gli studenti mi hanno rassicurato. "Guardi che non stiamo parlando solo tra noi. Ma con molti altri amici, sparsi in Europa. In diverse città e università. Siamo su WhatsApp e chattiamo in un gruppo globale".

Così mi sento più tranquillo. Ho capito che le tecnologie ci permettono di dialogare, in ogni momento, con persone lontanissime, che stanno altrove, come se fossero accanto a noi. E, al tempo stesso, possono allontanare chi ci sta vicino, chi ci sta parlando, fino a renderlo invisibile, ai nostri occhi. Anche se è lì, a un passo. È la comunicazione globale, bellezza. Ci permette di stare sempre insieme e vicino agli altri, in ogni luogo. Ma, al tempo stesso, ci lascia soli. E fuori luogo.

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16 aprile 2015

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