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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277731 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Dicembre 06, 2010, 09:10:40 am »

L'INCHIESTA

I giovani si sentono senza futuro ecco che cosa ha acceso la scintilla

La riforma Gelmini ha innescato il risentimento degli studenti.

Contro una scuola e un'università che funzionano sempre peggio.

Lo spiegano i dati Demos-Coop. Il disagio è profondo e generalizzato. E va ben oltre il ddl

di ILVO DIAMANTI

UN DISAGIO profondo e generalizzato. Che va ben oltre i contenuti della riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo. Ecco cosa c'è al fondo della protesta degli studenti. Il rinvio del voto al Senato, in attesa della fiducia (o della sfiducia) al governo, il prossimo 14 dicembre, non ha fermato la protesta contro la riforma dell'Università, firmata dal ministro Gelmini. In molte città, le occupazioni continuano. Nelle sedi universitarie ma anche nei licei e negli istituti superiori. Non intendiamo entrare nel merito della riforma, ma valutare il sentimento verso le politiche del governo, sull'università e sulla scuola. Parallelamente, ci interessa l'atteggiamento della popolazione nei confronti delle manifestazioni e delle polemiche che, da settimane, agitano il mondo studentesco. A questi argomenti è dedicato il sondaggio dell'Osservatorio sul Capitale Sociale di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi.

I dati suggeriscono che, al fondo della protesta, vi sia un disagio profondo e generalizzato. Che va oltre, ben oltre i contenuti e i provvedimenti previsti dalla riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico nell'insieme, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo.

Circa il 60% del campione, infatti, ritiene che negli ultimi dieci anni l'università italiana
sia peggiorata. Lo stesso giudizio viene espresso dal 70% (circa) riguardo alla "scuola" nel suo complesso. In entrambi i casi, meno del 20% della popolazione sostiene il contrario. Che, cioè, scuola e università negli anni 2000 sarebbero migliorate. Metà degli italiani, peraltro, ritiene che la riforma delineata dal ministro Gelmini peggiorerà ulteriormente la situazione, un terzo che la riqualificherà.

Naturalmente, i mali del sistema scolastico hanno radici profonde e una storia molto lunga. Quanto all'università, è appena il caso di rammentare che, dalla riforma avviata dal ministro Berlinguer, alla fine degli anni Novanta (quindi da un governo di centrosinistra), è stata sottoposta a un processo di mutamento continuo e non sempre coerente. Che ha prodotto una moltiplicazione dei corsi di laurea e delle sedi assolutamente incontrollata. È da allora che gli studenti - e, in diversa misura, anche gli insegnanti - hanno cominciato a mobilitarsi. Oggi, però, il disagio ha superato il limite di guardia. E la protesta si è riprodotta per contagio, un po' dovunque. Per ragioni che vanno oltre la riforma stessa, lo ripetiamo. Perché è diffusa e prevalente l'impressione che l'università e la scuola, nell'insieme, ma soprattutto quella pubblica, abbiano imboccato un declino senza fine e senza ritorno.

La fiducia nella scuola, negli ultimi dieci anni per questo, più che calata, è crollata: dal 69% al 53%. Sedici punti percentuali in meno. Un quarto dei consensi bruciato in un decennio. Per diverse cause e responsabilità, secondo i dati dell'Osservatorio Demos-Coop. Due su tutte: la mancanza di fondi e di investimenti (32%), lo scarso collegamento con il mondo del lavoro (22%).

In altri termini: la scuola e l'università non attirano risorse e non promuovono opportunità professionali. Anche i "baroni", secondo gli italiani, hanno le loro colpe. Ma in misura sicuramente più limitata (9%) rispetto a quanto vorrebbe la retorica del governo e del ministro. Peraltro, le responsabilità dei "baroni" appaiono ulteriormente ridotte, nel giudizio degli studenti e di coloro che hanno, in famiglia, uno o più studenti. Il che (lo dice un "barone", personalmente, senza quarti di nobiltà e con pochi poteri) appare fin troppo generoso.

Perché le colpe del corpo docente, all'Università, sono molte. Una fra tutte: non aver esercitato un controllo di qualità nel reclutamento. E nella valutazione dell'attività scientifica e didattica. Anzitutto della propria categoria. (Anche per queste ragioni, forse, oggi appaiono perlopiù silenziosi, di fronte alla riforma).

Ma ridurre il problema dell'Università - e della scuola - alla stigmatizzazione dei professori, oltre a essere ingeneroso verso coloro - e sono molti - che hanno continuato a operare con serietà e, spesso, con passione, risulta semplicistico e deviante. Basti considerare, semplicemente, le risorse pubbliche destinate all'Università e alla ricerca. Le più basse in Europa. Basti considerare che, a questo momento, mentre sta finendo il 2010, il governo non ha ancora stabilito (non si dice erogato) il finanziamento (FFO) alle Università del 2010. Non è un errore di battitura. Si tratta proprio dell'anno in corso, o meglio, tra poco: dell'anno scorso. Difficile, in queste condizioni, discutere seriamente della riforma universitaria.

A non crederci, per primi, sono gli italiani. Anche così si spiega il largo sostegno alla protesta contro la riforma Gelmini - maggioritario, nella popolazione. Espresso dal 55% degli italiani, ma dal 63%, tra coloro che hanno studenti in famiglia. E dal 69% fra gli studenti stessi. Il consenso alla protesta studentesca diventa, non a caso, quasi unanime in riferimento alla carenza di fondi alla ricerca (81%). Mentre è più circoscritto (per quanto maggioritario: 53%) riguardo alle occupazioni. È significativa, a questo proposito, la minore adesione che si osserva fra gli studenti universitari stessi. Attori della protesta, ne sono anche penalizzati. Vista la difficoltà di svolgere l'attività didattica e quindi di "studiare".

La riforma Gelmini, per queste ragioni, più che l'unico motivo della protesta giovanile, appare la miccia che ha acceso e fatto esplodere un risentimento profondo, che cova da tempo. Nelle famiglie, tra gli studenti, tra coloro che lavorano nella scuola e nell'università (in primo luogo, fra i ricercatori, categoria a esaurimento, secondo la riforma). "Risentimento" e non solo "sentimento", perché scuola e Università sono un crocevia essenziale per la vita delle persone. A cui le famiglie affidano la formazione e la "custodia" dei figli. Dove i giovani passano una parte della loro biografia sempre più lunga. Dove coltivano amicizie e relazioni. La scuola e l'università: che dovrebbero prefigurare il futuro professionale dei giovani. Non sono più in grado di svolgere questi compiti. Da tempo. E sempre meno. Abbandonate a se stesse. In particolare quelle pubbliche. Anche se solo una piccola quota di italiani vorrebbe privatizzarle maggiormente. (Come emerge dal XIII Rapporto su "Gli Italiani e lo Stato", di Demos-la Repubblica, sul prossimo numero del Venerdì). C'è questo ri-sentimento alla base della protesta e del dissenso profondo verso le politiche del governo nei confronti della scuola e dell'università.

Da ultimo: la riforma Gelmini. Non è un caso che i più reattivi non siano gli universitari, ma i liceali. Gli studenti che hanno meno di vent'anni e frequentano le superiori. Si sentono senza futuro. Una generazione sospesa. Precaria di professione. Professionisti della precarietà. Tanto più se nella scuola, nell'Università e nella ricerca si investe sempre meno. Questi studenti (secondo una recente ricerca dell'Istituto Cattaneo e della Fondazione Gramsci dell'Emilia Romagna) oggi appaiono spostati più a destra rispetto ai giovani degli anni Settanta. E, quindi, ai loro genitori. Ma, sicuramente, sono molto più incazzati di loro. A mio personale avviso, non senza qualche ragionevole ragione.

(06 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/scuola/2010/12/06/news/sondaggio_scuola-9870278/?ref=HRER1-1
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« Risposta #196 inserito:: Dicembre 13, 2010, 04:05:53 pm »

L'ANALISI

La democrazia dell'irresponsabilità

di ILVO DIAMANTI

DOMANI andrà in scena il rito della fiducia al governo. Annunciato da tempo e poi rinviato. Messo in dubbio e infine ribadito. Perché la fiducia è una cosa seria. Anche se è una merce rara, in politica come nella vita quotidiana. Ma è necessaria in Parlamento: per verificare l'esistenza di una maggioranza, più che di un legame di "fiducia".

Alla base del sostegno a un governo, a un partito o a un premier ci possono essere, infatti, diversi motivi. Spesso personali. Ostilità e solidarietà, simpatia e antipatia. Ma anche interesse e utilità. Perché nella democrazia rappresentativa non si può ricorrere al "mandato imperativo", che vincola l'eletto alla fedeltà verso i suoi elettori. Per cui gli eletti dispongono di un buon grado di autonomia individuale nelle proprie scelte. Possono, cioè, decidere con una certa libertà come agire, nelle singole questioni, ma anche in quelle più importanti. Fino a dissociarsi dalle posizioni del partito o dello schieramento nelle cui liste sono stati eletti. Non solo: fino al punto di uscire da un partito o da uno schieramento per scivolare in un altro. È sempre avvenuto, in realtà. Senza andare troppo indietro nel tempo, basti pensare alla rapida conclusione del governo Prodi, nel gennaio 2008. Affondato dal "voto amico".

 In questa legislatura, però, il fenomeno ha assunto proporzioni ampie e inattese. Tanto da mettere in crisi - comunque vada la verifica di domani - la maggioranza larga di cui disponeva il centrodestra dopo le elezioni del 2008. A causa, anzitutto, della frattura nel Pdl, seguita al distacco insanabile di Fini e dei suoi "fedeli" (?) da Berlusconi e il suo Popolo (della Libertà). Nelle ultime settimane, in particolare, i "distacchi" e i "ripensamenti" si sono alternati e allargati, in modo frenetico. Ispirati da logiche diverse. Dove gli interessi hanno preso il sopravvento sui valori. Dove i fini politici e la morale hanno imboccato percorsi divergenti - come ha scandito con forza Eugenio Scalfari ieri. Dove la morale si è perduta, all'ombra di calcoli assai più venali. Tanto che si è parlato - e si continua a parlare - di "mercato" dei voti. E dei parlamentari. Di cui sta occupando perfino la magistratura.

 Sarebbe, peraltro, poco utile - a mio avviso - circoscrivere questi comportamenti dentro i confini dell'indignazione (anch'essa una merce molto rara, in questi tempi).

Gli slittamenti di partito e schieramento, oggi, avvengono sulla spinta di incentivi diversi - seppure, talora, eguali - rispetto a quelli che alimentano la "fedeltà" politica. Cioè: i vantaggi di carriera, di reddito, di potere, di visibilità legati al ruolo di parlamentare. D'altronde, la coerenza con i principi e i fini assoluti - nel linguaggio di Max Weber: "l'etica della convinzione" - non ha mai avuto una credibilità così bassa, in politica. I legami ideologici e associativi, perfino di categoria, si sono indeboliti e quasi dissolti, insieme ai partiti e alle grandi organizzazioni di interesse. Oggi, in fondo, i parlamentari a chi rispondono? I partiti praticamente non ci sono più. Salvo la Lega. E, comunque, sono tutti centralizzati e personalizzati. Compresa la Lega. Per cui diventano - sono divenuti - canali di mobilitazione individuale. Metodi per affermarsi e riprodurre la propria posizione. Certo, Berlusconi ha diviso il mondo in due: tra se stesso e i comunisti. Fra la libertà e la barbarie. In questo modo è riuscito a restituire un senso a una politica che aveva perduto senso. Nonostante sia lecito e legittimo interrogarsi: se abbia senso una politica fondata su questa alternativa. Ma tant'è. Di fronte a uno spettacolo politico tanto desolante (in un'epoca nella quale non c'è distanza fra politica e spettacolo), si ripropone la questione posta all'inizio. L'autonomia degli eletti e dei parlamentari rispetto agli elettori. Fino a che punto può spingersi? E quando, come in questa fase, produce comportamenti del tutto dissociati rispetto alla volontà degli elettori, si può parlare ancora di democrazia - anche se rappresentativa?

 Il fatto è che nella democrazia rappresentativa il principio dell'autonomia degli eletti deve essere bilanciato da quello della "responsabilità". Ricorrendo di nuovo alla lezione di Max Weber: l'etica del politico è "responsabile" in quanto considera le conseguenze delle proprie scelte sul piano pubblico. Ma anche sul piano elettorale. (Come sottolinea Bernard Manin, nei "Principi del governo rappresentativo", pubblicato da "il Mulino")

In altri termini: gli eletti possono anche passare a un gruppo - magari uno schieramento - diverso. Proclamare l'interesse pubblico, praticando in realtà quello privato - e familiare. Però poi ne devono rispondere ai propri elettori. E agli elettori - in generale. Razzi oppure Calearo (ma solo chi lo ha candidato nel Pd poteva ignorare che non marcia a sinistra neppure quando guida in Inghilterra): dovranno rispondere delle loro posizioni e del loro operato alle prossime - più o meno imminenti - elezioni. Tuttavia, ciò difficilmente avverrà. Anzi: non avverrà di certo. Non solo perché la memoria, in politica, è sempre corta. E dal 15 dicembre, cioè: dopodomani, i "mercanti della fiducia" - finito il loro momento di gloria - probabilmente torneranno nell'ombra. Ma soprattutto perché gli elettori hanno perduto ogni potere di scelta "personale". Cioè, "personalmente", non possono esprimersi sulle "persone" che li rappresentano. In base a valutazioni retrospettive sull'azione degli eletti.

Considerando gli effetti di ciò che essi hanno fatto durante il loro mandato: per noi, la nostra categoria, la nostra zona.
In riferimento ai valori in cui crediamo. Perché non esistono possibilità di verifica e di controllo diretto da parte degli elettori, con questo sistema elettorale, centralizzato, senza preferenze, a liste bloccate, che premia le coalizioni. Che attribuisce alle leadership di partiti personali oppure oligarchici il potere di scegliere e decidere. Chi eleggere e dove. Chi candidare, ricandidare oppure escludere. Questa democrazia, sempre meno rappresentativa. Sicuramente "irresponsabile". E poco democratica. Riproduce e promuove un'etica dell'irresponsabilità: civile e personale.
 

(13 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/13/news/la_democrazia_dell_irresponsabilit-10122724/?ref=HREA-1
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« Risposta #197 inserito:: Dicembre 15, 2010, 05:16:27 pm »

Limes 6/2010 Berlusconi nel mondo

Silvio Berlusconi, una geopolitica molto personale

di Ilvo Diamanti

Tappe, obiettivi ed esiti della strategia territoriale del Cavaliere.

Dall’uso delle etichette geopolitiche nelle elezioni del 1994 alla retorica dei fatti e dei luoghi, ormai evaporata.

Il proliferare delle Leghe. La personalizzazione come boomerang.


Può sembrare paradossale riflettere sul legame di Silvio Berlusconi con il territorio. Descriverne l’identità geopolitica «nazionale». Farne oggetto di analisi specifica e approfondita.


Silvio Berlusconi, infatti, appare come l’inventore e l’attore protagonista della «politica come marketing», mediatizzata e personalizzata. Dunque: una politica senza territorio. Che ha come spazio la comunicazione e, in particolar modo, la televisione.


Eppure, l’identità politica di Berlusconi è stata elaborata, promossa, sviluppata dal suo artefice in modo consapevole e accurato, porgendo grande attenzione al territorio. Sotto il profilo dell’organizzazione, ma anche – e prima ancora – della rappresentazione.


Il Cavaliere, infatti, ne ha fatto argomento esplicito – marchio e parola – della comunicazione politica. Il che non deve sorprendere più di tanto.


Perché non c’è discontinuità, nella strategia di Berlusconi, fra la politica mediatica e personalizzata, da un lato, e il riferimento al territorio, dall’altro. In particolare se si considera quanta importanza abbia avuto il territorio, negli ultimi trent’anni. E quale valore mantenga ancora oggi, sul mercato elettorale.


Dal punto di vista simbolico, ma anche organizzativo: come bandiera e come tema dell’agenda politica. Berlusconi, per questo, ne ha fatto largo uso in campagna elettorale. Cioè: sempre. Visto che si vota praticamente sempre. E comunque viviamo in campagna elettorale permanente.


Il territorio come marchio e come network


Silvio Berlusconi ha adottato il territorio come argomento di marketing, ma anche come fattore di aggregazione e di coalizione. Cioè: come network. Fin dall’inizio della sua esperienza politica, in occasione della campagna elettorale del 1994. Le prime elezioni della (cosiddetta) Seconda Repubblica.


Una fase di svolta, durante la quale il sistema partitico e istituzionale è in piena crisi, in pieno sfaldamento. Sottoposto a molteplici, laceranti tensioni. Non ultima, anzi tra le più importanti, quella territoriale, interpretata dalla Lega Nord. Soggetto politico che si muove tra rivolta economica e protesta politica. La sua proposta – anzitutto simbolica ed emotiva – si riassume nella lotta «contro Roma e il Sud».


Riflette, quindi, una duplice domanda di cambiamento: socio-economico e geopolitico. Roma, infatti, appare e viene polemicamente rappresentata come la capitale del sistema partitocratico e della corruzione politica. Luogo del centralismo statale e dell’intervento pubblico assistenziale.


Il Sud costituisce, invece, il principale beneficiario della spesa pubblica, a cui Roma – lo Stato centrale – destina una quota spropositata delle risorse prodotte soprattutto nel Nord. D’altronde, gran parte della base elettorale dei partiti di governo della Prima Repubblica (la Dc, anzitutto, ma anche il Psi), dopo gli anni Settanta si era prevalentemente spostata nel Mezzogiorno. Accompagnata e sostenuta – appunto – dalla spesa pubblica e dalla protezione dello Stato.


Anche Silvio Berlusconi, peraltro, è molto caratterizzato dal punto di vista territoriale. È un imprenditore di Milano, capitale del «nuovo» Nord. Epicentro della ribellione contro il sistema partitocratico della Prima Repubblica.


È la città di Mani Pulite, l’alternativa a Roma, ma anche a Torino, capitale del «vecchio» Nord, che si regge(va) sulla grande industria protetta dalla politica e dallo Stato. Milano, invece, è il baricentro del capitalismo di produzione dei beni immateriali. Finanza, servizi, comunicazione.


Berlusconi ne riflette l’immagine. E a sua volta contribuisce a definirla. In una certa misura, è un altro Nord. Diverso da quello rappresentato da Torino e dalla Fiat. Diverso anche dal Nord della Lega. Che rappresenta il neocapitalismo rampante, espresso dalla piccola e piccolissima impresa, che si sviluppa soprattutto nelle province non metropolitane.


Pedemontane, più che padane. E corre dal Nord-Est al Nord della Lombardia, fino a toccare alcune province del Nord-Ovest, periferiche rispetto a Torino (Cuneo, in primo luogo). È l’erede della Dc, dal punto di vista della base elettorale. Ma se ne distacca per molti altri versi. La Lega è, infatti, diversa e opposta alla Dc per stile, linguaggio, proposta.


Berlusconi, dunque, interpreta un altro Nord: non di sinistra, ma neppure leghista. Per tradizione e storia, sicuramente anticomunista. Per biografia e geografia, contiguo e concorrente al Nord leghista. Tuttavia, per interesse politico ed elettorale, oltre che imprenditoriale, non può fare la guerra a Roma e al Sud.


Significherebbe, tra le altre cose, rinunciare a vincere. Condannarsi ad essere minoranza.


Come il Pci e la sinistra, che non avevano mai governato, in Italia, non solo per il vincolo internazionale, ma anche perché rinchiusi in una larga ma delimitata riserva di caccia elettorale. L’enclave della zona rossa, che circoscrive le – ed è circoscritta dalle – regioni dell’Italia centrale.


Per questo Berlusconi, in vista delle elezioni del 1994, allestisce una coalizione che rammenta un catalogo di etichette territoriali. Aggrega, in un unico cartello elettorale, oltre alla Lega Nord, anche Alleanza nazionale.


Partito post-fascista, gemmato dal Msi proprio in vista del voto. Per base elettorale, una sorta di Lega Sud. Associa, inoltre, anche i neodemocristiani del Ccd.


Complemento della Lega nel Nord e di An nel Sud. In questo modo, peraltro, oppone il Nuovo (le emergenti identità territoriali) al Vecchio (i partiti di ex e di post: comunisti, democristiani eccetera).


Insomma, Berlusconi convoglia in un unico contenitore (il Polo) contesti – sociali, economici e anzitutto simbolici – largamente inconciliabili. Fin dal nome: il Nord e la nazione (ancorata a Roma e nel Sud, patrie di An).


Berlusconi li riconcilia e li riassume, fornendo loro una cornice comune, definita dal suo «partito personale». Il quale, non per caso, si chiama Forza Italia. Un nome significativo.


Più che evocare la nazione raffigura la Nazionale di calcio. Richiama il paese delle passioni, che si identificano nella maglia dei calciatori. Azzurra, come la bandiera di Forza Italia. Come la casacca dei militanti forzisti. Gli «azzurri».


L’Italia di Berlusconi evoca, inoltre, la televisione, di cui egli è il più importante e potente imprenditore privato. Non solo in ambito nazionale. Quella che egli interpreta e raffigura è un’Italia «senza territorio», appunto.


Ma è un network capace di connettere e di tenere insieme i diversi territori – altrimenti inconciliabili e contrapposti – rappresentati dalla Lega e da An.


La sua immagine personale, la sua costruzione mediale di «italiano medio», in grado di vincere e di raggiungere il successo in ogni campo, gli consentono di offrire una colla ai pezzi di un paese spezzato dalla politica, oltre che dall’economia. Peraltro, la sua capacità di comprendere e maneggiare le logiche della nuova legge elettorale semi-maggioritaria gli permette di costruire un cartello vincente, evitando i contrasti fra attori politici e territoriali tanto lontani.


Così costruisce un’alleanza distinta: a Nord con la Lega; al Centro-Sud con An. Lega Nord, Lega Sud. Entrambi uniti da Forza Italia. L’unico e il solo partito in grado di presentare una distribuzione del voto «nazionale»; comunque, non circoscritta e marcata territorialmente. A differenza degli alleati, ma anche dei partiti di centro-sinistra.


Così la Seconda Repubblica nasce insieme all’Italia mediatica e personalizzata di Silvio Berlusconi. Capace di sostituire con il marketing la perdita di forza dell’ideologia. E di personalizzare questo «paese di compaesani», come lo definisce Paolo Segatti.


Questo paese di paesi. Proponendo se stesso come modello. Il sogno americano all’italiana. Visto che gli italiani (non tutti, ovviamente, ma una parte rilevante di essi) sono dei «Berlusconi più poveri» (per echeggiare una felice formula di Massimo Gramellini).


La «geopolitica nazionale» di Berlusconi, dunque, è una costruzione personale e personalizzata. Opera abile e complessa, mediale e narrativa. Diplomatica e organizzativa. Perché solo lui è in grado di tenere insieme i partiti e i leader che rappresentano le diverse Italie. Bossi, Fini, Casini. E solo lui è in grado di imporre confini territoriali stretti e invalicabili agli avversari, ai «nemici» del centro-sinistra.


La parola e lo stigma «comunista», che Berlusconi usa senza sosta e come mai era avvenuto nella Prima Repubblica, quando i comunisti esistevano davvero, costringe il centro-sinistra dentro allo storico recinto delle regioni rosse del Centro Italia. Lo riduce a una sorta di Lega di Centro (come la definisce Marc Lazar).

La retorica dei fatti e dei luoghi


Un secondo, importante uso che Berlusconi fa del territorio è di tipo narrativo. Se ne serve, cioè, come esempio e raffigurazione del suo stile di azione e di attore. Concreto, operativo, diretto. Poco abituato alle chiacchiere, ai discorsi vuoti e fini a loro stessi dei «politici professionali». Alle parole, Berlusconi oppone i fatti. Alle utopie (per definizione: luoghi ideali) egli oppone i luoghi concreti. Berlusconi: è «l’uomo del fare» che guida il «governo dei fatti».


Nel 2001, in campagna elettorale, nel salotto di Bruno Vespa, traccia (letteralmente: con un pennarello su un tabellone) il suo decalogo, dove campeggiano «grandi opere» che segnano (talora devastano) il territorio. Grandi reti autostradali e ferroviarie ad «alta velocità», che segnano la mappa del paese.


Ancora: il ponte sullo Stretto di Messina. E nel 2006, alla vigilia del voto dove appariva sconfitto predestinato, riesce quasi a rovesciare il pronostico, promettendo, nel faccia a faccia con Prodi, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa. Ossia il taglio della tassa che colpisce la quasi totalità degli italiani «a casa loro». Nel luogo in cui abitano e vivono con la loro famiglia.


Infine, alle elezioni del 2008, dove esce trionfatore con la sua coalizione, imposta la sua campagna sull’immagine dei rifiuti di Napoli.


Le cataste di immondizie che si ammassano nelle strade di uno dei luoghi-simbolo del governo di centrosinistra. La città e la Regione di Bassolino. Artefice di una stagione di speranze e di rinascita. Berlusconi punta sul «miracolo illusorio» della sinistra. E promette che lì, proprio lì, le cose cambieranno «in modo visibile». Napoli liberata dalle immondizie è «il luogo» che testimonia dell’efficienza dell’Imprenditore dedito alla politica per il bene comune.


Così, un anno dopo, L’Aquila devastata dal terremoto gli permette di affermare nuovamente il suo stile e il suo esempio. L’uomo del fare. Che agisce nel paese reale. E libera il territorio coperto di macerie. Da cui risorgerà la città. I «luoghi» permettono a Berlusconi di mettere in scena la sua azione politica. Per ancorare le sue parole a un territorio. A un contesto. Illuminato dai media. E dunque reale.


Le fratture inattese dell’unificazione personale del paese


Il nesso con il territorio, dunque, è in grado di spiegare molte ragioni del successo di Berlusconi. Ma ne annuncia anche la debolezza. Altrettanti motivi di instabilità. Intuibili fin dall’inizio della sua vicenda politica, che dura ormai da sedici anni, oggi sembrano divenuti palesi e difficilmente sostenibili. Li riassumiamo rapidamente.


A) La prima ragione richiama la difficoltà di ricomporre interessi e identità territoriali tanto contrastanti su basi «personali».


Un problema che emerge subito, quando, nel 1994, dopo pochi mesi di governo, la Lega di Bossi rompe con la maggioranza e quindi con Berlusconi. Perché Berlusconi e Forza Italia, più che alleati, sono divenuti concorrenti della Lega.


Ne hanno eroso i consensi e la rappresentanza nel Nord. Per cui la Lega se ne va e corre «da sola contro tutti». Ma soprattutto contro di lui: Berlusconi. E alle elezioni del 1996 lo sconfigge.


O meglio, vince l’Ulivo guidato da Prodi, ma solo perché nel Nord la Lega batte nettamente il Polo delle Libertà, dove Berlusconi ha riunito accanto a Forza Italia Alleanza nazionale e i neo-dc. Legittimando la propaganda polemica di Bossi contro il Polo di Roma e del Sud. Perché la «rappresentazione» è diversa dalla «rappresentanza».


Berlusconi può dare «immagine» al Nord, ma non dispone di radici forti e stabili che gli permettano di formare una base politica ed elettorale solida. Non a caso, nel 2000, Berlusconi ricuce il rapporto con Bossi e la Lega.


Fiaccati, a loro volta, da un antagonismo «rivoluzionario» che li fa apparire «poco produttivi» agli elettori del Nord. Ai quali, assai più della secessione, interessa ottenere – da Roma – risorse e potere.


Berlusconi e Bossi, insieme, tornano a vincere. Nord e (Forza) Italia: di nuovo uniti. Lo stesso problema, peraltro, emerge nel rapporto con il Mezzogiorno, do- ve Forza Italia deve misurarsi con la concorrenza di An, i neo-dc e le altre formazioni regionali e locali (Udeur, Mpa eccetera). Tanto più forte quanto più esplicita diventa l’azione politica della Lega.


E quanto più il peso politico della Lega diventa rilevante, nella Casa delle libertà. Cioè nel polo di centro-destra. Allora, la mediazione politica di Berlusconi diventa faticosa. E la sua immagine stenta, a sua volta, a unificare – o almeno a mediare – i diversi paesi del paese. Le diverse Italie che compongono l’Italia.


B) Questa tensione diviene lacerante dopo le elezioni del 2008. Quando il progetto unificante e unitario di Berlusconi sembra raggiungere il livello di suc- cesso più elevato.


Non solo perché conduce la coalizione alla conquista di una maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato. Ma perché unifica An e Forza Italia. Il partito nazional-meridionale e quello nazional-personale sotto un’unica bandiera. La sua.


L’alleanza con la Lega, peraltro, riproduce lo schema originario: l’intesa fra il Nord e l’Italia. Unico garante: lui. Insieme al suo amico e complice: Umberto Bossi.


L’Italia fondata sui legami personali. Una cornice che non regge. Non tiene più. Perché l’Italia «mediale» deve fare i conti con quella «reale». E i conti dell’Italia reale sono critici. Fissati dalle regole e dai vincoli internazionali. Fiaccati dalle crisi economiche e finanziarie globali.


Non è facile, anzi: è impossibile soddisfare Nord e Sud. Allo stesso tempo. Tanto più – tanto meno – servendosi, come strumenti privilegiati, dell’immagine. Della narrazione. Della personalizzazione.


L’immagine e la narrazione di Berlusconi non bastano più. Soprattutto nel Mezzogiorno. Dove le paure – e le conseguenze – della crisi sono difficili da accettare. E le politiche del Nord – riassunte nel federalismo – fanno paura.


Tanto che la maggior parte dei cittadini del Sud le considerano strategie secessioniste. Contro gli interessi del Mezzogiorno. Mentre i cittadini del Nord, in misura crescente, considerano il Sud semplicemente «un peso per lo sviluppo del paese» e un costo senza benefici per il Nord.


C) Ancora: la rappresentanza «personale» della politica e dei territori produce, come conseguenza imprevista e indesiderata, il trasferirsi dei conflitti e delle fratture dal piano personale a quello geopolitico.


Così, la frattura tra Berlusconi e Fini non produce solo la scomposizione del Pdl, ma anche la scomposizione tra Nord e Sud. Visto che Bossi, per primo, elegge Fini – insieme a Casini – portabandiera degli interessi del Sud.


Il che, peraltro, ottiene, come ulteriore conseguenza, a cascata, la scomposizione interna ai territori. Fa emergere altre tensioni, che promuovono altri partiti, altri leader – locali. Soprattutto nel Mezzogiorno e in Sicilia.


Infine, la «localizzazione» della politica, della comunicazione e della comunicazione politica. Trasforma la «retorica del fare» in retorica tout court.


Perché se l’immondizia ritorna periodicamente a sommergere Napoli, se le macerie continuano a seppellire il centro dell’Aquila, allora i fatti diventano semplici parole. Contraddette dalle immagini. Mentre i luoghi diventano metafore.


Di un’Italia immaginaria e illusoria. Raccontata e inesistente. Una favola, più che una parabola. Il racconto di un paese che non c’è. Neppure come raffigurazione.


I limiti della geopolitica personale


Così la geopolitica nazionale di Silvio Berlusconi si trasforma in limite. L’imprenditore politico che ha inventato e costruito la Seconda Repubblica, nell’anno in cui si celebra il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia rappresenta un’Italia divisa.


Dove le fratture territoriali originarie non si sono saldate, ma anzi riemergono, moltiplicate e amplificate dalla logica mediatica e personale di quest’epoca. A riflettere il fallimento di un progetto di unificazione nazionale e (meta)territoriale. In fondo: del progetto (geo)politico personale di Silvio Berlusconi.

(13/12/2010)
http://temi.repubblica.it/limes/silvio-berlusconi-una-geopolitica-molto-personale/17788?ref=HREA-1
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« Risposta #198 inserito:: Dicembre 20, 2010, 02:46:36 pm »

MAPPE

La metamorfosi di Silvio uomo dell'emergenza

Il presidente del Consiglio non è l'uomo della Provvidenza perché la Provvidenza regola gli avvenimenti verso il futuro.

Mentre il Cavaliere racconta il futuro per affrontare il presente immediato

di ILVO DIAMANTI


LA VERIFICA parlamentare del 14 dicembre non ha garantito la fiducia al governo. Semmai: la non-sfiducia. Per questo non ha prodotto cambiamenti significativi nel clima d'opinione. Tutto è rimasto, più o meno, come prima sulla scena politica. Instabile e incerta, senza copioni a guidare le scelte degli attori. Neppure un canovaccio che permetta loro di recitare a soggetto. Questa crisi, tutta interna alla maggioranza, non ha restituito legittimazione e consenso alla leadership di Silvio Berlusconi. Presso gli elettori, nel centrodestra e, in fondo, nel sistema politico italiano. Dove prevale e persiste un grande senso di precarietà. Il che costituisce una novità, nella biografia politica di Berlusconi. Scandita da numerose "sfide" per la vita. E per la morte (politica). Puntualmente vinte.

Sedici anni trascorsi a sfidare il sistema politico italiano, dopo averlo modellato a propria immagine e somiglianza. Il muro di Berlino sostituito da quello di Arcore. Che ha diviso il nostro piccolo mondo in due. Fra berlusconismo e comunismo. O, simmetricamente: tra antiberlusconismo e anticomunismo (senza il comunismo). Una lotta altamente personalizzata, esaltata dai media. Cercata e comunque sfruttata dal protagonista. Al centro di ogni sentimento e di ogni risentimento. Lui, il vero cemento culturale e ideologico del nostro tempo.
Senza ideologia e senza tempo. Senza futuro. Silvio Berlusconi non è l'Uomo della Provvidenza, ma dell'Emergenza. Perché la Provvidenza regola gli avvenimenti verso il futuro (previsto da Dio).

Mentre Berlusconi racconta il futuro per affrontare il presente immediato. Le emergenze. Dà significato politico "generale" alle sfide "personali", che lo riguardano direttamente. A partire dalle inchieste dei magistrati: un attacco politico contro le istituzioni di governo, contro il popolo sovrano che lo ha incoronato.

Nel 1994: ha sfruttato l'emergenza prodotta dal crollo della Prima Repubblica. Silvio Berlusconi, più di tutti, ne ha beneficiato.
Ha imposto la politica come marketing, le persone al posto dei partiti, i media e la comunicazione al posto della partecipazione.
Ha costruito una coalizione di marchi territoriali - il Nord, l'Italia, la Nazione - al posto dei riferimenti ideologici tradizionali.
Ha abolito la parola "partito". Sostituita da Polo, Casa, Popolo. Ha vinto la sfida del momento. Senza riuscire a governare.
Perché - lo ha scritto Ezio Mauro qualche giorno fa - Berlusconi non sa governare (né gli interessa). Sa solo comandare. Il che, ovviamente, non è poco. Perché Berlusconi è stato in grado - unico in Italia - di tenere insieme gli opposti. Lega Nord e Alleanza Nazionale.
Soggetti politici nuovi e neodemocristiani. Nord e Sud. L'unico a disporre di argomenti adeguati ed efficaci per "costringerli" a stare insieme. Con la forza dei media, delle risorse, con la minaccia di escluderli dai centri del potere.

L'Uomo dell'Emergenza ha sempre cercato - e vinto - le sfide decisive della lotta per la vita e per la sopravvivenza. Anche - e tanto più - quando veniva considerato "finito". Sconfitto alle elezioni politiche del 1996: ha vinto le europee del 1999, le regionali del 2000.
E le politiche del 2001. Dopo aver firmato un "patto per l'Italia". Mai rispettato. Ha perduto tutte le elezioni intermedie, punito dalla "delusione" dei suoi stessi elettori. Fino alle elezioni del 2006, considerate il "capolinea", l'ultimo atto della sua storia politica.
Dai suoi stessi alleati. Quasi da solo, ha risalito la china, in pochi mesi. Trasformando la sconfitta annunciata del Centrodestra in un quasi-pareggio. Cioè, per il Centrosinistra (di cui era stato previsto il trionfo), una quasi-sconfitta. Premessa al successo alle elezioni politiche del 2008. Dove ha conquistato la maggioranza parlamentare più larga della Seconda Repubblica. Senza riuscire a gestirla.
Visto che oggi, due anni e mezzo più tardi, la sua coalizione appare spaccata e divisa. Come il suo nuovo "partito personale", il Pdl.
Come la sua intesa con Gianfranco Fini. Perché Berlusconi non sa "provvedere" al futuro, ma neppure al presente, in modo "normale".
Forse neppure lo vuole.

La normalità del governo quotidiano lo annoia. La costruzione di un futuro troppo lontano: lo interessa poco. Per cui procede a strappi. Alla ricerca di battaglie da vincere e di avversari da sconfiggere. Così, da ultimo, ha trasformato la frattura con Fini e i suoi fedeli, la conseguente nascita di Fli, il voto di sfiducia in una opportunità. Un'altra sfida personale. Da vincere, per risalire la china. Come il barone di Munchausen che, caduto in una palude, riesce a sollevare se stesso e il proprio cavallo da solo, tirandosi su per il codino (cioè, per i capelli: questa sì un'impresa impossibile anche per il Cavaliere...).

Il problema è che passato il 14 dicembre e incassata la non-sfiducia nulla è cambiato. L'Uomo dell'Emergenza resta nell'emergenza.
Come il Paese. Instabile e precario. Come la sua maggioranza. Ipotetica. Non per altro oggi, il Terzo Polo è divenuto tanto importante, per Berlusconi. Lui, l'Uomo dell'Emergenza, ha bisogno di un'ancora a cui aggrapparsi per sopportare il maremoto dell'emergenza. Per lo stesso motivo, la Lega vuole elezioni al più presto. Perché la debolezza di Berlusconi rafforza la Lega. La coabitazione con l'Udc la minaccia.

Così, di crisi in crisi, di emergenza in emergenza, la capacità di reazione e di ripresa di Berlusconi, si è consumata. E oggi appare quasi esaurita. Dopo le discese ardite, le risalite seguono sempre più faticose. La sua vittoria contro Fini, oggi, appare un episodio circoscritto. Non gli ha restituito la "fiducia" del Paese (come potrebbe?). Mentre quella della Camera dipende da un mercato dei voti più volatile di quello finanziario. Berlusconi: è l'Uomo del Giorno  -  per giorno. Annunciarne il declino: non serve. È già declinato.

Il problema è che per batterlo non bastano astuzie tattiche ed elettorali. Finché prevarrà l'emergenza come orizzonte culturale e politico, oltre che economico. Berlusconi ne resterà lo specchio fedele. E, al tempo stesso, l'interprete più efficace.

(20 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #199 inserito:: Gennaio 03, 2011, 04:40:22 pm »

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Il Pd e il grande equivoco delle primarie. La scelta che cambia il futuro del partito

Non è un passaggio solo tecnico, ma nel centrosinistra assume un forte carattere simbolico.

Eppure tra gli elettori di sinistra solo un terzo le giudica indispensabili.

Parisi le definì "il mito fondativo dell'Ulivo". In 4 milioni scelsero Prodi.

L'utilizzo però è stato à la carte: sì per Veltroni e Bersani, no per Franceschini


di ILVO DIAMANTI


Da qualche tempo, nel Pd, la passione per le primarie sembra in declino. Nel gruppo dirigente, perlomeno.
Lo stesso Bersani, di recente, ne ha messo in dubbio il ricorso in caso di alleanza con il Terzo Polo (di Centro). Al quale le primarie - per usare un eufemismo - non piacciono.
D'altronde, l'atteggiamento verso le primarie è sempre stato contraddittorio. Basti pensare al caso della Puglia, in vista delle Regionali di un anno fa, quando alcuni dirigenti del Pd (D'Alema e Letta, in particolare) tentarono di bloccarle. Per impedire la ricandidatura di Vendola. Senza esito. Anzi, con l'effetto opposto: rafforzare Vendola. Trionfatore delle primarie e ri-eletto Governatore. Tuttavia, non solo in Puglia, ma anche altrove, per esempio a Firenze e, di recente, a Milano, si sono imposti candidati diversi da quelli indicati dal Pd.
Da ciò la crescente insofferenza dei suoi dirigenti verso le primarie. Con l'argomento che mobilitano soprattutto i "militanti". E, in questo modo, favoriscono la scelta di candidati maggiormente caratterizzati. Ma, per lo stesso motivo, meno rappresentativi degli orientamenti degli elettori. Soprattutto, di quelli più moderati.

In effetti, il dibattito sulle primarie è rivelatore di una questione più ampia. Che riguarda, direttamente, l'identità e il progetto del Centrosinistra in Italia.
Oltre che del Pd, che ne costituisce il riferimento. Le primarie, infatti, non hanno un significato semplicemente "tecnico". Assumono, invece, una grande importanza simbolica.
Arturo Parisi, che (accanto a Prodi) ne è stato - se non il primo - uno dei primi sostenitori, le ha definite il "mito fondativo" dell'Ulivo. Soggetto politico a vocazione maggioritaria, destinato ad accogliere le istanze e le componenti più diverse del Centrosinistra. In altri termini: il modello dell'Unione, sperimentato alle elezioni del 2006. In vista delle quali si svolsero le primarie, nell'autunno del 2005, che designarono Romano Prodi candidato premier. Si trattò, in effetti, di una investitura. A cui, tuttavia, parteciparono oltre 4 milioni e 300 mila elettori - dei diversi partiti della coalizione. Non solo l'Ulivo, ma anche l'IdV, l'Udeur, i Verdi. Segno di una domanda effettiva e particolarmente ampia nel Centrosinistra.

Si tratta, peraltro, dell'unica occasione in cui le primarie siano state utilizzate, in ambito nazionale, per il loro fine naturale (come rammenta spesso Gianfranco Pasquino).
Cioè: selezionare il candidato a una carica monocratica. In questo caso: il Presidente del Consiglio. Successivamente, nel 2007 e nel 2009, hanno, invece, funzionato da surrogato - o da complemento - ai congressi di partito. Mediante cui eleggere i segretari - e gli organismi - del Pd. Che, nel frattempo, aveva sostituito l'Ulivo. Seguendo il modello americano del bipartitismo. Non più Unione, ma Partito Unico dei riformisti. Nell'autunno del 2009, in particolare, l'elezione del segretario e degli organismi avvenne attraverso un percorso complesso. Prima i Congressi - a livello di circolo e di provincia - riservati agli iscritti, con il compito di eleggere la Convenzione (e l'Assemblea nazionale). Poi le primarie, aperte agli elettori (dichiarati). Poi ancora l'Assemblea, a ratificare la scelta delle primarie. Un collage di modelli organizzativi, che riassume - ed enfatizza - l'incertezza progettuale alla base del Pd. In bilico fra "partito di massa" - dunque di "iscritti" - radicato a livello territoriale. E "partito di elettori", in formato maggioritario e americano. Fondato sulle primarie.

Un equivoco mai risolto. Che riemerge di continuo. E oggi diventa difficile da eludere e da rinviare.
Anche perché coinvolge gli stessi elettori. I cui orientamenti riflettono la medesima incertezza dei gruppi dirigenti. Come emerge dal sondaggio di Demos (condotto nelle scorse settimane), la maggioranza degli elettori di Centrosinistra continua a ritenere utili le primarie per scegliere i candidati Premier, Sindaci, Governatori e Parlamentari. Ma coloro che vorrebbero utilizzare questa procedura "sempre" - e in ogni occasione - costituiscono comunque una minoranza, per quanto ampia: il 30%. Questa posizione, peraltro, è espressa dal 42% degli elettori di Sel, ma da poco più di un quarto di quelli del Pd e dell'Idv. Per contro, è vero che solo una quota limitata (intorno al 20%) rifiuta le primarie "a prescindere". Tuttavia, fra gli elettori appare evidente un certo grado di confusione. Sulle primarie, sul partito, sul Centrosinistra.

Sulle primarie. Perché, fino ad oggi, sono state utilizzate "à la carte". Per eleggere i candidati alle cariche di governo - centrale e locale. Vi si è fatto ricorso per designare Prodi ma non Veltroni. Né, a Roma, per candidare Rutelli. Per eleggere gli organismi e i segretari di partito: Veltroni e Bersani, ma non Franceschini.

Sul partito. Sul Pd. I suoi segretari, i suoi organismi, la sua identità. La sua memoria. Hanno tratto legittimazione dalle primarie. Senza che, peraltro, questa procedura venisse regolata e istituzionalizzata.

Sul Centrosinistra. Di cui le primarie hanno definito gli incerti confini. In modo estensivo, nel 2006. Da Mastella fino a Bertinotti. In modo selettivo, nel 2007. Quando Veltroni ne ha riassunto il perimetro intorno all'asse Pd-Idv.

Oggi, nel gruppo dirigente del Pd tutti questi dubbi restano. Irrisolti. E si ripercuotono, evidenti, sulle intese e sulla leadership. Ma con le elezioni che continuano a incombere è meglio scioglierli. Presto. Bersani e il gruppo dirigente del Pd: decidano. Quali intese e quali candidati. E quale metodo di coinvolgimento della base. In altre parole: quale modello di partito. Ma senza reticenze. Le primarie non sono una religione. Restano, tuttavia, il "mito fondativo". Dell'Ulivo, del Pd. Non ultimo: sono la procedura attraverso cui è avvenuta l'elezione di Bersani e degli organi dirigenti del partito. Il rito che garantisce loro legittimazione. Discuterle è utile, perfino necessario. Consapevoli, però, che, nello stesso momento, si rimettono in discussione la leadership e il modello di partito. E anche questo mi pare utile, perfino necessario.

(03 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #200 inserito:: Gennaio 10, 2011, 03:56:53 pm »

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La democrazia provvisoria

di ILVO DIAMANTI


È DA almeno sei anni che siamo in campagna elettorale. Permanente. Non solo perché  -  nel regno dell'Opinione Pubblica  -  intorno a ogni decisione, il governo cerca di costruire il consenso e l'opposizione il dissenso.

Ma perché, effettivamente, si è votato sempre. Ogni anno o quasi. Nel 2004: le Europee. Nel 2005: le Regionali. Nel 2006: le Politiche. Silvio Berlusconi ne ha sempre contestato l'esito.
E, al Senato, la maggioranza di Prodi era, comunque, troppo esile per offrire speranza di (lunga) vita. Così la campagna elettorale è proseguita, senza soluzione di continuità, fino al 2008, quando si è tornati alle urne per ri-eleggere il Parlamento. Da allora è ricominciata la sequenza. Nel 2009: di nuovo le Europee. Nel 2010: ancora le Regionali. Insomma, le campagne elettorali non finiscono mai, per parafrasare Eduardo. Neppure quando le elezioni dovrebbero essere lontane nel tempo. Come nell'Italia d'oggi, dove il centrodestra nel 2008 ha conquistato una maggioranza parlamentare larghissima. Guidata da un Presidente del Consiglio che sostiene di essere il più amato di tutti, su scala Europea. E forse non solo. Per cui non dovrebbe aver problemi a governare il Paese fino al 2013, scadenza naturale della legislatura.

Non è così. Probabilmente Berlusconi non è il più amato dagli italiani, a leggere i dati di molti sondaggi (che egli considera, naturalmente, "tarocchi"). Di certo, però, la campagna elettorale prosegue.
Permanente. E dopo le Regionali dello scorso aprile è ripresa, più violenta che mai. Anche se a chiedere il voto anticipato non è l'opposizione. Il centrosinistra e il Pd, in particolare. Troppo impegnati a dividersi e a polemizzare, al loro interno.

È, invece, nella maggioranza che la richiesta  -  minaccia? -  di elezioni echeggia, senza sosta. Evocate come un mantra soprattutto dalla Lega. Un giorno sì e l'altro anche. In nome del Federalismo che verrà. L'unica vera bandiera che interessi alla Lega. Altro che il Tricolore. Se non arrivasse, tanto meglio: si voti subito. La Lega contro tutti. Il Nord contro tutti.
E soprattutto contro l'Italia, che non vuole il federalismo. Se poi il federalismo fiscale venisse davvero approvato, comunque, non produrrebbe effetti prima di qualche anno. E quali non è ben chiaro. Per cui, comunque, la Lega vuole andare a votare. Presto. Ma non vuole esserne la causa. O meglio: vuole una "giusta causa" da usare come arma. Il federalismo o l'Italia: un bel campo di battaglia elettorale.

Berlusconi, invece, teme le elezioni. Non tanto per paura di perderle. La coalizione di centrodestra resta avvantaggiata. Ma la vittoria, oggi, appare meno certa di prima. Molto dipende dalle coalizioni che riusciranno a costruire avversari e nemici. Il centrosinistra, il centro-sinistra, oppure il centro e la sinistra. Ma dipende, soprattutto, dall'esito al Senato, dove conquistare la maggioranza dei seggi, con questa legge elettorale, è una scommessa rischiosa. Comunque il Pdl  -  o come si chiamerà, visto che Berlusconi ha promesso di cambiargli nome  -  rischia di venire ridimensionato pesantemente. A Nord, dalla concorrenza  -  agguerrita  -  della Lega. Ma anche nel Sud, dall'azione di Fli, del Terzo Polo e delle altre Leghe meridionali che avanzano.

Comunque, anche Berlusconi ha bisogno di una "giusta causa" per licenziare il governo, in condizioni tanto precarie per la politica e l'economia. Visto che il Premier in pectore, Giulio Tremonti, continua ad agitare la crisi economica. Esattamente come la Lega il voto. La crisi, ha detto Tremonti, è come un videogame. Scompare e riappare. Abbatti un nemico e ne emerge un altro. Magari lo stesso. Ma Berlusconi è l'Uomo dell'Emergenza. Non può permettersi di andare al voto in condizioni di emergenza. Perché le emergenze Lui le risolve. Come i rifiuti a Napoli, il terremoto all'Aquila, la sfida della (s) fiducia parlamentare contro Fini. Come la crisi economica.

Appunto. E teme, Berlusconi, le Sante Alleanze. Contro o senza di lui. Allestite da nemici e amici. Per evitare il voto o per sostituirlo con Tremonti. In questo scenario di campagna elettorale permanente, il voto smette di essere uno strumento di partecipazione e di rappresentanza istituzionale. Diventa, invece, un elemento di propaganda. Invocato ora come minaccia, ora come necessità. Ora come ricatto. Esorcizzato, con paura o con fastidio.

In Francia, dove si voterà l'anno prossimo per le presidenziali, i candidati, i partiti e le coalizioni si preparano. In vista del voto che verrà. L'anno prossimo. Non nei prossimi mesi, in primavera, autunno. O chissà quando... Perché le elezioni non sono una procedura qualsiasi, ma il rito istituzionale che legittima la democrazia rappresentativa. E che garantisce senso e consenso ai governi e agli organismi "rappresentativi".

Appunto. Questo Paese in emergenza permanente, in campagna elettorale permanente, per motivi sempre nuovi e diversi, tali e tanti che i cittadini difficilmente vi si orientano.
Questo Paese, dove il voto europeo oppure regionale e municipale serve a smentire quello politico e legislativo. Dove ogni sondaggio equivale a un'elezione. Anzi ha più valore, perché è più attuale, si rinnova ogni giorno. Dove l'Opinione Pubblica  -  costruita dai sondaggi e dai media  -  ha rimpiazzato i cittadini e gli elettori. Dove non si riesce più a capire quando e perché  -  e se  -  si voti. È un "Paese provvisorio" (come lo definì Edmondo Berselli). Incapace di darsi prospettive e riferimenti stabili. Unica certezza: la provvisorietà.

Ma se le elezioni diventano un optional, un artificio retorico, un argomento polemico, un'ipotesi perenne: anche la democrazia diventa provvisoria. 

(10 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #201 inserito:: Gennaio 24, 2011, 11:09:21 am »

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E se il Cavaliere uscisse di scena

di ILVO DIAMANTI


E se domani Berlusconi uscisse di scena, travolto dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie, più che dall'opposizione politica. Lasciato solo dagli alleati. Dalla Lega, che ha già annunciato l'intenzione di andare subito al voto, se il federalismo si arenasse in Parlamento. Da Umberto Bossi, sempre più infastidito dallo stile di vita del Premier (a cui consiglia di "darsi una calmata").

Criticato dagli industriali, che considerano l'azione economica del governo insufficiente contro la crisi. (Lo ha ribadito anche ieri Emma Marcegaglia.) Dalla stessa Chiesa vaticana, fino a ieri indulgente seppure imbarazzata. Danneggiato dall'immagine internazionale, a dir poco logora. Infine, elemento definitivo e determinante, sfiduciato dagli italiani, dai suoi stessi elettori. (Nonostante i sondaggi degli ultimi giorni non suggeriscano grandi spostamenti elettorali. Segno di un'assuefazione etica molto elevata).

Anche in queste condizioni, Berlusconi, probabilmente, resisterebbe fino in fondo. ("Non mi piego, non mi dimetto, reagirò", ha ripetuto due giorni fa.) D'altronde, ha sempre dato il meglio (o forse il peggio) di sé di fronte alle emergenze. Sull'orlo dell'abisso. Come il barone di Münchausen, che riesce a sollevare se stesso e il proprio cavallo, tirandosi su per il codino.

Eppure "se"  -  e sottolineo "se"  -  all'improvviso Berlusconi uscisse di scena, messo all'angolo da coloro che hanno, da tempo, atteso (e preparato) questo momento. Ma anche da molti "amici" e cortigiani, come avviene sempre al potente, quando cade in disgrazia. Allora: cosa accadrebbe? In primo luogo, si sfalderebbe la maggioranza. Quel patto tra partiti e gruppi raccolti intorno a lui  -  e da lui  -  dal 1994 fino ad oggi. La Lega, An, i gruppi post e neodemocristiani che ancora non si sono allontanati da lui, confluendo nel Terzo Polo.

Il Pdl, in primo luogo. L'ha detto a "Ballarò" il ministro Angelino Alfano, tra i più vicini al Premier. Senza Berlusconi, il Pdl non potrebbe esistere né resistere. Perderebbe senso e fondamento. Identità, organizzazione e risorse. Come un ghiacciaio enorme, dove stanno un po' meno di un terzo degli elettori, ma una quota molto più ampia del sistema mediatico, della classe politica e amministrativa  -  centrale e locale: si scongelerebbe.

Poi, la Lega. Se ne andrebbe per conto proprio, attirando gli elettori, i gruppi economici e sociali, ma anche gli amministratori e i leader vicini alla sua proposta politica. Giulio Tremonti, per primo.

Nel complesso, si spezzerebbe quel puzzle fragile che Berlusconi aveva composto. Perché, va detto, Silvio Berlusconi è l'unico ad aver "unito" l'Italia, nella Seconda Repubblica. A modo suo, intorno a sé. Questa base elettorale e questo ceto politico, un tempo distribuito su base nazionale, nel passaggio da Fi al Pdl si sono meridionalizzati. Si disperderebbero. In che direzione? Nel Centro-Sud: un elettorato frammentato e instabile, largamente controllato da lobby locali, singoli leader, mediatori politici. Probabilmente si frazionerebbe ulteriormente, in tante piccole leghe meridionali. Nel Nord, invece, la Lega rafforzerebbe il suo radicamento e il suo peso elettorale. Non aderirebbe a una nuova alleanza di centrodestra con un partito rimasto senza leader. Ma, probabilmente, investirebbe, senza troppe remore, nell'indipendenza della "Padania". Approfittando della crisi economica e delle difficoltà dell'euro. Il centrosinistra, perduto il "nemico", si rifugerebbe nella sua fortezza di sempre. Le Regioni del Centro. Per non vedersi schiacciato dalla Padania, dal governo romano  -  di centrodestra  -  e dal Sud, fiaccato dalla crisi e dalla frammentazione.

Insomma, l'uscita di scena di Silvio Berlusconi accentuerebbe le divisioni del Paese, che egli, in questi anni, ha coltivato e dissimulato. E aprirebbe un vuoto di potere: politico e di senso. Visto che l'intera architettura di questa Repubblica è stata concepita da lui. E si regge su di lui. Perché Silvio Berlusconi è l'inventore della Seconda Repubblica. Colui che ha imposto la personalizzazione e il marketing in politica. Il format a cui si sono uniformati tutti i partiti, a destra e a sinistra. Berlusconi: ha alimentato l'anticomunismo e, in modo simmetrico, l'antiberlusconismo. Insieme al contrasto Nord-Sud e all'orientamento anti-romano, affermati dalla Lega, le fratture "ideologiche" più importanti degli ultimi 17 anni.

Se Berlusconi uscisse di scena ora, all'improvviso, non solo la maggioranza, ma anche l'opposizione di centrosinistra  -  il Paese stesso  -  si troverebbero spaesate. Il sistema politico italiano, scosso da conflitti politici e di leadership, perderebbe la bussola. Il corpo dello Stato, riassunto, insieme al corpo politico e sociale, rischierebbe di decomporsi, insieme al corpo del Capo, che li riassume tutti in sé. (Come ha evocato Mauro Calise, nella nuova edizione de Il Partito personale, edito da Laterza).

Lungi da me l'intenzione di legittimare l'esistente. Anche nelle "democrazie del pubblico" (come le chiama Bernard Manin, nel volume pubblicato dal Mulino), diffuse in Europa e in Occidente, Berlusconi costituisce un'anomalia. Per il grado di concentrazione dei poteri che ha realizzato. Lui, capo del governo, del partito maggiore, proprietario del più grande gruppo mediatico privato, ma influente anche sui media pubblici. È giusto superare questa anomalia, che condiziona da troppo tempo la nostra democrazia. Al più presto. Anche perché Berlusconi appare, da tempo, indebolito. Insieme a lui, si sono indeboliti: il sistema politico, il senso civico, per non parlare del rapporto con lo Stato e lo stesso Stato. Già tradizionalmente deboli, fra gli italiani. Si sono indeboliti anche i fragili legami di solidarietà che legano un Paese tanto diviso.

Tuttavia, occorre essere consapevoli che se Berlusconi abbandonasse la scena politica, per ragioni politiche o giudiziarie (o per entrambi i motivi), i problemi del Paese non si risolverebbero. All'improvviso. Ma si riproporrebbero seri e gravi. Non meno di adesso. Non ne usciremmo, non ne usciremo, senza realizzare le riforme annunciate ed eluse, dopo la fine della prima Repubblica. Ecco: se Berlusconi uscisse di scena, occorrerebbe ri-costruire, ri-formare e ri-fondare la nostra democrazia attraverso "un processo costituente condiviso". Rinunciando al vizio e al brivido dell'anomalia. Anche se una "democrazia normale" non è nelle nostre corde, nella nostra tradizione.

Ma, personalmente, mi sarei stufato degli effetti speciali.

(24 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #202 inserito:: Gennaio 25, 2011, 05:59:28 pm »

Pronto, chi parla? Silvio Berlusconi

Ilvo DIAMANTI

Ricordo come fosse ieri o forse oggi "Quelli della notte". "Notte", anche se, usando gli standard attuali della programmazione televisiva e biografica, si trattava solo di "seconda serata". Era la metà degli anni Ottanta. Nel circo mediatico  allestito e diretto da Renzo Arbore, in mezzo a D'Agostino (Dagospia), Marenco, Frassica, Ferrini, Laurito, Luotto e tanti altri personaggi colorati, acuminati e stralunati, piombò Lui. Il Presidente partigiano. Sandro Pertini. Una telefonata austera. Tutti sull'attenti, ci mancherebbe, perché nessuno dubitò che si trattasse di uno scherzo.

Infatti: era Paolo Guzzanti. Allora giornalista di Repubblica. Ma non se ne accorse nessuno. Perché nessuno avrebbe immaginato che qualcuno potesse osare tanto. Imitare il Presidente. E nessuno poteva immaginare che qualcuno potesse "trascinare" il Presidente in mezzo a una trasmissione scanzonata e ironica fino alla goliardia. A quell'ora della notte. Ieri sera, mentre seguivo le ultime battute dell'Infedele 1 ed è stata annunciata una telefonata del Presidente - del Consiglio, non della Repubblica - ho pensato la stessa cosa: è sicuramente lui. E tutto il pubblico dell'Infedele ha pensato lo stesso. È certamente lui. Anche se per ragioni opposte: perché Berlusconi è, da tempo, una presenza fissa dei talk di approfondimento politico della RAI.

In particolare,
di Ballarò, il programma di Floris, a cui è intervenuto in più occasioni, telefonicamente. (Anche se l'ultima volta Floris ha lasciato cadere 2 la sua telefonata.) In precedenza, nel 2007, telefonò anche a Santoro (il quale ai  primi insulti chiuse il collegamento.) È divenuto un ospite telefonico, un opinionista dei talk politici, il Presidente (del Consiglio).

Interviene spesso, per manifestare, immancabilmente, il suo sdegno verso le falsità pronunciate in studio dai suoi "nemici". Come all'Infedele, definito da Berlusconi, "spettacolo disgustoso, con una conduzione spregevole, turpe e ripugnante". Ma forse interviene e irrompe in tivù anche per richiamare gli "amici" a un maggior senso di appartenenza, a una maggiore lealtà.

Invece di adeguarsi al clima di delegittimazione che sale intorno a lui. Perché ciò che lo irrita maggiormente è la sindrome dell'accerchiamento. Che lo fa sentire solo e isolato. Da tutti.  Non solo i nemici "dichiarati", quelli che gli rivolgono "10 domande"  - a cui si rifiuta puntualmente di  rispondere; quelli che lo convocano nei tribunali di Milano per chiedergli conto della sua vita allegra e variopinta, con ragazze giovani e giovanissime; quelli che  lo spiano, lo ascoltano, lo intercettano nella sua vita privata - come se potesse avere una vita privata un uomo pubblico che ha esibito in pubblico il suo privato fin da quando è "sceso in campo".

Quelli, in fondo, sono "schierati". In modo aperto. Non fingono, per opportunismo o per convenienza, di essere suoi amici. Come tanti - troppi - intorno a lui. Che aspettano il momento opportuno per tradirlo, abbandonarlo, andarsene altrove, con gli altri. Quelli che gli stanno accanto, giurano fedeltà eterna, ma in realtà vorrebbero sostituirlo, stare al posto suo, anche a costo di mettersi d'accordo con i suoi nemici. Quelli che hanno ricevuto da lui regali, privilegi, potere. E sarebbero ancora laggiù, isolati, ai margini della politica. Esclusi e  irrilevanti.

Telefona, Silvio, per ri-chiamare gli amici che accettano di partecipare alle trasmissioni ostili, organizzate dai suoi nemici, affollate dai suoi nemici. Tanto più se, di fronte alle "tesi false e lontane dalla realtà" che lo riguardano,  non se ne vanno. Ma, nonostante il suo invito, restano lì, limitandosi a qualche protesta, anche violenta, non importa. In fondo la rissa in tivù rende, fa ascolto. Quanto le storie pruriginose intorno a Berlusconi.

Allora, il Presidente del Consiglio, al colmo dell'ira, afferra il telefono e chiama. Ri-chiama. Insulta. Alza la voce. Come esige il clima mediatico del tempo - di cui gli è il grande imprenditore. Alza la voce, dà sulla voce, senza ascoltare gli altri. E prosegue, insiste, senza pause, la voce alterata. Una raffica di insulti contro quelli che lo hanno diffamato. Contro il conduttore spregevole che guida quel "postribolo mediatico ripugnante". In fondo, anche contro quelli che passano per suoi amici ma restano lì. E con la loro presenza, legittimano le infamie nei suoi riguardi.

Telefona, Berlusconi, per difendersi e per attaccare. In fondo, non si fida degli altri. Non si fida di nessuno. Solo di se stesso.

Lui, solo contro tutti.

Lui, semplicemente: solo.

 

(25 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #203 inserito:: Febbraio 04, 2011, 06:06:24 pm »

Lo Stato del pareggio

Ilvo DIAMANTI

Il voto della Commissione Bicamerale sul federalismo municipale è esemplare. Raffigura, meglio di molte altre immagini e analisi, lo Stato della politica. Della nostra democrazia. Del nostro Stato. Il "pareggio", infatti, non significa equilibrio. Al contrario. Il Parlamento, in questo caso, appare davvero rappresentativo di quel che avviene nella società e sul territorio. Di ciò che siamo davvero: un  Paese diviso. E sospeso: incapace di seguire un percorso chiaro e con-diviso.

Il pareggio, infatti, è frutto di una frattura politica profonda tra una maggioranza presunta e un'opposizione, a sua volta, incapace di "imporsi". Ma in grado, comunque, di "opporre" il suo voto, o meglio, il suo "veto" di fronte a questioni determinanti, dal punto di vista simbolico, prima ancora che pratico. Visto che, sinceramente, è difficile definire cosa sarebbe uscito, cosa uscirebbe  da questo provvedimento (se comunque proseguisse fino in fondo il suo iter). Passato attraverso mille incontri, mille negoziati, mille modifiche e mille emendamenti. Depurato, precisato e complicato da "milleproproghe". È difficile sapere cosa ne uscirebbe  -  ne uscirà  -  davvero.

Di certo, ha un significato  -  appunto  -  simbolico importante. Il Federalismo  -  senza altri aggettivi. È la bandiera brandita dalla Lega. Per  indicare la direzione e la missione  politica che persegue. Per dimostrare a tutti
- e agli elettori padani prima di tutti gli altri  - che la Lega c'è. E, a differenza di altri, degli stessi alleati, dello stesso Premier, non si limita a dire, ma fa. Oltre alle parole: i fatti. Anche se, per ora e per molto tempo ancora, si tratterebbe comunque e ancora di "parole". Visto che sarebbe stato  -  sarà -   efficace e operativo solo fra alcuni anni. Il pareggio, però, rende vane anche le parole. E ribadisce "fatti" molto evidenti. Il primo, ripeto ancora una volta: siamo un Paese diviso, governato (?) da una maggioranza che non è in grado di decidere e, comunque, di imporre le proprie scelte. Perché, in fondo, anch'essa, nel Paese, è divisa. Se la Lega è il Nord, il PdL è il Centro-Sud.

In secondo luogo, il pareggio significa che nessuno ha vinto e nessuno ha perso. Semmai, che hanno perso tutti. Anzitutto e soprattutto, il PdL e Berlusconi, che si confermano in-decisi a tutto. La Lega, che, in Parlamento, non è in grado di portare a termine neppure un simulacro di federalismo.  Ma anche l'opposizione di Centro e di Centrosinistra, unita, comunque, nell'opporsi. Ma non quando si tratta di "imporsi", intorno a un progetto (un soggetto, un leader) comune. Così, questo Paese diviso, si specchia e si riproduce in un Parlamento diviso: come la politica, la società, il territorio. È lo Stato del Pareggio. Dove tutte le sfide che contano finiscono in parità. Cioè, con un nulla di fatto. Oggi, in Commissione Bilaterale: quindici a quindici.

Ma, in effetti, si tratta di zero a zero. Sommati, i due punteggi e i due progetti si elidono reciprocamente.
Con un solo risultato. Zero.

 
(03 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #204 inserito:: Febbraio 07, 2011, 12:03:31 pm »

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L'anima romana della Lega

di ILVO DIAMANTI

Ha sorpreso l'atteggiamento della Lega di fronte al pareggio "subìto" dal provvedimento sul federalismo municipale in commissione Bicamerale. Invece di aprire la crisi, come aveva minacciato in precedenza, ha mantenuto l'appoggio al governo e al Premier.

Rinviando ancora l'ipotesi di elezioni anticipate. Tanto da indurre Massimo Giannini, su questo giornale, a parlare di una "Lega democristiana". Cioè: tattica e "politicante". Come i deprecati partiti della Prima Repubblica. DC in testa. È, peraltro, vero che la Lega riproduce fedelmente la geografia elettorale della DC delle origini. Forte nelle province periferiche del Nord. Soprattutto in Lombardia e Veneto. D'altronde, nel 1982, Antonio Bisaglia, allora leader influente della DC, in una intervista affermò che: "il Veneto sarebbe maturo per uno Stato federalista, ma questo Stato, centralista e burocratico, alla mia regione l'autonomia non la concederà mai". Un linguaggio leghista, prima che la Lega calcasse la scena politica. Bisaglia guidava i "dorotei", la corrente che aveva posto al centro della rappresentanza gli interessi locali. Il mestiere interpretato, in seguito, dalle Leghe regionaliste e, a partire dagli anni Novanta, dalla Lega Nord. Con altro linguaggio e altri mezzi. Ma con una "missione" molto simile: la rivendicazione nei confronti di Roma, il centro dello Stato centrale e del centralismo statale. E, parallelamente, la protesta contro il Sud assistito. In rappresentanza non più del Veneto o di singole regioni, ma del Nord tutto intero. Trasformato in Patria padana.

Il Federalismo è la bandiera che riassume tutte queste rivendicazioni. Più che un progetto definito, un mito. Una parola d'ordine. Potrebbe funzionare alla grande come slogan in caso di elezioni anticipate. Principale tema dell'agenda in campagna elettorale. Impugnato contro i nemici del Federalismo e quindi del Nord. In questo strano Paese, dove tutti - o quasi - sono federalisti. A parole. Assai meno nei fatti. (A conferma delle radici democristiane che affondano nel nostro retroterra.) Contro l'opposizione che si è opposta. E contro gli alleati del PdL, troppo meridionali per promuovere il federalismo in modo veramente convinto. Contro Berlusconi, incapace di "mantenere le promesse".

Tuttavia, le preoccupazioni della Lega, in caso di elezioni anticipate, non derivano dal risultato, ma dal "dopo". Come suggeriscono le precedenti "ondate" della storia elettorale leghista, ricostruite da Roberto Biorcio nel suo bel saggio dedicato alla "Rivincita del Nord" (pubblicato da Laterza, pochi mesi fa). Ai successi elettorali del 1992 e del 1996, infatti, è puntualmente seguita una fase di declino rapido e profondo. Nel 1994: la sua base di voti venne ridimensionata sensibilmente dall'ingresso sulla scena politica di Silvio Berlusconi - alleato e al tempo stesso concorrente. Per cui nel 1996 la Lega affrontò le elezioni da sola contro tutti - e in primo luogo contro Berlusconi - innalzando il vessillo della secessione. Anche per distinguersi, visto che, come oggi, tutti, o quasi, si definivano "federalisti". Ottenne un risultato clamoroso, oltre il 10% e 4 milioni di voti al maggioritario. In termini assoluti: il massimo della sua storia. Salvo ritrovarsi, tre anni dopo, marginale e debole. Dal punto di vista politico ed elettorale. (Alle Europee del 1999 scese al 4,5%, alle politiche del 2001 non raggiunse il 4%). Per la precisione: debole dal punto di vista elettorale perché marginale dal punto di vista politico. Gran parte dei suoi elettori, infatti, non erano interessati alla secessione. Ma votavano Lega per altre ragioni, molto più concrete. Come minaccia per contrastare il "centralismo" dello Stato e per ottenere risorse. Per pesare di più, non per andarsene. Una Lega "esclusa" dai centri del potere, ininfluente, dal punto di vista politico, diventava "inutile". Ebbene, lo stesso rischio si presenta oggi. Dopo la "terza ondata" elettorale, avvenuta nel 2008 (oltre l'8% dei voti validi) e proseguita nel 2009 (10,2%). Quando è tornata al governo, insieme a Berlusconi e al Pdl. Dopo le elezioni regionali del 2010, in cui ha conquistato due regioni: il Veneto e il Piemonte. È una Lega di governo che deve la sua forza elettorale, (cresciuta ancora, secondo i sondaggi, fino all'11-12%) proprio a questo ruolo. È il partito che governa nel Nord e in Italia. Il sindacalista della "questione settentrionale". Buona parte dei suoi successi dipendono da ciò. Il mito padano, la minaccia secessionista non vanno sottovalutati. Perché alimentano, a loro volta, divisione sociale, antagonismo verso lo Stato nazionale e le istituzioni. Ma la Lega li usa, anzitutto e soprattutto, a fini simbolici, per generare identità e appartenenza presso i militanti e la base del partito. Come il "federalismo", considerato una panacea nel Nord, ma un rischio nelle altre zone del Paese.

Tuttavia, se la Lega perseguisse davvero la secessione e l'indipendenza padana rischierebbe la risacca elettorale seguita alle ondate del 1992 e del 1996. Perché, come ha sottolineato ieri Eugenio Scalfari, larghissima parte degli elettori del Nord è totalmente indisponibile a questa prospettiva. Secondo il recente Rapporto su Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per "la Repubblica" (dicembre 2010), la quota di elettori delle regioni "padane" che considera utile dividere il Nord dal Sud non supera il 20%, ma sale al 37% fra i leghisti. Due terzi dei quali, dunque, rifiutano questa idea. Non solo: 8 elettori leghisti su 10 considerano l'Unità d'Italia un fatto (molto o abbastanza) positivo. La Lega deve la sua crescita elettorale soprattutto ad altri motivi. Perché interpreta le rivendicazioni locali. Perché si è radicata nel territorio, è al governo in numerose amministrazioni (fra l'altro, ha eletto circa 400 sindaci), occupa posizioni di potere nelle fondazioni bancarie e in altri enti (come ha rilevato Tito Boeri). Perché interpreta - e talora moltiplica - le paure. Più della Secessione, è il partito della Sicurezza (come difesa dalla criminalità e dall'immigrazione). Ciò che le ha permesso, fra l'altro, di sconfinare oltre i confini tradizionali, espandendosi nelle regioni rosse. La Lega: riesce a presentarsi come opposizione "nel" governo. Restando al governo. A gridare contro Roma. Con i piedi ben piantati a Roma. È una Lega nazionale, a cui la Padania va stretta, anche se la invoca. E difende Berlusconi, nonostante tutto, perché, al di là dei proclami, teme la secessione.

(07 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/07/news
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« Risposta #205 inserito:: Febbraio 14, 2011, 12:22:13 pm »

ATLANTE POLITICO

Berlusconi, fiducia a picco è tornato ai livelli del 2005

Metà degli italiani crede ai pm. Gli elettori spaesati guardano a Napolitano, l'80% è con lui: Lega e Pdl compresi.

Premier a parte, i leader aumentano i consensi, Tremonti il più gettonato nel centrodestra.

Pdl e Pd poco sopra il 50%, è la fine del bipartitismo

di ILVO DIAMANTI

Berlusconi, fiducia a picco è tornato ai livelli del 2005 Napolitano e Berlusconi

Silvio Berlusconi resiste. Nonostante le inchieste, gli scandali e le proteste.

Anzi, reagisce con violenza. Contro i nemici. La Magistratura, i giornali e i giornalisti della Repubblica Giudiziaria.

Perfino  -  anche se in modo meno esplicito  -  contro il Presidente della Repubblica.
Ma la sua posizione e la sua immagine ne hanno risentito sensibilmente.

(LE TABELLE DEMOS 1 su www.repubblica.it/politica)

Come mostra il sondaggio condotto nei giorni scorsi dall'Atlante Politico di Demos per la Repubblica. Oggi, infatti, la fiducia dei cittadini nei confronti di Silvio Berlusconi ha toccato il fondo. La quota di italiani che ne valuta positivamente l'operato (con un voto almeno sufficiente) è ridotta al 30%. Meno che nel settembre 2005, quando il Cavaliere sembrava avviato a una sconfitta pesante alle elezioni politiche dell'anno seguente. Il che suggerisce di usare cautela, prima di darlo per finito, visto come sono andate le cose in seguito. Tuttavia, gli avvenimenti recenti fanno sentire i loro effetti. Quasi metà degli italiani ritiene vere le accuse rivolte dagli inquirenti a Berlusconi. E pensa che il Premier si dovrebbe dimettere. Meno del 20% considera, invece, falsi i fatti che gli sono addebitati. Anche se oltre metà degli italiani ritiene che, per quanto colpevole, il Premier resterà "impunito". Come sempre. Anche per questo la fiducia in Berlusconi, oltre che limitata, appare in declino costante e precipitoso.
È, infatti, calata di 5 punti percentuali negli ultimi due mesi, ma di 12 rispetto allo scorso giugno e addirittura di 18 rispetto a un anno fa. I motivi di insoddisfazione degli elettori, d'altronde, vanno al di là delle feste e dei festini a casa del Premier. Solo un italiano su quattro, infatti, pensa che il governo Berlusconi abbia "mantenuto le promesse". Quasi metà rispetto a due anni fa.

Neppure gli elettori leghisti sembrano disposti ad ammetterlo. Da ciò la crescente in-credibilità di Berlusconi. Sempre più indebolito sul piano del consenso personale. Mentre tutti gli altri leader politici hanno migliorato la propria immagine presso gli elettori, negli ultimi due mesi. Nella maggioranza (e non solo), Tremonti resta il più apprezzato. Nel Terzo Polo, non solo Casini - di gran lunga il più stimato  -  ma anche Fini ha recuperato (un po' di) credibilità, dopo la battuta d'arresto subìta il 14 dicembre. Nel Centro-Sinistra, infine, Vendola si conferma il "più amato", per quanto anche Bersani abbia allargato la propria base di consensi. È significativo il seguito di una outsider come Emma Bonino. Nonostante il peso elettorale, limitato, del suo partito. A conferma del disorientamento di quest'epoca, senza riferimenti fissi. Senza baricentri. Come emerge, con chiarezza, dalle intenzioni di voto. Contrassegnate, anzitutto e soprattutto, dal calo sensibile dei due partiti principali. Il PDL, infatti, scende al 27%, il PD al 24%. Insieme: poco più del 50%. Alle elezioni politiche del 2008 superavano il 70%. Segno definitivo che l'illusione bipartitica è finita. Compromessa  -  se non finita  -  insieme alla capacità di Berlusconi di unire e dividere il mondo (politico) italiano. Con la conseguente frammentazione, che, più degli altri, premia la Lega, a destra, e SEL, a sinistra. È interessante osservare come il quadro cambi sensibilmente di fronte a scenari di coalizioni possibili. In primo luogo, si assiste a una riduzione consistente degli indecisi. I quali, praticamente, si dimezzano con effetti evidenti sugli equilibri politici.

Secondo le stime dell'Atlante Politico, infatti, l'attuale coalizione di governo, allargata alla Destra di Storace, perderebbe nettamente il confronto (57% a 43%) con una  -  ipotetica  -  "Grande Alleanza" di opposizione, che dal Terzo Polo arrivasse fino a SEL, passando per il PD e l'IdV. Ma appare sfavorita anche in una competizione tripolare. Il Centrosinistra (PD e IdV insieme a SEL) vincerebbe, infatti, in misura più larga rispetto a due mesi fa (6 punti percentuali in più). Aiutato, per un verso, dal voto di elettori incerti di centrosinistra; per altro verso, dalla crescita del Terzo Polo a spese del Centrodestra.

Si spiega così la resistenza del Premier di fronte a ogni ipotesi di voto anticipato. Assecondato, con malcelato disagio, dalla Lega. Si spiegano, allo stesso modo, le telefonate del Premier durante le trasmissioni "nemiche", la crescente pressione esercitata sui media. Ma anche la guerriglia condotta dagli uomini della maggioranza contro ogni sondaggio sfavorevole. Il Premier, il PdL, il centrodestra sono impegnati a modificare il clima d'opinione loro sfavorevole. Con ogni mezzo. E ad allontanare le elezioni anticipate. Visto che oggi il Centrodestra ha la maggioranza  -  ipotetica e incerta  -  in Parlamento, ma è minoranza nel Paese, fra gli elettori.

In questo Paese spaesato non può sorprendere la crescita costante e vertiginosa dei consensi nei confronti del Presidente, Giorgio Napolitano. Verso cui esprime fiducia oltre l'80% degli italiani. Lo "stimano" quasi tutti gli elettori del PD, ma anche l'80% (circa) di quelli del PdL e oltre due terzi dei leghisti. È che il Presidente offre una sponda nel vuoto politico e nella crisi che scuote le istituzioni. D'altronde, le mobilitazioni e le proteste sociali delle ultime settimane, al di là delle specifiche rivendicazioni (ieri le donne hanno riempito le piazze in nome della propria "dignità), denunciano anch'esse un "vuoto" politico. Un deficit di alternativa. Il PD, d'altronde, non è più in grado, da tempo, di "fare opposizione", da solo. Ma neppure di stabilire i confini e le condizioni di un'alleanza. Se promuovesse un'intesa esclusiva con il Centro, ad esempio, perderebbe, come mostra l'Atlante Politico. Il PD resta, comunque, determinante per costruire l'alternativa. Ma deve farlo in fretta.

Oggi, un'alleanza tra le forze di opposizione avrebbe grandi possibilità di rappresentare la "maggioranza"  -  dei cittadini ma anche degli elettori. È ciò che teme Berlusconi. È il motivo per cui non vuole interpellare il "popolo sovrano". Almeno in questa fase. Ma - per lo stesso motivo - il PD e gli altri partiti di opposizione dovrebbero rivendicare il ritorno alle urne. Al più presto. Indicando, fin d'ora, quale coalizione. Il programma è obbligato: ri-formare e ri-fondare questa Repubblica straordinaria, questa democrazia indefinita. In modo, per quanto possibile, condiviso. Anche se ci attenderebbe una campagna elettorale dura, durissima. In tempi duri, durissimi. Ma, come ha ammonito il Presidente della Repubblica, è meglio una battaglia a termine, per quanto aspra, di questa guerra quotidiana - senza fine e senza quartiere - fra Berlusconi e le istituzioni dello Stato. Da cui io, personalmente, mi sento ogni giorno di più, sconfitto.

(14 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #206 inserito:: Febbraio 25, 2011, 11:07:13 pm »


Bussole

In che parte del mondo è la Libia?

Ilvo DIAMANTI

È una questione di geografia, di geopolitica. E di comunicazione globale. Il disorientamento di fronte a quel che capita nel Nord Africa. Davanti a noi. Poco più avanti. Due passi appena dalle nostre coste meridionali. Ma fatichiamo a renderci conto di quanto ci riguardi davvero. Quanto possa cambiare le nostre vite, la nostra vita. L'unica cosa che ci preoccupi davvero è l'ondata migratoria  -  incombente e imminente. Enorme, inutile nasconderlo. E noi, che, nel corso degli anni, abbiamo eretto un muro nel Mediterraneo, per difenderci dagli "altri". Dall'invasione dei "disperati". Noi, che abbiamo trasformato il Mediterraneo stesso in un muro, per fingerci inaccessibili. Una fortezza. Al sicuro dal mondo. Noi: ci siamo allontanati dalle sponde del Nord Africa e del Medio Oriente. Le abbiamo allontanate da noi. Le abbiamo "percepite" lontane. Un altro continente, appunto. Un'altra epoca. Un'ex colonia d'oltre mare, sperduta nello spazio e nel tempo. E le visite di Gheddafi a Roma non hanno fatto che rafforzare questa convinzione. Vista la determinazione estrema con cui il rais, nelle sue visite in Italia, ha provocato stupore e incredulità. In modo consapevole e volontario. Cammelli, vergini e guardie del corpo al seguito. Tutti accampati nel centro di Roma. Con la compiacente complicità del governo. Tutto per marcare le distanze da noi. Dalla nostra... cultura. Senza troppe speranze, perché ormai ci siamo abituati a ben altro. Figurarsi se ci possiamo sorprendere per qualche decina di ragazze
e una tendopoli di lusso in centro città.  Tuttavia, abbiamo rimosso la vicinanza della Libia, dell'Egitto. Dell'Africa del Nord. Più in generale, ci siamo allontanati dal Mediterraneo. Quasi fosse una condanna. Noi, che temiamo di "scivolare in Africa". Appunto. Come rammenta spesso Lucio Caracciolo,  abbiamo rinunciato al ruolo che ci deriva dalla nostra posizione geopolitica. Al centro del Mediterraneo. L'abbiamo - volutamente - negata. Nella visione della nostra classe dirigente, oltre che degli italiani: è stata accantonata. Spinta ai margini.

Non ci ha aiutato la globalizzazione. Al contrario. La riduzione dei tempi e dello spazio. L'allargarsi della rete e della comunicazione, in ogni luogo e in ogni momento della vita quotidiana. Hanno permesso a tutti di sapere tutto in tempo reale.  Con il paradossale esito che abbiamo perduto il senso delle distanze. Perché se tutto è qui, allora nulla è qui. La Tunisia e la Nuova Zelanda, la Libia e l'Iraq, Haiti e l'Egitto. L'Afghanistan e il Marocco. Ci riguardano e ci investono allo stesso modo. Perché le immagini della rivolta e della ribellione oppure della guerra e della devastazione passano in diretta, a tutto schermo, una dopo l'altra, una accanto all'altra. Davanti ai nostri occhi, a casa nostra.

Così ci sentiamo disorientati. Perché tutto ha lo stesso colore, lo stesso rumore, la stessa distanza. Altrove e qui, allo stesso tempo. I terremoti, le rivoluzioni, le carestie, le guerre. La Libia è vicina eppure lontana. Lontana anche se vicina. Come la Tunisia e l'Egitto. E se ciò che avviene in questi Paesi fosse davvero simile al crollo del muro di Berlino, nel 1989,  come ha osservato Vàclav Havel, ripreso da Gad Lerner  su Repubblica, noi faticheremmo, comunque, ad accorgercene. A vedere. Impegnati a erigere nuovi muri  -  invisibili e illusori - intorno a noi, abbiamo trasformato anche il Mediterraneo in un muro. Non servirà a difenderci dal mondo e da noi stessi. Perché la Libia è vicina. Praticamente: è qui.
 

(25 febbraio 2011) © Riproduzione riservata

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« Risposta #207 inserito:: Febbraio 28, 2011, 03:29:27 pm »

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Il fattore coalizione che stana gli astenuti

di ILVO DIAMANTI

Da qualche tempo il dibattito politico ha preso in considerazione le coalizioni, oltre ai partiti. O meglio: più ancora dei partiti. Soprattutto in prospettiva elettorale. Visto che le elezioni anticipate, anche se non appaiono probabili, restano, almeno, possibili.

Tuttavia, in una competizione tra coalizioni, la maggioranza di centrodestra perderebbe voti, mentre le aggregazioni alternative ne guadagnerebbero. Se utilizziamo, come base-dati di riferimento, il sondaggio dell'Atlante Politico di Demos di due settimane fa, in una competizione di tipo maggioritario a tre, il Centrodestra otterrebbe il 37% dei voti validi (circa 3 punti in meno rispetto alla somma dei partiti), il Centro salirebbe, invece, al 20% (oltre 6 punti in più) mentre il Centrosinistra raccoglierebbe quasi il 43% (4 punti in più). Diverso il risultato di una competizione a due. La "grande coalizione" tra il Centro con il Centrosinistra e la Sinistra si attesterebbe al 56%, mentre il Centrodestra salirebbe al 43%. L'attuale maggioranza, cioè, guadagnerebbe voti (rispetto alla somma dei partiti) ma perderebbe largamente lo stesso. Vincerebbe solo in caso di alleanza del Pd (da solo) con il Centro. Oppure se il Centrodestra trovasse, a sua volta, l'intesa con il Centro.

Da questo bilancio quantitativo, pedante e forse un po' noioso, emergono due indicazioni interessanti.

1) I partiti di opposizione riescono a essere competitivi quando si presentano in "coalizione". Se interpretano le elezioni in modo (semi) "maggioritario". D'altronde, prima del famigerato Porcellum del 2005, il Centrosinistra guadagnava nella competizione maggioritaria, il Centrodestra in quella proporzionale. (Motivo per cui il Centrodestra cambiò legge elettorale.)

2) Tuttavia, a questo esito contribuisce, in parte, il comportamento della "zona grigia" dell'elettorato, che comprende e riassume gli indecisi, i reticenti e quelli che si dicono intenzionati ad astenersi. Una componente molto ampia. Superiore a un terzo degli elettori. Secondo alcuni istituti, intorno al 40%. Ebbene, di fronte alla scelta fra coalizioni invece che fra singoli partiti, l'ampiezza della "zona grigia" quasi si dimezza. Oltre il 45% di quanti non voterebbero per un partito, infatti, voterebbero per una coalizione. (Il che significa oltre il 15% e 7 milioni di voti).

3) Se ne avvantaggerebbe, chiaramente, l'opposizione. In caso di competizione a tre: il 12,6% degli incerti sceglierebbe il Centrodestra, il 13,8% il Centro e il 20,6% il Centrosinistra. In caso di competizione a due, fra il Centrodestra, da una parte, e il Centro, il Centrosinistra e la Sinistra alleati, dall'altra parte, il 16% degli indecisi (e degli altri che non si esprimono) si schiererebbe con il Centrodestra, il 31,6% con il Centro-Centrosinistra.

Questi dati suggeriscono alcune considerazioni.

a) L'area degli indecisi risente dell'offerta politica. Cioè, delle alternative e delle regole della competizione elettorale. Il Centrodestra, fondato sull'alleanza fra Berlusconi e Bossi, tra Pdl e Lega, dispone di un'identità definita. Ciò lo rende abbastanza stabile, dal punto di vista elettorale, ma con pochi margini di ulteriore crescita. Per cui appare esposto alla "concorrenza", nel momento in cui gli avversari, invece di rassegnarsi a una logica proporzionale, si presentassero insieme. Perché non si vota solo per affermare un'identità. Ma anche per vincere.

b) D'altronde, il Pd, ormai, è ridotto al 24-25%, per effetto, soprattutto, degli "elettori scoraggiati". Evocano i "lavoratori scoraggiati", le fasce deboli del mercato del lavoro, che, nelle fasi di crisi, ne restano fuori. Allo stesso modo, gli "elettori scoraggiati" si parcheggiano fuori dal "mercato elettorale", quando le alternative, ai loro occhi, appaiono "scoraggianti". Come oggi. Gli elettori del Pd: delusi dal deficit di leadership, di progetto, di linguaggio del partito. Dal senso di impotenza di fronte a Berlusconi. Anche quando, come in questa fase, il Premier appare fragile e vulnerabile. Lo stesso sentimento deprime gli elettori a sinistra della Sinistra, che nel 2008 rinunciarono a votare, perché "esclusi" dalla soglia imposta dalla legge elettorale e dalla decisione di Veltroni di allearsi solo con l'Idv.

c) Questi elettori "scoraggiati", in parte, sono stati attratti dalle novità politiche "personalizzate" degli ultimi anni: Vendola oppure Di Pietro. In parte, semplicemente, si sono chiamati fuori. "Esuli". Cambierebbero atteggiamento di fronte a un'alternativa concreta, offerta da un'alleanza del Centrosinistra con la Sinistra. O a un'opposizione che comprendesse anche il Centro. Allora, potrebbero uscire dalla zona grigia, rientrare dall'esilio. Votare.

d) Sanno bene che si tratterebbe di una soluzione transitoria, perché hanno già sperimentato la difficoltà di "governare", dentro a coalizioni che comprendono gruppi e identità tanto eterogenee. Basti pensare all'esito rapido e infelice dell'Unione. Tuttavia, neppure la coalizione di centrodestra che governa ha messo in luce grande compattezza. Nonostante abbia stravinto le elezioni nel 2008, naviga a vista. Sopravvive grazie a sedicenti "responsabili" e ad altri parlamentari itineranti fra un gruppo e l'altro.

e) E poi, non è detto che le coalizioni debbano essere "per sempre". Si possono costruire a termine. Per conseguire specifici obiettivi. Ad esempio: una nuova legge elettorale, alcune riforme istituzionali. E anzitutto: per battere il Centrodestra guidato da Berlusconi. Per battere Berlusconi. Al di là delle sue vicende giudiziarie: con il voto.

f) Il problema è che le alleanze "alternative", per essere credibili, per attrarre gli elettori irriducibili e quelli scoraggiati, debbono essere dichiarate. Sottoscritte. Insieme agli obiettivi. E al candidato comune e condiviso.

g) Ma per uscire dalle simulazioni, ciò deve avvenire presto. Anzi: se non ora, quando?


(28 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #208 inserito:: Marzo 07, 2011, 11:38:02 pm »

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L'infinito corpo a corpo con i pm che divide destra e sinistra

Un'alternativa bipolare fra premier e giudici, trattati come "soggetto politico".

Dopo un calo di consensi, dal 2008 la fiducia nella magistratura è al 70% nel centrosinistra e al 20% per il Pdl

di ILVO DIAMANTI


TRA Silvio Berlusconi e i magistrati, ormai, è un corpo a corpo. L'attività del governo e del Parlamento, infatti, ruota intorno a un solo problema. Immunizzare il premier. Impedire che venga indagato, giudicato. Intercettato. D'altronde, oggi l'opposizione è afona e l'attacco portato dall'antico alleato, Gianfranco Fini, in Parlamento, pare neutralizzato.
L'unico vero "nemico" sembra essere rimasto il "partito dei Pm", alla guida della "Repubblica Giudiziaria". Tuttavia, non è stato sempre così. Anzi.

La "discesa in campo" del Cavaliere non sarebbe stata possibile senza Tangentopoli. Senza la "tabula rasa" prodotta da Mani Pulite nel sistema partitico e nella classe politica della Prima Repubblica. È in quel "vuoto" che si è imposto Silvio Berlusconi, insieme al suo "partito personale", Forza Italia.
La magistratura, all'epoca, più che la giustizia rappresenta il Grande Giustiziere, a cui gli italiani affidano il compito di affondare la Prima Repubblica, ormai delegittimata - e, dunque, di fondare la Seconda.
In quella fase paga un prezzo pesante. Falcone, Borsellino e la loro scorta cadono vittime dell'attacco della mafia contro l'unica istituzione che ancora rappresenti lo Stato legittimo. Per questo Berlusconi, al tempo del suo primo governo, nel 1994, cerca di reclutare la figura simbolo del pool di Milano: Antonio Di Pietro. Inutilmente. Anzi, la magistratura diviene rapidamente il Nemico, più che l'avversario.
Soprattutto dopo l'opposizione espressa, lo stesso anno, contro il decreto del governo che blocca la custodia cautelare per i reati di Tangentopoli. E dopo l'inchiesta nei confronti del premier, annunciata sui giornali in coincidenza con il G8 di Napoli.

GUARDA LE TABELLE 1 (su http://www.repubblica.it/politica/2011/03/07/news/mappe_magistratura-13273693/?ref=HREC1-2)

Gli effetti di questa "rottura politica" si riflettono, evidenti, nella percezione degli elettori. La fiducia nei magistrati, dopo il 1994, crolla: dal 67% (dati Ispo) scende al 41% nel 1997. E negli anni seguenti calerà ancora, fino al minimo del 34% (dati Demos). È spinta in basso dagli elettori di centrodestra. Ma diminuisce anche nella base del centrosinistra. Perché le inchieste giudiziarie colpiscono tutti gli attori politici. Di tutti gli schieramenti.

Tuttavia, la magistratura appare - ed esercita - un potere "autonomo" e politicamente sempre più rilevante. In quanto influenza la credibilità degli attori politici. In primo luogo perché nella "democrazia del pubblico e dell'opinione" l'ideologia conta poco. Conta invece - sempre più - la fiducia nella persona. Misurata dai sondaggi, rilanciata e legittimata dai media. Soprattutto dalla tivù. Di fronte all'opinione pubblica, i magistrati diventano i "custodi della convivenza e della virtù" (per usare le parole di Alessandro Pizzorno). Le loro inchieste e le loro iniziative possono de-legittimare un leader, un partito, un attore pubblico.

La seconda ragione riguarda la "presidenzializzazione" che, di fatto, si afferma in Italia (e non solo). E riunisce i "due corpi del Re" (per riprendere la "teologia politica" di Ernst Kantorowicz). In quanto il "corpo politico" si identifica nel "corpo" (naturale) del leader (come osserva Mauro Calise nella nuova edizione de "Il partito personale", pubblicata da Laterza). Per cui non c'è più distanza tra sfera politica e personale. I fatti privati diventano pubblici. E viceversa. Per un verso, esibiti, per l'altro, spiati e riprodotti sui media.
Così, Silvio Berlusconi si trova costantemente esposto e "minacciato". Il Cavaliere, d'altronde, non ha solo due corpi. Oltre al suo corpo naturale e a quello politico-statale (leader di partito e premier), ha un corpo mediale (e imprenditoriale). Il che moltiplica le interferenze e le connessioni fra privato e pubblico. E rende politicamente "sensibile" ogni iniziativa dei magistrati nei confronti del premier. Perché ne danneggia la fiducia personale e la legittimazione pubblica. Così, i magistrati vengono percepiti come il principale, se non l'unico, oppositore.

Tutti, perché Berlusconi generalizza all'intera magistratura le accuse e le polemiche che, in realtà, (come ha osservato Nando Pagnoncelli) riguardano principalmente le inchieste della procura di Milano. Trasformando i "suoi" problemi con la giustizia in un progetto di riforma della giustizia. Le sue questioni personali in una Questione Nazionale.

Peraltro, i livelli di fiducia verso i magistrati si dissociano, fra Destra e Sinistra, a partire dalla campagna in vista delle elezioni politiche del 2006. Ma la forbice si allarga a dismisura soprattutto dopo il ritorno di Berlusconi al governo, nel 2008. Da allora, infatti, il consenso verso la magistratura cresce sensibilmente, fino a sfiorare (nel 2011) il 50% degli elettori nell'insieme. Ma nel centrosinistra il grado di fiducia supera il 70%, mentre, nel centrodestra, scende quasi al 20%.

A questa tendenza concorrono alcune ragioni, in parte collegate.
a) La polemica costante condotta da Berlusconi contro i magistrati, volta a dare significato politico a ogni inchiesta lo riguardi.
b) L'indebolirsi dell'opposizione, in particolare dopo la fine del governo Prodi.
c) Il significato politico assunto da ogni inchiesta che riguardi la vita "privata" del premier.
d) L'importanza crescente attribuita dal Pd e, insieme, dal centrosinistra alla questione "legale" (e al tempo stesso "morale").
e) L'affermarsi dell'Idv. Cioè, il partito di Antonio Di Pietro. Che personalizza il ruolo della Magistratura - e della legalità - in politica. Ciò, ovviamente, non significa che la Magistratura si faccia "rappresentare" da Di Pietro. Ma è, comunque, vero che il 75% degli elettori dell'Idv sostiene i magistrati. E una quota simile di elettori del Pd esprime lo stesso sentimento. Mentre solo il 22% della base del Pdl dichiara fiducia nei magistrati e nella giustizia.

Così si delinea un'alternativa bipolare fra Berlusconi e i magistrati, trattati come "soggetto politico". Al Cavaliere non interessa "distinguere", ma generalizzare. Perché il suo intento è cambiare le regole e il sistema per "salvare" se stesso.
È un corpo a corpo, si diceva all'inizio. Berlusconi lo vorrebbe risolvere, a proprio favore - e in modo definitivo - scindendo il corpo della giustizia. Attraverso la separazione delle carriere e del Csm. Per non separare i "tre corpi del Re", che egli riassume nella propria persona.

(07 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #209 inserito:: Marzo 18, 2011, 05:05:27 pm »


Bussole

Se il Bacchiglione in piena minaccia il mito del Nordest

Ilvo DIAMANTI

Non pensavo che mi sarei soffermato ancora sul Bacchiglione - e sui corsi d'acqua che solcano il territorio vicentino  e delle province vicine. Così presto. E invece eccomi di nuovo qui, insieme a molti altri, a osservare il cielo gonfio di pioggia. A scrutare il livello dell'acqua che sale pericolosamente. Sfiora il ponte degli Angeli, in centro a Vicenza. E lambisce gli argini, a volte li scavalca, nel tratto che precede il  Ponte del Marchese. Dove basta alzare gli occhi per vedere la base militare americana del Dal Molin. Che si allarga e cresce sempre più. Un giorno dopo l'altro, Ormai pare una metropoli nella metropoli, visto che questo territorio è una metropoli.

L'acqua continua a salire.  In molti punti ha invaso la campagna. E a Rettorgole, a Cresole - località di Caldogno - i residenti hanno già ammassato i sacchetti davanti alle case. In fondo a Corso Palladio vi sono numerose auto parcheggiate. Sul cruscotto, ben visibile, un foglietto avvisa: "Garage allagato".  Troppo vivo il ricordo dell'alluvione di quattro mesi fa, nei primi giorni di novembre. Chi abita da queste parti si è abituato al pericolo incombente. Questi corsi d'acqua. Fino a ieri li avevo sempre visti come torrenti innocui, rigagnoli senza pretese. In grado di ingrossarsi. Talora. Fino ad allagare i campi, intorno. Talora. Ma senza gravi conseguenze per le cose e soprattutto per le persone. Oggi non è più così. L'alluvione di novembre ha cambiato il nostro linguaggio e la nostra prospettiva. Al
posto di "allagare" abbiamo imparato a dire "esondare".  È più efficace ed espressivo. Dà l'idea dell'onda che irrompe. Non avevamo mai pensato che questi torrenti potessero diventare tanto cattivi. Aggredire le case e le strade. Distruggere. Aziende, mobili, auto. E perfino uccidere. Talora.

Quando è successo, quattro mesi fa, abbiamo pensato, qualcuno ha pensato, che fosse un caso estremo. Un'eccezione. L'insieme di condizioni ed eventi imprevedibili. Irripetibili. O, almeno, difficilmente ripetibili.  Giorni di precipitazioni violente e battenti. Un'ondata di caldo improvvisa che scioglie la neve sulle montagne vicine.  Poi, certo, anche l'ambiente. Deteriorato dall'urbanizzazione e dall'azienda diffusa. Un po' dovunque. Ma, insomma, qualche prezzo bisogna pur pagarlo al successo economico, al benessere.

Il prezzo, però, sta diventando, è diventato, molto caro. Una tassa esosa e frequente. Quasi un pizzo da pagare di continuo. A noi stessi, in fondo, che non cessiamo di logorare il nostro mondo locale. Il nostro futuro.

Questa volta l'acqua è uscita dai torrenti e dai fossi dopo mezza giornata di pioggia. Un giorno al massimo. È stato sufficiente. Gli uomini della protezione civile si sono disposti vicino ai ponti, in centro a Vicenza. I residenti hanno cominciato a sorvegliare i torrenti. Gli  argini. Pronti ad affrontare il peggio. Un giorno di pioggia appena. Manco si trattasse della valle del Nilo. Manco che il Bacchiglione fosse il Gange. Invece siamo nei dintorni di Vicenza. Lungo la strada che conduce a Verona. Dove, ormai, non c'è bisogno di eventi eccezionali, improvvisi per produrre effetti deleteri. È  l'abnorme normalità di un territorio ormai incapace di reagire a episodi naturali appena extra-ordinari.  Così è sufficiente un giorno di pioggia battente e il terreno si allaga, diventa un lago, una palude. Le case affondano. Il terreno non riesce più ad assorbire. Mentre i fossi, i torrenti, peraltro, non hanno più argini in grado di trattenerli. Le case sono lì, a poca distanza. Quando l'acqua esce, pardon: esonda, non ci sono spazi che ne frenino la marcia.

Spazi? Basta guardarsi intorno. Dove avanza una plaga immobiliare informe che si è dilatata in ogni direzione. Occupa ogni angolo del nostro sguardo. Tra case e capannoni, zone artigiane e residenziali punteggiate di rotonde.  Tutto è avvenuto e continua ad avvenire senza che ce ne rendessimo conto. Perché ormai non vediamo più. Non siamo più in grado di vedere. Solo di provare disagio e malessere. Così si cercano i responsabili all'esterno. Roma.  I partiti romani. Lo Stato. E, poi, la Regione, la Provincia, il Comune. Sempre più vicino a noi. Perché è difficile  ammettere che questa mutazione non è stata prodotta  -  solo - da cause e colpe lontane. Ma tutto è avvenuto sotto i nostri occhi. Un anno dopo l'altro, un giorno dopo l'altro. Con la nostra complicità. E con un consenso generalizzato. In fondo non solo a Venezia, ma anche a Milano, Torino e soprattutto a Roma oggi governano i "nostri". (Magari non i "miei". Ma generalizzo in senso figurato...) Così, guardiamo quel che ci sta capitando intorno  senza  vedere (anche) noi stessi, sullo sfondo. E se il Bacchiglione continuerà a uscire, noi continueremo a ricacciarlo indietro. Da soli. Come abbiamo sempre fatto. In fondo, il benessere ha un prezzo... Lo sviluppo ha un prezzo...  Siamo diventati la locomotiva d'Italia, il crocevia produttivo d'Europa. Il mitico Nordest.

Perché lamentarsi?

(17 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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