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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278602 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Febbraio 21, 2010, 05:34:55 pm »

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L'ideologia del fare

di ILVO DIAMANTI


È l'era del "fare". I fatti contrapposti alle parole. Quelli che "fanno" opposti a quelli che "dicono". E perdono tempo a discutere, controllare, verificare. È un argomento caro al premier. Ripreso, in questi giorni, con particolare insistenza per replicare alle polemiche.

Polemiche sollevate dalle inchieste della magistratura sull'opera della Protezione civile, in Abruzzo dopo il terremoto e alla Maddalena, in vista del G8 (in seguito spostato a L'Aquila). E, ancor più, contro le critiche al progetto di trasformare la Protezione civile in Spa per meglio affrontare ogni emergenza. Allargando il campo dell'emergenza fino a comprendere ogni evento speciale e straordinario. Per visibilità e risorse investite. Oltre alle celebrazioni del 150enario dell'Unità d'Italia: i giochi del Mediterraneo e i Mondiali di nuoto; l'Anno giubilare paolino, l'esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Cupertino, e i viaggi del Papa in provincia (perché non quelli del presidente della Repubblica e del premier?). Insomma, tutto quanto fa spettacolo e richiede grandi quantità di mezzi. Affidato alla logica della "corsia preferenziale", superando i vincoli imposti dalle regole, dalle procedure. Dagli organismi di controllo istituzionali. Per sottrarsi ai tempi e alle fatiche della democrazia.

Che spesso delude i cittadini. E impedisce al governo di produrre risultati da esibire, come misura dell'efficacia della propria azione.

La mitologia del "fare" è alla radice del successo politico di Silvio Berlusconi. Il sogno italiano. L'imprenditore che si è "fatto" da sé. Dal nulla ha costruito un impero. In diversi settori. Da quello immobiliare a quello editoriale. A quello mediatico. Anche nello sport, ovviamente. Ha sempre vinto. Dovunque. E ha imparato che, se vuoi "fare", le regole, le leggi e, peggio ancora, i controlli a volte sono un impedimento. I giudici e i magistrati, per questo, possono rappresentare un ostacolo. Perché non sono interessati ai risultati, ma alle procedure. Alla legittimità e non alla produttività. Anche se nell'era di Tangentopoli i giudici erano celebrati da tutti (o quasi). Tuttavia, allora apparivano non i garanti della giustizia, ma i "giustizieri" di una democrazia malata. Bloccata e soprattutto improduttiva. Ostile ai cittadini e agli imprenditori.

Sul mito del "fare" si basa l'affermazione del politico-imprenditore alla guida di un partito-impresa, che gestisce la politica come marketing e promette di governare il paese come un'azienda. Anzi: di guidare l'azienda-paese. In aperta polemica con il professionista politico e il partito di apparato.

Si delinea, così, un modello neo-presidenziale di fatto. Realizzato su basi pragmatiche ed economiche. Quindi, molto più libero da regole e controlli rispetto ai sistemi presidenziali e semi-presidenziali effettivamente vigenti nelle democrazie occidentali.

L'evoluzione della Protezione civile è coerente con questo modello. Ne è il prodotto di bandiera, ma anche il modello esemplare. In fondo, Bertolaso anticipa e mostra quel che Berlusconi vorrebbe diventare (e costruire). È il suo Avatar. Affronta emergenze "visibili" e produce per questo risultati "visibili". In tempi rapidi. Puntualmente riprodotti dai media. Napoli. Sepolta dall'immondizia. L'Aquila devastata. Poi, arriva Bertolaso. L'immondizia scompare. Le prime case vengono consegnate a tempo di record. Sotto i riflettori dei media. Che narrano il dolore, l'emozione. E i successi conseguiti dal premier-imprenditore attraverso il suo Avatar. Aggirando vincoli e procedure. Perché nelle calamità, come in guerra, vige lo Stato di emergenza, che non rispetta i tempi della democrazia e della politica. Da ciò la tentazione di estendere i confini dell'emergenza fino a comprendere i "grandi eventi". Cioè: tutto quel che mobilita grandi investimenti, grandi emozioni e grande attenzione.

La Protezione civile diventa, così, modello e laboratorio per governare l'Italia come un'azienda. Dove il presidente-imprenditore può agire e decidere "in deroga" alle regole e alle norme. Perché lo richiede questo Stato (di emergenza diffusa e perenne). Dove il consenso popolare è misurato dai sondaggi. Dove, per (di) mostrare i "fatti", invece che al Parlamento ci si rivolge direttamente ai cittadini. O meglio, al "pubblico". Attraverso la tivù. Dove anche la corruzione diventa sopportabile. Meno "scandalosa", quando urge "fare" - e in fretta.

Di fronte a questa prospettiva - o forse: deriva - ci limitiamo a due osservazioni
La prima: la democrazia rappresentativa non si può separare dalle regole. Perché la democrazia, ha sottolineato Bobbio, è un "metodo per prendere decisioni collettive". Dove le procedure e le regole sono importanti quanto i risultati. Perché garantiscono dagli eccessi, dalle distorsioni, dalle degenerazioni. Come rammenta Montesquieu (nel 1748): "ogni uomo di potere è indotto ad abusarne. Per cui bisogna limitarne la virtù". Bilanciandone il potere con altri poteri. Perché, aggiunge un altro padre del pensiero liberale, Benjamin Constant (nel 1829): "ogni buona costituzione è un atto di sfiducia". Nella natura umana e del potere.

La seconda osservazione riguarda il fondamento del "fare", cui si appella il premier. In effetti, coincide con il "dire". Meglio ancora: con l'apparire. Perché i "fatti" - a cui si appella Berlusconi - esistono in quanto "immagini". Proposte oppure nascoste dai media. Secondo necessità. Come i "dati" dell'economia e del lavoro. Come i disoccupati o i cassintegrati e i morti sul lavoro. Che appaiono e - preferibilmente - scompaiono sui media. A tele-comando. Perché il pessimismo e la sfiducia minano la fiducia dei consumatori e dei cittadini. Meglio: del cittadino-consumatore. O viceversa.

È la retorica del "fare". Narrazione e al tempo stesso ideologia di successo. Per costruire e proteggere l'Italia spa.
 

(21 febbraio 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #151 inserito:: Febbraio 22, 2010, 03:29:49 pm »

La Repubblica democratica di Sanremo

Ilvo Diamanti

Il risultato del Festival di Sanremo è utile a capire come funziona la democrazia rappresentativa. Tanto più e soprattutto in un sistema maggioritario e presidenziale, dove "vince uno solo". Quello che prende più voti. Al tempo della democrazia personale e mediatica. Naturalmente, dipende dagli elettori. Il "popolo sovrano". Che in questo caso, come abbiamo visto, non è uno solo. I popoli sovrani sono molti e non la pensano allo stesso modo. Anzi, pensano in modo molto diverso.

C'è il popolo informato e interessato, che corrisponde alla giuria popolare, selezionata da Ipsos di Nando Pagnoncelli. Rappresentativa delle persone che acquistano musica  -  nei negozi o su internet  -  o comunque la conoscono e la ascoltano con regolarità. Sono elettori esperti. Poi, ci sono gli specialisti. I maestri orchestrali. Più che elettori interessati: veri e propri militanti. In grado di valutare le qualità dei concorrenti e della loro offerta. Le canzoni e i cantanti. I programmi e i candidati. Infine ci sono gli elettori disinteressati. Quelli che ascoltano la musica in modo disattento. Quando passa in tivù. Interessati ai personaggi più che alle canzoni. Non indifferenti alle qualità canore dei concorrenti, ma assai più attenti alla loro immagine e al loro appeal mediatico.

È il pubblico del televoto. L'elettore medio. Influenzato, come dice la parola stessa, dalla televisione più che dalla canzone, dalla popolarità dei cantanti più che dalle loro capacità e dalle loro doti interpretative. Il risultato, letto in questa chiave, si spiega senza ricorrere a spiegazioni complottiste e truffaldine. Perché non sono necessarie a illustrare un esito è comunque comprensibile e ragionevole. Nelle prime serate hanno votato gli elettori interessati e competenti, i quali hanno escluso il trio, guidato dal principe e dal pupo. Ma anche il giovane Amico di Maria De Filippi. Hanno invece premiato le voci e i testi. Gli elettori "medi", invece, hanno ripescato gli esclusi e li hanno trascinati al successo. Hanno, cioè, premiato i personaggi televisivi. I più noti, perché stanno spesso in tivù, perché hanno un volto noto e una storia da narrare. Tra questi, i più giovani hanno votato per i cantanti promossi dai cosiddetti talent show. Valerio Scanu e Marco Mengoni. Per mesi e mesi sotto gli occhi di tutti. Non solo a cantare e a ballare, ma a vivere il loro reality, tra amici e talent scout alla ricerca dell'X factor. Sotto gli occhi appassionati del pubblico interessato - più che alle canzoni  -  alle lacrime, ai sentimenti personali, alle vicende di gelosia, simpatia e antipatia. Televotati di settimana in settimana. Con successo. I più anziani, invece, hanno votato per il trio. Non solo per il Principe, ma anche per Pupo. Il "re dei pacchi". Da anni in video, nella prima rete, in prima serata. Magari non sapevano neppure che cantasse, i suoi elettori, ma lo hanno votato perché è simpatico. Perché porta fortuna. Anche il principe, d'altronde, è un personaggio tivù di primo piano. Sdoganato, molti anni fa, non da un monarchico, ma da un "democratico pop" come Fabio Fazio. Al tempo di "Quelli che il calcio". Poi, si è fatto da solo, "ballando sotto le stelle". Evidentemente piace. Non solo perché è principe (anche se, ovviamente, aiuta). Suo padre, per dire, difficilmente avrebbe ottenuto lo stesso risultato.

Come immaginare un esito diverso, su queste basi e con queste premesse? I voti valgono tutti allo stesso modo. Che vengano espressi da elettori esperti o disinteressati, militanti o abulici: non importa. Una testa conta un voto. Di qualsiasi testa si tratti. Ma le teste che guardano Amici, i pacchi e ballando sotto le stelle sono molto più numerose di quelli che vanno ai concerti, acquistano dischi o scaricano musica dalla rete (perlopiù gratis). E infinitamente di più rispetto alle teste di quelli che la musica la suonano, da professionisti e da virtuosi. Per cui tutto è finito come doveva. Com'era prevedibile. Com'era già successo altre volte. E la vittoria dei giovani, in particolare dell'Amico di Maria De Filippi, si spiega, probabilmente, con il fatto che gli elettori del principe e di Pupo sono molto più anziani. Al momento del voto finale, passata ormai mezzanotte, esausti, hanno spento la tivù e sono andati a dormire.

Perché stupirsi o, peggio, scandalizzarsi, allora? Quando la televisione prende il sopravvento e la tivù diventa l'unica arena della competizione  -  musicale, ma anche politica  -  vince chi recita meglio la parte. Chi è più telegenico, chi è più conosciuto dal pubblico, chi dispone di consulenti e bravi e impresari potenti. È la democrazia del pubblico.

E allora, non vorrete che vinca Bersani, anche se canta discretamente e gli piace Vasco? Meglio  -  per tutta la vita  -  Silvio, che ha cantato sulle navi e ancora canta, quando gli capita, con Apicella. E poi racconta barzellette e trasforma in spettacolo anche le tragedie  -  pubbliche e personali. Silvio: non ha bisogno di promuovere gli altri. Basta lui. Che ha confidenza con i media, perché sono suoi. E se a me  -  elettore esperto e informato - non piace, se io voto per altri. Chissenefrega. Tanto peggio. Io, Scanu e Mengoni non li avevo mai sentiti nominare prima. (E comunque non li ho sentiti neppure a Sanremo, perché non l'ho guardato). Non vorrete mica che proprio io possa decidere chi vince a Sanremo - e magari anche le elezioni?

(22 febbraio 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #152 inserito:: Marzo 01, 2010, 01:12:26 pm »

Politica

Atlante politico.

Le due città di Tangentopoli

di ILVO DIAMANTI

È forte l'impressione che Tangentopoli sia ancora qui, tanto rimbalza nei discorsi pubblici. Tangentopoli. Il sondaggio dell'Atlante politico di Demos, presentato oggi su La Repubblica, lo conferma e fornisce dati molto espliciti al proposito.

GUARDA LE TABELLE SUL SITO DI DEMOS

Oltre 7 italiani su 10 pensano, infatti, che la corruzione sia molto diffusa nella politica nazionale, oltre 1 su 2 anche in quella locale e negli appalti. Hanno l'impressione, cioè, che non sia cambiato nulla da un tempo. Infatti, la grande maggioranza dei cittadini ritiene che, rispetto agli anni di Tangentopoli, la corruzione sia egualmente (48%) oppure più (36%) diffusa. Più che di un ritorno, si dovrebbe, dunque, parlare di un fenomeno mai davvero scomparso.

Per questo, appare generalizzata la richiesta di confermare i sistemi di controllo e di garanzia nei confronti delle degenerazioni della vita politica, oggi messi in discussione dal governo e dalla maggioranza di centrodestra. Senza soluzione di continuità. Quasi 8 persone su 10 sono contrarie all'immunità per i parlamentari; 2 su 3 a iniziative di legge volte a sospendere i procedimenti nei confronti delle principali figure istituzionali, compreso (soprattutto) il Premier. Fra gli elettori di destra (e soprattutto del Pdl) la contrarietà è minore, ma resta elevata.
Tuttavia la percezione dominante è che, appunto, non molto sia cambiato, rispetto a un tempo. L'immunità parlamentare, ad esempio. Nessuno o quasi vuole che venga ripristinata. Ma la maggioranza dei cittadini non pare essersi accorta che è stata abolita - o comunque limitata.


C'è scarsa indulgenza, peraltro, nei confronti dei politici accusati oppure solamente inquisiti per questi fatti. Gran parte degli italiani (6 su 10) vorrebbe che si dimettessero. Allo stesso modo, la maggioranza degli intervistati considera le intercettazioni telefoniche utili, nonostante una quota significativa di persone (circa un terzo) valuti eccessivo l'uso che se ne fa. Tuttavia, solo una frazione minima le considera un abominio da abolire, come vorrebbe il Premier. Più delle violazioni alla privacy, cioè, gli italiani sembrano preoccupati di quelle alla legalità.

Rispetto al tempo di Tangentopoli, tuttavia, si colgono alcune significative differenze.
La prima riguarda i magistrati. I quali sono comunque guardati con fiducia da una quota di italiani molto ampia (oltre 4 su 10), peraltro in crescita negli ultimi anni. Ma vengono percepiti con ostilità da una parte altrettanto estesa di persone. I protagonisti della stagione di Tangentopoli oggi costituiscono un riferimento discriminante. Quasi una linea di frattura. Un po' meno della metà degli italiani li considera un baluardo nella lotta contro la corruzione e a sostegno della legalità. Mentre il 40% ne critica l'eccessiva politicizzazione. Una divisione di cui è chiara l'impronta politica. Il consenso verso i magistrati fra gli elettori del Pd e di Idv sale all'80%. Mentre circa 7 elettori del Pdl e 6 della Lega su 10 li considerano attori politici, alleati  -  anzi: la guida - dell'opposizione.

Quindici anni di polemiche frontali, lanciate dal premier e dal centrodestra, con cadenza continua - anche negli ultimi giorni - hanno lasciato il segno. Un marchio indelebile. Per questo oggi Tangentopoli non ha lo stesso significato, lo stesso impatto politico dei primi anni Novanta. Insomma: non è la Città corrotta da distruggere. Rappresenta, invece, un fenomeno deprecato e condannato senza riserva. Ma anche con un po' di fatalismo.
D'altronde, non tutta l'azione del governo e non tutto l'intervento pubblico sono valutati allo stesso modo. In particolare, l'ambito della Protezione civile e il suo titolare, Guido Bertolaso, nelle ultime settimane al centro di polemiche roventi e di inchieste giudiziarie critiche. Godono, comunque, di consensi elevatissimi. E trasversali. A destra come a sinistra. Le degenerazioni prodotte dalla gestione di grandi risorse in condizione di deroga ai controlli e alle procedure non hanno mutato, fin qui, l'atteggiamento degli italiani. L'Abruzzo, ad oggi, conta molto più de La Maddalena.

Infine, sotto il profilo dell'orientamento politico, non si vedono grandi rimbalzi. L'opposizione non ha beneficiato di questo clima. Il Pd fatica a risalire la china, anche se appare al di sopra del risultato delle scorse europee. L'Idv, peraltro, non sembra avvantaggiarsi di questa ondata di inchieste. E Berlusconi e il Pdl, per quanto indeboliti rispetto a qualche mese fa, dopo l'aggressione di Milano, non mostrano segni di cedimento. Mentre la Lega conferma e consolida la crescita elettorale degli ultimi anni.

Da ciò la differenza rispetto alla stagione di Tangentopoli, la quale poté esplodere e produrre il crollo della classe politica di governo perché alimentata da un clima sociale di "rivolta". Perché rappresentata da attori istituzionali largamente popolari. I magistrati. E da soggetti politici e sociali  -  all'opposizione - dotati di grande consenso fra gli elettori. La Lega, il movimento referendario, la Rete. Infine, dai media, pronti ad amplificare ogni episodio e ogni responsabilità. Oggi, invece, gli indignati sono pochi. La rabbia non si traduce in ribellione e neppure in indignazione. L'opposizione è timida. I media molto meno sensibili e molto più divisi di un tempo, sull'argomento. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che nulla possa cambiare. In fondo, più di metà degli italiani si dice preoccupata per la diffusione della corruzione negli appalti che riguardano la Protezione civile. E, al tempo stesso, non vorrebbe che allargasse troppo la sua azione, spostandola dalle emergenze ai grandi eventi.

Non è detto che, se gli scandali proseguissero e divenissero evidenti, la corrente d'opinione che esprime  -  e alimenta  -  la sfiducia nel sistema e nelle istituzioni non monti ancora. Allora, diverrebbe difficile per chi è alla guida  -  del sistema e delle istituzioni, ma anche del governo  -  non venirne investito.

© Riproduzione riservata (01 marzo 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #153 inserito:: Marzo 07, 2010, 06:40:39 pm »

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La nostalgia dei vecchi partiti

Nessuno ha fiducia in quelli di oggi

di ILVO DIAMANTI

Non sappiamo come finiranno le prossime elezioni regionali. Sappiamo, però, che sono cominciate malissimo. E, prima ancora del voto, conosciamo già il nome degli sconfitti. I partiti. Nelle democrazie occidentali, compresa l'Italia, sono gli attori politici attraverso cui si è realizzata la democrazia rappresentativa. Anche dopo che la politica si è personalizzata e mediatizzata.
 Perché i partiti organizzano e orientano l'azione degli eletti nelle istituzioni rappresentative. Perché, prima ancora, partecipano alle elezioni, presentano liste e selezionano i candidati.  Lo stesso Berlusconi, per entrare in politica, ha dovuto fondare un partito personale. E lo ha allargato, nel 2007, annettendo An a Fi. Per inseguire il centrosinistra, dove, dopo dieci anni e oltre di esperimenti e discussioni,  i Ds e la Margherita si erano alfine riuniti nel Pd.


LE TABELLE su http://www.repubblica.it/politica/2010/03/07/news/mappe_7_marzo-2538883/

Un progetto ancora incerto, come abbiamo già scritto nelle settimane scorse. Il Pd. Un partito senza fissa dimora. Incapace di imporre e perfino proporre candidati propri in regioni importanti, come la Puglia e il Lazio (senza nulla eccepire sulla qualità di Vendola e della Bonino. Anzi). Incapace di indicare e affermare una strategia comune di alleanze. Tuttavia il Pdl, il primo partito per consensi elettorali e per peso parlamentare, ha fatto molto peggio.

Non era facile, ma ci è riuscito. Si è dimostrato un non-partito. O, almeno, un partito con-fuso. Frutto di una fusione incompiuta e mal riuscita. Fi e An: continuano ad agire come corpi separati. Tra loro e al loro interno. Al punto che nel Nord la Lega  -  l'unico partito vero - ha imposto i propri candidati in due regioni importanti: Piemonte e Veneto. Quest'ultima: una roccaforte. Mentre in Lombardia si è auto-imposto Formigoni. Leader non del Pdl, ma del mondo cattolico che si riferisce a Cl e alla Compagnia delle Opere. Altrove, come in Puglia e in Campania, il Pdl ha stentato a trovare candidature valide. Al punto da non riuscire a rispettare termini e regole di presentazione delle liste. Non per colpa del Pd, dei comunisti, dei magistrati. Di Repubblica. O di Santoro, Di Pietro, Grillo, Pannella. Ma per colpa esclusivamente propria. Dell'organizzazione precaria che lo caratterizza alla base. Dei conflitti tra frazioni e fazioni. Personali, locali e di interesse. A Roma, nel Lazio, in Lombardia (nonostante le differenze significative tra i casi). Il partito che governa l'Italia, in questa occasione, si è mostrato approssimativo, povero di professionalità e professionismo. Oltre ogni attesa.

Così non sorprende  -  e come potrebbe ?  -  l'ostilità che oggi avvolge, come una nebbia densa, i partiti. Guardati con fiducia da meno dell'8% degli italiani (Atlante politico di Demos, febbraio 2010). Insomma: peggio delle banche e della borsa. Si tratta, peraltro, del dato più basso degli ultimi 10 anni, durante i quali non hanno mai goduto di grande popolarità.

I partiti a cui si riferiscono gli italiani, va precisato, sono quelli odierni. Tanto deprecati e deprecabili, agli occhi dei cittadini, da far loro rivalutare il passato. Il 45% degli italiani, infatti, considera gli attuali partiti peggiori di quelli della prima Repubblica. Solo il 20% - meno della metà  -  migliori. Il giudizio più positivo sui partiti di oggi è espresso dal centrodestra e in primo luogo dagli elettori del Pdl. Curiosamente, visto che proprio il Pdl ha esercitato, da qualche anno, un'opera di rivalutazione della prima Repubblica. Parallela alla svalutazione di Tangentopoli. Definita un complotto ai danni delle classi e dei partiti di governo, per favorire la sinistra. L'elogio dei partiti della seconda Repubblica espresso dagli elettori del Pdl  -  e della Lega  -  suona, per questo, come un auto-riconoscimento. E serve a rammentare come proprio loro siano stati i maggiori beneficiari del vuoto politico prodotto da Tangentopoli.

La rivalutazione dei partiti della prima Repubblica appare molto estesa. A destra come a sinistra. Il 45% degli italiani, oggi, giudica positivamente la Dc, il 35% il Pci, il 32% il Psi. L'apprezzamento nei loro confronti si è rafforzato sensibilmente negli ultimi 5 anni: di circa il 9 punti percentuali verso la Dc e il Psi; di quasi il 4 verso il Pci. Probabilmente, anzi: sicuramente, i partiti maggiori della prima Repubblica sono più apprezzati oggi che al loro tempo. Quando esistevano veramente.

D'altronde, gli italiani hanno sempre votato  -  in larga misura  -  "contro" prima ancora che "per". Un popolo di "anti": comunisti, capitalisti, clericali. Però mai, come oggi, il sentimento antipolitico e partitico degli italiani era apparso tanto sviluppato ed esteso. In modo così generalizzato. Al punto da suscitare un'onda impetuosa di rimpianto verso un passato fino a ieri deprecato. Naturalmente, più che per merito dei partiti di un tempo è per colpa di quelli che li hanno sostituiti. Di cui il Pdl costituisce l'idealtipo. E Forza Italia il riferimento esemplare. Il modello inventato da Berlusconi e imitato da tutti. Oggi suscita delusione. E nostalgia. In senso etimologico: "malattia del ritorno". Evocazione dolorosa di un passato idealizzato, a causa delle ombre del presente. Per citare Odon Vallet: "la nostalgia è l'oppio dei vecchi". Per questo è tanto diffusa, oggi. Soprattutto fra i più vecchi. In questo paese di vecchi, dove la seconda Repubblica è invecchiata da tempo, insieme ai partiti - sedicenti - nuovi che l'hanno guidata. Insieme alla nostra democrazia. Insieme a noi, che siamo invecchiati attraversando entrambe le repubbliche, senza trovare un approdo sereno.

© Riproduzione riservata (07 marzo 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #154 inserito:: Marzo 15, 2010, 09:44:02 am »

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Il Pdl in marcia contro se stesso

di ILVO DIAMANTI

Mancano due settimane alle elezioni regionali ma raramente si è assistito a una campagna così accesa. A una mobilitazione altrettanto ampia. E un'attenzione ai temi locali così ridotta. Ieri la grande manifestazione del centrosinistra, a piazza del Popolo, contro gli interventi del governo sulle regole elettorali  -  e non solo. Sabato prossimo, ancora a Roma, la manifestazione del Pdl, con un obiettivo simmetrico: protestare contro i giudici e la sinistra. Accusati di impedire alla maggioranza di presentare le proprie liste. Anche in questa occasione, dunque, le elezioni "regionali" hanno assunto un significato politico "nazionale". In fondo è sempre successo, dopo la fine della prima Repubblica. Da allora, infatti, le elezioni regionali hanno funzionato come una sorta di primo turno rispetto alle elezioni politiche dell'anno seguente. Anticipandone, puntualmente, l'esito. Nel 1995 il centrosinistra si è imposto in 9 regioni su 15. L'anno successivo, l'Ulivo, guidato da Prodi, ha vinto le elezioni politiche.

Viceversa, nel 2000 il centrodestra, guidato da Berlusconi, ha prevalso in 8 regioni su 15 (ma in Molise la consultazione verrà successivamente annullata). Provocando le dimissioni di D'Alema. Per poi vincere le elezioni politiche del 2001. Infine, nel 2005, l'Unione di centrosinistra ha travolto il centrodestra, conquistando 12 regioni su 14. Premessa alle politiche dell'anno seguente, quando si è imposta, per quanto di misura.

Questa volta, però, la situazione appare molto diversa. Dieci anni di elezione diretta hanno garantito ai Presidenti grande visibilità. Mentre, dopo vent'anni di discorsi sul federalismo e sull'autonomia, il voto regionale è divenuto importante, per i cittadini. Infine, soprattutto, le elezioni non si svolgono un anno prima delle politiche. Non costituiscono, dunque, l'avvio di una lunga, intensa e unica campagna elettorale. Tanto più per un governo che ha stravinto le elezioni del 2008, dispone di una maggioranza parlamentare molto larga.
Ed è guidato da un premier che sostiene di avere la fiducia di tre quarti dell'elettorato. Con un'opposizione incerta. Visto che il Pd, negli ultimi due anni, ha cambiato tre segretari. E oggi appare, comunque, lontano, in quanto a peso elettorale, dal Pdl. Il partito del premier. Il quale, però, proprio per questo, rischia più di tutti, alle prossime elezioni. Che possono alimentare nuove tensioni nel suo schieramento, ma anche nel suo partito. Creando ulteriori problemi alla sua leadership personale. Solo così si spiegano la crescente pressione sui media, il silenzio imposto ai programmi di infotainment e di politainment. Che mischiano, cioè, informazione, intrattenimento e politica.

L'insofferenza verso Santoro. Così si spiega la tracimazione del tempo occupato dagli uomini del centrodestra nei tigì Rai e Mediaset.
E ancora: la mobilitazione di piazza, agitando la teoria del complotto, per trasferire sugli altri  -  i giudici, i radicali, la sinistra  -  le responsabilità dei propri militanti e del proprio partito riguardo all'esclusione delle liste Pdl in provincia di Roma. Tanto movimento, tanta determinazione servono a contrastare la frustrazione dei propri elettori. A contenere la tentazione, di molte fazioni locali e personali del Pdl, di "remare contro"  -  altre fazioni locali e personali del loro stesso partito. A frenare il disimpegno possibile di decine di candidati (esclusi). Il loro risentimento contro i veri colpevoli di questa situazione. Non gli avversari politici, ma i loro stessi compagni di partito.

In definitiva: Berlusconi teme il maggior nemico con cui abbia dovuto misurarsi, dal 1994 fino ad oggi. Più insidioso dell'Ulivo e del Pd, della sinistra e dei radicali, di Prodi, D'Alema, Di Pietro, Pannella, Casini e la Bonino. Teme l'astensione. Principale causa del risultato deludente alle elezioni europee del 2009. Ma anche del tracollo alle regionali del 2005. Quel bacino di elettori di centrodestra  -  molto ampio: circa un terzo del totale  -  che per votare hanno bisogno di buoni motivi. Ma a cui bastano pochi motivi per non votare. Oppure per votare "contro". Non tanto la sinistra  -  da cui si sentono antropologicamente distanti. Ma contro la loro parte. Il centrodestra. Il Pdl. Quelli, cioè, che, per protestare, votano (lo hanno già fatto) per la Lega. E che potrebbero scegliere perfino gli "estremisti" (sic!) di centro. Come recita uno slogan dell'Udc. Insomma, il premier teme l'indebolirsi del suo partito, già attraversato da divisioni personali e di gruppo. (Da ultimo: l'esodo di Micciché verso il Partito del Sud di Lombardo). Teme gli effetti di un risultato negativo. Che restituisca fiducia al Pd. Alla stessa Udc (tanto più se risultasse determinante in regioni come la Puglia o il Piemonte). Ma, soprattutto, teme la Lega. Sua alleata forte. Dopo queste elezioni potrebbe divenire perfino "troppo" forte. Rendendo vistosa - e imbarazzante, nel confronto  -  l'immagine di un partito  -  il Pdl  -  senza territorio. Disorganizzato. Proprio perché al comando c'è un uomo solo. Troppo solo. A capo di un partito grande. Troppo grande. Troppo frammentario. E troppo diviso. Berlusconi, per tenere insieme la sua galassia, ha bisogno di rinnovare  -  perennemente  -  la leggenda del leader vincitore. Quello che non si arrende mai. Cade e si rialza. Contro ogni previsione.
E contro ogni auspicio. Di nemici e amici. Ma oggi governa da solo, con una maggioranza larga e un'opposizione debole. Davanti, ancora tre anni di governo. La crisi che incombe, una catena di vicende giudiziarie da affrontare  -  e schivare. La Lega a capo del Veneto e magari anche altrove. Tre anni sono lunghi. Senza altre elezioni da affrontare. Per mobilitare la base.  Alimentare un'organizzazione che non c'è.
Per questo, oggi, a Berlusconi conviene usare l'antiberlusconismo come un'arma contro gli altri. Giudici, comunisti, la Repubblica, Di Pietro. Per raccogliere gli elettori intorno a sé. Tutti uniti. Tutti in piazza. Come titolava, in modo icastico, il Foglio nei giorni scorsi: "Nel Pdl manifesteranno tutti convinti, ma non capiscono bene perché". La risposta è semplice: "Contro  -  e per  -  se stessi".

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« Risposta #155 inserito:: Marzo 21, 2010, 04:21:47 pm »

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Se si interrompe lo spettacolo virtuale

di ILVO DIAMANTI

PUÒ sembrare paradossale la scena in cui si sta svolgendo questa campagna elettorale. Silvio Berlusconi: il Signore dei media, che ha inventato e imposto in Italia la politica come marketing. Oggi fa applicare in modo estremo la par condicio, progettata, a suo tempo, contro di lui, per limitarne il potere mediatico. Preferisce il silenzio dei media. O meglio: dei talk show politici. E scende in piazza, insieme al suo popolo. Contro la sinistra "giustizialista e anticlericale". Contro Michele Santoro e Annozero. Contro i magistrati che conducono i processi in tivù. Singolare rovesciamento di ruoli. Berlusconi e il suo popolo si mobilitano come i partiti di massa di un tempo.

Mentre il centrosinistra, erede dei partiti di massa, Pd in testa, guida la protesta contro il silenzio imposto ai media e ai talk-show. Eppure non è così sorprendente. Neppure paradossale. È che la logica della comunicazione, quando orienta la politica, diviene difficilmente controllabile. Anche per chi la controlla. Perché minacciae contraddice il meccanismo su cui si fonda la "democrazia del pubblico": la fiducia. E insieme: la rappresentanza come rappresentazione - e costruzione - della realtà. Una materia che Berlusconi ha maneggiato primae meglio di tutti. Dal 1994 ad oggi: ha raccontato e recitato alcune storie di successo. Una fra tutte. L'imprenditore che si è fatto da sé e ha vinto in ogni campo. Negli affari, nello spettacolo, nel calcio, in politica.

Una rappresentazione familiare, che ha plasmato il senso comune. Riprodotta dovunque e in ogni momento della vita quotidiana, attraverso la tivù e i giornali. E attraverso i prodotti, i valori e gli stili di vita veicolati dai media. Berlusconi ha interpretato il presente, ma anche il passato, di un Paese che ha perduto la memoria. Se il percorso della Repubblica italiana ricomincia nel 1992, se le ideologie sono franate insieme ai partiti di massa, lui può opporre la sua storia personale vincente alla Storia Collettiva degli avversari.

Evocata all'infinito, ripetendo il termine "comunisti". Come un mantra. Contro tutti gli "altri". Non importa se davvero siano o siano stati comunisti. Basta che si oppongano a lui. E all'ideologia del Fare. Alla sua ultima interpretazione: l'Uomo-che-fa. E affronta ogni emergenza, in un Paese dove l'emergenza è la regola. Accompagnato dal suo profeta e testimone, Guido Bertolaso, cammina sui rifiuti lasciati dai governi di sinistra e li dissolve. Sfida i terremoti e dalle macerie ri-sorgono, in breve, nuove case.

Lui, Berlusconi, non parla, ma fa. Neppure le aggressioni lo fermano. Colpito e sanguinante, si rialza e fa. Sotto l'occhio delle telecamere. Che elaborano l'immagine del "fare". Il problema è che le Storie personali, come le rappresentazioni della realtà, soffrono, quando vengono smentite oppure oscurate da altre storie. Raccontate dalle inchieste dei giornali e della magistratura. Dai dialoghi telefonici intercettati. E rilanciati sui media. È l'effetto perverso della democrazia dell'opinione. Della comunicazione pervasiva. Dove tutti possono scrutaree ascoltare tutti. (Anche quando e se non dovrebbero).

Dove il privato diviene pubblico anche perché è esibito in pubblico. Alla ricerca del consenso. Dove i confini fra pubblico e privato scompaiono. Allora, anche la storia del premier senza macchia rischia di venire macchiata. E la sua immagine appariscente si scolora. Le sue imprese, in Abruzzo: sminuite. Degradate da altre storie - mediocri - di corruzione e prostituzione. E il rapporto diretto fra il leader e i suoi elettori - spettatori si complica. Anche perché il clima d'opinione è intristito da altre storie, ben più crude e reali. La crisi economica, la disoccupazione, il reddito delle famiglie sempre più inadeguato... Così i "suoi" elettori (e spettatori) delusi sono tentati dalla prospettiva di non votare. Per nessuno. Quindi neppure per lui. È già avvenuto l'anno scorso, alle europee. Per questo, l'opposizione più pericolosa, oggi, non è condotta dal Pd. Ma dai giornalisti (alcuni) e dai magistrati.

Dai magistrati: nemici irriducibili di Berlusconi, dopo che le loro inchieste ne hanno incrociato ripetutamente la biografia e le attività. Costituendo argomento di informazione e spettacolo. E dell'informazione-spettacolo. Poi, da Michele Santoro e Annozero. La vera opposizione, detestata da Berlusconi e dal suo popolo. (Altro che Bersani e il Pd). Insieme ai talkshow che danno spazio ai giornalisti di Repubblica. E ai magistrati che entrano in politica. Di Pietro e De Magistris. E Travaglio. Una specie di centauro: mezzo giornalista e mezzo magistrato. Non importa chei talk show politici spostino pochi voti (come ha rammentato, correttamente, Aldo Grasso), visto che il loro pubblico è già orientato.

Il problema è che possono degradare la Rappresentazione Ufficiale della realtà. Neutralizzare il virtuality-show che va in onda, con successo, da tanto tempo. Meglio, allora, il silenzio dei media. A cui opporre la mobilitazione e le grida della piazza "reale". Il Popolo Sovrano: un milione di persone - ma 100 mila secondo la "versione" del Pd - raccolte intorno al premier. L'Uomo del Predellino che arringa le masse. Ieri, nella veste del Grande Sacerdote che celebra un rito collettivo. Ripreso dalle telecamere e dai media. Così, sui tigì, dove la par condicio non conta, si rappresenta l'indignazione della piazza che protesta contro chi vorrebbe spezzare un sogno. Facendo prevalere la realtà sulla narrazione. E i fatti sulle opinioni.

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« Risposta #156 inserito:: Marzo 27, 2010, 11:03:06 pm »

Il Cavaliere in camicia verde
 
Ilvo Diamanti


È come Zelig, il Cavaliere. In grado di trasformarsi, di cambiare pelle per compiacere gli estimatori, gli amici, i nemici che vorrebbe trasformare in amici.  Da qualche tempo, ad esempio, si sta esibendo nella imitazione di un leghista. Meglio: del suo leader, Umberto Bossi. Nello stile e nel linguaggio. Basta rievocare la manifestazione di piazza San Giovanni, sabato scorso, a Roma. Dove il PdA, il suo Partito dell'Amore, ha riempito la piazza. Lì, sul palco, Berlusconi, Come un grande Sacerdote, ha imposto ai candidati un "giuramento",  trasformando, poi, i convocati in "missionari". Come un movimento di massa. Una comunità guidata da un imperativo religioso. Convertire miscredenti e agnostici al verbo dell'Amore. Espresso dal Capo. L'Unico. Inimitabile. Presente, in mezzo ai suoi, "fisicamente", in piazza.
E non per immagine, in tivù. Per analogia con l'unico  partito di massa rimasto in Italia...  La Lega, sua alleata. Che conosce bene la pratica rituale. I giuramenti. Basta tornare con la memoria alla  (sfortunata) marcia sul Po, iniziata con la cerimonia dell'ampolla, alle sorgenti del fiume sacro. Berlusconi. Oggi vorrebbe imitare la Lega. Nello stile e nel linguaggio. Qualche volta, anche nei temi, vista l'insistenza sull'invasione degli stranieri, sulla piazza del Duomo a Milano, dove sembra di stare in Africa.  Mentre, in quanto alla violenza del linguaggio,  Berlusconi ha imparato in fretta la lezione di Bossi. Anzi: ha superato il maestro. Da ultimo, il premier ha appreso e riprodotto la grammatica della partecipazione leghista.

A Torino, tra un apprezzamento greve alla Bresso
e un apprezzamento tenero a Cota, trattato come un assistente, Berlusconi lancia la consultazione sull'elezione diretta del presidente o del premier. Attraverso un referendum da svolgere nei gazebo, come ha osservato Giovanni Cerruti. Marchio di fabbrica delle campagne leghiste.

Il Cavaliere in camicia verde non deve sorprendere troppo. È una delle sue tante imitazioni. Non sarà l'ultima. D'altronde, in questa fase, più che dal PD, si sente incalzato dalla Lega. Ne teme la concorrenza nel Nord, ma anche l'espansione in altre zone del paese, com'è avvenuto alle elezioni europee del 2009: in Emilia, in Toscana e nelle Marche. Ed è preoccupato dalla minaccia dell'astensione. Per cui usa la tattica del partito di lotta e di governo. Sperimentato con successo dalla Lega, che parla e agisce come stesse all'opposizione, anche se, ormai da tempo, sta al governo. Ben insediata a "Roma capitale". Così comizia dai predellini, mobilita le piazze, si tuffa nella folla  -  rischiando e subendo aggressioni violente. Incita alla rivolta  -  contro i magistrati e la sinistra dei talk show.

Coinvolge persone adulte, con una storia dignitosa, in riti imbarazzanti  -  imponendo loro giuramenti, al posto delle tradizionali "promesse dei politici". E, ancora, convoca referendum  ai gazebo. Indossa la camicia verde.

Senza troppa convinzione. Da parte sua, del pubblico e dei leghisti. Per primo, il leader, Umberto Bossi. Anch'egli sul palco, a piazza San Giovanni. Dove ha esordito, con il suo incedere verbale faticoso, dopo la malattia, affermando che lui, Bossi, era uno dei pochi a non aver chiesto soldi a Berlusconi. Anche se nessuno ha riso, a noi è sembrata una battuta acuminata. Una rasoiata. Da padano vero.

(25 marzo 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #157 inserito:: Aprile 08, 2010, 03:29:03 pm »

Il falso mito del risultato elettorale già scritto.

Ma solo dopo
 
Ilvo Diamanti

Oggi che le classi sociali hanno perso visibilità e forse sono perfino scomparse, confuse in mezzo a una moltitudine di individui. E le ideologie sembrano ridotte a leggende perdute nel tempo. Oggi,  in politica, si evocano altre definizioni. Meno suggestive, meno epiche, ma comunque eloquenti. Capaci di spezzare. Distinguere. Stigmatizzare. Dividere il mondo. Per esempio: gli aristocratici e il popolo. Con tre p. Oppure la gente. Con quattro g. I radical chic e i radical choc. La sinistra dei salotti e la destra delle partite IVA e delle piccole imprese.  Quelli che parlano di cultura tra Uomini di Cultura - rigorosamente con le iniziali maiuscole  -  e quelli che parlano dei problemi di tutti i giorni nella vita di tutti i giorni con le persone comuni. Quelli dell'Alta Finanza e quelli che hanno i calli alle mani. Insomma: definizioni di senso comune dette in modo diretto. Capaci di tracciare confini chiari e netti. Per riprodurre la distanza fra Noi e Loro. Amici e nemici. Senza possibilità di dialogo, ma che dico?, di sguardo reciproco. Ciascuno per la sua strada, dalla sua parte della strada. Senza neppure pensare di attraversarla.

Così, i "populisti" -  orgogliosi di essere tali, dalla parte del popolo, di quelli che faticano e si sporcano le mani  -  guardano gli "elitisti" e gli aristocratici da lontano. Come animali rari. La destra popolare e la sinistra impopolare. Condannata  -  e rassegnata  -  a perdere le elezioni. Tutte le elezioni. Sempre. Senza speranza. E viceversa. Gli aristocratici, chiusi nei loro salotti e nei loro circoli culturali, tra loro, lontano dal vociare del popolo minuto. Il ventre di questa società imbarbarita dal benessere e dalla televisione. Che la sinistra aristocratica osserva con malcelata insofferenza. Così tutto pare congelato. Vincitori e vinti predestinati, in competizioni elettorali non competitive. Dall'esito scontato.

Non c'è luce, in questo scenario senza luce. In questa rappresentazione ideologica. Tanto ideologica, però, da occultare la realtà. Fino  a negarla. Come spiegare, altrimenti, comportamenti ed esiti elettorali tanto diversi in poco tempo? Nello stesso giorno? La sinistra sconfitta nel 1994 vittoriosa nel 1996; di nuovo sconfitta nel 2001 e poi di nuovo  vittoriosa, in tutte le elezioni successive, fino al 2006. Per poi subire l'insuccesso nel 2008 e le battute d'arresto successive. E, dall'altra parte, come spiegare le vicende altalenanti di Berlusconi, One Man Show. Che, dopo il 1994, solo "insieme" alla Lega. Nel 2000, nel 2001, nel 2008. E solo "grazie" alla Lega, alle regionali di 10 giorni fa.  La Lega, per sua parte, oggi appare invincibile. Eppure ha perso tante volte, da quando è sorta. È cresciuta e poi si è ristretta. Dall'8% nel 1992 al 10% nel 1996: 3-4 milioni di voti. Poi è crollata negli anni seguenti.. Ha tenuto a fatica il 4%. Per poi risalire, dopo il 2006. Fino a raggiungere e sfondare, negli ultimi 3 anni,  la barriera del 10%. Senza però produrre la valanga di voti degli anni Novanta.

E come spiegare, con la teoria del  Popolo con tre p, lontano dalle èlite, che quel popolo, lo stesso popolo, lo stesso giorno, il 28 marzo scorso,  ha votato diversamente, molto diversamente, per la Regione e il Municipio? A Venezia e a Lecco, per esempio: i voti leghisti, alle regionali, si sono tradotti in sostegno ai sindaci di centrosinistra. 
Perché, ha suggerito qualcuno,  le città sono radical chic. Affollate di borghesi e intellettuali da salotti. Ma, allora, Verona? Governata dalla Lega? Dubitiamo che, se si fosse votato per il Comune, due settimane fa, i cittadini avrebbero votato diversamente.
I benpensanti e i malpensanti, i salotti e le partite IVA, la società civile e la società reale. Queste definizioni dirette, per quanto suggestive e di senso comune, sono molto più ideologiche delle vecchie ideologie. Aiutano a coltivare l'etica dell'irresponsabilità. Non spiegano ma rassicurano. Non aiutano a distinguere, ma soddisfano gli istinti. Sono autoconsolatorie. Ti convincono che se perdi non è colpa tua. Ma della gente. Del popolo. Oppure degli intellettuali, dei poteri forti. Del destino cinico e baro. Storie già scritte, dove la politica e gli uomini non contano. Storie senza pathos e senza epica. Troppo scontate per essere vere. Sono attraenti e insidiose. Soprattutto per chi ha perso.

(08 aprile 2010)
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« Risposta #158 inserito:: Aprile 12, 2010, 11:28:41 pm »

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Fenomenologia dell'elettore scettico

di ILVO DIAMANTI

ALLE regionali 15 milioni di elettori non hanno votato. È l'astensione più elevata del dopoguerra, considerando tutte le elezioni di rilievo nazionale dal '46 ad oggi (referendum esclusi). Ma il fenomeno ha subito una accelerazione significativa nella seconda Repubblica. Se consideriamo le 13 regioni dove si è votato due settimane fa, la partecipazione è scesa dall'87% nel 1994 all'81% nel 2008  -  alle elezioni politiche (3 punti in meno rispetto al 2006). Dal 75% nel 1994 al 70 % nel 2009  -  alle europee (5 punti in meno rispetto al 2004). Infine, dall'82% nel 1995 al 64% del 2010 alle regionali (8 punti in meno rispetto al 2005). Insomma, a seconda delle elezioni, tra 2 e oltre 3 (anzi, quasi 4) persone su 10, ormai, non votano. E il dato si allarga nelle elezioni amministrative dei comuni oltre 15 mila abitanti, dove, in caso di ballottaggio, tra il primo e il secondo turno la percentuale di votanti scende ulteriormente.

Da ciò la tentazione di evocare un "partito dell'astensione", considerando il non-voto come un voto. Il primo in Italia, viste le dimensioni. Per usare una formula nota (di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino): il "voto di chi non vota". Tuttavia, è difficile ricondurre quelli-che-non-votano a "un" partito, visto che sommano componenti molto diverse e contrastanti. Vi si incontrano: (a) quelli che non votano per forza maggiore; (b) le persone marginali  -  apatiche e disinteressate; (c) quelli che esprimono protesta contro il sistema; (d) quelli che non si sentono rappresentati; (e) quelli che, al contrario, si fidano, chiunque vinca; (f) quelli convinti che il loro voto non conti; (g) e quelli che, invece, intendono usare il voto come "ammonimento" ai partiti  -  soprattutto di governo. Sfruttando, a questo fine, le elezioni amministrative o europee.


Insomma, l'area dell'astensione si è dilatata, ma ha assunto, al tempo stesso, significati molto diversi. Tanto che la quota degli astenuti "per forza maggiore"  -  un tempo prevalente  -  oggi appare ridotta. Mentre è cresciuta quella degli "intermittenti" (come li definisce Paolo Segatti). Che scelgono "se" votare a seconda delle occasioni. Non è, ovviamente, un fenomeno solo italiano. Anzi. L'Italia è tra i paesi europei dove l'affluenza elettorale resta più elevata. Tuttavia, nel nostro paese, questa tendenza, negli ultimi anni, è cresciuta in modo rapido e impetuoso. Per alcune ragioni, in parte specifiche.

a) Il rovesciamento e il rimescolamento continuo del sistema partitico. Il che ha reso sempre più difficile non tanto identificarsi, ma almeno "affezionarsi" a un soggetto politico, visto il turbinio di sigle, aggregazioni e leader. Pensiamo al Pd, al Pdl. Alla galassia della Sinistra. Unico partito ad aver mantenuto lo stesso marchio dai tempi della prima Repubblica: la Lega. Non a caso, il prodotto più riconoscibile sul mercato elettorale.
b) Il cambiamento e la diversità delle leggi elettorali hanno disorientato l'elettore. La logica maggioritaria del voto utile ha, inoltre, spinto a votare per un partito o un candidato competitivo. Quindi, non sempre  -  e sempre meno  -  per quello più vicino.
c) La personalizzazione dei partiti, il declino dell'identità a vantaggio della fiducia, della partecipazione a favore delle tecniche di marketing. Hanno reso i "prodotti" del mercato elettorale volatili e deperibili.
d) Il mutamento della società, del contesto culturale e del territorio. Sottolineato dal profondo mutamento territoriale dell'astensione. Se consideriamo le 20 province dove alle regionali recenti il fenomeno è cresciuto maggiormente rispetto alle europee del 2009, solo 2 sono del Sud (Crotone e Avellino). Le altre sono del Centro-nord e comprendono realtà a forte tradizione democristiana (Sondrio) ma soprattutto di sinistra (Livorno, Rimini, Pesaro Urbino, Siena). Zone ad alta partecipazione, anche per questo colpite  -  più delle altre  -  dall'astensione.

Non è più corretto, quindi, considerare il "voto" come la "regola", trattando il "non-voto" come un comportamento "deviante". Quasi fossimo ancora al tempo delle fedeltà di partito. Perché quel tempo è finito. E quelle fedeltà si sono erose profondamente. Se utilizziamo una scala che misura l'orientamento degli elettori verso i partiti (sondaggio di Demos, febbraio 2009, campione nazionale rappresentativo, 1000 casi), la quota di coloro che esprimono vicinanza  -  e quindi appartenenza esclusiva  -  verso un solo partito appare molto ridotta. Intorno al 10% del totale, mentre il 20% si dice lontano da tutti. La maggioranza, invece, è costituita da elettori "tiepidi". Incerti fra diversi partiti. Rispetto ai quali si dicono  -  più che vicini  -  "non lontani". Incerti anche "se" votare. Si tratta, peraltro, degli elettori politicamente più interessati e informati. Da ciò il declino del senso di appartenenza; la disponibilità a cambiare voto e partito. Anche senza salti di schieramento, visto che alcune fratture restano. Una, soprattutto: scavata da Berlusconi. Tuttavia, in caso di elezioni amministrative, anche queste fratture scompaiono. E nello stesso giorno, gli stessi elettori, in elezioni diverse, possono decidere di votare per candidati di schieramenti opposti. A Venezia, a Lecco, come in numerosi altri comuni: per la Lega alle regionali e, al contempo, per un sindaco del Pd. Non era così nella prima Repubblica, quando tutti  -  o quasi  -  votavano sempre e allo stesso modo, in tutte le elezioni.

Oggi, invece, un'ampia quota di elettori decide di volta in volta. Per chi e "se" votare. Ciò costituisce un problema soprattutto per i partiti maggiori, frutto di aggregazioni complesse. Con un'identità opaca. Poco presenti nella società. Il Pd. E a maggior ragione il Pdl: il più colpito alle ultime elezioni. Ma nessuno ne è immune. Perché nessuno dispone di un elettorato fedele, come i partiti di massa della prima Repubblica. Neppure la Lega. Che dal 1992 ad oggi ha visto oscillare le sue percentuali di voto  -  oltre che il numero di elettori. Dal 10% al 4%. Per poi tornare al 10%. Non è stata la fedeltà a favorirne la risalita degli ultimi anni. Semmai, la capacità della Lega di intercettare domande locali, rivendicazioni territoriali, sentimenti di incertezza. Oltre all'insoddisfazione verso gli altri partiti. Ma ora che governa a Roma, in Veneto e nel Piemonte sfruttare i vantaggi di chi fa la maggioranza e l'opposizione, al tempo stesso: le riuscirà più difficile.
Il tempo dell'elettore fedele è finito. Siamo nell'era dell'elettore scettico. Non è privo di valori, non è senza preferenze politiche. Ma ha bisogno di buone ragioni per votare un partito o un candidato. E prima ancora: per votare.

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« Risposta #159 inserito:: Aprile 18, 2010, 10:05:57 pm »

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Pdl, il partito senza terra

di ILVO DIAMANTI

C'E' LA TENDENZA - e la tentazione - di trattare il conflitto fra Berlusconi e Fini come un caso "personale". L'ultimo episodio di una lunga "guerra di successione" (come ebbe a definirla Adriano Sofri). D'altronde, in questa democrazia personalizzata, non può sorprendere che i conflitti politici abbiano retroscena personali  -  e viceversa. Tuttavia, gli argomenti critici espressi da Fini a sostegno della propria minaccia difficilmente possono essere considerati "personali". Perché sono politicamente fondati. E, al tempo stesso, percepiti  -  e condivisi  -  in ampi settori del Pdl con inquietudine. L'egemonia della Lega sulla coalizione. Ma soprattutto, la debolezza del Pdl e il suo squilibro territoriale crescente. Non sono invenzioni polemiche. Soprattutto oggi, dopo il voto regionale. Non a caso  -  e non per gusto della provocazione  -  Bossi ha dichiarato l'intenzione della Lega di esprimere il futuro premier, nel 2013. Fra i propri leader. Interni o di riferimento (un nome a caso: Tremonti).
La polemica sollevata da Fini, anche per questo, contribuisce a svelare quante difficoltà abbiano prodotto i risultati delle elezioni regionali nel Pdl.

Anche se la ri-conquista di 3 regioni importanti, come la Campania, il Piemonte, e il Lazio, ha indotto ad attribuire la vittoria al centrodestra, nell'insieme. E, dunque, al suo leader. Al premier. Che da sempre fanno tutt'uno. Tuttavia, il voto ai partiti ha sancito un evidente insuccesso del Pdl. Si tratta di un aspetto già osservato da altri analisti (per primo, dall'Istituto Cattaneo). Eugenio Scalfari, domenica, vi si è soffermato a lungo. Il Pdl, in valori assoluti, anche considerando la Lista Polverini in provincia di Roma, ha perso consensi, rispetto alle europee del 2009 (2.600.000) e alle regionali del 2005 (400.000). In termini percentuali, si è attestato sui valori del 2005. Cioè: il più basso della seconda Repubblica, considerando tutte le elezioni dal 1994 fino ad oggi. (Si veda, al proposito, l'articolo di Luigi Ceccarini su Repubblica. it).

Il buon risultato della Lega ha  -  in parte  -  compensato queste difficoltà. E le ha  -  in parte  -  acuite. Perché ha aumentato in misura rilevante il peso leghista. Nell'alleanza con il Pdl, infatti, nel 2005 la Lega rappresentava il 16% dell'elettorato, nel 2009 il 24%, oggi il 29%. Il fatto che fino al 2006 l'alleanza di centrodestra comprendesse anche l'Udc, peraltro, riduceva la forza contrattuale della Lega. (Che, anche per questo, considerava i neodemocristiani degli intrusi e dei nemici). Ma il peso assunto dalla Lega appare più evidente su base territoriale. Considerato insieme a quello del Pdl, nel 2005 l'elettorato leghista costituiva il 29%, nel Nord: oggi è salito al 47%. La crescita è ancora più evidente nelle regioni rosse del Centro (compresa l'Emilia Romagna). Dall'8% del 2005, oggi è salito al 26%. In altri termini: la Lega, per il Pdl, è un partner fedele. Ma anche necessario. E, al tempo stesso, un concorrente. (Si vedano mappe e tabelle sul risultato elettorale del Pdl nel sito di Demos), Nel Sud, la Lega non c'è, per ora. Ma il Pdl ha, comunque, incontrato difficoltà di tenuta elettorale. Certo, ha conquistato la Campania e la Calabria. In più ha strappato il Lazio. In complesso, nelle regioni meridionali, allargate al Lazio, ha recuperato 300 mila voti rispetto alle regionali del 2005, ma ne ha persi quasi un milione rispetto alle europee del 2009 e oltre due rispetto alle politiche del 2008.

Così, il Pdl continua ad apparire  un partito fortemente meridionalizzato. Visto che il 41% del suo elettorato, alle recenti elezioni, proviene dalle regioni del Sud e dal Lazio. Eppure, anche in quest'area si è indebolito. Nel Sud, infatti, alle regionali ha ottenuto il 32% dei voti validi, ma alle europee del 2009 ne aveva conquistati il 42% e nel 2008 il 45%. Da ciò l'impressione che le critiche di Fini siano tutt'altro che infondate. Ma, al contrario, rivelino alcune ragioni di disagio e tensione che attraversano il Pdl. Sfidato dall'interno, più che dall'esterno. Dagli amici, più che dagli avversari. Da destra e dal centro, più che da sinistra. Nel Centro-Nord, come abbiamo già detto, è incalzato dalla Lega. Alle regionali del 2010, primo partito in 9 province, alle europee del 2009 in 6. Nel 2005 in nessuna. Mentre il Pdl nel 2005 era primo partito in 25 province, nel 2009 in 32. Oggi in 20. La concorrenza della Lega, peraltro, rimette in discussione l'accesso alle risorse e ai centri di potere. Nelle istituzioni, nel credito, nella finanza (come ha puntualmente mostrato Tito Boeri, su questo giornale).

Nel Sud, invece, il Pdl deve fare i conti con il malessere dei gruppi politici e di interesse a cui fa riferimento. Insoddisfatti e preoccupati, per il conflitto distributivo con gli "alleati" del Nord. Frustrati dall'asimmetria fra peso elettorale e politico. Dal contrasto fra un partito centromeridionale e un governo nordista. Queste tensioni hanno già prodotto strappi vistosi. Soprattutto in Sicilia, dove Raffaele Lombardo, leader del Mpa e presidente della Regione, agisce in aperto contrasto con il governo e il centrodestra. Dove Micciché e altri leader del Pdl parlano di costituire un Partito del Sud. Nel Mezzogiorno, il Pdl deve, inoltre, fare i conti con l'Udc, che ha ottenuto successi significativi. Ha, infatti, "conquistato" 15 comuni tra i 29 (a scadenza naturale) dove si è votato nelle scorse settimane. Partecipando a coalizioni per metà di centrosinistra e per metà di centrodestra.
Più che dal centrosinistra e dal Pd, quindi, l'opposizione alla maggioranza viene dalla maggioranza. L'opposizione al Pdl dal Pdl. Dalla sua  -  contraddittoria  -  presenza nella società e nel territorio. Dove appare poco radicato. Stressato da una fusione  -  tra Fi e An  -  mai del tutto compiuta, soprattutto a livello periferico. Frammentato in gruppi locali e particolaristici. Incalzato dalla compattezza della Lega. Disorientato  - più che da Fini  -  dall'incertezza sui fini comuni e condivisi. Per comprendere le difficoltà e i conflitti nel Pdl, allora, conviene non concentrarsi solo sui gruppi parlamentari, sui dirigenti nazionali di partito, sui luoghi della "politica dell'audience". Meglio spostare lo sguardo anche sul territorio. Dove si rischia di capire il significato della sfida di Fini a Berlusconi meglio che in un talk-show.

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« Risposta #160 inserito:: Aprile 25, 2010, 05:51:56 pm »

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Il partito di Fini vale almeno il 6% Ma un altro 38% potrebbe votarlo

Consensi anche dalla Lega, in calo lo share personale.

Il presidente della Camera appare a molti come leader di un altro partito di centrodestra

di ILVO DIAMANTI


LA ROTTURA tra Berlusconi e Fini è avvenuta in modo spettacolare. E irreparabile. Come la coabitazione all'interno dello stesso partito e, perfino, della stessa coalizione. Anche se, in politica, non c'è nulla di irreversibile.

Dipende dagli interessi e dalle convenienze. Basta rammentare i rapporti tra Berlusconi e Bossi. Spezzati e ricuciti, dal 1994 al 2000. Per reciproca necessità. E utilità. La questione intorno a cui ruota il futuro del Presidente della Camera, ma anche della legislatura, è, dunque, principalmente una. Quanto può costare, al centrodestra, la defezione di Fini? E, in parallelo, quanto può contare  -  e costare  -  la sua presenza e permanenza nel PdL? Il sondaggio condotto da Demos nei giorni scorsi offre alcune indicazioni utili al proposito.

Anzitutto, lo spazio del partito di Fini. Circa il 6% degli elettori afferma che lo voterebbe sicuramente. (Una stima analoga a quella fatta da Renato Mannheimer). Un settore molto più ampio (38%) lo "potrebbe" votare. Si tratta di un'area significativa, che incrocia diversi segmenti del mercato politico-elettorale, anche se gravita, principalmente, nel centrodestra. Il 26% degli elettori "certi" e la stessa quota di quelli "possibili", infatti, attualmente votano per il Pdl. Ma un altro 20% dei "certi" e una quota limitata di "possibili" votano per la Lega.

Il che non deve stupire. Un'ampia componente di elettori del centrodestra ha, da sempre, considerato la Lega un'alternativa a FI, prima, e al Pdl, poi. Un modo per manifestare la propria distanza da Berlusconi e dal governo, senza votare per gli "altri". Tuttavia, l'offerta politica di Fini attira consensi anche da centrosinistra e in particolare dal Pd. Ma attrae, soprattutto, gli elettori indecisi e meno coinvolti (un terzo del totale).

In definitiva, metà degli elettori (che si dicono) "certi" di votare per il partito di Fini (cioè, il 3% dell'elettorato totale) e un terzo di quelli "possibili" (circa il 13% del totale) sono di centrodestra; in particolare del Pdl, ma anche della Lega. Sufficienti a spostare gli equilibri politici a sfavore della coalizione guidata da Berlusconi e Bossi.

La posizione di Fini, tuttavia, oggi è rafforzata da tre elementi: a) il ruolo istituzionale di Presidente della Camera; b) la collocazione  -  tuttora - interna al centrodestra e al Pdl; c) la conoscenza, non ancora estesa a tutti gli elettori, della rottura con Berlusconi. Anche per questo, Gianfranco Fini resta il leader più stimato dagli elettori. Ma anche quello i cui consensi personali sono calati maggiormente: quasi 10 punti, nell'ultimo anno. Se confrontiamo l'evoluzione del giudizio su Fini in base al voto e alla posizione politica degli elettori, negli ultimi anni, la spiegazione di questa tendenza appare chiara. La quota degli orientamenti positivi nei confronti di Fini, negli ultimi due anni, tra gli elettori del Pdl scende, infatti, dall'89% al 67%.

Si attesta, quindi, allo stesso livello di Bossi. Leader di un altro partito, per quanto alleato. Ma forse anche Fini, nel Pdl, appare a molti il leader di un altro partito. E non necessariamente alleato. La stessa tendenza emerge se si considera la posizione nello spazio politico: fra gli elettori di destra, il Presidente della Camera cala dall'83% al 55% e tra quelli di centrodestra dall'87% al 65%. In parallelo, il suo consenso sale tra quelli di centrosinistra. Di conseguenza, l'elettorato che gli è più favorevole oggi è quello di centro: 70%.

Il Presidente della Camera beneficia, dunque, di una posizione di rendita, che appare vantaggiosa e insidiosa, al tempo stesso.
È figura istituzionale, leader di centrodestra, ma anche di opposizione. Apprezzato (in misura calante) dagli elettori di centrodestra, ma anche (in misura crescente) da quelli di centrosinistra. Come appare chiaro se si osserva la mappa che raffigura la posizione dei leader politici, nella percezione degli elettori. Fini si colloca, infatti, vicino al centro, accanto a Casini. In fondo a destra: Berlusconi e Bossi. Pressoché appaiati. Quasi un "unicum". Nel settore opposto, Bersani e Di Pietro. Non lontani da Grillo.
Le diverse anime dell'opposizione di (centro)sinistra.

Da ciò i problemi.

Per Fini. Il quale, come abbiamo detto, può svolgere un'azione corsara. Raccogliendo consensi a destra e al centro, perfino a sinistra. Opposizione e oppositore. Dentro il Pdl, nel centrodestra. Ma anche in ambito nazionale. Fini. Anti-berlusconiano e anti-leghista, in un sistema politico in cui Berlusconi e la Lega costituiscono i due principali fattori di divisione e identità.

Per la stessa ragione, però, egli appare esposto alla concorrenza degli altri attori politici. Di destra e di centro. Soprattutto se e quando venisse "espulso" dal Pdl e, ancor di più, dal ruolo istituzionale che ricopre.

Tuttavia, la posizione di Fini può diventare pericolosa anche per gli altri attori politici. Per il centro e, ancor più, il centrosinistra. Che rischiano di venire oscurati da quel dito puntato contro il Premier (assoluto). Dall'accesa polemica lanciata dal co-fondatore del Pdl contro la Lega "egoista" e padana. L'opposizione di Fini, però, appare incompatibile, anzitutto, con la natura del Pdl, che è un partito "personale". La versione allargata di FI. E non può sopportare, all'interno, un'alternativa "personale".

Infine, la sfida di Fini è inaccettabile per la Lega di Bossi. Che rischia di vedersi sottrarre il ruolo di opposizione "nel" governo. Una ragione importante del successo leghista, in passato e nel presente. L'assimilazione Lega-Pdl, Bossi-Berlusconi. Il Giano bifronte che governa il Paese. Una rappresentazione intollerabile per Bossi, trasformato in un leader "romano".

E, simmetricamente, per Berlusconi, ridotto a gregario del Nord.

Difficile che possa durare a lungo tutto ciò. Questo Pdl. Questo centrodestra. Questa legislatura.

(25 aprile 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it
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« Risposta #161 inserito:: Maggio 02, 2010, 11:18:11 am »

Primo maggio, dov'è la festa?

di ILVO DIAMANTI

SI E' APERTA una stagione senza feste civili. Dove i riti della memoria, che danno senso e identità alla nostra Repubblica, vengono guardati - e trattati - con insofferenza e indifferenza, da una parte del paese.
In particolare, dalla maggioranza politica di governo.

Anzitutto il 25 Aprile, che il premier ha definito "Festa della Libertà". Non della "Liberazione".

Quasi fosse una celebrazione del suo partito. D'altronde, ha sostenuto un amministratore del PdL, ci hanno liberato gli americani, non i partigiani, che erano comunisti.

Abbiamo motivo di credere, inoltre, che anche il prossimo 2 Giugno susciterà fastidio in alcuni settori del centrodestra, in particolare nella Lega.

Che vede nel tricolore e nella nazione i simboli di un passato da superare. D'altronde, le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia, ormai prossime, non sembrano al centro dell'attenzione di questo governo. Anche perché parlare di Unità d'Italia, in un paese tanto diviso, appare un ossimoro.

Il Primo Maggio non si sottrae al clima del tempo. Al contrario. Non solo perché evoca le lotte del movimento operaio e sindacale.

Una versione in grande della "Festa dell'Unità", dove si canta "Bella Ciao" e sventolano le bandiere rosse.

Il Primo Maggio disturba anche - e soprattutto - perché il lavoro e i lavoratori appaiono, ormai, entità inattuali. Si dovrebbe parlare, semmai, del "non lavoro". Della disoccupazione reale e di quella implicita. Nascosta tra le pieghe dei lavoratori scoraggiati, che non risultano disoccupati solo perché, per realismo, non si "offrono" sul mercato del lavoro.

E per questo non vengono calcolati nei "tassi di disoccupazione". Ma anche dell'occupazione informale. E si dovrebbe parlare, ancora, degli imprenditori, piccoli e piccolissimi, che stentano a continuare la loro attività perché i clienti non li pagano, faticano ad accedere al credito. E non riescono a mantenere l'azienda e i dipendenti.

Lavoratori e piccoli imprenditori "disperati". Per fare parlare di sé, per essere "notiziabili", devono darsi fuoco, sequestrare i dirigenti, appendersi alle gru. Oppure inventarsi

"l'Isola dei cassintegrati", all'Asinara, recitando se stessi.

Lo abbiamo detto altre volte, ma vale la pena di ripetersi.

C'è uno squilibrio violento fra la percezione sociale e la rappresentazione pubblica - mediatica - del lavoro e dei suoi problemi.

La disoccupazione è ormai in testa alle preoccupazioni degli italiani, visto che 38% di essi la indica come l'emergenza più importante da affrontare (Rapporto "Gli Italiani e lo Stato", Demos per Repubblica, novembre 2009). Eppure se ne parla poco, sui media. Soprattutto in tivù.

Tra le notizie di prima serata del Tg1 monitorate dall'Osservatorio di Pavia (per la Fondazione Unipolis) nello scorso settembre, ai problemi legati al lavoro, alla disoccupazione, alla perdita dei risparmi era riservato il 7% sul totale delle notizie.

Per fare un confronto con le tivù pubbliche di altri paesi europei, nello stesso periodo, Ard (Germania) dedicava ai temi del lavoro e della disoccupazione il 21% delle notizie, Bbc One il 26%, France 2 il 41%.

Eppure il tasso di disoccupazione in Italia continua a crescere e oggi ha raggiunto l'8,8% (dati Eurostat). Anche se il paese appare, anche in questo caso, diviso in due. Sotto il profilo territoriale: nel Sud il tasso di disoccupazione si avvicina al 20%.

E sotto il profilo generazionale, visto che fra i giovani (15-24 anni) il tasso di disoccupazione sale al 28%. Il più alto d'Europa. Quasi 10 punti in più della media europea.

Ma i giovani, è noto, non esistono. Sospesi fra precarietà e dipendenza dalla famiglia. Protetti dai genitori, a cui affidano le chiavi del futuro (in cambio di quelle di casa). In modo assolutamente consapevole.

Come emerge da una recente ricerca condotta da LaPolis dell'Università di Urbino per Coop Adriatica (che verrà presentata nei prossimi giorni).
Una frazione minima di giovani (15-35 anni) pensa che, in futuro, riuscirà a raggiungere una posizione sociale migliore rispetto a quella dei genitori. Mentre il 56% pensa il contrario.
Ancora: il 23% dei giovani è convinto che, per farsi strada nella vita, la risorsa migliore sia costituita dalla rete di relazioni e di "conoscenze familiari".
Quasi quanto l'istruzione, tradizionale fattore di mobilità sociale. E poco meno dell'esperienza di lavoro e studio in Italia e all'estero (26%).

Inoltre, si sono abituati all'esperienza di lavoro temporaneo e intermittente. Ma non rassegnati. Molti di loro, anzi, inseguono il "posto fisso" (39%; ma tra i 15-17enni il 46%). Al tempo stesso si è raffreddato, fra loro, l'entusiasmo per il lavoro in proprio e la libera professione attira, oggi, il 25% di loro.
Nell'insieme, il 49% dei giovani oggi si dice orientato verso un'attività autonoma o professionale. Circa 10 punti in meno di 4 anni fa.

Nello stesso periodo, parallelamente, è risalito l'interesse verso la grande impresa e il pubblico impiego.

In altri termini, i giovani, sono flessibili "per forza", non rassegnati alla precarietà.
Sanno che li attende un futuro difficile. E per questo fanno affidamento alla famiglia.
La considerano la risorsa mezzo per farsi strada nella vita.
E, prima ancora, un rifugio e una protezione.

Meccanismo fondamentale del welfare all'italiana. Pressoché ignorato dal sistema pubblico.

Così è più chiaro perché il Primo Maggio susciti disagio.

Nel centrodestra, dove è percepito, da molti, una festa comunista.
Ma, anche altrove.
Perfino a sinistra, dove molti la considerano un rito nostalgico. Dedicato a quando il lavoro era fonte di vita, riferimento dell'identità, motivo di orgoglio. Mentre oggi l'evento sindacale più significativo e partecipato, per celebrare il Primo Maggio, non è una manifestazione rivolta ai lavoratori.

Ma il tradizionale concertone rock che si svolge in Piazza San Giovanni, a Roma. Affollata da una massa enorme di giovani.
Per una volta, insieme.
Per una volta, visibili.
Normalmente isolati, intermittenti, frantumati, custoditi, controllati. Normalmente invisibili. Come il lavoro.

(01 maggio 2010
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/01/news/mappe_1_maggio-3740751/
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« Risposta #162 inserito:: Maggio 10, 2010, 11:06:36 am »

SONDAGGIO

Italiani a metà un popolo diviso

Fieri di appartenere alla comunità nazionale anche se spesso pronti a considerare il Sud un peso. L'Italia si presenta ai 150 anni dell'Unità con molte contraddizioni ma con un'identità. Costruita soprattutto intorno all'attaccamento ai familiari e all'arte di arrangiarsi. Ecco perché, nonostante le tensioni, continuiamo a sentirci cittadini dello stesso Paese. E perché rischiamo di scoppiare

di ILVO DIAMANTI

Italiani a metà un popolo diviso

CI SI avvia al 150esimo anniversario dell'unità nazionale fra molte divisioni. Tanto che alcuni fra i più autorevoli componenti del Comitato dei Garanti per le celebrazioni si sono dimessi. Per primo: Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente della Repubblica che, nel corso del suo mandato, ha investito sulla riaffermazione delle feste e dei simboli nazionali. Un atteggiamento che non pare condiviso dalla maggioranza di governo. Nella Lega, soprattutto. I cui leader, a partire da Bossi, fanno a gara nel sottolineare che c'è poco da celebrare. Che, per i padani veri, l'unità d'Italia  anzi: l'Italia stessa  non merita di essere celebrata. Così, ci si avvia a questo 150enario in modo dimesso e reticente. Un po' come l'atteggiamento degli italiani verso l'Italia, descritto da un sondaggio di Demos per Repubblica. Difficile da interpretare in un solo modo. Tratteggia un popolo di "italiani a metà". Visto che, fra le diverse appartenenze territoriali, il 28% sceglie, anzitutto, l'Italia (comunque, in crescita di 5 punti rispetto al 2006). Il resto: cosmopoliti (27%) e localisti (45%). Dunque, veneti, siciliani, lombardi, napoletani, nordisti "e" - non "o" - italiani. Visto che quasi tutti (l'88%) si dicono (molto o abbastanza) "orgogliosi" della propria appartenenza nazionale. E quasi tutti (l'84%) considerano "positiva" (il 24% "molto") l'Unità d'Italia.

Italiani a metà. Perché, tuttavia, il 30% di essi considera il Sud un peso. Il 41% nel Nordest, ma il 24% anche nel Mezzogiorno. Cittadini di un paese diviso. Non solo dal punto di vista territoriale, ma - lo sappiamo bene - anche politico. E civile. Perché lontani dalle istituzioni e dallo Stato. L'orgoglio nazionale, infatti, appare incardinato su elementi extra-civili e pre-politici. La bellezza del paesaggio, il patrimonio artistico e culturale, la moda e la cucina. Mentre gli elementi che specificano gli italiani rispetto agli altri popoli, secondo gli italiani stessi, evocano il "carattere nazionale": l'attaccamento alla famiglia e l'arte di arrangiarsi, sopra tutti gli altri. (Come abbiamo messo in luce anche su liMes, in altri scritti). Seguiti dalla "creatività" - nell'arte e nell'economia. Perché l'arte di arrangiarsi è, in fondo, un'arte. Evoca la capacità di innovare e di inventare. Gli italiani. Familisti, imprenditori, localisti, artigiani e artisti. In fondo alla graduatoria dei caratteri che li distinguono dagli altri popoli, non a caso, pongono la fiducia nello Stato e il senso civico. Mentre, fra gli avvenimenti che hanno modernizzato la Repubblica, al primo posto, indicano la "ricostruzione economica degli anni 50 e 60". La stagione nel corso della quale il nostro paese conquistò, faticosamente, lo sviluppo e il benessere. Quando gli ultimi dell'Occidente risalirono fino ai primi posti. E si guadagnarono un po' di rispetto dagli altri. Non più soltanto mafiosi, poveracci ed emigranti. Ma lavoratori e imprenditori.

"Italiani a metà", però, non significa solo "divisi", ma anche ambivalenti e contraddittori. Perché, dopo la "ricostruzione", tra i fattori di modernizzazione della Repubblica, collocano lo "statuto dei lavoratori" e il "referendum sul divorzio". Avvenimenti che segnarono una stagione di mutamento sociale e civile profondo. E, tra i motivi che alimentano l'orgoglio nazionale, il 50% indica la Resistenza e il Risorgimento, il 43% la Costituzione (un orientamento in crescita di 7 punti percentuali rispetto al 2008). Quasi come lo sport e la Nazionale (ma, in questo caso, pensiamo che si tratti di una risposta reticente. Mentre quasi due italiani su tre ammettono la loro soddisfazione (non andiamo oltre...) di fronte al Tricolore e all'inno nazionale.

Insomma, gli italiani sono divisi, non solo dal punto di vista politico e territoriale, ma anche personale. Incoerenti anche di fronte a se stessi. In grado di manifestare malessere verso il Sud, fino ad auspicarne l'espulsione dal Paese. Oppure, identificati nel loro piccolo mondo, nella loro piccola patria locale: città, regione, Padania, Sud. E ancora: sfiduciati verso lo Stato, disillusi nei confronti delle istituzioni. Rassegnati al proprio - patologico e storico - deficit di senso civico, rimpiazzato e compensato da un senso "cinico" dilatato e dilagante. Le stesse persone che si dicono orgogliose di essere italiane. Convinte che l'Unità sia una conquista positiva. Solo una minoranza minima (15%) sostiene che dividere Nord e Sud sia un obiettivo utile, da perseguire.

Gli stessi italiani raccolti intorno al Presidente Napolitano, guardato con fiducia da oltre 7 cittadini su 10. Come Ciampi, prima di lui. Prova che, se lo Stato è lontano, se il Paese è diviso, c'è grande bisogno di riferimenti e di istituzioni comuni, in cui riconoscersi "insieme". Ciò induce a leggere diversamente anche fenomeni che hanno assunto grande ampiezza e importanza crescente, come il voto alla Lega. Il cui significato è, anch'esso, in-coerente. E non può essere assimilato, in modo automatico, ai proclami e alle parole dei leader padani. Visto che 2 leghisti su 3 considerano positiva l'Unità d'Italia e 8 su 10 si dicono "orgogliosi" di essere italiani (il 52%: "molto"). D'altra parte, basta pensare all'Adunata Nazionale degli Alpini, ieri. Centinaia di migliaia di penne nere confluite a Bergamo, nel cuore di una zona leghista. Gli alpini, al cui interno le simpatie leghiste non sono poche (basta citare l'esempio di Gentilini, prosindaco di Treviso e "alpino doc"). Sfilano, orgogliosamente, dietro al Tricolore. Accompagnati da inni patriottici.

Un altro segno di questo Paese di italiani a metà. Che, proprio per questo, potrebbe non restare tale, a lungo. Dipende dal modo di rappresentarli - e di governarli - espresso dagli attori politici. Dalle istituzioni. Potrebbero cambiare. Divenire, finalmente, una "nazione" (per echeggiare Gian Enrico Rusconi). Oppure degradare ancora. Rinunciare del tutto alla loro identità nazionale. Al residuo di civismo che ancora esprimono. Gli "italiani a metà": potrebbero ridursi a "mezzi italiani". Per citare Edmondo Berselli: post-italiani. Non-cittadini di un paese provvisorio.

(10 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/10/news/inchiesta_italiani-3948703/
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« Risposta #163 inserito:: Maggio 25, 2010, 12:14:36 am »

MAPPE

La fretta del regime mediocratico

di ILVO DIAMANTI

Può sorprendere la determinazione con cui il governo spinge per approvare il disegno di legge sulle intercettazioni  -  in fretta, anzi subito, e con poche modifiche. Senza badare al parere dei magistrati, dell'opposizione, di molti giornalisti. Notoriamente "ostili". Senza curarsi neppure del dissenso espresso da esponenti del governo Usa e dalla maggioranza degli italiani (come emerge da alcuni sondaggi).

Questo atteggiamento non si spiega solo con la volontà  -  dichiarata dal ministro Alfano  -  di tutelare la privacy dei cittadini. E di alcuni in particolare: il premier, i ministri e i leader politici. Per evitare che altri scandali rimbalzino sulla stampa. La fretta del governo riflette anche la voglia di saldare le crepe emerse nel modello di democrazia che si è affermato in Italia, da oltre 15 anni. La "democrazia del pubblico" (formula coniata da Bernard Manin, a cui facciamo spesso riferimento). Personalizzata e mediatizzata. Perché tutto è mediatico, nella "scena" politica. I partiti, in primo luogo. Poi: le istituzioni e, ovviamente, il governo. La personalizzazione è un corollario. Perché sui media vanno le persone, con le loro storie, i loro volti, i loro sentimenti. Non i partiti, le grandi organizzazioni, le istituzioni. Che fanno da scenario, ma non possono recitare da protagonisti. È un modello sperimentato altrove, anzitutto negli Usa. Ma in Italia ha assunto una definizione specifica e originale. In tempi rapidissimi. Merito (o colpa) di Silvio Berlusconi. Insieme: imprenditore mediatico dominante, leader  -  anzi, padrone  -  del partito dominante e, naturalmente, capo dell'esecutivo. Presidente "reale"  -  potremmo dire  -  di una Repubblica non presidenziale, dove il Presidente "legale" agisce da garante e autorità di controllo.

La conseguenza più nota di questa tendenza è l'avvento di uno "Stato spettacolo" (titolo di un recente saggio di Anna Tonelli, pubblicato da Bruno Mondadori). Dove lo scambio tra pubblico e privato avviene in modo continuo e pervasivo. Dove il consenso si costruisce sui fatti privati. I cittadini diventano il pubblico di uno spettacolo recitato dagli attori politici che si trasformano in attori veri. È difficile "confinare" il privato, in questo modello. Perché la privacy, per prima, è risorsa usata a fini "pubblici". È la conseguenza inattesa e, in parte, indesiderata del regime mediocratico: le stesse logiche, gli stessi meccanismi che alimentano il consenso possono contribuire a eroderlo. O, addirittura, a farlo collassare.

1. In primo luogo, ovviamente, perché il "privato esibito in pubblico" non è "reale". È fiction. Come nel Grande Fratello, dove tutti agiscono "sapendo di essere osservati". (Anche se, con il tempo, se ne dimenticano). Ben diverso è scavare nel "privato reale" attraverso, appunto, le intercettazioni oppure le indagini che entrano nella vita delle persone  -  dei politici  -  a loro insaputa. Quando si sentono "al sicuro". Quando non recitano la "commedia della vita quotidiana". Perché, allora, possono uscire segreti "scomodi". Comportamenti talora illeciti, altre volte semplicemente sgradevoli. Perché rivelano uno stile distante dal "privato esibito in pubblico". È il caso delle conversazioni telefoniche fra il premier e i dirigenti Rai. Dove Berlusconi esprime, senza mezze misure, la "sindrome del padrone" (la formula è di Edmondo Berselli). Preoccupato da comici, predicatori, conduttori, moralisti, giornalisti: tutti quelli che deturpano la sua immagine e la sua narrazione. La sua "storia". È il caso, recente, dello scandalo che ha indotto il ministro Scajola alle dimissioni. Costretto non dall'illecito, ma dall'indignazione. Dalla scoperta di un appartamento davanti al Colosseo pagato da altri. Peraltro, a insaputa del beneficiario e a prezzo stracciato. In tempi di crisi, mentre milioni di italiani pagano il mutuo della loro casa con molta fatica. Il che sottolinea la distanza tra questa stagione di inchieste sulla corruzione e Tangentopoli. Allora, nei primi anni Novanta, la corruzione intrecciava il mondo degli affari e "la" politica. E aveva, come primo (non unico) obiettivo, il mantenimento della (costosa) macchina dei partiti. Oggi, invece, lega il mondo degli affari e "i" politici. Intorno a vicende, talora, grandi e dolorose (come il terremoto). Altre volte, invece, piccole e mediocri. (Come quelle suggerite dalla "lista Anemone"). Ma, proprio per questo, altrettanto  -  e forse più  -  intollerabili, nella percezione e nel senso comune.

2. L'altra tendenza indesiderata di questo regime mediocratico, soprattutto per chi lo guida, riguarda la "svalutazione del potere" e di chi lo esercita. Rendere pubblico il privato "vero", senza finzioni: manifesta il volto mediocre della politica e di chi governa. Il confine tra i rappresentanti e i rappresentati, tra i leader e i cittadini: scompare. Anzi, i leader politici, gli uomini di governo imitano e giustificano gli istinti più bassi della società. In questo modo, però, perdono autorevolezza, ma soprattutto legittimità, credibilità, consenso. Da ciò l'ossessione di chi ha inventato e imposto, per primo, il sistema mediocratico. La tentazione e il tentativo di controllarne ogni piega. Di prevederne ogni possibile trasgressione. In modo quasi compulsivo. Perché la realtà deve funzionare come un reality; recitato secondo un copione pre-stabilito; e, comunque, orientato e modellato dalla produzione. Quando gli autori, anzi: l'Autore, mentre osserva la "casa del Grande Fratello", si scopre, a sua volta, osservato e ascoltato. E, pochi minuti dopo, si vede ripreso e riprodotto sugli stessi schermi, sulle stesse pagine, sugli stessi giornali. Il "fuori onda" messo in onda, come un'edizione permanente di "Striscia la notizia". Quando il gioco gli sfugge. Allora gli passa la voglia di giocare. E vorrebbe smettere. O meglio: fare smettere gli altri. Cambiare le regole. A dispetto dei magistrati, del governo Usa. E perfino dell'opinione pubblica.
La legge sulle intercettazioni. Serve a impedire che si spezzi la magia della "Storia italiana". L'unica biografia del paese veramente autorizzata.

(24 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/24/news/diamanti_intercettazioni-4287847/?ref=HREA-1
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« Risposta #164 inserito:: Giugno 02, 2010, 11:52:34 am »

Una società senza baroni (e possibilmente senza università)
 
Ilvio Diamanti
 
Pare che gran parte dei problemi del paese siano riassumibili nel binomio vizioso Statali-Professori. Certo, altre categorie sono, da tempo, bersaglio di critiche durissime. Fra tutti: i magistrati. Ma loro, almeno, hanno potere. Altrimenti non continuerebbero ad essere, dopo tanti anni, al centro di attacchi – sempre più duri - da parte del premier e della classe politica  - soprattutto, ma non solo – di centrodestra. Degli statali, invece, “non glie ne frega niente” a nessuno, ormai. La manovra finanziaria del governo, per metà, grava su di loro. Il che - al di là del merito – non ha sollevato nessuna reazione, nessuna protesta. Quasi che, ormai, non si attendessero alcun ascolto. Perché reagire se non ti aspetti alcuna solidarietà sociale - visto che, da fannullone quale sei, il tuo stipendio è, per definizione, rubato?

La posizione dei professori universitari è, in parte, diversa. Difficile sostenere che non contino nulla. Ma, sicuramente,  sempre meno.
D’altronde, nell’università (iniziale minuscola) non si investe più. (Come nella Cultura: iniziale maiuscola.) Un ambiente in cui è lecito risparmiare, “tagliare”, se hai bisogno di ridurre la spesa pubblica. Tanto la colpa è soprattutto loro. Dei Baroni. Che costano tanto e fanno poco. Anzi, nulla. In fondo sono “statali”. I Baroni: non si riesce a mandarli via. Fino a pochi anni fa andavano in pensione quasi a 80 anni. Poi, l’età della pensione, per loro, si è abbassata. Fino a 70. Raro caso – forse unico - in cui si spinge per anticipare l’età della pensione, invece di ritardarla. Ma, come si sa, i Baroni non solo costano, fanno poco o nulla. In aggiunta, impediscono il reclutamento dei più giovani. Visto che, ormai, l’età media dei ricercatori si aggira intorno ai 50 anni. Mentre l’università si è popolata di figure precarie che più precarie non si può. Assegnisti, borsisti, contrattisti. Chiamati, per quattro soldi (e a volte neppure quelli)
 a far di tutto. Anche lezione, ovviamente. Come i ricercatori – sempre più attempati, ma ancora ricercatori. E chiamati, ovviamente, a tenere corsi, a fare anch’essi i “professori”. Senza esserlo. Anzi, restando ricercatori – a vita. Visto che il reclutamento è bloccato (non dai Baroni) e loro sono divenuti un ruolo “a esaurimento”. Rimpiazzati da nuovi ricercatori – ma a tempo determinato. Tanto per chiarire che il futuro dell’università è incerto. A tempo determinato, appunto. Come la cultura. Di eterno, ormai, c’è solo il presente. E il premier.

Così, per rimediare, per svecchiare il corpo docente, per ridurre la spesa universitaria, per accelerare il turnover, conviene spingere i Baroni fuori dall’università il più presto possibile.  Va in questa direzione la proposta del PD approvata dall’Assemblea nazionale: mandare i Baroni in pensione “ obbligatoria” a 65 anni. Mario Pirani, nella sua “Linea di confine”,  una settimana fa ha già espresso, al proposito, critiche molto accurate. Da me, molto condivise. A cui aggiungerei un appunto. Molto personale – lo ammetto.

Riguardo all’invecchiamento dei Baroni, ma anche gli altri: i Conti e gli Scudieri. Gli Associati e i Ricercatori.  I quali sono “vecchi” non (tanto) per colpa dei Baroni, eterni e immortali. Ma del meccanismo stesso che regola il reclutamento e le carriere nell’università. Autobiograficamente: io, che non ho avuto Baroni a trainarmi, ma molti colleghi e maestri, con i quali ho collaborato, studiato, scritto e pubblicato, ebbene, sono diventato di “ruolo”, ho, cioè, vinto il concorso di ricercatore, quando avevo 40 anni. Prima - e per 14 anni - ho fatto il precario. A mia volta: assegnista, borsista, “ esercitatore”. E poi dottorando e dottorato. Per mantenermi (ma anche per passione), ho diretto un ufficio studi sindacale, poi ho fatto il ricercatore di professione. Così come, durante gli studi universitari, per sostenere i costi e aiutare la famiglia, ho fatto molti altri “lavori”. Fra l’altro: il benzinaio, l’assicuratore, il venditore di enciclopedie,
l’operaio. Un’esperienza veramente formativa.

Poi, a 40 anni, dopo tanti anni precari, tante ricerche e tante pubblicazioni (non avere Baroni ha i suoi lati positivi; in particolare: sei più libero), finalmente ricercatore. E quindi uno stipendio regolare per fare quel che mi piace e avevo, comunque, fatto da sempre.
Per questo non l’ho mai concepito come un “lavoro”. Da allora, pochi anni dopo, sono divenuto un Barone (ora si dice così). Anche se come Barone sono un disastro, a valutare dalla capacità di curare la politica interna all’accademia (per informazioni, chiedere ai colleghi – più giovani - che collaborano con me).  Preferisco fare ricerca, scrivere, insegnare piuttosto che gestire i concorsi. Se davvero mi chiedessero di andare in pensione a 65 anni, temo che, alla scadenza, non raggiungerei i requisiti minimi di anzianità richiesti. A meno di non “riscattare” (si dice così?) gli anni della laurea, del dottorato, ecc… A un costo, mi si dice, tale da azzerare i primi anni di pensione. Per fortuna, ho ancora un po’ di tempo – un po’ di anni di università - davanti, per organizzarmi.

Tuttavia, dubito seriamente che, al mio posto e con il mio stipendio, entrerebbero tre nuovi, giovani ricercatori, come si ipotizza. Intanto perché di giovani, all’università, non ne vedo più. I collaboratori, intorno a me, ormai hanno i capelli bianchi, hanno messo su famiglia, sprezzanti del rischio: hanno persino fatto figli. Magari potessero subentrare a me, loro, precari ad alta qualificazione e con “tanti tituli”. Se così fosse davvero, me ne andrei prima. Anche subito. Magari all’estero, dove in un paio di università, almeno, e in un paio di paesi, almeno, un vecchio Barone come me troverebbe ancora posto. Senza molti problemi

Ma continuo a dubitare che al posto dei Baroni 50-60enni, subentrerebbero davvero tanti giovani ricercatori. Credo e, anzi, temo che – invece -  il “taglio” avverrebbe con pochi rammendi. Senza turnover. Chi è fuori ci resterà, raggiunto dai neopensionati.  Tutti in cammino verso una società senza (o meglio: con sempre meno) “statali”. E senza Baroni. Verso una società popolata da lavoratori autonomi.
Artigiani, commercianti, liberi professionisti. Imprenditori. Grandi, medi, piccoli e piccolissimi. E da lavoratori dipendenti. Ma Privati. D’altronde, come rammentava Eugenio Scalfari domenica scorsa, “gli statali votano in larga maggioranza a sinistra”. E, aggiungo, i Baroni ancor di più. “Il loro scontento non peserà, se non marginalmente, sul consenso raccolto dal governo”. Perché mai, dunque, dovrebbe preoccuparsene il governo  insieme alla Lega e al centrodestra?

Mi sfuggono, semmai, i motivi, le ragioni per cui ci stiano pensando l’opposizione e il PD. Forse perché è più facile – e popolare -  combattere i Baroni che il Cavaliere.

(31 maggio 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2010/05/31/news/una_societ_senza_baroni_e_possibilmente_senza_universit_-4468962/?ref=HREC1-5
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