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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277456 volte)
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« Risposta #450 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:16:51 pm »

Cosa resta della politica se la tv diventa il nemico
Mappe. Lo scontro tra leader e giornalisti in Italia si infiamma quando i protagonisti sono il centro-sinistra e i programmi di Rai 3. Fino a far evocare "l'editto bulgaro".
Ma è difficile assimilare Renzi a Berlusconi

Di ILVO DIAMANTI
05 ottobre 2015

LA POLEMICA tra leader politici e giornalisti tv è una costante in Italia, da almeno un paio di decenni. Ma il discorso cambia quando le tensioni si accendono fra esponenti di centro-sinistra e programmi di Rai 3. La rete "amica". Storicamente. Così, i dissensi espressi dal premier contro il Tg3 e, anzitutto, contro Ballarò, il talk "politico" del martedì, hanno suscitato sorpresa e molte critiche. Intimidazioni all'autonomia e alla libertà dell'informazione. Tanto che si è parlato di "editto bulgaro". Echeggiando le dichiarazioni di Silvio Berlusconi - al tempo capo del governo - pronunciate a Sofia, nel 2002, contro Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi. Puntualmente allontanati dalla Rai.

Tuttavia, è difficile assimilare Renzi a Berlusconi. Nonostante le analogie. Perché Renzi non è affetto né afflitto dal conflitto di interessi. Non è proprietario dell'azienda concorrente della Rai. Non può trarre vantaggi economici e di affari dalle sorti delle reti radiotelevisive pubbliche. Peraltro, mi riesce difficile anche vedere i vantaggi politici di questa iniziativa. Perché non solo il Tg3, ma, soprattutto, Ballarò ora appaiono più forti. Ballarò, in particolare. Subisce, da oltre un anno, la crisi che investe tutti i talk politici. "Affaticati" dalla moltiplicazione di programmi analoghi, a ogni ora del giorno, in ogni rete. Penalizzati dal deteriorarsi del "contenuto e dei protagonisti della politica italiana": i partiti e i politici. Ballarò, per questo, ha continuato a perdere ascolti. Non solo per la concorrenza, su La7, del clone guidato dal suo storico conduttore, Giovanni Floris. Ma, come si è detto, per l'esaurirsi di un format.

L'intervento di Renzi e di alcuni parlamentari a lui vicini, come Michele Anzaldi, rischia però di produrre un esito opposto alle intenzioni. Perché adesso sarà difficile "metter mano" su Ballarò e sui programmi di informazione di Rai 3 senza evocare editti bulgari. Senza riesumare i fantasmi della censura. L'ombra del Cavaliere. Risulta difficile, per questo, sovrapporre l'immagine di Renzi a quella di Berlusconi. Per la stessa ragione, è difficile scacciare questo accostamento. Non per ragioni polemiche. Matteo Renzi: non è il "Cavaliere mascherato". Ma è indubbio che sia, anzi è, un leader post-berlusconiano. Come, peraltro, lo sono tutti i leader e tutti i partiti "dopo" Berlusconi. Perché, lo sappiamo, "dopo" Berlusconi la politica è cambiata. Meglio: era già cambiata da tempo. Ma la sua discesa in campo ha impresso un'accelerazione evidente a questa trasformazione. I partiti si sono personalizzati. E, allo stesso tempo, hanno progressivamente abbandonato la società e il territorio. Sostituiti dai media. E, in particolare, dalla televisione. In misura crescente, ma ancora più limitata, dalla rete.

Rammentiamo, a questo proposito, i dati dell'ultimo sondaggio di Demos-Coop, dedicato al rapporto fra "Gli italiani e l'informazione" (novembre 2014). L'indagine, infatti, rileva come oltre l'80% degli italiani, per informarsi, utilizzi quotidianamente la televisione. Mentre quasi il 50% ricorre a Internet (10 punti in più rispetto al 2012). Molto minore è, invece, l'accesso ad altri media. Radio (39%) e quotidiani (24%), in particolare. Se, però, ci concentriamo sul pubblico dei talk, la specificità di Ballarò risulta molto chiara. Un anno fa, almeno, (e non c'è motivo di credere che l'orientamento, da allora, sia mutato) la trasmissione condotta da Giannini riscuoteva il gradimento del 55% della base del Pd. Era, inoltre, apprezzata da circa il 60% tra gli elettori di sinistra. In altri termini: per quanto in declino di ascolti, Ballarò costituisce (o almeno costituiva) un riferimento attendibile e credibile per la maggioranza degli elettori del Pd. E soprattutto per le componenti di sinistra. Così si spiega la "sensibilità reattiva" di Renzi e del suo Pd, il PdR, nei confronti dei programmi di informazione e dei talk politici della Terza rete. Al Premier, infatti, come ha ben sottolineato ieri Eugenio Scalfari, "piace piacere". A tutti. Ma, soprattutto, alla base elettorale del suo partito. Per la stessa ragione, è attento ai luoghi dove si forma l'opinione ostile alla sua politica. Soprattutto nel suo partito. Perché l'opposizione più insidiosa al PdR, in questa fase, proviene dalle fila del Pd senza la R. Così Renzi  -  e gli esponenti che gli sono più vicini  -  criticano le reti e i talk televisivi perché lì si è trasferita la politica. Inseguendo, si dice, il "modello americano" del partito "elettorale". Ma negli Usa si vota spesso, per selezionare i candidati ed eleggere diverse cariche. E i partiti - non ideologici, né burocratici - in campagna elettorale riescono a coinvolgere molti volontari, che fanno "porta a porta". Mentre in Italia i leader vanno in Tv, a "Porta a porta", per farsi intervistare da Bruno Vespa.

Negli Usa, inoltre, i partiti elaborano mappe aggiornate delle principali città, con gli orientamenti elettorali precisati quartiere per quartiere, strada per strada. Un "controllo politico" sulla società e sul territorio che, in Italia, avveniva solo al tempo dei partiti di massa. Ma oggi, in Italia, non c'è più religione politica. Il che è meglio. Ma c'è anche poca politica. Dopo Berlusconi, nell'epoca del post-berlusconismo, sono scesi in campo i "post-partiti" (evocati dal titolo di un recente saggio di Paolo Mancini, per il Mulino), guidati da leader post-politici. Abili e visibili in Tv. E sulla Rete. Come Matteo Renzi. Leader del Post-Pd. Oltre Berlusconi, per tecnologia e stile di comunicazione.

Così, chi crede ancora nella politica come luogo di partecipazione sociale e di organizzazione del territorio, oltre che di decisione pubblica, oggi rischia di scoprirsi fuori luogo e fuori tempo. A-topico e A-cronico. Ma è un rischio che, forse, vale la pena di affrontare.

© Riproduzione riservata
05 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/05/news/cosa_resta_della_politica_se_la_tv_diventa_il_nemico-124342389/?ref=HRER2-1
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« Risposta #451 inserito:: Ottobre 14, 2015, 03:20:36 pm »

Roma non tollera i comprimari

Di ILVO DIAMANTI
12 ottobre 2015

Le dimissioni di Ignazio Marino annunciano una fase dagli esiti non chiaramente decifrabili. Pare, infatti, improbabile che il sindaco lasci l'incarico senza disseminare di trappole il percorso di chi lo spinge a uscire di scena al più presto. Per primo, il suo partito, il Pd. E il segretario, Matteo Renzi. Eppure, le sorti di questa amministrazione e del suo capo erano scritte, da tempo. Dettate, anzi: imposte, dalla crescente sfiducia dei cittadini verso l'amministrazione e le istituzioni, oltre che verso il sindaco. Basta rileggere, a questo proposito, i dati del sondaggio condotto da Demos per Repubblica, pochi mesi fa. Quasi 7 cittadini su 10, allora, esprimevano un giudizio negativo sul lavoro svolto dalla giunta Marino. D'altronde, oltre metà dei romani ritenevano che la Capitale fosse governata peggio rispetto alle altre principali città italiane. Marino, dunque, non disponeva da tempo del consenso necessario a governare Roma. Il che non significa che fosse privo di consenso. Come dimostrano le manifestazioni di solidarietà in suo sostegno, che si stanno svolgendo in questi giorni. Ma si tratta, comunque, di un orientamento limitato. Solo un quarto dei romani, infatti, affermava l'intenzione di votare nuovamente per Marino, in caso di nuove elezioni. Mentre oltre il 70% escludeva questa possibilità.

Certo, nei tre mesi trascorsi da quel sondaggio sono avvenute molte cose. Ma è difficile immaginare che questi orientamenti si siano rovesciati. Che il consenso dei romani verso Marino sia cresciuto al punto da ri-conquistare la maggioranza. Anche perché le ragioni di sfiducia sono diverse e profonde. Riguardano la viabilità, la manutenzione delle strade, la gestione dell'immigrazione e dei campi rom. Che suscitano l'insoddisfazione di 8 — o più — cittadini su 10. Poco più, comunque, del malessere sollevato dal problema della criminalità e della sicurezza. Anche perché il "mondo di mezzo" scoperto e scoperchiato, neppure un anno fa, dalle indagini dei magistrati, è ritenuto molto più di una deviazione. Assai più di un fenomeno ampio, ma delimitato. Infatti, la Mafia (nella) Capitale è considerata (molto o abbastanza) diffusa da quasi 9 romani su 10. Praticamente: da tutti.

In "mezzo" a questo "mondo", Ignazio Marino era percepito come un estraneo. Secondo alcuni, un "marziano". "Ir-responsabile" del contesto malavitoso cresciuto intorno a lui. Una persona sostanzialmente "onesta" e "modesta". Incapace di fronteggiare i problemi della città e della vita quotidiana. E, ancor più, di contrastare il fenomeno mafioso che infiltra le istituzioni, le azioni e gli attori pubblici. Per questi motivi, la bufera politica che ha investito il sindaco Marino era largamente annunciata. Dall'insoddisfazione verso le politiche dell'amministrazione e verso il sindaco. Perché (ir)responsabile del degrado cresciuto intorno a lui. A sua insaputa.

In fondo, alcuni episodi che hanno accentuato la crisi di credibilità del sindaco dipendono proprio dalla reazione di Marino all'immagine di "marginalità" e di "irresponsabilità" in cui era — ed è — imprigionato. In particolare, il viaggio a Filadelfia, in occasione della visita di papa Francesco negli Usa. Senza riuscire a incontrarlo. Da pellegrino, invece che da invitato. Lo ha delegittimato ulteriormente. Ne ha enfatizzato il divario fra ambizione e realtà. Vizio imperdonabile per chi deve "rappresentare" — cioè: raffigurare, offrire identità a — Roma Capitale.

Le stesse rivelazioni sull'uso delle carte di credito del Comune per spese personali hanno danneggiato Marino soprattutto a causa della (relativa) "mediocrità" delle vicende e delle cifre contestate.

Così Marino rischia di venire "espulso" perché incapace di assumere un ruolo da protagonista sulla scena pubblica della Capitale, che non tollera comprimari né, tanto meno, figure mediocri. Tanto più — tanto meno — nella Seconda Repubblica, fondata sui media e sui sindaci. E ciò costituisce un problema serio, non solo per Marino e per Roma. Ma, in generale, per i partiti nazionali e, in particolare, per il Pd. Nato dall'esperienza dei sindaci. Di Napoli, Venezia, Torino. E, soprattutto, Roma. Che ha fornito all'Ulivo e al Pd leader nazionali, come Rutelli e Veltroni. Non per caso le elezioni del 2008 — segnate dalla vittoria di Berlusconi in ambito nazionale e di Alemanno a Roma, ma anche dalla parallela sconfitta di Veltroni alle politiche e di Rutelli a Roma — hanno segnato una svolta critica nel percorso del Pd, appena nato.

Oggi, 7 anni dopo, il problema di Roma appare ancora lo specchio di quello nazionale. E viceversa. Perché il Pd è "governato" da un sindaco, Matteo Renzi, che ha rafforzato il profilo "personale" del partito. Così, la soluzione a chi verrà "dopo Marino" viene cercata, ancora, inseguendo nuovi nomi, nuovi volti. Interpreti della "buona politica" (quale? dove?) o della "società civile" (come, d'altronde, si era presentato lo stesso Marino, nel 2013). Rinunciando, invece, alle "primarie", sulle quali si è costruito il rapporto del Pd con la società. La scelta del candidato verrà, dunque, assunta e risolta da un partito poco radicato sul territorio e sempre più personalizzato. Cioè, da Renzi. Con un rischio, ben segnalato da Stefano Folli. Che, il voto di Roma — e delle altre capitali dove si voterà il prossimo anno: Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trieste, Cagliari — assuma non solo un significato nazionale. Ma coinvolga — e investa — direttamente il Sindaco d'Italia e il suo partito. Matteo Renzi e il PdR. Si tradurrebbe, cioè, in un voto di "fiducia". Oppure — se il consenso del M5s si allargasse ancora, come ipotizzano i sondaggi — di "sfiducia".

© Riproduzione riservata
12 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/12/news/roma_non_tollera_i_comprimari-124873561/?ref=HRER2-2
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« Risposta #452 inserito:: Ottobre 26, 2015, 11:49:05 am »

Noi con Salvini. Contro tutti

Di ILVO DIAMANTI
22 ottobre 2015
   
La Lega Nazionale di Matteo Salvini sembra aver perduto la spinta propulsiva. Dopo oltre un anno di espansione elettorale, sottolineata dai sondaggi. E, prima ancora, dai risultati alle elezioni europee e regionali, dopo l'estate ha rallentato la sua marcia. Almeno, secondo i sondaggi dell'Atlante Politico di Demos. Che, naturalmente, sono solo sondaggi. Ma, fino all'estate, avevano rilevato la crescita costante dei leghisti, che avevano varcato il Po. Occupato le regioni rosse. Affacciandosi anche a Sud. Così, negli ultimi mesi, era riuscita a superare Forza Italia. E a intercettare molti elettori di Centro-Destra, spaesati e delusi, dopo il declino di Berlusconi.

La Lega di Salvini: li aveva intercettati spingendosi  -  e spingendoli  -  a Destra. Moltiplicando l'insicurezza prodotta dal costante  -  e crescente  -  flusso di profughi degli ultimi mesi. La Lega Nord si è, così, trasformata, progressivamente, in Lega Nazionale. Meglio: nella Ligue Nationale, per echeggiare il modello francese. Si è, inoltre, personalizzata e mediatizzata, come i principali partiti italiani, in questa fase. Sulla scia di Berlusconi. Per primo, il PDR di Renzi. Abile in TV e sui social media. Come la Lega di Salvini. O meglio: "Noi con Salvini".

Tuttavia, ora questa Lega incontra qualche difficoltà. Non riesce a sfondare nel Mezzogiorno. Mentre in ambito National non corre più come prima. Forse perché i profughi inquietano meno di qualche settimana fa. D'altronde, la "paura spaventa", ma, a gioco lungo, ci si abitua. Comunque, questa Lega, che dice di ispirarsi al Front National, segue un percorso molto diverso. In parte, inverso. Infatti, Marine Le Pen ha moderato contenuti e linguaggio, per attirare i voti dei partiti di centro-destra. Per legittimarsi. Mentre la Lega di Salvini si è, invece, avvicinata a Casa Pound. E ha accentuato il linguaggio e il messaggio xenofobo. Così, per diventare opposizione competitiva e credibile deve allearsi con Forza Italia.

Insieme, il loro peso elettorale, in caso di ballottaggio, si avvicina molto a quello del PdR (come mostra il sondaggio di Demos dei giorni scorsi). Così, la Lega si prepara a sfidare tutti. E mobilita militanti, sostenitori e simpatizzanti, in vista della manifestazione nazionale del prossimo 8 novembre. Dove si presenterà senza simboli di partito. A Bologna. Capitale storica dell'Italia rossa. Peraltro, già "espugnata" dal centrodestra nel 1999, quando venne eletto Giorgio Guazzaloca. La Lega: ambisce a diventare "Noi con Salvini. E contro tutti". Contro il governo, contro la sinistra, contro il PD e contro Renzi. Contro i profughi che ci invadono. Contro i Rom (senza la a. Visto che Rom-a è divenuta una piazza attraente, anche per i leghisti). Contro Berlusconi e Forza Italia, che promette e minaccia di convocare, lo stesso giorno, un'altra manifestazione.
Poco lontano. A casa di Renzi. A Firenze, l'altra capitale dell'Italia di sinistra.

"Noi con Salvini e contro tutti". È la manifestazione annunciata dalla Lega e dal suo leader per rilanciarsi. E per ritrovarsi. Per ritrovare un senso, un fine, una missione. Un nemico. Meglio. Molti nemici. Renzi. E tutto il mondo che incombe. Intorno a noi. Intorno alla Lega di Salvini. Intorno a Salvini.

© Riproduzione riservata
22 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2015/10/22/news/noi_con_salvini_contro_tutti-125624659/?ref=HRER2-2
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« Risposta #453 inserito:: Ottobre 28, 2015, 06:08:05 pm »

Mafia e malgoverno dietro la crisi di Roma.
E il clan Alemanno ha più colpe di Marino
 Sondaggio Demos.
Gli italiani seguono le vicende della capitale, e vi scorgono lo specchio delle deviazioni che inquinano il Paese. Sotto accusa le amministrazioni di centrodestra, ma anche il Pd.
Che per scegliere il nuovo candidato sindaco non deve rinunciare alle primarie

Di ILVO DIAMANTI
18 ottobre 2015

Le dimissioni di Ignazio Marino non riguardano solo Roma. Ovviamente. Ma tutta l'Italia. Perché Roma è la capitale. Dove risiedono il governo e le istituzioni centrali dello Stato. Gli organismi dirigenti della politica e dell'economia. Roma, per questo, è anche un simbolo. Un riferimento usato in senso, talora, polemico, da molti italiani. Soprattutto, ma non solo, del Nord. Dove, negli anni Novanta, si è imposta la cosiddetta " questione" settentrionale, per dare voce e potere ai nuovi attori e ai nuovi luoghi dello sviluppo. Al " capitalismo dei beni immateriali" (per citare Arnaldo Bagnasco: finanza, comunicazione, servizi ) cresciuti intorno a Milano. Al " micro-capitalismo della piccola impresa", che, in quegli anni, si era diffuso nel Nordest e nella provincia lombarda. Berlusconi e la Lega ne sono stati, allora, il " megafono" (come direbbe, oggi, Beppe Grillo). Allora, nel Nord, Roma echeggiava spesso, negli slogan e nei discorsi polemici. Rifletteva la frattura che opponeva i nuovi Nord e i nuovi capitalismi alla capitale storica dell'Italia. Roma. Alleata del " vecchio Nord", polarizzato intorno a Torino. Capitale della grande industria (protetta). Roma, al tempo stesso: complice dell'economia assistita del Mezzogiorno. Roma: il " centro" dei partiti e dei poteri nazionali a cui si opponeva la Lega. Quando i suoi militanti - e sostenitori - gridavano (e scrivevano sui muri e sui cavalcavia delle autostrade): " Roma ladrona, la Lega non perdona!", il successo politico di Berlusconi e della Lega si era, per questo, accompagnato all'affermarsi di due capitali alternative. La metropoli diffusa del Nordest. Insieme a Milano. Non per caso, nei primi anni Novanta (quando i talk politici facevano grandi ascolti), la trasmissione tv di tendenza, condotta da Gad Lerner, era " Milano, Italia".

Roma, però, ha dimostrato grande capacità di resistenza. Adattamento. E di mimetismo. È cambiata ma, soprattutto, ha cambiato coloro che l'hanno frequentata. Per professione e per missione. Ha cambiato anche coloro che vi si sono insediati con il proposito - esplicito - di cambiarla. Per cambiare lo Stato, cambiandone, anzitutto, il Centro. Basti pensare alla Lega di Bossi, che è divenuta, progressivamente, " romana", fino a riprodurne le cattive abitudini. Mentre la Lega di Salvini, dopo aver vinto ed emarginato la Lega di Bossi, ha accettato il significato stesso di Roma-Capitale. Divenendo " Lega Nazionale".

Per questo, anche per questo, ciò che avviene sulla scena romana è osservato con interesse da chi vive oltre i confini della capitale. Lo conferma il sondaggio condotto, nei giorni scorsi, da Demos per Repubblica, in ambito nazionale. Le polemiche che hanno coinvolto il sindaco Marino, infatti, sono state seguite con - molta o abbastanza - attenzione da poco più della metà degli italiani. Mentre oltre un terzo ha riservato loro uno sguardo più disattento. Ma solo una piccola componente, circa una persona su dieci, dichiara di non essersene interessata per nulla. Insomma, un talk di successo. Seguito, però, come fosse una fiction. Una sorta di " Romanzo criminale". La spiegazione principale della crisi, non per caso, è ricondotta dal 31% degli italiani alla scoperta di Mafia Capitale. All'intreccio tra (mal)affari, malavita e politica, che affonda le radici nel " mondo di mezzo". Una causa importante della crisi, segnalata da un quarto degli italiani (intervistati), è, inoltre, il mal-governo della città. Mentre alle polemiche sollevate dall'uso della carta di credito del Comune, da parte del sindaco, per spese personali, non viene attribuito grande peso. Come, d'altronde, alle tensioni interne al Pd. Minima, infine, l'importanza riconosciuta alle interferenze vaticane. Dietro alla crisi romana dunque, gli italiani vedono soprattutto le influenze incrociate della corruzione - politica e sociale - con la mediocre qualità del governo.

Per questo, non esiste " un solo" responsabile. La crisi di Roma, secondo gli italiani, ha diversi artefici. Tra questi, sicuramente, il sindaco Marino. Il quale, però, non è individuato come il principale " colpevole". All'origine del degrado, invece, quasi due italiani su tre vedono, anzitutto, l'amministrazione di centro-destra che ha governato Roma nel passato recente. Mentre le colpe del sindaco Marino e quelle del Pd, secondo gli italiani, pesano in egual misura, (57%). Molto di più rispetto al premier - e segretario nazionale del Pd - Matteo Renzi. Che, non per caso, nel commento ai dati dell'Atlante Politico pubblicato ieri, ho definito " Presidente senza partito". Visto che il suo consenso personale non si trasmette automaticamente al Pd. Sul quale, semmai, si scarica il risentimento sociale.

Infine, una componente più limitata, ma significativa, punta il dito sui cittadini romani. A conferma dell'immagine confusa prodotta dalla crisi di Roma. Dove il mal-affare si intreccia con gli affari. La corruzione politica sconfina nell'incapacità politica - e di governo - locale. E la società civile coabita, talora, con quella in-civile.

È, tuttavia, interessante notare come un'ampia maggioranza degli italiani (il 62%, che sale al 71% fra gli elettori del PD) continui a considerare le " primarie" il metodo migliore per scegliere il candidato. Segno che, al di là delle riserve e delle critiche (anche giustificate) emerse al proposito in molti ambienti politici - e non -, questa pratica, fra i cittadini, riscuote ancora larghi consensi. Tanto più a centrosinistra. Dove la domanda di partecipazione è particolarmente intensa e diffusa.

Nell'insieme, il sondaggio conferma come Roma, anche in fasi critiche come questa, non sia percepita, dagli italiani, come un luogo distante e distinto dal contesto nazionale. Al contrario. È vista come lo specchio delle deviazioni che coinvolgono il Paese. A ogni latitudine. A Nordest come a Nordovest. E - proprio in questi giorni - a Milano. Ma è, al tempo stesso, teatro della " Grande bellezza", narrata da Paolo Sorrentino. Centro di contrasti. E di paradossi estremi.

Per questo è guardata con attenzione e con interesse da tutti gli italiani. Nonostante le ironie e le invettive, è " Roma, Italia". O meglio: " Roma, Italie". Perché, in fondo, siamo tutti un po' romani.

© Riproduzione riservata
18 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/18/news/mafia_e_malgoverno_dietro_la_crisi_di_roma_e_il_clan_alemanno_ha_piu_colpe_di_marino-125326208/?ref=fbpr
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« Risposta #454 inserito:: Ottobre 28, 2015, 06:16:33 pm »

Cresce la fiducia in Renzi, ma non nel Pd / Atlante politico
Il sondaggio di Demos mostra un leader senza partito.
Il M5S si avvicina ancora, Forza Italia controsorpassa la Lega

Di ILVO DIAMANTI
17 ottobre 2015
   
Renzi prosegue la sua marcia. Tra una riforma e l'altra, senza sosta e senza quiete. Quasi un corpo a corpo. Con le opposizioni e con la maggioranza - peraltro, a geometria variabile. Mentre il PD è, a sua volta, scosso da tensioni interne. Un cammino contrastato, che lascia tracce visibili nell'opinione pubblica. Come emerge dal sondaggio dell'Atlante Politico di Demos, condotto nei giorni scorsi, in ambito nazionale.

L'aspetto, forse, più inatteso dell'indagine - almeno dal mio punto di vista - è la distanza crescente, per non dire la dissociazione, fra Matteo Renzi e il PD. Il Partito: sembra in maggiore difficoltà rispetto al Premier. Che ha, ormai, " personalizzato" il governo, più ancora del partito.

Certo, il giudizio dei cittadini su Renzi e sul governo non è più quello del periodo aureo, successivo alle elezioni europee. Ma nell'ultima fase si è mantenuto, sostanzialmente, costante. Oggi, il 42% degli elettori (intervistati) esprime una valutazione (sufficientemente o molto) positiva sull'azione del governo. Più o meno come nel novembre 2014. Ma un po' più rispetto allo scorso giugno (39%). Il giudizio " personale" su Matteo Renzi ha, invece, subì to variazioni più rilevanti. Oggi il 44% degli italiani mostra di gradire il suo operato. Molto meno rispetto a un anno fa, quando l'indice superava il 60%. Ma, comunque, più degli ultimi mesi. Visto che lo scorso giugno era appena sopra al 40%. Tuttavia, Renzi resta il leader politico, di gran lunga, più apprezzato. Dietro a lui, Giorgia Meloni, assai più popolare del partito che guida (Fratelli d'Italia). Mentre i suoi avversari diretti sono lontani. Matteo Salvini, leader della Lega, è, infatti, valutato positivamente dal 33% dei cittadini (intervistati). In calo di 4 punti rispetto allo scorso giugno. Luigi Di Maio e Beppe Grillo, i portavoce del M5s: è gradito al 31%. Mentre Silvio Berlusconi, nemico-amico del premier, secondo la convenienza, è ancora più in basso. Apprezzato dal 26% dei cittadini. Un consenso, comunque, maggiore degli amici che lo hanno abbandonato strada facendo. Visto che il gradimento per Alfano, leader dell'NCD, si ferma al 23%. Mentre Verdini, ultimo ad aver lasciato Berlusconi, è ancora sconosciuto a molti (41%). E, comunque, sono in pochi (8%) ad apprezzarne le virtù politiche.

Così, Matteo Renzi appare, sempre più, il Capo di un Governo modellato a sua immagine. Che riesce a proseguire la marcia, nonostante le difficoltà e le insidie. E nonostante il malessere diffuso

nei confronti delle sue politiche. Visto che la maggioranza dei cittadini non sembra soddisfatta delle riforme avviate e approvate. In particolare, in materia di scuola, tasse e immigrazione. Lo stesso iper-attivismo del Premier - il suo marchio - rischia, a gioco lungo, di ridurre l'efficacia - per non dire l'utilità - delle sue iniziative, nella percezione dei cittadini. Si pensi alle riforme istituzionali. Soprattutto, alla riforma del Senato, che abolisce il bicameralismo perfetto. La bandiera di Renzi. Della sua volontà - e capacità - di voltar pagina. Quasi tre italiani su quattro la ritengono poco o per nulla influente, se non (il 9%) perfino dannosa. Oppure (il 16%) non ne sanno e non ne capiscono nulla.

Così, in tempi di distacco dalla politica e, anzi, di antipolitica, il Premier risulta, nonostante tutto, " moderatamente" apprezzato. Da una parte di italiani minoritaria. Ma, comunque, in misura superiore a tutti gli altri " politici". Il rischio principale, per Renzi, è semmai, di apparire sempre più " solo". Il Capo di una Repubblica fondata sul Premier. Una " Repubblica indistinta", per citare Edmondo Berselli. E imprevista, dalle riforme costituzionali e istituzionali approvate.

Per contro, la delusione e il malessere sociale, prodotti da una ripresa economica incerta e dagli scandali che si susseguono, lo sfiorano, senza investirlo direttamente. La stessa crisi politica romana, che ha spinto il sindaco Marino alle dimissioni, non sembra aver logorato il consenso di Renzi. I costi più elevati, semmai, li ha pagati il PD. Secondo le stime di voto di Demos, sarebbe sceso sotto il 32%. Il livello più basso dalle elezioni europee fino ad oggi. Mentre il M5s ha raggiunto il livello più elevato: il 27,2%. La distanza fra i due partiti si è, dunque, ridotta a circa 4 punti e mezzo. Alle europee era di quasi 20. Un anno fa: di oltre 16.

Gli altri partiti sono lontani. La Lega di Salvini sembra aver interrotto la sua corsa. La " pausa" nel flusso dei profughi - sui media, se non nella realtà - ha, probabilmente, ridotto l'efficacia del messaggio leghista. Così, attualmente, Forza Italia ha superato, di nuovo, la Lega. O, forse, è avvenuto il contrario. La Lega è scivolata sotto Forza Italia. Di poco. Meno di un punto percentuale. Entrambe attestate intorno al 13%. Anche per questo, i due partiti sembrano " condannati alla coalizione". Perché da soli rischiano la marginalità. Insieme, invece, diverrebbero competitivi. Soprattutto in caso di ballottaggio, come previsto dall'Italicum, la nuova legge elettorale voluta da Renzi. Secondo le stime di Demos, l'asse Lega-Forza Italia supererebbe il 48%. E si avvicinerebbe, dunque, al PD. Anche la sfida con il M5s, d'altronde, risulterebbe insidiosa, per il PD. Che non arriverebbe al 53%. In entrambi i casi, la distanza è ridotta. Al punto da non permettere previsioni sicure. Il PD appare, dunque, " favorito", ma non " predestinato" a un successo sicuro.

Naturalmente, sappiamo bene che i sondaggi sono fallaci. Esercizi teorici. Tanto più oggi, quando la scadenza delle prossime elezioni è lontana e, comunque, non prevedibile. Eppure anche questi dati servono a segnalare come il problema politico, forse, maggiore, per Renzi, oggi, non sia il governo. Ma il partito. Diviso fra PdR e PD. Una situazione insidiosa. Non solo per il PD. Anche per Renzi. Capo di un " governo personale". Ma può avere futuro un premier senza partito?
© Riproduzione riservata
17 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/17/news/renzi_leader_senza_partito_lui_sale_ma_il_pd_scende_m5s_ancora_in_crescita_fi_controsorpassa_la_lega-125255076/?ref=HREA-1
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« Risposta #455 inserito:: Novembre 02, 2015, 08:33:31 pm »

Ma il Papa più amato non porta consensi a una Chiesa sotto assedio
Il sondaggio.
La spinta innovativa di Bergoglio ha creato un divario con le istituzioni religiose che non è mai stato così ampio in nessun pontificato

Di ILVO DIAMANTI
28 ottobre 2015

IL Sinodo, che si è appena concluso, ha confermato i cambiamenti in atto nella Chiesa. Sui temi etici e sociali. È stato, peraltro, scosso dalle rivelazioni, poi smentite, circa un presunto tumore al cervello, da cui sarebbe afflitto il Pontefice. Segnali che confermano come la spinta innovativa, impressa da papa Francesco, abbia prodotto tensioni che trascendono il campo religioso. Papa Francesco e la Chiesa, infatti, si rivolgono a pubblici, in parte, diversi. Per dimensione. E orientamento. Difficile incontrare un divario altrettanto ampio, nei precedenti pontificati. Dai primi anni Duemila, nessun Papa è stato altrettanto apprezzato. Almeno, in Italia. Dove ha sede il Vaticano. Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II, era, a sua volta, molto popolare. Secondo un sondaggio condotto da Demos nel 2003, più di 3 italiani su 4 esprimevano fiducia nei suoi confronti. All'epoca, fra gli italiani, anche la Chiesa disponeva di un consenso elevato. Superiore al 60%.
IL SONDAGGIO - LE TABELLE
Nel decennio successivo, tuttavia, il clima d'opinione si raffredda. In particolare, dopo il 2005, anno di elezione di Joseph Ratzinger, Benedetto XVI. Allora la fiducia nel Papa e, insieme, nella Chiesa declina. Si allinea, intorno al 50%. Joseph Ratzinger, d'altronde, è troppo intellettuale e  -  all'apparenza  -  distaccato, per suscitare passione. Benedetto XVI, per scelta consapevole, intraprende un cammino diverso. Deve confrontarsi con nuove sfide. Fra tutte: la secolarizzazione "consumista" e le migrazioni, che allargano il campo religioso. Attraverso l'ingresso di comunità che praticano altre fedi. Fra tutte: l'Islam. Così, la Chiesa di Ratzinger si dedica a marcare i confini: religiosi ed etici. Coltiva quello che, il suo maestro, Romano Guardini, definì "il distintivo cristiano". Ciò che "distingue" e differenzia i cristiani -  e, in particolare, i cattolici -  dagli altri "fedeli". Il messaggio di Benedetto XVI, dunque, si orienta principalmente al mondo cattolico. Per rafforzarne la coesione e le convinzioni. Anche così si spiega la riduzione dei consensi. Verso il Papa e, al contempo, verso la Chiesa. Visto che il Papa agisce, consapevolmente, anzitutto, "nella" Chiesa. E parla, principalmente, al mondo cattolico. La fiducia nei suoi confronti, di conseguenza, si "concentra" e si de-limita. Fino alle sue dimissioni, che ne umanizzano e valorizzano l'identità.

Così il suo credito, presso gli italiani, nel febbraio 2013, risale oltre il 53%. Mentre nei confronti della Chiesa si ferma al 44%. D'altronde, allora, oltre il 70% degli italiani si diceva d'accordo con la scelta di Ratzinger. Ritenuta una reazione, di fronte a una Chiesa (romana) lacerata da lotte interne e scossa dagli scandali. Gli succede Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco. E ottiene, subito, la fiducia di una larghissima maggioranza di italiani. Più di 8 su 10. Oltre il doppio rispetto alla Chiesa, che, nei primi mesi del suo pontificato, vede scendere la propria credibilità intorno al 40% dei consensi. Da ciò l'impressione che la fiducia nel Papa dipenda, in parte, da una condotta alternativa rispetto alla curia vaticana. Non per nulla l'ha definita e (stigmatizzata) come "l'ultima corte d'Europa". Nei due anni successivi, comunque, il consenso verso Bergoglio si è, in qualche misura, riverberato sulla Chiesa. Che ha visto crescere la propria credibilità, fino a superare il 50%. Come nella prima fase del pontificato di Benedetto XVI. Attualmente la fiducia nella Chiesa si aggira intorno al 47%. In altri termini: quasi 40 punti meno di papa Bergoglio, apprezzato da oltre l'80% degli italiani. Il distacco fra i due soggetti, il Papa e la Chiesa, in effetti, non è mai stato così ampio. Neppure all'epoca di papa Wojtyla. Le ragioni di questa differenza sono evidenti se si valutano gli orientamenti in base alla pratica religiosa. Papa Francesco, infatti, è guardato con fiducia dalla quasi totalità dei praticanti più assidui e saltuari.

Ma anche da una larga maggioranza (57%) di coloro che non vanno a messa. La fiducia verso la Chiesa, invece, è molto elevata, fra i praticanti assidui, ma crolla fra i saltuari e scompare insieme alla pratica. Per un confronto, il consenso verso papa Ratzinger, nel 2009 (Demos per Repubblica), superava il 60%, fra i praticanti e i saltuari, ma scendeva alla metà, fra i non praticanti.

Papa Francesco: "Il Sinodo è stato faticoso, ma porterà molto frutto"
In altri termini, papa Francesco unifica il sentimento degli italiani, al di là della fede e della pratica religiosa. La Chiesa, invece, lo divide. Non solo per ragioni di fede. Anche perché non sempre riesce a offrire un'immagine credibile. A causa di alcuni comportamenti che papa Francesco non ha esitato a denunciare. Anche per questo il sostegno a Francesco risulta così alto. E trasversale. Anche dal punto di vista politico. Il Papa, infatti, piace a sinistra ma anche a destra. Agli elettori del PD ma anche, e ancor più, a quelli di FI. Piace alla base del M5S, un po' meno ai leghisti. Che non ne apprezzano la pietà verso i profughi. Tuttavia, anche tra loro il gradimento per Francesco supera l'80%.

Questi dati, peraltro, suggeriscono il motivo, forse principale, di ri-sentimento verso il Papa, all'interno di alcune componenti della Chiesa-istituzione. Al di là delle logiche difensive di alcuni soggetti privilegiati, c'è una questione sostanziale. Questo Papa: è troppo popolare - per alcuni un po' populista. Troppo proiettato - e amato - all'esterno. Troppo aperto. Mentre la Chiesa, in questi tempi, si sente minacciata dalla secolarizzazione. Dalla cultura del consumo. Vede il proprio spazio conteso da altre religioni. Questo Papa: piace troppo a troppi, per essere accettato senza problemi da una Chiesa-fortezza. Assediata dal mondo.

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28 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/vaticano/2015/10/28/news/ma_il_papa_piu_amato_non_porta_consensi_a_una_chiesa_sotto_assedio-126039401/?ref=fbpr
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« Risposta #456 inserito:: Novembre 04, 2015, 06:09:47 pm »

La controdemocrazia.

Ilvo DIAMANTI

Non è facile governare, in Italia. A nessun livello. Al di là dei limiti della classe politica, l'azione dei gruppi dirigenti è frenata da molti vincoli. Istituzionali e legislativi. Volti a impedire lo sconfinamento dei poteri politici in ambito economico, sociale. E nella sfera dei diritti dei cittadini. La tiranno-fobia, alimentata dall'esperienza del fascismo, ha contribuito, in fase costituente, a rafforzare i poteri di controllo. Perché "ogni buona costituzione è un atto di sfiducia nei confronti del potere", osservava Benjamin Constant nel 1829. Così, le istituzioni di garanzia, per prima la magistratura, hanno assunto grande autorità. Anche se i poteri " politici" hanno cercato, spesso, di neutralizzarla. Fino a quando, nei primi anni Novanta, Tangentopoli ha travolto la classe politica della cosiddetta Prima Repubblica. Indebolita dagli scandali per corruzione. Da allora, magistrati, giudici, avvocati, insomma, le diverse istituzioni e figure del sistema giudiziario, hanno assunto un ruolo prioritario. Più che " garanti della giustizia": " giustizieri". Nel senso che i cittadini hanno affidato loro il compito di " giustiziare" la classe politica, inefficace e - appunto - corrotta. " Garanti della pubblica virtù", li definì Alessandro Pizzorno. In grado di delegittimare un leader, un partito, un'amministrazione. Tanto più al tempo della " democrazia del pubblico", dove i media e, soprattutto, la televisione hanno costituito il principale spazio della politica. Il centro dell'opinione pubblica.

Da allora, cioè, negli ultimi vent'anni, i " professionisti della giustizia", oltre che garanti, sono divenuti attori politici di primo piano. Magistrati e avvocati sono, infatti, numerosi: alla Camera e in Senato. Ma anche fra i sindaci e i governatori. Oppure, fra i " custodi" della legalità, in occasione di manifestazioni dove l'interesse pubblico si associa a grandi interessi economici e commerciali. Come l'Expo e le celebrazioni - imminenti - per il Giubileo. Allora la figura del magistrato, ma anche del prefetto, insomma: del " garante del bene pubblico", è divenuta una soluzione, quasi, obbligata. Per ragioni di " sfiducia" nei confronti del potere politico. Per citare un altro filosofo francese, in questo caso contemporaneo, Pierre Rosanvallon, l'Italia è un caso esemplare di " contro-democrazia". Che non significa anti-democrazia, ma " democrazia della sorveglianza". Dove la sfiducia si traduce in controllo democratico. Esercitata dai magistrati, ma anche da movimenti, comitati e dagli stessi cittadini. Soprattutto dopo l'avvento di Internet, che è divenuto un canale di controllo e denuncia largamente accessibile e frequentato.

Per questo, il nostro Paese dovrebbe essere considerato una " vera" democrazia. Benjamin Constant ne sarebbe ammirato. Perché, se la sfiducia è una " virtù democratica", l'Italia dovrebbe essere una democrazia particolarmente virtuosa. Visto che le istituzioni rappresentative sono sempre più " sfiduciate" dai cittadini. Parlamento, Regioni, Comuni. Perfino la fiducia verso lo Stato oggi non supera il 15% (Sondaggi Demos). Cioè: la metà rispetto al 2010. Mentre la fiducia nei partiti - lo abbiamo ripetuto spesso - è ormai scesa al 3%. D'altronde, oggi, oltre vent'anni dopo Tangentopoli, secondo il 47% degli italiani, la corruzione politica sarebbe più diffusa di allora. Secondo il 42%: allo stesso modo. Meno del 10% pensa, al contrario, che sia diminuita. Insomma, partiti e politici: tutti corrotti, proprio come allora.

Anche per questo, da molti anni, per ricoprire cariche e ruoli di amministrazione e di governo, si cercano figure " non politiche". Come confermano le recenti vicende romane. Dove al posto del sindaco Ignazio Marino, chirurgo trapiantista, sfiduciato dai consiglieri comunali, è stato nominato commissario Francesco Paolo Tronca, prefetto di Milano. Alla guida dell'Expo. A Roma era già stato chiamato Franco Gabrielli. Anch'egli prefetto. In precedenza direttore del Sisde. Fra i possibili candidati sindaci, si parla di Giovanni Malagò, Alfio Marchini. Non per caso: " non politici". D'altronde, a Napoli governa De Magistris, in Puglia: Emiliano (già sindaco di Bari). Entrambi magistrati. A Venezia è divenuto sindaco Luigi Brugnaro, imprenditore. Sfidato da Felice Casson, a lungo magistrato della città.

Il problema, semmai, in Italia, è che la contro-democrazia è " una" faccia della democrazia. Che è anche " governo". Ma in Italia l'azione di governo risulta più faticosa del contro-governo. Non per caso, il Movimento 5 Stelle, percepito dagli elettori come uno strumento di " sorveglianza democratica", secondo i sondaggi, oggi avrebbe superato il 27%. E si starebbe avvicinando al PdR. Mentre si assiste al declino dei canali della rappresentanza e della partecipazione. I corpi intermedi e i partiti: tradizionali canali di formazione della classe politica. E di promozione dei valori e delle domande sociali.

Il trionfo della contro-democrazia, però, sta logorando i suoi stessi protagonisti. La fiducia nei magistrati, infatti, fra i cittadini, dal 47%, nel 2003, è scesa al 35% nel giugno 2015. Tuttavia, anche se non è popolare (e neppure populista) affermarlo, io ritengo che una democrazia (rappresentativa) senza partiti non esista. Non sia " democratica". La politica, i politici: non possono essere rimpiazzati da magistrati, prefetti, imprenditori, giudici, avvocati, chirurghi. Scelti on demand perché " impolitici". Senza generare un senso di " vuoto". D'altronde, 7 persone su 10, in un sondaggio (Demos) di alcuni mesi fa, sostenevano che, in questo clima di confusione, " ci vorrebbe un uomo forte a guidare il Paese".

Matteo Renzi interpreta questi tempi inquieti. Li traduce " a modo suo". Per quanto " politico di professione" che rivendica il primato della politica, Renzi: decide (o dice di farlo) " da solo". È il premier di un governo " personale", il segretario di un partito che non c'è (più). Alla guida di un Paese dove non ci si fida di nessuno. Emblema di un presidenzialismo preterintenzionale, che sfida attori e vincoli della contro-democrazia. Specchio di una democrazia liquida. Fin troppo.

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03 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/03/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_1682479-126511352/?ref=HRER2-2
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« Risposta #457 inserito:: Novembre 09, 2015, 04:51:31 pm »

Il forzaleghismo al test ballottaggio: la sfida ai democratici in 4 punti
Nel sondaggio Demos la "finalissima" Renzi-Salvini ha un esito netto a favore del centrosinistra.
Ma con l'asse Lega-Forza Italia la partita è sul filo.
Perché in quel caso si muoverebbero un quarto degli astenuti al primo turno


Di ILVO DIAMANTI
09 novembre 2015
   
La manifestazione che si è svolta ieri a Bologna ha saldato l'intesa tra Lega e Forza Italia. Tra Salvini e Berlusconi. Nonostante le incertezze delle ultime settimane, quando pareva che Berlusconi non avrebbe partecipato. Nonostante le polemiche interne ai partiti, soprattutto in Forza Italia. Nonostante tutto: Salvini e Berlusconi si sono presentati insieme. A marcare l'identità del Soggetto Politico Forza-leghista. O, meglio, Lega-forzista. Perché molti commentatori hanno visto in questa manifestazione una sorta di sottomissione di Berlusconi e di FI alla "nuova" destra, riunita da Salvini a Bologna. Dov'era presente anche Giorgia Meloni con i suoi Fratelli d'Italia. D'altronde, Salvini aveva scelto di non esibire marchi, né bandiere di partito. Perché, come ha ribadito dal palco, a Piazza Maggiore: "Qui nasce qualcosa di nuovo guidato da noi". E, quindi, da lui. Da parte sua, Silvio Berlusconi non pare intenzionato a farsi da parte. Ha, infatti, scandito, in modo inequivocabile: ‘Con Matteo, Giorgia e il ritorno di Silvio non ce ne sarà più per nessuno''. Sollevando fra i militanti presenti più di qualche dissenso. D'altronde, i rapporti fra i gruppi dirigenti e la base dei due partiti non sono mai stati particolarmente caldi. Troppo diversi, per storia e identità. La Lega: sorta come partito "dei" Nord. Radicato nelle classi popolari e nel lavoro autonomo. Indipendentista. Organizzata sul territorio. Identificata e rappresentata dalla figura del leader. Umberto Bossi.

Forza Italia. Partito "personale", inventato e costruito da Silvio Berlusconi. A immagine del "capo". Imprenditore mediale. Proprietario del principale gruppo televisivo privato. Oltre che di aziende del settore immobiliare, finanziario, pubblicitario. Forza Italia: ha attratto il voto dei ceti popolari, oltre che dalla piccola borghesia. Ma, soprattutto, ha occupato lo spazio lasciato vuoto dai partiti di governo dopo la fine della (cosiddetta) Prima Repubblica. Intercettando la sfiducia politica, diffusa in Italia, dopo Tangentopoli. Berlusconi. Ha coalizzato soggetti politici per molti versi lontani. Accomunati anche dal radicamento nel Nord. A Milano e nel Lombardo-Veneto. E dal sentimento (anti)politico. Berlusconi: ha canalizzato il voto dei "poli esclusi" (come li ha definiti Piero Ignazi). La Lega nel Nord, la Destra nel Sud. Li ha trasformati in maggioranza di governo. Per quanto instabile. Perché le componenti anti- politiche di questi gruppi dirigenti ostacolavano la "continuità".

Lo stesso problema, in fondo, si ripropone oggi. Anche se molto è cambiato, da allora. La Lega di Salvini ha, ormai, raggiunto Forza Italia, sul piano elettorale (almeno, nei sondaggi). Soprattutto, a causa del declino di Berlusconi e del suo partito personale. Ma anche per l'ascesa, parallela, della Lega, che Salvini ha trasformato in un soggetto politico di destra. Personalizzato. Xenofobo e antieuropeo. Che mira a espandersi a Centro-Sud. "Noi con Salvini". Una Ligue Nationale, sulle tracce del FN di Marine Le Pen. Anche se è difficile, per Salvini, affermarsi davvero su base Nationale. Perché, comunque, la storia nordista del suo partito gli impedisce di sfondare a Sud. E perché la Lega di Salvini è percepita dagli elettori come un soggetto anti-politico, più che politico. La nuova legge elettorale, l'Italicum, fatta approvare da Renzi, accentua queste difficoltà. Lo possiamo verificare dalle stime ricavate dal sondaggio di Demos di alcune settimane fa.

In caso di ballottaggio, infatti, la Lega Nord non sembra avere possibilità di successo. Risulta, infatti, distanziata di quasi 20 punti dal PD di Renzi. Il PdR. Oltre ai propri elettori, infatti, nel secondo turno potrebbe intercettare il consenso di 6 elettori di FI su 10. Mentre gli altri sceglierebbero il PdR oppure l'astensione. Otterrebbe, inoltre, il voto di quasi 3 elettori su 10 del M5s. E di un terzo di coloro che, al primo turno, si asterrebbero. Mentre raccoglierebbe poco o nulla dagli elettori dei partiti di Centro -  e di Centro-Destra. Troppo poco per ambire alla vittoria. Lo scenario, però, cambierebbe in modo significativo se Salvini e Berlusconi, Lega e Forza Italia, si presentassero uniti. Sotto le bandiere del Lega-forzismo, parafrasando la formula coniata da Edmondo Berselli, circa dieci anni fa. Allora diverrebbero sicuramente più competitivi. Secondo le stime di Demos (ottobre 2015), il PdR sarebbe ancora avanti. Ma di poco: 52% a 48%. Ciò significa: una partita apertissima e incerta. Il maggiore differenziale di consensi, rispetto alla Lega solitaria, giungerebbe, appunto, dalla base elettorale di FI.

Il Nuovo Soggetto Lega-Forzista otterrebbe anche il 27% degli astenuti del primo turno. E "convertirebbe" un quarto degli elettori del M5s. Infine, esprimerebbe maggiore capacità di attrazione verso gli altri partiti di Destra e, in qualche misura, di Centro. Ma, al di là delle dinamiche dei flussi, contano le dinamiche politiche. La Lega di Salvini, come prima quella di Bossi, fatica a legittimarsi come soggetto di governo. A intercettare il voto dei moderati. A causa di un linguaggio e un messaggio sempre più estremi. Il contrario della strategia condotta da Marine Le Pen in Francia. Così, Berlusconi, per quanto indebolito, diventa, come in passato, un lasciapassare. Un "mediatore". Perché è la figura che ha contrassegnato la politica italiana degli ultimi vent'anni. Il Berlusconismo: il marchio di un'epoca che continua, ancora oggi, a proiettare i suoi riflessi.

Naturalmente, si tratta di un passaggio complicato. Anche se i due partiti condividono circa metà del loro bacino di simpatizzanti, non è detto che farli marciare dietro alla stessa bandiera e allo stesso leader possa funzionare. Oggi, questa via è intrapresa non per confidenza, ma per - reciproca -convenienza. Per "stato di necessità". Domani è un altro giorno: si vedrà.
 
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09 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/09/news/il_forzaleghismo_al_test_ballottaggio_la_sfida_ai_democratici_in_4_punti-126937849/?ref=HRER2-1
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« Risposta #458 inserito:: Novembre 17, 2015, 06:55:18 pm »

Valeria non deve morire

16 novembre 2015

INSEGNO a Urbino da venticinque anni e a Parigi da venti. Non mi è mai stato facile far convivere i miei impegni in due Università e in due città così lontane. E così diverse. Eppure mi è stato utile. Dal punto scientifico, professionale. E umano. Perché sono due città bellissime, nella loro assoluta differenza. La Metropoli e la piccola "Città ideale". Eppure, per quanto distanti e distinte, per quanto incomparabili, queste due città, dal mio punto di vista, hanno almeno un aspetto che le accomuna. I giovani. Gli studenti.

A Urbino, ormai, quando incontri uno della mia età, non ci sono alternative: se non è un turista, è un professore. I residenti, quelli si sono trasferiti all'esterno. Hanno "affittato" la città agli studenti.

Quanto a Parigi, secondo il Qs World University Ranking, è al primo posto nella classifica delle Best Student Cities in the World. Cioè: delle migliori città dove studiare. A Parigi, d'altronde, ci sono 13 Università, più le Grandes Ecoles, che accolgono, ogni anno, decine di migliaia di studenti stranieri. Fra loro, Valeria Solesin, uccisa venerdì scorso dai fanatici jihadisti che hanno terrorizzato la Ville Lumière. Ammazzato 150 persone. Ferendone altrettante. In larga misura giovani. E studenti. Valeria era dottoranda in Demografia alla Sorbonne. Una vita per gli studi. Alternata all'impegno volontario.  Con Emergency. Accanto ai poveri del mondo. Un "cervello in fuga", si è detto, come altre migliaia di giovani. Non solo studenti. Che hanno a Parigi quella "Metropoli ideale", che gli jihadisti hanno voluto colpire. Lasciando dietro di sé una scia di sangue lungo un itinerario che io stesso sono solito percorrere. Suggestivo e ad alto contenuto simbolico. Da Place de la République a Rue Voltaire. Dove ha sede il Bataclan. Teatro del massacro di tanti giovani, accorsi a un concerto hard rock. Prima di tutto, per stare insieme. Per questo è stato scelto come bersaglio esemplare. Da chi non ha più ideali, né speranze, né futuro. E vorrebbe, per questo, uccidere gli ideali, le speranze e il futuro, che Valeria e gli altri giovani come lei, interpretano. Colpevoli -  esemplari - di essere giovani. E studenti. Tanto più, per gli jihadisti, se donne.

Ma, proprio per questo, Valeria non deve morire. Invano. Per i miei studenti di Paris II, in gran parte stranieri (non francesi). Per i miei studenti di Urbino. Per tutti gli studenti e per tutti i giovani e le giovani d'Europa. Molti di loro: arabi e musulmani. Per tutti loro. Per tutti noi. Valeria non deve morire.

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16 novembre 2015

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2015/11/16/news/valeria_non_deve_morire-127512483/?ref=HRER2-2
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« Risposta #459 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:29:04 pm »

L'incertezza congela la politica. M5s vera alternativa a Renzi
Atlante politico, sondaggio Demos. La distanza tra il partito del premier e i pentastellati si sta riducendo a meno di 4 punti.
Per il presidente del Consiglio invece la partita sarebbe in discesa in caso di scontro con il centrodestra.
Spunta anche Diego Della Valle con una popolarità al 33 per cento. Controsorpasso della Lega su FI. SI al 5,5

di ILVO DIAMANTI
22 novembre 2015

I tragici avvenimenti di Parigi hanno "congelato" il clima d'opinione - politica - in Italia. Come se l'esigenza di "unità" avesse, in parte, stemperato le tensioni interne. Le polemiche fra leader e partiti, al proposito, sono apparse meno violente che in altre occasioni. Anche così si spiegano gli orientamenti emersi nel sondaggio dell'Atlante Politico di Demos, condotto nei giorni scorsi, in ambito nazionale. L'indice di gradimento del governo: sale al 46%, 4 punti più di un mese fa. Anche la fiducia personale nei confronti di Matteo Renzi risale al 48%. In entrambi i casi, un grado di consenso che non si osservava dalla scorsa primavera. Tuttavia, la richiesta di " tregua politica", nell'opinione pubblica, non favorisce solo il premier e il governo.

La fiducia nei confronti dei leader politici, infatti, fa osservare un miglioramento generalizzato. Tutti, infatti, rafforzano la loro immagine, agli occhi dei cittadini. Ad eccezione di Giorgia Meloni, il cui gradimento scende al 33%: 3 punti in meno, rispetto a un mese fa. Quando, però, aveva beneficiato del dibattito seguito alle polemiche "romane". Fra gli altri, risulta interessante la crescita di fiducia verso Salvini. Trainato, probabilmente, dalle polemiche sugli stranieri. E sul pericolo generato dai profughi in arrivo dal mare. Salvini, infatti, raggiunge il 38%: 5 punti più di un mese fa. Dietro di lui - e a Renzi - incontriamo i due leader del M5s: Grillo e Di Maio. Insieme a Bersani e, appunto, a Giorgia Meloni, compresi fra 32 e 34%. Unica novità: Diego Della Valle. L'ultimo arrivato sulla scena politica, insieme a un nuovo marchio: " Noi italiani". L'imprenditore marchigiano - presidente della Fiorentina - ottiene un buon grado di consensi: 35%. Meno di Salvini. Molto meno di Renzi. Ma (poco) più di Grillo, Di Maio e tutti gli altri. Tuttavia, come si è visto in passato, il vantaggio competitivo delle figure " nuove", provenienti dall'esterno, tende a sfumare quando " si scende in campo" e la novità finisce.

Così, in attesa che il clima internazionale si raffreddi - oppure, malauguratamente, si riscaldi ulteriormente - gli italiani guardano alle vicende e ai personaggi della scena politica interna con un certo distacco. Comprensibilmente. Le stime di voto lo confermano. E riproducono un profilo con pochi (anche se significativi) scostamenti, rispetto al mese scorso. Davanti a tutti, il PD di Matteo Renzi. Quindi, il M5s. Il PD: 31,6%, appena sotto un mese fa. Il M5s appena sopra: 27,4. La distanza fra i due partiti, dunque, si consolida, intorno a 4 punti. L'arretramento del PD di Renzi, peraltro, si spiega anche con l'avvio della Sinistra Italiana (SI), a cui hanno aderito SEL e altri gruppi, insieme agli esponenti della sinistra del PD usciti dal partito. SI, infatti, potrebbe intercettare una quota di elettori dalla base del PD. Non è detto che si tratti di un prezzo eccessivo, per Renzi. Il quale mira ad attrarre maggiormente gli elettori moderati. E, quindi, a distinguersi dalle posizioni di Sinistra più marcate. Ora interpretate ed espresse dalla SI.

Tuttavia, è interessante osservare come una maggioranza - limitata - di elettori del PD (53%) sosterrebbe l'ipotesi di un'intesa, in vista delle prossime elezioni politiche. Si tratta, tuttavia, di un consenso assai più ridotto rispetto a quello espresso dalla base elettorale di Sel-SI. La cui " sopravvivenza", senza il traino del PD, verrebbe messa seriamente in discussione dalla nuova legge elettorale. Un motivo in più, probabilmente, per spingere il premier a non tornare indietro. E ad " allontanare" il nuovo soggetto politico dal (sempre più) suo Pd(R).

Riprendendo le stime elettorali, l'unica vera novità appare la risalita della Lega di Salvini, oltre il 14%. E il parallelo arretramento di FI, sotto il 13%. Da ciò, il ri-sorpasso della Lega, che ri-supera, anche se di poco, FI. Da ciò, anche il consenso, largamente maggioritario, per una lista comune, che unisca Lega e FI. Una prospettiva sostenuta da circa 8 elettori su 10, in entrambi i partiti. Per necessità. Ma se il percorso unitario, a destra, appare con-diviso, le idee su chi lo debba guidare appaiono divise. Prevale, fra gli altri, Matteo Salvini. Oltre un terzo degli elettori di Centrodestra lo vorrebbe leader di una lista unitaria. Ma il 27% preferirebbe Silvio Berlusconi. Mentre il 17% punta su Giorgia Meloni. Le opinioni, al proposito, sono ovviamente influenzate dagli orientamenti di partito. E ciò potrebbe, al momento della scelta, complicare la confluenza degli elettorati dentro a un unico collettore politico. Dietro a un'unica bandiera. Per ora, osserviamo che, in caso di ballottaggio (come prevede la nuova legge elettorale, se nessuna lista superasse il 40%), il PdR prevarrebbe senza troppi problemi contro i soggetti di Centrodestra. Di larga misura (20 punti) contro la Lega - da sola. Ma in modo netto (più di 11 punti) anche contro una lista unitaria, che associasse la Lega di Salvini e il partito di Berlusconi.

Così, l'unica sfida veramente incerta appare (e sarebbe) quella fra il PdR e il M5s. Come si era già osservato un mese fa. Ma oggi l'incertezza appare ancora maggiore. Una distanza di poco più di 4 punti, 52% a 48%, si traduce, infatti, in una differenza di 2 punti. Perché ogni punto in più per una lista è sottratto, automaticamente, all'altra. In altri termini: ogni esito pare possibile. Anche perché il M5s non sembra più condannato al ruolo dell'opposizione " non alternativa". Certo, due terzi degli elettori pensano che non sarebbe in grado di governare, a livello nazionale. Ma quasi metà lo ritiene, al contrario, adeguato, in caso di vittoria, ad amministrare le grandi città dove si vota l'anno prossimo. Come Roma, Milano, Torino. Un'idea condivisa da quasi tutti gli elettori del M5s. Due anni fa non era così. Il M5s era " solo" un voto di protesta. Per quasi tutti gli elettori italiani. E per gran parte degli elettori del M5s. Ma i tempi cambiano. E il clima di insicurezza, alimentato dal terrorismo, vicino e lontano, contribuisce a modificare, ancora, e profondamente, il nostro sentimento politico. Anzi: i nostri sentimenti.

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22 novembre 2015

DA - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/22/news/ora_nell_incertezza_i_cinquestelle_sono_la_vera_alternativa_a_renzi-127895859/?ref=HREC1-8
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« Risposta #460 inserito:: Dicembre 04, 2015, 07:05:39 pm »

Don Luigi, il viandante generoso

03 dicembre 2015
   
È trascorsa una settimana da quando don Luigi Mazzucato ci ha lasciati. Ma non mi stupirei di vederlo (ri)apparire di nuovo. All'improvviso. Com'è avvenuto altre volte. Don Luigi era fatto così. Non dava mai nell'occhio. Preferiva l'impegno, il lavoro. Nel Cuamm. L'Associazione padovana impegnata nella formazione - e nella "missione" - dei medici "con" l'Africa. E sottolineo: "con".

Quando mi capitò, sovrappensiero, di parlare di Medici "per" l'Africa, don Luigi mi corresse subito. "Con" l'Africa. Perché, a differenza di altre organizzazioni, il Cuamm non agisce in Africa con proprie strutture sanitarie, in propri ospedali. Ma negli ospedali e nelle strutture santarie degli stessi Paesi africani dove interviene. In Sud Sudan, Sierra Leone, Mozambico. In Angola, Etiopia, Tanzania. E in altri ancora. Così, il Cuamm, i medici legati ad esso (ne sono partiti oltre 1000, nel corso degli anni), operano "insieme" e "accanto" al personale, meglio, alle persone di quel Paese. Non "per", ma "con" l'Africa.

Non si tratta solo di una filosofia e di un metodo di azione, ma, anzitutto, di un diverso modo di pensare e definire il rapporto fra "noi" e "loro". Agire "con" l'Africa significa, infatti, chiarire che lo facciamo anche -  soprattutto - per noi stessi. Oggi lo dicono in molti - con altri fini - che è meglio "aiutarli a casa loro". Ma per il Cuamm è diverso. Lavorare "con" l'Africa significa sostenere che l'impegno serve anzitutto a noi, italiani, veneti. Perché non potremmo essere noi stessi, senza incontrarci "con" gli altri. Don Luigi lo sapeva e, per questo, era sempre in movimento. In Africa e "con" l'Africa. Dove si è recato, in "missione", oltre 100 volte. E quand'era qui, stava sempre al telefono, in contatto con medici e operatori della sanità, volontari e volontarie che operano in Africa. Oppure con quelli presenti in Italia: per chiedere loro, in caso di urgenza, di partire. Non domani: subito. Appena una decina di giorni fa, un amico, primario ospedaliero, mi ha mandato un sms per disdire un appuntamento a cena, poche ore dopo. Si era appena imbarcato per volare in Sierra Leone. L'aveva chiamato -  convocato -  don Dante, il successore di don Luigi.

E adesso è ancora lì, all'ospedale di Lunsar. Dove si era già recato mesi addietro, al tempo dell'Ebola. Che aveva contribuito attivamente a contrastare. Vincenzo, come gli altri medici del Cuamm, utilizza così le ferie. Anche quelle accumulate in precedenza. Le trascorre in Africa. Negli ospedali dov'è presente il Cuamm. Mi accorgo, a questo punto, di non avere ancora parlato di don Luigi. Se non indirettamente. Attraverso il Cuamm, i suoi medici volontari, l'Africa e gli ospedali. Ma, in fondo, è ciò che egli avrebbe voluto. Il riassunto della sua vita. Vissuta sempre "con" l'Africa. Testimone e attore di quel "bene ostinato", a cui Paolo Rumiz, alcuni anni fa, un libro suggestivo (pubblicato da Feltrinelli). "Ostinato", perché capace di resistere a ogni pressione e a ogni pregiudizio. Figurarsi: proprio nel Veneto "egoista" un'esperienza di "altruismo" così importante. Animata da veneti.

Ma - non smetterò mai di insistere - il bene fa bene a chi lo fa, non solo ai destinatari. Anzi, i primi a beneficiarne, sono proprio i benefattori. Perché fare bene fa stare bene. Stare con gli altri è meglio che restare soli. Permette di rafforzare la nostra identità. Lo ha spiegato bene Carlo Mazzacurati, un altro amico che non posso e non voglio dimenticare, in un docu-film dedicato proprio ai "Medici con l'Africa". Attraverso le parole di una dottoressa che, da anni, continua a recarsi in Mozambico. "Non lo faccio per gli ammalati, i poveri. Non solo per loro. Lo faccio anche per me. Soprattutto per me. Perché ne ho bisogno. Senza l'Africa e senza di loro: non riuscirei a vivere".

Don Luigi, anche per questo, ha vissuto a lungo. Ha vissuto bene. Sempre in viaggio. Silenzioso. Un viandante infaticabile e generoso. Mite e forte, al tempo stesso. Appariva e scompariva all'improvviso. Lo ricordo, pochi giorni dopo il mio infarto. Nella mia camera d'ospedale. Alzai la testa dal cuscino e lo vidi. Non l'avevo sentito arrivare. E non mi accorsi neppure quando se ne uscì. Chissà: forse era già in Africa. Con l'Africa. E, anche adesso, non mi sorprenderei se fosse tornato proprio là. Non mi stupirei di vederlo riapparire. Per scomparire di nuovo. D'altronde, ha seminato bene. Molti volontari, molte persone, di buona volontà, ne hanno seguito le tracce e l'esempio. Perché il bene è ostinato. Si riproduce. È sempre in viaggio. Insieme agli altri. Accanto agli altri. "Con" gli altri. Ri-torna e poi ri-parte.  Come don Luigi.
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03 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2015/12/03/news/don_luigi_il_viandante_generoso-128674929/?ref=HREC1-35
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« Risposta #461 inserito:: Dicembre 10, 2015, 07:22:26 pm »

Il disincanto digitale: la metà degli italiani si informa su Internet ma la fiducia va in crisi
Il rapporto Demos-Coop conferma il dominio della tv.
Ma scopre anche che due italiani su tre ormai utilizzano la Rete per leggere i giornali. Nel 2007 si aggiornava sul web il 25%, oggi sono il doppio.
Spunta la categoria dei net-ibridi Il credito dei notiziari tv tiene.
Elettori di sinistra affezionati al Tg3, destra a Mediaset e 5Stelle a La7


Di ILVO DIAMANTI
06 dicembre 2015

FORSE è iniziata l'era del disincanto digitale. Lo suggerisce l'Osservatorio Demos-Coop su "Gli italiani e l'informazione" giunto alla nona edizione. Per la prima volta infatti Internet viene guardato con prudenza dagli stessi utenti abituali della rete. Anche nel 2015, comunque, la televisione si conferma il canale di informazione più consultato. È, infatti, frequentato, quotidianamente, dall'82% degli intervistati. Mentre il 49% afferma di informarsi ogni giorno attraverso Internet, il 38% mediante la radio. Il 26%, infine, sui quotidiani.

Gli scostamenti rispetto al 2014 appaiono minimi: 1-2 punti. Cioè, nulla, se consideriamo il margine di errore statistico. Per rilevare cambiamenti significativi, dobbiamo allungare lo sguardo più indietro. Almeno di 7-8 anni. Rispetto ad allora, infatti, la TV appare in calo di circa 5 punti, come, d'altronde, i giornali quotidiani (-4, per la precisione), mentre il ricorso alla radio diminuisce un po' di meno. Unico medium ad aumentare la propria diffusione sociale, nel sistema informativo, è, appunto, Internet. Nel 2007, utilizzato, ogni giorno, dal 25% degli italiani (intervistati). Da quasi il doppio, oggi. La distanza rispetto alla TV, rispetto al 2007, risulta, quindi, dimezzata: da (oltre) 60 a (oltre) 30 punti.

LE TABELLE

Tuttavia, negli ultimi due anni il sistema informativo sembra essersi consolidato, fra i cittadini. Anche -  e soprattutto perché, ormai, l'informazione è divenuta un sistema largamente "ibrido” -  per riprendere la nota definizione di Andrew Chadwick. L'accesso ai New Media, infatti, non esclude i media tradizionali. Al contrario, li include, li contamina. E viceversa. Solo una componente ridotta di persone si informa esclusivamente su Internet. Intorno al 4-5% dei cittadini. Mentre il 40% degli italiani sono "net-ibridi". Alternano internet con gli altri media. Due su tre, fra loro, utilizzano la rete per leggere i giornali. E, comunque, quasi tutti continuano a guardare la TV. Dove il riferimento ai social- media è costante.

La TV, appunto, continua ad essere frequentata, quotidianamente, da 8 italiani su 10. Perlopiù, come si è detto, in combinazione con altri media. Ma per oltre 2 su 10 (per la precisione: il 22%) si tratta dell'unico luogo attraverso cui si accede all'informazione. Si tratta di settori sociali definiti. Soprattutto donne, casalinghe, di età medio-alta e di istruzione medio-bassa, residenti nel Mezzogiorno e nelle Isole. Un tempo, elettori ed elettrici "fedeli" dei partiti "governativi". Da qualche anno, però, sono divenuti più incerti e distaccati. Quelli che decidono all'ultimo se e per chi votare. Il loro voto (o non-voto) è, dunque, strategico ai fini del risultato. Non per nulla, nelle campagne elettorali recenti, tutti i principali leader, anche i più critici verso l'informazione TV e chi la guida, si sono, puntualmente, recati nei salotti e nei talk televisivi. Per primi: quelli più "istituzionali". In particola- re, a Porta a Porta, ospiti di Bruno Vespa.

Il pubblico dei new media è, invece, simmetrico rispetto a quello degli spettatori "tele-centrici". Più giovane, istruito. Maggiormente esteso nel ceto impiegatizio, nelle professioni intellettuali. E fra gli studenti. Politicamente, si presenta orientato in modo preciso, anche se non esclusivo. La maggiore familiarità con la Rete e con i new media emerge, secondo le attese, fra gli elettori del M5s. I più "ibridi". Mentre il Pd si conferma trasversale. La base elettorale del PdR, il PD di Renzi, non mostra, infatti, particolari distinzioni nel rapporto con i media. Vecchi e nuovi. Si tratti di Tv oppure della Rete.
Neppure se spostiamo l'attenzione dai canali ai programmi di informazione si osservano grandi novità.

In termini di fiducia, non di ascolti, l'atteggiamento verso i Tg conferma, infatti, le tendenze degli ultimi anni. I più apprezzati restano i Tg Rai e in particolare il Tg3. Mentre, fra i Tg di Mediaset, solo il Tg5 mantiene un grado di stima elevato. Nel complesso, il credito nei confronti di tutti i notiziari tiene, oppure cresce, anche se di poco. Ma le performance migliori, negli ultimi anni, premiano ancora le reti All-News: Rai-News 24, Sky Tg24, insieme al Tg7. Soprattutto i Tg di Sky e di Rai News 24, i quali, rispetto al 2009, vedono salire la fiducia nei loro confronti di oltre 10 punti.

Se osserviamo gli orientamenti politici del pubblico, il legame fra media (soprattutto: TV) e politica appare ancora saldo. Indirizzato maggiormente a destra, nel caso dei Tg di Mediaset. A sinistra, per quel che riguarda i programmi della Rai. Ma, soprattutto, il Tg3. Gli elettori leghisti, invece, si fidano soprattutto del Tg5 e, quindi, del Tg2. Mentre gli elettori del M5s apprezzano il Tg de La7. Inoltre, il Tg3 e RaiNews24. Il Tg di Sky, infine, appare il più "trasversale".

La sola, vera, novità di questo Atlante dell'Informazione, è, però, costituita dal disincanto verso Internet. Certo: resta ancora lo spazio dove l'informazione appare più libera e indipendente (36%). Ma questa convinzione appare in calo significativo: 4 punti in meno solo nell'ultimo anno. Anche la fiducia nella rete sta diminuendo. Oggi è espressa dal 37% degli italiani: 3 punti meno di un anno fa, oltre 10 rispetto al 2013. Così gli italiani navigano su Internet, sempre più numerosi, per sempre più tempo. Ma si sentono osservati e sempre meno sicuri. Così, anche se non si fidano, per distrarsi un po', continuano a guardare la TV.

 © Riproduzione riservata
06 dicembre 2015

Da -  http://www.repubblica.it/politica/2015/12/06/news/il_disincanto_digitale_la_meta_degli_italiani_si_informa_su_internet_ma_la_fiducia_va_in_crisi-128887933/?ref=HRER2-2
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« Risposta #462 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:11:59 pm »

Più amato e odiato, l'Italia del 2016 è il paese di Matteo
Una timida ripresa di fiducia nelle istituzioni e nel futuro. E per la prima volta, dopo dieci anni di lenta erosione, il sentimento democratico che torna a stabilizzarsi, nonostante i partiti e i politici continuino a suscitare "risentimento". Così il rapporto Demos fotografa la difficile relazione tra cittadini e servizi pubblici. Con una speranza: andrà meglio l'anno prossimo

ILVO DIAMANTI
31 dicembre 2015

Il 2015, secondo gli italiani, è stato un anno grigio. Senza traumi e senza entusiasmi. Senza grandi cambiamenti e senza grandi novità. Nel rapporto con le istituzioni, ma anche nella vita quotidiana, tutto sembra essere avvenuto in modo tollerabile - e tollerato. Anche se non proprio "sereno". Così, il Rapporto 2015 di Demos per Repubblica - il XVIII - sulle relazioni fra gli Italiani e lo Stato rileva una timida ripresa di confidenza nelle istituzioni e, ancor più, nel futuro. Anzitutto, nel 2016. Gli italiani, dunque, si sono abituati a vivere al tempo della crisi. Hanno rafforzato la loro capacità di adattamento, di fronte alle difficoltà. Molte indagini, d'altronde, segnalano, da anni, che la principale specificità del carattere nazionale è l'arte di arrangiarsi. Un'arte appunto. Perché non è da tutti reagire alle emergenze, trasformandole in occasioni per ripartire e riprendere il cammino.

RAPPORTO DEMOS - LE TABELLE …

È già avvenuto altre volte, in passato. D'altronde, noi italiani siamo specialisti della "ri-costruzione". E oggi ne vediamo qualche segno, anche se ancora incerto. Dopo quasi dieci anni di crisi economica e di declino della fiducia verso il sistema pubblico, i servizi, le autorità. Unica eccezione: le Forze dell'ordine, per reazione alla domanda di sicurezza. E, nell'ultimo periodo, Papa Francesco. Il faro nella lunga notte della crisi. Nel 2015, invece, il sondaggio di Demos fa osservare una risalita -  per quanto lieve - degli indici di fiducia nelle istituzioni pubbliche. E del livello di soddisfazione nei confronti dei servizi. Lo stesso "sentimento" democratico, dopo 10 anni di lenta erosione, si consolida. Meglio: si stabilizza. Nonostante i partiti e i "politici" continuino a suscitare "ri-sentimento".

Certo, la fine della crisi sembra ancora lontana. La maggioranza dei cittadini (oltre i due terzi) la sposta avanti nel tempo. Oltre due anni. Perché più in là è difficile vedere, prevedere. Perfino immaginare. Eppure le attese nell'anno che verrà migliorano. Di poco, ma migliorano. Dopo una lunga penombra, gli italiani intravedono, dunque, un po' di luce. Anche perché, lo ripeto, si sono abituati all'oscurità e riescono a cogliere ogni bagliore. Ogni riflesso.



Naturalmente, non si tratta solo di abitudine. Qualcosa, effettivamente, è cambiato - secondo gli italiani. In meglio. Magari: in "meno peggio". Nell'economia, nella lotta all'evasione fiscale, nella credibilità internazionale dell'Italia. Insomma, nella politica. E questa tendenza dovrebbe essere confermata nel 2016, l'anno che verrà. Secondo gli italiani. Si tratta, certo, di un auspicio. Una speranza. Non di una previsione argomentata. Ma, comunque, riflette - e sottolinea - un cambiamento del clima d'opinione. Nel bene e nel male, vi ha contribuito, sicuramente, la figura del premier. Perché l'Italia, oggi, appare il "Paese di Matteo". Visto che Renzi, secondo il sondaggio di Demos, è il personaggio "migliore", ma anche il "peggiore" del 2015. In ogni caso: è il "personaggio dell'anno". Insidiato, da lontano, da un altro Matteo: Salvini. Mentre la principale "opposizione", il M5s, non ha leader che suscitino emozioni. Positive o negative, non importa. È un non-partito, dove coabitano e confliggono molti non-leader. Intorno a Grillo, megafono sempre meno ascoltato. Nel 2015, invece, dopo tanti anni da "protagonista", Silvio Berlusconi si scopre "comprimario". Lo troviamo nella classifica dei "peggiori", indicato da un modesto 7% del campione. Poco, quasi nulla, per chi, fino a ieri, aveva diviso gli italiani. Erigendo un nuovo muro intorno a sé. Ora non è più così. E, insieme a lui, è declinato anche il suo partito. Personale. Eppure la sua eredità resiste.

Dopo vent'anni, trascorsi a dividerci e a catalogarci in base al "berlusconismo", ci ritroviamo ancora lì. A dividerci e a contarci intorno a un (nuovo) Capo. Tra renziani e anti - renziani. Tra gufi e tifosi. Senza appartenenze né ideologie. Nostalgie inaccettabili, per chi coltiva l'immagine e viaggia veloce nella rete. È il segno di questi anni. Del 2015 e, sicuramente, del 2016. Tempi aridi. Speriamo (io, almeno, spero) di sopravvivere.
© Riproduzione riservata
31 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/31/news/piu_amato_e_odiato_l_italia_del_2016_e_il_paese_di_matteo-130401227/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_31-12-2015
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« Risposta #463 inserito:: Gennaio 09, 2016, 05:53:54 pm »

Mappe.

Il vuoto che lascia il Cavaliere sparito

Di ILVO DIAMANTI
04 gennaio 2016

È difficile rendersi davvero conto che Berlusconi non è più il centro della politica. Il muro che divide gli italiani. Antiberlusconiani contro anticomunisti. Anche se le sue dimissioni, nel novembre 2011, ne hanno segnato l'uscita dal governo.

 Eppure, un anno dopo, alla fine del 2012, nel Rapporto condotto da Demos, il 48% degli italiani lo indicava, ancora, come "il peggiore". Più che nel 2004, dieci anni dopo la discesa in campo. Quando era definito "il peggiore" dal 38%. Capace, per questo, più di ogni altro politico, di suscitare sentimenti opposti, nel Paese. Ebbene, quel tempo, quel mondo è finito. Il XVIII Rapporto sugli Italiani e lo Stato, pubblicato su Repubblica la settimana scorsa, lo mostra in modo esplicito. Berlusconi, infatti, nella graduatoria dei "peggiori" del 2015 è "solo" terzo. Indicato dal 7% del campione. Non perché la sua immagine sia, improvvisamente, migliorata. Nella classifica dei migliori, non c'è proprio. Segno che Berlusconi, nel sentimento e nel risentimento politico nazionale, conta molto poco. Pressoché nulla. E questo costituisce un problema. Anche per chi non ne ha mai apprezzato né approvato il ruolo e le scelte politiche. Perché, per oltre vent'anni, la politica italiana, com'è noto, si è organizzata, strutturata, intorno a lui. Berlusconi: ha fornito riferimenti etici (e anestetici) a un Paese dove i partiti erano scomparsi, insieme alla classe politica della Prima Repubblica. Dissolti da Tangentopoli. Berlusconi ha imposto il suo modello di "democrazia del pubblico", dove i partiti sono subordinati alle persone e ai leader, l'organizzazione è rimpiazzata dalla comunicazione. Mentre le identità e i messaggi sono elaborati in base ai sondaggi e al marketing. Nulla di nuovo rispetto a ciò che avveniva, già da tempo, altrove. Con la differenza che qui tutto è capitato all'improvviso. E il protagonista, Berlusconi, era, anzitutto, un imprenditore mediatico. Inventore e proprietario di un partito personale. Forza Italia. Da allora, la politica in Italia è cambiata profondamente. E tutto, tutti, si sono strutturati a sua immagine. I partiti si sono personalizzati e leaderizzati. Mediatizzati. I sentimenti e i risentimenti, i soggetti politici: si sono coalizzati e divisi intorno a lui. Al muro di Arcore, costruito sulle rovine della Prima Repubblica - e del muro di Berlino. Oggi quel muro non c'è più, ma il "berlusconismo", i modelli e i (risentimenti) politici che egli ha imposto, resistono, diffusi e radicati. Tuttavia, il nostro sistema politico, insieme a Berlusconi, ha perso la "bussola".

 In primo luogo, e in particolare, si è perduta la destra. Questa destra, in fondo, l'aveva inventata lui. Scongelando i post-fascisti guidati da Fini. E, coalizzando, anzi: portando al governo, la Lega padana di Bossi. Lega Nord e Lega Sud. Nazionalisti e secessionisti, uno dei tanti miracoli italiani, di cui Berlusconi costituisce un caso esemplare. Parallelamente, aveva re-inventato i comunisti. Cioè: tutti coloro che si collocavano contro. Di lui. Un vero "centro", in questo Paese, non c'è mai stato. Eredità del bipartitismo imperfetto della Prima Repubblica. Impostato sull'opposizione fra comunisti e anticomunisti, riprodotta da Berlusconi. Fino a ieri, appunto. Perché oggi non esiste più. Certo l'eredità di Berlusconi conta ancora molto. Tutti i partiti sono mediali e personali.

 Anche il Pd, oggi, appare più "personale" che "personalizzato". Mentre il leader (e premier) è abile con i media, vecchi e nuovi. Ma se Renzi è post-berlusconiano, come altri leader del nostro tempo, non è un nuovo Berlusconi. Non solo perché non è segnato dal conflitto di interessi. Ma perché, a differenza di Berlusconi, non spacca in due il sistema partitico. È molto più trasversale. Non per caso, risulta, al tempo stesso, il più apprezzato e deprecato dagli italiani. Il migliore e il peggiore del 2015.

 Non solo, ma la curva della fiducia nei suoi confronti, fra gli elettori, non appare "spezzata" lungo l'asse sinistra-destra. Certo, a centrosinistra è più apprezzato (meno nei settori più a sinistra). Ma anche a destra e a centrodestra dispone di consensi significativi. Berlusconi, invece, quando aveva successo, concentrava tutti i suoi consensi a destra. La sinistra, per lui, era una parola blasfema.

 Ma oggi Berlusconi ha smesso di fare da bussola. La principale opposizione a Renzi e al suo PdR (Partito di Renzi) è espressa dal M5s. Che raccoglie il ri-sentimento degli elettori. In modo trasversale. Parallelo al PdR. Mentre a destra non si vede un'opposizione "alternativa". La Lega di Salvini si è nazionalizzata. È divenuta Ligue Nationale. Lepenista. Per questo, anche per questo, nei sondaggi non va oltre il 14%. Per questo, anche per questo, da sola, non ha chance di vincere le elezioni politiche. Né di governare. Da sola. Neppure in caso di ballottaggio, com'è previsto dall'Italicum. Anche per questo, la Lega di Salvini "ha bisogno" di Berlusconi. Come garante e moltiplicatore dei suoi consensi. Localizzati e troppo marcati a destra. Mentre Berlusconi, da parte sua, "ha bisogno" di Salvini. Per tornare ad essere competitivo. Anzitutto, a livello territoriale. Nelle città dove si voterà questa primavera. Dove Berlusconi, con Fi, il suo partito personale, correndo da solo, rischia non solo di perdere, ma di finire male. Messo sotto dalla stessa Lega, sul piano elettorale. Non per caso ha già annunciato la possibilità di rinunciare al marchio di Forza Italia, sostenendo solo liste civiche. Alleate con Salvini.

 Prove generali di un nuovo soggetto politico: Dlf. La Destra Lega-Forzista. Per scongiurare il rischio che, alle prossime elezioni nazionali, il gioco si risolva fra due soggetti politici "pigliatutti" e trasversali. Pdr e M5s. L'ultimo muro contro il crollo definitivo dei muri.

© Riproduzione riservata 04 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/04/news/il_vuoto_che_lascia_il_cavaliere_sparito-130583620/?ref=HRER2-1
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« Risposta #464 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:39:22 pm »

Schengen, la nostra identità in quel trattato.
Non può bastare la moneta unica

Di ILVO DIAMANTI
25 gennaio 2016
   
Un giorno dopo l'altro, l'Europa appare sempre più divisa. D'altronde, è difficile affidare il progetto unitario a una moneta. Tanto più in tempi di crisi economica e finanziaria. Perché se l'Europa si riduce a un euro, allora si svaluta. E l'anti-europeismo si allarga. Tuttavia, la questione europea diventa critica quando vengono messi in discussione i confini. Meglio: quando vengono ripristinati i controlli sui confini. Non per caso, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, a Davos, ha espresso il timore che l'emergenza prodotta dai flussi di migranti possa compromettere il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone tra gli Stati dell'Unione. Perché in quel caso verrebbe — implicitamente — rimesso in discussione il progetto di costruzione europea. Lo stesso timore è stato ribadito dal premier Matteo Renzi. D'altronde, l'euro, come i mercati, non ha confini. Può circolare comunque e dovunque. Le persone no. E i limiti imposti ai migranti si riproducono e rimbalzano anche sui residenti. Perché le frontiere sottolineano la sovranità degli Stati nazionali rispetto a quella europea. In definitiva: riflettono — e accentuano — la debolezza dell'Europa. Come progetto e come soggetto.

Tuttavia, sarebbe sbagliato trattare i "confini" semplicemente come un problema. Da superare e, possibilmente, eliminare. Per dare forza alla sovranità e all'identità europea.

Le frontiere e i confini: servono. Sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. Come la geografia, le mappe. Servono a orientarci, a rappresentare il mondo intorno a noi. I cambiamenti dei confini — e della geografia — riflettono, a loro volta, i cambiamenti nella distribuzione e nell'organizzazione del potere, su base territoriale. Il nostro disorientamento, negli ultimi decenni, negli ultimi anni, riflette il declino, in alcuni casi, il dissolversi dei nostri punti di riferimento. La trasformazione rapida e violenta del limes, com'era definito il confine (in continua evoluzione) dell'Impero romano. (E come recita il titolo di una nota rivista di geopolitica: liMes, appunto). Noi, infatti, siamo orfani dei muri che per decenni hanno (de)marcato il nostro mondo. Eppure, al tempo stesso, gli davano senso, oltre che rappresentazione. Il muro di Berlino, a Est. Il Mediterraneo a Sud. Erano frontiere politiche, ma anche sociali e culturali. Ideologiche. Oggi non ci sono più. A Est: dallo sfaldamento dell'Unione Sovietica è ri-emersa la Russia. Che, tuttavia, non costituisce più, come prima, "l'altro" polo del Mondo. Ma "un" polo, per quanto importante. Mentre, nel caso del Mediterraneo, non si tratta più di un muro. Non ci separa (e non ci difende) più dall'Africa, né dal Medio-Oriente. È, invece, un confine stretto. Mentre il mondo è divenuto sempre più largo. E sempre più vicino. Incombe su di noi. La globalizzazione, per riprendere una nota definizione di Antony Giddens, è stretching spazio-temporale. Allungamento dei processi e delle relazioni nello spazio e nel tempo. E, dunque, perdita dei confini. Perché tutto ciò che


avviene dovunque, nel mondo, anche molto lontano da noi, può avere riflessi immediati qui. Adesso.

Anche perché tutto avviene e scorre sotto i nostri occhi. Riprodotto e amplificato dai media. In diretta. E tutto rimbalza sulla rete. A cui tutti possono accedere. In tempo reale. Per questo, i confini non ci possono difendere. Ma, proprio per questo, abbiamo bisogno di confini. Di frontiere. Perché, come ha sostenuto Régis Debray, in un testo alcuni anni fa (dal titolo significativo Eloge des frontières, Gallimard 2010, pubblicato in Italia da ADD, 2012): "…una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino possibile contro l'epidemia dei muri". (D'altronde, neppure i muri possono frenare i movimenti di persone, quando si tratta di esodi spinti dal terrore e dalla fame). Né, tanto meno, possono — né vogliono — fermare i flussi economici e monetari. Per questo, tanto più per questo, abbiamo bisogno di frontiere. Per dare ordine alla nostra visione del mondo. Per sentirci sicuri. Per avere la sensazione che esistano autorità in grado di governare la società. Capaci di esercitare la sovranità nel territorio in cui viviamo.

Perché, in fondo, è questo il fondamento — e il significato — dello Stato. Senza confini e senza frontiere, noi rischiamo di perderci. Di divenire, noi stessi, eterni migranti. Alla ricerca di una terra. Non "promessa". Una terra e basta. Noi abbiamo bisogno di mappe per orientarci. Il trattato di Schengen è importante. Perché supera e apre i confini "interni" all'Europa. Ma, al tempo stesso, marca i confini "esterni". Dentro i quali è possibile la libera circolazione. In base ai quali è possibile negoziare con gli "altri". Così, definisce (cioè, delimita) l'Europa. Lo spazio entro il quale non abbiamo bisogno di passaporti da esibire alle frontiere. Perché non ci sono controlli alle frontiere. Anzi, non ci sono frontiere. Lo spazio dove, cioè, possiamo dirci — e sentirci — europei. Non uno Stato nazionale, ma una Confederazione di Stati nazionali. Che condivide alcuni interessi ma, anzitutto, un sentimento comune.

Per questo, come hanno osservato, polemicamente, Lagarde e Renzi, le limitazioni imposte alle frontiere di alcuni Stati europei rischiano di provocare il fallimento del Trattato di Schengen. E, insieme, del progetto europeo. Perché l'Europa, questa Europa, è senza confini. L'Europa: dove comincia e dove finisce? Chi ne fa parte? Chi ne farà parte? Difficile comprenderlo. Tanto più se, invece di indicare un limes, un territorio condiviso, che distingua noi dagli altri, i governi nazionali sono impegnati a erigere barriere interne all'Europa, invece di delineare e condividere quelle esterne. E in questo modo confermano e, anzi, accentuano l'in-capacità di costruire l'Europa.

Perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com'è possibile costruire un'identità europea? Sentirsi e dirsi europei?

© Riproduzione riservata
25 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/01/25/news/la_nostra_identita_in_quel_trattato_non_puo_bastare_la_moneta_unica-131980704/?ref=HRER2-1
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