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« Risposta #135 inserito:: Novembre 22, 2009, 05:24:03 pm » |
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Pd, il risveglio del partito latente
di ILVO DIAMANTI
Il Partito Democratico sta crescendo. Nei sondaggi, perlomeno. Al contrario dell'inizio del 2009, quando assegnavano al Pd circa il 23%. Il che spinse Veltroni a dimettersi anzitempo, in febbraio.
Da un paio di mesi, invece, si assiste a una risalita, anche rispetto al risultato delle elezioni europee di giugno (26% dei voti validi). I sondaggi, al proposito, mostrano oscillazioni ancora significative. L'Ispo di Renato Mannheimer situa il Pd intorno al 28%. Come Euromedia, diretta da Alessandra Ghisleri, l'istituto di fiducia di Berlusconi. L'Ipsos di Nando Pagnoncelli, invece, stima il Pd oltre il 30%. Secondo il politologo Paolo Natale (su Europa), avrebbe superato la soglia del 31%. Come spiegare una crescita così continua (perlomeno nei sondaggi)?
1. Anzitutto, con l'effetto della stagione congressuale. Lunga e contorta, come abbiamo rilevato - polemicamente - prima dell'estate. Però è servita a strutturare un partito che prima non c'era. La fase dedicata agli iscritti ha, appunto, restituito il Pd agli iscritti. E gli iscritti al Pd. Ha, inoltre, attribuito un ruolo agli apparati locali e centrali. Nel bene e nel male: si è ricostruita, in qualche misura, l'organizzazione di partito. Le primarie, invece, hanno confermato la domanda di partecipazione che anima gli elettori del centrosinistra. Vi hanno partecipato circa tre milioni di persone. Tante. Questa mobilitazione ampia, durata mesi, ha fornito visibilità a un partito a lungo "latente". Ne ha risvegliato gli elettori "latenti".
2. Poi, oggi il Pd dispone di una leadership legittimata dal voto degli iscritti e degli elettori. Dopo un confronto vero, fra candidati che si sono sfidati senza esclusione di colpi. Questa divisione, lamentata da molti, ha dato l'idea di una competizione aperta che, in passato, non c'era mai stata. Nel 2005 e nel 2007 le primarie avevano "plebiscitato" un candidato pre-stabilito. Certo, Bersani deve dimostrare di essere capace di sottrarsi al condizionamento dei "soliti noti". Ma dispone di un'investitura ampia. Accompagnata da un grado di fiducia elevatissimo presso gli elettori (non solo del Pd). Favorito dall'immagine di competenza e concretezza che sta trasmettendo. Prima di lui, Franceschini aveva guidato il partito in condizioni di emergenza. Erede di un leader dimissionario, era apparso - necessariamente - un segretario provvisorio e di passaggio. Difficile, per il Pd, non essere percepito, a sua volta, come un partito provvisorio e di passaggio. Oggi il Pd non è divenuto un "partito personale", ma è certamente meno impersonale di prima. E la sospensione delle ostilità interne, la stessa uscita di Rutelli, ne hanno rafforzato l'immagine di coesione e unità.
3. Un ulteriore motivo della risalita del Pd, nelle stime elettorali, è riconducibile all'asfissia delle formazioni di sinistra, ma soprattutto al parallelo calo dell'Idv. Che riflette un certo declino dell'immagine (e della visibilità mediatica) del suo leader, Di Pietro. D'altronde, l'Idv è un partito personale. Fino a ieri: Lista Di Pietro. Lo stesso dualismo con De Magistris ne mina l'identità. Tuttavia, conta anche il ritorno di una domanda di opposizione "politica" più che espressiva. Partitica più che personale.
4. D'altronde, siamo entrati in una fase di campagna elettorale. Non tanto per le minacce di voto politico anticipato. (Non se ne vedono le condizioni). Ma perché sono prossime le elezioni regionali. Le quali avranno, assai più che le europee, un significato politico nazionale, oltre che territoriale. Per gli elettori e per i partiti. Lo schema della competizione regionale, d'altra parte, è "maggioritario" (e "presidenzialista"). E il risultato del voto avrà effetti molto più diretti sulla realtà politica e sulla vita delle persone, rispetto alle europee. Per cui, presso gli elettori, la domanda di "vincere" e di governare è destinata a prevalere sulla voglia di fare opposizione e sull'indignazione.
5. Ancora: la ripresa del Pd riflette quella del Pdl. Che i sondaggi stimano oltre il 38%. Nonostante la fiducia nel leader-premier non sia cresciuta, ma semmai calata, dopo le elezioni europee. Tuttavia, la figura di Berlusconi, in questa fase, ha ulteriormente polarizzato la meccanica del sistema partitico. Anzi: l'ha bipartizzata. L'identificazione tra Berlusconi e il Pdl - insieme alla centralità della questione giustizia - ha ridotto la visibilità della Lega. Invischiata nella discussione sulla spartizione delle candidature in vista delle prossime elezioni regionali. Definita su basi rigidamente nazionali. E personali: attraverso il dialogo diretto e personale fra Berlusconi e Bossi. Ebbene: anche la Lega, come l'Idv, appare in lieve flessione, nei sondaggi. Perché l'asse della politica nazionale si è spostato sul Pdl di Berlusconi. E valorizza, di riflesso, il Pd.
Resta il problema di fondo. Il Pd è ancora lontano dal Pdl: 7-8 punti percentuali. Il bacino elettorale a cui si rivolge, a sinistra, si è ridotto. Il suo alleato più stretto, l'Idv, è divenuto un competitor, a livello nazionale. Mentre sul territorio è un alleato debole, perché non ha radici. Per cui dovrà riesaminare il tema delle alleanze, guardando, necessariamente, al centro. All'Udc, più che a Rutelli (la cui uscita non sembra avere scalfito, per ora, l'elettorato del Pd né quello dell'Udc). Soprattutto, però, il Pd dovrà chiarire meglio il proprio progetto. La propria offerta politica. Un ambito ancora nebuloso. Non può restare a lungo così. Né può immaginare di affidare la propria identità al solo leader. Inseguendo il Pdl di Berlusconi sul suo terreno (mediatico). Per tornare ad essere un'opposizione credibile e possibile. Capace di raccogliere il voto di un terzo degli elettori. E di attrarre altri partiti, intorno a sé. Senza divenire ostaggio di alleanze tanto larghe quanto incoerenti. Il Pd: non può accontentarsi di rappresentare il "male minore".
© Riproduzione riservata (22 novembre 2009) da repubblica.it
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« Risposta #136 inserito:: Dicembre 07, 2009, 11:26:15 am » |
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La religione senza Dio
di ILVO DIAMANTI
È impossibile separare la religione dalla politica, in Italia. Tanto più dopo la fine della Dc, quando la Chiesa è tornata a rappresentare i valori, i principi, ma anche gli interessi dei cattolici in Italia, in modo autonomo e diretto. Il fatto è che oggi altri soggetti, oltre alla Chiesa, svolgono lo stesso ruolo. Talora in competizione, perfino in disaccordo con essa. Come dimostra la pesante polemica lanciata, ieri, dalla Lega contro il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano.
Ma gli esempi sono molti. Basta pensare alla proposta di inserire la croce nel tricolore. La bandiera nazionale. Avanzata (ancora) dalla Lega e apprezzata dal ministro Frattini, dopo il referendum che, in Svizzera, ha bloccato la costruzione dei minareti. D'altronde, la Lega si oppone alla costruzione delle moschee in molte realtà locali, insieme ad altri gruppi e partiti politici della destra (non solo) estrema. Xenofobia e islamofobia si mischiano e si richiamano reciprocamente, in nome delle radici cristiane dell'Europa e, soprattutto, dell'Italia. Come dimostrano le polemiche suscitate dalla decisione della Corte europea contro l'esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Criticata, in Italia, da gran parte delle forze politiche, di destra e di sinistra. Tutte impegnate a difendere l'identità cattolica. Anche a costo di entrare in contrasto con la Chiesa. Di assumere posizioni più clericali della Chiesa. Non nel caso del crocifisso, ovviamente, ma nelle altre vicende citate. Le moschee, i minareti. In generale: le politiche sull'immigrazione e i rapporti con gli stranieri. Su cui la Chiesa, attraverso le sue organizzazioni e i suoi media, ma anche attraverso la gerarchia (non solo il cardinale Tettamanzi, ma tutta), ha assunto posizioni molto lontane dalla Lega e dal centrodestra. Schierandosi a favore del diritto di culto e di fede religiosa, anche per gli islamici. E, dunque, in disaccordo con le guerre di religione lanciate contro i minareti e le moschee. E contro gli immigrati.
Da ciò il singolare (ricorrente) contrasto, fra la Chiesa e la Lega - spesso affiancata dagli alleati di centrodestra - nella rappresentanza dei valori religiosi e della "comunità cattolica". Il fatto è che il valore della religione va ben oltre i confini della fede e della comunità dei credenti. D'altronde (Demos, 2007), l'insegnamento della religione nella scuola pubblica, in Italia, è approvato da 9 persone su 10. E dalla maggioranza degli stessi elettori di sinistra. Lo stesso per l'esposizione del crocifisso. Perché, come ha rammentato il sociologo Jean-Paul Willaime su Le Monde: "Tutte le società europee, per quanto secolarizzate, non sono mai uscite del tutto da una concezione territoriale di appartenenza religiosa; gli stessi immaginari nazionali non sono completamente neutri dal punto di vista religioso".
Così, anche in presenza di un declino sensibile della pratica rituale, ai partiti populisti diviene possibile riattivare - e sfruttare - le componenti religiose dell'identità nazionale e territoriale. Non solo: la religione viene usata come strumento di consenso partigiano ed elettorale. Lo ha fatto la Lega fin dagli anni Novanta, in polemica aperta e dura contro la Chiesa nazionale, nemica della secessione. Lo scontro è proseguito in seguito, sui temi della solidarietà sociale, soprattutto verso gli immigrati. Sulla questione dell'integrazione. La Lega, in altri termini, si è proposta essa stessa alla guida di una religione senza Chiesa - e senza Dio. I cui valori, simboli, luoghi vengono fatti rientrare dentro i confini dell'identità territoriale. Ne diventano riferimenti fondamentali. D'altronde, il ruolo della religione nella costruzione dell'immaginario locale e nello stesso mondo intorno a noi - per riprendere la suggestione di Willaime - è innegabile e molto visibile. Un santo al giorno, scandisce il calendario. Le festività. Gli atti che accompagnano la biografia di molte persone: dal battesimo al matrimonio fino al funerale. E ancora, ogni giorno: le ore battute dai campanili. I quali, insieme alle chiese e alle cattedrali, fanno parte del nostro paesaggio quotidiano. Il che spiega, in parte, la reazione sollevata dalla possibile costruzione di luoghi di culto di altre religioni. Le moschee. Figuriamoci i minareti. Capaci di produrre una rottura rispetto al passato, resa visibile - anzi: appariscente - da uno skyline urbano inedito. Il che genera incertezza e inquietudine, soprattutto quando, come in questa fase, le appartenenze territoriali - nazionali e locali - sono scosse violentemente dalla globalizzazione, ma anche dai mille muri sorti dopo la caduta del Muro.
In Italia questo problema appare particolarmente rilevante, perché si tratta di un paese diviso, con un'identità nazionale debole e incompiuta. La Lega offre, al proposito, risposte semplici e rassicuranti a problemi complessi. Reinventa la tradizione per rispondere al mutamento. Recupera le radici cristiane di una società secolarizzata, le impianta sul territorio. Ricorre a simboli antichi per affrontare problemi nuovi. Lo spaesamento, l'inquietudine suscitata dai flussi migratori. Gli stranieri diventano, anzi, una risorsa importante per rafforzare l'appartenenza locale. Per chiarire chi siamo Noi attraverso il distacco dagli Altri. Lo stesso crocifisso si trasforma in simbolo unificante, avulso dal suo significato. È la croce da associare al tricolore. Dove la croce è più importante del tricolore. Una bandiera che, secondo la Lega, evoca una nazione inesistente. Mentre la croce evoca lo "scontro fra civiltà". La crociata contro l'Islam, che ha l'epicentro nel Nord, dove l'immigrazione è più ampia. D'altra parte, su questi temi gli italiani e gli stessi cattolici si trovano spesso d'accordo con la Lega e con gli alleati di governo (a cui essa detta la linea). Molto meno con le posizioni solidali e tolleranti espresse dalla Chiesa (Demos per liMes, 2008).
La sfida della Lega è, dunque, insidiosa. Perché etnicizza la religione. Costruisce, al tempo stesso, una patria e un'identità. Ma anche una religione alternativa. In tempi segnati da una domanda di appartenenza e di senso acuta e diffusa. Di fronte a questa sfida, le scomuniche e l'indignazione rischiano di risultare risposte insufficienti. Inadeguate. Per gli attori politici. (Tutti, non solo quelli di sinistra. Anche per gli alleati di centrodestra). Ma soprattutto per la Chiesa.
© Riproduzione riservata (7 dicembre 2009) da repubblica.it
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« Risposta #137 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:36:49 pm » |
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Rubriche » Bussole Il Natale è fuggito
di ILVO DIAMANTI
Ormai è Natale. Mancano un paio di settimane appena. Un'occasione per vedere come cambiano le cose intorno a noi. In fondo, a questo servono gli anniversari. A ricordare e a ricordarsi. Nel caso del Natale: a verificare quanto e cosa significhi per noi. Così ho ripreso la mia esplorazione, guidato da Mambo, il mio schnauzer. Che mi trascina sempre più lontano da casa mia. Un po' per suo piacere. Un po' perché, un mese dopo l'altro, le zone e le strade non edificate si allontanano sempre più. Nell'ultimo anno: sono sorti almeno un paio di condomini, ciascuno con 10-15 appartamenti. Anche se non capisco quanti di essi effettivamente siano abitati. Il mio giro con Mambo, peraltro, è un'occasione utile e piacevole anche per me. Ne approfitto per leggere, telefonare. Senza troppa concentrazione: tanto mi guida il cane. Io con Mambo, Berselli con Liù: abbiamo parlato spesso, nel corso di questi anni.
Il giro si conclude, puntualmente, intorno a una rotonda. Nel corso degli anni si è evoluta in modo sorprendente. All'inizio non si capiva a che servisse. Così sperduta in mezzo alla campagna. Ora invece è alla confluenza di un incrocio. Da un lato, una nuova strada - chiusa da una sbarra - ha occupato quella che prima era campagna aperta (due cani fa, negli anni Ottanta, ci venivo spesso con Snoopy, un meticcio: la testa di un setter sul corpo di un cocker. Lo lasciavo libero di correre, tanto non c'era nulla).
Ora è costeggiata da una lunga serie di nuovi condomini colorati. Non ancora abitati. (Forse; ma non è detto). All'altro lato della rotonda: una strada non ancora asfaltata. Immagino lo sarà presto. E anche lì, nuove case, nuovi condomini. O forse una zona artigianale, chissà. Case e capannoni, d'altronde, crescono a prescindere dalla domanda, com'è noto. Sono bolle. Volano alte e qualche volta scoppiano. Poco lontano da qui, dove un tempo c'era l'aeroporto Dal Molin, si continua a scavare e a costruire. Intorno sorgeranno altri edifici e tante, tante rotonde.
Rispetto allo scorso anno, gli alberi di Natale mi sembrano ulteriormente rarefatti. Può darsi che sorgano all'improvviso, nelle due prossime settimane. Ma per ora non ne vedo nessuno. Dietro alle finestre non si intuiscono neppure i presepi. Un tempo, ma tanto tempo fa, a casa mia lo si preparava a inizio dicembre. E io ho proseguito la tradizione con i miei figli. Quand'erano piccoli ci aggiungevano i personaggi del loro tempo. Ufo robot, le tartarughe Ninja. Oggi lo facciamo io e mia moglie. Riprendiamo la scatola degli anni passati, giù in garage. Con i pezzi tradizionali. Pastori, pecore, contadini. Ma in giro ce ne sono pochi, ormai. Se non in formato bonsai: capanna, madonna, Giuseppe, bue e asinello. E il bambin Gesù già nato, senza attendere la notte di Natale.
Dice la Lega: più presepi e meno moschee. Moschee non se ne vedono, presepi nemmeno. È il declino del sacro, altro che invasione dell'islam! Anche gli addobbi consumisti, però, latitano. Fili luminosi e stelle rosso porpora. Li avranno concentrati in centro città. Qui attorno proprio non si vedono. Sarà l'effetto della crisi, che inibisce l'esibizione della festa. Invece, qui e là, sono ricomparsi i babbi natali. Appesi alle finestre e ai balconi. Attaccati ai muri. Come ladri. Qualcuno mi ha detto che è lecito abbatterli a fucilate, per legittima difesa. Ci sto pensando seriamente.
Il tempo-meteo non aiuta a creare l'atmosfera. Oggi, ad esempio, è un giorno luminoso e fa discretamente caldo. È quasi primavera. Negli scorsi giorni: autunno piovoso. Neanche un fiocco di neve. Anche il Pasubio, all'orizzonte, è appena sbiancato. Insomma: quando mancano due settimane appena, quest'anno, si vedono poche tracce del Natale. Forse sta arrivando. Magari arriverà domani, senza preavviso. Oppure stavolta se n'è andato. È fuggito altrove. Può darsi che ritorni. Però non pare siano in tanti ad attenderlo.
(10 dicembre 2009) da repubblica.it
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« Risposta #138 inserito:: Dicembre 13, 2009, 05:06:33 pm » |
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Se il Carroccio diventa una Lega nazionale
di ILVO DIAMANTI
In questi giorni concitati sembra che, in Italia, esista solo Berlusconi. Impegnato nella sua lotta quotidiana con quanti ce l'hanno con lui. Più o meno tutti, cioè. Persone e istituzioni. Magistrati e alte cariche dello Stato. E alleati che occupano alte cariche dello Stato, come il presidente della Camera Gianfranco Fini. Capo dell'opposizione di centrodestra. Anzi, dell'opposizione.
Eppure, oggi più che mai, l'attore politico più importante della maggioranza è la Lega. Le guerre personali e di fazione che agitano il Pdl e Berlusconi la rafforzano. D'altronde, il suo peso politico, negli ultimi anni, non ha smesso di crescere. Anzitutto, per motivi elettorali. Ha superato l'8% dei voti validi alle politiche del 2008 e il 10% alle europee del 2009. Tuttavia, nel 1996 - e anche nel 1992 - aveva ottenuto un risultato migliore. Ma allora correva da sola contro tutti. Oggi è al governo. I suoi elettori occupano circa un quarto dell'area di centrodestra, in Italia. Ma oltre il 40% nelle regioni del Nord (al di sopra del Po). Dove, alle elezioni politiche del 2008, si è imposta come primo partito in 800 comuni su circa 4000. Ma il suo peso politico è molto superiore a quello elettorale (come ha lamentato di recente Piero Ignazi sull'Espresso). Perché, senza la Lega, per Berlusconi, le elezioni diventano un azzardo. Lo ha sperimentato nel 1996. Non ci proverà più. E per evitare tensioni, alle prossime elezioni cederà la presidenza di - almeno - una grande regione del Nord.
La forza della Lega riflette, in modo simmetrico, le debolezze del principale partito di maggioranza. Il Pdl. E i tormenti del suo leader, Silvio Berlusconi. Il Pdl non è ancora un partito. Appare, invece, una somma di elettorati e di gruppi dirigenti, senza un'effettiva identità condivisa. Fin qui, alle elezioni ha raccolto fra 35 e il 37% dei voti validi. Più o meno la somma dei risultati ottenuti dai partiti da cui origina. I quali, tuttavia, continuano a operare divisi, a livello locale. C'è poi il problema della leadership. Certo: Berlusconi è indiscutibile, ma Fini lo discute. Quasi ogni giorno. In fondo: logora il carisma del "capo assoluto". Così Berlusconi è costretto a legarsi sempre di più alla Lega. Compatta: in Parlamento e sul territorio, guida una maggioranza spesso incerta e divisa. Ne costituisce la bussola. Orientata a Nord. Come i ministri-chiave del governo. Leghisti e no. Tremonti e Maroni, anzitutto. Poi Brunetta, Sacconi, Gelmini, Zaia. Scajola. Lo stesso La Russa, politicamente, è milanese. Il Sud. La Sicilia, un tempo bacino elettorale di FI, oggi contesa da altri soggetti regionalisti, è rappresentata - soprattutto e anzitutto - dal ministro Alfano. Impegnato a tempo pieno nella "guerra" contro i magistrati. Accanto al suo leader.
La Lega, dunque, garantisce un consenso essenziale al governo e al premier - in ogni occasione e in ogni materia. In cambio del sostegno alle politiche che le interessano maggiormente. A favore del Nord e in tema di sicurezza. Nel frattempo, sta ridimensionando la sua "eccezione", sul piano territoriale e sociale. Alle europee, ha colorato di verde le regioni rosse dell'Italia centrale. Dal punto di vista socio - anagrafico, continua ad attirare i piccoli imprenditori e i lavoratori dipendenti della piccola impresa privata. Ma, fra i suoi elettori, è cresciuta la presenza dei giovani. E, soprattutto, quella delle donne. Fino a 10 anni fa, era un partito maschio e maschilista. Oggi quasi metà del suo elettorato è composto da donne. Insomma, il suo elettore "medio" si è avvicinato alla "media sociale". Da cui si distingue per gli atteggiamenti: perché riassume - enfatizzate - le fobie del nostro tempo. Su queste paure - oltre che sulla radice territoriale - la Lega ha fondato la propria offerta politica, negli ultimi anni. E, al contempo, ha costruito l'identità politica della maggioranza di centrodestra. Più di quanto non abbia fatto lo stesso Berlusconi. Imprigionato in una sorta di autismo, che lo spinge a riproporre se stesso come mito ed esempio. Mito esemplare. L'italiano tipo. La Lega, invece, agita la società, ne ascolta il rumore. E lo amplifica con argomenti espliciti e un linguaggio violento. Con iniziative polemiche dall'intento simbolico ed educativo.
È la Lega degli uomini spaventati, che raccoglie le paure e le moltiplica. Capta la xenofobia e la riproduce. È la Lega dei localismi, che intercetta lo spaesamento prodotto dalla globalizzazione. Dalla caduta del Muro e dei muri. Intercetta il distacco dallo Stato, dalle istituzioni, dalla Ue. E lo amplifica. È la Lega dei cattolici senza fede. Sorta nel vuoto prodotto dall'eclissi del sacro - per citare Sabino Acquaviva - e dalla secolarizzazione. Propone una nuova religione. Naturalmente secolarizzata. Senza Dio e senza chiesa. Sovente, contro la Chiesa. D'altra parte, nella sua base elettorale è maggioritaria la presenza dei cattolici non praticanti. Molti dei quali riducono la religione a una cornice del senso comune. Un sistema di valori e di credenze che usa la tradizione per "difendersi" dalla (post) modernità.
Il paradosso è che la Lega, in questo modo, si distacca dal suo specifico territoriale. Non ambisce (solo) alla "corona longobarda", come ha suggerito Gad Lerner su Repubblica. Sta, invece, mutando in "Lega Nazionale". Non solo perché il suo elettorato ha superato i confini del Po. Non solo perché è il perno del governo nazionale. Ma perché, con le sue polemiche, le sue politiche, le sue parole sta affermando un'idea di "nazione" piuttosto precisa a un paese dall'identià incerta. Attraverso l'opposizione agli stranieri, agli immigrati, all'Islam. Il distacco fra noi e gli altri. La Lega: rivendica il tricolore e la croce, uniti per dividere. Dagli stranieri. Fa riferimento esplicito al nostro "carattere nazionale". Evoca una "nazione" di individui e di localismi, che chiedono protezione allo Stato, ma ne diffidano. Invocano la tradizione e i suoi principi. Ma vogliono essere liberi da ogni regola. Da ogni limite. Correre felici a 150 all'ora. E oltre. Una Lega veloce. Nazionale. Mentre Berlusconi corre dovunque. Ma, alla fine, è sempre lì. Gira intorno a se stesso.
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« Risposta #139 inserito:: Dicembre 27, 2009, 10:43:04 am » |
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Il falso mito del senso comune
di ILVO DIAMANTI
E' tornato a parlare agli italiani, Silvio Berlusconi, dopo l'aggressione avvenuta a Milano due settimane fa.
E la soddisfazione, nelle sue parole, ha largamente sopraffatto i segni della paura e del dolore. D'altronde, il moto di emozione e di solidarietà, seguito all'episodio, ha aiutato Berlusconi a risalire nei sondaggi, dopo mesi e mesi di declino. Il premier non ha mancato di rammentarlo in una telefonata al Tg1, due giorni fa, citando i suoi sondaggi personali. Secondo i quali due italiani su tre lo incoraggiano ad andare avanti (dati Euromedia). Oggi, d'altronde, anche altri istituti demoscopici confermano questa tendenza, seppure con stime diverse e più ridotte. La quota di elettori che esprime un indice di fiducia almeno "sufficiente" nei confronti del premier (con un voto da 6 a10) è intorno al 55-56%, secondo l'Ipsos diretta da Nando Pagnoncelli. Lo stesso dato è indicato dall'Ispo di Renato Mannheimer. In entrambi i casi: una crescita di 6-7 punti percentuali.
Da ciò la determinazione del premier ad andare avanti nell'azione di governo e con le riforme. Perché il suo volto, più degli altri, raffigura e rispecchia il "senso comune". La volontà popolare degli italiani, che magari provano disagio verso i suoi comportamenti e il suo relativismo etico. Ma, in fondo, anche per questo, lo percepiscono come uno di loro. E gli vorrebbero assomigliare. Questi italiani: individualisti e familisti, spacconi e donnaioli, un po' evasori, diffidenti verso i poteri pubblici, liberisti a parole, soprattutto quando si tratta degli altri. Innamorati dell'immagine, sperduti nel mondo dei media e della televisione, attratti dal gossip e dai salotti tivù. E, quindi, dal principale protagonista e autore della realtà mediale. Lui. Silvio Berlusconi. L'aggressione ai suoi danni e il suo volto insanguinato: uno degli eventi mediatici del decennio. Lo hanno beatificato. La vittima sacrificale dell'odio espresso dalla parte invidiosa del Paese oggi è stata risarcita moralmente.
E pochissimi si sono azzardati a eccepire. Criticare. Salvo i soliti noti - Di Pietro in testa. Condannati alla pubblica esecrazione. L'onda impetuosa della solidarietà personale verso il premier sembra aver trascinato con sé anche il consenso per le riforme. Che, come ha affermato Berlusconi nella telefonata al Tg1, verranno fatte senza esitazioni. A partire, immaginiamo, da quella sulla giustizia. E dai provvedimenti utili ad allontanare gli effetti dei processi che lo riguardano. In nome dello snellimento della macchina giudiziaria. A tutela delle alte cariche dello Stato ma anche di governo.
E' il potere del "senso comune". Che, oltre a Berlusconi, vede protagonista anche la Lega, che interpreta e respira le paure "della gente". Invece l'opposizione - la sinistra, il centrosinistra e perfino il centro - è troppo aristocratica per immergersi nel "senso comune" che pervade la vita quotidiana, dove c'è bisogno di certezze. Un mondo di cose date per scontate che, tuttavia, si possono costruire e manipolare. Semplicemente isolando alcuni aspetti e rimuovendone altri. Ad esempio, se consideriamo i dati di Ipsos presentati da Pagnoncelli a Ballarò (martedì 22 dicembre), Berlusconi è "gratificato" dal 55% di italiani che nutrono fiducia (alta, ma anche appena discreta) nei suoi riguardi. Ma altri leader politici e istituzionali e altre figure pubbliche non sono da meno. Oppure lo superano largamente. Il Presidente della Repubblica Napolitano: 84%; il Presidente della Camera Fini: 68%; il Ministro dell'Economia Tremonti: 56%; il presidente della Fiat e della Ferrari, Cordero di Montezemolo: 55%. Perfino Bersani si attesta al 54%.
Insomma, la pietas suscitata dall'aggressione di Tartaglia ha permesso a Berlusconi di riprendere consensi. Senza tuttavia svettare sugli altri. Lo stesso vale per i giudizi politici e sulle politiche. La fiducia nel governo è anch'essa risalita. Tuttavia, il giudizio dei cittadini sulle "politiche" non è cambiato rispetto a prima. In particolare, in tema di giustizia (ancora Ipsos). Sulla "sospensione temporanea dei processi o su una legge 'ad personam' che permetta di sbloccare la situazione politica" e di riprendere il dialogo sulle riforme si dice d'accordo solo il 25% degli elettori. Un italiano su quattro. E il 48% degli elettori di Pdl e Lega. Cioè: meno della metà. La solidarietà verso il premier e la sua maggioranza non si traduce, quindi, in consenso verso le leggi "ad personam". Né verso scorciatoie come il cosiddetto "processo breve", percepito alla stregua di un indulto. Che fa rima con "insulto". Tanto che nel luglio 2006, quando venne approvato dal governo Prodi, ne trascinò in basso il consenso. Immediatamente. Con il contributo della propaganda di alcune forze politiche oggi al governo e allora all'opposizione.
Non è di senso comune, però, neppure l'appoggio alle politiche del governo su "lavoro e occupazione", valutate negativamente dal 60% degli elettori, mentre i provvedimenti in materia di tasse e fisco sono avversate dal 56% della popolazione. Inoltre (Demos-Coop, dicembre 2009), il 70% degli italiani si dice favorevole alle manifestazioni a sostegno della libertà di stampa e addirittura l'86%, cioè la quasi totalità, approva le proteste contro i tagli e le carenze di risorse relativi alla ricerca. D'altronde, nella gerarchia dei problemi da affrontare, per gli italiani, i temi dell'occupazione e dello sviluppo sono di gran lunga prioritari. Le riforme istituzionali e sulla giustizia, invece, in fondo alla lista. Senza eccessive differenze fra destra e sinistra.
Noi, per istinto e formazione, diffidiamo del "senso comune". Parola magica, sospesa tra mito e ideologia. Tuttavia, proprio per questo, conviene evitare di dare per scontato che gli argomenti sostenuti da Berlusconi e la Lega siano - naturaliter - di "senso comune". Popolari. E quelli dell'opposizione - di sinistra e centrosinistra e anche di centro - impopolari. Prima di convincersi che perfino fare opposizione sia impopolare. E anti-italiano. L'opposizione: almeno si informi.
© Riproduzione riservata (27 dicembre 2009) da repubblica.it
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« Risposta #140 inserito:: Gennaio 02, 2010, 12:25:06 am » |
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Benvenuto figlio unico!
di ILVO DIAMANTI
Ormai è di moda salutare i figli appena nati addobbando la casa, all'esterno, con striscioni, manifesti, nastri azzurri o rosa - dipende dal genere del neonato. E a volte con ornamenti più impegnativi. Intrecciando le piante davanti all'abitazione con fili di luce intermittente. O con altre decorazioni, che manco a Natale ...
"Benvenuto Pietro" (oppure Agata, Dario, Samuele, Greta, Mattia, Sofia, Francesco). Così che tutti sappiano. Che è arrivato il figlio/la figlia tanto atteso/attesa. Dai genitori, dai nonni, dagli zii. Non è il "figliol prodigo", che torna dopo aver dissipato tutto. Accolto con gioia dal padre "misericordioso", che per festeggiarlo fa uccidere il vitello grasso. No, gli annunci e i festoni non salutano il ritorno, ma l'arrivo di "un" figlio. Forse il primo. Forse l'unico. E i genitori, per questo, ci tengono ad annunciarlo al mondo.
Almeno: alle persone e alle famiglie che abitano intorno a loro. E che, nella gran parte, non conoscono. Perché i nuovi quartieri sono affollati da estranei. Così capita sempre più spesso di imbattersi in una bifamiliare imbandierata che celebra l'arrivo di Tito, Giorgia, Marco, Camilla, Matteo. Figli primogeniti e unici di genitori entusiasti di comunicare a tutti - persone note e sconosciute - la loro gioia. Perché il loro Signore: è nato. Difficile immaginare un atteggiamento simile a casa dei miei nonni quando "arrivarono" i miei genitori. Negli anni Venti del secolo scorso. Mia madre: settima di nove figli. Mio padre: sesto di otto.
La loro casa - per anni e anni - avrebbe dovuto essere addobbata a tempo pieno. Come tutte quelle intorno. D'altra parte, la famiglie contadine e quelle povere facevano molti figli. La famiglia di mia madre era contadina, quella di mio padre povera. Oggi le famiglie povere sono "invisibili". Nascondono la loro condizione. Quelle contadine non ci sono quasi più. Le famiglie numerose, con tanti figli, sono, perlopiù, composte da stranieri. Spesso povere. Oppure, al contrario, si tratta di famiglie ricche e borghesi. In entrambi i casi: difficilmente gridano al mondo la nascita di un nuovo figlio.
Mentre per tutti gli altri, la maggioranza dominante, è davvero un fatto raro. Da celebrare e da esporre al piccolo mondo in cui si è inseriti. Il bimbo che arriva, infatti, resterà in quella casa a lungo. Attraverso molte stagioni della vita. Fino a età avanzata. Visto che in Italia quasi tre (cosiddetti) giovani su quattro, tra 15 e 39 anni, risiedono con i genitori. Come ha rivelato l'Istat pochi giorni fa. Una "novità" nota da tempo, che ha diverse ragionevoli ragioni. Perché è difficile per i giovani (e non solo per loro) trovare casa e lavoro (per mantenersi). Perché i legami stabili sono sempre meno frequenti e, comunque, le coppie di giovani vanno a (con)vivere insieme sempre più tardi. Perché a casa con i genitori, in fondo, i figli stanno bene. Poche spese. Trovano pranzo e cena. La loro camera arredata e accessoriata con tutte le tecnologie più avanzate (a carico della famigli). Alla biancheria pensa mamma. E poi, a differenza di un tempo, dei miei tempi, sono "liberi". Di andare e venire a loro piacimento. Di fare quel che vogliono. Per cui non "vivono" con i genitori.
Ci passano e ci stazionano quando e per quanto è loro necessario. Poi ripartono. Ritornano. A volte incrociano i genitori. "Come va? dove sei stato? Quanto ti fermi? Quando riparti? Sei da solo? Hai bisogno di qualcosa?". Invece, per le generazioni precedenti andare via di casa, sposarsi, mettere su casa era un modo di fuggire, di conquistare l'autonomia. Oggi non è più così. Si è liberi anche da giovani. Quando si sta in famiglia. I figli. Da piccoli sono trattati come ninnoli. Coccolati, accuditi, assecondati. Da tutti: genitori, nonni, zii. E, ovviamente, controllati.
Tenuti d'occhio come una risorsa scarsa e - dunque - di valore. Da conservare con cura, quando crescono. Perderli, per i genitori, significherebbe restare soli. Senza rimedio. Così diventa difficile staccarsi. E figli restano nella casa in cui sono nati sempre più a lungo. Anche dopo il matrimonio. In un appartamento ricavato approfittando di qualche deroga edilizia. Oppure costruito lì accanto. Per mantenere solide relazioni di reciprocità. I nonni crescono i nipoti. I figli assistono i genitori. Così la catena biografica si allunga sempre di più. In questa costellazione di famiglie, strette e lunghe. Ma solide e radicate. Determinate a resistere e ad esistere. Piantate nello stesso luogo. Una società dove genitori, figli e nonni coabitano tanto a lungo che le distanze fra le generazioni si perdono. In un presente senza fine che si interrompe solo quando nasce un figlio. Salutato in modo vistoso, come un evento formidabile.
E allora benvenuta Federica. Benvenuto Alberto. Benvenuto Ruggero. Benvenuta Greta. Benvenuto Elia. Tracce di un futuro introvabile.
30 dicembre 2009 da repubblica.it
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« Risposta #141 inserito:: Gennaio 07, 2010, 04:55:41 pm » |
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Parole perdute: Riforme/Riformismo
Ilvo Diamanti
Ci sono parole che cambiano significato. Altre, invece, lo perdono. Fino a ieri richiamavano contenuti, idee, realtà dai contorni definiti. De-finivano. Cioè: tracciavano limiti, distanze. Distinguevano. Poi, a un certo punto ci si accorge che non è più vero. Le differenze, le specificità evocate da una parola si perdono. E quella parola non significa più nulla. O quasi. È la sensazione che si prova (io, almeno, provo), da qualche tempo, da qualche anno, di fronte a "riforme" e, soprattutto, a "riformismo". Ha una storia nobile. Identifica, nel movimento socialista, coloro che ritenevano possibile superare il sistema capitalista, dargli nuova forma. Ri-formarlo, insieme alla democrazia. Senza abbatterlo. Per cui, nel corso del tempo, il riformismo ha indicato una duplice alternativa. Da un lato, ai conservatori e, dall'altro, ai rivoluzionari (massimalisti). Dirsi riformisti, promuovere le riforme ha, per questo, diviso la sinistra. Ma anche i cosiddetti "moderati".
In un sistema bloccato, come l'Italia, dove l'alternativa nella prima Repubblica non era possibile, ha spinto la DC ad allearsi con il PSI, oltre che con i partiti laici di centro. Il riformismo: ha attraversato anche il PCI, orientando l'azione di leader e componenti importanti, al suo interno. Tuttavia, le fasi riformiste, negli ultimi 40 anni, hanno origine extra-parlamentare. Le riforme sociali degli anni 70: trainate dalla stagione di lotte sindacali. Quelle istituzionali, invocate nei primi anni 90: reazioni alla caduta della prima Repubblica. In quegli anni il federalismo diventa una "parola" di successo, che la Lega impone non per riformare la prima Repubblica, "fondata dai e sui partiti romani". Ma per abbatterla. Pratica il riformismo come metodo rivoluzionario. Negli stessi anni, fra il 1991 e il 1993, si riforma il sistema elettorale nazionale. Attraverso i referendum, promossi dai radicali e dal movimento guidato da Segni. Così il riformismo si traduce in una sorta di via "populista" al cambiamento radicale delle istituzioni. Che fa riferimento diretto al "popolo", mobilitato contro i partiti.
Riformare le istituzioni, costruire una nuova Repubblica, da allora, diviene un imperativo condiviso. Da destra a sinistra, passando per il centro. Si assiste anche a tentativi istituzionali impegnativi. È il caso della bicamerale, presieduta da Massimo D'Alema. All'opera dal 1997 al 1998, traccia diversi scenari che riguardano, in particolare, federalismo e semipresidenzialismo. Oltre che, a margine, il sistema elettorale. Ma fallisce, senza produrre risultati. Perché a Berlusconi, allora all'opposizione, interessava soprattutto la riforma della giustizia. Ieri come oggi. Ridimensionare il ruolo assunto dai magistrati dopo "tangentopoli". E gli interessava, inoltre, rientrare in gioco, dopo la sconfitta alle elezioni politiche del 2006.
Il percorso delle riforme procede, dunque, a strappi. Prodotti dai partiti, di fronte a emergenze specifiche. Come fa il centrosinistra alla vigilia delle elezioni del 2001, quando riforma il titolo V della Costituzione per introdurre il federalismo (sperando di compiacere il Nord). Con pochi voti di maggioranza. Come fanno Berlusconi e il centrodestra nel 2005, anch'essi in vista delle elezioni politiche. Elaborano e approvano un pacchetto di riforme che comprendono il rafforzamento dei poteri del capo del governo, la devoluzione. Inoltre: il sistema elettorale proporzionale con premio di coalizione. Voluto dall'UdC. È l'unica "riforma" che - purtroppo - sopravvive al referendum confermativo. In quanto non ne è oggetto, visto che non è una legge costituzionale. Così le riforme, in Italia, procedono in modo episodico e, talora, casuale. Rispondono a emergenze, provocazioni, mobilitazioni sociali e di "popolo". Oppure si realizzano "di fatto". Agendo sulle leggi esistenti con piccole modifiche successive e attraverso la pratica. In questo modo siamo divenuti uno Stato federale: attraverso il trasferimento di poteri dallo Stato agli enti locali e alle regioni. Un pezzo alla volta. Tra mille conflitti politici e inter-istituzionali. Allo stesso modo, siamo divenuti un sistema presidenziale. Solo che il presidente coincide con la figura del premier. Leader del partito e della coalizione di maggioranza. Indicato sulla scheda elettorale. In modo improprio. (Come non smette di denunciare Giovanni Sartori). Mentre il Presidente della Repubblica si è trasformato in una istituzione di garanzia. Che controlla l'azione del governo e del Presidente (del Consiglio). Sempre più impaziente e intollerante di fronte a questo e agli altri vincoli, posti dai magistrati e dagli organi costituzionali. La stessa Costituzione diviene, dunque, un problema, perché impedisce a questa Repubblica preterintenzionale di consolidarsi.
Così tutti (o quasi) vogliono - e invocano - le "riforme". Ma ciascuno pensa a cose diverse. Berlusconi per primo. Ha promesso una "grande stagione di riforme". Ma vuole, anzitutto, riformare la giustizia. Lo ha ribadito anche ieri. Pensa, poi, a dare un fondamento costituzionale al presidenzialismo di fatto che egli interpreta. Bossi e la Lega, invece, hanno in mente - soprattutto, se non solo - il rafforzamento del federalismo. Il centrosinistra sostiene la priorità delle riforme sociali. Ma in effetti appare titubante e diviso, come sempre. Di Pietro e l'IdV considerano ogni riforma quasi eversiva. Ad eccezione di quelle che permettano di cacciare il premier abusivo. Il "popolo", infine, si è stancato. La prospettiva delle riforme istituzionali non lo emoziona più. Da tempo. Ha altri problemi, altre priorità. Il lavoro, la protezione sociale. Certamente diffida delle proposte di riformare la giustizia in modo particolaristico. Così, oggi tutti - ad eccezione dell'IdV - si dicono d'accordo con l'invito di Napolitano - peraltro doveroso - a dialogare sulle riforme. E tutti si dicono riformisti. Con intenti talora conservatori, talora rivoluzionari, talora semplicemente confusi. In questo paese di riformisti a parole. Dove le riforme sono parole dette per non dire. O, comunque, senza dire. (06 gennaio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #142 inserito:: Gennaio 10, 2010, 04:01:09 pm » |
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Pdl, il non-partito senza opposizione
di Ilvo Diamanti
L´INCAPACITA' del Pd di scegliere i candidati presidenti in vista delle prossime regionali e, prima ancora, un metodo per selezionarli. I dubbi sulle alleanze da stringere. Le difficoltà profonde, che affliggono l´opposizione: rendono quasi invisibili i problemi del Pdl. Il primo partito in Italia, fra gli elettori e in Parlamento. Alla guida della maggioranza di governo. Il partito del premier, Silvio Berlusconi.
Per una volta, deve ringraziare il Pd. Accusato ? spesso ? di esistere solo in funzione antiberlusconiana. I suoi dolori hanno permesso, fin qui, al Pdl di occultare ? a se stesso, oltre che agli altri attori politici e agli elettori ? una realtà spiacevole, ma difficile da negare. Che è un partito incompiuto. La somma dei gruppi dirigenti di An e di Fi. Spesso in conflitto fra loro, a livello nazionale.
Mentre a livello locale hanno scarsa coesione e presenza. Il Pdl: nella scelta dei candidati alle regionali ha mostrato, fin qui, incertezze non dissimili dal Pd. In particolare dove è tradizionalmente più forte. Soprattutto Fi, il partito inventato e identificato da Berlusconi. Le sue roccaforti elettorali coincidono con tre regioni: la Lombardia, il Veneto ? il Lombardo-Veneto ? e la Sicilia. Oltre alle province periferiche del Nordovest e alla fascia tirrenica del Mezzogiorno. Partito network, capace di collegare gli alleati del Nord ? la Lega ? e del Centrosud ? An. Oggi non è più così. Non solo perché la fusione con An ha meridionalizzato il partito, ma perché appare incapace di imporre la propria leadership.
Nel Nord, ha ceduto il Veneto a un candidato della Lega, Luca Zaia, sacrificando Giancarlo Galan. Uomo espresso nel 1995 da Publitalia. E divenuto, in seguito, l´unica figura in grado di rappresentare Fi in Veneto. Il Berlusconi regionale. Oggi è stato richiamato in azienda. Cancellato da una stretta di mano. Fra Berlusconi e Bossi. Nonostante la resistenza di Galan e del gruppo dirigente regionale del Pdl (in particolare ex Fi). Che hanno minacciato scissioni, liste autonome. Senza seguito. Perché il Pdl, nel Veneto, ha organizzazione debole e radici fragili.
Diversamente dalla Lega. Lo stesso in Piemonte, dove per 10 anni aveva governato Enzo Ghigo, altro uomo di Publitalia. Battuto nel 2005 da Mercedes Bresso. Il prossimo candidato del centrodestra sarà un altro leghista. Roberto Cota. Certo, in Lombardia c´è Formigoni. Ri-candidato, molto probabilmente, verrà rieletto. Lo stesso governatore al governo della Regione. Per vent´anni. Una monarchia. Quasi impensabile al tempo del "regime partitocratico". Ebbene: catalogare Formigoni come uomo del Pdl e di Forza Italia è azzardato. Si tratta del leader e del rappresentante di un mondo articolato, che associa Comunione e Liberazione e la Compagnia delle Opere. Sostengono Fi e il Pdl, ma non vi appartengono. Fi e il Pdl, cioè, sono collaterali a Formigoni e al suo mondo. Non viceversa.
Infine la Sicilia. Governata da Raffaele Lombardo. Leader ? si è detto ? della "Lega Lombardo", per assonanza con l´altra Lega. Da cui ha mutuato il "legame" con gli interessi regionali, come missione. Ha cambiato alleati a seconda dell´elezione. Senza problemi e senza vincoli. Udc, Lega Nord, Pdl, Destra. Ora ha ri-formato la maggioranza in Regione. Ha cacciato dalla giunta gli uomini del Pdl, inserendo, fra gli altri, un tecnico di area Pd. Alle recenti elezioni europee, ha fatto lista comune con la Destra di Storace, superando il 15% dei voti. Mentre il Pdl ne ha perduti il 10% rispetto alle politiche del 2008. Il che ne sottolinea l´instabilità elettorale, ma soprattutto la dipendenza da liste, fazioni, frazioni politiche e personali. Oltre che da gruppi di interesse locali e regionali.
Lo stesso problema ha reso difficile al Pdl, in Campania, rinunciare alla candidatura di Nicola Cosentino, per quanto indagato. Perché, comunque, in grado di controllare ampi settori del voto, su base personale. In Emilia Romagna, invece, il candidato del centrodestra sarà Giancarlo Mazzuca. Giornalista, già direttore del Resto del Carlino. Ora parlamentare. Non propriamente un uomo cresciuto nel ? ed espresso dal ? Pdl regionale. La precarietà del partito risulta meno evidente nelle zone di forza tradizionali di An (e, prima, del Msi). In Puglia, Calabria oppure Lazio. Il problema, però, è che An non c´è più. E i gruppi dirigenti locali e nazionali che provengono da quel partito sono divisi. Tra la fedeltà a Fini e a Berlusconi.
Renata Polverini, ad esempio, già candidata alla guida della Regione Lazio, è vicina alle posizioni del Presidente della Camera. Ma proprio per questo non piace ad ampi settori del Pdl. Il cui malessere è stato espresso, a voce (come sempre) alta e forte, da Feltri e dal suo Giornale. Il quale oggi riempie il vuoto politico del Pdl. Gli fornisce argomenti e linguaggio. Indica e colpisce i nemici. Esterni e interni. È lui, oggi, accanto a Berlusconi, la vera guida del Pdl. Di un centrodestra, altrimenti, diretto ? nel Nord, ma anche nelle strategie nazionali ? dalla Lega.
Dunque, dal punto di vista del Pdl: per fortuna che l´opposizione "non" c´è. Che il Pd continua nella sua strategia di "non" scegliere. Tentato dall´alleanza con Casini e dell´Udc. Spettatore di fronte al protagonismo dei Radicali. Insofferente e sofferente davanti a Di Pietro. Così può resistere ancora la leggenda del Pdl, guida di un governo senza opposizione.
Ma neppure il Pdl se la passa bene. In Parlamento, "per sfiducia" nella propria maggioranza, il governo è costretto a ricorrere "al voto di fiducia". All´infinito. Il Pdl: è un Pmm. Partito Mediale di Massa. A cui Berlusconi può fornire ? e fornisce ? immagine e identità. Risorse infinite. Ma non un programma e un´organizzazione per governare il territorio. Dove appare sperduto. Imprigionato da logiche locali e personali. Che lo condizionano anche a livello nazionale. Un non-partito. Per esistere ha bisogno di una non-opposizione.
© Riproduzione riservata (10 gennaio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #143 inserito:: Gennaio 17, 2010, 04:23:30 pm » |
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Politica
I disoccupati ci sono ma non si vedono
di ILVO DIAMANTI
Esistono problemi visibili e altri invisibili. A prescindere - direbbe Totò - non solo dalla realtà ma anche dalla percezione. La disoccupazione, ad esempio, esiste: nella realtà e nella percezione. Ma parlarne è da irresponsabili e mostrarla anche peggio.
Basta pensare alla reazione del governo di fronte alle stime fornite dalla Banca d'Italia, che considera il tasso di disoccupazione "reale" superiore al 10%: 2.600.000 persone. Un calcolo scorretto e fantasioso, secondo il ministro Sacconi. Perché associa ai disoccupati anche i cassintegrati cronici e i "lavoratori scoraggiati". Quelli, cioè, che rinunciano a cercare occupazione perché ritengono la situazione sfavorevole. Un'operazione scorretta, quella praticata dalla coppia Epifani-Draghi. Entrambi disfattisti e, implicitamente, comunisti. Imprenditori delle fabbriche che producono pessimismo, come li ha definiti il premier Berlusconi. Seminano sfiducia e rischiano, in questo modo, di alimentare una crisi che ormai è alle spalle. Anche se i cittadini non sembrano accorgersene. Afflitti da una "percezione" diversa - e distorta. La disoccupazione, infatti, preoccupa il 37% degli italiani, secondo la recente indagine di Demos per Unipolis sulla (in)sicurezza. Il 2,5% più dell'anno scorso, ma il 7% più di due anni fa. È motivo di angoscia, non solo in Italia, anche nel resto d'Europa. Il 51% dei cittadini della UE (dati Eurobarometro) la indica fra le due principali emergenze da affrontare. E il 40% aggiunge anche la crisi economica. Tuttavia, nel nostro paese, questa percezione è anti-italiana. In contrasto con gli interessi nazionali e con la rappresentazione mediale della realtà.
Infatti, se si prendono in considerazione i telegiornali di prima serata delle reti Rai e Mediaset (rapporto dell'Osservatorio di Pavia per Unipolis, dicembre 2009), alla disoccupazione e alle difficoltà economiche delle famiglie, nel periodo fra il 18 ottobre e il 7 novembre 2009, viene dedicato il 7% delle notizie "ansiogene". Quelle, cioè, che raccontano fatti e contesti critici. L'anno prima, nello stesso periodo, lo spazio delle notizie riferite ai problemi economici e dell'occupazione sui telegiornali delle reti pubbliche e private era oltre 4 volte superiore: 27%. Due anni prima, nell'autunno 2007, intorno al 16%. Per cui la disoccupazione c'è, si sente e fa paura. Ma non si deve dire troppo forte. E comunque non si vede. Una analisi condotta dall'Osservatorio di Pavia (per Unipolis) in alcune settimane del 2008-9 sui telegiornali delle reti pubbliche di alcuni paesi europei, sottolinea come il numero delle notizie dedicato dal Tg1 al problema della disoccupazione sia circa un terzo rispetto ad Ard (Germania), un quarto rispetto alla Bbc (Gran Bretagna), un quarto a Tve (Spagna) e, infine, sei volte meno rispetto a France 2. Inutile rammentare il diverso trattamento riservato alla criminalità comune. Di gran lunga l'argomento "ansiogeno" più trattato dalla tivù italiana. In misura nettamente più ampia rispetto al resto d'Europa.
D'altra parte, la criminalità e la violenza spaventano ma piacciono al pubblico, come ha osservato Quentin Tarantino. Uno che se ne intende. Inoltre, esercitano sull'opinione pubblica effetti politici diversi dalla disoccupazione e dalla crisi economica. Penalizzano la sinistra e il centrosinistra, il cui consenso è legato a una idea di sicurezza "sociale" proiettata nel futuro. Mentre oggi la concezione della sicurezza è schiacciata sull'individuo e sulla famiglia, la dimensione sociale si è sbriciolata e del futuro si è perduta traccia. Così i lavoratori e - ancor più - i disoccupati scompaiono. Non solo perché le grandi fabbriche chiudono e le piccole aziende, flessibili e intermittenti, si confondono nel territorio. Anche perché non hanno appeal, presso coloro che scrivono l'agenda dei media. In particolare: nella tivù. Le morti: occupano i palinsesti televisivi se diventano tragedie collettive. Oppure se si tratta di piccoli omicidi, catalogati nella criminalità "comune". Mentre gli incidenti sul lavoro non interessano. Nell'autunno del 2009 in Italia i Tg Rai e Mediaset di prima serata dedicano loro lo 0,2% delle notizie "ansiogene". L'anno prima, sull'onda emotiva sollevata dalla tragedia della ThyssenKrupp, avevano conquistato il 2,6% delle notizie. Cioè, anche allora, quasi nulla. Da ciò una conclusione, un po' desolata e desolante, ma difficile da contraddire. Gli operai: fanno notizia quando bruciano in tanti e tutti insieme. Le morti quotidiane sul lavoro - 1120 nel 2008 - sono definite eufemisticamente: "bianche". Per cui: poco visibili e dunque poco rilevanti. Perché, al tempo della "democrazia del pubblico", la "rappresentanza" dipende sempre più dalla "rappresentazione".
In altri termini: dalla capacità di "fare notizia", apparire, comunicare. Gli operai non contano, i disoccupati ancor di meno. Figurarsi: sono non-operai. Non-lavoratori. Lavoratori esclusi oppure scoraggiati. Mettono tristezza, a chi li guarda. Suscitano pessimismo. Per cui è meglio non mostrarli. Il reality-show della crisi quotidiana che coinvolge le persone e le famiglie: non interessa agli autori della scena mediatica. A coloro che orientano l'informazione. Così, i lavoratori (disoccupati, scoraggiati, minacciati), per esistere e resistere, invece di rivolgersi al sindacato, salgono sulle gru, si gettano dai ponti, a volte si suicidano. O bloccano ferrovie e autostrade. Aziende. Talora, sequestrano dirigenti e imprenditori. Atti violenti? Reati? Certo. In un paese dove la violenza e i reati vanno in scena quotidianamente - e in primo piano. Sui giornali e nei telegiornali, al centro dei talk-show, al cuore dell'infotainment. Per sfidare l'audience della criminalità comune, bisogna fare cose eccezionali.
Parafrasando Humphrey Bogart: "È lo spettacolo bellezza! E tu non ci puoi fare niente. Niente".
© Riproduzione riservata (16 gennaio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #144 inserito:: Gennaio 21, 2010, 12:20:49 pm » |
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Rubriche » Bussole Ilvo Diamanti Se dalla scuola (per legge) scompare la geografia ll Consiglio dei Ministri del prossimo venerdì 22 gennaio dovrebbe approvare la riforma della scuola superiore. Nei nuovi curricoli dei licei e degli istituti tecnici e professionali, in via di definizione, la geografia scompare del tutto - o quasi. Non si sono sentite proteste, al proposito. Ad eccezione di quelle sollevate, comprensibilmente, dalle "associazioni di categoria" (in testa l'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e la Società Geografica Italiana), che hanno lanciato un appello accorato (su www.aiig.it e www.luogoespazio.info). Ma c'è da dubitare che troveranno grande ascolto. I problemi che contano e appassionano sono ben altri. Anche se il territorio continua ad essere evocato, per ragioni politiche e polemiche. I confini: vengono chiamati in causa quando c'è da respingere i clandestini. Frontiere invisibili divengono muri visibili per marcare la distanza dagli "stranieri". Per alimentare domanda di sicurezza, per richiamare la comunità perduta. Il nostro piccolo mondo che scompare, schiacciato dal grande mondo che incombe. Così si invocano le ronde, senza poi formarle. E i "confini" della città sono marcati da cartelli segnaletici che, accanto al nome di città "straniere" gemellate, avvertono: non vogliamo "stranieri", guai ai "clandestini". (Quasi che i clandestini si dichiarassero come tali, apertamente, all'ingresso della città). Siamo orfani dei confini che, tuttavia, non riconosciamo. E non conosciamo più. Come il territorio. Rimozione singolare, visto che mai come in quest'epoca le identità ruotano intorno ai riferimenti geografici. L'Oriente e l'Occidente. Che, dopo la caduta del muro di Berlino, non sappiamo più come e dove delimitare. In Italia, il Nord e il Sud. La Lega Nord e il Partito del Sud. Si rimuove la geografia mentre la geografia si muove. Insieme ai confini. Centinaia di comuni vorrebbero cambiare provincia. Oppure regione. E molte province si spezzano; mentre, parallelamente, ne nascono altre di nuove. E se guardiamo oltre i nostri confini abbiamo bisogno di aggiornare le mappe. Un anno dopo l'altro. Per de-finire i paesi (ri)sorti in seguito al crollo degli imperi geopolitici. Per "nominare" contesti senza nome oppure ignoti, un attimo prima, il cui nome è rivendicato da popoli che ambiscono all'indipendenza. Da minoranze che vorrebbero venire riconosciute e da maggioranze che ne reprimono le pulsioni. Così, scopriamo, all'improvviso, dell'esistenza di Cecenia, Abkhazia, Ossezia, Timor Est. Mentre Cekia e Slovacchia sono, da tempo, felicemente divise. Ma molti non lo sanno e continuano a "nominare" la Cecoslovacchia. In questo paese - ma non solo in questo - il "popolo" più detestato è quello Rom. Gli zingari. Accusati di molte colpe - talora a ragione. La principale fra tutte: non avere una patria. Una residenza. Rifiutarla. Troppo, per una società che ha dimenticato il territorio - sepolto sotto una plaga immobiliare immensa e disordinata. Ma continua a evocare le "radici". E non sopporta chi è nomade. Sempre altrove. Questa società: non ha più bisogno di mappe, bussole, atlanti, carte geografiche. Basta il Gps. Ciascuno guidato da un satellitare o dal proprio cellulare. In auto ma anche a piedi, in giro per la città. Una voce metallica, senza accento, intima. "Ora girare leggermente a destra, poi andare dritto per 100 metri". Ma se finisci in contromano, una marea di auto che ti corre (in)contro; oppure davanti a un muro, a un divieto di circolazione, e ti fermi, preoccupato, si altera: "Andare dritto!!". E quando cambi direzione, per non essere travolto, non si rassegna e ordina: "Ora fare inversione a U". Anche se hai imboccato una strada a senso unico. La società del Gps è popolata di persone etero-dirette, che si muovono senza un disegno, né un progetto. Non sanno dove andare e neppure dove sono. Questa società - questa scuola - non ha bisogno di geografia, né di geografi. Ma neppure della storia: visto che la geografia spiega la storia e viceversa. Questa società - questa scuola - questo paese: dove il tempo si è fermato e il territorio è scomparso. Dove le persone stanno ferme. Nello stesso punto e nello stesso istante. In attesa che il Gps parli. E ci indichi la strada. (21 gennaio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #145 inserito:: Gennaio 24, 2010, 03:39:01 pm » |
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Il Pd, un partito senza fissa dimora
di ILVO DIAMANTI
Il clima d'opinione è grigio. Economia e lavoro. Politica. Anche la fiducia nel premier e nel governo, passata la benefica onda emotiva prodotta dall'aggressione a Milano, un mese fa, si è ripiegata.
Senza, peraltro, che l'opposizione ne abbia tratto vantaggio. Il Partito Democratico, in particolare. Nelle stime elettorali naviga intorno al 30%. Un po' sotto, per la verità. È sceso, rispetto a qualche mese fa. L'elezione di Bersani l'aveva rafforzato. Ragionevole e competente, guardato con simpatia anche dagli elettori di centrodestra. Poi, la sospensione delle ostilità interne: non c'erano più abituati gli elettori del Pd. Così la nave del Pd aveva ripreso il suo viaggio.
Oggi, all'avvio della campagna che conduce alle elezioni regionali di fine marzo, sembra essersi incagliata di nuovo. Senza una rotta. Senza una bussola. Le stesse primarie per scegliere i candidati stanno frenando il Pd. Ciò è significativo, visto che le primarie sono, al tempo stesso, "mito e rito fondativo" (la formula è di Arturo Parisi) del Partito Unitario di Centrosinistra. L'Ulivo di Prodi, dapprima, e, quindi, il Partito Democratico di Veltroni. Diversi modelli di un comune progetto politico e istituzionale: maggioritario e bipolare. La risposta di centrosinistra al modello imposto da Berlusconi.
Oggi le primarie sembrano, invece, un'arena dove regolare i conflitti interni al partito e alla coalizione. Perlopiù, un ostacolo di fronte ai disegni del gruppo dirigente del partito. D'altronde, è difficile ricorrere alle primarie se si privilegia l'alleanza con l'Udc. Che ha fatto del proporzionale una ragione di vita. E che, comunque, non avrebbe una base elettorale adeguata a imporre i propri candidati in una consultazione popolare. Più in generale, è arduo cogliere una strategia coerente nelle scelte del Pd, in questa fase. Quasi dovunque il partito appare diviso. In contrasto al proprio interno e con i dirigenti centrali. Spesso incapace di decidere. Nel Lazio si è piegato - senza discussioni - all'autocandidatura della Bonino. Non proprio in accordo con l'intenzione di accostarsi alle componenti cattoliche moderate e all'Udc. In Puglia, invece, oggi le primarie celebrano lo scontro - più che il confronto - tra Vendola e Boccia (trainato da D'Alema). Divisi su molti temi. Non ultimo l'intesa con l'Udc. Anche a Venezia la scelta del candidato sindaco avviene in un clima acceso. Da vicende personali e dalla questione del rapporto con i moderati. Insomma, le primarie, invece di mobilitare e unificare gli elettori del Pd e del centrosinistra intorno alla ricerca di un candidato comune, si stanno trasformando in una resa dei conti.
Il Pd nazionale non sembra, peraltro, capace di regolare le scelte assunte in ambito regionale. Semmai, le complica ulteriormente. Somma le proprie divisioni a quelle locali. Rischia, così, di affermarsi un "modello balcanizzato", come l'ha definito Edmondo Berselli. Ciò avviene perché il Pd resta sospeso in una zona d'ombra. A metà fra la tentazione - implicita e inconfessa - di rifare il "partito di massa" fondato sulle appartenenze e sull'apparato. E l'imperativo - esplicito - di costruire il "partito dei cittadini", maggioritario e bipolare. Il percorso congressuale ha accentuato questa incertezza. Dapprima, la lunga sequenza dei congressi a livello territoriale ha mimato il "partito di iscritti". Le primarie, poi, hanno evocato il modello americano, che coinvolge elettori e simpatizzanti. Bersani è stato eletto da entrambi i modelli di partito. Avrebbe potuto, sfruttando la legittimazione conquistata, imprimere una svolta chiara al Pd. Indicare un progetto, definire un programma, con obiettivi chiari. Ai "suoi" elettori, anzitutto. Fin qui non l'ha fatto. Anche se continua a riscuotere ampia fiducia personale, mentre il Pd perde consensi. Una contraddizione significativa. Riflesso dell'incerta identità del Pd, ma anche di una leadership personale ancora incompiuta. Bersani, infatti, è simpatico a molti, non solo a sinistra, anche perché le sue parole non fanno male. Non segnano confini netti.
Non marcano appartenenze né differenze chiare. Nello stesso Pd, dove emergono posizioni diverse e talora contraddittorie, ad esempio: sui temi della giustizia e dell'immunità. E ciò lascia trapelare il dubbio che le decisioni importanti vengano prese altrove, da altri. I soliti noti. Magari è una scelta meditata. Ha deciso di non decidere, di lasciare in sospeso le scelte strategiche, in vista di tempi migliori. Per non tradurre le divisioni interne in fratture. Ma allora meglio dirlo apertamente, per non passare da debole. In-deciso.
Insomma, il Pd oggi è un partito in grado di aggregare il 30% dei voti. Ma non dà speranza. Gli riesce difficile allargare i propri consensi. (E perfino tenere quelli che ha). Da solo ma anche attraverso alleanze. Perché non dice chi è, cosa intende fare e insieme a chi. È un ibrido. Forse: un equivoco. Un partito di massa senza apparato, con una debole presenza nella società e un ceto politico resistente. Al centro e in periferia. Un partito americano provincialista. Senza territorio ma condizionato dalle oligarchie locali. Un partito americano all'italiana.
Parla un linguaggio difficile da capire. Anche perché non ha un vocabolario e neppure un sillabario. Non sa gridare uno slogan che risuoni forte nell'aria. Non ha una bandiera riconoscibile, dai sostenitori e dagli avversari. Le parole che usa hanno perso il significato di un tempo. Come il "riformismo". Oggi che le riforme le vogliono tutti. A partire dal premier e dal centrodestra, che pensano alla giustizia, al "legittimo impedimento" e al presidenzialismo. Il Pd: quali riforme vuole? E quali "non" vuole? Detti la sua agenda. Dica due o tre cose "memorabili". Che restino nella memoria.
Le primarie che si svolgono a partire da oggi e le elezioni di marzo, per il Pd, sono un'occasione importante. Importantissima. Da non perdere. Per non perdersi definitivamente. Ma chi lo guida deve tracciare un orizzonte. Che vada oltre i prossimi tre mesi. Per non rischiare che il Pd venga percepito come un partito provvisorio. Soprattutto dai suoi elettori.
© Riproduzione riservata (24 gennaio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #146 inserito:: Gennaio 31, 2010, 10:03:16 pm » |
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Il marketing del Cavaliere e il bipolarismo della xenofobia
di ILVO DIAMANTI
IL PREMIER Silvio Berlusconi nei giorni scorsi ha sostenuto l'equazione: + immigrati = + criminalità. E ha ribadito il proposito di agire in modo coerente e conseguente. Ridurre gli immigrati per abbassare il numero dei reati e dei criminali. Altre fonti autorevoli hanno contestato la fondatezza di questa relazione.
A partire dalle statistiche sui reati. (Trascurando, peraltro, che il tasso di criminalità cresce insieme al grado di marginalità sociale. I ricchi non rubano per strada o nelle case. E finiscono in carcere molto più raramente dei poveracci). A noi interessano, invece, le ragioni di questa affermazione. Proprio in Calabria, proprio alla presentazione del piano antimafia. Più logico sarebbe stato un riferimento ai fatti di Rosarno, al ruolo delle organizzazioni criminali e della 'ndrangheta nel mercato e nello sfruttamento dell'immigrazione clandestina. Rivendicando a sé e al governo i successi conseguiti nella lotta alle mafie nell'ultimo anno. Invece no. Piuttosto che alle organizzazioni criminali ha preferito rivolgersi alla criminalità comune, sottolinearne il legame con gli immigrati. Silvio Berlusconi non è un "radical-choc". Raramente indulge alle battute di "bassa lega". Non gli riescono bene come gli attacchi ai magistrati o a "certa stampa" che avvelena le coscienze. Però gli capita. Ogni tanto. E mai a caso.
Perché la scelta dei temi e delle parole, nella comunicazione di Berlusconi, non avviene mai a caso. Mai. D'altronde, i precedenti sono, al proposito, pochi e facili da ricordare. Lo scorso maggio affermò che non è possibile spalancare le porte a tutto il mondo. Che "l'Italia non sarà mai un paese multietnico". Annuncio un po' tardivo, visto che ci vivono ormai 4 milioni e mezzo di stranieri (Rapporto Caritas-Migrantes 2009). Ma, appunto, è "l'annuncio" che conta. E, poi, il 4 giugno: "In alcune città italiane, come Milano, a camminare per il centro, vedendo il numero di cittadini stranieri, sembra di essere in una città africana". Perché a Parigi, Londra oppure a New York, nelle altre metropoli globali, evidentemente, è diverso. Tutti rigorosamente bianchi. Ma Silvio Berlusconi non è un radical-choc. Se maneggia la xenofobia non lo fa per convinzione ma per opportunità. Per marketing. Un tema fra gli altri. Come il calcio, il dolore, lo sport, le donne. Basta far caso ai momenti. Le frasi appena ricordate risalgono, infatti, alla campagna elettorale delle ultime europee. Nell'ultimo caso, il 4 giugno, al comizio conclusivo tenuto a Milano insieme a Bossi. Anche oggi siamo in piena campagna elettorale. E se il nemico, per Berlusconi, è il Pd, insieme all'UdC, l'avversario è la Lega. A cui ha ceduto la candidatura alla presidenza di due regioni importanti: il Piemonte e il Veneto (un'enclave). La Lega: alleata necessaria eppure scomoda per un partito, il PdL, che ha una base elettorale estesa nel Mezzogiorno. Ed esprime orientamenti molto diversi dai leghisti. La criminalità, ad esempio, non è tutta uguale agli occhi degli elettori.
La criminalità "comune": preoccupa molto gli elettori di centrodestra. Meno quelli di centrosinistra, più reattivi nei confronti della criminalità "organizzata". Vediamo i dati dell'ultima indagine di Demos-Unipolis (novembre 2009). La criminalità "comune" è considerata più grave di quella "organizzata" dal 19% degli elettori del Pd e dal 16% tra quelli dell'IdV. Fra gli elettori del PdL questo sentimento è espresso da una componente doppia: 35%; e di quasi tre volte superiore fra quelli della Lega: 50%. Simmetrico e complementare l'orientamento rispetto alla criminalità organizzata. La considera più grave di quella comune il 76% degli elettori nel Pd e nell'IdV, ma il 58% nel PdL e il 49% dei leghisti (che lo ritengono, a torto, un problema che non tocca il "loro" mondo, ma il Sud). Lo stesso profilo caratterizza l'atteggiamento verso gli immigrati. Li ritengono un pericolo per la sicurezza o per il lavoro: il 30% tra gli elettori del Pd, il 39% dell'IdV, il 62% del PdL e il 66% della Lega. In questo bipolarismo della xenofobia, gli elettori dell'UdC si pongono in posizione intermedia. A metà strada fra sinistra e destra.
In Italia, dunque, la paura della criminalità è diffusa, come quella nei confronti degli immigrati. Perlopiù, le due paure vanno insieme e contagiano tutti i contesti e tutti gli elettorati. Ma alcuni in modo diverso e maggiore rispetto agli altri. Negli ultimi anni, queste paure si sono allentate. In particolare dopo le elezioni politiche del 2008, che hanno sancito il successo chiaro e netto del centrodestra. Ciò ha reso la paura degli altri meno utile, politicamente - e meno interessante per i media. Ma oggi siamo di nuovo in campagna elettorale. Alla vigilia delle regionali, che riscriveranno i rapporti fra gli schieramenti, ma anche al loro interno. Per cui la paura torna ad essere un buon tema di marketing politico. Gli scontri di Rosarno evocano la rivolta degli stranieri contro la 'ndrangheta calabrese. Sono stati rappresentati associando immigrazione, sfruttamento, criminalità organizzata, Mezzogiorno. Tutti insieme, in un campo di significati unitario. Che disturba soprattutto il PdL. Mentre piace alla Lega e non dispiace al centrosinistra. Da ciò la preoccupazione del premier: sottolineare il legame fra immigrazione e criminalità "comune", evocando, insieme, l'invasione degli stranieri. Temi che incontrano il favore degli elettori di centrodestra, soprattutto nel Nord. Mentre il tema della criminalità "organizzata" resta sullo sfondo. Nonostante i risultati ottenuti dal governo su questo fronte. Per non sottolineare di più i meriti del ministro Maroni (e della Lega). Per non turbare troppo la sensibilità degli elettori del PdL, disturbati dalle voci e dalle inchieste che ne hanno coinvolto leader nazionali e locali.
Così vanno le cose in questo paese. Dove tutto è valutato in base all'impatto politico mediatico. A partire dalle parole. Negri o terroni; rom, romeni o romani; trans o escort; criminali comuni o mafiosi.
È solo questione di voti e di share.
(31 gennaio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #147 inserito:: Febbraio 05, 2010, 04:03:09 pm » |
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Sordi, ciechi e solitari la nostra vita al tempo dell'iPod
Ilvo Diamanti
Oggi mi sono recato a Milano in treno. Ne ho approfittato per accompagnare mio figlio Nicola a Vicenza. A scuola. Si è seduto in auto, nel sedile dietro. Io ho cominciato a parlargli. Delle lezioni del mattino, del Chievo, di suo fratello, del viaggio a Londra, ormai prossimo. Così, per risvegliarmi insieme a lui, vista l'ora. Nessun segnale. Nessuna risposta. Non dormiva, come immaginavo. Semplicemente, era altrove. Da solo con se stesso. IPod e cuffie. Immerso nel suo metal, in grado di svegliarlo, sicuramente, più di ogni chiacchiera con me. Così ho rinunciato.
Ho proseguito fino all'incrocio accanto al suo liceo. Mi sono fermato con il rosso, la porta si è aperta. E lui se n'è andato con un ciao distratto. Risucchiato dal flusso degli studenti. Tutti rigorosamente attrezzati di cuffia e Ipod. Tutti soli in mezzo agli altri. Ho tirato dritto fino alla stazione. Parcheggiata l'auto, ho preso al volo il Freccia Rossa (o forse Argento, non ricordo). E mi sono sistemato al mio posto. Il vagone, pieno di professionisti, in missione. Tutti con il portatile aperto, sul tavolino di fronte a loro. Intenti a navigare, comunicare via email, Facebook, Twitter. Alcuni immersi nella visione di un film o di un video. Con cuffia. Per non disturbare e non essere disturbati. Poi i cellulari. Un concerto di suonerie, le più diverse. Sinfonie, riff di James Brown, accordi dei Deep Purple, rombi di monoposto di Formula 1. Cani che abbaiano e bimbi che piangono. Meno fastidiosi, certo, dei dialoghi e delle risposte. I cazzi loro recitati ad alta voce, ci mancherebbe. Abituati ad essere soli in mezzo al mondo. Sempre soli. Tutti soli. Ovviamente, armati di occhiali neri. Per guardarsi intorno senza mostrare gli occhi. Cioè: senza essere visti. In mezzo al vagone, tre persone (sindacalisti, mi pare) impegnate a discutere. A voce alta, ma non più degli altri che telefonavano. Le ho trovate irritanti, tanto era strano vedere e sentire dei passeggeri parlare tra loro. Uno davanti all'altro. Gli unici a comportarsi come non fossero da soli. Insopportabile. Per cui ho aperto la mia cartella, ho estratto il Mac Air, mi sono connesso alla posta elettronica e ho indossato gli occhiali neri. Poi, ho acceso i'iPod. E, mentre dalle cuffie uscivano le note di Karma Police dei Radiohead, mi sono sentito tranquillo. Anch'io: finalmente solo.
(03 febbraio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #148 inserito:: Febbraio 07, 2010, 06:21:43 pm » |
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Dov'è finito il cambiamento
di ILVO DIAMANTI
Galleggiamo sullo stagno del nostro tempo immobile. Dove il futuro è introvabile - come si usa dire spesso. Nascosto, insieme ai giovani. Oppure simulato, come la gioventù che non finisce mai. Inibito nel linguaggio.
Di "cambiamento": chi ne parla più? È una parola rimossa dalla comunicazione politica. Scomparsa dal sillabario della vita quotidiana. Qualcuno potrebbe eccepire che non si tratta di una grande perdita, visto che non se n'è accorto nessuno. Ma per questo la rimozione appare più significativa. Tanto più perché riguarda una parola - e un concetto - di largo uso e di grande successo, nel secolo scorso. Fino a pochi anni fa. Declinato in diversi modi: trasformazione, mutamento. Progresso.
Anche negli ultimi decenni abbiamo assistito alla celebrazione del "cambiamento". Si pensi all'epica della modernizzazione interpretata da Craxi negli anni Ottanta. Ma soprattutto alla cosiddetta "rivoluzione" dei primi anni Novanta, che ha prodotto il crollo della prima Repubblica. Ha sbriciolato cinquant'anni di storia, lasciandoci senza passato. Così siamo stati costretti a guardare avanti. A "cambiare". E molto è effettivamente cambiato. In modo confuso, frammentario, per strappi e senza un disegno o un progetto condiviso. Anni convulsi, scossi da una sorta di isteria del "nuovo". Parola magica, usata come passepartout da quanti - tanti - hanno invocato una Repubblica "nuova", con partiti "nuovi" e uomini "nuovi". In quanto estranei alla politica tradizionale e alla tradizione politica. Leghe e partiti personali. Uomini politici rigorosamente extrapolitici. Esterni alla politica. E meglio se antipolitici. Imprenditori, artigiani, militanti della società civile e del "sociale", attori, autori, sportivi, presentatori e presentatrici tivù.
E' di quegli anni il mito della "Grande Riforma". Perché ri-formare significa dare una forma "nuova" alle istituzioni. Quindi "cambiare" - in modo sostanziale - rispetto al passato: lo Stato, il sistema politico, le istituzioni, il governo. Attraverso il presidenzialismo e il semipresidenzialismo, oppure il premierato/cancellierato; e poi il federalismo, il sistema americano, il maggioritario, il bipolarismo e magari il bipartitismo. Il partito leggero e le primarie. Per quanto tempo se n'è parlato e discusso. Anzi, non si è mai smesso. Però, in modo sempre meno convinto. E, soprattutto, sempre meno condiviso dai cittadini. Dalla mitica società civile che aveva partecipato in modo coinvolto e appassionato alla stagione del cambiamento, nei primi anni Novanta. Votando massicciamente ai referendum e premiando i partiti e i leader "nuovi" alle elezioni politiche.
Alla fine del decennio, tuttavia, questa spinta si spegne. Tutti i referendum falliscono. I cittadini: dal 1999 si oppongono a ogni tentativo di modificare il sistema elettorale in senso definitivamente maggioritario. L'unico referendum che supera la soglia del 50% di partecipazione elettorale, nell'ultimo decennio, è quello che, nel giugno 2006, boccia le riforme costituzionali. Approvate in fretta e furia dalla maggioranza di centrodestra l'anno prima. Segno che l'ansia di cambiamento, fra i cittadini, si era ormai spenta. D'altronde, da tempo, anche il linguaggio si è adeguato a quest'epoca stagnante. Non si parla più del "Cambiamento", ma piuttosto di "cambiamenti". Meglio ancora di "innovazioni", che toccano aspetti specifici e puntuali della realtà, senza pretendere di ri-disegnarla. Inoltre, al Cambiamento subentra il riferimento alla Transizione, che significa Passaggio. Cioè: siamo in viaggio. Ma senza sapere perché. Così, dopo anni e anni passati a viaggiare senza mèta, a "innovare" senza un fine preciso e condiviso, la Transizione è divenuta una condizione stabile (e non transitoria). Mentre il cambiamento e i termini ad esso collegati hanno perso significato. Come le riforme: oggi le vogliono tutti, a parole, ma pensano a cose diverse e spesso opposte. D'altronde, i riformisti più accaniti oggi stanno a destra. Solo che pensano a ri-formare la giustizia, a ristabilire l'immunità parlamentare - anzitutto per il premier. Più che una ri-forma, un ri-torno. Alla prima Repubblica. D'altronde, più che sul cambiamento futuro, il dibattito politico - e sociale - è tutto ripiegato sul passato. Si discute di Craxi e di Tangentopoli. Dei comunisti e dei socialisti. Dei democristiani no, perché non sono mai passati di moda. E, di data in data, si risale - o si ridiscende - lungo la nostra storia. Al 1968, alla Resistenza. Fino all'Unità nazionale.
Il sospetto - fondato - è che si discuta del passato con gli occhi rivolti al presente. Anche perché il cambiamento si è, ormai, consumato. La classe politica della prima Repubblica è tornata, in parte non se n'è mai andata. La si incontra oggi in tutti i principali partiti e schieramenti. Gli uomini "nuovi", peraltro, stanno, ormai da tempo, saldamente al potere. Bossi e Berlusconi, in testa. Per cui non sono più "nuovi". Perché, allora, dovrebbero "cambiare"? Anche i leader e i parlamentari del centrosinistra, sopravvissuti, in gran parte, alla fine dei partiti di massa. Perché dovrebbero evocare - o peggio: promuovere - il cambiamento? La loro posizione è, in fondo, garantita da partiti largamente oligarchici e da un sistema elettorale conservatore. Le difficoltà in cui versa il progetto dell'Ulivo e del Pd, in fondo, hanno la stessa origine. La resistenza al - e la rimozione del - cambiamento. A cui la destra può opporre l'uso della tradizione in senso neo - e teo - con (servatore). Come risposta allo spaesamento sociale, culturale ed etico prodotto dal "cambiamento". La sinistra no. Per storia, valori, per coerenza con le domande della sua base sociale: ha bisogno di immaginare il cambiamento. E di evocarlo ad alta voce. Senza farsi tentare dalle (note) parole di Tancredi, quando (nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa) suggerisce allo zio, don Fabrizio Salina: "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!".
© Riproduzione riservata (07 febbraio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #149 inserito:: Febbraio 14, 2010, 10:21:55 pm » |
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La società fra etica e anestetica
di ILVO DIAMANTI
Il sospetto è che: "Tanto rumore per nulla". Come altre volte. Che il clamore intorno allo scandalo sugli appalti gestiti dalla Protezione civile in vista del G8 a La Maddalena e nella ricostruzione, dopo il terremoto in Abruzzo, alla fine, non produca effetti.
Non ci riferiamo all'ambito giudiziario. L'inchiesta seguirà il suo percorso, per accertare la fondatezza di accuse tanto infamanti. Ne verificherà le responsabilità e i responsabili. Non ci riferiamo neppure al versante politico, dove tutto si è svolto secondo copione. A partire dalla difesa del premier nei confronti del sottosegretario Bertolaso. Attesa e prevedibile, anche nelle parole. Quasi per riflesso pavloviano. Il nostro sospetto riguarda, invece, l'atteggiamento della "società media", rilevato dai sondaggi. Tradotto e banalizzato in Opinione Pubblica. L'opinione della maggioranza. Silenziosa. Il sospetto è che, anche questa volta, la reazione della "società media" si limiti a quel brontolio, continuo e diffuso, che pervade la vita quotidiana. Dove tutti - davvero: tutti - si lamentano, recriminano, criticano. A voce bassa. Dichiarano la loro sfiducia verso i "politici". Di ogni parte. Ma soprattutto di sinistra, perché loro, prima e più degli altri, hanno sollevato la questione "morale". Se ne sono fatti garanti. Finendone, anch'essi, invischiati. Per cui prevale la convinzione - popolare - che ogni reazione, ogni moto di indignazione: è inutile. Non serve. Sono tutti uguali. E nulla cambia.
Da ciò il rischio: l'assuefazione a ogni scandalo. Che quindi non dà più scandalo. E induce, anzi, a guardare con sospetto chi si scandalizza. A trattarlo - con acida ironia - da "professionista dell'indignazione". Così, dopo ogni esplosione polemica, sopravviene - e ritorna - il silenzio. O meglio: il mormorio. La colonna sonora (meglio: il sottofondo) al tempo della "società sfrenata". Senza freni. Perché, anzitutto, si sono persi i riferimenti che associavano e orientavano i cittadini. Nel rapporto con le istituzioni e con il governo. I partiti di massa, grandi educatori al servizio di un progetto futuro. Dissolti. Personalizzati e oligarchici. Le grandi organizzazioni "intermedie" di rappresentanza. I sindacati, in primo luogo. Perlopiù burocratizzati. Una base ampiamente composta da impiegati pubblici e pensionati. Difficile chiedere loro di imporre vincoli morali. Fatica perfino la Chiesa, scossa e divisa al suo interno, come dimostrano le tensioni emerse dopo la campagna diffamatoria che ha costretto alle dimissioni il direttore dell'Avvenire, Dino Boffo. Lo stesso mondo del volontariato, il mitico Terzo settore, oggi appare impegnato - peraltro, con successo - sul mercato dei servizi più che dei valori. E gli "intellettuali". Reclutati dai media. (Soprattutto dalla tivù). Oppure dai partiti. Voci deboli, perché hanno poco da dire. (Io, naturalmente, non mi chiamo fuori. Anche se la definizione di "intellettuale" mi fa rabbrividire).
Così, oggi è difficile trovare soggetti in grado di rafforzare il senso "civico" della società, ma anche di inibire il senso "cinico". Mancano, cioè, i "freni". Gli stessi "anticorpi della democrazia", come scrive da tempo Giovanni Sartori.
Ma forse c'è dell'altro. Oltre al "familismo amorale", riferito alla società del Mezzogiorno nel classico studio di Edward Banfield degli anni cinquanta - e oggi esteso all'intera società italiana. Oltre alla delusione prodotta dal ripetersi ciclico di rivolte antipolitiche puntualmente riassorbite e rimosse. Prima Tangentopoli, poi, quindici anni dopo, la Casta. E come effetto: dai partiti di massa ai partiti personali, ispirati da Forza Italia e Silvio Berlusconi.
Oltre a tutto ciò, dietro al disincanto diffuso del nostro tempo, c'è la mutazione del rapporto fra società e politica. Mediato dai media. Cioè: im-mediato. Senza mediazione. La politica e i leader di fronte agli elettori soli. In modo asimmetrico e squilibrato. Perché oggi la metafora più adeguata per descrivere il sistema della rappresentanza (ben delineata dal filosofo Bernard Manin) richiama la "scena", dove si confrontano gli attori e il pubblico. Il quale può, certamente, decretare il successo oppure il decesso di un programma e (simbolicamente) di un attore. Ma, appunto, non è lui a decidere i palinsesti. Perché può solo reagire a un'offerta elaborata dall'esterno. A cui non partecipa. Ebbene, fatti e attori della scena politica in questa fase propongono una rappresentazione davvero amorale. Dove il dolore si mischia alla speculazione, la tragedia alla corruzione. Dove il pianto è interrotto dalle risa. La biografia del potere accosta, una accanto all'altra, figure e immagini di generi contrastanti. Da Rosarno a Palazzo Grazioli. Da L'Aquila alle telefonate di Balducci, Anemone e compagnia. E poi: i morti sul lavoro, i potenti della terra, escort e veline, aggressioni violente, il volto insanguinato del premier. Le immagini si sommano e si confondono. Senza soluzione di continuità. In questo paese provvisorio, abitato da post-italiani (per usare una felice e amara definizione di Edmondo Berselli), tutti siamo spettatori di una rappresentazione in-differente. Dove non c'è differenza fra giusto e ingiusto, giudici e malfattori, furbi e onesti. Buoni e cattivi. Perché i cattivi, i furbi e i disonesti fanno audience. Questa democrazia fondata sulla "deroga" (come l'ha chiamata nei giorni scorsi Ezio Mauro) rammenta un reality, anzi: iper-reality show. Dove al massimo possiamo "nominare": Bertolaso oppure Berlusconi. (Gli altri sono già usciti dal gioco). Consapevoli del rischio: che il nominato, invece di essere escluso, resti protagonista della scena. Come prima e più di prima.
D'altronde, è difficile vedere alternativa. Se ci si arrende al pensiero unico: del partito personale, della scena mediatica al posto del territorio, dello spettatore al posto del cittadino, del senso comune al posto del senso civico. Dell'Opinione Pubblica dettata dai sondaggi invece che dal dibattito "pubblico" sui problemi, con la partecipazione degli attori sociali e degli intellettuali.
Allora il senso civico si confonde con il senso comune. E il senso etico diventa, al più, anestetico.
© Riproduzione riservata (14 febbraio 2010) da repubblica.it
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