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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 107935 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Aprile 26, 2011, 05:30:49 pm »

Oracoli e speculatori

di Massimo Riva

Ancora una volta sui mercati si è lavorato e si sta operando con i paraocchi nell'illusione che dalla crisi si possa uscire magari facendo finta di non vedere la gravità di alcune insidie di fondo

(22 aprile 2011)

Ma che cosa è più allarmante? Il volume crescente del debito federale degli Stati Uniti o la pesante reazione dei mercati all'annuncio che Standard & Poor's vede nero sulle prospettive della strategia finanziaria americana? A ben vedere, infatti, gli analisti di S&P hanno scoperto l'acqua calda, perché in fondo si sono limitati a sottolineare cifre, fatti ed elementi di giudizio che stanno sotto gli occhi di tutti da parecchio tempo.

E' dalla fine della presidenza Clinton che il debito Usa ha ripreso la corsa. Dapprima per le spese delle avventure militari di George W. Bush e poi, con una violenta accelerazione, a causa dei massicci interventi che la presidenza Obama (attraverso il segretario al Tesoro, Timothy Geithner) ha dovuto effettuare per salvare banche, industrie e società coinvolte nella crisi dei mutui immobiliari. Tanto che ora la montagna debitoria ha superato i 14 mila miliardi di dollari (10 mila in euro) arrivando in pratica a eguagliare il prodotto interno lordo. Tutti coloro che operano quotidianamente sui mercati del mondo intero - debbo ritenere - conoscevano e conoscono lo stato dell'arte in materia senza bisogno degli oracoli di qualche società di rating.

Si fa fatica a credere che possano avere accolto con sorpresa il giudizio di S&P.

Si dice che stavolta ciò che ha suscitato timori e tremori nelle Borse è, piuttosto, la previsione negativa sulle prospettive di gestione del debito Usa. Nel senso che, in effetti, a Washington si è creata una situazione politica assai malcerta a causa dei contrasti fra la Casa Bianca e la maggioranza repubblicana nella Camera dei Rappresentanti.

Pochi giorni fa si è addirittura sfiorato l'abisso del blocco dell'amministrazione per mancanza di consenso sull'approvazione del bilancio federale. E lo scontro tuttora continua tra un presidente che non vuole rinunciare a una politica fiscale accomodante con i più deboli e una porzione di Congresso controllata dai repubblicani, decisi a tutto pur di creargli difficoltà in vista della campagna presidenziale del prossimo anno.

Tutto vero, tutto giusto. Ma anche tutto stranoto, perché le cronache politiche e finanziarie dalla capitale Usa danno conto degli sviluppi di questo braccio di ferro quotidianamente e almeno da quando il nuovo Congresso si è insediato nel gennaio scorso. Chi maneggia montagne di capitali sui mercati del mondo intero non aveva certo bisogno degli avvisi di S&P per fare questa scoperta dell'America e dei suoi guai. Tanto più perché il recente tsunami finanzario si è portato via non solo una gran quantità di supposte ricchezze ma anche la credibilità delle agenzie di rating, insegnando al mondo intero che è meglio ragionare con la propria testa che affidarsi ai responsi di divinità compromesse e squalificate.

Ma perché allora queste improvvise e tremebonde reazioni un po' dappertutto e anche più in Europa che negli stessi Stati Uniti? Ancora una volta, evidentemente, sui mercati si è lavorato e si sta operando con i paraocchi nell'illusione che dalla crisi si possa uscire magari facendo finta di non vedere la gravità di alcune insidie di fondo. E questo è forse l'aspetto più inquietante di quanto sta accadendo, perché denuncia che l'antico vizio della manipolazione della realtà resta il sale dei mercati. Né più né meno che ai tempi della speculazione sui bulbi di tulipano olandese.© Riproduzione riservata

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« Risposta #136 inserito:: Aprile 26, 2011, 05:53:34 pm »

Emma è sola, i precari di più

di Massimo Riva

La Marcegaglia si lamenta perché il governo non si fila gli industriali.

Vero, ma la politica si disinteressa di fasce sociale ben più deboli: i disoccupati, i 'flessibili', i pensionati, perfino i piccoli azionisti

(15 aprile 2011)

Mai come oggi gli imprenditori italiani si sentono soli.
Sono parole pesanti quelle pronunciate da Emma Marcegaglia perché segnano una rottura con il governo in carica così esplicita da non avere riscontri nella lunga storia dei rapporti fra Confindustria e potere politico. C'è chi, magari con malizia, le ha giudicate come un tappeto rosso steso ai piedi del suo predecessore, Luca di Montezemolo, per quell'ingresso nell'agone elettorale di cui si parla da tempo. E il fatto che questi si sia prontamente allineato all'inattesa sortita può avvalorare questa interpretazione.

Chi voglia, però, guardare non il dito ma la luna indicata dalla Marcegaglia deve prendere atto che quelle sue parole portano alla luce del giorno soprattutto un profondo malessere, diffuso nel sistema industriale di fronte a un governo capace soltanto di produrre montagne di annunci da cui non escono nemmeno topolini. Malessere, tuttavia, che non lascia il mondo confindustriale così solo come dice la sua presidente.

A ben guardare l'Italia d'oggi, infatti, tanti sono coloro che, in materia d'abbandono, possono fare ampia e folta compagnia a Marcegaglia e soci. Primi fra tutti, in termini del resto speculari, quei milioni di disoccupati o di cassintegrati la cui solitudine quotidiana è socialmente e umanamente ancora più dura da vivere di quella degli imprenditori. Se questi ultimi si sentono frustrati dall'assenza di un qualunque sostegno di politica industriale alle loro iniziative, figuriamoci quale può essere lo stato d'animo di coloro che vedono appesa la propria sopravvivenza a decisioni o a non scelte che maturano a loro insaputa in sedi lontane e secondo criteri sovente occasionali.

Altri e più specifici portatori di una solitudine disperata sono poi quei tre/quattro milioni di lavoratori cosiddetti precari cui la legge e la congiuntura negano ogni progetto di vita stabile, facendo balenare (ai più fortunati) la prospettiva finale di una pensione da autentica miseria. E che dire poi, a proposito di pensioni, di quell'altro blocco di italiani anziani che si vede costretto a campare con trattamenti mensili da 400 o 500 euro senza che nessuno si curi di reintegrarne neppure il potere d'acquisto, eroso da un'inflazione più feroce proprio sui beni di prima necessità? Anche costoro sono soli, anzi solissimi perché ormai estranei a qualunque circuito produttivo.

Lungo, troppo lungo sarebbe l'elenco degli italiani che possono contestare agli uomini di Confindustria il primato della solitudine e dell'abbandono. Ce ne sono perfino tra coloro che pure qualche risparmio da parte lo tengono come l'esercito dei piccoli azionisti.
Non solo da finanzieri di poco scrupolo, ma anche dal governo i risparmi di costoro sono trattati come carne da cannone da usare in guerre di potere che talvolta - con l'assenso di Autorità come la Consob - si ha l'improntitudine di nascondere dietro il tricolore del superiore interesse nazionale. Come accaduto già con Alitalia e oggi si vuol replicare con i casi Ligresti e Parmalat.

Se davvero Confindustria vuole spezzare il cerchio della solitudine dentro cui si sente oppressa, se davvero Luca di Montezemolo vuole farsi alfiere di una riscossa politica dell'Italia abbandonata a se stessa, si ricordino l'una e l'altro che c'è un paese in forte sofferenza anche oltre i cancelli delle imprese.

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« Risposta #137 inserito:: Maggio 03, 2011, 11:08:16 am »

Opinioni

Popolari a tutta lobby

di Massimo Riva

Spezzare la struttura di privilegi espliciti e di comparaggi clandestini è il passaggio necessario per dare una prospettiva vitale al credito "popolare".

Ma nessuno sembra disposto a farlo

(29 aprile 2011)

Due vicende, entrambe clamorose, hanno riacceso i riflettori su un settore del credito da tempo al centro di ipotesi di riforma rimaste perlopiù sulla carta: quello delle banche popolari.

La prima riguarda la Popolare dell'Emilia e Romagna (Bper) la cui assemblea è degenerata in un vero e proprio tumulto acceso dagli esponenti di un gruppo di minoranza che si è visto preclusa ogni rappresentanza nel Consiglio di amministrazione.

La seconda chiama in causa la Popolare di Milano (Bpm) dove il Consiglio ha bocciato una proposta di aumento di capitale da 600 milioni col bel risultato di farsene imporre addirittura uno da 1.200 da parte di una Banca d'Italia preoccupata di ristabilire un equilibrio sostenibile nei conti dell'istituto.

Il credito cooperativo, nel cui ambito rientra l'esperienza secolare di molte banche popolari, ha meriti storici indubbi per aver svolto un ruolo importante nel finanziare lo sviluppo delle economie locali in mercati sovente trascurati dalle maggiori imprese del settore. Tutto ciò è stato reso possibile anche dalle particolarissime norme che hanno governato il settore: a cominciare dalla regola del voto capitario (ciascun azionista vale per uno indipendentemente dalla quantità di titoli posseduti) che ha messo al riparo questi istituti da scalate o attacchi speculativi.

Questo e altri privilegi, col passare del tempo, hanno però fossilizzato molte aree del sistema, reso opaco il mercato delle azioni, indotto comportamenti autoreferenziali e infine favorito degenerazioni che ora rischiano di diventare un ostacolo al perseguimento dei buoni fini originari.

Nel caso della Bper, per esempio, non si sarebbe arrivati alle risse assembleari se fossero state già messe in campo regole più equilibrate sulla rappresentanza delle minoranze nei Consigli d'amministrazione. Quanto all'aumento di capitale della Bpm, la vicenda porta in piena luce il fenomeno forse più insidioso che minaccia la vita delle banche popolari: la posizione dominante assunta dai dipendenti-azionisti nella nomina degli amministratori oltre che nelle scelte di gestione dell'istituto.

Purtroppo si ha ragione di dubitare che la scossa della Banca d'Italia possa sciogliere questi nodi. Certo, la Bpm sarà costretta a eseguire l'aumento di capitale imposto dall'organo di vigilanza dopo il rifiuto espresso dalla coalizione dei dipendenti-azionisti e questo è un bene perché servirà a rendere più solido il bilancio dell'istituto. Ma non è la severità di Via Nazionale che potrà rimuovere i principali vizi nei quali si sta avvitando il sistema delle popolari.

Questa è opera che spetta al legislatore ovvero al potere politico. Ma l'esperienza insegna che in Parlamento si sono accumulati corposi faldoni di proposte senza che si sia mai arrivati a qualche riforma organica. Il lavoro di "lobbying" affinché tutto continui come prima è stata finora l'attività di maggiore successo svolta dai gattopardi delle banche popolari che, pur di restare in sella, non hanno esitato a stringere obliqui compromessi sia con la politica sia con il mondo sindacale.

Spezzare questa struttura di privilegi espliciti e di comparaggi clandestini è il passaggio necessario per dare una prospettiva vitale al credito "popolare". Ma non si intravede, né all'interno né all'esterno del sistema cooperativo, chi voglia prendere il toro per le corna.

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« Risposta #138 inserito:: Maggio 13, 2011, 10:28:09 pm »

L'opinione

Il poker di Marchionne

di Massimo Riva

(13 maggio 2011)

Il voto delle maestranze della ex-Bertone ha registrato una netta spaccatura fra la base e il vertice del sindacato Fiom-Cgil.
Contro la posizione di quest'ultimo, che insiste nel considerare inaccettabili le proposte contrattuali della Fiat, i lavoratori hanno deciso di approvarle a larghissima maggioranza seppure spiegando questa scelta come un atto di "legittima difesa". L'esito di questo referendum ha fatto parecchio rumore soprattutto perché - a differenza dei casi precedenti di Pomigliano e Mirafiori - le officine ex-Bertone erano considerate una roccaforte dell'ala più intransigente dei metalmeccanici Cgil.

Vuoi vedere - si sono chiesti in molti - che la linea dura impostata da Sergio Marchionne sta rompendo e piegando il sindacalismo più barricadiero? Sarà, ma una lettura meno superficiale della vicenda può portare a conclusioni diverse. Forte è il dubbio, per esempio, che la pur plateale rottura fra vertice e base della Fiom nasconda un abile gioco delle parti. E' vero, infatti, che negli stabilimenti di Grugliasco la maggioranza di aderenti alla Fiom poteva far presumere un secco no al "prendere o lasciare" della Fiat. Ma è altrettanto vero che in questo modo i metalmeccanici della Cgil si sarebbero assunti la responsabilità di far saltare l'investimento con conseguente chiusura definitiva degli impianti.

Una volta perse le battaglie prima di Pomigliano e poi di Mirafiori, alla Fiom devono aver capito che ormai il manico del coltello stava nelle mani di Marchionne. Quindi che un "no" avrebbe soltanto accentuato il loro isolamento rispetto al mondo sindacale complessivo. Di qui la scelta di distribuirsi le parti in commedia. Da un lato, il vertice che insiste nelle questioni di principio contro le nuove regole imposte dalla Fiat. Dall'altro lato, i lavoratori della ex-Bertone che accettano di piegarsi per risparmiare a se stessi e a tutti gli altri la tragedia della morte dell'azienda.

E ciò al fine, non detto ma trasparente, di spostare l'onere del ricatto dalle proprie alle altrui spalle. In particolare, quelle dello stesso Marchionne. C'è qualcosa di parecchio aleatorio, infatti, nei piani che il vertice Fiat dice di avere progettato per gli impianti di Grugliasco. L'idea è quella di farvi costruire a regime 50 mila vetture di gran lusso sotto lo storico marchio Maserati: circa otto volte più di quelle prodotte l'anno scorso. Obiettivo che è eufemistico definire ambizioso alla luce della forte competizione in atto su questo segmento del mercato automobilistico da parte soprattutto dell'agguerrita concorrenza tedesca coi brand Porsche, Mercedes, Audi e Bmw.

Insomma, la partita a poker nascosta dietro il referendum alla ex-Bertone avrà anche creato qualche problema in casa Fiom, ma rischia ora di provocarne molti di più a Sergio Marchionne. Il quale, a questo punto, si trova costretto a mettere le carte in tavola ovvero a partire con i primi 550 milioni di investimenti e poi a tener fede ai piani promessi. Naturalmente, nessuno dubita che si possa arrivare a produrre 50 mila Maserati all'anno, ma tra metterle in fila sui piazzali e trovare 50 mila compratori ci corre una differenza essenziale. Ecco perché in questa vicenda, a prima vista, è facile annoverare il vertice Fiom fra gli sconfitti. Ma, a ben vedere, resta assai difficile considerare quello della Fiat tra i vincitori.


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« Risposta #139 inserito:: Maggio 21, 2011, 10:20:55 am »

L'opinione

Quel no alle Opa ostili

di Massimo Riva

(20 maggio 2011)

Di certo non era nelle sue intenzioni, ma il primo rapporto pubblico che Giuseppe Vegas ha fatto in qualità di presidente della Consob ha avuto almeno il pregio di dare senso compiuto alla contestata scultura col dito medio alzato posta al centro di Piazza degli Affari. Infatti, con il suo discorso, proprio questo in buona sostanza è il gesto che il nuovo capo della vigilanza borsistica ha indirizzato alla grande platea del risparmio piccolo e medio ovvero a tutti coloro che vorrebbero una Borsa emancipata dal ruolo di riserva di caccia per una ristretta cupola di privilegiati.

Di fronte a un sistema ingessato da ogni genere di abuso di potere attraverso patti di sindacato, piramidi societarie, intrecci di poltrone e artifizi vari, l'ottimo Vegas si è voltato dall'altra parte e ha preso di petto le Offerte pubbliche d'acquisto ostili ai gruppi dominanti nelle varie società delineando una sua allarmante visione del capitalismo nostrano. Una Borsa resa asfittica dal blocco artificioso del mercato delle quote proprietarie? Al contrario: l'idea di Vegas è che l'attuale legislazione italiana in materia sia fin troppo sbilanciata a favore della contendibilità delle imprese e che perciò si debba "immediatamente" ampliare le possibilità di difesa delle aziende quotate che si trovino sotto attacco esterno. In sostanza, par di capire che presto la Consob si muoverà per consentire alle società di trasformarsi in fortilizi dai quali versare olio bollente per via statutaria contro gli eventuali assedianti. Fuor di metafora, un risoluto passo all'indietro verso l'economia curtense con nuovi benefici a favore dei grandi feudatari.

L'aspetto più sconcertante di questa trovata è che essa viene spiegata come una sorta di contravveleno rispetto alle attuali degenerazioni del nostro capitalismo relazionale. Se si vuole che sia disboscata la selva dei patti di sindacato e marchingegni consimili occorre - questo l'alibi capzioso - offrire un'alternativa di difesa almeno per via statutaria. Argomento che non peccherebbe di realismo pragmatico se non fosse che esso suona sonoramente ingannevole sulla bocca di un presidente della Consob che non ha speso una sola parola per proporre in parallelo alle nuove armi anti-Opa almeno riforme che puntino a togliere di mezzo tutte le impalcature abusive che tengono in piedi la malcerta costruzione del capitalismo domestico. Quel che conta per Vegas evidentemente è lasciare tutto come sta per non recare il minimo disturbo agli attuali manovratori del listino. Sarà bene che di questo i risparmiatori prendano nota per il futuro.

Ma una tale miope difesa dell'esistente comporta seri rischi anche per lo sviluppo dell'economia in generale. Un noto apologo di Galbraith dice che il bello del capitalismo è che ogni tanto vi accade qualcosa per cui il denaro viene separato dai cretini. Spesso questo monito viene inteso soltanto come censura alla leggerezza con la quale molti sprovveduti affidano i loro soldi a degli imbroglioni. In realtà, il giudizio dell'economista americano riguarda anche coloro che si rivelano incapaci di gestire una banca, un'industria o una qualunque impresa. E le Opa ostili sono di regola uno strumento con il quale si fa pulizia degli inetti sul mercato. Non fa un grande effetto un presidente della Consob che corre in soccorso di questo genere di cretini.


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« Risposta #140 inserito:: Giugno 06, 2011, 11:38:18 am »

Tremonti, che spudorato

di Massimo Riva

Per anni ha retto il moccolo alle promesse demagogiche di Berlusconi sulle tasse.

Adesso sembra diventato un fan del rigore e dell'austerità dei conti. Per fare le scarpe al premier? Forse.
In ogni caso, è una manipolazione mediatica

(14 gennaio 2011)

Ha ricominciato la sua esperienza di ministro dell'Economia nel 2008 reggendo il sacco all'attuazione delle più demagogiche promesse elettorali di Silvio Berlusconi. E così Giulio Tremonti ha esordito nel ritrovato incarico regalando anche ai più abbienti un'esenzione dall'Ici sulla prima casa che ha sottratto all'Erario - e segnatamente alle casse dei Comuni - qualcosa come circa 3 miliardi di euro.
Poi, in rapida sequenza, ha abrogato le regole sulla trasparenza o tracciabilità dei pagamenti, che Vincenzo Visco aveva introdotto per rendere la vita difficile agli evasori più incalliti.

Ora, da qualche tempo, lo stesso Tremonti non ha perso il vizio di manifestare le sue opinioni con apodittica saccenteria, ma sembra diventato un'altra persona. Il registro delle sue parole ha avuto una svolta a 180 gradi e il ministro ama diffondere di sé l'immagine del custode rigoroso e inflessibile dei saldi di bilancio. Al punto che per rifarsi una verginità in materia è tornato sui suoi passi reintroducendo financo alcune norme anti-evasione volute dal suo inviso predecessore. Né perde occasione per smarcarsi dall'ottimismo di maniera del presidente del Consiglio, proclamando che l'orizzonte resta cupo perché la crisi è tutt'altro che finita.

Come valutare questa subitanea metamorfosi? Come un sincero e operoso ravvedimento? Non pochi accreditano questa idea, che trova ascolto anche fra esponenti dell'opposizione. Tanto che c'è chi vagheggia l'ipotesi di una sostituzione di Berlusconi con Tremonti a Palazzo Chigi dopo le eventuali elezioni anticipate o addirittura prima per scongiurare uno scioglimento prematuro delle Camere.
Del resto lo stesso Cavaliere fa fatica a nascondere la sua insofferenza verso il proprio ministro dell'Economia considerandolo ormai un rivale furtivamente impegnato con l'appoggio leghista a fargli le scarpe.

Ma proprio questa presunta ambizione verso Palazzo Chigi dovrebbe far riflettere meglio sui requisiti della patente di rigorista che tanti, un po' troppo disinvoltamente, sembrano riconoscere a Tremonti. E' vero che da ultimo egli mostra di voler resistere all'accattonaggio molesto di molti suoi colleghi. Ma è non meno vero che i suoi tagli banalmente "lineari" alla spesa pubblica non solo non hanno evitato la corsa della medesima in rapporto al Prodotto interno lordo, ma ne hanno anche aggravato le distorsioni distributive rinunciando a disegnare - magari anche dal lato delle entrate - una politica di bilancio degna di chi oggi vorrebbe farsi passare per un nuovo Quintino Sella.

La tardiva austerità tremontiana, poi, non cancella che, nei trenta mesi della sua gestione, l'ottimo Giulio è riuscito nella brillante impresa di far ricrescere la montagna del debito pubblico di oltre 200 miliardi. E ciò pur avendo avuto la fortuna di non dover impegnare grandi risorse per scongiurare fallimenti bancari come, viceversa, è toccato di fare ad altri suoi colleghi, non solo europei.
Fondati o no che siano i dubbi sulle mire presidenziali di Tremonti, l'abito rigorista con cui oggi si presenta appare nulla più che il frutto di una scaltra ma anche un po' spudorata manipolazione mediatica.


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« Risposta #141 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:46:28 pm »

Il programma di Draghi

di Massimo Riva

La nomina del successore è ora il primo banco di prova sul quale il potere politico sarà chiamato a misurarsi con le sfide lanciate da Via Nazionale

(03 giugno 2011)

L'inattesa morale dell'ultima relazione di Mario Draghi è che il suo prossimo trasloco da Roma a Francoforte è forse più una perdita che un guadagno per il nostro paese. Certo, sul piano del prestigio internazionale, resta un grande risultato che la presidenza della Bce sia assegnata a un italiano. Ma le Considerazioni finali di quest'anno hanno assunto più che mai il tono e i contenuti di un vero e proprio programma di governo.

In una situazione di stallo politico così confuso e paralizzante, come quello che opprime oggi l'Italia, il pensiero torna perciò invincibile a quella stagione non meno drammatica dei primi anni Novanta quando un altro governatore di Bankitalia si caricò dell'onere di raddrizzare una finanza pubblica allo sbando per riportare il paese all'onore del mondo. Un rimpianto cui la presenza fisica di Carlo Azeglio Ciampi al discorso di Mario Draghi ha conferito addirittura plastica e concreta rappresentazione.

Insomma, magari proprio perché in partenza e perciò liberato dal sospetto di essere un concorrente per Palazzo Chigi, stavolta il governatore ha potuto manifestare a fondo e nei dettagli non solo quale dovrebbe essere la cura migliore per far uscire l'Italia dai suoi guai ma anche rendere palese ed esplicito il suo dissenso dalle politiche del governo in carica. In particolare, sotto accusa è finito il metodo applicato dal sedicente rigorista Tremonti al controllo della finanza pubblica.

Su questo punto Draghi non ha usato mezze parole, bocciando senza appello la tecnica dei tagli uniformi e lineari giudicata una strategia negativa e controproducente soprattutto per i suoi effetti depressivi sulla crescita. A questa politica della non scelta fra spese buone e cattive egli ha opposto l'esigenza di operare sul bilancio voce per voce, secondo una valutazione razionale e differenziata delle conseguenze sul sistema economico e sociale. Come stava facendo - ha sottolineato in malcelata polemica con Giulio Tremonti - il precedente ministro, Tommaso Padoa Schioppa, altro uomo della fucina di Via Nazionale.
Né meno pungenti sono stati i rilievi di Draghi sulle tante riforme promesse dal governo Berlusconi e poi malfatte o rimaste lettera morta. In rapida e martellante sequenza il governatore ha elencato le gravi inefficienze nei campi della giustizia civile, dell'istruzione, dei servizi pubblici, delle opere infrastrutturali, del mercato del lavoro: denunciando - con buona pace del ministro Sacconi - gli eccessi di incentivazione a contratti di impiego precario con esiti di profonda ingiustizia sociale.

In tanto eccellente requisitoria programmatica sono in parte mancati toni più severi su alcuni cattivi vezzi del sistema creditizio domestico. In un paese che ha tanta sete di investimenti produttivi non fa un bel vedere, per esempio, che una grande banca come Unicredit impegni così tanti soldi nell'affare Ligresti più al fine di salvare un gruppo di controllo che un'impresa. Anche questo è un terreno sul quale "occorre sconfiggere gli intrecci degli interessi corporativi", come ha detto appunto Draghi. Compito che spetta, tuttavia, a chi governa il paese assai più che a chi vigila da Bankitalia.

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da - espresso.repubblica.it/dettaglio/il-programma-di-draghi/2152814/18
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« Risposta #142 inserito:: Giugno 10, 2011, 06:29:42 pm »

Caro Draghi, ti rimpiangeremo

di Massimo Riva

Il governatore uscente non solo ha lavorato bene, ma ha anche avuto il coraggio di martellare su tutte le false promesse di Berlusconi. Puntando il dito anche sulla precarizzazione selvaggia voluta da Sacconi. E ora, incrociamo le dita sul successore...

(03 giugno 2011)

L'inattesa morale dell'ultima relazione di Mario Draghi è che il suo prossimo trasloco da Roma a Francoforte è forse più una perdita che un guadagno per il nostro paese. Certo, sul piano del prestigio internazionale, resta un grande risultato che la presidenza della Bce sia assegnata a un italiano. Ma le Considerazioni finali di quest'anno hanno assunto più che mai il tono e i contenuti di un vero e proprio programma di governo.
In una situazione di stallo politico così confuso e paralizzante, come quello che opprime oggi l'Italia, il pensiero torna perciò invincibile a quella stagione non meno drammatica dei primi anni Novanta quando un altro governatore di Bankitalia si caricò dell'onere di raddrizzare una finanza pubblica allo sbando per riportare il paese all'onore del mondo. Un rimpianto cui la presenza fisica di Carlo Azeglio Ciampi al discorso di Mario Draghi ha conferito addirittura plastica e concreta rappresentazione.

Insomma, magari proprio perché in partenza e perciò liberato dal sospetto di essere un concorrente per Palazzo Chigi, stavolta il governatore ha potuto manifestare a fondo e nei dettagli non solo quale dovrebbe essere la cura migliore per far uscire l'Italia dai suoi guai ma anche rendere palese ed esplicito il suo dissenso dalle politiche del governo in carica. In particolare, sotto accusa è finito il metodo applicato dal sedicente rigorista Tremonti al controllo della finanza pubblica.

Su questo punto Draghi non ha usato mezze parole, bocciando senza appello la tecnica dei tagli uniformi e lineari giudicata una strategia negativa e controproducente soprattutto per i suoi effetti depressivi sulla crescita. A questa politica della non scelta fra spese buone e cattive egli ha opposto l'esigenza di operare sul bilancio voce per voce, secondo una valutazione razionale e differenziata delle conseguenze sul sistema economico e sociale. Come stava facendo - ha sottolineato in malcelata polemica con Giulio Tremonti - il precedente ministro, Tommaso Padoa Schioppa, altro uomo della fucina di Via Nazionale.

Né meno pungenti sono stati i rilievi di Draghi sulle tante riforme promesse dal governo Berlusconi e poi malfatte o rimaste lettera morta. In rapida e martellante sequenza il governatore ha elencato le gravi inefficienze nei campi della giustizia civile, dell'istruzione, dei servizi pubblici, delle opere infrastrutturali, del mercato del lavoro: denunciando - con buona pace del ministro Sacconi - gli eccessi di incentivazione a contratti di impiego precario con esiti di profonda ingiustizia sociale.

In tanto eccellente requisitoria programmatica sono in parte mancati toni più severi su alcuni cattivi vezzi del sistema creditizio domestico. In un paese che ha tanta sete di investimenti produttivi non fa un bel vedere, per esempio, che una grande banca come Unicredit impegni così tanti soldi nell'affare Ligresti più al fine di salvare un gruppo di controllo che un'impresa. Anche questo è un terreno sul quale "occorre sconfiggere gli intrecci degli interessi corporativi", come ha detto appunto Draghi. Compito che spetta, tuttavia, a chi governa il paese assai più che a chi vigila da Bankitalia.

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« Risposta #143 inserito:: Giugno 13, 2011, 10:46:33 pm »

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L'opinione Re Sergio e i cortigiani

di Massimo Riva

(10 giugno 2011)

Sergio Marchionne Sergio MarchionneChe con il suo "l'Italia deve cambiare atteggiamento" Sergio Marchionne pretenda di presentarsi come il salvatore dell'industria nazionale non meraviglia più di tanto. La sicumera e una certa dose di megalomania sono diventate componenti abituali delle sue sortite pubbliche. Da quando poi gli è riuscito di sostituire con prestiti bancari i finanziamenti ricevuti dal governo Usa, l'amministratore delegato di Fiat-Chrysler sembra aver perso ogni freno alla brama di ridisegnare il mondo a sua immagine e somiglianza.

Ciò che lascia, viceversa, interdetti è la reazione di buona parte dell'establishment nazionale pronto e prono a riconoscergli un ruolo di supremazia assoluta. Alle sue parole di fastidio per le poche, in verità, critiche ricevute nel nostro paese si è scatenata una vera e propria gara alla più trista cortigianeria. Con l'aria di chi chiede scusa e pietisce perdono per allontanare da sé ogni dubbio, il ministro Paolo Romani s'è affrettato a ricordare che il governo Berlusconi ha fatto di tutto per aiutare la Fiat a piegare i sindacati. Il suo collega Maurizio Sacconi s'è trasformato in un Marchionne di complemento prendendosi lui l'incarico di indicare con precisione i veri sabotatori dei progetti della Fiat: il sindacato conservatore, settori ideologizzati della magistratura, ambienti delle borghesie bancarie. Guarda caso, gli stessi nemici contro cui punta il dito ogni giorno Silvio Berlusconi.

Ma l'elenco dei cavalier serventi ha trovato adepti entusiasti anche fra le cosiddette parti sociali. Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha fatto finta di criticare Marchionne ma solo per poter gonfiare il petto orgoglioso rammentando di essere stato lui per primo a spalancare le porte della massima flessibilità dei lavoratori addirittura precedendo i desiderata della Fiat. Mentre, sul fronte confindustriale, niente meno che il vice-presidente, Alberto Bombassei, s'è precipitato a parare il colpo di una possibile uscita della Fiat dall'organizzazione (con conseguente perdita dei robusti contributi associativi della medesima) assicurando a Marchionne che la Confindustria sarà ben lieta di rinunciare al suo stesso ruolo pur di lasciarlo libero di sottoscrivere qualunque contratto collettivo gli aggradi di più.

Nemmeno ai tempi del miglior Gianni Agnelli è capitato di assistere a un così devoto rosario di genuflessioni. A non voler pensar male, tali comportamenti si possono attribuire alla potente attrazione della maggiore promessa fatta da Marchionne: portare la produzione di vetture Fiat in Italia dalle attuali 650 mila a un milione e mezzo entro il 2014. Un balzo che avrebbe effetti indubbiamente straordinari su tutta l'economia del Paese. Peccato che proprio qui stia il punto debole dell'intera vicenda. E' vero che a Torino si racconta dell'esistenza di un progetto Fabbrica Italia da 20 miliardi di investimenti con l'obiettivo che s'è detto. Ma è altrettanto vero che, a tre anni dal 2014, Marchionne tiene il più rigoroso riserbo sui suoi piani: di concreto si sa solo che a Pomigliano si faranno un po' di Panda e a Mirafiori si assembleranno dei Suv costruiti in America. Davvero poco per dare credibilità al traguardo del milione e mezzo di vetture. La fiducia al buio non appartiene al mondo degli affari: perciò non è l'Italia ma Marchionne che "deve cambiare atteggiamento".


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« Risposta #144 inserito:: Giugno 18, 2011, 11:10:45 pm »

Una cupola in banca

Massimo Riva

(17 giugno 2011)


In qualunque paese la condizione delle banche è un indicatore fondamentale dello stato di salute dell'intero sistema. In Italia anche più che altrove perché la nostra economia è "bancocentrica" a tutti gli effetti. Deve destare perciò qualche seria preoccupazione il persistente cattivo andamento dei titoli degli istituti di credito sul mercato azionario: fra tutti i settori della Borsa, infatti, quello delle banche registra da tempo prestazioni scoraggianti con punte estreme di caduta, in qualche caso specifico, davvero impressionanti.
E sì che, durante la fase più acuta della recente crisi, proprio il sistema creditizio italiano veniva additato ad esempio di solidità per non essersi cacciato a testa bassa nei guai della finanza speculativa come numerose grandi aziende bancarie di altri paesi, tanto in Europa che negli Stati Uniti. Come mai allora appare così appesantito e affaticato un settore che lo tsunami finanziario internazionale sembrava avere risparmiato?

Esiste al riguardo una risposta almeno in parte consolatoria. L'economia italiana arranca ormai con tassi di crescita minimali tanto che anche quest'anno si stima un aumento del Pil intorno al punto percentuale: meno della metà della media europea, addirittura quasi un quinto della Germania. Dato che si vive in un sistema bancocentrico, la logica conclusione è che il cattivo momento delle banche domestiche altro non è se non il riflesso della pessima congiuntura attraversata dall'intero paese.
Questo indubbio pezzo di verità rischia però di oscurare un altro aspetto della questione. Siamo sicuri che i banchieri non ci abbiano messo e non ci stiano mettendo del loro in questo stato di cose? Trascuriamo pure quei casi di manifesta inadeguatezza all'incarico o di favoritismi clientelari che la vigilanza della Banca d'Italia ha messo a nudo, per esempio, nella gestione di alcuni istituti anche di non piccole dimensioni come la Banca Popolare di Milano. La speranza è che simili vicende siano di portata circoscritta e, quindi, sanabili magari mettendo in campo finalmente una riforma dell'antiquato regime di governo azionario che ancora vige per le banche popolari.
Ciò che più impensierisce è l'assetto complessivo del sistema bancario domestico nel quale trova la sua espressione più alta e pervasiva quel "capitalismo relazionale" che sta diventando il cancro dell'economia italiana. Basti pensare all'incredibile trama azionaria che, in forme dirette o indirette, tiene assieme in una sorta di inconfessabile confederazione di potere IntesaSanpaolo-Generali-Mediobanca-Unicredit con seguito di vassalli, valvassori e valvassini cui concedere quei finanziamenti che sovente vengono invece negati a imprese esterne agli interessi della cupola dominante.

C'è poi tanto da meravigliarsi se, in un contesto medievale del genere, il sistema bancario appesantisce i suoi bilanci con operazioni dalla discutibile profittabilità economica come la nuova Alitalia o la Telco-Telecom, per non dire del salvataggio della famiglia Ligresti? Purtroppo no, c'è semmai ragione di scandalizzarsi ma non di stupirsi. Sarà, quindi, che le banche italiane sono fragili e incerte perché fragile e incerta è la crescita del paese. Ma vale quanto mai anche il rovescio: il paese non si riprende perché i suoi banchieri non sanno alzare gli occhi dall'ombelico dei loro intrecci di potere.

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« Risposta #145 inserito:: Giugno 25, 2011, 06:39:05 pm »

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Il virus della crisi greca

di Massimo Riva

(24 giugno 2011)

La Grecia è già tecnicamente in bancarotta perché non ha risorse sufficienti a reggere il suo debito: per evitare che da virtuale il default divenga conclamato l'aiuto esterno è indispensabile. Tanto più perché i ritardi, coi quali il resto d'Europa - la Germania sopra tutti - ha preso atto di questa lampante verità, hanno aggravato le cose. Si è lasciato passare troppo tempo prima di accorgersi che non ci si trovava di fronte a una crisi circoscritta le cui colpe potevano essere fatte ricadere sulla falsificazione dei conti operata dal precedente governo ateniese di centrodestra.
Così ai guai greci si sono presto affiancati, seppur per cause diverse, quelli di Irlanda e Portogallo. E ora non è irragionevole temere che serie difficoltà possano manifestarsi per il finanziamento dei debiti sovrani di altri paesi dell'unione monetaria: come l'Italia, forse ancora prima che la Spagna. Il balzo in avanti del differenziale di rendimento (spread) fra titoli del Tesoro italiano e "bund" tedeschi è già un forte campanello d'allarme al riguardo. In sostanza, un mancato salvataggio della Grecia non avrebbe solo conseguenze devastanti per quel paese, ma metterebbe in circolazione un virus che potrebbe contagiare in fretta i paesi con esposizione debitoria particolarmente elevata e perciò fragile. Si tratterebbe di un terremoto in grado di scuotere dalle fondamenta l'attuale costruzione dell'euro, con inevitabili ripercussioni sul progetto politico di costruzione dell'unità europea.

La posta in palio è, dunque, molto alta. Ma par di capire che molti governi dell'Unione non ne siano consapevoli o almeno che alcuni non abbiano il coraggio politico di argomentare presso i propri elettorati la necessità di pagare il prezzo utile per scongiurare la diaspora dell'Europa.
Naturalmente è logico che si chieda alla Grecia di attuare un radicale programma di austerità per evitare che i finanziamenti esterni finiscano dentro un pozzo del quale non si sia chiuso il fondo. Dal nuovo governo Papandreou, che ha appena ricevuto la fiducia del parlamento, ci si attende che faccia digerire al proprio paese una terapia d'urto molto robusta. Le infiammate piazze di Atene dicono che non sarà un'impresa facile. La rigidità di alcuni elemosinieri europei può anche offrire un'utile pedana al governo di Atene per superare i suoi ostacoli interni.
Ma non tutti i richiami appaiono opportuni. Il governatore Mario Draghi, per esempio, ha ricordato ai greci che l'Italia del 1992 era in condizioni anche peggiori e pure ce l'ha fatta a riprendersi. Vero, ma c'è un particolare non secondario: allora il governo Amato prese sì provvedimenti draconiani, ma soprattutto fece ricorso a una svalutazione della lira di circa il 20 per cento.

Oggi per la Grecia questa via è preclusa e non solo perché essa fa parte della moneta unica. Quand'anche Atene ne uscisse, il suo debito sempre in euro resterebbe contabilizzato per cui il ritorno alla dracma non farebbe che peggiorare la situazione. Rilievo questo che è bene sottolineare a uso e consumo di chi in Italia manifesta assurde nostalgie per i tempi delle svalutazioni competitive.
Conclusione: quella che si combatte ad Atene non è una battaglia per la Grecia, è una guerra per l'Europa. Il ritorno allo spirito di Monaco nei confronti della rinnovata cupidigia tedesca promette poco di buono.


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« Risposta #146 inserito:: Luglio 21, 2011, 11:27:31 am »

L'opinione

Il Porcellum è sindacale

di Massimo Riva
(14 luglio 2011)

L'accordo fra Confindustria e sindacati sui contratti è stato favorevolmente accolto da più parti per una serie di condivisibili ragioni. Intanto, stavolta, al tavolo si sono ritrovate concordi tutt'e tre le principali sigle sindacali. Immaginare che da qui possa riprendere il cammino bloccato verso l'unità sarebbe del tutto fuori luogo. Ma risulta apprezzabile che con questo passaggio abbia subito un secco contraccolpo la strategia di chi puntava a una progressiva emarginazione politica dell'organizzazione ancora più rappresentativa, la Cgil. Inoltre è anche possibile che l'intesa raggiunta sui contratti aziendali possa dispiegare effetti positivi sul rilancio degli investimenti da parte delle imprese, dando così una spinta a quella crescita del Pil che resta il grande problema insoluto del paese.

Naturalmente, non va sottovalutato il rischio che tutto si blocchi. Sul fronte sindacale è in corso una consultazione della base da parte della Cgil e si sa che il segretario, Susanna Camusso, deve affrontare un non facile confronto in materia con l'ala più ostile della Fiom.

Sul versante confindustriale è sempre aperta la questione Fiat: anche Emma Marcegaglia deve fronteggiare i guai suoi perché da Torino Sergio Marchionne insiste a proclamare propositi secessionisti se, in un modo o nell'altro, non si dovessero estendere gli effetti dell'intesa alle vicende di Pomigliano e Mirafiori sulle quali i metalmeccanici della Cgil hanno aperto vertenze giudiziarie.

C'è un punto, tuttavia, dell'accordo Confindustria-Cgil-Cisl-Uil che suscita anche più di una perplessità. Concepito alla finalità dichiarata di risolvere l'annosa questione della rappresentatività - ovvero di un'autentica democrazia sindacale - il patto non scioglie il nodo o, comunque, ne offre una soluzione assai più attenta a preservare ruolo e potere delle organizzazioni sindacali che non i diritti dei singoli lavoratori.

In buona sostanza, infatti, la Cgil, la Cisl e la Uil - con il beneplacito interessato della Confindustria - si riservano nella maggior parte dei casi il potere di sottoscrivere contratti aziendali vincolanti per tutti i lavoratori, iscritti o non iscritti al sindacato, senza dover procedere alla consultazione referendaria dei medesimi. Quest'ultima essendo prevista soltanto "in caso di rilevanti divergenze" fra sindacati. Formula nebulosa che lascia un istituto tipico della democrazia in balia dei rapporti di forza fra vertici.

Si rischia così di introdurre nelle fabbriche meccanismi elettorali non dissimili da quel "porcellum" che ha stravolto il sistema della rappresentanza nelle elezioni politiche. Sia perché i vertici delle strutture sindacali si arrogano il maggior potere decisionale, sia perché si riserva alle organizzazioni più consolidate una sorta di premio di maggioranza a priori da far valere su iscritti e non.

Avvalora questa sgradevole impressione, per esempio, l'ostilità della Cisl all'ipotesi che la delicata materia possa essere risolta per via di legge. Suona francamente stonato che, a suo tempo, per la miglior tutela dei lavoratori verso terzi si sia sollecitato un intervento legislativo quale è lo "Statuto" di Giacomo Brodolini, mentre oggi ci si oppone a che si faccia una legge per regolare diritti che appartengono a ciascun singolo lavoratore. Una ripassata alla Costituzione non guasterebbe. Confindustria | Cgil | Cisl | Uil © Riproduzione riservata

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« Risposta #147 inserito:: Luglio 25, 2011, 11:39:33 am »

Obama sul filo del rasoio

di Massimo Riva

(21 luglio 2011)

"L'America non è la Grecia o il Portogallo". Detta così sembrerebbe la classica non-notizia. Chi mai può seriamente immaginare un simile accostamento fra grandezze, sia politiche sia economiche, lontane anni luce? Ma se chi sente di dover dire questa ovvietà è addirittura il presidente degli Stati Uniti, la notizia c'è e suona anche piuttosto allarmante. Perché un'affermazione del genere, fatta da Obama in un pubblico messaggio, dà la misura dello stato di difficoltà in cui versa oggi la Casa Bianca nel padroneggiare la crisi di bilancio di quella che resta pur sempre la prima potenza del pianeta.

Sono ormai parecchie settimane che il braccio di ferro tra democratici e repubblicani a Capitol Hill tiene col fiato sospeso il mondo intero per la minaccia che il prossimo 2 agosto l'amministrazione Usa sia costretta a dichiararsi in "default" con blocco dei pagamenti e conseguenze disastrose sugli equilibri finanziari internazionali. Un evento che lo stesso Obama ha drammatizzato al massimo evocando con il termine "Armageddon" uno scenario da fine del mondo.

A prima vista tutto ruota attorno al nodo del debito federale. In crescita rapida a seguito della crisi 2008-2010, l'indebitamento degli Usa è prossimo alla parità con il Prodotto interno lordo del paese e, in ogni caso, sta superando la soglia di autorizzazione allo sbilancio finora concessa dal Congresso. Se quest'ultimo non rivede al rialzo la cifra, il Tesoro Usa deve chiudere cassa e smettere di pagare per stipendi, sovvenzioni, investimenti, interessi sui titoli in scadenza e così via: la temuta apocalisse di Obama.
In realtà il quattordicesimo emendamento alla Costituzione conferisce al presidente poteri speciali in materia di debito che potrebbero consentire ad Obama di aggirare almeno temporaneamente l'ostacolo. Ma la Casa Bianca si mostra restia agli espedienti e vorrebbe che un innalzamento del tetto al debito procedesse di pari passo con una manovra di bilancio mirata a ridurre il deficit di almeno 4 mila miliardi di dollari in dieci anni. Ed è su questo punto specifico che è in atto il vero scontro fra presidenza e Senato democratici, da un lato, e Camera dei Rappresentanti in mano ai repubblicani, dall'altro. Questi ultimi intendono che i fatidici risparmi siano ottenuti soltanto con tagli alla spesa sociale, quella sanitaria in primo luogo.

Obama e i democratici puntano a una manovra più equa finanziata per almeno un terzo con maggiori tasse sui redditi più elevati. Un'ipotesi contro cui i repubblicani, eredi degli sgravi fiscali elargiti dalla presidenza Bush ai grandi ricchi, fanno muro anche se al Senato una bipartisan "Gang of six" lancia segnali di compromesso.

Sotto questo aspetto sì, in effetti, la situazione americana rivela similitudini con quella dei piccoli paesi in difficoltà di bilancio, come Grecia, Portogallo e perfino Italia. Perché negli Usa come altrove lo scontro interno è concentrato sulla ripartizione sociale dei costi dell'aggiustamento con i gruppi più influenti e affluenti determinati a difendere i propri privilegi e a scaricare gli oneri maggiori sulle spalle delle parti più deboli della comunità. Sui mercati, nel frattempo, la domanda di titoli del Tesoro Usa continua a essere sostenuta. Segno che in pochi credono all'arrivo dell'Armageddon o forse anche che chi maneggia denaro è convinto in cuor suo che ancora una volta i ricchi metteranno in riga i poveri.


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« Risposta #148 inserito:: Agosto 11, 2011, 12:32:42 pm »

Dagli allo speculatore

di Massimo Riva

In Grecia la crisi, in America il crollo. Anche l'Italia ha i suoi guai finanziari, speculazione in primis.

Se siamo stati così creduloni da berci le favole di Tremonti e Berlusconi, mica si poteva sperare che anche i signori della finanza internazionale fossero altrettanto sprovveduti

(08 agosto 2011)

La pressione dei mercati sull'Italia è diventata davvero molto pesante con un'accelerazione di attacchi speculativi che ricorda infausti precedenti come quello del nero settembre 1992. E, ancora una volta, riaffiora nel mondo politico la comoda tentazione di nascondere le proprie colpe dietro chissà quali complotti orditi da chissà quali oscure centrali della finanza internazionale. Un alibi miserevole per non voler riconoscere almeno un paio di banali verità. La prima, che ai mercati si può mentire anche tante volte ma non all'infinito. La seconda, che la stabilità del paese dipende enormemente di più da quanto si dovrebbe fare in casa nostra piuttosto che da quello che accade altrove.

D'accordo, lo tsunami finanziario che ha sconvolto il mondo nasce negli Stati Uniti e da lì non ha ancora smesso di propagare scosse sismiche. Va bene che in Europa ci si è mossi malamente e in ritardo, soprattutto a causa di una Germania che Angela Merkel ha guidato con mano vacillante e irresoluta. Sia pure che la crisi della Grecia è stata lasciata infettare fino a farne una minacciosa fonte di contagio. Sarà anche che le maggiori agenzie di rating (tutte americane) hanno fatto e stanno ancora facendo giochi spregiudicati che sembrano concepiti apposta per alimentare gli assalti degli speculatori. Ma in Italia nel frattempo che cosa si è fatto?

Per tre anni il patrio governo è andato avanti a ingannare i cittadini con lo slogan dei conti messi in sicurezza. E quanto lo fossero veramente lo si è appena visto ai primi e un po' più robusti stormir di fronde. Con il differenziale fra i titoli del Tesoro e i fatidici "bund" tedeschi schizzato verso quota 4 per cento anche a seguito di massicce vendite di Btp non solo da parte degli avventurosi hedge fund ma perfino di grandi banche europee.

E tutto questo solo per effetto di una malevola congiura? Ma via. I famosi conti in sicurezza celavano al loro interno un aumento record del debito pubblico che, grazie anche alla flebile crescita, ha raggiunto di nuovo il 120 per cento del Pil. Se gli italiani sono stati così creduloni da bersi le favole di Tremonti e Berlusconi, mica si poteva sperare che anche i signori della finanza internazionale fossero altrettanto sprovveduti.

Anche perché in materia l'Italia vanta pessimi precedenti. Uno, in particolare: quello di avere sperperato lo straordinario dividendo incassato con il forte ribasso del costo del denaro dopo l'entrata nell'euro. Non se n'è approfittato nella finanza pubblica, dove anzi Tremonti ha lasciato ripartire il debito, ma neppure a livello privato per dare più fiato agli investimenti ovvero per consolidare capitalizzazione e controllo delle aziende.

Da ultimo ora si è avuto l'ennesimo e grottesco tentativo di imbrogliare i mercati con una manovra finanziaria concepita non per prendere di petto le difficoltà ma solo con l'angusto proposito di non aggravare il marasma politico in cui versano da troppo tempo il governo e la sua maggioranza. Con il bel risultato di offrire ai moventi economici degli attacchi speculativi un argomento in più: quello di un Paese abbandonato a se stesso da un governo ormai a credibilità zero ma che resiste solo in forza della conta aritmetica dei seggi parlamentari. Altro che perfide cospirazioni altrui: se non salta questo tappo, aspettiamoci pure nuovi disastri.

 
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« Risposta #149 inserito:: Agosto 22, 2011, 04:09:53 pm »

Il fantasma recessione

di Massimo Riva

La bufera che investe i mercati finanziari tocca la Germania.

E il rallentamento della crescita economica tedesca preoccupa l'intera Europa

(19 agosto 2011)

Nel bel mezzo della tempesta che sta scuotendo da settimane i mercati finanziari, ora l'Europa rischia di doversi confrontare con serie difficoltà anche sul piano della congiuntura economica. I dati ultimi sull'andamento del secondo trimestre dell'anno, infatti, denunciano un netto rallentamento della crescita e tornano a riproporre l'incubo di una nuova recessione. In particolare, avvalora questa plumbea prospettiva la brusca frenata del Pil tedesco, che ha segnato un misero più 0,1 per cento contro aspettative dello 0,4. E non basta: l'apposito ufficio federale di Berlino ha anche rivisto al ribasso la cifra relativa alla crescita del primo trimestre dell'anno. Contro una stima precedente del più 1,5 per cento ora il dato ufficiale è stato corretto in un assai meno confortante 1,3.

Chi sia in cerca di consolazioni a tutti i costi - com'è antico vizio di Silvio Berlusconi e dei suoi ministri - potrà magari aggrapparsi all'inattesa performance dell'Italia che, sempre nel secondo trimestre, ha realizzato un aumento del Pil dello 0,3 un poco sopra la media europea, attestata sullo 0,2 per cento. Ma, premesso che anche dopo questa prestazione il nostro tasso di crescita tendenziale resta comunque inferiore all'uno per cento, sarebbe miope sottovalutare il peso generale dell'ultimo dato tedesco. La Germania non è solo e di gran lunga la maggiore economia del sistema euro oltre che dell'Europa intera. Il punto specifico è che da quasi due anni essa aveva ripreso a esercitare il ruolo di locomotiva del continente in forza di un boom delle esportazioni che aveva dato un discreto impulso ai consumi interni. Con diffusi benefici anche su altri paesi dell'Unione, non ultima l'Italia.

Per logica conseguenza una frenata della locomotiva tedesca è destinata a coinvolgere, chi più chi meno, tutti i vagoni che le si erano agganciati. Di recente la Confindustria ha reso note previsioni preoccupanti sul terzo e quarto trimestre italiani di quest'anno, denunciando il rischio di una crescita prossima allo zero. Non so se queste stime scontassero già il calo tedesco, certo che quest'ultimo sembra avvalorare i pronostici peggiori. Tanto più perché l'ultima stangata fiscale - benché varata sotto la necessità e l'urgenza di arginare le falle della finanza pubblica - non contiene alcun elemento di pronto rilancio delle attività economiche e rischia perciò di avere un impatto ulteriormente depressivo sulla crescita.

Questo scenario carica di ancor maggiori responsabilità la Bce, unico organismo sovranazionale dell'eurozona, in attesa del Consiglio economico ora proposto da Merkel e Sarkozy. Così come è intervenuta per commissariare governi fragili, quali quelli di Atene e di Roma, la Bce sarà costretta a riesaminare la sua politica sul costo del denaro. Non ha senso, a ben vedere, che essa impieghi decine di miliardi di riserve per acquistare i titoli degli Stati in difficoltà e insieme continui sulla linea di rincaro dei tassi d'interesse dopo gli aumenti di aprile e luglio. Il riaffacciarsi dello spettro della recessione o comunque di una crescita cascante è un segnale d'allarme non meno preoccupante dei timori per una ripresa dell'inflazione. La ricerca di un punto di mediazione fra questi due pericoli è l'eredità più difficile che Jean-Claude Trichet lascia sulle spalle di Mario Draghi nel prossimo autunno.

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