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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278620 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Giugno 03, 2010, 04:45:22 pm »

SONDAGGI / ANALISI

Tra manovra e intercettazioni il Cavaliere adesso è solo

In passato i nemici erano i pessimisti.

Ma oggi tocca a lui predicare sacrifici: difficile farsi credere.

La "svolta emotiva" colpisce soprattutto il premier, ritenuto colpevole di aver negato la crisi

di ILVO DIAMANTI


IL PREMIER è uno specialista di sondaggi. Ne conosce l'importanza, in quest'epoca senza ideologie, senza maestri e senza profeti. I sondaggi: servono a supplire a questo deficit di senso. A costruire consenso.

Per questo non tollera "rappresentazioni della realtà" in contrasto con la sua narrazione. Soprattutto in tempi difficili. Quando incombe la crisi: sulle imprese e sui cittadini. A cui si chiedono sacrifici. Lacrime e sangue. Mentre governo e parlamento sono impegnati - un giorno sì e l'altro anche - a discutere una legge sulle intercettazioni, che interessa soprattutto a lui. Personalmente.

Per questo gli saltano i nervi quando in tivù, a Ballarò, uno specialista serio, come Nando Pagnoncelli, attraverso i sondaggi di Ipsos, propone un'Italia delusa. Dal premier. Il fatto è che la nostra democrazia è fondata sull'Opinione Pubblica assai più che sul voto. E l'Opinione Pubblica si esprime attraverso i sondaggi e i media. Soprattutto la tivù. Ogni giorno. Per questo Berlusconi reagisce quando i sondaggi, attraverso i media, danno una rappresentazione dell'Opinione Pubblica - e della realtà - diversa da quella che lui vorrebbe. In contrasto con i suoi sondaggi, secondo i quali egli sarebbe amato da 2 italiani su 3. Anche se il suo partito personale, alle recenti elezioni regionali, si è fermato al 30% dei voti validi. Cioè: meno di un terzo dei due terzi degli elettori. Insomma, intorno al 20%.

Da parte nostra, ci limitiamo - come sempre - a proporre i risultati di un sondaggio condotto nei giorni scorsi. Su un campione rappresentativo della popolazione (poco più di 1000 persone). Attenti a rispettare criteri di rigore, nella rilevazione e nell'elaborazione. Indifferenti ai risultati. Non ci riguardano. Da molto tempo, d'altronde, forniscono indicazioni penose sul centrosinistra e sul Pd, in particolare. Questa volta, però, anche i dati sul premier e il governo appaiono negativi. Peggiori di quelli forniti da Ipsos. Secondo il sondaggio di Demos, infatti, la fiducia verso Berlusconi e il governo non è mai stata così bassa, dalla primavera del 2008. Dunque, da quando è in carica. Negli ultimi due anni, il premier aveva attraversato altri momenti difficili. Ma questo appare diverso. Perché non investe il "privato" di Berlusconi, ma il suo ruolo "pubblico" e di governo. Fino a ieri, gli elettori li tenevano distinti. Magari, non apprezzavano i comportamenti personali del premier, ma approvavano l'operato del governo. Oggi molto meno. L'azione del governo è valutata con un voto "sufficiente" (6 o più) da poco più 4 elettori su 10. Il dato più basso da due anni. Un orientamento analogo a quello verso Berlusconi, giudicato in modo "positivo" o "sufficiente" dal 43% degli elettori: 6 punti in meno rispetto a 4 mesi fa e quasi 10 rispetto a un anno fa. Ma, soprattutto, 7 meno di un mese fa. Quando superava, comunque, il 50%.

È come se, all'improvviso, si fosse spenta, o almeno, abbassata la luce. Su di lui. E sul Pdl, stimato intorno al 33% dei voti. Perché la confidenza verso Giulio Tremonti appare, invece, molto elevata. Di quasi 10 punti superiore a quella del premier. Anche se la manovra finanziaria è giudicata negativamente dalla maggioranza dei cittadini. Ritenuta squilibrata e poco equa. Sfavorevole, soprattutto, per i dipendenti pubblici e, in minor misura, privati. Gli italiani rimproverano al governo, in particolare, di aver mentito loro. Fino a ieri. Sottovalutando - ad arte - il peso della crisi, per ragioni di consenso. Da ciò l'improvvisa svolta emotiva dell'opinione pubblica. Che punisce Berlusconi, ma non Tremonti. Distinguendo le responsabilità di chi ha imposto la manovra economica. Senza pietà. Da quelle di chi ha cercato di nasconderne, fino a ieri, l'urgenza e, soprattutto, i costi. In modo pietoso.

Il giudizio degli italiani è aggravato dalla legge sulle intercettazioni, attualmente in discussione al Parlamento. Verso la quale il dissenso è ampio. Anche tra gli elettori del centrodestra. La reputano negativamente quasi metà dei leghisti e un terzo della base del Pdl. Le riserve sono ancor più larghe in merito agli effetti. Gran parte degli italiani, infatti, ritiene che favorirà gli affari dei politici e dei potenti invece della privacy dei cittadini. Che ostacolerà le indagini sulla criminalità organizzata. E se anche ponesse limiti all'invadenza dei media, ne ridurrà sensibilmente l'autonomia e la libertà. In questa fase, è cresciuta anche l'insofferenza verso la corruzione: oltre 8 cittadini su 10 la ritengono diffusa quanto o di più rispetto ai tempi di Tangentopoli. Si è, inoltre, allargata la convinzione che il governo non stia facendo abbastanza, su questo fronte.

Così Berlusconi è costretto a inseguire troppi fronti. A recitare troppe parti, nello stesso tempo. Contro nemici, che cambiano di giorno in giorno. Ieri: i pessimisti, trattati da anti-italiani. Mentre oggi è intento a predicare sacrifici. Difficile apparire credibile. Anche per lui. Zelig. Attore nato.

Per sua fortuna, l'opposizione politica continua a dimostrarsi debole. Soprattutto il Pd. Mentre l'Idv e l'Udc, nelle stime di voto, si rafforzano. Tra i leader, il presidente della Camera, Fini, ha perduto consensi. Ma resta il più apprezzato dagli italiani. Insieme a Tremonti, nel quale gli elettori confidano e cercano sicurezza, in questa crisi. Così, nel centrodestra, la delusione si concentra sul premier. E sul Pdl. Mentre gli altri - intorno a lui - si mostrano in buona salute (dal punto di vista del consenso). Fini, Bossi, la Lega. E, soprattutto, Tremonti. Per questo, Berlusconi appare irritabile. E molto solo. Anche se lo è sempre stato. Anzi, se ne è fatto vanto. Lui: estraneo alla politica politicante, che affligge i suoi alleati e il suo stesso partito personale. "Commissariato", come si è lamentato di recente. Senza potere, commissariato dai gerarchi. Lui, orgogliosamente solo. Ma dalla parte degli italiani. I quali, irriconoscenti come i tifosi del Milan, oggi, non sembrano più intenzionati ad alleviare la sua solitudine. Ad assecondare la sua irreale narrazione della realtà.

(03 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/03/news/diamanti_3_giugno-4531500/
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« Risposta #166 inserito:: Giugno 14, 2010, 09:51:10 am »

IL SONDAGGIO

Italia, sfida alla crisi

Il cattivo umore di un Paese

Nella rilevazione Demos-Coop emerge una maggiore ansia per l'economia e meno paura degli immigrati.

Gli ultimi mesi hanno cambiato il termometro del Paese

di ILVO DIAMANTI


L'economia e la società attraversano tempi duri. Come avviene da anni, per la verità. La differenza è che oggi gli italiani ne sembrano consapevoli. Dopo un lungo periodo durante il quale apparivano convinti che, comunque, sarebbero riusciti a superare anche questa crisi. Perché noi italiani "ce la caviamo sempre", tanto più quando tutti ci danno per spacciati. Questa volta, però, qualche serio dubbio, al proposito, affiora. È ciò che suggerisce il sondaggio condotto da Demos-Coop per l'Osservatorio sul Capitale sociale.
Quasi il 60% degli italiani, infatti, considera i problemi economici (disoccupazione e prezzi) prioritari, nell'agenda delle emergenze da affrontare. Tre anni fa, questa componente della popolazione era di 20 punti più ridotta: il 37%. Un segno che il clima d'opinione sta cambiando in fretta. In peggio. La maggioranza degli italiani pensa, infatti, che, fino a ieri, il governo abbia mentito, sulla crisi. Ostentando un ottimismo fuori luogo.

Né consola il fatto che altrove, in Europa, le cose vadano peggio. Anzi, metà delle persone intervistate, non a caso, teme che anche da noi capiti quel che è successo in Grecia. Questo brusco cambiamento d'umore, come abbiamo sottolineato una settimana fa, dipende, sicuramente, dalla manovra finanziaria del governo. Che promette sacrifici molto duri, ai cittadini, dopo mesi e mesi di rassicurazioni. Ma il pessimismo è suggerito, soprattutto, dal peggioramento della condizione familiare. Che ha raggiunto livelli di guardia. Il 18% degli italiani, nel sondaggio Demos-Coop, dichiara che, nella sua famiglia, qualcuno ha perso il lavoro (5 punti in più di due anni fa). Il 24% sostiene che un familiare è stato messo in cassa integrazione (il doppio rispetto al 2008). Infine, il 27% degli intervistati (5 punti in più di due anni fa) afferma di aver dovuto ricorrere a prestiti presso genitori, parenti oppure amici. Considerando questi segni di difficoltà, il 17% delle famiglie italiane appare in condizione di grave disagio. Due anni fa questa cerchia era già ampia, ma si fermava al 12%. Un ulteriore 30% degli intervistati manifesta episodi di difficoltà familiare. Due anni fa era il 22%. Il profilo degli italiani in difficoltà economica risulta piuttosto chiaro. Si tratta di persone che risiedono, maggiormente, nel Mezzogiorno (anche se il peso della cassa integrazione è rilevante anche nel Nord). Di età media (40-55 anni), ma anche giovane (25-40 anni). Occupati (o disoccupati) come lavoratori dipendenti del settore privato. Ma le difficoltà colpiscono, in misura superiore alla media, anche i lavoratori autonomi.

Il montare della crisi economica e occupazionale ha largamente "saturato" lo spazio delle preoccupazioni, ridimensionando le paure suscitate dalla criminalità comune e dagli immigrati - perlopiù connessi, in un binomio inscindibile. L'atteggiamento verso gli immigrati, in particolare, sembra cambiato profondamente, sotto diversi profili. Si è ridotta la quota di coloro che li percepivano come un pericolo per la sicurezza, ma anche per l'occupazione. Mentre si è ridotto il peso di chi vede negli stranieri una "minaccia all'identità e alla religione". Parallelamente, è cresciuta la disponibilità a considerarli una risorsa per la nostra economia. Oltre che dalle preoccupazioni economiche, questo cambiamento del clima di opinione è stato favorito dalla minore intensità della campagna mediatica sui temi dell'immigrazione e della sicurezza (come mostrano i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza). Non vanno, tuttavia, trascurati gli effetti della diffusione dei rapporti con gli stranieri, messa in luce dall'Osservatorio Demos-Coop. Ci riferiamo alla crescente presenza degli stranieri nei luoghi di vita e di lavoro degli italiani. Come colleghi, amici, collaboratori, studenti, genitori di figli che studiano e giocano insieme ai nostri figli. Tutto ciò li ha resi meno "altri", agli occhi degli italiani.

La crisi, tuttavia, può distogliere lo sguardo dal problema della sicurezza personale. Ma alimenta, comunque, la diffidenza. Tra gli italiani in maggiore difficoltà, infatti, la sfiducia nel futuro è molto superiore alla media. Ma anche la sfiducia negli altri e, in particolare, verso gli stranieri. Le persone in difficoltà economica familiare, infatti, risultano anche le meno tolleranti e disponibili verso gli immigrati. Percepiti come concorrenti. Nell'accesso al mercato del lavoro, ma anche ai servizi. La percezione della crisi, tuttavia, sta indebolendo anche la fiducia nella politica. La quota di popolazione che esprime un giudizio positivo sull'operato del governo è, infatti, del 42% (il livello più basso degli ultimi 2 anni). Ma scende al 34% tra le persone in difficoltà economica e occupazionale. La stessa, esatta tendenza emerge nei confronti del premier: 42% di giudizi positivi nella popolazione; 34% nella componente sociale più precaria. Ma anche il consenso per Tremonti, che supera il 50% nella popolazione, tra i più "marginali" si riduce al 40%. Si tratta di una novità. Visto che, negli ultimi anni, il governo Berlusconi aveva attraversato le crisi economiche senza pagare un prezzo significativo, dal punto di vista del consenso politico. Ora qualcosa si è rotto, in questo meccanismo. Anche se ciò non implica, necessariamente, una svolta. Visto che il giudizio verso l'opposizione e il suo leader resta egualmente basso: nella popolazione come tra le persone socialmente in difficoltà. Il che suona come un avvertimento. Perché i mutamenti del sentimento sociale si traducano in termini elettorali occorre un'alternativa credibile e creduta. Che ancora non c'è.

(14 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/14/news/sondaggio_demos-4818781/?ref=HRER1-1
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« Risposta #167 inserito:: Giugno 20, 2010, 12:07:26 pm »

LE MAPPE

Il Federalismo senza autonomia

Alla vigilia del raduno di Pontida, è arrivato anche il "Ministero al Federalismo".

Tanto per chiarire che la via è segnata e senza ritorno.

Verso una Repubblica federalista, dove la Padania conquisterà nuovi poteri

DI ILVO DIAMANTI


NUOVA e ulteriore autonomia. Come la Catalogna oppure la Baviera. Mentre si celebra la marcia inarrestabile verso il federalismo, però, sindaci e governatori del Nord, del Centro e del Sud, di destra e di sinistra, e anche della Lega: sono in rivolta. Tutti. Uniti contro la manovra economica del governo, responsabile di sottrarre risorse e autonomia ai Comuni e alle Regioni. Da ciò il paradosso di questa fase. Nella quale il federalismo procede insieme al centralismo statale. Entrambi ad alta velocità: rischiano di finire uno contro l'altro.

Certo, l'Italia è un "Paese provvisorio", per citare Edmondo Berselli. In perenne transizione. Impegnato a riformarsi. E, nello stesso tempo, a frenare gli effetti delle riforme. Oppure ad adattarle, su base familista e localista. D'altronde, i partiti di massa della Prima Repubblica avevano orizzonti nazionali e internazionali e, insieme, un'organizzazione plasmata sulle differenze locali. Il Pci e la Dc. Capaci di promettere la società senza classi e il socialismo, di evocare la dottrina sociale cristiana e di fare appello ai "liberi e forti". Ma, soprattutto, di mediare le rivendicazioni locali e di rappresentare il territorio senza farvi esplicito riferimento. Nella Seconda Repubblica tutto è cambiato. Il territorio è divenuto una bandiera, in quest'epoca senza ideologie, con poca fiducia e poca fede. Oggi tutti evocano il territorio, come un mantra. Non solo la Lega Nord per l'indipendenza della Padania. C'è anche il Partito del Sud, al cui interno
militano numerosi esponenti, soprattutto di centrodestra. In Sicilia. Ma l'appello al territorio echeggia anche a Sinistra.

Come dimostra il richiamo, frequente, di Nichi Vendola all'orgoglio pugliese e "meridiano". Ma sta montando anche l'orgoglio dell'"Italia di mezzo", per iniziativa di molti amministratori (perlopiù di sinistra) che, a Perugia, un mese fa, hanno promosso gli Stati Generali dell'Italia Centrale. Insomma, è come se le divisioni politiche tradizionali si fossero tradotte e trasferite sul piano territoriale. Non più destra, centro e sinistra. Ma Nord, Centro e Sud.
L'importanza – simbolica e politica – delle realtà locali è apparsa evidente in occasione della manovra finanziaria del governo, che aveva previsto l'abolizione delle province più piccole (meno di 200mila abitanti). Una scelta coraggiosa, in un Paese dove le province, negli ultimi trent'anni, da quando cioè si parla di abolirle tutte, sono passate da 95 a 110. Ma anche un freno contro una frammentazione istituzionale che produce dissipazione di risorse e crescita incontrollata della spesa pubblica. Naturalmente non se ne è fatto nulla. La decisione è stata contrastata e ritirata, soprattutto per iniziativa della Lega. In nome dell'autonomia territoriale.

Le tensioni fra lo Stato e il territorio, tuttavia, non sono cessate e sono destinate ad acuirsi. Soprattutto fra i partiti di governo, ma anche al loro interno. Anzitutto perché si sono accentuate le ragioni del contrasto geopolitico e geoeconomico fra la Lega Nord e il Pdl, il cui bacino elettorale si è progressivamente spostato verso Sud. Il federalismo fiscale rischia di allargare le tensioni tra le aree del Paese. Come emerge, d'altronde, dagli stessi atteggiamenti sociali. Nel Mezzogiorno (sondaggio Demos, giugno 2010) il 31% dei cittadini pensa che il federalismo fiscale peggiorerà le cose, per la sua regione, il 18% che le cambierà in meglio. Al contrario, nel Nord "padano", il 43% dei cittadini, dal federalismo fiscale, si attende effetti positivi, solo l'8% negativi. Nel Nordest l'atteggiamento verso il federalismo è ancor più positivo.

In provincia di Vicenza (sondaggio di Demos per l'Associazione Industriali) è valutato con favore dal 63% della popolazione. Che, anzi, lo considera una sorta di rimedio universale, che produrrà: meno tasse, più poteri, servizi più ampi e qualificati. Il che alimenta attese pericolose, impossibili da soddisfare. Perché i governatori e i sindaci - tutti, senza differenze politiche e territoriali - dovranno affrontare uno squilibrio evidente e lacerante. Hanno assunto grande visibilità, poteri e competenze crescenti, mentre le risorse disponibili sono calate e continuano a calare in misura sensibile. Tanto più oggi, che lo Stato federale deve fare i conti anzitutto con lo Stato di necessità. Il "rigore colbertista" di Tremonti, dettato dalla crisi economica e finanziaria globale, cozza contro la promessa federalista.

Anche da ciò dipendono i continui conflitti simbolici promossi dalla Lega: sul tricolore, sull'unità d'Italia, sull'inno, sulla nazionale di calcio. Servono a spostare l'attenzione sull'identità, visto che sul piano degli interessi è difficile attendersi risultati concreti, nel prossimo futuro. Peraltro, il successo della Lega dipende, in misura significativa, anche dalla capacità di presentarsi come opposizione e governo, al tempo stesso. Il sindacalista del Nord: a Roma. Il movimento di liberazione da Roma: nel Nord. Ma questo gioco oggi diventa complicato, perché la Lega è al governo praticamente "ovunque". A Roma e nel Nord. Dove guida 2 Regioni, 14 province e oltre 350 comuni. Mentre al governo gestisce alcuni ministeri-chiave.

E nei giorni scorsi ne ha imposto uno nuovo, di bandiera, dedicato all'"Attuazione del Federalismo". (Tanto per contraddire i dubbi, al proposito). Attribuito a Brancher. Un "forzaleghista". Ma il contrasto fra la promessa federalista e la logica centralista, esercitata da Tremonti, difficilmente potrà ridimensionarsi, nel prossimo futuro. Vista l'emergenza economica e finanziaria. Il conflitto fra il Nord e Roma, fra la Padania e l'Italia rischia, dunque, di riprodursi e di porre la Lega in aperto conflitto con se stessa. Da ciò uno scenario che Mao avrebbe definito "eccellente". Visto che "grande è la confusione sotto il cielo". In questo "Paese provvisorio", capace di riforme istituzionali ardite, impensabili altrove. Il Federalismo Centralista. Il Localismo Statalista. L'Autonomismo Romano. Manca solo il Comunismo Anticomunista. Ma abbiamo già l'Anticomunismo senza il Comunismo. Basta avere un po' di pazienza.


(20 giugno 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it
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« Risposta #168 inserito:: Giugno 22, 2010, 09:41:36 am »

IL COMMENTO

La patria immaginaria

di ILVO DIAMANTI

"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all'indomani della manifestazione di Pontida.
Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione.
Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".

Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all'appartenenza e all'identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: "Patriottismo repubblicano e Unità d'Italia". Appunto: l'Unità d'Italia. Divenuta un tema centrale dell'agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l'Italia: l'inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell'organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita.

Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.

Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l'etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c'è.

Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l'importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch'essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d'altronde, l'invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.

Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell'esperienza di governo con Berlusconi.
Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l'indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita.
No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall'Italia. E quindi alternativa.

In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita.

Per questo nel 1999 Bossi rientra nell'alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all'anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l'identità leghista. L'antagonismo contro Roma. La lotta contro l'Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.

Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana".

Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l'Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.

(22 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/22/news/diamanti_padania-5043453/?ref=HRER2-1
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« Risposta #169 inserito:: Giugno 27, 2010, 11:23:09 am »

Ma la Nazionale non è la Nazione

di ILVO DIAMANTI


Nei giorni scorsi, abbiamo sentito e letto che "la Nazionale è lo specchio del Paese". E, in fondo, della Nazione. Lo spettacolo della sciagurata esperienza degli azzurri ai mondiali in Sudafrica: una metafora della società e, soprattutto, della classe dirigente italiana. Vecchia, senza capacità di innovare, di inventare qualcosa. Ripiegata su se stessa. Povera di identità.

E per questo incapace di affrontare una competizione aperta e dura con altre nazioni. Più giovani e affamate di successi. Vero, per la Nazionale. Ma il discorso si ferma lì. L'identità nazionale non ha a che fare con quella della Nazionale. La Nazionale di calcio non è lo specchio del Paese o della Nazione. Anche se si è soliti dire che gli italiani esibiscono l'orgoglio nazionale solo quando gioca la Nazionale. Conviene, semmai, invertire il ragionamento. Gli italiani, la società italiana: "usano" il calcio come specchio. Quando e se conviene loro. Alla ricerca di buoni motivi per stare insieme e per sentirsi soddisfatti. Per riconoscersi. A maggior ragione quando altri motivi latitano. Quando l'economia va male e il lavoro manca. Quando si diffida delle istituzioni e degli altri. Allora si è più pronti a sfilare dietro a una bandiera che prometta e permetta di vincere. E, al contempo, di sentirsi comunità, in una società sempre più individualizzata.

I mondiali di calcio, peraltro, costituiscono un'occasione unica. Perché si tratta di competizioni "inter - nazionali", dove le squadre "nazionali" si misurano "contro" le altre. Il che rende visibili gli elementi di eguaglianza e differenza impliciti nell'appartenenza territoriale. Sottolineati dalla bandiera, dall'inno, dalla maglia, dal tifo. Noi e gli altri. Noi contro gli altri. Amici e nemici (non avversari).

La svolta è avvenuta ai mondiali del 1970, nell'epica partita Italia - Germania, finita 4 a 3. Da allora è iniziata la ricerca di "momenti magici". Come ai mondiali del 1982 e del 2006. Occasioni per riunirsi con amici e altre persone, a vedere la partita. A casa, nei bar, di fronte a megaschermi. Per poi sciamare tutti quanti in strada e in piazza, in caso di vittoria. Offrendo (e assistendo a) spettacoli di entusiasmo collettivo. In cui ci si sente, all'improvviso, per una volta, italiani. Perché è bello vincere. Godere "insieme". Tanto più se negli altri momenti ci sentiamo soli. Se il successo arriva inatteso. Anzitutto da noi.

Naturalmente, il calcio è lo spettacolo che, più di altri, alimenta  -  e si alimenta  -  di identità e di appartenenza. Locale, urbana, regionale e non solo. In Italia il 50% delle persone tifa per una squadra. E, al tempo stesso, "contro" un'altra squadra (Sondaggio Demo - Limes, luglio 2008). Tra i più giovani la bandiera della squadra di calcio conta più di ogni altra. Politica, ma anche religiosa. È una "fede" più che una passione. Per questo la politica se ne è impadronita. A costo di ripetersi, come dimenticare l'esempio di Silvio Berlusconi, inventore della Nuova Politica e della Nuova Repubblica?

Nel 1994, proprietario e presidente del Milan, oltre che di Fininvest. Fonda un partito che si chiama "Forza Italia", organizzato attraverso i club. Definisce i suoi elettori: "azzurri". Un progetto post - ideologico, che definisce il Paese come una massa di tifosi, coinvolti in un campionato permanente, che si svolge sotto gli occhi di tutti, sui media. In chiaro o in pay - per - view.

Logico che il calcio, in una politica mediatizzata, sia divenuto il terreno dove si elaborano, creano, promuovono, scontrano le identità. Anche se la Nazionale non è la Nazione, viene usata per promuoverne oppure delegittimarne il significato. Secondo la convenienza. Come ha fatto, apertamente, la Lega, in questa occasione. Identificando  -  lei sì  -  la Nazionale con la Nazione. Per metterne in dubbio il fondamento. Così, Radio Padania ha "tifato contro". In seguito, Bossi si è detto certo che l'Italia (Nazione e nazionale) avrebbe "comprato" gli slovacchi, per vincere la partita e qualificarsi. (Nel calcio, si sa, queste cose succedono). Smentito dal risultato, ha usato l'eliminazione in senso "nazionalista". Recriminando sull'eccessiva presenza di stranieri. Nel campionato, ma, ovviamente, anche nella società italiana. (Varrebbe la pena di prendere sul serio questa critica, per allargare la rosa della nostra Nazionale, "etnicamente pura". Come avviene quasi ovunque.)

Negli ultimi anni, peraltro, anche Berlusconi sembra aver preso le distanze dal calcio. Ha smesso di investire nel Milan. Perché il Premier non può spendere cifre immense per i giocatori del suo club e chiedere, al tempo stesso, sacrifici ai cittadini. Poi, ha sciolto "Forza Italia" e gli "azzurri" (nel Popolo della Libertà). Forse, (anche) per ridurre i motivi di tensione con il fedele alleato "padano". Forse perché il calcio è diventato, nel frattempo, un'arena di guerra per bande. Localiste ed estremiste. Una piazza mediatica ingovernabile. Dove è impossibile coltivare un sogno "comune". Celebrare una storia "italiana".

La Nazionale, dunque, non è lo specchio della Nazione e neppure del Paese. Lo può diventare solo quando ai cittadini e alla classe dirigente "conviene" specchiarsi in essa. Cioè: se vince e (possibilmente) convince. Altrimenti, viene negata e rinnegata. Oppure ignorata. Come ieri, al ritorno degli azzurri, in aeroporto. Pochi tifosi, qualche insulto e molta indifferenza.

Noi, post-italiani (copyright di Berselli), per dirci e sentirci di nuovo italiani  -  e orgogliosi di essere tali  -  attenderemo un'occasione migliore.

(27 giugno 2010)
http://www.repubblica.it/speciali/mondiali/sudafrica2010/squadre/italia/2010/06/27/news/diamanti_27_giugno-5186999/?ref=HRER3-1
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« Risposta #170 inserito:: Luglio 01, 2010, 10:34:09 pm »

Un governo "geograficamente scorretto"

Ilvo Diamanti

Può apparire una sindrome maniacale, la mia insistenza sulla geografia. Eppure non mi capacito della disattenzione sull'argomento. Tanto più da parte di questa maggioranza e di "questo" governo. Che, come rammenta Gino De Vecchis, Presidente dell'Associazione Italiana Insegnanti Geografia, ha sensibilmente ridimensionato la materia nei diversi indirizzi delle scuole superiori. Infatti, la geografia è stata eliminata del tutto dagli Istituti Professionali, mentre negli Istituti Tecnici è rimasta solo nell'Indirizzo economico (con decurtazioni di orario). Nel biennio dei Licei, infine, è stata accorpata con la Storia antica (tre ore insieme).?

Insomma, l'idea implicita  -  anzi, esplicita -  nelle scelte del legislatore è che la geografia non serva. Che non sia, comunque, un bene primario ma, semmai, voluttuario. Come il dessert a fine pranzo. A cui si può rinunciare, con beneficio per il peso. Non torno a ripetere quel che ho già scritto altre volte, sulla geografia, come scienza dei confini: del territorio, della società, della persona. Dell'identità.  Per non apparire noioso. E un po' maniaco (anche se, indubbiamente, un po' lo sono). Però  fatico a capire un provvedimento del genere da parte di "questo" governo. Di "questa" maggioranza. La più "geograficamente" definita di ogni epoca. A partire, ovviamente, dalla Lega Nord. Poi il PdL. Che somma Forza Italia. E Alleanza Nazionale.  Più che una coalizione,
un catalogo di definizioni e di appartenenze riferite al territorio. La Lega, in particolare. Più del Nord, da tempo, evoca la Padania. Come potrà spiegare di che si tratta, senza chiarirne i confini? Dove comincia e dove finisce? E quando invoca il modello "catalano! oppure "bavarese": come riuscirà a chiarire, a un popolo di geo-analfabeti, che di Comunità autonome della Spagna e di Länder tedeschi si tratta - e non (appunto) di dessert?

Poi: il "federalismo". Per la Lega, più che un progetto, il Progetto. Anzi, un'ideologia. Il Federalismo come la Riforma delle riforme. Che, ai contesti regionali, garantisce poteri, competenze, identità. Come crederci davvero, quando il governo riduce loro le risorse? Se inibisce la geografia? (Che sta al federalismo come la televisione sta a Berlusconi).

Insomma, se perfino questo governo - fondato sul territorio (e sui media) - dimentica la geografia, allora: non c'è più speranza per noi. Individui etero-diretti da navigatori satellitari e GPS. Viaggiatori sperduti in un mondo di non-luoghi senza nome. Un movimento immobile. Da un aeroporto all'altro. Da un villaggio turistico all'altro. Spaesati in un paesaggio sempre più devastato e devastante. Impegnati a divincolarsi da una rotatoria all'altra.
Non c'è più speranza. Non c'è più senso. Anche i "marchi" delle mie rubriche, ispirati alla geografia e al territorio: Mappe, Bussole, Atlanti. Rischiano di diventare incomprensibili - oltre che inattuali. Al più: reperti di antiquariato. Meglio ricorrere ad altre metafore, meno consumate. Più trendy. Chessò: Tagli, Ritagli, Rimozioni. Perché oggi l'importante non è trovare e ritrovarsi, ma risparmiare. Senza troppi interrogativi. Adeguiamoci.

(01 luglio 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/07/01/news/un_governo_geograficamente_scorretto-5303290/?ref=HREC1-9
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« Risposta #171 inserito:: Luglio 04, 2010, 06:19:47 pm »

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Se il Cavaliere non sa più comunicare

di ILVO DIAMANTI

SONO passati tre mesi dal voto regionale ed è come se i partiti procedessero senza bussola. La maggioranza, in particolare (l'opposizione staziona, già da tempo, nella penombra). Non è in grado di trasmettere "un" senso all'azione di governo. Ma una maggioranza di governo ha bisogno di indicare valori e obiettivi comuni. Deve comunicare le priorità. Ha bisogno di una guida riconosciuta e condivisa. Capace di decidere. Ma quando il premier annuncia in tivù: "Ghe pensi mi", è segno che qualcosa non funziona. Infatti, se davvero "ci pensasse lui" a dettare la linea alla maggioranza e al governo, ebbene: non avrebbe bisogno di annunciarlo. In tivù. Perché chi "comanda" davvero non ha bisogno di dirlo. Comanda e basta. Anche quando si allontana dal Paese per qualche giorno. Dover minacciare i propri alleati (?) in tivù, per avvertirli che, da domani, "Ghe pensi mi", è segno di frustrazione. È la reazione del leader che "personalizza" l'identità del Centrodestra contro la "sua" maggioranza. Dove non si scorge una sola identità. Semmai, molte e diverse. Quindi, nessuna.

Non era mai avvenuto. In passato, i governi avevano sempre proposto un'idea, un marchio da esibire. Magari per ragioni di marketing, vista la crisi dei grandi progetti e delle grandi ideologie. Lo aveva fatto perfino il centrosinistra, durante le sue complicate esperienze di governo. Negli anni Novanta: il contrasto alla sfida secessionista e l'ingresso nell'Europa dell'euro. Nel 2006, all'avvio del secondo governo Prodi: la liberalizzazione delle professioni.

Il centrodestra, però, aveva sempre dettato un'agenda di priorità molto ben definita. Sia al governo che all'opposizione. Forza Italia, Lega, in parte An. Ciascuno con il proprio slogan. Ma insieme. Uniti nel segno e nell'immagine di Silvio Berlusconi.

A metà degli anni Novanta: il "nuovo", il cambiamento. La questione settentrionale. La riduzione dello Stato assistenziale e fiscale. Negli anni Duemila: la lotta contro il declino, le grandi opere. Ma soprattutto: la sicurezza "personale". Contro l'aggressione della criminalità comune, contro l'invasione degli immigrati. Negli ultimi anni: il federalismo. Infine, la logica del "fare". (Tranquilli. "Ghe pensi mi".) Ma oggi, due anni dopo il largo successo del 2008, con una larghissima maggioranza parlamentare, è difficile "capire" questo governo. Il quale fa poco, ma dice anche troppo. E spesso si contraddice. Questa maggioranza: parla troppi linguaggi, usa troppe parole. Ha troppi volti. Più che ambigua (nell'esercizio del potere l'ambiguità può essere una virtù), appare confusa. L'immigrazione e la criminalità comune. Svanite. Non si sa come né perché. In compenso, è cresciuta la disoccupazione (nelle statistiche e nella percezione sociale). Di cui, ovviamente, il governo non parla. Perché inquietare una società già inquieta? Alimentare lo spirito disfattista? Però, all'improvviso, si annunciano  -  e si assumono  -  misure economiche severe. Si agita lo spettro della Grecia. E allora  -  ancora  -  non si capisce: la crisi c'è o non c'è?

Gli altri obiettivi-chiave procedono a fatica. Tra annunci roboanti e successive frenate. Come per l'università. Di cui, da anni, si annuncia la riforma. Anzi: la Riforma. Che, però, slitta. Mentre le risorse calano. Poi, il fisco. Una bandiera del centrodestra liberal-federalista. Si promette di ridurne la pressione e di semplificarne il procedimento. Ma domani, oggi ancora non si può. Il federalismo, invece, resta una priorità. Una bandiera. Sventolata dalla Lega. Che minaccia, se non venisse realizzato subito, la secessione. Di fatto, avanza un federalismo senza autonomia. Dove i governatori non governano neppure se stessi e si autodenunciano "curatori fallimentari". Dove i sindaci vedono crescere le proprie competenze e diminuire le risorse.

La manovra finanziaria. Nessuno sa come sarà davvero, alla fine. Ogni giorno un nuovo emendamento, smentito all'indomani. Ultimo: il taglio alle tredicesime dei poliziotti. Perfino Bossi: non sembra più lui. Prima provoca. Sostiene che la Nazionale comprerà la partita contro la Slovacchia. Poi ritratta. Come un Berlusconi qualsiasi.
La maggioranza. Questa larga maggioranza. Non ha un'idea da comunicare. E neppure qualcuno che la comunichi. Per conto di tutti. Ci penserà Berlusconi, ma da domani. Per ora, definirla divisa è un eufemismo. Fini e i suoi: sono già all'opposizione, anche se stanno ancora nella maggioranza. La Lega: non può lasciare a Fini questo ruolo. Ma non può permettersi neppure di rappresentare un governo centralista e anti-federalista. Contestato dai governatori e dai sindaci. Tremonti: è il vero premier. Ma non si può dire.

L'unica vera  -  e visibile  -  missione del governo sembra essere la difesa del premier. Dei suoi interessi, dei suoi collaboratori e amici. Contro ogni minaccia legale e politica. Contro i giudici, i giornalisti. Contro le intercettazioni. Con fatica crescente, però. Perché le leggi "personali" procedono tra modifiche, accelerazioni e rallentamenti. Deviazioni. E tante proteste, tante manifestazioni contrarie.

Troppo poco per costruire un'identità. Emozionare gli elettori del Nord e del Sud. Convincere gli imprenditori e i lavoratori autonomi. Rassicurare i pensionati e i lavoratori dipendenti. Anche perché latitano i nemici da combattere. I comunisti: chi li ha visti? Il "complotto di giudici e magistrati": dopo tanti anni, suona come un disco rotto.

Questo premier  -  e questo governo  -  in campagna elettorale permanente, senza elezioni da affrontare, a breve periodo, appare sperduto. E, Berlusconi, probabilmente "ci pensa (lui)". Al voto anticipato. Per ritrovare una missione e un senso. Tuttavia, per chiudere una legislatura, per andare a nuove elezioni, il premier dovrebbe essere in grado di imporle (e di scaricarne le responsabilità all'esterno). Dovrebbe, comunque, spiegarne il significato.

Non sarà facile, in quest'epoca di politica insignificante.

(04 luglio 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #172 inserito:: Luglio 18, 2010, 08:41:26 pm »

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Perché non esiste l'opinione pubblica unica

di ILVO DIAMANTI

Difficile trovare un'altra epoca nella quale il richiamo al popolo sia risuonato così ossessivo e insistente. Quasi come un rap. Nelle varianti più diverse. La più frequente evoca la "volontà degli elettori". Contro cui congiurerebbe la Sinistra, insieme ai suoi complici e alleati. I magistrati, in testa. E, naturalmente, i giornalisti. Le testate della stampa e della tivù che continuano a fare - seriamente - il loro mestiere. Tradotto, nel linguaggio del premier: gettano fango per "ribaltare il voto". Lo stesso argomento usato dalla Lega contro un'altra Magistratura, il Tar del Piemonte, che ha imposto il riconteggio di 15 mila schede delle ultime elezioni regionali. Che rischiano, così, di essere ripetute. Qui non sono le specifiche vicende, a interessarci. La P3 o la verifica del risultato in Piemonte. Ma, appunto, l'argomento usato. Il tradimento del popolo e degli elettori. Seppure non sia facile capire come potrebbero, la sinistra, i giudici e i giornalisti, impedire al governo di governare. Questione di numeri, visto che nessun governo del dopoguerra ha potuto disporre di una maggioranza tanto ampia. Sulla carta. Perché, alla prova dei fatti, è disomogenea e divisa. Gli alleati poco alleati. Il PdL frazionato e rissoso al suo interno. Ma a questo il premier penserà in agosto. Quando si dedicherà a "rimettere a posto il partito".

Il problema è un altro. Il "fango", che sporca la credibilità e l'immagine del premier e del governo. Narra una storia diversa da quella ufficiale. Logora il clima d'opinione, come sottolineano i sondaggi. Oggi poco favorevoli al premier, al governo e al suo partito. Il cui gradimento ha toccato i livelli minimi dal 2008. A causa delle pessime condizioni dell'economia e di una finanziaria difficile. Terreno di scontro, anzitutto dentro il governo e la maggioranza. A causa della percezione, diffusa, che questo governo non governi. E che, soprattutto, sia fisiologicamente viziato dal malaffare. Un governo a più livelli. Quello ufficiale non decide, perché le decisioni si prendono altrove, in cerchie segrete, in zone opache. Così, ha osservato Ezio Mauro, il governo appare una sorta di "vascello fantasma", da cui vengono gettati i corpi dei malati incurabili. I ministri toccati dal male della corruzione. Indifendibili anzitutto perché potrebbero contaminare l'intera nave. Trasmetterle il male oscuro e irrimediabile, per la politica. La "delegittimazione". In una sola parola: potrebbero modificare l'Opinione Pubblica.

Che oggi appare la vera sovrana. Sostituto dell'elettorato. Equivalente del Popolo. In fondo, alla stessa Lega l'inchiesta piemontese dispiace non solo perché ne mette in discussione la vittoria alle regionali. Ma perché rammenta che si è trattato di un successo incerto, avvenuto per pochi voti, pochi decimali. E rende arduo sostenere l'esistenza di "un" Popolo padano, se perfino in Piemonte ha vinto grazie ai voti di due liste ipotetiche.

Il fatto è che l'Opinione Pubblica Sovrana, per essere tale, non può essere "plurale". È un plebiscito che si celebra ogni giorno, a colpi di sondaggi amplificati dai media, celebrati da giornalisti, certificati da pollster e specialisti.

Non uno strumento per capire e orientarsi. Ma una rappresentazione della volontà popolare. Dove la maggioranza (anche molto relativa) di un campione, costituito da 1000 oppure 800 casi, rappresenta "gli italiani". Tutti. Cioè: il popolo. Così, la diffusa sensazione di un governo che non governa, dove molti, a partire dal premier, si fanno i fatti propri piuttosto che quelli dei cittadini, non compromette solo il clima d'opinione.

Ma, soprattutto: ri-disegna l'Opinione Pubblica. Per definizione: unica. Sovrana. Così, per questa sola ragione, potrebbe "cambiare il risultato delle urne". Senza neppure bisogno di votare. Di fatto. Perché nel nostro tempo si vota una tantum, mentre i sondaggi - che fabbricano l'Opinione Pubblica Sovrana - si realizzano ogni giorno.

Per questo, nonostante una maggioranza parlamentare schiacciante e un esteso controllo sull'economia, sulle istituzioni centrali e locali, oltre che sull'informazione, il governo guidato da Berlusconi appare così debole e vulnerabile. Così insofferente verso gli "altri poteri" che fondano la democrazia. Per quanto costretti in spazi ridotti e limitati. Lui, il depositario principale e, forse, unico dell'Opinione Pubblica Sovrana.

Il che ci spinge a (ri)proporre alcuni avvertimenti, magari scontati, ma che non è inutile ripetere.
L'Opinione Pubblica Unica non esiste. Sicuramente non la misurano i sondaggi (strumenti imperfetti che rilevano "opinioni"). I quali, però, possono essere usati per "costruirla", soprattutto con l'appoggio dei media.

Per questo, fra i poteri da equilibrare, oggi, Montesquieu inserirebbe sicuramente il sistema dell'opinione pubblica - media, sondaggi, comunicazione. E dubitiamo che apprezzerebbe il grado di concentrazione esercitato in Italia dal Cavaliere. Premier, leader del partito di maggioranza, proprietario del maggiore gruppo mediatico privato e attore influente di quello pubblico.

Tuttavia, il campo dell'opinione pubblica è ampio e diversificato. Gli attori che vi partecipano - e lo possono influenzare - sono molti. Non solo politici e partiti. Ma giornalisti, movimenti, associazioni, comitati, blogger. Intellettuali e specialisti. I magistrati, ovviamente (Pizzorno li definì "garanti della pubblica virtù"). Attraverso vecchi e nuovi media. Giornali, televisioni, internet. Che nessuno è in grado di controllare fino in fondo. È questo il principale anticorpo di cui disponga la democrazia (dell'opinione).

Perché l'opinione pubblica in cui noi crediamo è lo spazio che rende "pubblico" il confronto sulle decisioni di "interesse pubblico". Uno spazio di partecipazione e di controllo aperto a tutti. Dove nulla è dato per scontato. Dove è possibile discutere tutto. E tutti.
A partire da noi stessi.

(18 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/18/news/perch_non_esiste_lopinione_pubblica_unica-5654700/?ref=HREC1-4
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« Risposta #173 inserito:: Luglio 28, 2010, 11:16:54 pm »

Se il Pdl diventa il Pil

Ilvo Diamanti

La cronaca politica  scorre, sempre più tumultuosa, tutta dentro alla maggioranza. D'altronde, quel che avviene al di fuori di essa, oggi, conta poco. Basta leggere, a caso le notizie degli ultimi giorni. Il sottosegretario Cosentino si è dimesso. Come, prima di lui, due ministri: Scajola e Brancher. Quest'ultimo, prima ancora di entrare in carica. Il coordinatore del Pdl, Verdini, invece, è ancora al suo posto. Non si sa per quanto. Lui  e Cosentino  -  ma ora anche il sottosegretario Caliendo - sono indagati. Accusati di avere  agito in un comitato occulto  -  definito, non a caso, P3  -  per condizionare le decisioni del CSM e, in generale, la vita politica. Senza porsi troppi scrupoli. A costo di screditare gli avversari politici. E non solo gli avversari. Visto che tra i bersagli più "bersagliati" incontriamo il governatore della Campania. Caldoro. Designato dal PdL. Eletto nelle liste del PdL.  Dopo l'esclusione di Cosentino.

Appunto: Cosentino. Costretto a rinunciare a favore di  Caldoro. Appunto. Contro cui la P3 ha tramato, per coprirlo di fango. Del PdL fanno parte anche Bocchino e Granata. I quali negli ultimi giorni hanno sostenuto - e ripetuto - che nel partito esiste una "questione morale". Da affrontare senza indulgenza. Suscitando la reazione di autorevoli leader del PdL. Ad esempio, La Russa. Loro compagno di partito. Oggi, nel PdL. Ma anche ieri, quando militavano, tutti insieme, in AN. La Russa è intervenuto, come altri esponenti
del PdL. Per esempio, Lupi. Senza indulgenza. Appunto. Hanno invitato i probiviri del partito a occuparsi di loro. Non di Verdini e Cosentino. Ma di Bocchino e Granata. Appunto. E  insieme a molti altri  -   Cicchitto, Bondi, Lupi, Gasparri: tutti del PdL (appunto)  -  hanno esortato Fini  a lasciare la carica di Presidente della Camera. Magari, se possibile, anche il PdL.  Dove è ritenuto, ormai, un corpo estraneo.  Lo scrive il Giornale da mesi  e mesi. Fini è un traditore. Eletto con i voti del PdL al Parlamento, ma anche alla Presidenza della Camera, ora agisce  -  e parla  -  come uno di sinistra. Mosso da rancore personale. Contro Berlusconi. E contro i suoi vecchi compagni (si fa per dire...) di AN. I suoi colonnelli, che 3 anni fa, quando il Cavaliere, dal predellino, lanciò il PdL, lo lasciarono solo. E passarono nell'esercito di Berlusconi. Così Fini fece buon viso a cattivo gioco. E divenne, a sua volta,  socio fondatore del PdL. Per trasformarsi, presto, in un critico implacabile. Secondo Berlusconi: un capo corrente. E nel PdL le correnti non sono previste. A Berlusconi non piacciono. Anzi non le sopporta. D'altronde, non gli piace  -  e non sopporta  -  neppure Fini. Lo ha ripetuto molte volte, negli ultimi giorni. Senza troppa cautela. Sempre negli ultimi giorni, Giulio Tremonti, superministro dell'Economia, ha proseguito la sua faticosa lotta con i ministri del "suo" governo. E con i governatori e i sindaci, compresi quelli del "suo" partito. In nome del "rigore", del controllo dei conti e del bilancio. Anche se, dicono molti compagni di partito, Tremonti userebbe il rigore come un'arma per ricattare il ceto politico locale e centrale. O meglio: per rafforzare solo se stesso. Anche di fronte a Berlusconi. In fondo, dicono che il vero premier sia lui, Tremonti.  E, per questo, è guardato con crescente insofferenza anche da Berlusconi.

In questa storia di conflitti politici quotidiani, tutta interna alla maggioranza, ma soprattutto al PdL (appunto), il partner più affidabile di Berlusconi è la Lega. Che non è afflitta da correnti e dissensi personali. Comanda solo uno, con la collaborazione dei suoi fedeli. Dopo di lui comanderanno i suoi figli. Eppure neanche la Lega appare affidabile come un tempo. Per esempio, di fronte agli scandali che investivano il ceto politico e i ministri del PdL non ha garantito a Berlusconi un sostegno convinto. Nella vicenda della legge sulle intercettazioni non ha eretto le barricate. Preoccupata di non farsi coinvolgere in faccende untuose, che ne potrebbero indebolire il ruolo di opposizione nel governo. D'altra parte, perché sputtanarsi mentre i sondaggi la danno in ulteriore crescita? Però, anche la Lega ha i suoi problemi. Il progetto federalista è contraddetto dall'opposizione dei sindaci e dei governatori. Che accusano il governo di svuotare, insieme alle risorse, anche l'autonomia degli enti locali. Così ricorre, anch'essa, alla strategia dell'annuncio. Bossi promette che IVA e IRPEF passeranno, presto, sotto il controllo di Comuni e Regioni. Ma poi Calderoli smentisce. Il suo leader non ha mai detto nulla di tutto ciò. Hanno capito male i giornalisti.  Sempre loro. I Nemici del governo e della maggioranza.

Bossi e la Lega, poi, si inquietano ogni volta che Berlusconi dialoga con Casini e l'UdC. Perdono le staffe. E minacciano: noi o loro. Il Nord o il Centro.

Temo che i lettori si saranno stancati di fronte a questa rassegna di notizie degli ultimi giorni. Eppure consumate. Perché le notizie politiche girano su se stesse. Sempre nuove. E sempre vecchie.  Cambiano e si ripetono. Sempre uguali. I fatti, gli eventi, insieme ai nomi. Cosentino, Caldoro, Bondi, Cicchitto, Granata, Verdini, Brancher, Calderoli, Maroni, Scajola, Formigoni, Bocchino, Lupi, Gasparri, La Russa. E, ancora, Fini, Schifani, Bossi, Tremonti. Berlusconi. Sempre gli stessi. Protagonisti, comparse e comprimari  -  a seconda delle occasioni  -  di conflitti incrociati. Perenni. Che si riproducono lungo linee di demarcazione non troppo rigide, non sempre chiare. Perché, in politica, da tempo tutto avviene dentro i confini della maggioranza. L'altro versante resta perlopiù nell'ombra. Al massimo partecipa ai conflitti del centrodestra. Tifa per Fini oppure asseconda le polemiche interne al PdL. Dove tutto evoca una vita spericolata, per citare un noto osservatore della vita politica e sociale, Vasco Rossi. "Ognuno a rincorrere i suoi guai. Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso e ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi."

In questo Paese, dove la virtù più praticata è l'arte di arrangiarsi, dove ognuno antepone a tutto il resto gli interessi personali e della propria famiglia, del proprio borgo, della propria fazione e frazione. Nessun dubbio. Questa maggioranza costituisce l'unica, vera rappresentanza possibile. Più che il PdL, il PIL. Più Che il Popolo della Libertà: un "Popolo in Libertà".

(28 luglio 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/07/28/news/se_il_pdl_diventa_il_pil-5890563/?ref=HREA-1
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« Risposta #174 inserito:: Agosto 02, 2010, 08:28:38 pm »

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I due partiti di una persona sola

di ILVO DIAMANTI

Il premier non può accettare il dissenso, le correnti, le divisioni. Dentro il "suo" partito. Il senso della rottura con Fini sta tutto in questo problema. L'impossibilità, per Berlusconi, di affrontare un confronto fra posizioni diverse (dalle sue) dentro il (suo) partito. E  -  con l'eccezione della Lega  -  anche dentro alla "sua" maggioranza. Il premier, il leader del primo partito italiano lo ha ripetuto spesso, negli ultimi mesi, con crescente frequenza e fastidio. Chi non si adegua alle sue scelte se ne deve andare. Gianfranco Fini, insieme ai suoi fedeli, peraltro, non ha fatto molto per evitare il conflitto.

Semmai, il contrario. Difficile sorprendersi, allora, della frattura avvenuta negli ultimi giorni. Largamente annunciata e perfino cercata. Comunque, inevitabile, vista la genesi del partito, Forza Italia (rinominata Pdl, dopo l'annessione di An). Un'invenzione di Silvio Berlusconi. Un "partito personale" (per evocare una nota definizione di Mauro Calise), creato come (e da) un'azienda. "All'italiana". Cioè: a base familiare e personale. Un'azienda e allo stesso tempo un prodotto, da vendere sul mercato elettorale. Berlusconi ne ha affidato la gestione ai suoi esperti, ai suoi consulenti legali e fiscali. Ai suoi specialisti di marketing e comunicazione. Tutti al suo servizio. Un partito "personale" con una base elettorale di massa, per quanto instabile. Un PMM  -  Partito Mediale di Massa. Che, al posto dell'organizzazione, della partecipazione e dell'ideologia, usa il management aziendale, i media e il marketing. Centralizzato come pochi altri.

Il paragone con il "centralismo democratico" del Pci, però, non regge. Perché il Pci aveva un'organizzazione forte, meccanismi di reclutamento e di selezione della classe dirigente rigidi, ma efficienti. Una leadership centralizzata, ma non "personale". Poi aveva una ideologia. Il dibattito politico, le correnti: esistevano. Solo che non erano espliciti e, comunque, alla fine si riallineavano.
(Con qualche importante eccezione, come nel caso del Manifesto, nel 1968.)

Dentro Forza Italia e il Pdl, invece, tutto ciò non è possibile. Perché l'origine e il (la) fine del partito coincidono con una persona. Lui. Contestarlo, peggio, prenderne le distanze, significa (va) semplicemente aggredire l'albero alle radici, la casa alle fondamenta. D'altronde, un'azienda "personale" non può sopravvivere quando se ne mette in discussione la guida "personale". L'azienda non è un organismo democratico. La sua arena è il mercato. Che non è democratico. Forza Italia, però, è "anche" un partito. Agisce nell'arena elettorale, dove, per vincere, occorre prendere più voti degli avversari. Se non da soli, insieme ad altri. Così ha dovuto allearsi. Dal 1994 in poi: con An, la Lega, i neo-democristiani. E altre formazioni minori. Lui, afflitto dalla "sindrome del padrone" (la definizione è di Edmondo Berselli), incapace di pensare in termini istituzionali, "pubblici" (per citare Carlo Fusaro): ha vissuto con crescente insofferenza la necessità di confrontarsi con "altri poteri", non elettivi ma "costitutivi" della democrazia. Il Presidente, i magistrati, la Corte Costituzionale. E con quelli eletti: gli avversari e, peggio, gli alleati politici. Così ha trascorso gli ultimi 16 anni a combattere. Contro le istituzioni di controllo, che pretendevano di ribaltare la "volontà del popolo". Contro gli alleati che osavano sfidarne la leadership, costretti ad andarsene oppure "licenziati". È successo a Follini, nel 2006. A Casini, nel 2007. E  -  nei giorni scorsi  -  a Fini. Casini e Fini: convinti di succedergli, un giorno. Senza considerare che, in Italia, gli imprenditori si riproducono per via familiare. E trascurando il fatto che il premier si ritiene eterno.

Per ridurre, almeno, la complessità interna al suo campo, Berlusconi, negli ultimi anni, ha lanciato un'Opa su An e l'Udc. Quest'ultima, che pretendeva di restare autonoma, è stata espulsa dall'orbita di Berlusconi. An è stata assorbita. Fini, per questo, non era neppure un socio di minoranza. Al massimo, un dirigente aziendale. L'unico soggetto ad aver mantenuto autonomia e identità, in questo gioco, è la Lega. Non a caso. Non solo perché il suo radicamento territoriale nel Nord rende molto rischioso sfidarla. (Berlusconi l'ha sperimentato a proprie spese nel 1996.) È che la Lega, per quanto sostanzialmente diversa da FI (pardon: il Pdl), è, anch'essa, un partito personale. Dove la leadership di Bossi è indiscutibile, non esistono correnti né dissensi personali, da oltre 15 anni. La Lega. Un partito dinastico, se non imprenditoriale. In caso di successione, Bossi ha già espresso la sua preferenza per il figlio Renzo. Berlusconi, dunque, riconosce l'autonomia della Lega perché non può fare altrimenti. E perché è un partito personale, come il "suo" Pdl. Per decidere gli basta andare a cena con Bossi, una volta alla settimana.

Se questo è il modello di partito dominante espresso dai partiti dominanti  -  ed esemplari  -  della nostra democrazia, allora diventa difficile eludere un quesito. Anzi, "il" quesito (posto, peraltro, ieri da Eugenio Scalfari). Quale democrazia? Dove il dissenso è insostenibile, la selezione della classe dirigente dettata dall'obbedienza assoluta. Quale democrazia? Dove i congressi (meglio, le convention) si celebrano solo per annettere altri partiti. Dove i canali di comunicazione sono "controllati" da un solo e unico leader  -  di impresa, partito e di impresa-partito. Dove le istituzioni di garanzia sono considerate nemiche. Quale democrazia? Ci rendiamo conto che la questione non riguarda solo il Pdl e la Lega, modelli di successo imitati dagli altri partiti (con minore successo). Ma questo non ci rassicura. Al contrario. Perché riteniamo sia difficile edificare la democrazia su attori politici  -  i partiti  -  che la escludano al proprio interno.

Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, ha parlato di "anomalia berlusconiana" ("oggi fattore, più che altro, di instabilità"). Ma noi abbiamo il dubbio che l'anomalia, nella concezione di Berlusconi, sia proprio la democrazia.

(02 agosto 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #175 inserito:: Agosto 09, 2010, 10:05:26 am »

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La paura di votare non conviene al Pd

Se i democratici si presentassero con questo gruppo dirigente e questa coalizione, perderebbero.

La loro insicurezza costituisce la principale fonte di sicurezza per l'attuale maggioranza di governo.

Visto che anch'essa ha molto da temere da nuove elezioni

di ILVO DIAMANTI


L'IPOTESI di elezioni anticipate sembra preoccupare soprattutto il Centrosinistra. In particolare, il Pd. Per ragioni di numeri, anzitutto. Se si presentasse con questo gruppo dirigente e con questa coalizione - l'asse con l'IdV di Di Pietro - perderebbe. Poi, perché dovrebbe affrontare i propri dubbi, irrisolti, circa le alleanze, gli obiettivi, i valori. L'insicurezza del Pd - e del Centrosinistra - costituisce la principale fonte di sicurezza per l'attuale maggioranza (si fa per dire...) di governo. Visto che anch'essa ha molto da temere da nuove elezioni.

Come farebbe Berlusconi a giustificare una crisi, in tempi così difficili per l'economia? La defezione di Fini e dei suoi fedeli, inoltre, modificherebbe sostanzialmente l'identità territoriale di questa maggioranza. Se si votasse davvero in novembre, il Centrodestra si presenterebbe con i volti della triade Berlusconi, Bossi e Tremonti. Vero partito forte: la Lega. Principale prodotto di bandiera: il federalismo. Insomma: un'alleanza politica "nordista". Berlusconi e il Pdl avrebbero concreti motivi di temere il voto. Perché in Italia, per vincere le elezioni (governare, ovviamente, è un altro discorso), bisogna disporre di un elettorato "nazionale". Distribuito sul territorio in modo non troppo squilibrato. Come la Dc, nella prima Repubblica, e Forza Italia, nella seconda. I principali baricentri, non a caso, dei governi del dopoguerra.

Il Pci, invece, nella prima Repubblica ha conosciuto fasi di grande espansione, ma è sempre rimasto ancorato alle regioni "rosse" dell'Italia centrale. Quanto al Centrosinistra, nella seconda Repubblica, in quindici anni di esperimenti, non è riuscito a superare i vincoli territoriali - ma anche politic  - ereditati dal passato. Il progetto dell'Ulivo, guidato da Prodi, dopo il 1995 ha viaggiato sospeso fra Ulivo dei partiti e Partito dell'Ulivo. Ha, comunque, delineato un soggetto politico di tipo italo-americano. Dove coabitassero posizioni politiche e culturali molto diverse e perfino lontane tra loro. Come i Democratici negli Usa e la Dc in Italia (un esempio evocato spesso da Parisi). L'Ulivo, erede dei partiti di massa (democristiani e comunisti, soprattutto), ma "nuovo", per identità e metodo di selezione del gruppo dirigente e dei candidati. Le primarie ne sono divenute il marchio. Un'alternativa all'organizzazione tradizionale e, nel contempo, al partito mediatico e personale, imposto da Berlusconi.

L'Ulivo di Prodi evoca un soggetto politico di coalizione, "largo" ed eterogeneo. Ha vinto due volte - o, forse, una volta e mezzo. Nel 1996 e nel 2006 (quando al Senato ha perso quasi subito la maggioranza). Ma si è rivelato incapace di garantire stabilità e coesione. Da ciò, nel 2007, il passaggio al Pd, guidato da Veltroni. Partito riformista, sorto con l'obiettivo di "attrarre" gli elettori dell'area di sinistra e soprattutto di centro, senza troppi compromessi e mediazioni. Correndo contro Berlusconi e il Pdl "da solo". O quasi. Un unico alleato, l'IdV. In risposta al PdL, che si apparenta con la Lega. Le primarie, parallelamente, non servono più a scegliere il candidato premier. Dunque, non sono aperte all'intera coalizione (come nel 2005). Diventano, invece, una sorta di competizione congressuale per scegliere il gruppo dirigente e il segretario. Il problema è che il Pd non solo ha perso le elezioni del 2008 (esito prevedibile). Ma, in due anni, ha cambiato tre segretari, mentre la sua base elettorale si è ridotta sensibilmente.

Pdl e Pd, nel frattempo, si sono indeboliti - parecchio - rispetto ai partner (Lega e IdV). E ciò ha ridimensionato l'idea del bipolarismo "bipartitico", sostenuta da Veltroni e Berlusconi nel 2008. Oggi, infatti, ci troviamo di fronte a un bipolarismo frammentato, che neppure Berlusconi riesce a controllare e pone al Pd serie difficoltà. Il bacino elettorale alla sua sinistra, nel frattempo, si è prosciugato. Oltre tre milioni di elettori: spariti. Esuli. In sonno. Oppure intercettati dall'Idv. Mentre al centro si fa spazio un nuovo aggregato che ambisce a fargli concorrenza. (Anche se l'attuale legge elettorale scoraggia ogni ipotesi di "terzo polo"). Per cui il Pd, quando evoca un governo istituzionale, che scriva una nuova legge elettorale e gestisca l'emergenza economica, più che alle difficoltà del Paese pare rispondere alle proprie. L'ipotesi, peraltro, non appare praticabile. Osteggiata dalla maggioranza, troverebbe in disaccordo anche le opposizioni. (C'è dissenso sulla legge elettorale fra Pd, Udc, Sinistra...)

Meglio - molto meglio - che il Pd si prepari alle elezioni. Senza scorciatoie. Con le attuali regole. E dica, quindi, "come" e "con chi" le intenda affrontare. Da solo o con pochi amici: non può. Perderebbe. Insieme all'IdV, oggi, il Pd potrebbe giungere intorno al 35%. Il Pdl, con la Lega, otterrebbe almeno 8 punti percentuali in più. Poi c'è l'incognita dell'astensione, che ha colpito pesantemente anche il centrosinistra, negli ultimi anni. Il Pd, per questo, deve chiarirsi e chiarirci. Con chi intende presentarsi? Quali formazioni e quali leader? L'esperienza del passato suggerirebbe la ricerca di intese molto larghe, senza pregiudizi. A sinistra e al centro. Attorno ad alcuni obiettivi di programma. Pochi e precisi. Relativi all'economia e al lavoro, alla legalità, alle regole istituzionali, al rispetto dell'unità nazionale, alla legge elettorale. Insomma: proponendo il programma delineato per il governo istituzionale alla verifica elettorale.
Un'alleanza che, come l'Ulivo nel 2005, scelga il candidato - i candidati - con il metodo delle primarie. Ma senza vincitori annunciati. Primarie aperte. Dove possano competere - e vincere-  Bersani, Di Pietro, Letta, Chiamparino. Ma anche Vendola, Casini, Rutelli, Tabacci. E altri candidati ancora, noti e meno noti.

L'ipotesi non è entusiasmante e si presta, ovviamente, a critiche. Una su tutte. Si tratterebbe di un collage antiberlusconiano e antileghista. Osservazione fondata, che non ci scandalizza. D'altronde, questa legge elettorale non l'abbiamo voluta noi. E l'asse Berlusconi-Bossi oggi costituisce un metro di misura e di riferimento  -  politico e istituzionale - non eludibile.

Tuttavia, da parte del Pd, ogni ipotesi, ogni idea - anche diversa da questa - è meglio dell'attuale afasia. Non temiamo le elezioni - per noi, anzi, sono ottime occasioni di lavoro. Temiamo, assai più, l'assenza di alternative e di speranze. Questo bipolarismo imperfetto tra un centrodestra che non ci (mi) piace e un centrosinistra (oppure centro-sinistra) che non c'è.

(09 agosto 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #176 inserito:: Agosto 15, 2010, 04:34:05 pm »

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Chi ha paura del lavoro

di ILVO DIAMANTI

C'ERA una volta il lavoro... Garanzia di reddito, riconoscimento, posizione e mobilità sociale. Dava senso e speranza nel futuro. Principio istituzionale e costituzionale su cui si fonda la Repubblica, ha fornito lo statuto della nostra identità pubblica e privata. Il lavoro. Bisognerà ripensarci e ripensarlo, perché oggi non è più in grado di assolvere a questi fini. Non solo perché ormai è volatile e globalizzato come l'economia. Spostare la produzione  -  e l'occupazione  -  in Serbia, Romania, Cina o Tunisia è questione di costi e benefici. E non da oggi. La delocalizzazione non l'ha certo inventata la Fiat di Marchionne. È che si è creato un divario troppo largo fra il significato e la realtà.

Fra il ruolo attribuito al lavoro nell'organizzazione e nell'etica  -  sociale e personale. E ciò che sta diventando ed è divenuto. Nei fatti. Possiamo insistere sulle virtù  -  e sulla ragionevole esigenza  -  della flessibilità. Tuttavia, genitori e figli, giovani e adulti continuano a preferire il posto fisso. Per il 60% degli italiani: uno dei due requisiti privilegiati nella ricerca del lavoro (Demos, Gli Italiani e lo Stato, Novembre 2009).  Peraltro, il 47% delle persone (Demos per Unipolis, Osservatorio sulla sicurezza, Maggio 2010) oggi considera la disoccupazione  -  cioè: la perdita oppure l'assenza di lavoro  -  la prima preoccupazione. Nel 2007 questo problema era ritenuto prioritario da poco più del 20% dei cittadini (Demos, Gli Italiani e lo Stato, Novembre 2007).

Non si tratta di una paura localizzata, che tocca le aree più vulnerabili del Mezzogiorno. La disoccupazione, infatti, è in testa anche alle preoccupazioni della popolazione di Vicenza. Mitico cuore del mitico Nordest. Dove si rilevano da decenni i minimi indici di disoccupazione. Ebbene, nel Vicentino, 1 persona su 2 (per la precisione: il 49,2 %) considera la disoccupazione la prima emergenza da affrontare (Demos per Associazione Industriali e Fondazione Palazzo Festari, 1300 interviste, Maggio 2010).  Nel 2003: 13,2%. Nel 2001: 8,1%. La paura di perdere il lavoro, cioè, fra i vicentini è aumentata del 600% in meno di dieci anni. Il che, ovviamente, si giustifica, in parte, con la "disabitudine" a un problema, in precedenza, irrilevante. Tuttavia, anche per questo, il lavoro appare indebolito nella gerarchia dei valori personali. D'altronde, non gratifica più come una volta. Si dice, infatti, soddisfatto del lavoro il 56,8% dei vicentini. Dieci anni fa era l'80,8%. E se ciò succede a Vicenza, una società totalmente coinvolta nel lavoro, figurarsi altrove.

Anche in questo modo si spiega lo slittamento verso il basso della posizione sociale ed economica percepita dalla popolazione. Oggi,  infatti, il 49% degli italiani dichiara di appartenere ai ceti popolari oppure alla classe operaia. Sì, proprio alla "classe operaia". Così si definisce ancora il 37% degli italiani. Anche se gli operai, notoriamente, non esistono più. Sono scomparsi insieme al lavoro. E per dimostrare la propria esistenza debbono ricorrere a proteste clamorose. Fino ad allestire un'Isola dei Cassintegrati all'Asinara. Rischiando di passare per giapponesi che continuano la guerra. Senza sapere che la guerra è finita. Da tempo.

Tuttavia, un italiano su due oggi si sente classe operaia o popolare: 10 punti percentuali più rispetto al 2006. Mentre il 44% si colloca fra i ceti medi. (Era il 53% solo 4 anni fa, quando la società italiana era davvero "media".) Il residuo 5-6% (costante nel tempo) si sente e si dichiara "borghesia, classe dirigente".  Lo ripetiamo: c'è uno squilibrio ampio tra il significato e la realtà del lavoro. Il lavoro continua ad avere un ruolo prevalente nel definire non solo la condizione, ma anche la posizione sociale, le aspettative e gli orientamenti delle persone. Lo stesso Berlusconi utilizza la propria biografia "professionale" come esemplare. La prova che "tutti ce la possono fare". Partire dal nulla e arrivare in cima al mondo (o, almeno, fino ad ora: all'Italia).

Eppure l'italian dream, che egli interpreta ed esibisce, oggi non funziona più. Se il lavoro genera solo - o prevalentemente  -  preoccupazione. Se, invece che un "ascensore sociale", diventa uno "scivolo". Che spinge quote crescenti di popolazione nella "classe operaia". Cioè: nell'oblio, visto che la classe operaia è stata cancellata. Mentre gli attori che ne rappresentano gli interessi appaiono sempre più periferici. Gli stessi sindacati godono (si fa per dire...) della fiducia di circa un quarto della popolazione. E di poco più del 20% tra i lavoratori. D'altra parte, la loro base di iscritti è in maggioranza composta da pensionati.

Intanto, quasi 2 italiani su 3 ritengono che negli ultimi 5 anni la loro posizione sociale sia peggiorata. Un destino che interessa il 72% di coloro che si sentono classe operaia. Difficile, dunque, non porsi qualche dubbio sul nostro futuro, se il fondamento della nostra carta costituzionale, cioè il Lavoro: a) non offre certezze durature e tanto meno stabilità, al Sud, al Centro, al Nord e perfino nel Nordest; b) diventa il principale fattore di preoccupazione sociale e familiare; c) non genera mobilità sociale, se non verso il basso; se, ancora, d) metà della popolazione si sente classe  operaia (e popolare) ma si insiste a negarne l'esistenza.

Se tutto ciò è vero e riguarda tutte le fasce di popolazione (ma soprattutto i più giovani) allora resta da capire se vi sia una soluzione o, almeno, un rimedio. Per affrontare, o almeno, sopportare il declino del lavoro. E di tutto ciò che rappresenta, sotto il profilo fattuale e simbolico, materiale e normativo. L'unico riferimento possibile è, sicuramente, la "famiglia". Considerata, insieme all'arte di arrangiarsi, il marchio specifico dell'identità italiana dagli italiani stessi. Le vicende del nostro tempo non possono che accreditare questa idea. Vista l'importanza assunta dai legami familiari nelle attività economiche, nelle carriere professionali. E  -  in questi tempi  -  nelle vicende politiche. Tuttavia, a maggior ragione, temiamo il declino (l'eclissi?) del lavoro. Temiamo coloro che non lo temono. Ne temiamo gli effetti economici ma anche - e anzitutto -  "ideologici". Ebbene sì: il ritorno trionfale  del "familismo" ci spaventa.

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« Risposta #177 inserito:: Agosto 17, 2010, 09:25:10 pm »

Sogno di un giorno di fine estate

di Ilvo Diamanti

Io mi ammalo raramente. Lo dico e procedo subito al rituale gesto scaramantico. Però quando capita, diciamo una volta ogni dieci anni, capita sempre in ferie. Tra Natale e Capodanno, a Pasqua. O a Ferragosto, appunto. Come quest'anno.

Quando, normalmente, mi rifugio a Urbania, città ducale, ai confini con Urbino, dove insegno. Così, tanto per non perdere l'abitudine, visto che io mi affeziono ai luoghi. A Urbania faccio vita di paese, come quando, da ragazzo, vivevo a Bra, poi a Vado Ligure. Sempre al seguito di mio padre, che faceva il militare. Infine, quand'ero adolescente, si stancò di viaggiare,  e ci riportò tutti a casa (sua). A Isola Vicentina (per la precisione: a Castelnovo).

A Urbania mi sento come allora. Come quand'ero adolescente. Anche se, chiaramente, non ho più l'età. Per cui faccio cose scapestrate. Tiro tardi (tardi) a discutere dei destini del mondo con il sindaco e i miei colleghi. Con il barista. Con gli urbaniesi (di cui spesso, dopo tanti anni, non conosco il nome). Esercito il "cazzeggio estivo", come lo chiama Aldo Grasso (ma per me è una nobile arte). Poi, ancor più tardi, ma davvero tardi, prendo il mio schnautzer nano, e giro per il paese.  Eddy Berselli diceva che è un mostro. Diciamo che esagerava. Il cane ha personalità. E poi è piccolino. Ma, per sicurezza, conviene uscire quando c'è poca gente in giro.

Urbania è un microcosmo tradizionale. Dove ho tracciato una scia biografica lunga decenni. Punteggiata di eventi familiari e personali. Spesso lieti, qualche volta dolorosi. Qui ho coltivato rapporti solidi. Torno anche per incontrare gli amici. Alcuni ogni tanto mi lasciano. (Quest'anno mi manca Mario. Non mi dimenticherò mai di lui.) Così, per qualche settimana vivo come una volta. Così, a volte scordo che non ho più l'età. Uscire la notte con Mambo (lo schnautzer), quando piove e fa freddo, lo potevo fare 40-45 anni fa. Ora no. Se no mi ammalo. Soprattutto se sono "rilassato", le difese abbassate, gli anticorpi in vacanza.

Così eccoci qui: a letto, con la bronchite e 39 di febbre. A scrivere per passare il tempo, dopo aver letto troppo. A volte il sonno mi prende. E faccio sogni assolutamente folli. Come si conviene ai sogni. Oggi pomeriggio, per esempio, ho sognato che "arrivavano i nostri".
I nostri. Pierluigi, Max, Walter, Nichi, il Chiampa, Cacciari, Dario, Matteo. Insieme a Pieferdi, Luca C. d. M.   Tutti  insieme. Guidati da Tex Willer. (Quello vero, non le molte imitazioni non autorizzate). E ho sognato che "gli altri" tornavano a casa loro. Al lavoro.

A fare chi il commercialista di Berlusconi, chi l'avvocato di Berlusconi, chi il consulente fiscale di Berlusconi, chi l'avvocato di Berlusconi, chi l'esperto di immagine e comunicazione di Berlusconi, chi l'avvocato di Berlusconi. E poi quel tale, di cui mi sfugge il nome. Quello che "Napolitano ha tradito la Costituzione". Avvocato anche lui. Magari la Gelmini lo rimanda a studiare.

E lui, Silvio, finalmente impegnato a lavorare per sé e non per noi. A curare i fatti suoi invece dei nostri. In fondo, abbiamo già dato (a lui).  Peccato che si tratti solo di sogni febbrili. Però, lo confesso, il risveglio non è stato doloroso. Non saprei perché. Per citare il Filosofo della notte: "La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?". Risposta: boh... Preferisco ricorrere alla lezione di un altro filosofo, un po' più profondo (se il Filosofo della notte non si offende): "La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è come vivere. Sfogliarli a caso è sognare". Oggi, sarà perché sono in ferie o perché ho la febbre, ma io preferisco sognare.

(17 agosto 2010)
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« Risposta #178 inserito:: Agosto 23, 2010, 05:53:49 pm »

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Perché il Cavaliere teme le urne

di ILVO DIAMANTI

NON è una novità, il protagonismo di Bossi. Esibito anche in passato, quando la Lega contava molto meno. Tuttavia, Bossi (e, di riflesso, la Lega) raramente è apparso così determinato. Oggi, infatti, è lui a dettare i tempi e i temi della crisi. Senza preoccuparsi di nulla e nessuno. Nei confronti di Fini e dei suoi amici: "Bisogna cacciarli. Fini è invidioso e rancoroso". Il dialogo è tempo sprecato: "Meglio andare a votare subito".

Cioè: "A fine novembre, al massimo ai primi di dicembre". Lo ha ripetuto più volte, negli ultimi giorni. D'altronde, non c'è spazio per altre maggioranze, oltre a questa. Di fronte a governi tecnici il Nord insorgerebbe. È già campagna elettorale. E Bossi non perde occasione per riproporre i temi dell'agenda leghista. In primo luogo, il "mitico" federalismo. Poi, la sicurezza (i soliti immigrati, il cui numero e la cui pericolosità sociale salgono e calano a comando. Magari a tele-comando. Secondo l'urgenza politica del centrodestra). Poi il Sud. Dove, secondo Bossi, Fini - il nemico di Tremonti - "vuole sprecare i soldi dello Stato".

Il protagonismo di Bossi ha reso lo stesso Berlusconi quasi un comprimario. Un partner livido e imbarazzato. Mosso da istinti e interessi personali più che da ragioni politiche - non diciamo "pubbliche". Accecato dal risentimento verso Fini, il traditore. Deciso a fargliela pagare, a sputtanarlo. Quel moralista immorale che pretende di dar lezioni di pubblica morale.

Così Berlusconi, spinto dall'alleato e dall'istinto, ha imboccato la strada che porta a nuove elezioni. Che sembrano, francamente, inevitabili. Lo ha ripetuto ieri lo stesso premier. Nonostante i 5 punti posti a Fini e ai suoi fedeli, come condizioni non negoziabili. Tuttavia, non comprendiamo i motivi per cui Berlusconi e il Pdl debbano augurarsi nuove elezioni, al più presto. Anzi, nell'attuale situazione, vediamo 5 buone ragioni per cui Berlusconi, secondo noi, dovrebbe semmai temere il voto. E lavorare, almeno, per allontanarne la data.

1. La prima riguarda l'intera maggioranza. Richiama il rischio della delusione. Il malumore degli elettori di fronte a una coalizione incapace di garantire al Paese governo e stabilità. Dopo aver vinto nettamente le elezioni e conquistato una larga maggioranza parlamentare. Solo due anni fa. Una crisi politica nazionale dagli effetti imprevedibili, nel mezzo di una crisi economica internazionale profonda. Gli elettori, compresi quelli di centrodestra, potrebbero leggere in questi eventi i segni di un fallimento. Che coinvolge il progetto - ma anche la leadership - di Berlusconi. Il quale, insieme a Bossi, tenta di scaricarne per intero la colpa su Fini. Ma Fini è il socio fondatore del Pdl. Il partner di Berlusconi. Da 16 anni partecipe del medesimo progetto.

2. La seconda ragione riguarda il Pdl. Un partito cresciuto fragile. Gli elettori di An non l'hanno mai percepito totalmente come "proprio". Il calo registrato dai sondaggi condotti in luglio ne riflette, in parte, il disorientamento. Per ora tende a tradursi in "non-voto potenziale", che induce molti elettori del Pdl a non dichiarare la loro scelta. Così il partito si è attestato, nelle stime, intorno al 30% (secondo alcuni analisti anche meno). Cioè: quel che aveva ottenuto Forza Italia - da sola - nel 2001.

3. La terza ragione riguarda l'impianto territoriale del Pdl. Come ha gridato Bossi, Fini vuole fondare il "partito del Sud". Il che significa: levare la terra sotto i piedi al Pdl. Unico partito "nazionale". Erede - in questo - della tradizione democristiana e dei partiti di governo della prima Repubblica. Come può, il Pdl, immaginare di "tenere" su base nazionale, se si vede succhiare il bacino elettorale a Nord dalla Lega e al Sud da Fini, oltre che dall'Udc, Lombardo e magari Micciché?

4. La quarta ragione, coerente, è che questo governo ha assunto una chiara identità "nordista". È il governo di Bossi, Tremonti e Berlusconi. Garante del federalismo. Una riforma che nel Mezzogiorno è percepita, da un terzo dei cittadini, come un "pericolo". Così, a Nord e a Sud, il Pdl rischia di essere considerato gregario della Lega. Mentre il vero premier appare Tremonti.

5. La quinta e ultima ragione è conseguente - e palese. Oggi il vero avversario, la vera minaccia, Berlusconi e il Pdl ce l'hanno lì, vicino a loro. È la Lega. È Bossi che, non a caso, continua a dare buoni consigli - per sé - che si traducono in altrettante insidie per Berlusconi. Regala il Sud a Fini (e ai Centristi). Al Senato, soprattutto, potrebbe costare molto caro. Destabilizza il governo e la maggioranza, gridando: "Al voto! Al voto!".
D'altra parte, paradossalmente, la Lega continua ad apparire - ai suoi elettori - opposizione e governo al tempo stesso. Sta al governo, indubbiamente. Ma solo per "difendere il Nord". Quasi un agente infiltrato a Roma, al servizio degli interessi padani. Bossi, agli occhi dei suoi elettori, non appare l'amico fidato di Berlusconi. A cui ha sempre garantito sostegno leale. In tutte le vicende giudiziarie, anche le più imbarazzanti. Ma, al contrario, un "controllore". Un garante.

Così, Bossi, soffia sul fuoco. Qualsiasi cosa succeda, ritiene che la Lega possa guadagnarci. I sondaggi la stimano intorno al 12%. E, quindi, più del doppio nel Nord. Dovesse rivincere il Centrodestra, la Lega ne uscirebbe più forte. Anche perché, presumibilmente, il PdL ne uscirebbe più debole (soprattutto, ma non solo, al Sud). Dovesse perdere il centrodestra (ipotesi da non escludere), la Lega avrebbe di fronte altre opzioni. La più attraente e al tempo stesso inquietante: diventare il polo dell'opposizione. Non solo politica, ma allo Stato. Il Polo Nord. In fondo, governa già: in 2 Regioni (Veneto e Piemonte), in 14 province e in oltre 350 comuni. Ottenesse una ulteriore investitura politica, nell'anno del 150enario dell'Unità d'Italia, si rischierebbe uno strappo di proporzioni difficilmente prevedibili.

Tuttavia, non bisogna mai sottovalutare il Cavaliere. Fare i conti come fosse "fuori gioco". Lui: non si arrende mai. Cade e si rialza. E in campagna elettorale dà il meglio di sé. La differenza dal passato è che, questa volta, non deve guardarsi dagli altri. Dagli avversari. Ma dai suoi alleati. E da se stesso.

(23 agosto 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #179 inserito:: Agosto 30, 2010, 04:25:36 pm »

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Quel Porcellum sciagurato e resistente

La riforma della legge elettorale osteggiata da Pdl e Lega. Contraria anche l'Udc.

E nel Pd le posizioni sono differenti: difficile quindi trovare un'intesa

di ILVO DIAMANTI

LA LEGGE elettorale è argomento di dibattito politico ormai da vent'anni. Con alterne fortune. In questo momento fa discutere in modo particolarmente acceso. Tanto che il Pd ha proposto, se non un governo istituzionale, un'alleanza parlamentare larga intorno a questo esplicito obiettivo. Scrivere una legge elettorale migliore del Porcellum, come la definì Giovanni Sartori (ispirato dallo stesso autore, il ministro Calderoli). Un'impresa semplice, nei contenuti, perché è difficile immaginare un dispositivo altrettanto sgangherato e precario. Ma, in effetti, assai complicata. Perché, in un sistema politico fazioso come il nostro, il bene comune viene decisamente dopo quello del partito e degli uomini politici. E, nonostante tutto, non sono pochi a considerare il Porcellum vantaggioso. Non per il Paese, ma per se stessi.

Anzitutto (ma non solo, come si dirà più avanti), nella maggioranza. Se si fa riferimento al formato della competizione elettorale del 2008, PdL e Lega continuano a prevalere sull'intesa Pd-IdV. Certo, il PdL appare in difficoltà, viste le tensioni interne  -  e, infatti, com'era prevedibile, Berlusconi ha congelato la scadenza elettorale. Per ora. Mentre Bersani ha aperto al "nuovo Ulivo", che, tradotto in termini pratici significa allargare la coalizione oltre l'IdV, come nel 2006. Si tratta, comunque, di lavori in corso. Per cui il PdL, ma soprattutto la Lega, non hanno alcuna intenzione di cambiare il sistema elettorale. Se non dopo aver calcolato bene la propria convenienza,
come nell'autunno del 2005.

Allora, in vista delle elezioni dell'anno successivo, decisero di abolire la competizione uninominale (dove si eleggevano i tre quarti dei parlamentari), a favore di quella proporzionale (dove il centrodestra otteneva risultati molto migliori). Con tre innovazioni, importanti e significative. L'attribuzione di un premio di maggioranza alla "coalizione" e non al partito vincente. L'indicazione del candidato premier. L'introduzione delle liste bloccate e la conseguente abolizione delle preferenze. In questo modo, il centrosinistra perdeva il suo vantaggio. Mentre il dominus diventava il leader capace di fare coalizione. E, soprattutto, di costringere gli alleati a rispettarla, con le buone o le cattive (cioè: Berlusconi assai più di Prodi e dei successori). Mentre la probabilità di venire eletti, per i candidati, dipendeva dalla loro posizione in lista. Con l'esito di aumentare enormemente il potere delle segreterie centrali e dei "padroni" dei partiti, che detenevano e detengono il controllo delle candidature.

Da ciò i diversi ostacoli  -  e i diversi nemici  -  di fronte a ogni cambiamento di questa legge. Vi si oppongono il PdL e la Lega. Soprattutto di fronte alla prospettiva di una legge, come l'uninominale di collegio, che li penalizzi. Ma è difficile immaginare una larga convergenza, su questa prospettiva, in Parlamento, anche fra i partiti di opposizione. L'Udc, anzitutto, che ispirò l'attuale legge. In nome del proporzionale. Non è pensabile che accetti un'alternativa ancor più maggioritaria.

Nel Pd si incontrano posizioni diverse e lontane. Vi sono componenti disponibili a ipotesi proporzionali, magari di tipo tedesco (i gruppi dirigenti maggiormente ancorati all'esperienza dei vecchi partiti, Popolari e Ds). Mentre altre sono attaccate al principio maggioritario e bipolare, se non più bipartitico (i veltroniani, i prodiani "puri", come Parisi). Morale: costruire una maggioranza parlamentare intorno a una legge elettorale continua ad essere molto complicato.

Tanto più perché i "riformatori" pensano a reintrodurre il principio di responsabilità "personale", attraverso le preferenze, nel voto di lista, oppure attraverso l'uninominale di collegio, che rende più stretto il rapporto fra candidati ed elettori. E sottrarrebbe, in parte, ai gruppi dirigenti nazionali il controllo sul partito. Una ragione sufficiente per ritenere non solo utile, ma necessaria una nuova legge elettorale. Che restituisca maggior potere agli elettori e al territorio.

Per questo merita attenzione il progetto di riforma, in senso uninominale, promosso da un comitato di politici e studiosi autorevoli. Dove, peraltro, prevalgono i politici del Pd ma, anzitutto, i radicali. Poi, i finiani. Mentre gli esponenti del PdL sono pochi (ne abbiamo contati 6-7 su 40, perlopiù di impronta liberale e radicale).

Ma se i parlamentari sono tiepidi, neppure gli elettori sembrano sensibili a questa materia. Mobilitarli è sempre più difficile, visto che, da oltre 15 anni, i referendum elettorali non raggiungono il quorum. Da ultimo, quello organizzato nel 2009 (mirava ad attribuire al partito il premio di maggioranza previsto per la coalizione). Vi partecipò il 23% degli elettori. L'affluenza più bassa della storia repubblicana.

Prova inequivocabile che le leggi elettorali, da sole, non riescono più a scaldare il cuore. Tuttavia, fondano la democrazia rappresentativa. Possono valorizzare o scoraggiare la responsabilità dei leader politici di fronte ai cittadini. Accentuare o vanificare le possibilità di comunicazione e di controllo della società nei confronti dei leader. Se l'attuale legge garantisce alle oligarchie di partito e ai leader nazionali un potere senza verifica, il problema è spiegarlo ai cittadini. Farne un obiettivo condiviso e "significativo".

Coinvolgendo gli attori che, da tempo, conducono campagne civili, a livello nazionale e globale. Oltre che nella società: sulla rete e attraverso i media. Il problema è dare significato politico e sociale alla tecnicalità istituzionale. Farla uscire dalla cerchia degli addetti ai lavori. Come nei primi anni Novanta, quando i referendum elettorali divennero il simbolo della lotta contro il vecchio sistema e i vecchi partiti. Oggi, quel sistema non c'è più, neppure quei partiti. Ma le cose, nel rapporto fra i cittadini e la politica, non sono cambiate molto. Anzi: nella società la delusione ha preso il posto dell'indignazione. Per mobilitare di nuovo i cittadini occorre convincerli che cambiare la legge elettorale significa cambiare davvero. Non sarà facile. Ma vale la pena di provarci.

(30 agosto 2010) © Riproduzione riservata
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