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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278603 volte)
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« Risposta #405 inserito:: Agosto 21, 2014, 06:26:13 pm »

Mappe - Ci saranno altri Nord
Di ILVO DIAMANTI
18 agosto 2014
   
VENT’ANNI fa il Nord conquistava l’Italia. Berlusconi e Bossi, Bossi e Berlusconi, vincevano le elezioni politiche. E governavano insieme. Per poco, visto che, pochi mesi dopo, la Lega se ne sarebbe andata.

Incapace di sostenere il ruolo del partito di governo. Eppure per vent’anni Lega e Fi, Fi e Lega hanno percorso un cammino comune. Con interruzioni improvvise. Anche lunghe. Ma, in fondo, hanno proceduto insieme. Al governo o all’opposizione. A livello nazionale e territoriale. La Lega, insieme a Forza Italia, è all’origine della Seconda Repubblica. Ha rappresentato il Nord. Ha fatto divenire la “questione settentrionale” questione “nazionale”. E ha imposto la rivoluzione federalista. Il trasferimento delle competenze e dell’autorità verso Regioni, Province, città. Vent’anni fa la capitale si è spostata. Da Roma al Lombardo-Veneto, patria del forza-leghismo, per ricorrere alla suggestiva definizione di Edmondo Berselli.

Ma oggi, vent’anni dopo, che cosa resta del Nord? Della Lega? Di Forza Italia? Del Forza-leghismo? Francamente poco. La Lega, alle recenti europee, ha ottenuto un buon risultato, ma ha quasi dimezzato i voti rispetto alle politiche del 2008 e alle europee del 2009. A Fi, d’altronde, è andata anche peggio. Entrambi sono in crisi di identità. La leadership di Bossi, in particolare, è stata compromessa dalla malattia e, ancor più, dagli scandali che ne hanno coinvolto familiari e fedeli. L’attuale leader, Matteo Salvini, ha rimesso in cammino la Lega. Ma, rispetto al Senatur, è un’altra cosa… Gli storici raduni di Ferragosto, a Ponte di Legno, non a caso, appartengono alla storia. L’ultimo, nei giorni scorsi, è passato quasi in silenzio, sui media.

Berlusconi, invece, è ancora sulla scena. Ma recita da comprimario. Sempre alle prese con problemi giudiziari. Sconta il declino del modello politico e sociale che interpretava. La società individualista e imprenditiva, fiaccata dalla crisi. Tuttavia, il problema maggiore, per il Nord, non riguarda tanto — e soltanto — la leadership. Ma, anzitutto, il fondamento e l’esistenza stessa della questione che esso ha rappresentato. Il Nord, appunto. Dov’è finito? I temi e le rivendicazioni che ha espresso: dove sono scivolati?

Per quel che riguarda le autonomie territoriali e il federalismo: non è più tempo. I Comuni: schiacciati dalle aspettative dei cittadini, crescenti, in presenza di risorse calanti. Trasformati da attori in esattori — dello Stato. Le Province: sparite. Cancellate con un colpo di penna. Anche se le competenze e i servizi che esse realizzavano verranno ridistribuite tra associazioni di comuni, città metropolitane e altre entità indistinte. Le Regioni: investite da scandali ricorrenti. Percepite come nuove forme di centralismo. Che si sono aggiunte allo Stato. E oggi, per questo, appaiono altrettanto sfiduciate, agli occhi dei cittadini.

Anche se la riforma costituzionale avviata dal governo prevede di cooptare al Senato i rappresentanti dei consigli regionali. Ma per risparmiare… Insomma: il federalismo, invenzione del Nord, sembra “devoluto”. Comunque, emarginato, come i soggetti politici che l’hanno imposto. È sopravvissuta soltanto la rabbia contro lo Stato e il sistema pubblico.

Ma è stata intercettata e raccolta, in larga misura, da nuovi soggetti politici. Per primo: il M5s. Che, tuttavia, non ha radici territoriali. Non ha una geografia politica. Come la Lega, soprattutto. Ma anche Fi. Federazione di lobby e di gruppi di potere locali con la testa (e il portafoglio) a Milano. Oggi è scomparsa la geografia politica nazionale. Il principale partito, il PdR, il Pd di Renzi, non ha confini e punti di forza. Alle elezioni europee ha sfondato nel Nord. Nel territorio leghista. Ma ha una geografia nazionale anche il principale partito di opposizione. Il M5s guidato da Grillo e Casaleggio. D’altronde, il suo spazio è senza territorio: il web. E il principale motivo del suo successo risiede nel rifiuto dei partiti “tradizionali” della Seconda Repubblica. (L’ossimoro non è casuale.) Renzi e il suo partito ne hanno sfruttato la spinta. E nel governo di Renzi, già sindaco di Firenze, non a caso, lo spazio del Nord padano è molto limitato. I ministri che potrebbero evocare il Lombardo-Veneto hanno cittadinanza diversa. E la sottolineano. Pàdoan, non a caso, viene pronunciato con l’accento sulla prima e non sulla seconda “a”. D’altronde, nonostante l’origine, denunciata dal cognome, è “romano”.

La stessa Lega, infine, è cresciuta soprattutto nel Centro-Sud. Si è anch’essa “nazionalizzata”.

Insomma, il Nord oggi appare un’(id)entità rimossa. Insieme al Nordest. Per non parlare della Padania. Mentre il Lombardo-Veneto indica l’asse della crisi della Seconda Repubblica. Segnato dagli scandali scoppiati a Milano (intorno all’Expo) e Venezia (il Mose). Quasi una metafora del declino della “rivoluzione territoriale” degli ultimi vent’anni. Che ha eclissato anche il Sud. Nonostante i problemi del Mezzogiorno restino seri. Anzi, si stiano ulteriormente aggravando.

La percezione della politica e dell’economia, d’altronde, si è “nazionalizzata” perché la geografia è stata sovrastata dalla geopolitica. Che ha confini “globali”. E più del Nord e del Nordest o del Lombardo- Veneto oggi contano (e conteranno) l’Ucraina, il Kurdistan, la Siria, Gaza. Il contrasto — sempre più evidente — fra Usa e Russia. Più di Roma: contano Bruxelles, Pechino, la City. Sul piano georeligioso: la Corea, l’Iraq dove gli Yazidi fuggono all’avanzata dell’Is. Così, i temi del dibattito politico, anche nel Nord (Italia), si globalizzano. Riguardano la Ue e l’immigrazione. La stessa Lega tende a divenire un soggetto politico securitario e antieuro. Come il Fn di Marine Le Pen.

Insomma, il Nord si è perso nelle nebbie della globalizzazione politica ed economica. E la sua rimozione, in qualche misura, segnala quella “fine dei territori”, annunciata da alcuni studiosi (fra cui Bertrand Badie). Una tendenza che gli Stati nazionali (l’Italia per prima) non sembrano in grado di affrontare. Semmai, ne sono un fattore. Anche per questo il declino dei territori è destinato a fare emergere nuovi territori. Nuovi confini e nuovi Limes, reali o “inventati”. Nuove patrie, che soccorrano il bisogno di identità e di autorità. Al posto della Padania e del Nordest, d’altronde, già preme l’indipendentismo regionalista. Anzitutto in Veneto. Così, è meglio prepararsi. Dopo il Nord, oltre il Nord, ci saranno altri Nord. Non solo nel Nord.

Per reagire allo spaesamento. Alla paura del Mondo.

© Riproduzione riservata 18 agosto 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/18/news/mappe_-_ci_saranno_altri_nord-93990288/?ref=HRER2-1
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« Risposta #406 inserito:: Settembre 01, 2014, 06:34:35 pm »

Questo non è un Paese per giovani

di ILVO DIAMANTI
01 settembre 2014
   
Temo che l'immagine di Renzi cominci a risultare inadeguata per raffigurare il Paese. Troppo "giovane" e "giovanile". Troppo spavalda e, perfino, esagerata. Rispetto a un Paese che sembra viaggiare - e guardare - in direzione contraria. Cioè, verso il passato. Perché l'Italia mi sembra un Paese sempre più rassegnato. Che ostenta un ottimismo triste, attraversato da rabbia diffusa.

E' un Paese di pensionati, con tutto rispetto per chi la pensione se l'è guadagnata, dopo anni e anni di lavoro. Però, è difficile non rilevare le tensioni continue intorno al sistema pensionistico. Dal punto di vista sociale e politico. Perché l'età di accesso alla pensione si è "allungata", per contenere il costo della previdenza pubblica, in una società sempre più vecchia. Dove i pensionati sono oltre 7 ogni 10 occupati. Ma, in questo modo, l'ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani si è ulteriormente ristretto.

Così la generazione dei padri - e, talora, dei nonni - sessantenni vorrebbe andare in pensione. Ma non ci riesce. Neppure quando il governo, come ha fatto nelle scorse settimane, lo prevede. Ad esempio: per gli insegnanti (cosiddetti) "quota 96". Che a 61 anni abbiano maturato 35 anni di contributi. Perché, dopo l'annuncio, si scopre che non ci sono le coperture, le risorse. Un po' com'è avvenuto per gli "esodati". Un'invenzione linguistica. Participio passato di un verbo che non c'è. Coniato per significare quelle persone sperdute, in "esodo" verso la pensione. Ma rimasti per strada. Pre-pensionati senza pensione. A causa di im-previsti legislativi. Esistono ma non si vedono. Sono "pensionandi". In attesa che lo Stato trovi le risorse per "pensionarli" davvero, dopo la chiusura anticipata del rapporto di lavoro, negoziata con l'impresa.

D'altronde, l'Italia è un Paese schiacciato dalla spesa pubblica. Dal debito pubblico. Nonostante che il pubblico impiego sia in costante calo. Il 7% in meno negli ultimi 5 anni. Ma circa il 20%, per quel riguarda gli statali. Con l'esito, paradossale, che la spesa pubblica non è calata. Al contrario. Perché, come ha annotato Tito Boeri, alcuni giorni fa su queste pagine, "gli stipendi pubblici in meno si sono trasformati in pensioni in più da pagare, sempre a carico del contribuente".

Questo Paese di esodati, pensionandi e aspiranti pensionati, come può avere e, prima ancora, "immaginare" il futuro? Al massimo: il presente. Ma, più facilmente, il passato prossimo. Nell'Italia di oggi, nonostante Renzi, il futuro: è ieri. Al massimo, stamattina. D'altronde, non per nulla, questo Paese per vecchi, come io stesso ho rilevato altre volte, sta perdendo e ha già perduto i suoi giovani. Che sono pochi e sempre di meno, visto che i tassi di natalità, in Italia, sono fra i più bassi dell'Occidente. Mentre i tassi di occupazione giovanile scendono e quelli di disoccupazione crescono continuamente.

I giovani: sono "esodati" anche loro. Visto che si contano circa due milioni di Neet, un altro neologismo per significare una popolazione fuori dalla scuola e dal lavoro. Dunque, anch'essa s-perduta. Tra le pieghe dell'impiego temporaneo e informale. Protetta dalle famiglie, che offrono loro un ancoraggio, in attesa di una stabilità imprevista e imprevedibile. I giovani. Se ne vanno dall'Italia, se e quando possono. Sempre più numerosi. In particolare, durante i corsi di laurea. Utilizzano l'Erasmus, programma che prevede alcuni mesi di studio presso università straniere in convenzione con quelle italiane. Ma poi, dopo la laurea, ripartono di nuovo. Proseguono la loro "formazione" in altre università straniere. E spesso trovano impiego. Altrove. Perché l'Italia è un Paese di pensionati dove i giovani "esodano". Soprattutto i "laureati". Che sono sempre meno. Il 20% della popolazione fra 25 e 34 anni. Cioè, la metà della media Ocse. D'altronde, il saldo fra giovani laureati che escono e vengono, in Italia, è negativo (-1,2%, secondo un Rapporto di Manageritalia). Il peggiore della Ue.

Così, siamo diventati un paese di vecchi, attraversato da inquietudini e paure. Perché, quando si invecchia, crescono e si diffondono anche le paure. E ci si difende dagli altri, chiudendosi in casa. Guardando tutti con crescente sospetto. In Italia, più di due persone su tre diffidano di chi hanno di fronte (Oss sulla Sicurezza, Demos-Oss. Pavia-Fond. Unipolis). Perché ci potrebbero "fregare". In particolare, preoccupano - e spaventano - gli stranieri che affollano l'Italia, in numero crescente. Perché sono tanti, sempre di più, quelli che arrivano. Con ogni mezzo. In particolare, dal Nord dell'Africa. Non per "piacere", ma spinti da paure ben più immediate e drammatiche delle nostre. Le guerre, la fame, i conflitti. Fuggono dal loro mondo che è lì, a un passo dal nostro. E intraprendono viaggi brevi ma, spesso, infiniti. Perché finiscono in modo tragico. In fondo al mare. Ai nostri mari che assomigliano a cimiteri liquidi, dove si depositano, a migliaia, i corpi di migranti che tentano di scavalcare il muro che li separa da noi. Il Mare Nostrum che ormai è divenuto un Mare Mostrum. Quel tratto di mare: è un muro, una barriera. Costruita con le nostre paure, per difendere la nostra solitudine, la nostra vecchiaia infelice. Per coltivare la nostra indifferenza.

Noi, l'estremo confine d'Europa. Ultima frontiera di una civiltà senza più civiltà. Senza più pietà. Senza più futuro. Perché se fai partire i tuoi giovani (più qualificati) e tieni lontani quelli che vorrebbero entrare, dal Sud ma anche dall'Occidente, i poveri e i disperati, ma anche i più istruiti e specializzati: che futuro vuoi avere? Al massimo un passato. Sempre più incerto, anch'esso. E annebbiato. Come la memoria.
Per questo la rappresentanza, o meglio, la "rappresentazione" offerta da Renzi, oggi, mi appare inadeguata. Troppo giovane e giovanile. Troppo giocosa. Rispetto al Paese: rischia di proporre uno specchio deformante. Difficile predicare la "crescita" se siamo in "declino" - demografico. Se i giovani sono pochi e quando possono se ne vanno. Non basterà, di certo, un gelato a farli rientrare. Né a farci ringiovanire tutti. Più facile, piuttosto, che lui, il premier, rispecchiandosi nel Paese, invecchi presto.

© Riproduzione riservata 01 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/01/news/questo_non_un_paese_per_giovani-94789530/?ref=HREC1-2
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« Risposta #407 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:44:22 pm »

Renzi ispira meno fiducia e perde 15 punti in tre mesi. Il Pd resta al 41 %
L'Atlante politico. Il consenso per il capo del governo e per l'esecutivo rimane alto e tocca il 60 e il 54 %. Ma il calo per entrambi è sensibile. Il Pd di Renzi non è più in grado di attrarre tutti i settori elettorali, è diventato soggetto di centrosinistra, più di centro che di sinistra. Gli orientamenti di voto ricalcano l'esito delle Europee. Tra le differenze, la ripresa di Forza Italia che risale sopra il 18 %

Di ILVO DIAMANTI
   
ALLA fine di un’estate attiva e combattiva, Matteo Renzi e il suo governo dispongono di un consenso ancora ampio e maggioritario. Il Pd resta il primo partito, con oltre il 41% dei voti. Conferma, quindi, il significativo risultato ottenuto alle elezioni europee. Tuttavia, il clima d’opinione a favore di Renzi e il suo governo risulta molto ridimensionato rispetto a giugno.

Perché sembra indebolita quella trasversalità emersa, in particolare, nel voto europeo. Si tratta delle prime indicazioni del sondaggio di Demos per l’Atlante Politico, presentato oggi su Repubblica. Il PD di Renzi, il PdR, cioè, oggi appare, in parte, “normalizzato”. Non è più in grado di attingere consensi da tutti i principali settori dello spazio elettorale, ma è divenuto un soggetto politico di centrosinistra, più di centro che di sinistra. Come il suo leader. Come il premier. Che, per questo, non piace più, come prima, a centrodestra, ma neppure agli elettori maggiormente spostati a sinistra. Né, a maggior ragione, agli elettori del M5s.

Chiariamo: la posizione del premier e del governo appare ancora solida. Il consenso per il governo, infatti, tocca il 54%. Mentre la fiducia nei confronti di Renzi è intorno al 60%. Tantissimo, non c’è dubbio.

Soprattutto in confronto agli altri leader, molto lontani, per grado di confidenza. E quasi tutti in declino. Segno di una certa stanchezza politica che pervade la società. La differenza, rispetto agli ultimi sei mesi, è che neppure Renzi e il suo governo “personale” riescono a sottrarsi a questa tendenza. Anzi. La fiducia nei loro confronti, infatti, subisce un calo di circa 15 punti rispetto a giugno. Le ragioni di questo sensibile calo sono diverse e prevedibili. Anzitutto, la crisi, che non riduce la pressione sul reddito personale e familiare. Poi, la delusione. D’altra parte, c’è un’evidente distanza fra le attese dei cittadini e le priorità del governo. Che, fin qui, ha privilegiato le riforme istituzionali. La fine del bicameralismo perfetto (e del Senato), la legge elettorale. Ora: la giustizia. Che, tuttavia, come emerge dal sondaggio dell’Atlante Politico, non suscitano grande passione, fra gli elettori. Molto più interessati, invece, alle riforme che riguardano il mercato del lavoro, il rilancio dell’occupazione, l’adeguamento delle pensioni più basse, il sistema scolastico, il fisco. Naturalmente, Renzi ha scelto la via delle riforme istituzionali e del sistema elettorale per poter, comunque, rivendicare dei risultati, dopo pochi mesi di governo. Ma anche per creare le condizioni favorevoli per “governare”, in futuro. E per andare a elezioni, in tempi non troppo lontani, con regole che permettano la formazione, in Parlamento, di maggioranze stabili.

Il calo della popolarità del premier e del governo, però, sottolinea come l’apertura di credito degli elettori non sia infinita. Quindici punti di fiducia in meno, in tre mesi, non sono pochi. Anche se è cresciuta la quota di elettori che pensa che Renzi governerà fino in fondo. Il 43% degli intervistati, infatti, ritiene che arriverà a fine legislatura. Si tratta di 11 punti in più, rispetto allo scorso giugno. Mentre, al contrario, si è ridotta a poco più del 20% la componente degli scettici, i quali credono che resisterà meno di un anno. Parallelamente, resta maggioritaria - anche se in calo - la componente di chi ritiene che Renzi ci porterà fuori dalla crisi. Gli orientamenti di voto, peraltro, riflettono quelli emersi alle elezioni europee. Con alcune limitate – e significative - differenze. In particolare, la ripresa di FI, che risale oltre il 18%. E il parallelo ridimensionamento di NCD e Udc. Come della popolarità di Alfano e Casini. Risucchiati nella spirale del PdR. Si allarga, invece, il peso della sinistra (SEL), in parte, probabilmente, per il sostegno delle componenti critiche del PD. Dunque, la maggioranza degli italiani pensa che Renzi e il governo arriveranno in fondo alla legislatura. Il partito di Renzi, inoltre, mantiene una larga maggioranza. Perché non sembra avere alternative, né un’opposizione effettiva. Anche il M5s non riesce ad andare oltre il 20%.

Eppure, come si è detto, la fiducia personale nel premier e nel governo ha subito una brusca discesa. La spiegazione “politica” di questo ridimensionamento è comprensibile osservando le tendenze del consenso nei diversi elettorati di partito. Lo scorso giugno, dopo le elezioni europee, il gradimento per Renzi e il governo risultava, infatti, trasversale. Solo fra gli elettori del M5s, infatti, era molto sotto alla maggioranza. Ora, invece, resta larghissimo nella base del PD – prossimo al 90% - e fra gli elettori centristi e del NCD. Ma crolla in tutti gli altri settori. Soprattutto a destra: nella base di FI e degli altri partiti di centrodestra. Oltre che del M5s (dal 36% a 20%).

Oggi, dunque, Renzi appare ed è un leader di centrosinistra, alla guida di un governo di centro-sinistra. E ciò significa che il PDR non può più prescindere dal PD. Il leader ha bisogno del partito, per governare e per imporsi, in caso di elezioni. Anche se il partito – il PD – ha bisogno di Renzi per affermarsi. Per non scivolare di nuovo al 25%.

Per questo i prossimi mesi appaiono importanti e critici. Per il governo e il suo premier. Per il Pd e per il suo leader. E, dopo sei mesi di corsa, Renzi deve fare più attenzione. Al partito, agli elettori, alle parole, ai risultati. Senza riassumere e sovrapporre governo e comunicazione.

© Riproduzione riservata 12 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/12/news/renzi_ispira_meno_fiducia_e_perde_15_punti_in_tre_mesi_il_pd_resta_al_41_di_ilvo_diamanti-95553205/?ref=HREC1-2
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« Risposta #408 inserito:: Settembre 23, 2014, 05:08:38 pm »

L'articolo 18 e il marketing politico

di ILVO DIAMANTI
22 settembre 2014
   
Il disegno di legge sul lavoro, approvato, nei giorni scorsi, in Commissione al Senato, rispetta una priorità del governo. Ma l’ipotesi di superare l’articolo 18, in particolare, risponde a un obiettivo politico — prima ancora che economico — di Matteo Renzi. Costruire il suo partito. Post- ideologico e post-berlusconiano. Il post-partito di Renzi. Il PPR oppure il PdR. Che vada oltre il Pd. Il dibattito sull’art. 18, infatti, ha ri-evocato e ri-sollevato antichi steccati. Fra la sinistra e il resto del mondo. Anche se l’art. 18, nella realtà, ormai, è poco utilizzato. Gran parte delle vertenze aziendali aperte su questa base si conclude con un accordo fra le parti. Senza considerare che il segno di questa norma è, quantomeno, ambiguo e ambivalente. Perché esclude ampi settori del mercato del lavoro. Peraltro, i più deboli: gli occupati delle piccole imprese, i precari e gli intermittenti. I giovani.

Non a caso, nel 2003 venne promosso un referendum per superarne i limiti. Per iniziativa di gruppi e soggetti di sinistra. Tuttavia, il valore dell’articolo 18 è ad alto contenuto simbolico. Costituisce, infatti, una sorta di bandiera della Legge 300. Lo Statuto dei lavoratori. Per questo ogni tentativo di metterci mano, non importa in che modo e a quale titolo, suscita tante reazioni. Com’è avvenuto, puntualmente, anche in questa occasione. Proprio per questo Renzi ha deciso di intervenire sull’art. 18. Proprio in questo momento. Al di là dell’efficacia e del contenuto del provvedimento. Perché è utile, funzionale a marcare confini e limiti del “suo” partito. Contro i nemici interni ed esterni.

Penso, peraltro, che egli non abbia in mente di riprodurre l’esperimento di Tony Blair, come molti hanno osservato. Non gli interessa, cioè, costruire un NewPd, più lib che lab. Ma andare “oltre” il Pd e il suo tradizionale bacino elettorale di Centro-Sinistra. Un po’ com’è avvenuto alle recenti elezioni europee, quando il “suo” Pd ha conquistato quasi il 41% dei voti. Quattro su dieci: “orientati al leader”. Circa il 17%, sul totale dei votanti, cioè, ha votato per Renzi piuttosto che in base all’appartenenza al partito (indagine post-elettorale Demos- LaPolis, luglio 2014). E ciò gli ha permesso di sconfinare rispetto ai territori di caccia della sinistra. Non a caso, è risultato primo partito praticamente dovunque, in Italia (con le sole eccezioni di Sondrio, Isernia e Bolzano). Ma soprattutto, ha sfondato nelle province del Nord e nel Nord Est. Dunque, fra i lavoratori autonomi: artigiani e commercianti, tradizionalmente attratti dai forzaleghisti (per echeggiare, una volta di più, Edmondo Berselli). Oltre che fra le componenti sociali popolari: operai e disoccupati. Che alle politiche del 2013 avevano privilegiato il M5s. Renzi, dunque, ha rotto il muro anticomunista. E quello della protesta (anti) politica. Per questo il suo consenso personale, all’indomani delle europee, si è allargato, ben oltre il livello, molto ampio, del voto. Ha raggiunto, cioè, il 74%. Mentre la fiducia nel governo ha sfiorato il 70%. Cioè, oltre il 90% fra gli elettori del Pd, ma tra il 55% e il 60% anche nella base dei partiti di Destra: Fi, Lega e Fdi.



Oggi, però, le cose sembrano cambiate. Dopo l’estate, infatti, il consenso nei confronti del governo e del premier ha subito un brusco e sensibile arretramento (Atlante Politico di Demos, settembre 2014). Superiore a 10 punti. Così, Renzi appare ancora forte, nel Paese. Ma soprattutto nel centrosinistra. Fra gli elettori del Pd resta vicino al 90%. Ma crolla (soprattutto) a destra: nella base di Fi e degli altri partiti di centrodestra (20-30 punti in meno). Oltre che fra gli elettori del M5s (dal 36% a 20%).

Allo stesso tempo, nelle stime di voto, il Pd resta saldamente attestato al 41%. In altri termini, come abbiamo sostenuto nei giorni scorsi, Matteo Renzi oggi appare leader indiscusso del Pd. E del Centro-sinistra. E qui è il problema. Perché, oggi, per la prima volta, dopo molto tempo, fatica a intercettare i consensi di destra. E, sul piano sociale, il voto dei ceti medi del Nord. Che cominciano a mostrare impazienza, in attesa delle riforme promesse. Mentre deve fare i conti con le resistenze di un Parlamento eletto “prima” del suo avvento alla guida del partito e del governo. In particolare, deve affrontare le trappole disseminate dal Pd, ma anche da Fi, come si sta verificando di fronte all’elezione dei due nuovi giudici della Corte Costituzionale. D’altronde, il progetto del PdR si rivolge anche a Fi. È questo il significato del dialogo aperto con Berlusconi. A Renzi non interessa negoziare o federare Fi. Ma svuotarla. Com’è avvenuto con i Centristi e l’Ncd (fra i suggeritori del provvedimento). E ciò spiega le tensioni interne ai parlamentari di Fi, quando si tratta di votare insieme al Pd, come se si appartenesse a un unico soggetto politico. Appunto… Così, per Renzi, l’articolo 18 diventa un’occasione, anzi: l’occasione, per superare le divisioni interne al PdR. Per costringere alla ragione il Pd — e i dissidenti. Per riaprire la comunicazione con la Destra. E soprattutto con gli elettori di Fi. E con le componenti sociali della piccola impresa e del lavoro autonomo del Nord. I forza-renziani (come li ha chiamati Fabio Bordignon). In modo da “isolare” il dissenso dei parlamentari di Fi.

Così Renzi insiste — e insisterà ancora — su argomenti ad alto tasso simbolico, relativi al lavoro e, probabilmente, domani, all’etica (come le unioni civili tra omosessuali). Ma accentuerà ancora la connessione fra comunicazione e politica. Fra governo e linguaggio. Marcando le differenze fra sé e gli altri “politici”. Fra sé e le “burocrazie”. Non solo della pubblica amministrazione, ma anche del Sindacato e di Confindustria. In attesa di potersi, davvero, misurare con gli altri, in nuove elezioni. Quando, come ora, si presenterà più antipolitico di Grillo, più berlusconiano di Berlusconi, più “diretto”, nel rapporto con il “popolo”, rispetto ai leader del suo e degli altri partiti.

Il vero problema, per Renzi, è che, per arrivare al voto con una nuova legge elettorale e con risultati da rivendicare, deve passare attraverso questo Parlamento, misurarsi con questi partiti. Con questi leader. Che, di certo, non si faranno rottamare senza resistere. D’altronde, per agire in Parlamento e per correre alle elezioni, serve un partito. Ma il PdR, per ora, è un partito che non c’è. Certo: ha un volto, uno stile. Un linguaggio. Ma per vincere, per affermarsi: non basta.

© Riproduzione riservata 22 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/22/news/l_articolo_18_e_il_marketing_politico-96366040/?ref=HRER1-1
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« Risposta #409 inserito:: Ottobre 13, 2014, 03:02:49 pm »

Consenso in ripresa, il premier sale al centro.
Pd oltre il 41%, in affanno Forza Italia

L'Atlante politico. Si ferma il forte calo registrato a settembre e Renzi riconquista due punti, attestandosi al 62 per cento. Stabili i 5Stelle, cresce la Lega, in grave difficoltà Ncd e Udc, mentre Berlusconi è al 15,6 per cento. Il sostegno al capo del governo aumenta soprattutto fa gli elettori di Fi, del Carroccio, fra i lavoratori autonomi e le piccole imprese

di ILVO DIAMANTI
12 ottobre 2014

L'AUTUNNO di Renzi si annuncia caldo. Ma il forte calo di fiducia nei confronti del premier  -  e leader del PD  -  registrato un mese fa, oggi sembra essersi fermato. È quanto emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos (condotto nei giorni scorsi). Che suggerisce, anzi, alcuni  -  limitati  -  accenni di ripresa. Il credito verso il governo, infatti, è risalito di un paio di punti  -  dal 54% al 56%. La stessa crescita che fa osservare la fiducia personale verso il premier: dal 60% al 62%. Non era scontato. Era possibile, infatti, che le indicazioni fornite dall'Atlante Politico di un mese fa annunciassero la fine del legame di confidenza fra Renzi e gli elettori. Questo sondaggio, invece, suggerisce come il ridimensionamento osservato in settembre riflettesse il ritorno alla normalità. Dopo l'euforia prodotta, nel clima d'opinione, dal successo conseguito alle Europee dal PD guidato da Renzi. Il PDR. Una "normalità", peraltro, "eccezionale", rispetto alla storia elettorale del Centrosinistra, rimasto una "minoranza" anche dopo l'avvento di Berlusconi. Oggi non è più così.

LE TABELLE
Il PD, secondo le stime elettorali dell'Atlante Politico, conferma e, anzi, rafforza, seppur di poco, il risultato delle europee. Supera, cioè, il 41%. Di gran lunga, il partito più forte, sul piano elettorale. Gli "sfidanti", invece, restano lontani. Il primo, e più importante, il M5s, si mantiene intorno al 20%. Il partito maggiormente in crescita è, però, la Lega che, ormai, sfiora il 9%. Crescono anche i Fratelli d'Italia, che, tuttavia, pesano poco. Meno del 4%. Ma superano, comunque, il NCD. Che, insieme all'UDC, è sceso al 2,6 %. Insomma, il Centro (destra) è scomparso, oppure è in grave difficoltà. Come dimostra il ripiegamento di Forza Italia, attestata intorno al 15,6%. Cioè, 3 punti meno di un mese fa. A conferma di come il PDR, dopo aver largamente assorbito i partiti di Centro, stia erodendo il voto degli elettori di Forza Italia. Ciò spiega le dinamiche e le ragioni del consolidamento di Renzi.

Il brusco ridimensionamento del consenso verso il governo e verso il Premier rilevato a settembre, infatti, si era concentrato fra gli elettori di Centrodestra. E fra i piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi del Nord. Le componenti dove, oggi, il sostegno risulta cresciuto maggiormente. I giudizi nei confronti del governo, infatti, nell'ultimo mese, sono risaliti proprio "a destra". Fra gli elettori di FI, in particolare: dal 34% al 46%. Ma anche della Lega e dei Fd'I. Sotto il profilo delle categorie professionali, la risalita più evidente, rispetto a settembre, riguarda, non per caso, i piccoli imprenditori, i lavoratori autonomi (dal 46% al 67%) e i liberi professionisti (dal 47% al 60%). Solo nella base del M5s la valutazione del governo resta molto negativa e non accenna a crescere.

Questi mutamenti d'opinione appaiono conseguenti al dibattito intorno alla riforma del lavoro, il Jobs Act, approdato in Parlamento fra polemiche accese. Alimentate, soprattutto, dalla "revisione" dell'art. 18. Che Renzi ha sollevato, consapevolmente, per non vedersi spinto a Sinistra. Mentre il suo PDR guarda al Centro(sinistra). E mira a intercettare il voto di (centro)Destra.

D'altronde, rispetto al marzo 2013, all'indomani delle elezioni politiche, il profilo politico di Renzi, fra gli elettori è cambiato profondamente. La fiducia nei suoi confronti, fra coloro che si definiscono di Sinistra: dall'84% è scesa al 62%. Venti punti in meno. Ma ne ha recuperati, in parallelo, dieci fra quelli di Destra. Mentre fra quelli di Centrosinistra si conferma all'80%. E nella base elettorale del Centro e del Centrodestra oscilla fra il 60 % e il 70%; in sensibile ri-crescita, comunque, rispetto a un mese fa. Anche per questo, il premier si è dimostrato cauto, e quasi elusivo, sul riconoscimento dei matrimoni gay celebrati all'estero. Cui si è opposto il ministro Alfano, leader del NCD. Perché è un tema sensibile, che, come mostra il sondaggio di Demos, ottiene un consenso crescente, fra gli italiani. Ma rischia di dividere il PDR, al suo interno. E, soprattutto, di "dividerlo" dagli alleati e dal Centrodestra.

L'opposizione, così, non sembra più rispondere alla tradizionale alternativa politica, fra Sinistra e Destra, ma segue altre linee di demarcazione. Per prima, la frattura anti-europea, che, non a caso, accomuna il M5s e gli attori politici lepenisti: la Lega, ma anche i Fratelli d'Italia. Beppe Grillo, non a caso, nel corso della manifestazione del M5s al Circo Massimo, ha annunciato un referendum per uscire dall'euro.

L'opposizione si presenta, in questo modo, come un'alternativa "di sistema". In nome di un diverso modello di democrazia: "diretta" invece che "rappresentativa". E per questo anti-parlamentare  -  pur agendo dentro al Parlamento. In nome di un diverso progetto geopolitico. Fuori dall'Europa. Anzitutto: dall'euro e dalla UE.  Per questo, però, oggi Renzi appare senza alternativa. E può dedicarsi alla costruzione di un post-partito, dove l'identità personale si sostituisce alla tradizione e all'organizzazione del partito. Il PdR, per questo, appare un "partito di elettori", in grado di superare i confini territoriali e ideologici del passato. Così, guadagnato voti perdendo iscritti, in modo quasi speculare. Ma, allo stesso modo e per la stessa ragione, gli è difficile esercitare un controllo sui propri elettori. O, almeno, costruire un legame stabile con essi. Privi di fede, patria e comunità. Rischiano di diventare un popolo di apolidi. Scettici. Senza fissa dimora.

© Riproduzione riservata 12 ottobre 2014

DA - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/12/news/consenso_in_ripresa_il_premier_sale_al_centro_pd_oltre_il_41_in_affanno_forza_italia-97902209/?ref=HRER2-2
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« Risposta #410 inserito:: Ottobre 19, 2014, 04:48:06 pm »

Perché torna la fiducia nei buoni maestri

di ILVO DIAMANTI

18 ottobre 2014
   
La credibilità della scuola: non è più la stessa di un tempo. Ancora nel 2005, meno di 10 anni fa, il 60% degli italiani esprimeva fiducia nei suoi confronti. Oggi non più. Eppure il sondaggio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi per la Repubblica delle Idee, dimostra come la valutazione nei suoi riguardi sia ancora molto positiva. Oltre metà dei cittadini, il 53%, continua, infatti, a guardarla con fiducia. Mentre circa il 60% si dice soddisfatto del funzionamento delle scuole, di diverso tipo e livello. In primo luogo di quelle elementari (65%), quindi dell'università e, in misura più limitata, delle medie. Più di 6 persone su 10, inoltre, manifestano fiducia nei confronti degli insegnanti. Pubblici. Perché la differenza tra istruzione pubblica e privata, negli orientamenti dei cittadini, si conferma elevata e significativa. A tutto vantaggio del pubblico, che appare molto più credibile, fra i cittadini. Che si tratti delle scuole o degli insegnanti.

Peraltro, il prestigio della "professione" del docente continua a essere ritenuto elevato e in crescita rispetto al passato recente. Soprattutto riguardo ai "maestri" e ai "professori universitari". Anche se quasi tutti (docenti compresi) vorrebbero che gli insegnanti venissero valutati e trattati su basi maggiormente "meritocratiche". Perché non tutti i maestri, non tutti i professori sono egualmente disponibili, capaci, preparati, impegnati...

La scuola continua, dunque, a costituire un riferimento importante, anzi, essenziale per i giovani e per le loro famiglie. Accettato e apprezzato, sul piano educativo e formativo, ma anche della socializzazione e dell'inserimento nel mondo del lavoro. Non per caso, 2 persone su 10 indicano il "titolo di studio" tra i fattori più di successo nel lavoro. Al secondo posto, dopo le "capacità personali". Davanti al "sostegno di conoscenti, amici". E parenti.

Tuttavia, se la scuola è -  dovrebbe essere -  un importante meccanismo di promozione sociale, il disincanto appare diffuso e crescente. Il 73% ritiene, infatti, che la posizione sociale dei giovani, rispetto a quella dei genitori, sia destinata a peggiorare. Solo due anni fa, nel 2011, lo pensava il 63%. Dieci punti in meno. Così, parallelamente, è cresciuta la componente di italiani che vede l'unica speranza, per i giovani, altrove. Per avere un futuro migliore, per realizzarsi davvero, i giovani se ne devono andare. Lontano dall'Italia. Ormai lo pensano quasi 7 italiani su 10. Qualche anno fa erano 5. Personalmente, ho sempre osservato con scetticismo le polemiche sulla presunta "fuga dei cervelli". È esattamente questo il "vizio" italiano. Lo scarso potere di attrazione esercitato nei confronti dei "cervelli". Italiani e non. A ciò contribuisce il basso livello di investimenti -  pubblici e ancor più privati - nel sistema formativo e nella ricerca. Ma il limite più evidente, agli occhi dei cittadini, dipende dal limitato grado di relazione fra sistema scolastico e mercato del lavoro. L'indagine di Demos-Coop lo conferma ampiamente. I principali problemi della nostra scuola, secondo gli italiani (intervistati) sono: la mancanza di fondi e di risorse e poi lo scarso collegamento con il mondo del lavoro.



E non per caso oltre 9 persone su 10 vedono con favore riforme e proposte politiche volte a sviluppare l'alternanza fra scuola e lavoro. Ma anche favorire l'apprendimento delle lingue straniere e l'acquisizione di conoscenze informatiche e di competenze digitali.

Così si spiega il giudizio degli italiani su "La Buona Scuola", disegnata dal progetto di riforma del governo Renzi. Sicuramente positivo. Eppure, in qualche misura, ancora "sospeso". A causa delle difficoltà di trovare -  e investire - davvero le risorse necessarie, promesse. Non a caso, solo una minoranza -  per quanto larga: il 44% - ritiene che le riforme proposte da Renzi miglioreranno la scuola italiana. Gli altri ne dubitano. Oppure temono che peggiorerà.

Per questo, prima e più ancora che dal Jobs act, il destino del governo dipende dalla riforma della scuola. Perché non esercita i suoi effetti sui meccanismi che regolano il mercato del lavoro, ma sulle "premesse" che ne condizionano il funzionamento. Sui requisiti tecnici e culturali che favoriscono lo scambio - e la chiusura - tra società e lavoro. Così, la mobilitazione degli studenti "contro" la riforma, mi sembra, comunque, utile. A promuovere, oltre che a "riformare", la riforma stessa. Un modo per ribadire -  gridare - al governo, ai soggetti e agli uomini politici: la scuola, prima di tutto.

© Riproduzione riservata 18 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/palermo2014/2014/10/18/news/perch_torna_la_fiducia_nei_buoni_maestri-98381420/?ref=HRER3-1
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« Risposta #411 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:20:28 pm »

Il partito di Renzi: dopo un anno cambia l’elettorato, con un leader che strizza l’occhio al centrodestra e conquista lavoratori autonomi ma anche operai

Di ILVO DIAMANTI
02 novembre 2014
   
IL CONTROCANTO fra la Leopolda e Piazza San Giovanni: sembra non finire mai. Le polemiche, nell'ultima settimana, si sono moltiplicate. Trainate da diversi protagonisti, di entrambe le parti. Camusso e Renzi. Picierno e Landini. Interpreti e comprimari di una rappresentazione che ha fatto parlare di una frattura profonda. Fra due sinistre. Fra il Pd di Renzi e un nuovo partito. Alla sua sinistra. Tuttavia, il distacco fra la Cgil e il Pd di Renzi, il Pdr, non è recente. Non si è prodotto nelle ultime settimane. Si è consumato molto prima. A causa di un reciproco ri-sentimento, fra la base della Cgil e i vertici del Pdr. Renzi, infatti, ha ri-posizionato il suo PD prendendo le distanze dalle tradizioni della sinistra comunista. Ma anche post-comunista. Da cui proviene la Cgil. In parte, però, questi contrasti sembrano voluti dallo stesso Renzi, per ragioni di mercato elettorale. Il Pdr, infatti, si è definito di Sinistra e ha aderito al Partito del Socialismo Europeo. Ma si è orientato al centro. Volgendo lo sguardo più in là. A Centro-destra.



La polemica con la Cgil riflette questa strategia di marketing politico. Alimentata dalle politiche sul lavoro condotte dal governo, in particolar modo attraverso la revisione dell'articolo 18. Simbolo di una stagione politica e sociale caratterizzata dalla mobilitazione sindacale e dalla concertazione. Alla quale Matteo Renzi ha posto fine definitivamente, dichiarando che "il posto fisso non esiste più". E che, dunque, hanno poco senso anche le organizzazioni dei lavoratori "a tempo indeterminato". I sindacati, appunto, con cui ha stabilito relazioni di reciproca diffidenza. E "senza concertazione". Naturalmente, Renzi ha scelto un bersaglio indebolito da anni di declino, nella percezione sociale. Il sindacato. Dal 2009 ad oggi, negli ultimi 5 anni, la fiducia verso Cisl e Uil, tra i cittadini, è scesa dal 26% al 16%. Nei confronti della Cgil: dal 35% al 22%. Così, Renzi ha fatto della Cgil il simbolo della sinistra della nostalgia, che si accontenta del 25%. E, anche per questo, è finita ai margini del PD di Renzi. Oggi, infatti, fra gli elettori del Pd, i simpatizzanti della Cgil sono circa il 25%. Poco più della media. Ma nel 2012 erano il 53%. Oltre il doppio. E nel 2009 oltre il 60%. Questa tendenza rispecchia, dunque, il reciproco distacco, fra il Pdr e la Cgil.

A Renzi non piace la Cgil. E viceversa. Tuttavia, la "caduta" della fiducia nella Cgil fra gli elettori del Pd (come ha osservato, fra gli altri, Lorenzo Pregliasco, di Quorum) costituisce anche un indice (e una conseguenza) dei cambiamenti avvenuti nella base elettorale del Pd. Che, coerentemente con le intenzioni del leader, si è allargata verso il centro e il centrodestra. Ha, infatti, assorbito Scelta Civica, l'Udc. Ma anche Ncd. Inoltre, ha intercettato frazioni significative di Forza Italia. Aree politiche che hanno scarsa sintonia con il sindacato e, soprattutto, con la Cgil. Altrettanto evidente e profondo è il cambiamento, avvenuto in pochi mesi, nella base sociale del Pdr. Alle elezioni politiche del 2013, infatti, circa il 20% degli operai aveva votato per il Pd. Alle elezioni europee del 2014 questa componente era salita al 34%. Oggi, dopo le polemiche sull'articolo 18, si è ridimensionata al 28%.

Comunque, più che al tempo del Pd di Bersani. Perché è da tempo, ormai, che gli operai non votano più per il Pd. Parallelamente, il peso degli imprenditori e dei lavoratori autonomi è cresciuto in modo sensibile e progressivo: dal 13% alle politiche del 2013 al 28% alle Europee, fino al 40% oggi. Il Pd(R), in altri termini, oggi è più forte fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi  -  ma anche fra i dirigenti, gli impiegati e i liberi professionisti  -  che fra gli operai. E se il suo peso, fra gli studenti, è cresciuto (oggi è il 40%), la categoria sociale che garantisce al Pd i maggiori consensi resta quella dei pensionati: 58%. Anche la fiducia nel governo Renzi, peraltro, risulta molto elevata fra i pensionati, gli imprenditori e i lavoratori autonomi. Mentre appare decisamente bassa fra gli operai e, soprattutto, i disoccupati. È come se Renzi avesse, davvero, spezzato i legami della "sua" sinistra con il passato. Con la sinistra storica, rappresentata dal Pci, dalla Cgil. E con il riferimento sociale  -  simbolico  -  da cui ha tratto senso e radicamento. Il lavoro  -  dipendente. La classe operaia. E, inoltre, con gli "esclusi" (dal mercato del lavoro). Già da tempo, d'altronde, la sinistra, in Italia (e non solo) ottiene i maggiori consensi fra i pensionati e i dipendenti pubblici. Fra le professioni "intellettuali".

Gli operai sembrano, invece, sempre più attratti dalla Lega di Salvini e dal M5s. Mentre il PdR ha intercettato il voto del lavoro "in-dipendente". Degli imprenditori  -  grandi e, ancor più, piccoli. Quelli che, per riprendere il mantra di Renzi, non conoscono "posto fisso". Il problema, però, è che, così, anche il futuro politico di Renzi e del Pdr rischia di divenire instabile e precario. Come il lavoro. Come le organizzazioni e le identità politiche del passato. Dissolte, insieme ai vecchi partiti. Così non resta che correre, alla continua ricerca di nuove parole, nuovi luoghi, nuovi alleati e nuovi nemici. Senza fermarsi mai. Una professione che Renzi, fino ad oggi, ha saputo esercitare abilmente. Ma che nessuno, intorno a lui, è in grado di svolgere con altrettanta efficacia. Correre senza sosta e, in fondo, senza mèta. Detto così, più che una missione sembra una condanna.

© Riproduzione riservata 02 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/02/news/la_cgil_abbandonata_dagli_elettori_pd_solo_1_su_4_la_sostiene-99558243/?ref=HREC1-9
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« Risposta #412 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:38:23 pm »

Il ri-partito della nazione

La ripartenza di Renzi dalla quinta Leopolda. In uno scenario in cui è al centro lo scontro tra passato, presente e futuro del mondo del lavoro
di ILVO DIAMANTI
27 ottobre 2014
   
MATTEO Renzi, nella vecchia stazione della Leopolda, è ri-partito. Anche se non si è mai fermato, fino ad oggi. Non è nel suo stile, nel suo temperamento. Ma ha chiarito meglio a quale "partito" guardi. Il PdR, il Partito di Renzi, è, appunto, un "ri-partito". Un partito in continua ri-definizione, riguardo a obiettivi, parole d'ordine, riferimenti sociali. In continua ri-partenza, verso nuove stazioni. È questo il principale messaggio, il messaggio dei messaggi, lanciato a Firenze. Il "suo" partito guarda avanti. E, per questo, non ha un "popolo" specifico di riferimento. Ma sa "contro" chi muovere. Anche perché i suoi "nemici", per primi, hanno scelto Renzi, il suo governo e la convention di Firenze come "nemici" contro cui mobilitarsi. I "nemici" di Renzi sono quelli che hanno sfilato a Roma, contro il Jobs act, contro le politiche sul lavoro del governo. "Convocati" dalla Cgil. E, non a caso, "contro" di loro e ciò che rappresentano si è rivolto Matteo Renzi, nel suo intervento conclusivo alla Leopolda. Li ha "etichettati", politicamente, come nostalgici di un passato che è passato. E ha accostato - per molti versi, assimilato - la manifestazione della Cgil all'iniziativa delle sinistre arcobaleno. Il PdR, invece, guarda altrove. E, per questo, insiste sull'articolo 18. Simbolo del passato. Bandiera del Pd e della sinistra con la quale Renzi intende tagliare i ponti. Perché "è una regola degli anni Settanta che la sinistra allora non aveva nemmeno votato, siamo nel 2014". Così la questione, sollevata da Renzi, è "capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare il futuro". Un'alternativa, ovviamente, retorica. Perché, come scandisce Renzi "non permetteremo a nessuno di far tornare il Pd al 25%".

Il PdR, per questo, si definisce "in opposizione all'opposizione". Ai "nemici", che Renzi continua a scegliere con cura, per precisare la sua differenza. Dagli "altri". Per intercettare gli elettorati che hanno sempre guardato la sinistra con sospetto. Sul piano politico: i moderati di centro, già assorbiti. Quelli di centrodestra e di destra, in gran parte collaterali. Dal punto di vista sociale: gli imprenditori, grandi e piccoli, i lavoratori autonomi del Nord. Componenti tradizionalmente ostili e anticomuniste. Renzi li ha "convocati" alla convention di Firenze. Raccolti intorno al premier e "contro" coloro che manifestavano a Roma. Un popolo di operai, certamente non giovani, insieme ai pensionati (oltre a molti lavoratori immigrati). Secondo il premier: il passato. E "contro" la Cgil, in quanto sindacato, con cui, come ha già detto altre volte, non intende "concertare". Si tratta di argomenti e discorsi già sentiti. Renzi li ha espressi, apertamente, altre volte. Ma questa volta li ha raccolti e presentati insieme, alla sua convention, nella sua capitale: Firenze. Ne ha fatto una sorta di manifesto del PdR. Che, tuttavia, solleva alcuni dubbi. Principalmente due.



Il primo riguarda l'identità del partito. Il PdR, o il PdN, il Partito della Nazione, come l'ha battezzato Renzi. Tutto proiettato verso il futuro. Alla novità, all'innovazione. In contrasto con ogni nostalgia e con ogni richiamo al passato. Ebbene, a rischio di condividere i vizi e i vezzi di "un certo ceto intellettuale" (anche se mi offenderei: intellettuale a chi?), mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato.

In secondo luogo, liquidare la manifestazione della Cgil come una mobilitazione della Sinistra arcobaleno mi pare, a maggior ragione, riduttivo. Fra coloro che hanno sfilato contro il governo e contro Renzi vi sono molti elettori del Pd. E molti elettori del Pd, comunque, ne condividono la protesta. Possiamo tentare, con qualche approssimazione, di stimarne il peso elettorale (base: Oss. Elettorale Demos, ottobre 2014) concentrandoci su coloro che esprimono molta-moltissima fiducia nella Cgil. Fra gli elettori del Pd sono circa il 25%. Cioè, se facciamo riferimento alle elezioni europee di maggio, intorno al 10% del voto. Appare, quindi, azzardato trattare questa componente come fosse esterna ed estranea. E se è vero che gli iscritti al sindacato sono, per la maggior parte, pensionati e lavoratori anziani, è altrettanto vero che proprio questi settori, alle ultime elezioni (politiche ed europee), hanno costituito lo zoccolo duro del voto al Pd.

Per questo conviene rammentare che, se, effettivamente, il Pd, prima di Renzi, si era fermato al 25%, il Pd di Renzi ha superato la soglia del 40% non perché abbia "abolito" il passato, ma perché, al contrario, lo ha incanalato nel suo progetto. Come ho già scritto, Renzi ha sommato i voti del PdR a quelli del vecchio Pd. Il suo post-partito e la "ditta". In altri termini, ha intercettato i consensi di coloro che hanno votato per Renzi "nonostante" il Pd. Ma anche gli elettori che hanno votato per il Pd "nonostante" Renzi.

Per queste ragioni penso che Renzi debba guardarsi dalla prospettiva segnalata da Mauro Calise: presentarsi come un "anti-partito", raccolto intorno al suo leader. Che stigmatizza il passato e la memoria, in nome del "nuovo" ad ogni costo. Ma rischia, in questo modo, di perdersi nel presente.

© Riproduzione riservata 27 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/27/news/il_ri-partito_della_nazione-99090128/?ref=HRER2-1
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« Risposta #413 inserito:: Novembre 16, 2014, 06:00:24 pm »

Governo giù, il premier perde 10 punti.
Scende il Pd e vola la "Lega nazionale"

di ILVO DIAMANTI
16 novembre 2014

PER la prima volta, da quando è divenuto premier, Matteo Renzi appare in difficoltà, fra gli elettori. Certo, anche nello scorso settembre gli indici di fiducia nei suoi confronti e verso il governo avevano subito un sensibile calo, rispetto a giugno. Ma in quel caso si trattava di un assestamento, dopo la crescita, tanto forte quanto anomala, seguita al successo nelle elezioni Europee. E poi, soprattutto, non si vedevano conseguenze sugli orientamenti di voto. Il Pd, in particolare, stazionava oltre il 40%. Esattamente come alle Europee. Oggi non è così. Il sondaggio dell’Atlante Politico di Demos, realizzato nei giorni scorsi, rileva un nuovo, forte ridimensionamento, che si consuma in un solo mese. Visto che l’ultimo sondaggio era stato svolto in ottobre, la settimana precedente la manifestazione della Cgil. Questa volta, però, il calo coinvolge non solo la popolarità del governo e del premier, ma lo stesso voto al Pd. Vediamo nel dettaglio.



La fiducia nel governo scivola al 43%, 13 punti in meno in un mese. Molto al di sotto della maggioranza degli elettori. Anche il gradimento personale del premier scende sensibilmente, di 10 punti. Ma Renzi rimane, nettamente, davanti a tutti, nelle preferenze degli elettori. Visto che supera di oltre 20 punti Matteo Salvini, segretario della Lega. Il più apprezzato, dopo di lui. Mentre tutti gli altri sono ancor più distanziati. Per primi, Maurizio Landini, segretario della Fiom, il sindacato metalmeccanico della Cgil. Figura di riferimento della “sinistra” critica. E Giorgia Meloni, leader dei Fratelli d’Italia.

Il calo di popolarità del premier e del governo, però, appare particolarmente significativo perché, a differenza di quanto si era osservato settembre, stavolta si riflette anche sul piano elettorale. Il Pd, infatti, nelle stime di voto, scivola dal 41% al 36,3%. Sempre molto, visto che, alle politiche, aveva raggiunto, al massimo, il 33%, nel 2008. E nel 2013 si era fermato al 25%. Ma si tratta, comunque, quasi 5 punti meno di un mese fa. Risalgono, invece, anche se di poco, Forza Italia, Sel, insieme alle formazioni della sinistra critica e i Centristi, mentre il M5S è stabile, intorno al 20%. Ma il vero progresso, in questa fase, è realizzato dalla Lega, che si avvicina all’11%. Proseguendo nella tendenza espansiva che dura ormai da mesi. E non accenna a rallentare. La Lega di Salvini: oggi è la vera “Destra Nazionale”. Pardon: la Ligue Nationale, per echeggiare le Front National di Marine Le Pen. Non per caso, d’altra parte, la “popolarità” di Salvini appare elevata anche nel Mezzogiorno (intorno al 30%).

Gli orientamenti del voto offrono alcune indicazioni circa le dinamiche del rapido declino del Pd. Che non sembra avere una direzione precisa. Il Pd di Renzi, d’altronde, fino a ieri ha funzionato come un vero “partito pigliatutti”. Capace di intercettare il voto di centrosinistra e di sinistra, di assorbire il centro e di attingere anche a destra. Oggi, invece, una quota importante di quanti avevano votato Pd alle europee (quasi 2 su 10) appare in stand-by. Non esprime alcuna scelta. In attesa. Di quel che avverrà.

La ripresa – per quanto modesta - di Fi, Ncd- Udc, Sel e soprattutto della Lega suggerisce il ritorno della concorrenza, in un mercato elettorale a lungo mono-polarizzato da Renzi. Il quale, oggi, sembra aver perduto appeal nei confronti delle altre aree politiche. Come mostra l’evoluzione della fiducia verso il governo fra i principali elettorati. In particolare, a centro- destra. Fra gli elettori di Fi: l’indice di fiducia in Renzi cala, infatti, di 17 punti, dal 46% al 29%. E di 13 punti nella base leghista: dal 41% al 28%. Si tratta di tendenze che si riflettono sul piano socio-economico. Visto che il maggior calo di popolarità del governo avviene tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi: dal 64% al 42%. Cioè, 22 punti in meno. Inferiore, peraltro, al calo subito fra le casalinghe: 26 punti. Mentre perdite significative si osservano anche fra i disoccupati (15 punti).

E ciò contribuisce a spiegare le ragioni sostanziali di questo improvviso calo di consenso. Riassumibili in una formula: il buio che ha oscurato l’orizzonte. Mi spiego: Renzi è il leader che ha restituito speranza nel futuro a una società oppressa da un cielo grigio. Senza prospettive di crescita. Ha promosso e, soprattutto, promesso il cambiamento economico e istituzionale. Riforme e sviluppo. L’ha fatto adottando un ritmo veloce, come stile di comunicazione e come contenuto. Per spezzare, sul piano cognitivo, il rapporto con il passato. E, tatticamente, per complicare la verifica dei risultati, difficili da realizzare in questi tempi. Oggi, però, questo esercizio di stile fatica a funzionare come prima. Non tanto per colpa del sindacato e della Cgil. Che ha perfino peggiorato la propria immagine, dopo la manifestazione del 15 ottobre. Quella mobilitazione, tuttavia, ha rotto il clima di consenso sociale, che, in precedenza, appariva generalizzato. E ha, invece, accentuato l’attenzione verso la crisi economica, che si fa sempre più pesante. Accentua le disuguaglianze sociali. Fa perdere la speranza. E, appunto, oscura l’orizzonte. Così, la fiducia nel governo cala al 30% fra quanti pensano che, nel prossimo anno, il reddito della loro famiglia e il livello della disoccupazione sono destinati a peggiorare. Ma si riduce ancor di più (27%) tra coloro che scommettono su un ulteriore deterioramento dell’economia italiana.

È come se la delusione avesse oscurato le qualità taumaturgiche attribuite al premier. Chiamato, dai cittadini, “a miracol mostrare”. Il ritorno alla “normalità” – precedente alla sua irruzione sulla scena politica e al governo - ha, dunque, prodotto un impatto pesante. Così si spiega anche il ripiegamento elettorale del Pd. Che mantiene ancora un livello di consensi elevato. Ma arretra. Per l’indebolirsi del consenso “personale” di Renzi. Del sostegno al PdR. Il Partito di Renzi. Che ha permesso al Pd di superare i confini tradizionali, che ne frenavano l’espansione. Politici: al centro e, ancor più, a destra. Territoriali: al Nord. Sociali: fra imprenditori e lavoratori autonomi. Ma anche fra i disoccupati.

Naturalmente, il domani non è scritto. Dipende, in buona parte, dal Pd, dal governo e, anzitutto, da Renzi. Dalla sua capacità di andare oltre il presente im-mediato. Il problema è che, per ottenere – e vedere - risultati, ci vuole pazienza. Tempo. Ma Renzi va veloce. Insegue se stesso. E rischia di non riuscire a raggiungersi.

© Riproduzione riservata 16 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/16/news/governo_gi_il_premier_perde_10_punti_scende_il_pd_e_vola_la_lega_nazionale-100667443/?ref=HRER1-1
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« Risposta #414 inserito:: Novembre 20, 2014, 12:55:38 pm »

Il libro di Thuram contro il razzismo. "Quando a Parigi diventai un nero"
Il francese con studiosi e intellettuali "Il campo di calcio per educare i figli"

di ILVO DIAMANTI
20 novembre 2014

LILIAN Thuram è un grande campione. Ha giocato per anni in Italia. Prima nel Parma e poi nella Juventus. Ma ha iniziato in Francia, nel Monaco. E ha concluso la sua carriera nel Barcellona, a 36 anni, fermato da una malformazione cardiaca. Nella sua carriera ha vinto molto. Un campionato del mondo e uno d'Europa. In Italia, due scudetti e tre supercoppe. Ma Thuram non è solo questo. Dopo, ma anche durante, la carriera di calciatore, ha contribuito, in modo, direi, militante (anche se all'autore l'espressione non piace), a promuovere l'integrazione. Sul piano sociale. Contro ogni forma di discriminazione. Contro ogni forma di razzismo. A questo fine, ha costituito una Fondazione, che porta il suo nome. E che svolge numerose attività, soprattutto in ambito educativo, nei luoghi della socialità giovanile. Non sorprende, dunque, che Thuram abbia trasferito questa esperienza in un libro, scritto in collaborazione con molti fra coloro che partecipano alla Fondazione. Intellettuali e studiosi, come Todorov e Viewiorka.

Il volume ha un titolo programmatico: "Per l'uguaglianza". È, in parte, autobiografico. In parte, analitico e riflessivo. Racconta, nei primi capitoli, la sua vicenda personale. Thuram, nato in Guadalupa, penultimo di una famiglia con cinque figli nati da padri diversi. Una condizione normale, nella terra d'origine. Ma non in Francia, dove si trasferisce a nove anni. E lì si trova, immediatamente, a porsi domande. Thuram, d'altronde, è curioso. E tutto il libro è una sequenza di domande. Che nascono dalla sua esperienza. E riguardano, dapprima, la "differenza" - vistosa - fra il suo modello di famiglia e quello dei compagni di scuola e di gioco. La sua famiglia, d'altronde, si regge e si fonda sul ruolo della madre. Per questo Thuram afferma di aver voluto figli "molto presto, forse, inconsciamente, per essere il padre che non avevo avuto". Al tempo stesso, è in Francia che l'autore scopre la questione del razzismo. Perché "è stato al mio arrivo a Parigi che sono diventato nero". Prima, non si era mai posto il problema.

Ma a Parigi il colore della pelle è causa di stigmatizzazione. La differenza diventa diversità. Tuttavia, "non si nasce razzisti, lo si diventa", sottolinea Thuram. È una costruzione sociale che si trasmette di generazione in generazione. Fino a divenire "un'abitudine, un riflesso inconscio". Il calcio, nella visione di Thuram, serve a spezzare quest'abitudine. Questo pregiudizio, dato per scontato. Perché "dopo la scuola, il campo è il luogo più importante dove si educano i figli". Ma il calcio è anche uno spazio pubblico, un teatro che permette di comunicare valori, in modo "esemplare". Thuram, non a caso, ha messo in scena, in diverse occasioni, la tolleranza, denunciando apertamente l'intolleranza. Come nel 1998, quando polemizzò con Jean Marie Le Pen, che criticava il numero eccessivo di "neri" presenti nella nazionale di calcio. Gli replicò, allora, che per far parte della nazionale, non conta essere neri o bianchi. Ma francesi.

Ma anche di recente, è intervenuto criticamente contro l'allenatore del Bordeaux, Willy Sagnol, che aveva recriminato contro il ricorso al "giocatore tipico africano, che ha il vantaggio di costare poco, al momento dell'acquisto, e di essere pronto alla lotta, sul terreno di gioco". Ma non sarebbe altrettanto intelligente e tecnico. Parole in libertà, ha osservato Thuram, che rinforzano pregiudizi antichi e resistenti. Parole che, peraltro, echeggiano discorsi pronunciati da figure autorevoli del nostro calcio. Impossibile non rammentare Carlo Tavecchio, quando, alcuni mesi fa, parlava degli "Opti Pobà, che prima mangiavano le banane e oggi giocano alla Lazio". Tavecchio è divenuto presidente della Federazione Italiana di Calcio. Nonostante (non oso dire: grazie a) quella battuta. Perché in Italia non vedo - non ci sono testimoni della tolleranza e dell'integrazione, come Thuram. Fra i dirigenti, gli allenatori e gli stessi giocatori. Anche se tutte le squadre, ormai, sono multietniche. Per questo, il libro di Liliam Thuram è utile. Perché, al di là del valore letterario, restituisce al calcio il valore della relazione e dell'integrazione. Andrebbe, dunque, adottato e letto dove si insegna - e dove si insegna a insegnare - calcio. A Coverciano, anzitutto. Infine, un consiglio: a Natale regalatene una copia a Tavecchio.

© Riproduzione riservata 20 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/sport/calcio/2014/11/20/news/il_libro_di_thuram_contro_il_razzismo_quando_a_parigi_diventai_un_nero-100978836/?ref=HRER2-1
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« Risposta #415 inserito:: Novembre 25, 2014, 04:34:12 pm »

Quando l'elettore non fa più atti di fede così la Calabria si scopre più rossa dell'Emilia
Mappe
Anche la partecipazione elettorale per la prima volta è stata più alta al Sud che nella storica roccaforte Pd. Non si va più alle urne per confermare un'identità

Di ILVO DIAMANTI
25 novembre 2014
   
Non c'è più religione. Almeno nel rapporto fra elettori e partiti. Il voto non è più un atto di fede, che si replica di volta in volta, per confermare la propria identità e la propria appartenenza a un sistema di valori, a una rete associativa e mondo di relazioni. Lo sapevamo già da tempo, ma mai era apparso così evidente come in queste elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria. Due idealtipi diversi e opposti, avevamo scritto.

L'Emilia Romagna, stabilmente "rossa", di sinistra. Grazie ai legami fra partiti di sinistra -  comunisti e postcomunisti - e società.  La Calabria, instabile e frammentata, dal punto di vista sociale e del comportamento di voto. Stavolta si sono scambiate orientamento e posizione. Per la prima volta nella storia repubblicana, la Calabria è più "rossa" dell'Emilia Romagna. In Calabria, Mario Oliverio, candidato del Centrosinistra, ha vinto con il 61% dei voti validi. Mentre Stefano Bonaccini, anch'esso candidato dal Centrosinistra, in Emilia Romagna, è stato eletto Governatore con il 49%.

LE TABELLE E I GRAFICI

Per la prima volta, inoltre, la partecipazione elettorale è risultata più alta in Calabria che in Emilia Romagna. Ma, forse, converrebbe dire "meno bassa". Infatti, l'affluenza alle urne, in Calabria, ha raggiunto il 44%: quasi 2 punti meno delle Europee dello scorso maggio, ma 15 meno delle Regionali del 2010. Sufficiente, però, a superare l'Emilia Romagna, dove la quota dei votanti, in questa occasione, è crollata sotto il 38%. E, dunque, 32 punti sotto alle recenti Europee e 30 meno delle Regionali del 2010. L'Emilia Romagna, dunque, non è più "rossa". Non ha più un'identità diffusa, che dia un colore politico al territorio. Certo, il cambio d'epoca era già avvenuto in passato. Anzitutto e soprattutto, a Bologna, nel 1999, quando Giorgio Guazzaloca venne eletto sindaco, alla testa di una coalizione di centro-destra. Ma si era colto anche nel 2012, a Parma, dove, alle municipali, Federico Pizzarotti venne eletto sindaco, nelle liste del M5s. Ma questa volta è diverso. Perché non è avvenuto alcun ribaltone. Il candidato del Centrosinistra, Stefano Bonaccini, ha vinto largamente, sfiorando la maggioranza assoluta dei votanti. Lasciando a grande distanza gli sfidanti. Il leghista Alan Fabbri, capolista del Centro-destra (circa il 30%) e l'esponente del M5s, Giulia Gibertoni, poco sopra il 13%. Eppure oggi, più che della sua vittoria, si parla dell'astensione. Ed egli appare un Governatore a metà. Indebolito dall'avanzata del non-voto. Che molti elettori hanno usato come un "voto". Un segno di dissenso o di distacco.




Dalle analisi elettorali condotte dall'Istituto Cattaneo di Bologna -  limitate alla città di Parma -  appare evidente, infatti, che, rispetto al voto europeo, il flusso verso l'astensione ha coinvolto soprattutto il Pd (oltre il 15%). Ma non solo. Perché ha colpito in misura molto pesante anche il M5s: 8%. E, in misura marginale (1-2%), anche altri partiti, da destra (Ncd, Fi, Ln) a sinistra (Sel). Ciò segnala il rilievo assunto dal sentimento di distacco verso la politica. Enfatizzato, in Emilia Romagna, dai legami fra il Partito e la società.

Negli ultimi anni, d'altronde, il cedimento del retroterra della Sinistra era già emerso, evidente. In particolare, alle elezioni politiche del 2013, quando il M5s aveva eroso la Zona Rossa. Allora, il Pd, in Emilia Romagna, aveva ottenuto un "modesto" (per le tradizioni della regione) 37%. Risalendo, però, al 53% alle Europee di pochi mesi fa. Grazie al contributo "personale" di Renzi. A-ideologico ed estraneo alla tradizione comunista e post-comunista. Lontano dai miti e dai riferimenti della sinistra -  storica. Ormai "sinistrati" (per citare un saggio di Edmondo Berselli, profondo conoscitore dei vizi della sinistra e dell'Emilia).

Se alle Europee il Pd e il post-Pd si erano aggregati intorno a Renzi, questa volta sono entrati in contrasto. E se pochi elettori hanno abbandonato il Pd per un altro partito, molti hanno, semplicemente, rinunciato a votare. Tuttavia, ciò non ha dis-integrato il PD(R). Che ha, comunque, ottenuto il 44% - cioè, 4 punti più del 2010 (pur perdendo 300 mila voti). Mentre il neo-governatore, Bonaccini, si è fermato a 3 soli punti da Errani. Questa elezione, semmai, enfatizza la fine di una stagione politica all'insegna dell'appartenenza. Del voto come "fede" radicata sul territorio.

Un passaggio d'epoca sottolineato dalle elezioni politiche del 2013 e dalle Europee di maggio. Quando il M5s e il PD(R) hanno ottenuto consensi distribuiti in tutto il territorio nazionale. In modo omogeneo. Così, stavolta, la stessa Lega, il partito territoriale per eccellenza, ha ottenuto un risultato molto rilevante: 19,4%. Ma senza scendere sotto il 15% in nessuna provincia. Neppure a Bologna e Rimini. FI, invece, è crollata ovunque. Ridotta a meno di metà della Lega. (E in Calabria si è fermata al 12%.) Un "partito personale", incapace di sopravvivere al declino del Capo, Berlusconi. Oscurato dall'alleanza con un leader, Salvini, più visibile e giovane di lui. Un altro segno di questo passaggio d'epoca. Che non garantisce più certezze. Come avviene in altre democrazie rappresentative. Così, anche noi dovremo abituarci -  o, almeno, rassegnarci - a considerare il voto un diritto e non un obbligo. E a valutare l'astensione, il non-voto, non come una malattia della democrazia. Ma una scelta - o una non-scelta. Perché oggi "non c'è più religione". Votare non è più ritenuto un dovere morale e sociale. Riflesso di un'identità. E ogni elezione diventa una competizione aperta. Per vincerla, bisogna offrire agli elettori buone ragioni per votare un partito o un candidato. Ma, prima ancora, per votare.

 © Riproduzione riservata 25 novembre 2014

http://www.repubblica.it/politica/2014/11/25/news/quando_l_elettore_non_fa_pi_atti_di_fede_cos_la_calabria_si_scopre_pi_rossa_dell_emilia-101344080/
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« Risposta #416 inserito:: Novembre 25, 2014, 04:38:17 pm »

Il Partito del premier all'esame del voto teme l'usura del modello emiliano
Primo test per il Pd de-ideologizzato in Emilia e Calabria Le sfide di Lega e M5S nei territori "rossi" e nel Sud in crisi

Di ILVO DIAMANTI
23 novembre 2014

OGGI si vota in due regioni, lontane e diverse, fra loro. Per economia, società, storia. Territorio. Da un lato, l'Emilia Romagna. Il Nord. Secondo l'Istat: il Nord Est. L'economia di piccola impresa, motore dello sviluppo degli ultimi vent'anni. Dall'altro lato, la Calabria. Il Sud, lo sviluppo senza autonomia (come ha scritto Carlo Trigilia). Un'area che fatica a ridurre le distanze -  economiche, ma non solo - dalle zone più dinamiche del Paese. Due regioni lontane e diverse anche dal punto di vista politico. Eppure, oggi entrambe vanno al voto con qualche mese di anticipo rispetto ai termini previsti, per ragioni analoghe. Legate a irregolarità e abusi commessi dagli amministratori. E questa co-incidenza è un segno del cambiamento avvenuto, rispetto il passato. Anche se le differenze fra i due contesti restano profonde. La Calabria raffigura il Sud, esposto ai gruppi di pressione locali. Instabile e differenziato, dal punto di vista elettorale. Come mostrano gli esiti delle elezioni regionali a partire dal 2000. Quando ha esordito il voto diretto al Presidente.

Tre elezioni, tre presidenti e tre coalizioni differenti. Nel 2000: Giuseppe Chiaravalloti, di Forza Italia, a capo di una maggioranza di Centro-destra. Nel 2005: Agazio Loiero, Popolare, alla guida di una coalizione di Centro-sinistra. Nel 2010: Giuseppe Scopelliti, Pdl, leader del Centrodestra. Oggi, il Centrosinistra presenta Mario Oliverio (Pd, vicino a Bersani). Favorito, secondo i sondaggi. Ma anche dalla regola dell'alternanza. Che prevede, appunto, il cambio di maggioranza a ogni voto. Esattamente all'opposto dell'Emilia Romagna. Il "cuore rosso" dell'Italia (come recita il titolo di un noto saggio di Francesco Ramella). Una regione, da sempre, orientata a sinistra. Intorno al Pci, ieri. In seguito, ai post-comunisti: il Pds e i Ds. E, oggi, il Pd. Insieme alla Toscana, all'Umbria e alle Marche: delimita la "zona rossa". Il perimetro, ma anche il recinto, storico del Centrosinistra. Perché gli ha permesso di resistere, ma gli ha impedito, allo stesso tempo, di volare. D'altronde, la storia politica dell'Italia repubblicana è segnata dall'anticomunismo. Ancora nel 2008, il Centrodestra appariva tanto più debole -  e il Centrosinistra tanto più forte - dove era più esteso il voto della sinistra social-comunista. Nel 1948. Nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. Che, ha usato il passato a proprio vantaggio riproponendo l'anticomunismo senza il comunismo. E senza i comunisti.

Così, l'Emilia Romagna ha continuato ad essere "rossa" e i cittadini hanno continuato a votare allo stesso modo. Ma per "abitudine", più che per "appartenenza" (come ha osservato Arturo Parisi). Una continuità sostenuta dai governi locali e dalle reti associative, diffuse nella società e sul territorio. Negli ultimi anni, tuttavia, la tela rossa della cultura politica e del voto si è smagliata in diversi punti. (Lo ripete da tempo Mario Caciagli.) Ai confini, in particolare. Nelle province emiliane del Nord, dove è penetrata la Lega. Fra il 2006 e il 2010, in particolare. E poi, di nuovo, nel 2014. La Lega, d'altronde, è un partito ideologico, simile al vecchio Pci. E procede per prossimità territoriale. Nello spazio padano (Piacenza, Parma, Modena e Ferrara, soprattutto). Ma la tela rossa si è lacerata anche nelle città. A Bologna, dove Grillo ha organizzato il primo V-Day. E, ancor più, a Parma, nel 2012, quando è stato eletto sindaco Pizzarotti. Il M5s ha messo "in rete" comitati e movimenti locali di rivendicazione su temi specifici. Ma si è affermato, soprattutto, canalizzando l'insoddisfazione politica, nei confronti dei partiti dominanti. In Emilia Romagna: la stanchezza verso le amministrazioni e il sistema di governo locale. Ha, dunque, enfatizzato l'usura del modello emiliano, sottolineata, di recente, dalle dimissioni del governatore Vasco Errani, in seguito a una lunga serie di scandali che hanno coinvolto la giunta e i consiglieri.

Il M5s non ha una geografia politica. Alle elezioni del 2013 si è, infatti, diffuso in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale. Dalla Calabria all'Emilia Romagna. Questa in-differenza geo-politica, peraltro, costituisce una seria minaccia per il "modello emiliano". Erede di una tradizione che afferma la politica "nel" territorio. Mentre il M5s pratica una politica "senza" il territorio. Un progetto annunciato da Berlusconi e riproposto, oggi, da Matteo Renzi. Il quale ha de-ideologizzato e personalizzato il Pd. L'ha trasformato nel Pdr. Il Partito Democratico di Renzi. Alternativo alla "ditta" di Bersani. Che è emiliano, di Bettola. Alle europee del 2014, il Pdr, sfidato dal M5s, ne ha riprodotto l'impianto a-territoriale. Ha vinto ovunque. È divenuto Partito della Nazione. Senza confini. Specchio di una geografia elettorale senza "zone rosse". Ma neppure bianche né verdi. Per questo, le elezioni regionali che si svolgono oggi sono importanti. Perché riguardano due casi esemplari: del passato e, al tempo stesso, del futuro politico in Italia.

I sondaggi, per quel che contano, stimano il Centrosinistra in vantaggio non solo in Emilia Romagna (nettamente), ma anche in Calabria. Comunque vada, sarà interessante verificare l'esito e la geografia del voto. In queste due regioni tanto lontane, eppure avvicinate dalle trasformazioni degli ultimi anni. In particolare, mi pare utile interrogare la geografia elettorale, soprattutto nel "cuore rosso" d'Italia.
Per verificare:
a) la distribuzione territoriale, oltre che l'ampiezza, del voto a Stefano Bonaccini. Vincitore delle Primarie del Pd. Per capire, anzitutto, se, davvero, (come ha scritto Gianfranco Pasquino) "la via Emilia è al capolinea".
b) La penetrazione della Lega di Salvini. Proiettata "oltre" la Padania. Alla guida di tutto il Centrodestra. Meglio: della Destra.
c) La diffusione del M5s, che, alle Europee, ha mantenuto una presenza estesa e omogenea nel Paese. Ma non riesce più a sfondare, in ambito locale. Neppure nelle zone d'origine. Ed è sempre più diviso, scosso da tensioni ed espulsioni.
d) Ma, prima di tutto, occorrerà verificare la coerenza -  e l'ampiezza - del risultato del Pd rispetto alle Europee. Per capire se il Pd, erede del Partito della Sinistra, guidato da un candidato (neo)renziano, accetterà - o almeno sopporterà - il PdR. Il partito di Renzi. Colui che ha il merito e la colpa di aver spezzato il legame del Pd con il passato comunista. E, forse, anche con la (tradizione di) Sinistra. Ora che la "fede" (politica) si è perduta, infatti, è possibile che si perda anche l'abitudine. A votare per la Sinistra.
O, semplicemente, a votare. E si scelga il non-voto come voto. Come alternativa al Pdr.

© Riproduzione riservata 23 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/23/news/il_partito_del_premier_all_esame_del_voto_teme_l_usura_del_modello_emiliano-101203727/?ref=HRER2-2
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« Risposta #417 inserito:: Dicembre 22, 2014, 06:14:27 pm »

Più fiducia nel governo Renzi e il Pd tengono. Boom della Lega di Salvini

Nella rilevazione Demos l’esecutivo guadagna 3 punti rispetto al mese scorso. Il premier quasi stabile al 50% dei consensi, solo il leader del Carroccio gli sta dietro. Continua il calo di Forza Italia, i 5Stelle al 19%

Di ILVO DIAMANTI
21 dicembre 2014
   
Mentre l’anno volge alla fine, il calo di popolarità del governo, osservato dopo l’estate, si arresta. Anzi, secondo il recente sondaggio dell’Atlante Politico di Demos, si assiste a una — per quanto limitata — inversione di tendenza. Anche la fiducia nei confronti del premier, Matteo Renzi, resiste. Mentre il consenso elettorale del PD cresce, seppur di poco. Malgrado tutto. Nonostante i problemi e le tensioni di questa fase. Scandita dalle proteste sindacali e operaie, dalle prospettive oscure dei mercati e del mercato del lavoro. Scossa, nelle ultime settimane, dallo scandalo di Mafia Capitale, ultimo, clamoroso, atto della storia di corruzione che inquina il rapporto fra politica e società in Italia. Ma vediamo più in dettaglio le principali indicazioni emerse dal sondaggio di Demos.



1. Il consenso verso il governo si attesta al 46%: 3 punti in più di un mese fa. Ma ne aveva persi 13, il mese precedente. Parallelamente, il gradimento di Renzi resta (quasi) stabile, rispetto al mese scorso: 50%. Siamo, dunque, lontani dai livelli conosciuti prima dell’estate, ma anche dello scorso ottobre. Tuttavia, si tratta di indici elevati. Senza paragone, rispetto agli altri leader politici e di partito. Soprattutto, però, il declino subìto negli ultimi mesi si è fermato. Contrariamente ai timori o agli auspici (secondo i casi) di molti — attori e osservatori politici.

2. Le stime elettorali, peraltro, registrano una lieve crescita del PD, che si attesta al 37%. Ciò significa: 4 punti al di sotto delle elezioni europee, ma, comunque, moltissimo. Anche senza fare riferimento al disastroso 25% ottenuto alle Politiche del 2013. Se guardiamo alla fiducia nei leader, infatti, dietro a Renzi, solo Matteo Salvini, leader della Lega, supera il 30%, fra gli elettori. Dietro di lui: Giorgia Meloni e Maurizio Landini. Leader di partiti più piccoli o senza partito. Mentre i leader dei partiti (o non partiti) più grandi, Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, sono in coda alla graduatoria. Poco sopra o sotto il 20%. Parallelamente, nelle stime di voto, la Lega di Salvini ha superato il 13% e ha, ormai, raggiunto Forza Italia. Mentre, alle loro spalle, la Sinistra, intorno a SEL, si avvicina al 7%.

3. Dunque, Renzi e il suo governo “tengono”. Nonostante la vicenda di Mafia Capitale abbia ulteriormente deteriorato il clima (anti) politico in Italia. E una larga maggioranza di italiani ritenga che la corruzione politica nel Paese, oggi, sia più diffusa rispetto agli anni di Tangentopoli. Così, Renzi non ne sembra personalmente e politicamente colpito. Perché si tratta di un male antico. E lui è, per (auto) definizione, giovane e nuovo. Peraltro, intorno al “suo” PD, non si vedono vere alternative. A Sinistra, certamente, esiste un malessere, intercettato non solo da SEL, ma anche dal dissenso interno al PD. Tuttavia, occupa uno spazio limitato. Inferiore al 10%.

4. Il dissenso della Sinistra, semmai, ha rafforzato l’appeal del Premier al Centro e, soprattutto, a Destra. Non per caso, il gradimento di Renzi è cresciuto fra gli elettori di Forza Italia. E fra gli indecisi. Gli spaesati, che si attaccano all’unico chiodo rimasto. Alla destra dello schieramento politico, d’altronde, c’è grande instabilità. Al calo (ma ormai potremmo parlare di crollo) di FI corrisponde l’avanzata di Salvini e della “sua” Lega. Tanto più ora, che si è lanciato alla conquista del Centro-Sud, con una nuova sigla: “Noi con Salvini” (NcS). Uno spin-off della Lega, trasformata in “partito personale”. Per proseguire l’espansione territoriale, avviata alle europee di giugno ed espressa, clamorosamente, alle Regionali in Emilia-Romagna. D’altra parte, se osserviamo i dati dell’Atlante Politico di Demos, l’ambizione di Salvini sembra giustificata. La fiducia “personale” nei suoi confronti è, infatti, cresciuta dovunque, ma, soprattutto, nelle regioni (rosse) del Centro (allargato all’Emilia-Romagna), dove raggiunge il 42%. Più che nelle stesse regioni del Nord. Mentre nel Centro-Sud si avvicina al 30%. Un profilo analogo a quello del voto. Visto che nelle Regioni (rosse) del Centro NcS (20%) appare più forte perfino che nella Patria Padana (19%). E nel Centro-Sud raggiunge, comunque, il 7%. In altri termini: più di quanto ottenuto in ambito nazionale alle Europee. Oggi NcS è, dunque, la “Ligue Nationale”, affine e alleata al Front National di Marine Le Pen. Oggi primo partito, in Francia. Interprete, al pari di NcS, del sentimento antieuropeo e della paura dello straniero, come risposte all’insicurezza sociale — e globale. Tuttavia, il partito di Salvini, nel breve periodo, non appare un’alternativa. Mentre i partiti di Centro e la stessa FI sembrano una protesi del PD (R).

5. Resta il M5S. Attestato oltre il 19%. Secondo partito, in Italia. Nonostante le defezioni e le polemiche ripetute che lo scuotono. Al centro e alla periferia. Nonostante sia l’unico partito non coinvolto nelle diverse Tangentopoli, romane e regionali. Nonostante che il portavoce, Beppe Grillo, risulti ultimo, nella graduatoria dei leader, in base alla fiducia. Ma ciò conferma la natura del consenso verso il M5S. Che non ha base “personale” e dipende solo in parte dai contenuti specifici dell’offerta politica. Ma riflette, piuttosto, il malessere nei confronti della democrazia rappresentativa che si respira in Italia. Un non-partito che intercetta il non-consenso verso la non-politica. Così Renzi, insieme al “suo” governo e al “suo” PD (R), prosegue la “sua” marcia. Nonostante tutto. Perché, per ora, non si vedono alternative né alternativi. E per la sua capacità mimetica. Di sfidare e imitare tutti. Berlusconiano, grillino e salviniano, al tempo stesso. Il renzismo: biografia e fotografia dell’Italia post-berlusconiana. Al governo.

© Riproduzione riservata 21 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/21/news/pi_fiducia_nel_governo_renzi_e_il_pd_tengono_boom_della_lega_di_salvini-103414068/?ref=HREC1-1
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« Risposta #418 inserito:: Gennaio 01, 2015, 04:05:02 pm »

La strategia del noncentrismo

Di ILVO DIAMANTI

ORMAI, quando scorro i dati dei sondaggi che conduco, prima ancora di analizzarli e di commentarli, mi deprimo. E fatico a leggere, tanto più a ri-leggere, le Mappe e gli Atlanti che, ormai da tanti anni, scrivo. Perché mi risulta difficile -  e un po' inquietante - ripercorrere i sentieri contorti della sfiducia degli italiani verso tutto quel che si muove intorno a loro. Soprattutto se ha un marchio "pubblico". E "politico".

Si pensi all'indagine 2014 sul Rapporto fra gli Italiani e lo Stato, pubblicata nei giorni scorsi sulla Repubblica. Dalla quale emerge come non nulla e nessuno, ormai, venga risparmiato dal ri-sentimento dei cittadini. Parlamento e parlamentari, sindaci e Comuni, governatori e Regioni, sindacati e sindacalisti, banche, banchieri e bancari. Per non parlare dei partiti e dei politici. Perfino il Presidente della Repubblica: un faro in mezzo alla nebbia, oggi è contaminato dal fastidio verso tutto quel che si aggira intorno e dentro ai palazzi del governo e della politica. Si salva solo Papa Francesco. Per ora.  Forse perché il suo stile "francescano" e le sue parole di condanna contro ogni eccesso e ogni abuso, rivolte ai soggetti, ai luoghi, alle pratiche del potere, anche in ambito ecclesiale, lo fanno apparire, a sua volta, un poco anti-politico. E forse neppure "un poco".

Per questo, di indagine in indagine, di sondaggio in sondaggio, tendo a intristire. E sono indotto a non rileggere i miei testi. (Preferisco delegare il compito a colleghi -  e familiari.) Figurarsi quali (ri)sentimenti possano provare gli altri. Di fronte a quel che scrivo. Alle indagini che realizzo e pubblico. Se ancora le leggono e le scorrono, forse, è per il sottile piacere di navigare in questo mare di sfiducia e delusione, lontani da ogni approdo, da ogni porto sicuro. Immaginando, tuttavia, che si tratti di uno spettacolo. Di cui noi siamo spettatori e non attori direttamente coinvolti.

Considerata così, la rappresentazione degli atteggiamenti sociali fornita dai sondaggi - se ne prendiamo per buoni i risultati, al di là di ogni obiezione metodologica - evoca un altro mondo. O meglio: un mondo "altro". Rispetto al quale ci è possibile rivendicare -  se necessario - la nostra estraneità. Quasi che quel mondo non fosse il nostro. Che noi non ne fossimo parte. D'altra parte, in nessun sondaggio le risposte fornite dal campione -  definito, perlopiù, come il riassunto degli "italiani", senza altre specificazioni -  risultano unanimi. Tutte quante dello stesso segno. C'è sempre una quota di intervistati - ampia, piccola o minima - che si sottrae alle tendenze espresse dalla "maggioranza", per quanto larga. E c'è sempre una quota - per quanto piccola, per quanto minima - che non risponde oppure non sa.

Così, alla fine, la rappresentazione della società, offerta dai sondaggi che conduco e commento, per quanto pessimista e negativa, rischia di apparire perfino rassicurante. Perché riguarda "gli altri". Mentre io, personalmente, mi tiro fuori. Sono "minoranza". Una "non risposta". Non c'entro. E posso, per questo, con questo spirito, tornare a leggermi. A scorrere e valutare i dati delle mie indagini. I miei commenti.  Spiacente e spiaciuto. Per gli altri. Cioè, per voi. Per il vostro malessere incarognito. Per la vostra sfiducia e la vostra delusione patologica. Fingendo di esserne immune. Mentre voi potete difendervi e reagire allo stesso modo. Adottando la stessa strategia di auto-difesa. Rifugiandovi nelle "non risposte". Nel "noncentrismo". In fondo, è una metafora (in)felice dell'Italia d'oggi. Il Paese di quelli che non c'entrano.

(31 dicembre 2014) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2014/12/31/news/la_strategia_del_noncentrismo-104052203/?ref=HREA-1
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« Risposta #419 inserito:: Gennaio 01, 2015, 04:06:54 pm »

Partiti, istituzioni, Europa: la fiducia va a picco, cittadini sempre più soli. Il Papa unica speranza
Dall'indagine Demos 2014 emerge una nazione spaesata sfiancata da crisi, fisco e corruzione.
Il quadro già negativo del 2013 peggiora ancora. Anche la magistratura in calo

di ILVO DIAMANTI
28 dicembre 2014
   
UN PAESE spaesato. Senza riferimenti. Frustrato dai problemi economici, dall'inefficienza e dalla corruzione politica. Affaticato. E senza troppe illusioni nel futuro. È l'Italia disegnata dalla XVII indagine su "Gli Italiani e lo Stato", condotta da Demos (per Repubblica). Pare una replica del Rapporto 2013. Se possibile: peggiorata. Tuttavia, c'è una novità: il senso di solitudine. Perché oggi, molto più che nel passato, anche recente, i cittadini si sentono "soli". Di fronte allo Stato, alle istituzioni, alla politica. Ma anche nel lavoro. E nella stessa comunità.

LE TABELLE

1. Soli di fronte allo Stato. Valutato con fiducia dal 15% dei cittadini. Metà, rispetto al 2010, 4 punti meno di un anno fa. Un livello basso, ma non molto diverso, ormai, rispetto agli altri governi territoriali. Perché meno del 20% dei cittadini si fida delle Regioni e meno del 30% dei Comuni. Insomma siamo un Paese senza Stato, secondo le tradizioni. Ma abbiamo perduto anche il territorio. Mentre l'Europa appare sempre più lontana, visto che poco più di un italiano su quattro crede nella UE.

2. D'altra parte, gli italiani si sentono sempre più lontani dalla politica. E, in primo luogo, dai partiti. Ormai non li stima davvero nessuno. Per la precisione, il 3%. Cioè, una quota pari al margine d'errore statistico. Poco meno del Parlamento, comunque (7%). Una conferma del clima di sfiducia che mette apertamente in discussione la "democrazia rappresentativa". Interpretata, in primo luogo, proprio dai partiti, insieme al Parlamento.

3. Al di là dell'ampiezza, colpisce la "velocità" con cui sta crescendo la sfiducia verso i soggetti politici e le istituzioni di rappresentanza democratica. Rispetto al 2010, infatti, la credibilità dello Stato, dei partiti e del Parlamento è dimezzata. Mentre la fiducia nei Comuni e nelle Regioni è calata di oltre 10 punti percentuali. La perdita di riferimenti territoriali ha investito anche l'Unione Europea. Vista con favore dal 27% degli italiani: 22 punti meno del 2010. E 5 punti meno dell'anno scorso.

4. La stessa figura del Presidente della Repubblica appare coinvolta da questo clima di spaesamento. Giorgio Napolitano, "costretto" a subentrare a se stesso, per non creare pericolosi vuoti di potere, ha pagato le tensioni politiche e istituzionali. Anche per questo la fiducia nel Presidente, è scesa dal 71 al 44%, dal 2010 ad oggi. E di 5 punti rispetto all'anno scorso. D'altronde, tutti i livelli e i soggetti di "governo" hanno perduto consenso in misura significativa rispetto allo scorso anno: partiti, Parlamento, Comuni, Regioni. Lo Stato.

5. E ciò suggerisce, come si è già detto, che sia in discussione la credibilità stessa della democrazia rappresentativa. Sfidata apertamente da alcuni soggetti politici, come il M5s, che le oppongono la democrazia "diretta". Solo il 46% degli italiani ritiene, peraltro, che "senza partiti non ci possa essere democrazia". Mentre il 50% pensa il contrario (nel 2010 era il 42%). Certo, i due terzi dei cittadini credono che la democrazia sia ancora la peggior forma di governo, ad esclusione di tutte le altre (come sosteneva Churchill). Ma la scommessa democratica, nel 2008, era sostenuta da una quota di cittadini molto più ampia: il 72%.

6. Insomma, fra gli italiani si è diffusa una certa "stanchezza democratica". Anche perché la nostra democrazia, il nostro Stato, si dimostrano sempre più inefficienti. Non per caso, è cresciuta l'insoddisfazione verso i servizi pubblici. E l'insofferenza verso il sistema fiscale appare, ormai, senza limiti. Come il ri-sentimento verso la corruzione politica. Vizi nazionali, di "lunga durata", che circa 7 italiani su 10 considerano ulteriormente in crescita.

7. Tuttavia, la sfiducia nel governo centrale e locale, la degenerazione della politica e dell'azione dei partiti, manifestata dagli scandali per corruzione non hanno rafforzato la credibilità della Magistratura. Che, fra i cittadini, ha subìto un pesante calo di fiducia. Dal 50%, nel 2010, al 33% oggi. Quasi 17 punti in meno, in quattro anni. E 7 nell'ultimo.

8. Così si spiega lo sguardo scettico verso l'immediato futuro. Per la maggioranza (relativa: 40%) degli italiani, infatti, l'anno che verrà non sarà né migliore né peggiore dell'anno appena finito. Semplicemente: uguale. Cioè, senza istituzioni, senza governo. Senza sicurezza, visto che perfino la fiducia nelle Forze dell’ordine -  apprezzate, comunque, da due italiani su tre - è scesa di 7 punti, rispetto al 2010, 3 dei quali perduti nell'ultimo anno. D'altronde, anche gli indici di partecipazione politica e sociale sono in declino. Mentre la fiducia nelle organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori e, ancor più, dei sindacati, è calata sensibilmente. E quasi 6 persone su 10 diffidano degli "altri", in generale.

9. In pochi anni, dunque, abbiamo perduto i principali riferimenti della vita pubblica e sociale. E abbiamo impoverito quel capitale di partecipazione e di fiducia necessario alla società, alle istituzioni e alla stessa economia per funzionare, non solo per svilupparsi. Anzi, se proprio vogliamo essere precisi, c'è una sola figura che oggi disponga di grande credito. Papa Francesco. Lo apprezzano 9 italiani su 10. Quasi tutti, insomma. Tuttavia, il Papa è un'autorità "religiosa", a capo di un "altro" Stato. La sua grandissima popolarità (che, peraltro, è "personalizzata" e non si estende alla Chiesa) potrebbe suggerire che, ormai, non c'è speranza. E non ci resta che affidarci alla provvidenza divina...

10. Al di là delle battute, l'indagine di Demos sottolinea un rischio concreto. L'assuefazione alla sfiducia. Nelle istituzioni, negli altri, nel futuro. E, anzitutto, in noi stessi. Spinti, per inerzia, a "dare per scontato" che le cose non possano cambiare. Senza interventi "dall'alto". Così, "l'incertezza" rischia di apparire una condanna. Mentre è il "segno" del nostro tempo. "Incerto", ma non "segnato", pre-destinato. L'incertezza: significa che nulla è (ancora) scritto. Che l'anno che verrà non è ancora (av)venuto. Dipende anche da noi "segnarne" il percorso.

© Riproduzione riservata 28 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/28/news/partiti_istituzioni_europa_la_fiducia_va_a_picco_cittadini_sempre_pi_soli_il_papa_unica_speranza-103904923/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_29-12-2014
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