LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Giugno 25, 2007, 06:56:53 pm



Titolo: Massimo RIVA.
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2007, 06:56:53 pm
OPINIONI

AVVISO AI NAVIGANTI

Chi paga la rivolta fiscale
di Massimo Riva
 

Torbidi venti di rivolta fiscale tornano a soffiare in ampie zone del paese: segnatamente nelle regioni del Nord-est, ricche di lavoro autonomo sparso in una miriade di piccole imprese artigiane, commerciali, industriali. Stavolta la protesta risulta più minacciosa del solito perché sta raccogliendo consensi e solidarietà sia sul terreno tecnico sia su quello politico.

A fianco dei ribelli sono scesi in campo perfino i consulenti che curano gli affari tributari di questi particolari clienti. L'ordine professionale dei commercialisti si è spinto ad acquistare spazi pubblicitari sulla stampa per lanciare un appello a disattendere le nuove regole dei cosiddetti 'studi di settore' che costituiscono la base di riferimento per la tassazione dei redditi da lavoro autonomo. Un'iniziativa davvero clamorosa e sul filo della legalità. Ma non meno importanti e pericolosi sono gli appoggi venuti dal mondo politico, d'opposizione e addirittura di maggioranza.

Silvio Berlusconi ha di nuovo lanciato il sasso, incitando allo sciopero contro il Fisco. Salvo poi ritirare la mano protestando, come al suo solito, di essere stato frainteso o male interpretato. Ma va registrato che anche un vice-premier, come Francesco Rutelli, sta dando il suo prezioso (si spera, involontario) contributo ai potenziali rivoltosi predicando, un giorno sì e un altro pure, che le tasse sono troppo alte e il (suo) governo deve provvedere d'urgenza a ridurre la pressione fiscale. Tesi che viene argomentata anche con il fine politico di riconquistare i consensi elettorali perduti dal centro-sinistra nel recente voto amministrativo.

Sotto assedio, in tale scenario, è il ministero delle Finanze che incontra crescenti difficoltà a reggere l'urto della protesta. Una prima concessione è già stata fatta rinviando di 20 giorni la scadenza dei versamenti da parte di queste categorie di contribuenti. Una seconda è in gestazione in termini di semplificazione degli adempimenti relativi ai contestati studi di settore: mossa probabilmente utile per addolcire qualche eccesso di complicazione tecnica delle nuove regole. Quel che quasi tutti trascurano, però, è un particolare essenziale: alla revisione degli studi di settore è appeso un incasso di 2,7 miliardi conteggiato nel bilancio 2007. In mancanza del quale, tanto per fare un esempio, il famoso tesoretto di cui si parla (a vanvera) da mesi risulterebbe in pratica svuotato.

Cosicché, alla fine, uno scambio politico che rischia di profilarsi potrebbe essere il seguente: niente aumenti di prelievo sugli autonomi, ma anche nessun incremento per quei poveri derelitti che sopravvivono con una pensione da 500 o neppure euro il mese. Un autentico capolavoro di giustizia sociale in un paese nel quale si stima che l'evasione fiscale si collochi attorno al 20 per cento del prodotto interno, con radicamenti particolarmente accentuati proprio nell'ambito del lavoro autonomo.

Ma di che stupirsi? L'accumulo di un mostruoso debito pubblico che altro è se non il prodotto di governanti pavidi che, anziché esercitare la forza del diritto, hanno sempre ceduto alla prepotenza e all'arroganza di chi protesta e ricatta a voce più alta di altri?

da espressonline.it


Titolo: Massimo RIVA.
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2007, 02:49:51 pm
AVVISO AI NAVIGANTI

La regola salva poltrone

di Massimo Riva


Le nuove regole sulla governance duale hanno finora prodotto solo il moltiplicarsi di ruoli che i dirigenti si possono spartire.

Come nella fusione tra Intesa e Sanpaolo o i doppi ruoli di Cesare Geronzi.

Il caso di Cesare Geronzi ha aperto un utile (almeno si spera) dibattito sulla cosiddetta governance duale delle società da poco introdotta anche in Italia. Il banchiere romano, non pago di essere stato nominato presidente sia del patto di sindacato sia del consiglio di sorveglianza di Mediobanca perfino a dispetto delle sue disavventure giudiziarie, avrebbe voluto partecipare pure alle sedute del consiglio di gestione della stessa azienda. Un'ambizione che deve essere sembrata esorbitante al governatore di Bankitalia tanto che, nella sua qualità di vigilante sul sistema creditizio, ha precluso tale possibilità al fine di scongiurare una preoccupante commistione di ruoli e di responsabilità fra i due collegi di guida dell'istituto.

A stretto giro di posta con l'iniziativa di Mario Draghi è sceso in campo anche il presidente della Consob, Lamberto Cardia. Il quale ha posto al centro della sua relazione annuale proprio l'esigenza di correttivi all'attuale disciplina del sistema dualistico, sottolineando che nelle prime applicazioni pratiche di tale regime "la distinzione tra funzioni di gestione e di controllo e tra le rispettive responsabilità non è sempre chiara". Giudizi ai quali Cardia ha fatto seguire anche forti rilievi critici sulla moltiplicazione di poltrone (e prebende) conseguenti all'utilizzo del nuovo modello di governance.

Ce n'è abbastanza per chiedersi se sia stato davvero un bene introdurre tale riforma nel nostro ordinamento. Forse, in via teorica, può anche suonare attraente l'idea che una società sia amministrata da un vertice bicefalo: con un consiglio formato dai manager operativi che opera sotto la sorveglianza di un collegio rappresentativo degli azionisti. Ma sul piano pratico? Nelle sue (finora poche) versioni italiane questa novità ha avuto effetti positivi solo nel senso che ha reso disponibile un più elevato numero di poltrone, così aiutando a superare quello che rimane il principale ostacolo ad operazioni di concentrazione o fusione fra società:
la contesa sui posti di comando.

Sarebbero state così facili, per esempio, le nozze fra Intesa e Sanpaolo se il numeroso parentado di vertice dei due istituti non avesse potuto spartirsi ruoli e seggi in quantità fra consiglio di sorveglianza e consiglio di gestione? E ancora: il riassetto di Mediobanca, conseguente al suddetto matrimonio, sarebbe andato altrettanto liscio se non ci fosse stata la medesima opportunità di moltiplicare i posti a disposizione fra così tanti contendenti? Interrogativi retorici che postulano, però, un'ulteriore domanda: è giusto e accettabile che i pesanti costi economici di un simile incentivo alle ristrutturazioni societarie siano alla fine scaricati sull'intera platea degli azionisti?

È antica e irrisolta questione quella dei robusti compensi che i vertici delle società per azioni si assegnano sovente fuori di ogni reale possibilità di controllo da parte degli azionisti minori. Il ricorso alla governance duale rischia di esasperare i termini di un problema non marginale per la credibilità del sistema. Iniziative in materia da parte di Draghi e di Cardia appaiono tanto necessarie quanto urgenti.

(20 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo Riva - Tutti zitti su Geronzi...
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2007, 12:14:51 am
AVVISO AI NAVIGANTI

Tutti zitti su Geronzi

di Massimo Riva


La posizione giudiziaria di Geronzi si aggrava nell'indifferenza della business community. Un silenzio che non getta una buona luce su gran parte del capitalismo nazionale  Il 'pedigree' giudiziario del presidente di Mediobanca si allunga e si aggrava. Già condannato in primo grado per il crack del cosiddetto Bagaglino e poi rinviato a giudizio per il caso Parmalat, ora Cesare Geronzi è mandato di nuovo davanti ai giudici anche per la vicenda Cirio: per giunta, in una compagnia non delle più raccomandabili come quella di Gianpiero Fiorani, il rinomato boss della Popolare di Lodi. Le imputazioni a carico dell'ex patron della Banca di Roma riguardano sempre il medesimo reato di bancarotta in tutte le sue declinazioni: fraudolenta, preferenziale, distrattiva. Quanto di peggio si possa prevedere per l'immagine di chi fa di professione il banchiere.

Orbene, Mediobanca non sarà più quella dei tempi di Enrico Cuccia, ma resta pur sempre un crocevia fondamentale per gli assetti del capitalismo domestico. Dunque, era lecito pensare che questa ennesima disavventura giudiziaria suscitasse opportune reazioni almeno da parte di qualcuno dei tanto autorevoli azionisti dell'istituto. Non s'è mossa una foglia: come per i casi precedenti, un velo di silenzio, forse più connivente che indifferente, ha accompagnato la notizia. Anzi, è accaduto di peggio: uno dei principali protagonisti della partita, il francese Vincent Bolloré, ha dato l'annuncio che presto Geronzi sarà nominato vice-presidente delle Generali, il colosso assicurativo di cui Mediobanca è il maggiore azionista.

Questa solidarietà di tanta parte della business community con il banchiere incriminato ha qualcosa di inspiegabile, almeno alla luce del sole. Possibile che nessuno si renda conto degli inevitabili contraccolpi sulla credibilità dell'intero sistema finanziario? A questo punto i casi possono essere soltanto due. O fa cinicamente comodo un po' a tutti che al vertice di un centro di grande potere economico, quale l'asse Mediobanca-Generali, sieda una sorta di anatra zoppa ovvero Cesare Geronzi dispone di argomenti, chiamiamoli così, fortemente persuasivi per tenere sull'attenti perfino i nomi più altisonanti del capitalismo nazionale.

Ipotesi che gettano entrambe una pessima luce sull'etica oggi prevalente nel mondo degli affari.


A completare il quadro va ricordata anche la brutta gaffe commessa dallo stesso Geronzi, che ha cercato di riaccreditarsi affermando di essere stato a suo tempo sollecitato per la presidenza di Mediobanca dal defunto Vincenzo Maranghi, già pupillo e successore di Enrico Cuccia poi estromesso (lui sì!) senza tanti complimenti dall'istituto.

Asserzione che ha provocato una netta smentita da parte della famiglia Maranghi, giustamente infastidita da questo tentativo di ripararsi dietro una persona non più in grado di replicare. Una così maldestra sortita è probabilmente il segnale che Cesare Geronzi deve essere consapevole della sua imbarazzante posizione, ma essa suona anche come l'implicita confessione di uno stile umano e professionale non precisamente esemplare. In ogni caso, quali che siano le spiegazioni di tutta questa incresciosa vicenda, un punto è chiaro: coloro che fanno finta di nulla dinanzi al caso Geronzi rendono un pessimo servizio a se stessi e al buon nome del capitalismo italiano.

(18 ottobre 2007)
da repubblica.it


Titolo: Massimo Riva - Smemorato Montezemolo
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2007, 08:10:55 am
AVVISO AI NAVIGANTI

Smemorato Montezemolo

di Massimo Riva


Il presidente di Confindustria dice che l'Italia non è governata da dodici anni. Ma dimentica lo sforzo del tandem Ciampi-Prodi per agganciare l'Italia all'Europa  Luca Cordero di MontezemoloOgni volta che il presidente di Confindustria lancia frecciate polemiche al mondo politico - evento che si ripete con una certa assiduità - riprende slancio un tormentone che agita da tempo i palazzi romani: ma Luca di Montezemolo sta forse preparando il terreno a un suo personale impegno diretto in politica? Interrogativo che la sua più recente sortita in quel di Caserta ha reso ancora più battente a causa di un giudizio particolarmente duro e liquidatorio pronunciato nell'occasione: "Questo paese non è governato da dodici anni".

Si può lasciare ad altri il gusto di strologare sulle reali intenzioni del personaggio verso la politica, anche perché oggi un simile esercizio rischia comunque di risultare di scarsa utilità. Mentre vale la pena di concentrarsi sul merito specifico delle parole dette dal presidente degli industriali. Che senso ha aver detto che l'Italia non è governata da dodici anni? Già il riferimento temporale suona piuttosto stravagante: forse che nella dozzina d'anni precedenti il 1995, si stava davvero tanto meglio? In realtà, non pare che si possa ricordare con nostalgia quel convulso periodo di crescita del debito pubblico e di allegra spesa che portò il paese sull'orlo della bancarotta nel drammatico settembre nero del 1992. Ma questo sarebbe ancora il meno.

Il fatto più stupefacente è che, mettendo in un unico fascio tutte le erbe governative dal primo gabinetto Prodi all'attuale passando per il quinquennio berlusconiano, Montezemolo avrà forse voluto darsi una patente di equidistanza dai due grandi blocchi politici in competizione, ma di sicuro è caduto in una svista a dir poco clamorosa. Si dà il caso, infatti, che dentro quel dodicennio da lui così disprezzato si collochi una non breve né insignificante battaglia politica nella quale il tandem governativo Ciampi-Prodi tanto bene riuscì nell'opera di governo del Paese che ottenne - anche contro le scettiche (e talora interessate) previsioni del mondo imprenditoriale - di agganciare l'Italia al treno dell'euro fin dalla partenza. Perfino ricorrendo allo strumento di una tassazione straordinaria e in parte temporanea che i cittadini accettarono senza colpo ferire, lasciando ammirata l'Europa intera.


Per chi oggi sta al vertice di Confindustria e di Fiat un simile lapsus di memoria non è un buon segno, indipendentemente dalle reali o soltanto supposte ambizioni politiche. A lui e a chi lo applaude va richiamato il valore storico incontestabile di un successo dell'opera di governo, in mancanza del quale oggi la vita degli italiani (produttori e consumatori) sarebbe un film dell'orrore in termini di potere d'acquisto, di tassi di interesse, di bolletta energetica e via bancarottando nel pubblico come nel privato. Tutte cose, del resto, che Luca di Montezemolo non ignora di sicuro. Tanto più perché oggi egli rappresenta anche una grande industria quale Fiat che, già usa a non lievi aiuti di Stato nei suoi anni peggiori, si è risollevata da una crisi profonda e ha ritrovato capacità competitiva pure in una stagione di moneta forte. Davvero non si capisce perché proprio al presidente della Ferrari sia scivolata così maldestralmente la frizione.

(02 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo Riva - I privilegi di Bernheim
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2007, 05:45:55 pm
AVVISO AI NAVIGANTI

I privilegi di Bernheim

di Massimo Riva


Il fondo Algebris ha sferrato un attacco a viso aperto contro l'attuale vertice delle Assicurazioni Generali  Palazzo della Borsa a MilanoNon sarebbe da ingenui ma da stupidi scambiare gli amministratori degli hedge fund per dei cavalieri senza macchia e senza paura che volteggiano sui mercati finanziari in nome e per conto del bene comune. Il fatto che almeno quattro di questi fondi su cinque siano domiciliati nell'accogliente tepore fiscale delle isole Cayman già la dice lunga sulla scarsa propensione dei loro gestori a lavorare nel solco di mercati trasparenti, ben regolati e disciplinati. Ciò non toglie, però, che l'attivismo di costoro possa produrre talvolta effetti benefici e positivi, mettendo a nudo abusive posizioni di rendita azionaria ovvero ingiustificabili situazioni di potere societario.

In questa ottica lascia francamente sconcertati il tipo di reazioni seguite all'attacco a viso aperto che il fondo Algebris ha promosso contro l'attuale vertice delle Assicurazioni Generali. Sia chiaro: se la Consob dovesse accertare che gli eccessi borsistici verificatisi sull'onda di questa iniziativa configurano manovre di aggiotaggio, sarà bene che i responsabili siano colpiti con la severità necessaria. Ma, oltre a mettere sotto la lente i comportamenti di chi ha lanciato la sfida, come è stato richiesto a gran voce perfino da qualche associazione di consumatori, sarebbe almeno altrettanto giusto e doveroso prendere in seria considerazione il merito delle accuse sollevate da Algebris.

Esse riguardano essenzialmente due punti. Primo, le retribuzioni che gli amministratori di Generali si sono graziosamente concesse, a cominciare da quella esorbitante del presidente Bernheim. Secondo, il controverso modello di 'governance' dell'azienda che appare come il riflesso passivo delle complicate trame di potere connesse agli incroci azionari al centro dei quali si trova il gigante assicurativo. Al riguardo ci si può anche chiedere se l'attacco di Algebris sia una sortita solitaria destinata a magro successo ovvero rientri in un gioco più ambizioso, con potenti alleati coperti, per mettere alle corde il sistema di potere che orbita attorno alle Generali. Ma il fatto che da più parti ci si stia già riparando dietro il tricolore a difesa di un'italianità in pericolo suona sgradevole e sospetto.


Certo, quello di Generali è una sorta di campo di battaglia sul quale si esercitano da tempo in guerre non dichiarate gli interessi di una rilevate porzione del potere economico nazionale: da Mediobanca a Unicredit, da Intesa-Sanpaolo a Telecom e così via fino al Corriere della Sera. Qualcuno ora vuole mettere in discussione le fragili e compromissorie basi su cui si fonda questa chiusa e complessa cupola di potere? Ebbene, dove sta lo scandalo? Dove, poi, la minaccia per la patria? Ma quando mai i protagonisti di queste partite, nei loro giochi riservatissimi, hanno operato in nome di un altro bene che non fosse il loro personale o, nel migliore dei casi, aziendale?

Del tutto grottesca, in questo panorama, risulta infine la messa in guardia che viene fatta contro gli sfidanti: attenzione, si dice agli italiani, perché gli uomini degli hedge fund puntano soltanto a fare soldi e in fretta! Ma guarda un po': perché gli altri a quali più nobili e lungimiranti fini si dedicano?

(09 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Masimo Riva Avvoltoi sopra l'Alitalia
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2008, 03:37:26 pm
Masimo Riva

Avvoltoi sopra l'Alitalia


La vicenda Alitalia si trascina ancora di mese in mese ad oltre un anno dal lancio della gara d'asta. La crisi del governo Prodi ha riacceso le speranze di chi non vuole la soluzione francese  Un aereo AirOneAl non modico prezzo di quasi un milione di perdite al giorno, la vicenda Alitalia si trascina ancora di mese in mese ad oltre un anno dal lancio della gara d'asta finita in una bolla di sapone. Sul tavolo c'è la trattativa con AirFrance che dovrebbe arrivare alla stretta finale nel giro di qualche settimana. Il termine ultimo è stato fissato per il 14 marzo. Sia i vertici della compagnia sia l'azionista di controllo (il ministero dell'Economia) si dicono convinti che non vi sia ormai altra strada da percorrere per scongiurare il formale fallimento dell'azienda.

La crisi del governo Prodi ha, però, riacceso le speranze di chi non vuole la soluzione francese. Si tratta al momento di un'informe brigata d'interessi che si muove in ordine sparso, ma con un comune (non facile) obiettivo: salvare insieme all'Alitalia anche quell'aeroporto di Malpensa che ha dato il colpo di grazia ai già fragili conti della compagnia. In campo c'è, innanzitutto, la società AirOne che, spalleggiata da Banca Intesa, si è sentita scavalcata dall'offerta AirFrance ed ora ha fatto ricorso al Tar per congelare il negoziato con Parigi. Un'altra iniziativa giudiziaria è stata annunciata dalla Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi, per reclamare il risarcimento dei danni (oltre un miliardo) che ricadrebbero su Malpensa per gli slot abbandonati da Alitalia.

Ma fra i soci pubblici della medesima Sea non c'è accordo sul ricorso alle carte bollate. E' favorevole il sindaco di Milano, Letizia Moratti, per la quota del Comune. Non lo sono, per la loro parte, il presidente della Regione e quello della Provincia, che preferirebbero una linea trattativista con il governo. Attorno a costoro si agita un variegato fronte politico, economico e sindacale che preme anch'esso per una soluzione in grado di salvare la capra di Alitalia e i cavoli di Malpensa. L'ultima novità su questo versante è che il tentativo di AirOne potrebbe essere fiancheggiato da una cordata di nomi, anche altisonanti, dell'imprenditoria lombarda.


Non è la prima volta che un simile proposito si affaccia in questa telenovela. Peccato che, al momento di contare i soldi sul piatto, si sia sempre scoperto che il mondo industriale è tanto veemente nel protestare contro il ridimensionamento di Malpensa quanto avaro nell'aprire il portafoglio. Anche stavolta, del resto, punto di forza dei 'malpensanti' è la richiesta di una moratoria di almeno tre anni sull'abbandono degli slot da parte di Alitalia. Un modo neanche troppo nascosto di continuare a scaricare costi (600 milioni) sul bilancio della compagnia, cioè sulle tasche di Pantalone.

Siamo così al punto che il combinato disposto delle liti giudiziarie e della crisi di governo fa temere un fatale allungamento dei tempi per la soluzione del problema col rischio che "l'oggetto del contendere", come ha detto il ministro Padoa-Schioppa "venga meno prima che la contesa sia risolta". Insomma, che Alitalia si trovi obbligata a portare i libri in tribunale. Un esito inglorioso che potrebbe, però, far comodo a tanti: alle compagnie concorrenti come a chi voglia mettere le mani su quel che resta di Alitalia a prezzo fallimentare.

(11 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo Riva Quei ministri impotenti
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2008, 09:34:00 pm
Massimo Riva

Quei ministri impotenti


I grandi sacerdoti dell'economia internazionale non sanno come fronteggiare la valanga di disastri innescata dalla crisi dei mutui immobiliari  Questa volta gli 'spiriti animali' del capitalismo l'hanno combinata davvero grossa. Tanto grossa che i grandi sacerdoti dell'economia internazionale - ministri delle Finanze e governatori centrali dei paesi più ricchi - non sanno proprio che pesci pigliare. Infatti, riuniti a Tokyo per discutere il da farsi contro la valanga di disastri innescata dalla crisi dei mutui immobiliari americani, i togati custodi della stabilità dei mercati non hanno fatto di meglio che balbettare parole ovvie e scontate e perciò del tutto inutili e inefficaci.

Il dato più grave è che questa resa incondizionata al corso degli eventi nasconde due forme di impotenza. La prima, forse in parte giustificabile, nasce dalla riconosciuta ignoranza di informazioni attendibili sulla dimensione reale delle voragini che si sono aperte nei bilanci del sistema creditizio e finanziario. In effetti, non si fa in tempo a stimare i buchi dichiarati che, da un giorno all'altro, ne emergono di nuovi e sempre maggiori in una sorta di catena di Sant'Antonio del malaffare. Al principio le banche centrali hanno creduto di poter arginare questa grandinata con iniezioni a breve di liquidità, ora ci si rende conto che i mercati covano al loro interno guasti che richiederebbero interventi ben più radicali anche di qualche vigoroso taglio al costo del denaro.

Si tratterebbe, in particolare, di fare piazza pulita dei maneggioni senza scrupoli annidati in banche e agenzie di rating, domando proprio quegli 'spiriti animali' del sistema tanto spavaldi ieri nel reclamare piena libertà d'azione quanto oggi genuflessi a chiedere grazia e aiuti alle pubbliche autorità. Ma è proprio su questo punto che la sterilità dei grandi chierici nel generare misure di controllo contro l'avventurismo finanziario lascia trasparire un'altra e più insidiosa forma di incapacità che, con metafora medica, si potrebbe chiamare 'impotentia coeundi'. Non si prendono provvedimenti perché manca la spinta a penetrare nei meccanismi del mercato per placarne la soggezione agli istinti più licenziosi. Come dimostra il fatto che il gran consulto di Tokyo si è chiuso con un paradossale appello dei clinici affinché le banche infette si curino da sole.

È possibile che tale atteggiamento rinunciatario nasca da un diffuso pregiudizio ideologico favorevole a tollerare perfino le devianze più animalesche dello spirito mercantile. Certo è che questa abdicazione da parte di chi dovrebbe vigilare sulla correttezza degli affari può anche essere letta come una fuga dalle responsabilità e così rendere più alta e devastante quell'onda di sfiducia crescente che già sta mettendo in ginocchio i mercati finanziari. Come s'è visto anche nel cortile di casa nostra, dove l'esodo di massa dai fondi d'investimento trae nuove ragioni proprio dal fatto che il governatore Draghi, anziché intervenire per liberare la piazza dai troppi conflitti d'interessi che la soffocano, si limita a fare appelli al ravvedimento operoso dei colpevoli. Un messaggio che serve solo ad alimentare l'allarme, senza scalfirne le cause. Qualcuno dovrebbe spiegare agli augusti ministri e governatori che il confine fra impotenza e connivenza è talora sottile.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo Riva. Chi paga la tassa Alitalia
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2008, 05:00:35 pm
Massimo Riva

La demagogia non paga le tasse

La pressione fiscale è giustamente al centro del dibattito elettorale. È quindi il momento giusto per sgomberare il campo da alcune mistificazioni della realtà  Che la campagna elettorale abbia al suo centro il tema delle tasse è logico. Sia per ragioni storiche: i parlamenti sono nati proprio al fine di controllare le decisioni fiscali del Principe; sia oggi anche e soprattutto per ragioni contingenti, dato che in Italia il prelievo tributario risulta elevato in quantità oltre che squilibrato in qualità, soprattutto nei confronti del lavoro dipendente. Alcuni degli argomenti trattati nei comizi di questi giorni fanno, tuttavia, temere che la situazione possa piuttosto peggiorare che migliorare.

Intanto il campo andrebbe sgomberato da una prima e fuorviante mistificazione della realtà relativa alla crescita della pressione fiscale. È vero, infatti, che nel 2007 il gettito tributario è salito, ma è altrettanto vero che parte non trascurabile di questo aumento deve essere attribuita a un significativo recupero di evasione o elusione dell'obbligo tributario: quindi, almeno per quelli onesti fra i contribuenti, la situazione è rimasta sostanzialmente invariata rispetto al 2006. In altre parole: non si sono pagate più tasse, ma si sono pagate di più le tasse normalmente dovute. Il che prova che - solo perseverando nella lotta all'evasione - si potranno incassare maggiori risorse per far pagare meno tasse in particolare a coloro che non hanno mai avuto l'opportunità di fare i furbi, come appunto i lavoratori dipendenti.

Peccato che, proprio su questo nodo cruciale, stiano avanzando proposte che obbediscono platealmente a finalità di bassa e ingannevole demagogia. La più pericolosa, anche istituzionalmente, di queste è quella sostenuta dal fronte berlusconiano che mira alla detassazione degli straordinari o addirittura della tredicesima. Tralasciamo pure il piccolo particolare che una simile ipotesi costituirebbe un premio occulto a chi sta dentro il mercato del lavoro e un'ulteriore e solenne fregatura per chi ha la disgrazia di non riuscire a entrarci e avrà così sempre meno possibilità di farlo. Ma
è soprattutto sul piano dei fondamenti della giustizia tributaria che questa proposta suona stravolgente.

Principio basilare dell'equità fiscale è che ciascuno paghi in proporzione al proprio reddito. Che senso avrebbe al riguardo segmentare la busta paga del lavoratore-contribuente con l'inserimento di una zona franca dalle imposte? Quale se non quello di voler concedere un piccolo privilegio atto soprattutto ad agire da paravento per quei ben maggiori vantaggi che sono concessi ad altre categorie reddituali? La via maestra in materia non può essere quella di rinfoltire la giungla legislativa nel rapporto fra i cittadini e l'Erario. Si tratta piuttosto di agire su alcuni istituti fiscali esistenti che già offrono eccellenti opzioni di intervento. La prima, fondamentale, sarebbe una riduzione della prima aliquota Irpef, quella sui redditi più bassi. La seconda è quella di riconoscere anche ai dipendenti spazi di detrazione forfettaria per spese relative alla propria attività come, per esempio, quelle necessarie a raggiungere il posto di lavoro.

Chi trascura simili soluzioni e promette mirabolanti franchigie lavora per accrescere l'arbitrarietà e non l'equità del regime fiscale.

(07 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo Riva. Chi paga la tassa Alitalia
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2008, 07:46:42 pm
Massimo Riva


Una donna eletta alla vertice di Confindustria è un bel segnale da parte dell'imprenditoria italiana.

Entusiasma meno la maggioranza bulgara ottenuta dalla giovane presidente  Emma MarcegagliaUna donna quarantenne che sale alla presidenza di Confindustria è già un bel segnale da parte della classe imprenditoriale. Perché vi si può leggere un'indicazione anche a livello istituzionale di quella capacità di cambiamento e di innovazione che dovrebbe costituire la caratteristica saliente del mondo industriale. Soprattutto oggi, in un panorama economico mondiale in rapida trasformazione. Meno entusiasmante forse è la maggioranza bulgara ottenuta da Emma Marcegaglia. L'esperienza confindustriale insegna che le votazioni plebiscitarie sovente non assorbono ma nascondono il dissenso, sempre latente in un'organizzazione sindacale nella quale si giustappongono interessi economici e inclinazioni politiche conflittuali.

Sarà, dunque, sull'agenda dei problemi concreti che la giovane presidente dovrà dimostrare forza e tenuta della sua leadership. Il predecessore le lascia al riguardo un'eredità preziosa e al tempo stesso non facile. Innanzi tutto, sul terreno dei rapporti con il potere politico, dove Luca di Montezemolo - prima con Berlusconi e poi con Prodi - ha saputo sganciare Confindustria dalla tara del collateralismo filogovernativo per farne un interlocutore autonomo da scelte aprioristiche di schieramento. Linea che Marcegaglia non potrà non continuare, ma in un contesto generale il quale si annuncia assai più impervio. Perché dopo le prossime elezioni è inevitabile che qualunque nuovo governo sarà spinto dalla difficile congiuntura economica interna e internazionale a reiterare tentativi di arruolamento - vuoi per soggetti singoli vuoi per blocchi d'interesse - nei confronti del variegato mondo imprenditoriale.

Quello di fisco-retribuzioni-contratti sarà il principale terreno di confronto. Che la questione salariale sia diventata una minaccia alla pace e alla coesione sociale del paese è un fatto riconosciuto anche da molti imprenditori. Ma al riguardo si possono battere strade parallele e complementari ovvero intrecciate e sovrapposte. Al governo spetta trovare, attraverso tagli di spesa pubblica e lotta all'evasione fiscale, spazi per significativi sgravi di imposta. A sindacati e Confindustria di promuovere una riforma dei contratti che dia spazio ad aumenti salariali in parallelo a recuperi di produttività. Forte, in entrambe le parti sociali, è la tentazione di sciogliere il nodo di loro specifica competenza facendo leva sul contributo dell'erario. Marcegaglia si accomoderà su questa linea ovvero farà fino in fondo la parte sua? Ecco per lei un primo e cruciale banco di prova.


In caso poi di vittoria del centro-destra un altro test insidioso per la nuova presidenza sarà quello dei mercati. Giulio Tremonti non perde occasione per predicare un protezionismo anche daziario contro le insidie del commercio internazionale. Marcegaglia si trova a guidare una Confindustria divisa. Da una parte, aziende che hanno saputo reggere la sfida della moneta forte e navigare nel mare aperto della competizione mondiale; dall'altra, imprese che arrancano ed invocano protezioni.

Che cosa sceglierà la nuova presidenza: il lungo o il corto respiro? In ogni caso, sarà messa a dura prova la maggioranza bulgara del suo insediamento.

(21 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo Riva. Chi paga la tassa Alitalia
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2008, 11:16:07 am
Massimo Riva

Chi paga la tassa Alitalia

Nelle vicenda Alitalia è stato trascurato un protagonista fondamentale, il contribuente. Gli italiani stanno pagando di tasca loro le disavventure finanziarie della compagnia di bandiera  E i contribuenti? Finora nella vicenda Alitalia tutti gli interessi coinvolti hanno trovato un portavoce politico o sindacale fuorché uno. Quello della generalità dei cittadini comuni - viaggiatori e non - i quali sono stati obbligati a ripagare a piè di lista le prolungate disavventure finanziarie della compagnia attraverso le tasse versate all'Erario. Il tutto per un valore monetario complessivo che, stando a calcoli prudenti, si aggira su circa 15 miliardi di euro soltanto negli ultimi 15 anni.

Una cifra che grida vendetta al cielo anche perché, ogni volta che lo Stato ha rimpinguato le casse esauste dell'azienda, l'amara pillola veniva addolcita con la promessa che si sarebbe trattato della svolta decisiva per uscire definitivamente dai guai. Per fortuna - ahinoi tardiva - è poi intervenuta l'Unione europea che ha sbarrato la strada alle sovvenzioni pubbliche alle imprese. Ma non è che lo stop di Bruxelles sia servito granché: tutti i maggiori responsabili di questo colossale disastro continuano a ragionare e a comportarsi nell'assoluta indifferenza verso i finanziatori di ultima istanza della compagnia, che sono sempre i malcapitati contribuenti.

Di costoro se ne infischiano i piloti dell'Anpac, i quali hanno proclamato che preferiscono azzerare il valore della società con il fallimento pur di non accettare le condizioni per loro poco vantaggiose offerte da Air France. Pari considerazione per le tasche di Pantalone mostrano anche i maggiori sindacati, a partire dalla Uil che insiste a chiedere di protrarre nel tempo ogni decisione, impassibile davanti al fatto che così un milione di euro dei contribuenti se ne va in fumo a ogni calar del sole. Per carità, nessuno contesta che il mestiere del sindacato sia quello di difendere i lavoratori coinvolti in questa crisi direttamente (Alitalia) o indirettamente (Malpensa). E però esiste un limite di pubblica decenza nel volere, senza avere neppure il coraggio di dirlo, che la tassa occulta di Alitalia continui a pesare su tutti i cittadini.

Rilievi ancora più gravi si devono poi fare alla classe politica. Non paghi di aver posto le premesse del dissesto con i ritardi nelle infrastrutture di Malpensa e con la feroce concorrenza attraverso gli scali di Linate e di Orio al Serio, il presidente della regione Lombardia e il sindaco di Milano insistono su posizioni il cui succo è far sopravvivere l'aeroporto varesino a spese del bilancio Alitalia, cioè del solito sventurato contribuente. Da ultimo su questa linea si è assestato anche colui che pure gira le piazze d'Italia proclamando il ferreo impegno a non mettere le mani nelle tasche dei cittadini. Che cosa indica, infatti, il 'niet' di Silvio Berlusconi ad Air France accompagnato dalla richiesta di un prestito del Tesoro per dare spazio alla creazione di una tuttora fantomatica cordata tricolore? Che cosa se non la volontà dissimulata di continuare a spremere proprio le suddette tasche degli italiani? Alitalia ha già tosato allegramente i suoi passeggeri, per esempio sulla rotta Milano-Roma. Ma per quanto riguarda i contribuenti è ora e tempo di dire una sola parola: basta! Basta soprattutto con chi si traveste da patriota coi soldi altrui!

(04 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo Riva. Pagella Montezemolo
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 12:22:27 am
Massimo Riva

Pagella Montezemolo


Nei gioni in cui il Paese cambia governo, si allontana dal palcoscenico istituzionale un protagonista di questi ultimi tempi: Luca di Montezemolo. La migliore eredità sarebbe evitare il colpo di teatro di una discesa diretta in campo politico. 

Mentre il Paese sta per affidarsi a un nuovo governo, si allontana dal palcoscenico istituzionale un protagonista di spicco del teatro politico-economico di questi ultimi tempi: il presidente uscente di Confindustria, Luca di Montezemolo. Al quale è toccato di vivere un'esperienza davvero singolare, avendo svolto il suo primo mandato nel biennio finale del passato gabinetto Berlusconi ed il secondo nei primi e due soli anni dell'ormai concluso ministero Prodi. Una convivenza di opposto segno politico nella quale il leader degli industriali ha saputo destreggiarsi con abilità e intelligenza, rendendo in più di un'occasione un eccellente servizio all'immagine pubblica del suo sindacato.

"Grazie della strepitosa eredità che lasci al sistema.". In queste parole, rivolte di recente a Montezemolo dal presidente dei piccoli industriali Giuseppe Morandini, c'è probabilmente un eccesso di retorica. Tuttavia, esse sono anche il segnale di un primo (non scontato) successo della gestione confindustriale da parte del presidente di Fiat. Un forte antagonismo fra grandi e piccole aziende, sovente ben dissimulato, caratterizza da sempre la dialettica interna a quel sindacato. I termini dell'omaggio reso da Morandini indicano che su questo terreno il presidente uscente ha saputo lavorare bene e mediare utilmente fra interessi spesso contrastanti.

Una spiegazione pratica di questa ricomposizione unitaria del fronte confindustriale va individuata nel buon esito della battaglia ingaggiata da Montezemolo per l'alleggerimento degli oneri fiscali e previdenziali sulle imprese. Certo, non è stato merito suo il fatto che il governo Prodi abbia deciso un cospicuo taglio al cuneo fiscale sulle buste paga: questo era un impegno che i partiti dell'Unione avevano già messo ai primi posti del loro programma elettorale. Ma è altrettanto un fatto che è stata l'opera del vertice di Confindustria a manovrare per raggiungere un duplice obiettivo. Da un lato, che la parte più sostanziosa degli sgravi fosse destinata alle casse delle imprese. Dall'altro lato, che la platea delle aziende beneficiarie fosse la più estesa possibile in direzione delle piccole.


Questo specifico capitolo dei robusti vantaggi economici ottenuti, soprattutto nell'ultimo biennio, è una chiave importante per capire la popolarità raggiunta nel mondo imprenditoriale dalla presidenza Montezemolo. Ma non bisogna trascurare anche un altro genere di successo che quest'ultima ha conquistato su terreni meno concretamente pecuniari e però di grande importanza per la credibilità esterna di Confindustria. Al riguardo vanno segnalati in particolare la svolta impressa all'associazione in Sicilia sul fronte della lotta alle infiltrazioni mafiose e, in sede centrale, la chiusura ad ogni tentazione di collateralismo politico.

Nel quadriennio della precedente gestione D'Amato, l'organizzazione degli industriali si era appiattita anima e corpo sull'allora governo Berlusconi. Con il brillante risultato di dover incassare qualche danno, come la sconfitta nell'inutile guerra sulla riforma dei licenziamenti, e non poche beffe, prima fra tutte la defatigante trattativa per firmare quell'enfatico 'Patto per l'Italia' che si è poi rivelato la più grande bufala economica dell'ultimo decennio. La reazione di Montezemolo a questo disastro è stata lungimirante, collocando Confindustria su una posizione di autonomia critica verso tutto il mondo della politica. Dapprima con Berlusconi e poi con Prodi egli si è posto nel ruolo proprio di controparte sociale in dialettica aperta e talora vivace con i governi, senza più badare al loro colore politico.

Questa terzietà di Confindustria ha portato talora Montezemolo a qualche inattesa sbavatura polemica, come quando ha misconosciuto - salvo poi correggersi in tutta fretta - perfino lo storico aggancio all'euro del duo Ciampi-Prodi all'interno di un pesante giudizio liquidatorio sui governi degli ultimi 12 anni. Simili eccessi hanno così alzato sul finale della sua presidenza il sospetto increscioso che egli stesse preparando il colpo di teatro di una sua diretta discesa in campo politico. La migliore eredità che Montezemolo lascia a Confindustria sta nella negazione di una tale eventualità. In caso opposto, infatti, la conquistata autonomia dell'associazione avrebbe assunto lo sgradevole sapore di un passaggio strumentale a fini di potere personale.

(17 aprile 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Miracoli del super euro
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 04:02:07 pm
Massimo Riva

Miracoli del super euro


A dispetto dell'euro sopravvalutato e della recessione in atto negli Stati Uniti, le esportazioni italiane corrono da mesi su buoni livelli di crescita  Le polemiche di parte industriale contro l'euro forte sono destinate a durare ancora, ma sempre invano. Ci sono non poche e serie ragioni per considerarle, tutto sommato, imbelli. Una per tutte: con un'inflazione media europea che corre ben sopra il 3 per cento, la Banca centrale di Francoforte non opererà presto alcun taglio dei tassi d'interesse sulla moneta unica, anzi ora c'è semmai il rischio che si trovi costretta a deciderne un seppur minimo aumento. Su questo punto il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, è stato fermo e chiaro nelle sue ultime uscite pubbliche.

Quindi, anche in Italia, il sistema produttivo dovrà continuare a convivere per un tempo non breve con un cambio forte: esperienza dura e difficile per un mondo industriale abituato a decenni di svalutazioni competitive, ma che sta dando anche risultati positivi di rilievo per quanto riguarda la presenza del 'made in Italy' nel commercio internazionale. A dispetto dell'euro sopravvalutato e della recessione in atto negli Stati Uniti, infatti, le esportazioni italiane corrono da mesi su livelli di crescita attorno al 10 per cento.

Come conferma anche l'ultimo dato ufficiale disponibile, quello sul febbraio 2008, che indica una crescita dell'export del 10,9 per cento rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. Un incremento doppio, fra l'altro, a fronte di quello delle importazioni che, nonostante l'escalation dei prezzi del petrolio, è stato del 5,3 per cento. A questi risultati hanno contribuito settori nei quali le nostre esportazioni sono tradizionalmente robuste (come tessile-abbigliamento e mobili), ma anche altri dall'andamento più incerto: le vendite di macchinari sono cresciute del 18 per cento, quelle di prodotti dell'agricoltura addirittura del 23.

Con le nere nuvole che si addensano sulla congiuntura economica internazionale, è pacifico che queste notevoli prestazioni possano e debbano essere considerate anche reversibili. Ma, a dieci anni dalla rincorsa italiana al treno della moneta europea, esse consentono di tirare un primo e importante bilancio sugli effetti di una scelta che molti industriali e politici allora giudicavano esiziale per la sopravvivenza del nostro apparato produttivo. In realtà, invece che a un tracollo del sistema, si è assistito a una sua straordinaria metamorfosi: nel senso che una quantità d'imprese ha saputo emanciparsi dalla droga del cambio debole e ha rinnovato prodotti e processi produttivi per adeguarsi alle sfide della competizione mondiale. Quello della Fiat di Marchionne è soltanto il caso più evidente e clamoroso di una lunga serie di trasformazioni aziendali avvenute con successo anche esterno, come dimostrano appunto i dati sulle esportazioni.

Naturalmente si è verificato anche il fenomeno della scomparsa delle imprese più deboli: nel 2007 per esempio, sia in Lombardia sia in Veneto, ci sono state più chiusure che aperture di aziende. E però senza danni sociali collaterali dato che l'occupazione è comunque cresciuta. Insomma, oggi quota 1,60 sul dollaro sarà una sfida dura, ma finora l'euro forte ha fatto molto più bene che male all'economia italiana.

(02 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Dove taglierà Tremonti
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 04:45:57 pm
Dove taglierà Tremonti

Massimo Riva


La sfida per il nuovo ministro dell'Economia sarà reperire i fondi per le misure promesse in campagna elettorale: abrogazione dell'Ici sulla prima casa e detassazione degli straordinari. Ma la crisi economica non aiuterà il governo  Giulio TremontiQuando esordisce affermando che non c'è alcun tesoretto nei conti pubblici, il neoministro Giulio Tremonti non fa altro che ripetere ciò che da mesi andava già dicendo il suo predecessore, Tommaso Padoa-Schioppa. Il quale, inascoltato dai più, ha cercato invano di far ragionare tutti coloro che assediavano le casse pubbliche sulla svolta negativa in atto nella congiuntura economica internazionale. In particolare, richiamando la banale equazione per cui una minore crescita del Pil 2008 (almeno cinque volte più debole rispetto al 2007) comporterà inevitabilmente una contrazione anche del gettito fiscale.

Vero è che le cifre sulle entrate tributarie del primo trimestre di quest'anno segnalano ancora un incremento significativo (6,8 miliardi) in confronto all'analogo periodo del 2007. Ma già il fatto che in marzo l'aumento degli incassi risulti dimezzato indica che la frenata è in corso e, con ogni probabilità, diventerà ancora più evidente nella seconda parte dell'anno, quando con i versamenti di giugno si sarà esaurito anche l'effetto dei pagamenti definitivi sui redditi maturati nel 2007. Sul fronte dell'Iva, l'imposta che meglio di altre misura la tonicità dell'andamento economico, le avvisaglie di flessione sono già visibili.

Quindi il fatto che Tremonti si allinei in materia a Padoa-Schioppa è di per sé rassicurante. Solo che così egli chiude forse un problema, ma ne apre di sicuro un altro. Nel primo caso, infatti, la negazione dell'esistenza di tesoretto cui attingere fa ritenere che egli non vorrà dare facile corso alle richieste dei tanti postulanti, siano essi i sindacati, le regioni, i comuni o anche i suoi colleghi di governo. Molto bene, soprattutto se ci riuscirà. Nel secondo caso, però, resta apertissima un'altra sostanziosa questione. Il governo Berlusconi intende assumere come sue prime decisioni - e lo stesso Tremonti lo ha confermato - l'abrogazione totale dell'Ici sulla prima casa e una detassazione almeno parziale dei redditi da lavoro straordinario e da premi di produzione.
Misure che implicano una riduzione del gettito non indifferente: in 2,5 miliardi è stimato solo il minor incasso sull'Ici, mentre per gli straordinari si ipotizza una cifra sul miliardo e mezzo.

Ecco il problema che si spalanca: come e dove, in assenza di tesoretti, l'ottimo Tremonti troverà i soldi per la copertura di questo minor gettito, per giunta in una fase di bassa crescita dell'economia? Certo non basterà spremere banche e petrolieri: buona regola vorrebbe che il necessario venisse ricavato da congrui tagli di spesa pubblica. Tagli, che per essere efficaci, dovrebbero risultare quanto meno contestuali alla riduzione delle imposte. In modo da evitare che a fine anno il disavanzo, già oggi previsto attorno al 2,3-2,4 per cento, torni ad avvicinarsi pericolosamente a quella soglia del 3 per cento oltre la quale scatta la procedura d'infrazione da parte dell'Unione europea, già comminata al precedente governo Berlusconi e poi rientrata dopo la cura Padoa-Schioppa. Visto che proprio a quest'ultimo ha voluto allinearsi, ora c'è solo da sperare che Tremonti voglia farlo fino in fondo.

(16 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Straordinaria ingiustizia
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 04:46:45 pm
Straordinaria ingiustizia

Massimo Riva


La detassazione del lavoro straordinario rischia di causare ingiustizie fra i lavoratori e favorire alcune imprese a danno di altre che forse avrebbero più bisogno di aiuto  Il ministro dell'Economia Giulio TremontiGià fitta e intricata la giungla del fisco italiano è destinata a diventare ancora più fertile (e iniqua) con il potente concime distribuito dal governo Berlusconi attraverso la detassazione del lavoro straordinario. Tale provvedimento, infatti, è una classica arma a doppio taglio che, per offrire qualche vantaggio a una limitata platea di soggetti, finirà per accentuare pesantemente le discriminazioni fra cittadini sul piano economico e soprattutto tributario.

Un primo dato negativo è che la riduzione del prelievo fiscale sugli straordinari si tradurrà inevitabilmente in un privilegio circoscritto a quelle imprese (e relativi lavoratori) che, vuoi per ragioni di stagionalità produttiva vuoi perché operanti in settori in espansione, si trovano a ricorrere con maggiore frequenza o intensità a prestazioni oltre il normale orario. Per tutti gli altri - la gran massa delle imprese e, in particolare, quelle in congiuntura più critica - l'efficacia del provvedimento sarà pari a zero. In termini sociali ciò significa che, nel mondo del lavoro, starà un po' meglio chi già ha un posto più sicuro, mentre nulla - nella migliore delle ipotesi - riceveranno operai e impiegati delle aziende che forse avrebbero più bisogno di essere aiutate. Dunque, pecca di forte strabismo chi presenta questa novità come una misura atta a curare la ferita del basso salario dei lavoratori italiani con conseguente e sperato rilancio dei consumi.

Ma è segnatamente sul terreno tributario che questa forma di detassazione rivela i suoi aspetti più deleteri e distorcenti. Con la differenziazione nelle buste paga del prelievo su reddito da lavoro ordinario piuttosto che da straordinario si otterrà l'incredibile risultato che, a parità di imponibile, alcuni lavoratori - magari della stessa azienda - pagheranno meno imposte
di altri. Così mandando a farsi benedire una volta di più i fondamentali principi sanciti dall'art. 53 della Costituzione sia nel primo comma ("Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità") sia nel secondo ("Il sistema tributario è informato a criteri di progressività").

Certo, in Italia, ce n'è tanta di strada da fare per disboscare la giungla delle troppe diseguaglianze fiscali sui redditi. Senza evocare la piaga indecente e insoluta dell'evasione, basti ricordare, per esempio, che l'aliquota minima di prelievo dell'Irpef è al 20 per cento, mentre nel caso delle rendite finanziarie si è ancora fermi al minimo europeo del 12,50. È un fatto, però, che la differenziazione risulta particolarmente odiosa nel caso degli straordinari, perché essa opera sulla medesima fonte di reddito: il lavoro.

Purtroppo, si sa che questa detassazione è stata uno dei principali cavalli della battaglia elettorale di Silvio Berlusconi e non ci si poteva di sicuro aspettare che egli si tirasse indietro dopo il grande successo nelle urne. Resta solo da sperare che, magari con la prossima Finanziaria, la questione fisco-salari venga più saggiamente riportata sulla strada maestra della riduzione delle aliquote Irpef. Nel rispetto dei principi della Costituzione e degli interessi di tutti i lavoratori e contribuenti.

(23 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il bivio di Mandrake
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 04:34:06 pm
Massimo Riva.


Il bivio di Mandrake

In continuità con Padoa-Schioppa, Tremonti vuole il pareggio di bilancio entro il 2011. Ma le promesse fatte in campagna elettorale sembrano andare in un'altra direzione 

Pareggio di bilancio entro il 2011 con una manovra complessiva nel triennio di trenta miliardi. Questo era l'impegno che Tommaso Padoa-Schioppa aveva assunto in sede europea. Questo stesso è l'impegno che il suo successore, Giulio Tremonti, ha voluto confermare nei confronti di Bruxelles.
Un gesto davvero apprezzabile da parte del neo-ministro dell'Economia perché si offre come un segnale di stabilità e di continuità della politica economica che fa del bene all'immagine internazionale dell'Italia, paese che finora i partner europei potevano guardare con sospetto e fastidio a causa dell'andamento rapsodico e sussultorio delle sue scelte di finanza pubblica ad ogni cambio di maggioranza.

Il problema, però, è capire se quello di Tremonti non rischi di diventare, cammin facendo, soltanto un 'beau geste'. Che in tre anni si possano risparmiare una trentina di miliardi non è un'operazione facile, ma neppure impossibile se la congiuntura mondiale non farà altri brutti scherzi. Del resto, è un altro buon annuncio quello fatto dallo stesso ministro dell'Economia di voler anticipare a luglio una minimanovra - si spera fatta soltanto di tagli dal lato della spesa - per evitare che i conti di quest'anno, insidiati dalla bassa congiuntura, possano uscire dai binari utili al mantenimento degli impegni presi con l'Europa. Fin qui tutto bene.

Il fatto è, però, che accanto agli obiettivi dichiarati in sede comunitaria, sul tappeto ci sono anche le promesse impegnative lanciate durante la campagna elettorale vittoriosa da Silvio Berlusconi e dallo stesso Tremonti: segnatamente quella di ridurre al più presto di almeno tre punti, dal 43 al 40 per cento del Pil, la pressione fiscale. Impegno che il presidente del Consiglio ribadisce in ogni occasione. Questi tre punti in rapporto al Pil valgono una cifra molto prossima alla cinquantina di miliardi.

Poniamo pure che il governo di centro-destra si proponga di mantenere la parola data in materia agli elettori nell'arco dell'intera legislatura, procedendo quindi a tappe. In ogni caso, a meno che non si voglia far saltare il pareggio di bilancio il giorno dopo averlo raggiunto, una buona parte di questi 50 miliardi dovrebbe essere tagliata nel triennio 2008-2011. Facciamo almeno una trentina di miliardi che, sommati agli altri 30 di impegno al contenimento sottoscritto in Europa, portano a un totale in tre anni di 60: davvero tanti, anche per un Mandrake della finanza.

Questo, comunque, è quanto Tremonti dovrebbe riuscire a risparmiare sul bilancio per tenere assieme il fronte esterno e quello interno degli impegni presi con l'Europa e con gli italiani. Tenendo altresì presente che eventuali altre manovre sul patrimonio dello Stato (privatizzazioni o cessioni di immobili pubblici) non potranno servire ad altro che a ridurre il peso del debito: così vuole la legge, ma anche la più corretta logica economica.

In questo scenario appare quanto mai probabile che il sedicente continuatore dell'opera di Padoa-Schioppa si troverà presto a un bivio molto imbarazzante fra il disattendere gli obiettivi proclamati a Bruxelles o lo smentire la parola data agli elettori.

(06 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il paradosso Tremonti
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 05:01:20 pm
Massimo Riva

Il paradosso Tremonti


La demagogia della Robin Hood Tax è chiara già dal suo nome. E ammesso che favorisca pescatori e agricoltori, farà pagare ancora di più la benzina a tutti gli altri consumatori  Il ministro dell'Economia Giulio TremontiL'unico aspetto apprezzabile nell'idea di un'imposta straordinaria sugli utili delle imprese petrolifere è che il suo stesso autore, il ministro Giulio Tremonti, la voglia chiamare Robin Hood Tax. Così almeno il fine bassamente demagogico della trovata risalta in tutta la sua ingannevole evidenza. Ciò che lascia più sconcertati di questa vicenda, tuttavia, è il sentimento di fiduciosa attesa che si vorrebbe alimentare nell'opinione pubblica con l'annuncio di una punizione fiscale per i petrolieri.

Che questi ultimi stiano da tempo rimpinguando i loro portafogli sull'onda dei continui aumenti del prezzo del barile è un fatto. Come è un altro fatto incontestabile che l'escalation dei rincari dei carburanti, oltre che dell'energia elettrica, stia mettendo in gravi difficoltà soprattutto i settori economici più esposti: trasporti innanzi tutto, ma anche pesca e agricoltura. Quel che non si capisce è a che cosa possa servire in questo scenario, che ha radici speculative in una bolla di dimensioni planetarie, il ricorso a un'imposizione nazionale straordinaria sui profitti da petrolio.

Secondo lo schema Robin Hood, il proposito dovrebbe essere quello di scremare un po' di grasso dai pingui bilanci dei petrolieri per trasferirlo a sollievo di coloro che sono i più colpiti dal caro-greggio. A parte le difficoltà tecniche di realizzare una simile manovra, chi l'ha concepita forse non ha ben presente quel capitolo delle nozioni elementari di scienza delle finanze che si intitola: traslazione delle imposte. Nel quale si illustra un meccanismo tipico delle economie di mercato in forza del quale ogni nuova o maggiore imposta tende ad essere trasferita, in tutto o in parte e talora perfino in eccesso, sul prezzo finale del bene in questione.

In altre parole, magari Tremonti troverà pure il modo di spostare un po' di soldi dalle casse dei petrolieri alle tasche dei camionisti o dei pescatori, ma
il risultato finale è che il prezzo di benzina e gasolio rischia seriamente di diventare ancora più elevato per tutti gli altri consumatori. A meno che, s'intende, il provvedimento sull'imposta straordinaria non sia accompagnato in parallelo da misure di intervento d'autorità sui prezzi, insomma da una militarizzazione economica del mercato dei carburanti. Esito francamente pessimo, comunque paradossale per chi non si stanca di celebrare le virtù del libero mercato.

Un altro punto critico riguarda l'impatto di una simile sovrimposta sull'assetto del sistema tributario. Già con la detassazione dei redditi da lavoro straordinario il governo Berlusconi ha dato un fiero colpo al principio generale secondo cui tutti i contribuenti, in proporzione alla loro capacità reddituale, devono essere uguali di fronte all'Erario. Questa ulteriore segmentazione dell'imponibile, seppure sul versante delle aziende, introdurrebbe nuovi elementi di disparità, per giunta creando un pericoloso precedente tale da aprire la strada a un utilizzo occasionale o, peggio ancora, arbitrario dell'arma fiscale da parte di chi governa. Non sarebbe gradevole scoprire che, dietro i panni del sedicente Robin Hood, si nasconde in realtà lo sceriffo di Nottingham.

(13 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Petrolio a orologeria
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2008, 11:50:08 am
Massimo Riva


Petrolio a orologeria


La politica dei bassi tassi d'interesse perseguita dalla Federal Reserve ha dato man forte a quanti si sono messi a speculare sul barile  La borsa di Wall StreetFinalmente l'attenzione internazionale comincia a concentrarsi sulla bolla finanziaria che si sta sempre più gonfiando sul mercato del petrolio: il tema ha tenuto banco al vertice dei ministri economici del G8 in Giappone. Non se n'è cavato nulla di utile, ma almeno i termini della questione ora sono sul tappeto. Il nodo attorno al quale si discute è il clamoroso scollamento quantitativo tra petrolio reale e greggio virtuale. Il rapporto numerico fra le due grandezze è impressionante: ogni giorno la produzione media è di circa 85 milioni di barili, mentre sul mercato dei contratti a termine se ne movimentano per oltre un miliardo.

Le principali piazze sulle quali avvengono questi scambi di carta petrolifera sono Londra e, soprattutto, New York: collocazioni geografiche che rischiano di avere un peso non trascurabile sull'evoluzione della vicenda. Infatti, al richiamato summit giapponese del G8, sono stati proprio i rappresentanti del Regno Unito e degli Usa a contrastare le pressioni dei colleghi degli altri paesi affinché si concordassero misure atte a frenare almeno le eccessive facilitazioni con le quali si può speculare sui prezzi del greggio virtuale. Per esempio, imponendo maggiori margini di garanzia (il contante che va versato da chi firma un contratto a tempo, oggi a livelli irrisori) in modo da tener fuori dal gioco gli speculatori più avventurosi.

Attenzione, è stata la tesi opposta dalla coppia anglo-americana, interventi del genere rischiano di avere una controindicazione seria: la destabilizzazione del mercato. Un discorso non tanto dissimile da quelli che si facevano qualche anno fa negli Stati Uniti contro chi metteva in guardia sui pericoli della bolla speculativa che la politica del credito facile stava facendo ingigantire sul mercato dei mutui immobiliari. Dunque, un discorso che oggi suona ancor più miope e allarmante: soprattutto perché avvalora
la pessima sensazione che i governi di Londra e di Washington siano di fatto ostaggio dei mercati, perfino nei loro aspetti più deteriori, e non vogliano guardare oltre la realtà quotidiana anche per non dover ammettere gli errori delle proprie politiche economiche.

Il principale dei quali consiste nella strategia del denaro facile seguita dalla Federal Reserve prima e dopo la crisi dei mutui subprime. La miscela delle forti iniezioni di liquidità e dei bassi tassi d'interesse avrà magari salvato qualche banca dal collasso, ma in misura importante ha anche fornito munizioni ai tanti che si sono gettati a corpo morto nelle speculazioni sui mercati delle materie prime, petrolio in testa a tutte. Proseguire su questa strada sarebbe una follia, anche perché la bolla petrolifera può provocare sconquassi ben più devastanti di quella dei mutui immobiliari. Anzi, ne ha già provocati facendo emergere un po' dappertutto scenari di bassa crescita e alta inflazione. È davvero sconsolante che in proposito il G8 se la sia cavata con la banale richiesta al Fmi di fare uno studio per capire quanto vi sia di ordinario e quanto di patologico nelle speculazioni sui barili di carta. Un espediente che non promette nulla di buono.


(26 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Trappola per la Cisl
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2008, 05:42:29 pm
Massimo Riva

Trappola per la Cisl


Raffaele Bonanni era stato il più prodigo di aperture verso la politica di Tremonti. Ora il ministro, che nel frattempo da Robin Hood si è trasformato in sceriffo di Nottingham, ripaga il segretario Cisl con una moneta molto svalutata  Raffaele Bonanni, segretario della CislLa favola breve è finita. Dismessi i panni di Robin Hood, come s'era scritto di temere due settimane fa in questa pagina, il ministro Tremonti ha già indossato quelli dello sceriffo di Nottingham. Dopo il fumo negli occhi (dei 33 euro mensili per un ristretto numero di pensionati e delle tasse sui profitti di banche e petrolieri) ecco l'arrosto. Il tasso dell'inflazione programmata, cui dovrebbero fare riferimento i rinnovi dei contratti di lavoro, è stato fissato dal sedicente arciere di Sherwood all'1,7 per cento: meno della metà dell'attuale crescita dei prezzi, che viaggia sul 3,6 per cento in media globale, ma addirittura fra il 5 e il 6 per cento quanto ai beni tipici della spesa quotidiana.

Va bene che quello dell'inflazione programmata è un obiettivo e, dunque, deve indicare un valore inferiore al tasso corrente, ma uno scarto così forte fra la realtà vissuta da gran parte degli italiani e quella immaginata dal governo Berlusconi si segnala come una scelta politica inequivocabile. Soprattutto in un paese nel quale sembrava che la questione salariale dovesse stare al centro del dibattito sul rilancio dell'economia e dei consumi.

Il messaggio è il seguente: i lavoratori dipendenti, operai o impiegati che siano, devono rinunciare a un recupero anche parziale del potere d'acquisto perduto, anzi devono pure rassegnarsi a perderne un'altra fetta non piccola nei mesi a venire. Basti dire che perfino la Banca centrale europea - dietro la quale vorrebbe nascondersi il pavido sceriffo Tremonti - dice che soltanto a fine 2009 il tasso d'inflazione di Eurolandia potrà forse tornare sul 2 per cento. Sempre che si sgonfino presto le bolle dei prezzi internazionali di petrolio e beni alimentari: ipotesi che al momento non raccolgono grandi scommesse.

I sindacati, com'è logico, non l'hanno presa bene
. Il duro no da parte della Cgil era magari scontato, ma è dentro la Cisl che la mossa di Tremonti rischia di creare reazioni più pericolose per il governo. Il suo leader, Raffaele Bonanni, infatti, è stato nei giorni precedenti il più prodigo di aperture verso le scelte annunciate dal ministro dell'Economia e ora si trova ripagato con una moneta, è il caso di dirlo, abbondantemente svalutata. Sembra così ripetersi la beffa già subita da questa confederazione da parte del precedente governo Berlusconi, quando la Cisl si lasciò attrarre a rompere l'unità del fronte sindacale con la sottoscrizione del cosiddetto 'Patto per l'Italia', che presto si rivelò essere una mediocre trappola per gonzi.

La partita governo-sindacati si annuncia così di particolare interesse. Il 'battage' che ha accompagnato le misure di Tremonti, infatti, ha creato nell'opinione pubblica il classico clima corrivo da rincorsa al carro del vincitore. E si sa che, in questi casi, lo scivolamento progressivo verso l'omologazione e il conformismo tipici del pensiero unico irreggimentato dipende solo in piccola parte dall'abilità demagogica di chi governa e, invece, molto di più dalla faciloneria e dalla credulità dei tanti che non sanno resistere alle seduzioni dei gabbamondo. Almeno i sindacati sapranno far suonare la sveglia per i lavoratori e per il paese intero?

(27 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il muro della Marcegaglia
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:41:53 am
Massimo Riva

Il muro della Marcegaglia


La Marcegaglia mette in guardia dalla rincorsa fra prezzi e salari ma il pericolo, al momento, appare più teorico che reale  Emma Marcegaglia, numero uno di ConfindustriaCon toni allarmati Emma Marcegaglia mette in guardia dai pericoli legati a una rincorsa fra prezzi e salari. Come darle torto? Ai rischi di una simile spirale sono dedicati interi scaffali nelle biblioteche di economia politica. Mentre la storia del Novecento è ricca di lezioni al riguardo: dalla tragedia di Weimar ai non meno drammatici casi di alcune repubbliche sudamericane. Per non dire dei minori ma più recenti guai patiti dall'Italia negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Dunque, niente rincorsa fra prezzi e salari.

Solo che, messa così, quella che sembra una soluzione si rivela, in realtà, essere il problema. Da un paio d'anni, infatti, i prezzi corrono e corrono da soli. Senza che i salari tengano neppure lontanamente il passo e senza che la domanda per consumi abbia segnato particolari impennate. Anzi, semmai è accaduto l'opposto: dal piccolo bottegaio al grande supermercato, tutti i commercianti lamentano un calo importante delle loro vendite. In parallelo, del resto, sta aumentando vistosamente il numero delle famiglie alle prese con la penuria di contante nell'ultima settimana del mese. E rischia di crescere ancora di più alla luce degli ultimi dati sull'inflazione che, a giugno, si è minacciosamente avvicinata al 4 per cento ovvero a quota 6 se misurata sul paniere della spesa quotidiana.

Al momento, dunque, il pericolo paventato dalla presidente di Confindustria appare più teorico che reale. Il fatto è che l'inflazione corre principalmente a causa di spinte esterne: i forti e continui rincari del petrolio, del gas e dei beni alimentari sui mercati internazionali. Dai quali i produttori interni hanno potuto difendersi scaricando l'esosità importata sui prezzi nazionali, mentre i consumatori finora se la sono presa, come s'usa dire, in saccoccia. Esercizio che, nel caso dei salariati o dei pensionati ai minori livelli, si sta rivelando ai limiti della sopravvivenza.


In questa situazione il no alla rincorsa prezzi-salari rischia di assumere un significato diverso da quello del richiamo a un elementare principio di saggezza economica. Se Marcegaglia, alzando questo muro, intende mettere le mani avanti contro il ritorno a meccanismi di indicizzazione automatica delle retribuzioni, se ne può capire il gioco negoziale. Ma se la sua Confindustria intende dire che chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, allora siamo di fronte a una vera e propria offensiva di discriminazione classista. In linea, per giunta, con quella operata dal governo Berlusconi, che ha avuto la spudoratezza di indicare un'inflazione di riferimento all'1,7 per cento proprio mentre i prezzi salgono a un tasso del 3,8.

Di sicuro giocano a favore di questa arroganza di Confindustria e governo le gravi incertezze della congiuntura attuale, che allungano sul mondo del lavoro l'ombra intimidatoria della perdita dei posti di lavoro. Ma chi crede che la pressante questione salariale possa essere esorcizzata con banali richiami ai manuali della triste scienza lavora, magari senza pensarci, per mettere a repentaglio uno dei pochi dati positivi del presente: la pace sociale. Quosque tandem Marcegaglia.

(04 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Una tegola per Passera
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 10:35:14 pm
Massimo Riva

Una tegola per Passera


Il piano di Intesa Sanpaolo per Alitalia rispetterà le norme europee. Un'assicurazione superflua, perché altrimenti l'Italia finirebbe nel tritacarne delle procedure d'infrazione da parte di Bruxelles.

Ha detto Corrado Passera che il piano di Intesa Sanpaolo per Alitalia rispetterà le regole dell'Unione europea. È un'assicurazione superflua. Se il salvataggio della compagnia dovesse essere concepito in contrasto con le norme del mercato unico, l'Italia finirebbe nel tritacarne delle procedure d'infrazione da parte di Bruxelles: col duplice rischio di dover fare un'ignominiosa marcia indietro e di pagare anche qualche salatissima multa. Del resto, in materia, è già aperta una temibile inchiesta europea sui 300 milioni di ossigeno finanziario temerariamente concessi all'azienda per scongiurarne il collasso. Versare altra benzina su questo fuoco sarebbe un atto di autolesionismo economico e politico.

Altro è il tipo di rassicurazioni che non sarebbe, viceversa, superfluo reclamare sui prossimi esiti della penosa vicenda. Una più di tutte: quella che il già fin troppo abusato contribuente italiano non finisca di nuovo vittima di ulteriori salassi, stavolta magari per vie oblique o indirette, in una vertigine di accanimento terapeutico ormai lontano da ogni logica economica. Rendono urgente un chiarimento in proposito le indiscrezioni sempre più insistenti sul progetto in corso di definizione da parte della banca di Passera.

A quanto si sa, infatti, l'atteso piano di salvataggio sarebbe di una semplicità elementare. Quel poco di attivo che ancora si trova nel bilancio Alitalia verrebbe concentrato in una nuova società che, liberata da vincoli e oneri del passato, tornerebbe a volare sebbene su rotte minori. Il preponderante passivo verrebbe, invece, addossato a una cosiddetta 'cattiva compagnia' (nomen omen) che dovrebbe destreggiarsi con procedure parafallimentari a fronteggiare debiti insoluti ed esuberi di manodopera. La compagnia buona uscirebbe dalla mano pubblica con l'ingresso di azionisti privati e, in particolare, del socio concorrente Air One. Mentre la cattiva resterebbe, con tutti i suoi oneri micidiali, a carico di società dello Stato, ovvero sempre delle tasche dei cittadini.


Certo, quella caduta sulla testa di Passera è una brutta tegola. Lo è soprattutto politicamente perché nella partita, oltre al destino di Alitalia, è ormai in gioco la credibilità di Silvio Berlusconi che, avendo affossato l'alternativa Air France, deve comunque far uscire un coniglio dal suo cilindro, se non vuol perdere la faccia davanti al mondo intero. In questa stretta, forse, gli esperti di Intesa-Sanpaolo non sono in grado di escogitare ipotesi migliori di quella di cui si parla. Né li si potrebbe incolpare di avanzare ora soluzioni ben peggiori di quelle a suo tempo proposte dai francesi: mica sono loro che hanno fatto saltare il banco con Parigi.

Il punto cruciale è che quel che è consentito a Passera non lo è altrettanto per l'inquilino di Palazzo Chigi. Una nuova Alitalia unita ad Air One creerebbe un monopolio totale sulla rotta nazionale più importante (Milano-Roma) a danno del consumatore. Mentre la compagnia delle perdite accollata allo Stato sarebbe una rapina dei contribuenti. Per Berlusconi aggrapparsi a un simile esito sarebbe soltanto un modo diverso di perdere comunque la faccia.

(11 luglio 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. La beffa di Scaroni
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:22:04 am
Massimo Riva


La beffa di Scaroni


Nella visione del centrodestra, la privatizzazione dell'Eni è stata una beffa per il mercato e che il peggio delle partecipazioni statali è tutto men che sepolto  Paolo Scaroni, amministratore delegato di EniSe Sergio Marchionne avesse annunciato l'intenzione di spostare 200 milioni dalle casse della Fiat a quelle della famiglia Agnelli, ancorché vincolandone l'impiego in opere di beneficienza, si può star certi che sarebbe successo un finimondo. Dal 'parterre' di Piazza degli Affari su su fino alla Consob si sarebbero levate alte grida di denuncia e di riprovazione. Il suo omologo all'Eni, Paolo Scaroni, ha dichiarato la medesima volontà a favore del suo maggiore azionista, lo Stato, e non è successo praticamente nulla: qualche sparuto rilievo critico su parte della stampa, senza che le autorità di vigilanza alzassero almeno un sopracciglio.

Va bene che si vive in un paese nel quale il tema del conflitto d'interessi è stato rimosso dall'agenda politica e finanziaria per non disturbare il manovratore di Palazzo Chigi. Ma la specifica insensibilità generale di fronte a simile iniziativa dell'amministratore delegato dell'Eni è un ulteriore campanello d'allarme. Con tale mossa, infatti, il cerchio di potere attorno al governo Berlusconi fa capire che, nella visione del centrodestra, la privatizzazione dell'Eni è stata una beffa per il mercato e che il peggio delle partecipazioni statali è tutto men che sepolto. Tanto che lo Stato (o, meglio, chi oggi lo occupa) e i suoi novelli boiardi possono infischiarsene di gestire un'azienda che è quotata in Borsa con ampio ricorso a capitali privati italiani ed esteri: sopra tutto e tutti, fuori di ogni elementare regola mercantile, conta l'arbitrio dell'azionista pubblico e dei suoi scherani.

Tanta arroganza è pessima avvisaglia di una pericolosa marcia indietro nel processo, appena avviato, di liberazione delle aziende già di Stato dalla manomorta del potere politico. Un segnale sconfortante che si aggiunge ad altri non meno significativi. Uno per tutti: Alessandro Ortis, presidente dell'Authority per l'energia, è tornato a denunciare il ruolo preponderante che l'Eni detiene nella rete distributiva del gas, sollecitandone lo scorporo dal gruppo per avviare un minimo di reale concorrenza su quel mercato. Ebbene, con l'aria di chi può permettersi di ostentare assoluta noncuranza per la voce dell'Autorità di settore, il 'vigilato' Scaroni ha replicato definendosi annoiato dalla riproposizione della questione.


Guarda caso: subito dopo questo istruttivo scambio di vedute, la maggioranza di governo, con inedita e irrituale iniziativa, ha minacciato di azzerare l'attuale vertice dell'Autorità per l'energia ben prima della sua naturale scadenza. Un avvertimento a Ortis affinché ammorbidisca i suoi fervori antimonopolistici verso l'Eni? O addirittura la premessa di un suo siluramento per rendere un favore all'annoiato Scaroni? Non ci vorrà molto tempo per capirne di più.

Certo è che la concomitanza di questo scontro con la trista vicenda dei 200 milioni elargiti dall'Eni all'azionista Tesoro getta una luce obliqua sul tutto. Anche se non esistono elementi sicuri per collegare in una sorta di patto di scambio l'attacco all'Authority con i soldi promessi a Tremonti, il solo fatto che un simile dubbio possa restare appeso nell'aria denuncia il ritorno a un clima da Repubblica bananiera.

(18 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il paradosso Telecom
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:28:56 am
Massimo Riva

Il paradosso Telecom


Dopo tre anni arrivano le prime conclusioni sulle investigazioni illegali realizzate dall'interno dell'allora gruppo Pirelli-Telecom. I magistrati hanno escluso ogni addebito nei confronti dei vertici del gruppo  Marco Tronchetti ProveraL'inchiesta giudiziaria sulle investigazioni illegali realizzate dall'interno dell'allora gruppo Pirelli-Telecom è giunta, dopo ben tre anni, alle sue prime conclusioni: alcune delle quali appaiono davvero paradossali. Le due aziende risultano ora indagate in base alla legge sulla responsabilità amministrativa delle imprese per non aver vigilato sui metodi usati dai propri servizi di sicurezza nel raccogliere informazioni su una quantità di imprese e di persone: qualche migliaio di parti lese. E però, anche se i reati fossero stati commessi nell'interesse delle due società, sia Pirelli sia Telecom potrebbero costituirsi in giudizio contro i dirigenti della Security (Giuliano Tavaroli e soci) per recuperare quanto speso da costoro nell'attività di dossieraggio: una quarantina di milioni di euro, che i magistrati qualificano come frutto del reato di appropriazione indebita.

Già questa doppia parte in commedia lascia perplessi sulla solidità del filo logico che tiene insieme le conclusioni degli inquirenti. Fatto sta che questa sovrapposizione di ruoli ha portato gli stessi magistrati a escludere ogni addebito nei confronti dei vertici del gruppo: il presidente, Marco Tronchetti Provera, e il suo braccio destro, Carlo Buora. Un'ottima notizia sul piano soggettivo, ma anche molto meno buona su quello societario.

Dalla scelta degli inquirenti, infatti, si deve dedurre la mancanza di prove certe che ai vertici massimi del gruppo Pirelli-Telecom si conoscessero o comunque si avallassero le investigazioni illecite contestate agli uomini della struttura interna guidata da Tavaroli. Si vedrà al processo se quest'ultimo potrà smontare simile teorema con le brucianti rivelazioni che ora promette. Già allo stato degli atti, tuttavia, le conclusioni dei magistrati portano a un'ulteriore considerazione: l'organizzazione aziendale era strutturata in termini tali per cui alcuni dipendenti potevano permettersi di spendere denaro della società fino alla rilevante cifra di una quarantina di milioni senza che ai piani superiori qualcuno si accorgesse di quel che stava accadendo. Ne è conferma, del resto, il fatto che sia Pirelli sia Telecom sono chiamate a rispondere di quella che può benevolmente chiamarsi incuria amministrativa.


In questo quadro si può anche capire che Tronchetti Provera e Buora festeggino lo scampato pericolo da imputazioni penali. Ma non è che sia particolarmente brillante essersela cavata per una sorta di riconosciuta seminfermità manageriale. Il giubilo dei due amministratori dell'allora gruppo Pirelli-Telecom non può, infatti, cancellare la contropartita del prezzo assai elevato che essi si trovano a pagare in termini di credibilità gestionale. Che un funzionario infedele scappi un venerdì sera in Sud America con la cassa rientra fra gli incidenti che possono capitare anche al migliore dei vigilanti. Ma che una struttura aziendale spenda così tanti milioni nel corso di anni senza che al vertice suoni l'allarme è segno di una fragilità organizzativa sorprendente. Forse gli altri azionisti di Pirelli e Telecom potrebbero avere buoni motivi per chiedere la restituzione del maltolto non solo a Tavaroli&C.

(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. A cosa punta Geronzi
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 09:10:49 am
Massimo Riva.


A cosa punta Geronzi


La battaglia per il riassetto dei poteri di comando ai vertici di Mediobanca rientra nel patologico scadimento dei comportamenti pubblici.

In un paese nel quale il presidente del Consiglio usa il Parlamento come una sartoria legislativa personale, nella quale farsi cucire addosso abiti normativi su misura dei propri bisogni, non c'è troppo da stupirsi se un così clamoroso cattivo esempio fa scuola anche fuori dal ristretto mondo della politica. Il pesce, dice un antico proverbio, comincia sempre a puzzare dalla testa. Quando dall'alto si manda il pessimo segnale secondo cui alle regole del gioco si può tranquillamente sostituire il gioco delle regole, il processo di degenerazione scende per i rami dell'albero istituzionale e si diffonde all'intero sistema.

Sembra proprio rientrare in questo patologico scadimento dei comportamenti pubblici la battaglia che si è aperta in Mediobanca per il riassetto dei poteri di comando ai vertici del grande istituto di credito. Appena un anno fa gli azionisti maggiori della banca illustrarono alla platea dei soci e all'intero mercato le meravigliose opportunità offerte dalla scelta organizzativa del cosiddetto sistema duale, basato su una netta distinzione di ruoli fra chi gestisce l'azienda e chi ne controlla l'operato. Ma ora - contrordine signori azionisti - il presidente del consiglio di sorveglianza (Cesare Geronzi) e alcuni importanti soci vorrebbero compiere una spudorata marcia indietro per tornare al precedente modello del consiglio d'amministrazione unico, affiancato dal collegio sindacale.

Purtroppo le ragioni di un simile voltafaccia, dopo tanto breve collaudo della nuova esperienza organizzativa, non sono poi così ardue da decifrare. Il fatto è che nei mesi scorsi la Banca d'Italia, quale autorità di vigilanza sul sistema creditizio, ha dettato regole stringenti in materia di duale per rendere davvero netta la distinzione dei poteri fra chi gestisce e chi sorveglia. Alcuni di questi vincoli hanno tarpato le ali alle non celate mire di Geronzi: da un lato, impedendogli di partecipare alle riunioni del consiglio di gestione e, dall'altro lato, bloccando le sue ambizioni di salire ai vertici del colosso Generali oltre che di esercitare un ruolo più attivo nel gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Ostacoli che verrebbero a cadere d'un colpo con il ritorno della governance di Mediobanca al modello tradizionale.

Insomma, la battaglia in corso non nasce da un confronto fra differenti scuole di pensiero su quale sia il modello organizzativo più conveniente per il grande istituto di credito, ma da uno scontro di potere innescato da tornaconti in parte personali e in altra parte di gruppo. Non è pensabile, infatti, che Geronzi stia muovendo le sue pedine soltanto in funzione delle sue bramosie soggettive: l'uomo è troppo navigato per ingaggiare guerra in solitario. Forse non si è lontani dal vero se si pensa che egli stia seguendo il presidente del Consiglio non solo quanto a disinvolto gioco delle regole, ma anche quanto a concordanza di vedute sulla sostanza dell'operazione. È dai tempi del 'niet' oppostogli da Merzagora che l'affarista Berlusconi punta ad avere un ruolo in Generali, almeno per interposta persona. Figuriamoci poi il politico Berlusconi quanto al 'Corriere della Sera'.

(01 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Un regalo agli evasori
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2008, 06:40:19 pm
Massimo Riva


Un regalo agli evasori


Se il gettito Iva nell'ultimo mese è calato del 7% non è solo colpa della congiuntura economica sfavorevole. Tremonti, cancellando le restrizioni normative di Visco, ha alimentato il ritorno all'evasione fiscale  Il ministro delle Finanze Giulio TremontiCon toni allarmati e sorpresi, come se avesse trascorso l'ultimo anno in chissà quale lontana galassia, il presidente del Consiglio annuncia ora che la situazione economica si è fatta pesante e che la coperta dei conti pubblici è corta, anzi cortissima. Il segnale che lo avrebbe risvegliato dal suo prolungato sonno in materia è soprattutto il brusco calo (7 per cento in meno) nel gettito Iva dell'ultimo mese rispetto ai precedenti.

Dato che, oltre a incidere negativamente sulle disponibilità del bilancio statale, è letto da Silvio Berlusconi come sintomo di una preoccupante contrazione dei consumi e degli affari. Una scoperta dell'acqua calda davvero degna di nota.

Che il volume degli incassi per l'Iva sia un indicatore della vitalità del ciclo economico è innegabile, salvo che le sue oscillazioni possono dipendere anche da altri fattori. Lo prova, per esempio, il fatto che la riduzione dei consumi è in atto ormai da più di un anno e, nonostante ciò, nel 2007 e nei primi mesi del 2008 il gettito dell'imposta è stato superiore alle più rosee previsioni. C'è un solo modo per spiegare questa apparente contraddizione: la base imponibile si stava allargando non tanto per incremento delle attività, quanto per riduzione costante dell'evasione fiscale.

Come confermato anche da un altro dato: gli incassi da Iva crescevano a tassi nettamente superiori a quelli di incremento del Pil. Insomma, vuoi per le strette normative operate da Vincenzo Visco, vuoi per l'immagine di maggior rigore impersonata da quest'ultimo, la tentazione di fare i furbi con le fatture Iva era in significativo declino.

Ebbene, una delle prime mosse del governo Berlusconi è stata quella di spazzare via proprio quelle misure che erano state concepite allo specifico fine di prosciugare il terreno più fertile per l'evasione fiscale in materia, che è quello dei pagamenti in contanti. In un sol colpo, infatti, sono stati abrogati i limiti sia al saldo delle parcelle dei professionisti in denaro liquido, sia all'emissione di assegni al portatore.


Fiscalista di lungo corso, il ministro Giulio Tremonti non poteva non sapere che questa sua mossa poteva essere letta in un solo senso dalla vasta platea delle partite Iva: dal più eminente degli avvocati come dall'ultimo degli idraulici. Ovvero nel senso di un ritorno alla tolleranza delle cattive abitudini del passato: invito subito raccolto con entusiasmo, stando ai dati forniti dal medesimo Berlusconi.

Insomma, se la coperta dei conti pubblici è diventata più corta, ciò dipenderà pure dalle difficoltà della congiuntura economica generale, ma in misura rilevante anche da alcuni atti specifici del governo in carica. Che vanno dalla rinnovata benevolenza verso gli evasori fiscali alla distribuzione di benefici tributari che, come l'abolizione totale dell'Ici e la detassazione degli straordinari, hanno favorito chi una casa comunque ce l'ha ovvero le imprese che già meglio reggono sul mercato. E adesso il presidente del Consiglio ha anche la spudoratezza di dirsi allarmato perché gli incassi dell'Iva hanno avuto un crollo e i consumi non marciano? Un po' più di rispetto per l'intelligenza degli italiani non guasterebbe.

(08 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il maldestro Tremonti
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2008, 05:24:20 pm
Massimo Riva


Il maldestro Tremonti


La decisione di anticipare i contenuti della Finanziaria nel decreto di metà anno rischia di essere sfortunata, perché tarata su previsioni di crescita sbagliata  Giulio TremontiGiulio Tremonti non si porta fortuna. Con un ponderoso decreto di metà anno, spacciato mediaticamente per manovra triennale, ha tentato di anticipare buona parte dei contenuti della Finanziaria per il 2009. Ma si è mosso troppo presto, tarando i suoi conti su una previsione di crescita del Pil di mezzo punto percentuale, come era accaduto nel primo trimestre di quest'anno.

Ora, però, l'Istat ha certificato che nel secondo trimestre vi è stata una pesante caduta in negativo nella misura dello 0,3 per cento. In queste condizioni sarà un lusso se l'anno potrà chiudersi con un segno positivo fra lo 0,1 e lo 0,2 per cento. Ciò significa che il castello di carta delle cifre di Tremonti sta franando: i conti dovranno essere rifatti daccapo sia per il bilancio 2008 sia per quello del 2009.

Il primo appuntamento di verifica è fissato per la fine di settembre, quando il ministro, che voleva svuotare la normale sessione di bilancio, si troverà costretto a sfruttarla come un'opportunità per mettere una pezza sugli errori delle sue stime frettolose.

Peggio ancora gli sta andando per quanto riguarda le sue fragorose sortite sulla scena internazionale in tema di lotta contro la speculazione finanziaria sulle materie prime, definita dal medesimo con toni apocalittici come la nuova pestilenza del Terzo millennio.

Ora che sul mercato del petrolio, per esempio, si scambi ogni giorno una quantità di contratti su barili di carta enormemente superiore a quella dei barili effettivamente prodotti è e rimane una realtà: dalla quale affaristi temerari possono trarre lauti profitti forzando le quotazioni anche al di là del punto d'incontro più ragionevole fra domanda e offerta. Ma da qualche settimana, mentre ancora alto è nell'aria il grido tremontiano del 'dagli all'untore', il prezzo del greggio ha invertito la sua marcia, scendendo rapidamente da quota 150 fino a meno di 120 dollari a barile.


L'onda recessiva che sta investendo le maggiori economie - perfino le grandi tigri asiatiche (Cina e India) stanno frenando i loro pur robusti tassi di crescita - ha mutato le aspettative sul mercato dei prodotti energetici. Cosicché, nel caso specifico del petrolio, è probabile che da una fase di continue scommesse al rialzo si stia semmai passando a un'altra di speculazione al ribasso, con punizione severa per chi si era troppo esposto nel ciclo precedente.

In ogni caso, che farsene a questo punto delle invettive tremontiane contro la peste del nuovo secolo? Se queste avevano già incontrato un'udienza cortese ma scettica nei consessi internazionali, ora rischiano di apparire come qualcosa di peggio di un errore di valutazione: ovvero come frutto di una callida mistificazione della realtà al fine di indicare un facile bersaglio sul quale scaricare ogni colpa dei guai economici che impedirebbero al governo di realizzare il tanto promesso Bengodi fiscale.

Il Paese non è nuovo a simili espedienti: in altri tempi, invece che di peste speculativa, si parlava di complotti demoplutocratici internazionali. È sconfortante dover constatare che oggi le maldestre trovate di Giulio Tremonti inducano a ricordare simili sventurati precedenti.

(14 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Banche nella giungla
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:48:54 pm
Massimo Riva


Banche nella giungla


Meglio il modello europeo socialmente responsabile o quello americano del profitto ad ogni costo? In Italia è ancora presto per porsi interrogativi su un'etica del sistema bancario  La Banca Intesa San Paolo a TorinoI banchieri devono o non devono farsi carico della responsabilità sociale che grava sulla loro impresa? Devono o non devono orientare la loro azione al perseguimento anche dell'interesse generale? Insomma, è da preferire il modello europeo della cosiddetta economia sociale di mercato oppure quello americano del profitto innanzi a tutto? Si fa dura fatica a prendere sul serio il dibattito apertosi dopo la pubblicazione su 'Il Sole 24 ore' di un ponderoso intervento in materia da parte di Giovanni Bazoli. Nel quale il presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo fa una netta scelta di campo in favore della nozione di banca come soggetto carico di responsabilità collettive e generali.

La difficoltà ad appassionarsi alla disputa nasce dalla constatazione che essa rischia di alzare una cortina di fumo attorno ad altri nodi istituzionali irrisolti del sistema creditizio. Uno su tutti: quello dei conflitti d'interesse, presenti nel nostro mondo bancario in misura massiccia e abbondantemente sregolata.

Qualche esempio: ci sono i grandi azionisti di banca che sono anche grandi debitori della medesima e in parallelo gli istituti che finanziano le imprese di cui detengono parte del capitale, poi c'è il controllo delle banche sui fondi d'investimento le cui quote vengono pacificamente vendute alla clientela dagli sportelli dello stesso soggetto nel vuoto torricelliano di qualunque filtro credibile fra le banche e le società di gestione del risparmio. Nello specifico, c'è addirittura il caso di un prestigioso istituto, quale Mediobanca, che per storia e struttura si può definire come un monumento vivente al conflitto d'interesse.

A fine luglio c'è stata in materia un'importante riunione del Comitato per il credito, nella quale la già gracile disciplina degli intrecci fra banca e industria è stata ulteriormente indebolita. Era un atto dovuto per adeguarsi alle norme europee: ma in Italia il sicuro effetto sarà di moltiplicare le opportunità di incesto finanziario. Si poteva, quindi, sperare che il quadro delle novità fosse inserito in una cornice di regole stringenti contro la proliferazione delle metastasi del cancro principale.


Ne è uscita, invece, soltanto una bozza di identikit delle cosiddette 'parti correlate', tartufesco eufemismo dietro il quale mascherare la più acconcia nozione di conflitto d'interesse. A fissare paletti più rigorosi provvederà, non si sa quando, la Banca d'Italia. Quella stessa - guarda caso - che lamenta di non avere poteri adeguati per disboscare la foresta degli abusi presenti nell'attività creditizia, sollecitando interventi legislativi a un governo e a un parlamento del tutto sordi in proposito.

In simile scenario più che di dispute dottrinarie si avverte la priorità di risposte concrete a questioni concrete. Per esempio, nella logica del professor Bazoli, sarebbe stato più utile sapere quale interesse generale ritiene di perseguire la sua banca con un piano per il 'salvataggio' di Alitalia concepito secondo il risaputo schema di privatizzazione dei profitti e di socializzazione delle perdite. Modello tornato oggi in gran voga tanto in Europa che in America proprio per le crisi bancarie.


(22 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Fondi a sovranità limitata
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 11:28:06 pm

Massimo Riva


Fondi a sovranità limitata

Dai tempi delle crociate sono cambiati gli atteggiamenti degli interlocutori dell'Occidente. Adesso si presentano sul mercato in forme organizzate, hanno sagacia finanziaria e potere contrattuale  Angela MerkelGli storici delle crociate, o almeno quelli meno conformisti fra loro, ritengono che una concretissima motivazione economica sia stata ben dissimulata dietro le giaculatorie religiose sulla riconquista della cosiddetta Terra Santa finita in mano agli infedeli. Essi partono dalla constatazione che in quei secoli, bui ma di intensi traffici commerciali, le economie dell'Europa avevano subito un pesante impoverimento della loro base monetaria (allora principalmente in argento) con parallela concentrazione di ricchezze nei forzieri dei califfati mediorientali. Se per la bandiera, insomma, il fine era di liberare il sepolcro di Cristo, per la cassa si trattava più prosaicamente di riprendersi il malloppo.

Un processo finanziario non troppo dissimile è quello che Europa e Stati Uniti stanno vivendo ora a seguito del colossale trasferimento di risorse da Occidente a Oriente in forza di due fattori sovrapposti: la brutale escalation dei prezzi petroliferi e il rapido accumulo di riserve in eccesso in paesi a forte crescita economica, la Cina avanti a tutti. Una recente stima dice che non meno di 3 mila miliardi di dollari sarebbe la dote nelle mani dei cosiddetti 'fondi sovrani' ovvero di quei soggetti finanziari che fanno capo al governo di un determinato Stato: da Abu Dhabi a Singapore, dal Kuwait alla Cina, dalla Arabia Saudita alla Russia e così via.

Anche una trentina d'anni fa, al tempo dei due primi shock petroliferi, l'Occidente si trovò ad affrontare un'analoga requisizione di liquidità. Preclusa la via di nuove crociate, si fece ricorso a un intenso riciclaggio dei petrodollari sia con maggiori forniture di prodotti ai paesi esportatori di greggio sia con investimenti diretti di questi ultimi in imprese europee: tipico il caso della Libia con la Fiat. La differenza rispetto a oggi è che gli interlocutori dell'Occidente erano meno avvezzi agli usi e costumi della finanza internazionale
, mentre ora hanno imparato la lezione e si presentano sul mercato in forme organizzate (i fondi sovrani, appunto) che sanno ben combinare sagacia finanziaria e potere contrattuale.

Questa novità sta allarmando non pochi paesi occidentali. Al punto che perfino in Germania il governo di Angela Merkel ha messo in campo un disegno di legge per impedire a soggetti esterni all'Unione europea di acquisire partecipazioni rilevanti in imprese tedesche qualora ricorrano non meglio precisate ragioni "di ordine pubblico o di sicurezza nazionale". Un preoccupante segnale di paura dato che viene da un paese che è primo al mondo per esportazioni e dunque dovrebbe essere il più aperto sul piano degli scambi. Diventa perciò serio il rischio che la deriva protezionistica trovi altri seguaci in Europa, innescando una corsa alle barriere nazionali tale da trasformare il continente in una fortezza assediata con grave pericolo per la sopravvivenza del mercato unico. L'iniziativa tedesca è ora al vaglio di Bruxelles: c'è da sperare che al vertice dell'Unione non si sia smarrita la nozione dei vantaggi che la liberalizzazione degli scambi può ancora portare all'economia di tutti i paesi associati. La fruttuosa esperienza degli anni Settanta non va dimenticata.

(29 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. I conflitti del salotto buono
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 11:05:28 pm
Massimo Riva


I conflitti del salotto buono


Mediobianca è un monumento vivente del conflitto d'interessi. Oltre a esercitare il credito, l'istituto è anche una holding che detiene partecipazioni rilevanti in molte imprese.

Antonio Maccanico, che della vita di Mediobanca conosce anche gli aspetti più reconditi, ha scritto che la scelta di una governance duale per l'istituto fu assunta per la "urgenza di porre rimedio all'accresciuto conflitto d'interessi", conseguente alla fusione Unicredit-Capitalia, "che vedeva il suo maggiore azionista diventare temibile concorrente.". Oh! Finalmente qualcuno che in questa torbida vicenda ha messo nero su bianco quel paio di paroline in cui sta la vera chiave del problema Mediobanca, ma che nessuno dei protagonisti vuole pronunciare: 'conflitto d'interessi'.

Solo che Antonio Maccanico, sollevato questo primo velo, fa finta pure lui di credere che si tratti di una questione tranquillamente accomodabile con un compromesso fra azionisti e management della banca, come fosse un affare di famiglia. Eh no! Troppo comodo e anche un po' tartufesco. Il punto di sostanza è che Mediobanca, per storia e per struttura, è un monumento vivente al conflitto d'interessi e non solo per la presenza nel suo azionariato di Unicredit. Oltre a esercitare il credito, l'istituto di Piazzetta Cuccia è anche una holding che detiene partecipazioni rilevanti in molte primarie imprese: Generali, Rizzoli-Corriere della Sera, Telecom e così via. Ciò comporta che in parecchi casi Mediobanca sia presente nel capitale di soggetti che sono anche suoi azionisti o suoi debitori in un intreccio di interessi confliggenti senza uguali nel panorama italiano e forse neppure internazionale.

Ai tempi di Enrico Cuccia, questo imbrogliato viluppo di affari era definito con enfatica condiscendenza come il 'salotto buono' della finanza italiana, nel senso più prosaico di stanza di compensazione degli scontri interni e riservati del capitalismo domestico. Cosicché il confine fra la nozione di salotto buono e quella di cupola di potere era e rimane assai sottile. Perciò oggi suona ancor più insolente per il comune buon senso che qualcuno - per giunta oberato da sgradevoli guai giudiziari - possa pensare di proseguire sul sentiero tracciato dal grande vecchio come se il mercato fosse rimasto quello di cinquant'anni fa. Ma proprio questa sembra essere l'intenzione che anima l'attuale presidente,
Cesare Geronzi, all'opera per gettare alle ortiche financo la foglia di fico della governance duale in modo da tornare alla tradizionale catena di comando.

E la montagna dei conflitti d'interessi? In materia Geronzi ha già detto la sua in una recente intervista: "Noi abbiamo circa 1.200 parti correlate (eufemismo per conflitti d'interessi, ndr). E tutte le operazioni che le riguarderebbero dovrebbero essere alla fine decise da amministratori indipendenti? Andiamo!". Un po' come dire che, se hai un milione di debiti, ti devi preoccupare, ma se ne hai un miliardo il problema è degli altri. In effetti, vaste e autorevoli sono le responsabilità di chi ha lasciato che Mediobanca diventasse negli anni un tale mostro finanziario. E ora è tempo di domarlo: magari cominciando, come suggerisce anche Alessandro Profumo, col separare in due soggetti con azionariato distinto e autonomo l'impresa che fa banca dalla holding di partecipazioni. Già così quante parti correlate in meno e quanta trasparenza in più!

(05 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Fantozzi allo sbaraglio
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 12:34:16 am
Massimo Riva


Fantozzi allo sbaraglio


Il commissario della vecchia Alitalia ha accettato un compito difficile e molti rischi. Alla fine potrebbe trovarsi a combattere proprio con chi gli ha affidato l'incarico  Augusto FantozziAugusto Fantozzi ha accettato la nomina a commissario dell'insolvente Alitalia con il sorriso sulle labbra di chi ritiene così riconosciuta la sua capacità professionale nel gestire anche le situazioni più critiche. Non si vorrebbe spegnere l'ottimismo della sua volontà di riuscita ma, se c'è qualcuno in questa brutta vicenda che dovrebbe sentirsi a disagio, a forte disagio, questi è proprio lui. Perché il mandato che gli è stato conferito carica sulle sue spalle - più che su quelle di ogni altro soggetto coinvolto - responsabilità gravide di rischi. Soprattutto sotto il profilo delle conseguenze giuridiche dei suoi atti, che sono esposti a possibili e sgradevoli contraccolpi anche di ordine penale.

Tutto nasce dalla 'boiata pazzesca' - come la chiamerebbe l'altro Fantozzi per bocca di Paolo Villaggio - del decreto governativo che fa strame a 360 gradi di una quantità di buone regole di vita mercantile. Ma, quale che sia il tenore del provvedimento dal quale il commissario trae i suoi poteri di gestione, resta fondamentale e non eludibile un punto: compito primario di Fantozzi deve essere quello di valorizzare al massimo i beni che gli sono stati affidati in modo da minimizzare le perdite a carico di risparmiatori, azionisti, creditori vari, nonché della massa dei contribuenti ai quali, nella logica della sventurata operazione berlusconiana, tocca l'increscioso ruolo di pagatori di ultima istanza. Insomma, il commissario dovrà vedersela con una nutrita schiera di interessati che potrebbe aver molto da ridire su ciascuna delle sue mosse fino a impugnarla in sede giudiziaria.

Innanzi tutto, toccherà a Fantozzi accettare la proposta di rilevare la polpa del gruppo Alitalia concordata dai sedicenti patrioti dell'operazione Fenice. In questo attivo ci sono, per esempio, gli slot di cospicuo valore che la compagnia possiede in numerosi scali europei, da Londra a Parigi, da Francoforte a Madrid e così via.
Si tratta di beni commerciali molto ambiti dagli operatori del settore che potrebbero essere valorizzati al massimo solo attraverso una procedura di vendita al miglior offerente. In assenza della quale qualunque creditore potrebbe eccepire che la cessione diretta alla cordata Colaninno & C. rischia di essere pregiudizievole per il suo diritto al rimborso del dovuto. Non c'è barba di perizia da parte di pur autorevoli advisor, indicati dal governo o scelti dallo stesso Fantozzi, che possa mettere quest'ultimo al sicuro da contestazioni molto imbarazzanti.

Un altro caso spinoso riguarda il destino della flotta cargo e della manutenzione pesante di Alitalia. Il club dei compratori 'patriottici' vorrebbe lasciare questi due onerosi fardelli sulle spalle del commissario, ma questi s'è accorto - e lo ha già detto - che una simile soluzione gli creerebbe guai a non finire in sede contabile e poi giudiziaria. Su questo fronte, per salvare la credibilità del suo mandato, l'ottimo Fantozzi rischia perciò - colmo dei colmi - di trovarsi in rotta di collisione perfino con chi gli ha affidato l'incarico, cioè il governo. La natura diabolica del decreto per Alitalia non lascia scampo: fatte le pentole, mancano i coperchi.

(12 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Telecom a doppio taglio
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:34:33 am
Massimo Riva


Telecom a doppio taglio


I rapporti fra Spagna e Italia potrebbero guastarsi con conseguenze spiacevoli. Il fronte più critico è quello della telefonia  Ottimi dopo l'ingresso di Enel in Endesa e di Telefonica in Telecom, i rapporti economici fra Italia e Spagna corrono ora il rischio di guastarsi con conseguenze anche incresciose. Il fronte più critico è quello della telefonia, dove gli iberici non possono certo sentirsi soddisfatti del loro investimento tanto dal punto di vista finanziario che da quello industriale. Nel primo caso per i rovesci subiti dalla quotazione del titolo in Borsa, nel secondo caso perché a Madrid ci si è accorti che avere il 42 per cento della Telco, società che controlla il 24 per cento di Telecom, equivale in pratica ad aver speso un mucchio di soldi per non contare quasi nulla nella gestione dell'azienda.

A questo punto gli spagnoli si trovano dinanzi a un bivio: o aspettare il momento borsistico più favorevole per ritirarsi dalla partita limitando i danni oppure andare avanti tentando a tempo debito di mettere le mani sul controllo di Telecom. Per cercare di chiarirsi le idee in proposito il presidente di Telefonica, Cesar Alierta, ha appena fatto un viaggio in Italia dai risultati per lui poco incoraggianti. Soprattutto sul piano politico perché, in un incontro a Palazzo Chigi, si è sentito dire dal presidente del Consiglio in persona che il governo di Roma non intende rinunciare all'italianità di Telecom. Ovvero che, qualora quest'ultima fosse messa in pericolo, Berlusconi sarebbe pronto a promuovere un'altra brillante operazione 'patriottica' sul modello Alitalia per arginare la penetrazione dello straniero.

Ora a Madrid stanno ragionando sul da farsi, ma è del tutto ovvio che, a questo punto, lo stop annunciato da Berlusconi non chiama in causa soltanto i vertici di Telefonica, ma anche il governo spagnolo in prima persona. Ed è qui che la posizione assunta dall'Italia rischia di subire un contrappasso sul dossier Enel-Endesa. Il nostro ente elettrico, al contrario di Telefonica con Telecom, non ha alcun motivo di dirsi insoddisfatto del suo investimento. Tanto che il suo amministratore delegato si è appena dichiarato pronto a salire nel controllo del gigante elettrico iberico qualora fosse messo in vendita il 25 per cento di Endesa in mano al socio spagnolo Acciona. Operazione importante perché porterebbe alla nascita sotto guida italiana del secondo gruppo energetico europeo ma che, per implicazioni strategiche evidenti, non potrà certo perfezionarsi senza un preventivo placet del governo di Madrid.

Forse a Palazzo Chigi, nell'esaltazione del riscoperto patriottismo economico, non ci hanno pensato, ma il tricolore che hanno voluto piantare su Telecom offre su un piatto d'argento a Luis Zapatero l'opportunità di restituire pan per focaccia a Silvio Berlusconi sul tavolo di Enel-Endesa, bloccando le ambizioni italiane senza troppi riguardi. Ovvero, in alternativa, condizionando l'esito della vicenda a una marcia indietro del governo di Roma sul caso Telefonica-Telecom in modo da riaprire la partita a condizioni più favorevoli per gli spagnoli. Il nazionalismo economico è sempre stato un'arma a doppio taglio e la storia insegna che chi di protezionismo ferisce, di protezionismo perisce.

(19 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. A chi predica Tremonti
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 06:40:11 pm
Massimo Riva


A chi predica Tremonti


Il ministro dovrebbe evitare di lanciare invettive contro i bilanci falsi. Non va dimenticato che fu il governo Berlusconi a volere la riforma del reato in bilancio che depenalizzò diverse fattispecie in materia  Giulio TremontiLa lingua di Giulio Tremonti attraversa una fase di intensa attività. Il ministro dell'Economia parla, parla, rilascia dichiarazioni, si fa intervistare, sentenzia sovente con infrangibile sicumera. Da ultimo poi, sulla grave crisi finanziaria internazionale, si è prodotto in una serie di giudizi per lo più sprezzanti dell'universo mondo. Con un perentorio 'silete' - a civettuola ostentazione dei suoi studi classici - ha invitato tutti gli economisti a starsene zitti per pagare il fio di non aver previsto il terremoto che ha scosso i mercati dagli Stati Uniti all'Europa passando per l'Asia. Così cercando di accreditarsi l'immagine di colui che sarebbe stato l'unico a capire per tempo la tempesta incombente.

La saccenteria, come si sa, non è mai una buona consigliera. Chi conservi un poco di buona memoria, infatti, rischia di restare francamente stupefatto nell'ascoltare alcune affermazioni proprio dalla bocca di Tremonti. Per esempio, a proposito degli sconquassi bancari, il ministro è partito da un'osservazione tanto condivisibile quanto ovvia: "Non è fallita soltanto una banca, è finito un mondo senza regole". Ma poi ha così soggiunto: "Occorre rifare - governi ed autorità - le regole, vietando alcuni contratti, i bilanci falsi e i paradisi fiscali".

Ora per quanto riguarda i paradisi fiscali si può magari pensare che l'intemerata di Tremonti sia frutto della sua lunga esperienza di consulente tributario, nella quale gli sarà probabilmente capitato di vedere da vicino a quali espedienti cercano di ricorrere i più smaliziati evasori delle tasse. Che egli voglia oggi mettere questo patrimonio di conoscenze al servizio dell'Erario può essere una buona notizia. Ma l'invettiva contro i bilanci falsi, questa è davvero uno sfregio all'intelligenza degli italiani. I quali non possono aver dimenticato che uno dei primi atti legislativi compiuti dal governo Berlusconi-Tremonti nei fatidici cento giorni dopo le elezioni del 2001 fu precisamente una riforma radicale del reato di falso in bilancio con conseguente depenalizzazione di numerose fattispecie in materia.


Iniziativa che si rivelò, fra l'altro, particolarmente incresciosa perché esposta allo sgradevole dubbio di essere viziata dal fine occulto di alleggerire alcune posizioni processuali del premier Berlusconi. E che risultò comunque intempestiva come messaggio politico ai mercati perché a ridosso della medesima esplosero in Italia gli scandali del malaffare finanziario in Cirio e Parmalat. Ma neppure la lezione di questi due sonori dissesti, nei quali fu coinvolta una gran massa di risparmiatori, convinse l'ottimo Tremonti a tornare sui suoi passi per rivedere una disciplina del falso in bilancio che non suonasse più come un 'fatevi i vostri comodi' agli attenti orecchi dei manipolatori contabili.

E adesso che i falsificatori di bilanci sono stati scoperti, ma in terre lontane, il ministro veste i panni del fustigatore del malcostume finanziario? Per giunta con la protervia di chi vorrebbe far intendere un supponente 've lo avevo detto io'? È meglio che l'invito al silenzio Giulio Tremonti lo rivolga a se stesso ogni mattina dinanzi allo specchio.

(26 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Più Letta e meno Sacconi
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2008, 03:47:21 pm
Massimo Riva.


Più Letta e meno Sacconi


La trattativa Alitalia ha segnato i due principali negoziatori. E il ministro del Welfare ne è uscito sconfitto  Il ministro SacconiLa trattativa per la vicenda Alitalia ha segnato una sorte opposta per i due principali negoziatori governativi. Per unanime consenso, il sottosegretario Gianni Letta è stato l'autentico trionfatore della difficile prova. Viceversa, il ministro Maurizio Sacconi ne è uscito con le ossa rotte. Questi ha cominciato male ed ha finito peggio, ponendo una reiterata serie di ultimatum inutilmente perentori. Dapprima: si chiude stanotte o mai più. Poi: accordo entro domani o fallimento. Infine: o Cgil e piloti firmano oppure si fa senza di loro.

Si sa com'è andata: la fatidica notte è trascorsa invano, come pure sono passati il domani, il dopodomani e così via... Quanto al proposito di tirare diritto senza il via libera di piloti e Cgil, Sacconi ha dovuto sbattere il naso contro il muro delle concessioni migliorative strappate proprio da coloro che egli avrebbe voluto tenere fuori dalla porta. E a farglielo sbattere è stato il suo collega Letta, che lo ha estromesso di fatto dal negoziato nelle battute conclusive. Insomma, quel che è successo a Palazzo Chigi è palese: con Sacconi si sarebbe andati al naufragio, con Letta la nave è andata in porto.

Si trattasse soltanto di un insuccesso personale del ministro del Welfare, la questione non meriterebbe tanta attenzione. Ma il fatto è che, in questa partita sciagurata, l'avventuroso Sacconi ha trascinato con sé anche un blocco consistente del mondo sindacale: in particolare, Cisl, Uil e Ugl, indotte a firmare un testo di accordo che poi la renitente Cgil è riuscita a far modificare con aggiunte significative. In altre parole, chi si è fidato della linea intransigente ostentata dal ministro si è trovato alla fine scavalcato dalle concessioni ottenute dagli altri: un esito disastroso sul piano degli equilibri di potere e dei rapporti di forza fra organizzazioni sindacali.


Anche se lui lo nega, tutto fa pensare che Sacconi abbia perseguito scientemente la linea della rottura con la Cgil, sindacato al quale egli insiste nel rimproverare un pregiudizio politico ostile verso il governo Berlusconi. Ma proprio questo suo speculare pregiudizio politico contro la Cgil - frutto avvelenato di una malcelata nostalgia craxiana - ha finito per accecare per primo lo stesso Sacconi, inducendolo a lanciare una sfida che non è stato in grado di reggere, fino al punto di esporre le organizzazioni sue gregarie allo scorno di vedersi sopravanzare dalla concorrente Cgil.

Non è la prima volta che un governo Berlusconi gioca la carta della spaccatura del fronte sindacale tentando di isolare la confederazione maggioritaria dalle altre. Era già accaduto nel 2002 col cosiddetto Patto per l'Italia, firmato da Cisl e Uil senza Cgil. Un altro clamoroso infortunio, visto che il celebrato Patto si rivelò ben presto un buco nell'acqua con effetto boomerang per chi l'aveva sottoscritto. Perseverare su questa strada accidentata sarebbe davvero diabolico ora che sono alle viste passaggi sindacali impegnativi quali la riforma dei contratti collettivi e i rinnovi del pubblico impiego. La lezione Alitalia dice con chiarezza che ci vorrebbe un po' più di Letta e molto meno di Sacconi.

(03 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Riscrivere le regole
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 06:52:27 pm
Massimo Riva.

Riscrivere le regole


La trasparenza si impone oggi come l'unica via percorribile per chiunque intenda ristabilire la fiducia pubblica nelle attività finanziarie. Il caso Unicredit insegna  Le banche domestiche isola felice nella tempesta globale? La favola bella - raccontata con monotona insistenza da ministri, governatori e banchieri medesimi - ha illuso gli italiani per poche settimane. Una certa mattina il titolo Unicredit ha cominciato a precipitare in Borsa e così si è scoperto che il maggior gruppo creditizio nazionale era anche lui nei guai, negati fino a poche ore prima. La repentinità di un tanto brusco cambiamento d'orizzonte ha azzerato di conseguenza proprio quello che era l'obiettivo principale delle autorevoli e reiterate rassicurazioni: consolidare la fiducia dei risparmiatori.

Al riguardo si può e si deve riconoscere che i vertici di Unicredit - Alessandro Profumo in testa - hanno dimostrato una tempestiva capacità di reazione chiamando i propri azionisti ad approvare un'ingente ricapitalizzazione della banca. Ma né questo pronto intervento né gli atti di contrizione dello stesso Profumo possono cancellare lo sconcerto e gli interrogativi che la vicenda lascia tuttora in campo. Non basta, infatti, dichiarare che l'azienda ha dovuto registrare 700 milioni di svalutazioni nel solo terzo trimestre di quest'anno. Una simile botta richiede qualche spiegazione aggiuntiva se si vuole recuperare credibilità sul mercato. Di quei 700 milioni sfumati, per esempio, ben 500 erano in titoli Abs, ovvero garantiti da attività. Chi, come, quando e perché ha valutato quelle 'attività' in garanzia? Una falla di queste proporzioni non può essere disinvoltamente attribuita al caso o alla mala sorte.

Del resto, anche al di là del caso Unicredit, proprio la trasparenza sugli errori compiuti si impone oggi come l'unica via percorribile per chiunque intenda ristabilire la fiducia pubblica nelle attività finanziarie. E ciò vale tanto per i banchieri quanto per tutti i poteri chiamati in causa da questa disfatta del sistema regolatorio del mercato. In proposito fa presto il nostro presidente del Consiglio a proclamare, turgido e impettito, che nessuno perderà neppure un euro. A parte il fatto che di euro numerosi risparmiatori ne hanno già persi parecchi, quello di Berlusconi è il metodo classico per cercare di fare bella figura senza pagare dazio.


Va bene, infatti, ricordare che i conti correnti italiani sono garantiti fino ad almeno 103 mila euro ciascuno, ma quel che si dovrebbe pretendere oggi dal potere politico è che, invece di fare decreti sui grembiulini scolastici, si occupi con almeno pari urgenza di riscrivere quelle regole mercantili che tuttora consentono di realizzare le più sfacciate (e tollerate) forme di circonvenzione dei risparmiatori. Grazie a Berlusconi, infatti, l'Italia è il paese nel quale il falso in bilancio è una sorta di banale reato contravvenzionale, mentre nella gestione del risparmio da parte delle banche come negli assetti azionari del mondo del credito (da Mediobanca in giù) il conflitto degli interessi è pratica corrente. In queste materie non c'è da cercare alcun concerto in Europa o nel G8, i rimedi sono tutti e soltanto di competenza domestica. Serie iniziative al riguardo ricostruirebbero fiducia nel mercato più di tante enfatiche assicurazioni sulla solvibilità dei depositi bancari.

(10 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il premier promoter
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 11:26:58 pm
ECONOMIA    IL COMMENTO

Il premier promoter

di MASSIMO RIVA


Un presidente del Consiglio che invita i risparmiatori a non cedere al panico dinanzi ai precipizi dei listini di Borsa è un'autorità politica che fa il suo mestiere. Ma un presidente del Consiglio, che indossa i panni del promoter finanziario e insiste nell'indicare ai cittadini quali specifiche azioni devono comprare in Borsa, è uno spettacolo indecoroso e allarmante.

Già l'altro giorno a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi aveva fatto un brutto scivolone in materia vantando la solidità patrimoniale e reddituale di imprese quali l'Enel e l'Eni, oltre che la sua Mediaset. Invece di rimediare all'errore con il pudore del silenzio, oggi a Napoli è tornato sull'argomento, rilanciando l'esortazione a comprare i titoli dei due grandi gruppi che, fra l'altro, sono tuttora a prevalente controllo statale. Ci si può forse consolare col fatto che, almeno stavolta, egli abbia evitato di tirare in ballo anche l'impresa di famiglia, ma non è che questo minimo e tardivo soprassalto di decenza possa ridimensionare una sortita che degrada il capo dell'esecutivo al livello di un qualunque broker finanziario, per giunta in macroscopico conflitto d'interesse rispetto a tutti coloro che operano sul mercato azionario.

Chi guida il governo di una democrazia, che vive in regime di economia di mercato, non può e non deve manifestare preferenze fra i soggetti in libera competizione sui listini di Borsa. Altrimenti rischia di dare ragione proprio alle critiche più dure di quei suoi antagonisti politici che lo accusano di voler trascinare l'Italia su un piano inclinato il cui sbocco finale è un sistema di potere assai simile a quello della Russia di Putin, dove l'intreccio tra affari e politica si va sempre più consolidando a spese dello Stato di diritto e della normale dialettica democratica.

Né serve che Berlusconi cerchi di attenuare la gravità dei suoi sfondoni asserendo di voler così arginare il pericolo di una diffusione del panico finanziario fra i cittadini. Anzi, se vi sono comportamenti che possono spingere gli italiani a perdere il controllo dei propri nervi e a giudicare la situazione anche più grave di quanto lo sia veramente, questi consistono proprio nello spettacolo inquietante di un presidente del Consiglio che, lui per primo, si lascia vincere da un'incontinenza verbale tale da portarlo a dire cose che mai dovrebbero uscire dalla bocca di un premier.

Se è questi a perdere per primo il senso delle proporzioni, infatti, che cosa mai devono pensare gli italiani di quanto sta accadendo sui mercati? Par di capire che la loro risposta è stata più che eloquente: i titoli Enel ed Eni hanno chiuso con una perdita percentuale doppia rispetto alla caduta media del listino.

Sempre oggi, non pago di aver rotto gli argini con la sortita su Eni ed Enel, l'incontenibile Berlusconi ne ha fatta un'altra, per certi versi peggiore, facendo balenare la minaccia che una chiusura generalizzata dei mercati potrebbe essere fra le ipotesi su cui si deciderà nell'imminente nuovo vertice di Parigi. Certo, finita poi la conferenza stampa, il Cavaliere è corso ai ripari - probabilmente perché qualcuno gli deve aver spiegato la gravità di una simile sortita anche sul piano dei rapporti con gli altri paesi - smentendo se stesso, come gli capita sempre più sovente di fare. Ma, intanto, anche in questo caso la frittata è fatta e si può facilmente immaginare con quali facce i partner europei lo accoglieranno al summit parigino.

(10 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. L'etica, le belle parole e i fatti
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2008, 11:47:09 am
Massimo Riva.


L'etica, le belle parole e i fatti



Un passaggio indispensabile verso la soluzione della drammatica crisi presente è costituito dal ritorno della fiducia pubblica nella correttezza dei gestori del potere economico  Cesare Geronzi"L'etica e la responsabilità siano alla base del libero mercato". Bel proclama in tanto tempestosi frangenti finanziari, soprattutto dalla bocca del presidente del Consiglio. Un passaggio indispensabile verso la soluzione della drammatica crisi presente è costituito, infatti, dal ritorno della fiducia pubblica nella correttezza dei gestori del potere economico. Un esito possibile soltanto se tutti costoro sapranno ritrovare la credibilità perduta nei tanti, troppi malaffari nei quali sono andati in fumo montagne di risparmi della collettività. L'appello di Silvio Berlusconi in tal senso è senz'altro benvenuto.

Solo che le parole in materia contano assai poco, mentre decisivi risultano i comportamenti e le scelte concrete nell'esercizio quotidiano di ciascun singolo ruolo. Altrimenti si corre il rischio che i moniti verbali sull'etica possano essere intesi come un'ipocrita mascheratura di atti che vanno in direzione opposta. E purtroppo, anche in questo caso, il governo Berlusconi ha dato prova di voler parlare in un modo ma di razzolare in tutt'altro. Ancora vibrante nell'aria il richiamo morale del premier, infatti, al ministero dell'Economia si è tenuto un singolare consulto d'emergenza sulla crisi. Accanto ai rappresentanti di Banca d'Italia, Confindustria e Associazione bancaria - ovvero tutti esponenti di istituzioni o associazioni di pubblico rilievo - il ministro Tremonti ha fatto intervenire anche il presidente di Mediobanca, Cesare Geronzi.

Già la presenza di questa unica voce privata è apparsa una scelta stravagante e anche non poco stonata alla luce del fatto che, proprio da pochi giorni, la famiglia del presidente del Consiglio ha ottenuto un posto nel nuovo consiglio di amministrazione di quella che fu la grande banca di Enrico Cuccia. Ma questi scivoloni di discutibile opportunità appaiono ancora poco di fronte a un punto ben più dolente. Quel presidente di Mediobanca, cui Giulio Tremonti ha ritenuto di chiedere buoni consigli, vanta un curriculum giudiziario non proprio limpido: una condanna in primo grado per bancarotta (caso Bagaglino) e un rinvio a giudizio con la medesima imputazione nella vicenda Parmalat, nome quest'ultimo che alle orecchie di molti risparmiatori evoca tutto fuorché la presenza di etica negli affari. Difficile, davvero difficile pensare che con la presenza di Geronzi a quel summit il governo intendesse lanciare un credibile messaggio di fiducia ai mercati.

Come non bastasse negli stessi giorni si è scoperto che in Senato, con il parere favorevole del governo, era stato inserito nel decreto Alitalia un imbarazzante emendamento teso ad alleggerire la posizione penale degli imputati per reati finanziari e subito ribattezzato, forse non a caso, 'salva Geronzi'. Il presidente del Consiglio si è premurato di dire che lui non ne sapeva nulla, mentre il ministro Tremonti è stato drastico: o va via l'emendamento o vado via io. Meglio così, s'intende, che perseverare nell'errore. Il risultato di simili comportamenti, tuttavia, è quello di mostrare un governo Berlusconi che, in tema di etica e affari, si muove come su una sorta di ambiguo saliscendi: sale con le parole, scende con i fatti.

(17 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Qui tira una brutta aria
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 10:21:08 pm
Massimo Riva


Qui tira una brutta aria


L'insensibilità di Berlusconi nei confronti dell'ambiente sottolinea solo l'arretratezza complessiva del nostro apparato produttivo rispetto a quello degli altri paesi più industrializzati del continente  La resistenza che il governo Berlusconi oppone al piano europeo per l'ambiente denuncia qualcosa di molto peggio di una disinvolta insensibilità verso i temi della salute dei propri cittadini e del surriscaldamento climatico. Dal fondo di questo atteggiamento riaffiora un vizio antico della politica domestica: l'incapacità a guardare al futuro per supina soggezione agli interessi consolidati nel presente.

Dietro la contesa delle cifre su quanto dovrebbe fare l'Italia per tenere il passo con gli obiettivi indicati da Bruxelles, infatti, c'è una questione ben più specifica e materiale che lo stesso presidente del Consiglio ha messo esplicitamente in piazza. Si tratta degli onerosi investimenti che il nostro sistema industriale dovrebbe affrontare per portare sia i propri impianti sia i beni prodotti dai medesimi a livelli meno tossici di quelli attuali. Non a caso sull'argomento la Confindustria si è schierata, anima e corpo, a fianco del governo contro l'Unione europea.

Evidentemente né Silvio Berlusconi né Emma Marcegaglia si rendono conto di ottenere, così facendo, solo il bel risultato di sottolineare in rosso l'arretratezza complessiva del nostro apparato produttivo rispetto a quello degli altri paesi più industrializzati del continente. Tanto che in questa specifica vicenda l'Italia rischia di vedere modificato perfino il suo ruolo e le sue alleanze tradizionali in Europa. Cioè, di passare dal rango d'élite dei sei paesi fondatori a quello di capofila dei nuovi arrivati: quegli Stati che erano un tempo al di là della 'cortina di ferro' e che, a causa del lungo dominio sovietico, hanno tuttora industrie con altissimi tassi di inquinamento. Un gemellaggio che non può portare nulla di buono, in termini sia politici che economici.

Schierarsi a tutela, per esempio, di acciaierie che spargono diossina nell'aria ovvero di automobili con scarichi eccessivi significa guardare più all'Italia di ieri che a quella di domani, rendendo così un duplice pessimo servizio al paese. Da un lato, perché si inducono le imprese a non rimodernare impianti vecchi e modelli obsoleti. Dall'altro lato, perché si disincentivano gli investimenti verso quelle innovazioni tecnologiche che stanno rapidamente trasformando la corsa all'aria e all'acqua pulite in un 'business' ad alto rendimento per il futuro. Vorrà pur dire qualcosa che il paese con la più forte industria d'Europa è oggi all'avanguardia, per esempio, nella diffusione di impianti fotovoltaici per la produzione di energia. La spiegazione è chiara: non solo la Germania riduce così la sua dipendenza dall'import di gas, ma le imprese tedesche si preparano ad essere anche le più pronte ad esportare il risultato dei loro investimenti sui mercati altrui. Perché non anche in Italia?

La volenterosa ministra Stefania Prestigiacomo, che si sta arrampicando sugli specchi per perorare un indifendibile ostruzionismo italiano contro il pacchetto europeo per il clima, per ora minaccia sfracelli più nelle conferenze stampa che nelle riunioni ufficiali. Forse c'è ancora spazio per sperare che quella ingaggiata da Berlusconi sia soltanto l'ennesima battaglia mediatica: tutta parole e niente sostanza.

(24 ottobre 2008)


espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Salvataggi pericolosi
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 03:51:31 pm
Massimo Riva


Salvataggi pericolosi


 La sede della Borsa a MilanoDa sempre le crisi economiche sono un significativo banco di prova della capacità e dell'intelligenza dei governi. Quella attuale lo è in modo particolare perché, con voce unanime dall'America all'Europa, sono proprio gli uomini della finanza e dell'industria a invocare soccorso dalle autorità della politica. L'elenco dei salvataggi effettuati con pubblico denaro si sta allungando di mese in mese in tutto l'Occidente capitalistico. Si è cominciato con le banche, ora si sta passando all'economia reale: negli Usa, per esempio, è in gestazione un piano di aiuti all'industria automobilistica per la rispettabile cifra di 25 miliardi di dollari.

Nella sua versione italiana, tuttavia, questa generale corsa al sostegno di imprese pericolanti sta rischiando di assumere forme e finalità dall'esito paradossale: non di fuoriuscita dalla crisi in avanti, ma di perverso consolidamento di alcuni fra i peggiori vizi del sistema domestico. Una prima minaccia al riguardo è il possibile intervento dello Stato nel capitale delle banche. C'è qualcosa di inquietante in questa ipotesi perché tutti i maggiori istituti di credito sostengono di non averne alcun bisogno, mentre il governo viceversa insiste nel dichiararsi pronto a farlo. E, addirittura, preme su Bankitalia perché modifichi le regole del gioco in modo da poterlo fare.

Ma non meno allarmante è la campagna mediatica orchestrata dal presidente del Consiglio in persona sulle scalate ostili che non meglio identificati corsari della finanza straniera starebbero progettando per comprarsi le aziende strategiche del nostro paese agli attuali vilissimi prezzi di Borsa. Tanto che ora il premier, di concerto col fido ministro Tremonti, ha anticipato l'intenzione di cambiare la normativa in materia in modo da rendere inattaccabili le imprese tricolori. Ciò che rende sospetta questa iniziativa è che Berlusconi agita questo pericolo soprattutto con riferimento a società che di fatto non appaiono per nulla scalabili, come Enel ed Eni. Siamo franchi: a parte il peso già oggi prevalente dello Stato nelle due aziende, chi mai si sognerebbe di tentarvi una scalata sapendo di avere contro il governo nazionale? Neppure un redivivo Saddam Hussein!


Di qui a pensare che Berlusconi indichi un obiettivo ma miri a un altro ci passa poco. Barriere più alte contro eventuali assalti esterni, infatti, servirebbero soltanto a preservare gli attuali gruppi di controllo sulla generalità delle imprese quotate in Borsa. Cosicché un mercato azionario - che è già il più ingessato del mondo a causa della tolleranza verso patti di sindacato, scatole cinesi e conflitti d'interessi - vedrebbe ulteriormente blindati nel loro potere di comando proprio quegli stessi personaggi che si reggono soprattutto in base a escogitazioni giuridiche e ad accordi di comparaggio dallo sgradevole sapore mafioso. Così frustrando, per giunta, anche le residue speranze di qualche buon guadagno da parte dell'ampia platea dei piccoli risparmiatori.

Ci possono essere tante vie d'uscita dalla crisi attuale: quella delineata dal duo Berlusconi-Tremonti si segnala come un ritorno a quel passato che è padre di molti dei guai presenti.


(31 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. La politica dello struzzo
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 04:06:19 pm
Massimo Riva

La politica dello struzzo


Ora, anche tecnicamente, l'Italia è in recessione e occorrerebbe che Silvio Berlusconi rimettesse i piedi per terra, ponendo fine alla sua, tenace quanto futile, battaglia mediatica per spargere un illusorio ottimismo sullo stato dell'economia nazionale. Anche al netto dei guai conseguenti alla crisi finanziaria mondiale, infatti, sono mesi che una brusca frenata si sta manifestando sia nei consumi sia nelle attività produttive. Tanto che ora, appunto, le stime aggiornate da parte dell'Unione europea - un poco più favorevoli, fra l'altro, di quelle del Fondo monetario - segnalano crescita zero per il Pil per l'anno in corso e per quello prossimo, con impliciti riflessi negativi sulla condizione dei conti pubblici: deficit di nuovo in pericoloso avvicinamento alla soglia fatidica del 3 per cento e debito non più in discesa ma stagnante attorno a quota 104 per cento del Pil.

Prendere atto di questa realtà è la cosa più logica che ci si dovrebbe aspettare da un governo di persone responsabili. Ma proprio questo sembra essere il problema più serio che incombe oggi sul paese. Il mondo è rapidamente cambiato, ma il Cavaliere non intende modificare di un grado la rotta delle sue decisioni, tanto meno riconoscere alcuni marchiani errori commessi in questi pochi mesi. Guai ad ammettere, per esempio, che è stato un atto dissennato l'abolizione dell'Ici per i ceti abbienti, bruciando così oltre due miliardi di entrate che oggi sarebbero tornati di grande utilità per manovre di sostegno al sistema produttivo.

Figuriamoci poi se Giulio Tremonti è disponibile a riconoscere che la sua 'Robin tax' è stata l'abbaglio tipico di chi non sa guardarsi intorno né capire in tempo che cosa sta succedendo. Come dimostra proprio il caso della sovrimposta sui profitti delle banche decisa pochi giorni prima che l'intero sistema del credito fosse investito da una delle crisi più serie della sua storia. Al punto che oggi somme di gran lunga più ingenti del gettito da 'Robin tax' rischiano di dover essere mobilitate per correre in soccorso delle banche medesime.

Adesso sarebbe almeno il momento di rimettere mano alla manovra finanziaria per inserirvi qualche acconcia misura di intervento a favore di consumi e produzione. Perfino dentro la maggioranza di governo si sono levate più voci in questo senso, ma Berlusconi e soprattutto Tremonti si stanno mostrando irremovibili: la Finanziaria è quella e tale resta. L'unico spiraglio che si potrebbe aprire è quello della proroga della parziale detassazione del lavoro straordinario: una pensata davvero geniale e risolutiva in una fase nella quale il ritmo dell'attività sta calando negli uffici e nelle fabbriche dell'Italia intera.

In Europa oggi tutte le economie versano in crescenti difficoltà. Ma Tremonti ha un bel dire che l'Italia è in linea con gli altri paesi.
A Berlino o a Madrid, per esempio, si stanno mettendo in campo interventi commisurati ai problemi posti dalla nuova drammatica realtà. Soltanto a Roma il governo Berlusconi procede impavido per la sua strada nell'ottusa convinzione che debba essere la realtà ad adeguarsi ai suoi progetti e ai suoi desideri.


(07 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il fantasma dell'Ici
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 10:32:00 pm
Massimo Riva.


Il fantasma dell'Ici


È da cinque mesi pieni che la produzione industriale risulta in lento e costante declino. Così ha confermato anche l'ultima rilevazione ufficiale dell'Istat, relativa al settembre scorso. Dunque, il nostro sistema produttivo è entrato in una fase recessiva ben prima che esplodessero quelle crisi bancarie dell'ultima estate, che oggi rendono ancora più malcerte le prospettive generali. Naturalmente, come accade quasi sempre in simili frangenti, la frenata dell'attività economica si accompagna a un altrettanto continuo calo dei consumi e degli investimenti, in un rapporto triangolare dove ognuno dei fattori interagisce sull'altro rivelandosi insieme causa ed effetto della caduta complessiva.

Rompere questa spirale negativa non è un esercizio semplice, tanto più alla luce delle tempeste in atto sui mercati finanziari e delle oggettive ristrettezze del bilancio pubblico, soprattutto in Italia. Da parte confindustriale, ma non soltanto, si è aperto un aspro fronte di lotta contro la Banca centrale europea, accusata di non voler tagliare con sufficiente prontezza il costo del denaro in modo - si ritiene - che le imprese possano ricevere almeno una boccata d'ossigeno finanziaria. Si tratta, però, di una visione un po' troppo convenzionale dei guai presenti. Penso anch'io che la Bce dovrebbe ridurre più drasticamente il livello dei tassi ufficiali ma soltanto perché così il campo sarebbe liberato da una contesa sostanzialmente fuorviante. Nel senso che si avrebbe la prova provata che oggi è la scarsità di credito e non il suo costo a frenare produzione, consumi e investimenti. Se il cavallo non beve - diceva con arguzia il buon Cesare Merzagora - non serve certo fargli un clistere. Insomma, tutti sanno che quella dei tassi è una corda: ottima per stringere, inutile per spingere.


Ciò di cui si sente vitale necessità oggi è piuttosto un rilancio potente della domanda, sia pubblica sia privata: la prima in chiave prevalentemente europea, la seconda in chiave nazionale. Nei cassetti di Bruxelles giace ancora largamente inevaso il piano di rilancio delle grandi infrastrutture europee tracciato da Jacques Delors. Questo è il momento più opportuno per rimettere mano a quel progetto, anche ponendo la spesa correlata al riparo dai parametri di Maastricht: un'eccezione che appare oggi l'unica ragionevole e necessaria. Il futuro dell'euro può dipendere da questo atto di coraggio dei governi europei molto più che dalle decisioni della Bce sui tassi d'interesse.

Quanto al rilancio della domanda privata è chiaro che, soprattutto in Italia, tutto è legato a un andamento dei consumi frustrato dalla depauperazione dei salari e degli stipendi netti. E questo è un problema di leva fiscale, non certo monetaria. Ma dove trovare i soldi senza sfondare quei vincoli europei che per un bilancio pubblico così scassato è bene che mantengano intatta la loro severità? Nell'immediato il governo Berlusconi può fare una sola cosa seria: rimangiarsi la dissennata abrogazione dell'Ici per i più abbienti e ridistribuirne i 2-3 miliardi di minor gettito nelle buste paga. Ammettere l'errore darebbe più credito al governo che non perseverare nel medesimo.

(14 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Occasione Bankitalia
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2008, 10:59:19 am
Massimo Riva.


Occasione Bankitalia


Una scadenza istituzionale incombente si intreccia con il tema caldissimo del rafforzamento patrimoniale del sistema bancario. Una legge del 2005, infatti, stabilisce che entro il 31 dicembre prossimo le quote del capitale Bankitalia in mano agli istituti di credito privati vengano cedute allo Stato. Sulla correttezza ordinamentale di simile indirizzo non c'è granché da dire. Tra le sue funzioni residue più importanti Via Nazionale esercita quella di vigilanza sulle imprese del credito: che queste ultime siano anche azioniste della propria autorità di controllo configura un conflitto di interessi palesemente insostenibile. Il nodo va sciolto.

Tanto più che la crisi finanziaria in atto potrebbe essere una ragione di più per chiudere questa partita. Per esempio, i due maggiori gruppi creditizi del paese -Intesa Sanpaolo e Unicredit - posseggono rispettivamente il 44 e il 22 per cento del capitale di Bankitalia: liberandosi di tali quote essi potrebbero ottenere fondi utilissimi per consolidare quegli equilibri di bilancio che sono stati scossi dai noti guai presenti. Insomma, al fine di migliorare i ratio patrimoniali delle banche, questa si offre come un'eccellente alternativa alle varie formule in gestazione per sostegni diretti o indiretti da parte dello Stato.

Purtroppo, nei tre anni trascorsi dalla richiamata scelta legislativa, non è stato fatto alcun passo concreto per dipanare una questione che presenta risvolti delicati sia dal punto di vista tecnico specifico sia da quello politico generale. Nel primo caso l'ostacolo principale riguarda i criteri di valutazione delle quote di Bankitalia. In proposito, nel corso degli anni, le stesse banche azioniste si sono mosse in ordine sparso: alcune hanno tenuto in bilancio la partecipazione ai valori storici, altre l'hanno rivalutata, ciascuna secondo suoi propri criteri. Trovare un punto d'incontro fra posizioni così differenziate non sarà un facile esercizio, ma il tempo stringe e una soluzione va trovata entro il mese prossimo.

Ancora più arretrata forse è l'elaborazione degli aspetti politico-istituzionali conseguenti al passaggio del capitale di Via Nazionale allo Stato. Intanto - in base alle tristi esperienze domestiche - c'è da guardarsi dal rischio che il potere di vigilanza sulle banche possa passare per proprietà transitiva sotto il controllo del ministro pro tempore dell'Economia. Poi c'è da ricordare che Bankitalia dispone di rilevanti riserve auree, un tesoro che ha sempre suscitato appetiti malsani nei governi alle prese con congiunture economico-finanziarie difficili.

Oggi il ministro Tremonti assicura che gli interventi politici sul sistema bancario nuociono gravemente soprattutto a chi li fa. Ma un conto sono le buone intenzioni verbali, ben altro gli assetti istituzionali di garanzia oggettiva dagli abusi di potere. Ormai manca pochissimo al fatidico 31 dicembre e - ahinoi - non c'è alcun segnale di seria elaborazione al riguardo. Che pensare di tanto ritardo? O si sta preparando qualche increscioso colpo di mano o si dà per scontata una proroga del termine all'ultimo minuto. Esito pessimo il primo, miserevole il secondo.

(21 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA.
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2008, 10:41:32 pm
Massimo Riva.


Il consumatore inesistente

Alle prese con la peggiore crisi economica dell'ultimo secolo, Silvio Berlusconi ha deciso di tornare alle origini e di rivestire i panni del 'piazzista di Arcore', come lo chiamava Indro Montanelli. Comprate, spendete, consumate! Questa, infatti, è la semplicistica ricetta che il Cavaliere insiste a predicare da tempo nell'ottusa convinzione che i suoi consigli per gli acquisti possano essere la pozione miracolosa per evitare lo scivolamento del Paese da una congiuntura recessiva a una fase di dolorosa depressione.

Se egli oggi si occupasse soltanto di guidare l'impero televisivo di Mediaset, simili sortite sarebbero tutto sommato innocue e potrebbero essere giustificate in nome della deformazione professionale, oltre che del lampante interesse aziendale a sostenere il fatturato pubblicitario della propria impresa. Ma il fatto è che chi lancia simili messaggi al Paese riveste ora la carica di presidente del Consiglio dei ministri. Esercita, cioè, quel potere politico dal quale dipendono le decisioni principali di contrasto a una tempesta economica, di cui si avvertono al momento le prime avvisaglie mentre il peggio - per unanime opinione internazionale - arriverà nel corso del 2009.

Affermare, come fa Berlusconi, che "solo i cittadini (...) con lo stile dei loro consumi possono determinare la profondità della crisi" significa intanto ignorare il senso e la portata di quanto sta accadendo, ma soprattutto denunciare insensibilità e indifferenza per lo stato di difficoltà in cui versano milioni di bilanci familiari dal Nord al Sud del Paese. Spendere di più? Ma con quali soldi, per favore? Quelli della cosiddetta 'social card' forse? Per carità, va benissimo che a chi si trova con l'acqua alla gola arrivi qualche decina di euro in più al mese, ma non ci si venga a raccontare che con l'obolo per costoro si possono rilanciare sul serio i consumi e l'economia.
 

Se davvero il presidente del Consiglio è convinto di quel che dice, allora spetta a lui trovare i soldi che possano rimettere in moto la salvifica ripresa dei consumi. E qui scatta una legge ineludibile, di fisica prima ancora che di economia: il denaro va preso dove sta e spostato dove manca. Poiché il bilancio pubblico ha i guai che si sanno, il problema si può risolvere soltanto attraverso una redistribuzione dei pesi all'interno della società. Insomma, occorre che il piissimo e neosturziano Giulio Tremonti - una volta riscoperti Dio, Patria e Famiglia - la smetta di fare il Robin Hood per finta e indossi sul serio i panni di chi toglie ai ricchi per dare ai poveri.

Altro che estendere anche ai più abbienti l'esenzione dall'Ici o detassare straordinari inesistenti o distribuire elemosine natalizie. Occorre, piuttosto, abbandonare le promesse di Bengodi tributario diffuse a mani piene e cervello vuoto: smettendola di strizzare l'occhio agli evasori e rivedendo la curva del prelievo sui redditi, alzandola per i maggiori e abbassandola per i minori. Forse credendo di stare ancora a Mediaset, Silvio Berlusconi stavolta ha sbagliato indirizzo: da Palazzo Chigi l'invito a far ripartire i consumi non lo deve rivolgere ai cittadini ma a se stesso.

(28 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Manovra tragicomica
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2008, 11:02:54 pm
Massimo Riva.


Manovra tragicomica

 
Silvio BerlusconiUna sintesi di 'vis comica' e di 'vis tragica' come quella realizzata nella manovra economica del governo Berlusconi è uno spettacolo che non si vedeva da tempo. Forse bisogna risalire al primo shock petrolifero negli anni Settanta, quando un fervido spirito propose di inserire fra le norme per il risparmio energetico anche l'obbligo di usare gli ascensori soltanto in salita. Con la differenza che allora il ritrovato senso del ridicolo impedì di inserire la luminosa trovata nella redazione finale del decreto.

Stavolta, no. Nei dieci minuti impiegati dal Consiglio dei ministri per esaminare il compendioso provvedimento che dovrebbe arginare la crisi economica incombente, lo scatto di resipiscenza non c'è stato. Ne è uscito così un testo ricco di autentiche perle del più triste degli umorismi con venature di insospettata crudeltà. Il caso più calzante al riguardo è quello della cosiddetta social card. In sostanza, la macchinosa escogitazione si risolve in un obolo quotidiano di 1 euro e 30 centesimi. Buoni, ad esempio, per acquistare ogni giorno un tozzo di pane e un mezz'etto di mortadella. Ci vuole davvero un audace sprezzo del ridicolo per sbandierare simile decisione come frutto di acuta sensibilità politica per le condizioni di vita dei più indigenti.

Sempre sul piano dell'equità sociale spicca poi la discriminazione nel sostegno ai titolari di mutui in difficoltà. Per chi ne ha sottoscritti a tasso variabile ci sarà un congruo intervento dello Stato, mentre coloro che più saggiamente hanno scelto il tasso fisso dovranno arrangiarsi da soli e così verranno in sostanza puniti proprio per la loro prudenza e lungimiranza. Così come risulteranno inopinatamente beffati coloro che vedranno sfumare il bonus fiscale per opere di risparmio energetico realizzate con malriposta fiducia nella continuità dello Stato di diritto.


Un ulteriore passaggio tragicomico, questo invece sul piano ordinamentale, è l'ipotesi di affidare ai prefetti la vigilanza sull'esercizio del credito bancario nei confronti delle piccole e medie imprese. Qui siamo al sublime: l'idea che un'attività ispettiva così sofisticata possa essere demandata a un'autorità amministrativa le cui mansioni principali riguardano l'ordine pubblico magari avrebbe potuto avere una qualche efficacia (comica) in un film con Totò e Peppino De Filippo, ma nel contesto di un piano per rivitalizzare il sistema finanziario suona non come uno scivolone involontario, ma come la confessione di voler far finta di fare qualcosa che in realtà non si sa come fare.

Che dire, infine, del raddoppio dell'Iva per la tv di Sky? Già il fatto che Berlusconi approfitti del proprio ruolo politico per danneggiare il suo principale concorrente ripropone in termini drammatici il nodo irrisolto del conflitto d'interessi. Ma si scade nella buffonata insolente quando si giustifica il provvedimento con l'alibi che anche Mediaset ne sarà colpita. Siamo seri: per Murdoch il satellite è tutto, per Berlusconi una quisquilia. Ma quello alla serietà è certo il richiamo meno adatto per una manovra che rimane un campionario di miserevoli espedienti.

(05 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. La legge dell'arbitrio
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 03:33:53 pm
Massimo Riva.

La legge dell'arbitrio


Con un comunicato grondante soddisfazione e compiacimento Palazzo Chigi ha annunciato che la Libia si accinge a diventare grande azionista dell'Eni: dapprima con una quota del 5 per cento, che potrà poi salire fino al 10. L'importanza dell'operazione è evidente perché essa potrà consolidare i rapporti con un partner energetico per noi fondamentale. Da quel paese l'Italia importa - fra petrolio e gas - circa il 20 per cento del suo fabbisogno: in attesa che fra una decina d'anni arrivino i primi chilowattora delle centrali nucleari per ora soltanto vagheggiate dal ministro Scajola, è un bene cercare intanto di stabilizzare i rifornimenti di prodotti tradizionali quali gli idrocarburi.

La Borsa, com'era prevedibile, ha accolto la notizia facendo schizzare al rialzo la quotazione del titolo Eni. Ciò fa sorgere, tuttavia, un primo dubbio su modalità e tempistica dell'affare. Possibile che i libici siano stati così sprovveduti da aver atteso il benvenuto di Palazzo Chigi per comprare azioni a prezzi che la pubblicità dell'operazione sta rendendo sempre più alti? Banali considerazioni di convenienza economica inducono a ritenere che l'annuncio del governo italiano sia arrivato a cose fatte, ovvero che il nulla osta sia stato dato già da settimane. Un chiarimento al riguardo non guasterebbe.

Quel che comunque Palazzo Chigi non spiega è come questa operazione si collochi rispetto sia alla linea sbandierata dal premier Berlusconi in materia, sia ad alcune recenti scelte legislative del governo in tema di scalate azionarie. Sul primo versante, infatti, sono mesi che il Cavaliere lancia allarmi sul pericolo che capitali esteri - soprattutto provenienti dai cosiddetti fondi sovrani (come quello libico in Eni) - approfittino del tracollo dei listini per fare man bassa di imprese nazionali. In conseguenza, sul secondo versante, nell'ultimo decreto il ministro Tremonti ha inserito norme che svuotano la competitività borsistica delle società quotate, mettendo a disposizione dei loro amministratori più robusti strumenti per neutralizzare eventuali offerte pubbliche d'acquisto dirette a scalzarli dalle loro poltrone.

Si tratta di una direzione di marcia seriamente nociva per la vitalità della Borsa perché - in un mercato che patti di sindacato e scatole cinesi rendono già fra i più ingessati del mondo - privilegia la difesa delle posizioni di potere dominanti a pesante scapito degli azionisti di minoranza e della generalità dei risparmiatori. Oltre tutto, in un momento nel quale la caduta delle quotazioni richiederebbe semmai di spalancare le porte all'arrivo di denaro fresco in grado di rianimare un listino boccheggiante.

Ed eccoci al punto cruciale. Aprire le braccia alla Libia e al tempo stesso alzare le barricate contro l'arrivo in Borsa di nuovi capitali, interni o esteri, è una contraddizione palese, la quale induce a ritenere che a Palazzo Chigi in un modo si predichi e in tutt'altro si razzoli. Ovvero a pensare che Silvio Berlusconi intenda procedere caso per caso, nascondendo dietro la foglia di fico del pragmatismo il vezzo più temibile da parte di chi governa: l'arbitrarietà, sciolta da ogni regola.

(12 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Subito un socio per Cai
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2008, 12:47:35 am
Massimo Riva

Subito un socio per Cai


Aerei dell'Alitalia allo scalo di FiumicinoDal 12 dicembre, con la stipula dell'atto di cessione, quel poco di buono che restava nella vecchia Alitalia è passato dalla mano pubblica a quella privata della cordata di Roberto Colaninno e soci. Non è che con questo, però, lo Stato e il potere politico siano usciti dalla gestione dei molti e pesanti problemi che la tormentata vicenda lascia aperti. Intanto, l'Erario continuerà a farsi carico di tutte le passività e di tutti gli oneri finanziari e previdenziali che il governo Berlusconi ha deciso di addossare alla generalità dei contribuenti per spianare la strada al decollo dell'operazione Cai. Un fardello non lieve perché stimabile vicino ai tre miliardi di euro. Cifra che da sola grida vendetta al cielo al solo pensiero che, nell'aprile scorso, è stata fatta cadere l'offerta con la quale Air France si dichiarava disposta a prendersi tutte le passività di Alitalia e a versare, per giunta, un miliardo tondo tondo al Tesoro.

Già simile precedente rende offensivo per l'intelligenza degli italiani che il presidente del Consiglio abbia voluto organizzare un pranzo ufficiale per conferire agli azionisti della cordata Cai la benemerenza di salvatori della patria. Un'iniziativa davvero pessima anche per il suo intento manipolatorio della realtà dei fatti: se mai c'è qualcuno che merita in materia l'appellativo di patriota, questo sventurato altri non è che il solito Pantalone, dalle cui tasche usciranno i tre miliardi necessari per far stare in piedi il sacco confezionato da Silvio Berlusconi.

Ma ancora oggi, non pago di tanta dissipazione di pubblico denaro, il premier insiste nel voler fare il 'deus ex machina' anche per il futuro della nuova Alitalia. Si sa che quest'ultima ha in corso trattative per aprire le porte del proprio capitale o ad Air France o a Lufthansa. Scelta obbligata per reggere nella dura competizione internazionale dove la rapida caduta dei margini operativi sta provocando una tumultuosa rincorsa alle fusioni societarie al termine della quale si avrà una concentrazione del mercato sotto il controllo di pochi grandi vettori aerei. Ed ecco, in questo marasma, di nuovo Berlusconi rimettere mani e piedi nel piatto: a suo avviso, infatti, Colaninno dovrebbe limitarsi a stringere accordi commerciali con partner stranieri e non offrire loro i poteri connessi alla posizione di azionista.


Evidentemente il Cavaliere si rende conto che l'arrivo di un socio estero, si tratti di Air France (soluzione più probabile) o di Lufthansa, non può che preludere al progressivo passaggio della nuova Alitalia sotto la piena gestione di chi - a differenza di Colaninno e soci - è un po' meglio attrezzato nel business del trasporto aereo. E perciò rema contro anche questa scelta inevitabile perché essa metterebbe a nudo tutta la fragilità della soluzione 'patriottica' da lui voluta e promossa contro ogni logica economica e finanziaria. Incurante del fatto che, in tempi di grandi fusioni fra vettori aerei in tutto il mondo, una nuova Alitalia in solitario finirebbe presto per rimanere uno straccio di bandiera, ma non più una compagnia. Con ulteriori e pesanti conseguenze per il portafoglio dei contribuenti.

(18 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Brindano solo gli evasori
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2008, 10:03:08 am
Massimo Riva.


Brindano solo gli evasori


Il ministro dell'Economia Giulio TremontiAlle soglie di un 2009 che s'annuncia come uno dei peggiori anni dell'ultimo mezzo secolo, Silvio Berlusconi insiste nel suo ottimismo di facciata. "Presto", si è addirittura spinto ad annunciare, "splenderà il sole". Su che cosa riposi questa incrollabile fiducia del presidente del Consiglio è un mistero. Lo scenario internazionale resta dominato da un'incertezza plumbea: dagli Stati Uniti non giunge alcun segnale di rapida fuoriuscita da una crisi finanziaria che ora sta mettendo in ginocchio anche i giganti dell'industria, le grandi economie emergenti (Cina, India, Brasile.) stanno vistosamente rallentando il passo, mentre in Europa si rischia di scivolare pericolosamente verso una strategia del ciascuno per sé e nessuno per tutti. Quanto all'orizzonte domestico, consumi, investimenti e occupazione sono in netta caduta tanto che la più prudente delle stime (Confindustria) prevede la perdita di circa 600 mila posti di lavoro nel prossimo anno.

Ma da che parte immagina che possa spuntare presto un sole splendente? Berlusconi questo non lo dice, né lo fa capire. Dagli atti del suo governo si può arguire, però, che la sua reticenza non nasconda un vuoto di strategia, ma qualcosa di inconfessabile: una spudorata scommessa sulla ripresa dell'economia sommersa. Un primo indizio al riguardo risale a una delle scelte subito compiute dal ministro Tremonti con la cancellazione delle norme, introdotte dal governo Prodi, per scoraggiare i pagamenti in nero con drastiche limitazioni sugli assegni trasferibili e sui movimenti in denaro liquido. Con la revoca di tali vincoli si è lanciato un preciso messaggio al mondo dell'evasione fiscale: niente paura, si torna a fare il proprio comodo.

Un secondo indizio è venuto poi con il decreto che ha fissato margini più stringenti per le agevolazioni fiscali sulle opere di risparmio energetico. È vero che con questa misura l'Erario rinunciava a prelievi importanti, ma è altrettanto vero che la grande massa di attività messe in moto dagli sgravi d'imposta ha costretto una non piccola parte del popolo delle partite Iva (idraulici, elettricisti, piccoli e medi artigiani dell'edilizia) a far venire alla luce imponibili fiscali che in passato finivano regolarmente imboscati con tanti saluti all'Erario. Una vecchia via di fuga verso il sommerso è stata così riaperta.

Infine, l'unica mossa cui il governo si sta rassegnando per arginare la valanga di disoccupazione incombente è il rifinanziamento della cassa integrazione. La decisione, s'intende, risulta quanto mai necessaria e opportuna alla luce delle previsioni correnti sulla perdita temporanea o permanente di posti di lavoro. Ma è un fatto che, tra i suoi effetti collaterali, essa avrà anche quello di aiutare la formazione di un esercito di manodopera particolarmente disponibile a svolgere lavoro in nero.

Cosicché, se un po' di sole tornerà a scaldare l'economia, il fenomeno riguarderà soltanto quella parte di società che già in passato ha prosperato con l'evasione fiscale, trovando sempre il suo difensore più sfrontato proprio in Silvio Berlusconi. Per il quale, par di capire, il 2009 non sarà un anno nero, ma l'anno del nero.

(24 dicembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Oroscopo Tremonti
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2009, 10:36:28 am
Massimo Riva


Oroscopo Tremonti


Si deve sperare che il 2009 possa portare quelle riforme nella vita dei mercati che la drammatica crisi del 2008 ha dimostrato indispensabili, ma senza che finora se ne siano visti neppure i primi passi. Il nodo cruciale è e rimane quello di mettere in campo nuove regole che possano scongiurare il ripetersi dei guasti provocati da un'allegra finanza lasciata correre a briglia sciolta tanto dalle autorità di vigilanza quanto dai poteri politici, sovente indifferenti ma talvolta pure conniventi.

Occorre, però, annotare che oggi in Italia si dura davvero fatica a nutrire fiducia in una svolta normativa rassicurante per i risparmiatori. Non aiutano a sperare bene alcune scelte politiche assunte in chiusura d'anno e, ancora meno, l'incresciosa polemica sollevata dal ministro dell'Economia contro il governatore della Banca d'Italia. Già in termini di elementare galateo istituzionale è imbarazzante che Giulio Tremonti si lasci andare a una raffica di battute goliardiche contro Mario Draghi, per giunta sul palcoscenico internazionale di un vertice Eurofin. Ma, quanto al merito, peggio ancora: perché le incaute parole del ministro offrono il fianco alla sgradevole impressione che Tremonti alzi questo polverone per scaricare altrove il barile delle sue responsabilità.

Infatti, se per Tremonti sarà 'demenziale stare ad ascoltare le lezioni di chi non ha capito nulla', come ha detto riferendosi al lavoro del Financial Stability Forum, presieduto da Draghi, quel che risulta ancor più demenziale per tutti è prestare ascolto alle parole di un ministro dell'Economia che vanta in materia precedenti assai poco encomiabili. Un caso lontano: Giulio Tremonti è il ministro che, alla vigilia di due rovinosi crac come Cirio e Parmalat, non si è opposto alla riduzione a bagatella penale di un reato economico fra i più insidiosi come il falso in bilancio. Un caso vicino: lo stesso Tremonti è il ministro che, con la tempesta bancaria di quest'estate all'orizzonte, è partito lancia in resta a soprattassare i profitti di quegli stessi istituti a soccorso dei quali si trova ora costretto a mettere a disposizioni cifre enormemente maggiori di quelle incassate con le maggiori imposte.
 

Sempre Tremonti poi è il ministro che ha dettato nuove regole sulle offerte pubbliche d'acquisto, il cui fine è ingessare il potere dei gruppi di comando delle società a scapito di tutti gli altri azionisti. E ancora Tremonti è colui che ha appena deciso di far slittare di altri sei mesi l'introduzione di un forte strumento di difesa dei piccoli risparmiatori, quale la 'class action'.
Per spiegare le sue sortite polemiche il ministro dell'Economia ha detto che la crisi attuale 'è il riflesso del fallimento dei regolatori' e quindi che 'le regole non possono essere rifatte dai regolatori: spetta ai politici'. La tesi sarebbe anche impeccabile, se non fosse che poi i politici cui 'spetta' agiscono come Giulio Tremonti. Né serve che quest'ultimo si vanti di essere stato fra i pochi a prevedere il disastro incombente nei libri che ha scritto. Quand'anche così fosse, da come si muove nel ruolo di ministro può solo far sorgere il dubbio di non averli letti.

(31 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Scontro in via Nazionale
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 04:49:01 pm
Massimo Riva.


Scontro in via Nazionale


Nell'inerzia delle parti in causa è silenziosamente trascorso il termine del 31 dicembre 2008, entro il quale la proprietà della Banca d'Italia avrebbe dovuto passare allo Stato ovvero a enti pubblici dal medesimo controllati. Così stabilisce una legge datata 28 dicembre 2005. Non è la prima volta che qualche scadenza importante viene ignorata: le vicende politiche del paese sono fitte di impegni disattesi, soprattutto quando tali comportamenti non implichino alcuna forma di sanzione. Del resto l'Italia - fertile culla di azzeccagarbugli - è forse l'unico Stato al mondo nel quale si è escogitato che un termine di legge non debba essere per definizione perentorio, ma possa essere considerato meramente ordinatorio o indicativo: vale a dire, evanescente.

Rischia così di trascinarsi ancora per chissà quanto tempo una questione di tenore istituzionale non trascurabile, tanto più alla luce delle pesanti disavventure che hanno scosso di recente il sistema bancario domestico sull'onda della grave crisi finanziaria internazionale. Proprio tali eventi hanno reso - per unanime giudizio - indispensabile un rafforzamento del ruolo di vigilanza che l'istituto centrale esercita sulla stabilità del mercato del credito e, in particolare, sulla gestione dei singoli istituti. Compito diventato ormai il più rilevante fra quelli rimasti a Via Nazionale dopo il passaggio alla Banca europea di Francoforte del potere di determinare il costo del denaro.

Il punto cruciale è che proprio un esercizio rigoroso e penetrante dei controlli di Banca d'Italia sugli istituti di credito rende ancora più ineludibile il nodo del conflitto d'interessi in cui opera Via Nazionale, essendo il suo capitale posseduto da una nutrita schiera di quelle stesse banche che sono oggetto della vigilanza. Ciò configura una non sostenibile commistione di ruoli fra controllore e controllati. Si obietta che, in realtà, questo intreccio pone un problema più teorico che pratico perché la Banca d'Italia gode di un'autorevolezza non condizionabile dagli istituti vigilati, siano o non siano essi suoi azionisti. L'infelice esperienza del governatorato di Antonio Fazio insegna che così non è o non è sempre stato.

In ogni caso, l'esistenza di un conflitto d'interessi di tal fatta non può essere esorcizzata solo fidando nelle qualità soggettive del governatore e della sua squadra. Ecco perché, molto opportunamente, la legge del dicembre 2005 aveva imposto che il nodo fosse tagliato una volta per tutte, entro tre anni. Termine più che congruo per venire a capo del problema più intricato in materia: quello della valutazione del patrimonio di Via Nazionale, che le banche azioniste hanno registrato nei loro bilanci con stime fortemente divaricate. Ma i tre anni sono trascorsi invano e ora la questione si sta confusamente sovrapponendo a quella dell'emergenza finanziaria in cui versa il mondo bancario. Intanto il ministro Tremonti, invece di chiudere questa partita, si diletta a lanciare frecciate goliardiche contro il governatore Draghi. Evidentemente, in età berlusconiana, occuparsi di conflitti d'interessi è parlare di corda in casa dell'impiccato.

(09 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Capitalismo medievale
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2009, 11:40:32 pm
Massimo Riva.


Capitalismo medievale


Il sistema finanziario italiano si regge su una struttura di tipo medievale al vertice della quale un ristretto gruppo di grandi feudatari esercita il proprio dominio attraverso una lottizzazione delle poltrone e delle partecipazioni azionarie così ben congegnata da svuotare di ogni significato la parola 'mercato'. Basti dire che il 60 per cento delle società quotate ha nel proprio capitale azionisti che sono al tempo stesso diretti concorrenti. Mentre, se si considerano i componenti dei consigli di amministrazione, in quasi il 90 per cento dei casi si verificano cumuli di incarichi in società concorrenti. Queste le cifre riassuntive dell'indagine appena realizzata in proposito dall'Autorità Antitrust.

Purtroppo, a ben vedere, l'organismo presieduto da Antonio Catricalà ha fatto un po' la classica scoperta dell'acqua calda. Sarà anche meritoria e utile l'opera di accurata rilevazione statistica sugli intrecci azionari e personali del mondo finanziario domestico, ma in fondo essa non fa che confermare ciò che anche la semplice lettura dei giornali quotidiani certifica ormai da decenni. Ovvero che quello italiano è una sorta di capitalismo tribale, fondato sulla diffusione pervasiva di quel conflitto d'interessi che rappresenta il più insidioso ostacolo alla realizzazione di un'economia di mercato effettivamente aperta alla libera concorrenza. E ciò senza che la suddetta Autorità Antitrust e meno che mai il potere politico abbiano fatto qualcosa di buono e di utile per il superamento di questa situazione paleocapitalistica.

Anche stavolta, del resto, lo stesso Catricalà non sembra intenzionato a suscitare grandi speranze di novità. A suo avviso, infatti, la strada maestra per uscire da questi eccessi di concentrazione di legami personali e azionari dovrebbe essere quella di un'autoregolamentazione da parte degli stessi soggetti implicati. Insomma, ci si dovrebbe affidare a una sorta di ravvedimento operoso compiuto proprio da coloro che hanno fatto del conflitto d'interessi la propria ragione di vita o comunque l'asse portante dei loro business.A che scopo Catricalà snocciola le scandalose cifre di cui s'è detto se poi egli stesso si affida alla buona volontà di chi finora si è manifestamente infischiato di rientrare in decenti regole mercantili? È un po' come se un ministro dell'Interno sostenesse che la lotta a Cosa Nostra deve essere affidata al rinsavimento dei boss che ne compongono la cupola. Si obietterà che i poteri dell'Antitrust sono limitati dalla legge e che una vera riforma in materia può venire solo da scelte legislative di Parlamento e governo. Scelte oggi poco probabili alla luce del fatto che proprio l'attuale presidente del Consiglio è la personificazione di un gigantesco e irrisolto conflitto d'interessi.

Tutto vero, ma allora il rischio è che le denunce dell'Antitrust assomiglino al 'latinorum' di Don Abbondio per ripararsi dal Don Rodrigo di turno. Come forse è già accaduto con l'appoggio offerto alle misure governative mirate a rendere ancora più blindate le cupole di potere dominanti chiudendo anche gli ultimi spazi di contendibilità delle imprese. Dire una cosa e farne un'altra non sta bene.

(16 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. La politica dello struzzo
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2009, 04:27:42 pm
Massimo Riva

La politica dello struzzo


Secondo la Banca d'Italia la recessione sarà severa quest'anno con un calo del Pil nell'ordine del due per cento.
Manifestamente infastidito dall'annuncio, che contraddice i puerili sforzi del governo per minimizzare la portata della crisi in atto, Giulio Tremonti non ha saputo nascondere il suo imbarazzo, liquidando la previsione con il termine irridente di 'congetture'. Ed ha sovraccaricato il suo sarcasmo soggiungendo che anche una discesa del Pil ai livelli del 2005 non sarebbe comunque 'un ritorno al Medioevo'. Per disdetta del ministro dell'Economia, nel volgere di pochi giorni, la medesima allarmante valutazione di via Nazionale è stata fatta propria anche dalla Commissione europea, che ha reso pubblico il quadro delle sue stime aggiornate sull'andamento congiunturale delle economie continentali: il Pil europeo scenderà nel 2009 dell'1,8 per cento, mentre quello italiano calerà - appunto - del 2 tondo tondo.

Per carità, in materia di previsioni economiche, tanto più in tempi turbolenti come gli attuali, l'errore è sempre in agguato. Basti ricordare che, soltanto nello scorso novembre, proprio a Bruxelles si stimava che il Pil italiano di quest'anno si sarebbe limitato a segnare una crescita zero. E però se il commissario Joaquin Almunia, ad appena un paio di mesi di distanza, ritiene di dover correggere in termini così sensibilmente negativi le sue cifre, ciò significa che da allora ad oggi la situazione generale ha dato chiare indicazioni di peggioramento. Il fatto che Tremonti non intenda prenderne atto lascia sconcertati ed aggiunge un motivo di allarme in più in un orizzonte già scuro di suo.

L'impressione, infatti, è che il governo si rifiuti di riconoscere la dura realtà incombente non tanto perché non condivida le previsioni negative di Bankitalia e della Ue, ma perché non sa come misurarsi con le conseguenze implicite in un calo del Pil di due punti percentuali. Conseguenze che il rapporto di Almunia, viceversa, snocciola una dopo l'altra senza reticenze. La principale è che si avrà un balzo del tasso di disoccupazione dal 6,7 per cento del 2008 all'8,2 di quest'anno. Certo, anche in questo caso non sarà un ritorno al Medioevo e alla servitù della gleba, ma quel punto e mezzo in più basta a far considerare ottimistica perfino la perdita di 600mila posti di lavoro in corso d'anno stimata da Confindustria.

Un'altra seria conseguenza della caduta del Pil si avrà poi sul versante dei conti dello Stato. In particolare per quanto riguarda il deficit, in corsa verso il 4 per cento e il debito pubblico, che a Bruxelles vedono in forte impennata fino a sfiorare di nuovo quota 110 per cento, così annullando gli sforzi di contenimento compiuti negli ultimi anni e le promesse di costante discesa fin sotto il fatidico livello del cento per cento fatte insieme da Silvio Berlusconi e da Tremonti. Che costoro resistano ad ammettere una realtà che ne smentisce l'ottimismo di facciata non ha più senso. Il giorno in cui i due autorevoli struzzi si decideranno a tirare fuori la testa dalla sabbia, infatti, potrebbe essere troppo tardi per evitare al paese una gelata ben peggiore delle più nere previsioni.

(23 gennaio 2009)
da epresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Fiat: un film già visto?
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 12:48:34 pm
Massimo Riva


Fiat: un film già visto?


Dice il ministro Calderoli che nuovi aiuti pubblici alla Fiat provocherebbero una rivolta popolare. Il linguaggio leghista è spesso iperbolico, ma talvolta sa raccogliere o eccitare sentimenti diffusi. È probabile, in effetti, che numerosi contribuenti siano piuttosto stufi del fatto che, ogni due-tre lustri, il grande gruppo industriale torni a battere cassa per ottenere dallo Stato sostegni, diretti o indiretti, alle sue difficoltà economiche. È accaduto troppe volte perché questo non lasci un segno negativo nella memoria collettiva.

C'è da chiedersi, tuttavia, se anche questa specifica volta si tratti di una replica di un abusato copione. A ben vedere così non è. Oggi, infatti, non ci si trova di fronte a una crisi solitaria della Fiat. In realtà, ad essere nei guai è l'industria automobilistica dell'intero pianeta: dagli Stati Uniti al Giappone, passando per l'Europa. Guai che nascono dal sovrapporsi di due fattori entrambi pesanti: l'uno causato dalla precipitosa caduta degli acquisti dovuta alla tempesta economica generale, l'altro derivante dalla necessità di una svolta tecnologica profonda in direzione di vetture a basso tenore sia di consumi sia di emissioni inquinanti.

In altre parole, la posta in gioco oggi non è tanto la sopravvivenza di una singola impresa, ma il futuro dell'industria automobilistica in quanto tale. Quelle aziende che, con gli aiuti dei rispettivi governi, riusciranno a superare la dura sfida del momento metteranno i loro paesi nella condizione di potere ancora contare su un settore industriale importante in termini di occupazione e di saldo della bilancia con l'estero.

Certo, quando si parla di industria automobilistica, in Italia si intende Fiat e soltanto Fiat per ben note ragioni. Ma questa coincidenza fra una singola azienda e un intero settore non sposta granché i termini del problema. Quel che anche i nostri governanti sono chiamati a decidere è se vogliono oppure no che l'economia italiana del futuro possa continuare ad avere il contributo (oggi attorno al 12 per cento del Pil) di un comparto produttivo che finora è stato uno dei principali volani dell'intero sistema. È del tutto lecito, naturalmente, che si voglia abbandonare questa partita per puntare su altri obiettivi di sviluppo industriale. Ma deve essere chiaro che questo è ora il nocciolo della questione e quindi che non si tratta di fare regali agli eredi Agnelli o al signor Marchionne, il cui ruolo potrebbe essere passeggero.

Ben consci della portata del problema, altri paesi europei (la Germania per 2,5 miliardi di euro, la Francia addirittura per nove) hanno già deciso robuste misure di sostegno, che vanno dagli incentivi al rinnovo del parco auto nazionale a finanziamenti per la ricerca. Negli Stati Uniti è stato predisposto un piano di aiuti di oltre 25 miliardi di dollari per i tre colossi di Detroit. In Italia, viceversa, si continua a polemizzare attorno a un intervento che resta comunque cifrato nell'ordine di qualche centinaio di milioni. La classica mezza misura per aggirare il problema senza assumersi le responsabilità di una scelta netta. La lezione della vecchia Alitalia non ha proprio insegnato nulla.

(06 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il G7 della doppiezza
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2009, 03:26:38 pm
Massimo Riva


Il G7 della doppiezza


Da mesi le autorità politiche e monetarie dei Sette si dimostrano impotenti di fronte alla crisi dei mercati finanziari. Altro che rivincita dei poteri pubblici sugli eccessi del capitalismo  Tremonti e Draghi al vertice G7/G8 di RomaBisognava essere ottimisti a oltranza per attendersi qualcosa di risolutivo dal conclave romano dei ministri economici dei grandi paesi industrializzati. Ormai sono parecchi mesi che autorità politiche e monetarie dei Sette offrono al mondo un penoso spettacolo di impotenza e subalternità di fronte alla crisi che sta scuotendo i mercati finanziari. Altro che rivincita dei poteri pubblici su un capitalismo prostrato dagli eccessi di una deregulation selvaggia. Quel che si vede, mese dopo mese, è soltanto una vana e affannosa rincorsa dei governi a tamponare le enormi falle aperte da speculatori irresponsabili, ma senza che si possa scorgere neppure l'avvisaglia di più stringenti regole per riportare un po' di ordine e di pulizia negli scambi internazionali.

Quando si arriva al punto cruciale del, chiamiamolo così, 'nuovo codice finanziario globale', ministri e governatori delle banche centrali non sanno fare altro che balbettare ipocrite rassicurazioni e ipotesi astratte. Com'è puntualmente accaduto anche a Roma dove, come ha detto con irritante giubilo il ministro Tremonti, si è raggiunto il formidabile risultato di dichiararsi tutti d'accordo sul fatto che occorre fare qualcosa al più presto, ma che cosa si vedrà. Anzi, peggio ancora, perché l'unico impegno che è stato reso pubblico con sconcertante solennità è quello contro ogni ricorso a pratiche protezionistiche. Precisamente l'opposto di quanto alcuni di quegli stessi ministri - basti pensare ai casi clamorosi di Francia e Stati Uniti - avevano fatto fino al giorno prima di incontrarsi a Roma e continuano a fare ora una volta rientrati in patria.

In questo scenario di arrogante doppiezza davvero si stenta a comprendere dove il nostro ministro dell'Economia trovi motivi per fare la ruota del tacchino a celebrazione del grande successo della sua guida del G7. Ma come si può? Il governo di Parigi ha varato un maxi-piano di aiuti all'industria automobilistica strettamente condizionato al mantenimento dell'occupazione entro i confini nazionali. Nel frattempo il Congresso di Washington ha votato un progetto plurimiliardario di interventi fondato sulla priorità del 'buy american'. E un ilare Tremonti, rappresentante di un paese che è il classico vaso di coccio accanto a quelli di ferro, ci viene a raccontare che tutto sta andando per il meglio. Lo sberleffo dopo il danno è davvero troppo.


Adesso l'ultima favola è che a una svolta decisiva si arriverà nelle prossime settimane con il vertice di Londra del G20, dove accanto ai tradizionali Sette siederanno anche i rappresentanti di paesi venuti di recente e con prepotenza in primo piano, quali Cina, India, Russia, Brasile e così via. Magari, fosse vero s'intende. Il dramma è che, da qualunque parte si volga lo sguardo, non si riesce a cogliere il minimo sintomo di una reale volontà politica di mettere le briglie al cavallo imbizzarrito del capitalismo finanziario e ancor meno di temperare le spinte al protezionismo nell'economia reale. Certo, un giorno da questa crisi si uscirà: ma di questo passo - Tremonti dovrebbe saperlo - con i paesi forti resi più forti e i deboli ancora più deboli.

(20 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Europa a tre velocità
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2009, 12:26:05 am
Massimo Riva


Europa a tre velocità


La spaccatura fra Est e Ovest, che si è verificata al vertice dell'Unione europea, offre una lezione importante per il futuro della comunità continentale. Fin dalle origini, il dibattito sul processo di unificazione ha visto la continua dialettica fra due visioni contrapposte. Da un lato, coloro secondo i quali andava preferito il sentiero dell'unità politica attraverso successive rinunce dei poteri statali a favore di un'autorità sovranazionale con espliciti fini federativi. Dall'altro, i più pragmatici secondo i quali soltanto l'integrazione degli interessi economici avrebbe potuto creare le premesse necessarie per il salto in avanti verso la creazione di un'unione politica a tutti gli effetti.

Nei fatti è questa seconda opzione che ha prevalso: dapprima con la Comunità del carbone e dell'acciaio, poi con il mercato comune, infine con la più recente nascita dell'euro. Ma con un'eccezione significativa: la decisione, assunta pochi anni fa, di aprire le porte ai paesi dell'ex-blocco sovietico e ad altri minori portando a ben 27 i membri dell'Unione. Questa forzatura del passo politico ha subito fatto venire alla luce seri inconvenienti di governabilità del sistema, compromettendo finora anche il cammino verso il superiore obiettivo di un Trattato costituzionale che valga da pietra angolare degli agognati Stati Uniti d'Europa.

Avevano ed hanno, quindi, ragione i fautori della 'économie d'abord'? Sì. E proprio l'ultimo vertice a 27 di Bruxelles ne ha dato la riprova: non ci può essere una volontà politica unitaria quando gli interessi economici sono troppo divergenti. In altre parole, è vano immaginare di poter assumere decisioni comuni facendo finta di non vedere che quella a 27 non è un'Unione fra pari, ma un'Europa dentro la quale si ritrovano e s'intrecciano almeno tre differenti categorie di paesi.


Quelli senz'altro di serie A come Francia e Germania, che si tirano dietro il Benelux e forse (i guai di Londra oggi sono seri) il Regno Unito. Quelli di serie B che sono principalmente Italia e Spagna con a rischio retrocessione Austria e Portogallo. Infine c'è un'affollata serie C, che comprende ora non solo i paesi dell'Est (a eccezione della Slovenia) ma anche Stati pur appartenenti alla moneta unica, quali Irlanda e Grecia. La crisi finanziaria presente ha un po' rimescolato questa classifica, ma non poi troppo perché le differenze di capacità e di peso economici preesistevano agli scossoni della tempesta in atto. Tanto per fare un esempio, è ridicolo che a Roma si punti il dito contro l'aumento del debito in corso a Parigi o a Berlino perché in ogni caso Francia e Germania resteranno comunque lontanissime da quel rapporto 100 per cento con il Pil da cui l'Italia si sta di nuovo allontanando al rialzo.

In simile scenario la richiesta di un piano globale di salvataggio per i paesi dell'ex-blocco comunista era e rimane fuori dalla realtà economica e, quindi, anche politica.

La scelta di fare, viceversa, interventi caso per caso, paese per paese, non va intesa perciò come abbandono degli ideali unitari, ma va letta come rivalsa di quella realtà dei rapporti di forza economici che è da europeisti stolti ignorare.

(06 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il prefetto non fa credito
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 03:55:21 pm
Massimo Riva


Il prefetto non fa credito


Alcuni provvedimenti presi dal governo stanno offrendo spunti di straordinaria amenità da rendere meno amara la vita dei tanti italiani alle prese con la crisi peggiore dell’ultimo secolo  Forse non ha tutti i torti Silvio Berlusconi nel dire che la situazione in Italia è grave, ma non è poi così tragica. Alcuni provvedimenti presi dal suo governo, infatti, stanno offrendo tali spunti di straordinaria amenità da rendere, se non più dolce, almeno un poco meno amara la vita dei tanti italiani alle prese con la crisi peggiore dell?ultimo secolo. Per la sua irresistibile comicità spicca su tutti la brillante trovata di affidare alle prefetture la vigilanza sull?esercizio del credito a favore delle imprese minori.

Altrove, penso agli Stati Uniti, si sta fieramente dibattendo sull?u tilità ovvero sull?inopportunità di nazionalizzare le banche in difficoltà. I fautori dell?economia di mercato sono così contrari a una tale ipotesi da preferire il collasso del sistema creditizio. Prospettiva catastrofica che aiuta i sostenitori dell?intervento statale a tirare diritti sulla loro strada, infischiandosene di chi li accusa di cedimento occulto al bolscevismo. In Italia, viceversa, la pragmaticità del Cavaliere - che da sempre ama definirsi ?uomo del fare? - ha saltato a piè pari questa controversia ideologica da perdigiorno e ha già trovato la soluzione del problema: lo Stato non diventerà azionista, ma sorveglierà l?attività quotidiana delle banche attraverso i prefetti. Magnifico! Un?idea del genere non sarebbe venuta in mente neppure al dirigista Benito Mussolini e al suo fido Achille Starace.

Magari quest?ultimo avrebbe obbligato i banchieri a mettersi in camicia nera e a fare qualche salto nel cerchio di fuoco, ma neppure un ministro della Repubblica di Salò sarebbe stato sfiorato dal proposito di far convocare, per esempio, Alessandro Profumo o Corrado Passera da un prefetto per contestare loro le scelte di finanziamento delle rispettive banche. Tanto per divertirci proviamo a immaginare come potrebbe funzionare il meccanismo inventato dal duo Berlusconi-Tremonti, facendo il caso di un signor Caio, piccolo imprenditore o artigiano, che si veda respinta dalla banca la richiesta di un credito per la propria azienda. Indispettito l?ottimo Caio fa un esposto alla prefettura di competenza. La quale convoca il direttore della filiale incriminata per chiedergli conto del suo rifiuto.


Con ogni probabilità il malcapitato funzionario farà presente che il fido non è stato accordato perché il richiedente non offre sufficienti garanzie vuoi economiche vuoi di affidabilità dell?i nvestimento. A questo punto il prefetto che cosa può fare? Prima ipotesi: può segnalare il caso al suo diretto superiore, il ministro Maroni che gira il dossier al collega Tremonti, il quale si rivolge alla Banca d?Italia perché istruisca una pratica sulla vicenda. Tempi della bizzarra trafila? Biblici. E poi? Seconda ipotesi: il prefetto o il ministro fanno sì che la banca conceda il finanziamento. Tutto bene, se il debitore fa fronte ai suoi impegni. Ma se non lo fa? Chi risarcisce la banca? Il prefetto? Il ministero degli Interni? Ovvero il dicastero dell?Economia? Gira e rigira, chi rischia di rimetterci sarebbe, come al solito, il povero e incolpevole contribuente. Sarà, come dice Berlusconi, che la situazione non è tragica. Di sicuro non è seria.

(13 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Disoccupato e disfattista
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2009, 11:54:33 am
Massimo Riva

Disoccupato e disfattista


L'incubo della disoccupazione inizia a far paura. Secondo recenti dati diffusi dall'Istat circa 370 mila lavoratori hanno perso il posto nei primi due mesi del 2009  I costi sociali della crisi cominciano a diventare vistosamente pesanti. Già il boom dei ricorsi alla cassa integrazione, cresciuti in poche settimane di oltre il 500 per cento, ha dato un forte segnale di allarme.

Ma un record negativo ancora più preoccupante si è registrato sul fronte della disoccupazione vera e propria: secondo i dati Inps, nel solo bimestre gennaio-febbraio, più di 370 mila lavoratori hanno perso il posto. Le cifre di marzo non sono ancora disponibili, ma si sa che le code agli sportelli dell'istituto di previdenza non si stanno accorciando. Di questo passo rischia di risultare ottimistica perfino la stima di Confindustria, secondo la quale, nel corso dell'anno, oltre 600 mila italiani dovrebbero essere licenziati dalle rispettive aziende.

Ciò significa che il Paese si trova dinanzi a un'emergenza economico-sociale di straordinaria gravità: altro che far fatica a superare l'ultima settimana del mese, per milioni di italiani i problemi cominciano dalla prima. Nessuno pensa, naturalmente, che una simile ecatombe di posti di lavoro possa essere imputata al governo in carica: a tutti sono evidenti le origini, più esterne che interne, di una crisi di dimensioni planetarie. Quel che lascia, però, sbigottiti è che tanto il presidente del Consiglio quanto i suoi ministri non mostrano di avere la consapevolezza necessaria ad affrontare una situazione così drammatica.

L'unica linea seguita dal governo Berlusconi sembra essere quella di negare o comunque nascondere la realtà. A chi gli chiedeva un'opinione sui 370 mila disoccupati in più di gennaio-febbraio, il ministro Tremonti ha risposto: "Lei fa domande di carattere ansiogeno, le faccia a casa sua, non con me". Mentre il suo collega Sacconi ha così commentato: "La dimensione della crisi può essere accentuata dal disfattismo di coloro che esasperano le previsioni e così incoraggiano la propensione al rattrappimento dei consumi, della produzione e dell'occupazione".


Insomma, l'Italia potrà uscire dalla crisi, come Berlusconi non si stanca di predicare ogni giorno, soltanto quando giornali e televisioni smetteranno di parlarne ovvero di rendere pubblici dati 'ansiogeni' o 'disfattisti'. Aggettivo quest'ultimo che rievoca, fra l'altro, una stagione politica fra le meno felici della storia patria.

Il bello è che il premier e i suoi ministri si dicono pure convinti che questo rifiuto a guardare in faccia la realtà sia la strada migliore per spronare gli italiani a ritrovare la fiducia perduta, senza rendersi conto che il loro ottimismo stereotipato suona come un insulto crudele per milioni di famiglie in serie difficoltà. Nella tragedia sociale incombente si inserisce così un aspetto tristemente comico che - come si è appena visto nel caso della vigilanza prefettizia sulle banche - sta diventando ormai la chiave prevalente nei provvedimenti del governo.

Aspettiamoci, a questo punto, che fra i prossimi decreti-legge ne salti fuori anche uno che obblighi ad appendere in ogni fabbrica od ufficio un cartello con la scritta: "Qui non si parla di economia, qui si lavora". Firmato: Berlusconi. Chi non avrà perso il posto, potrà farsi almeno un'amara risata.

(20 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Capitalismo mafioso
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2009, 10:00:59 am
Massimo Riva.

Capitalismo mafioso


Da anni si discute sulla necessità di rendere Piazza Affari un vero mercato azionario.

Oggi, purtroppo, a causa della crisi si rischia di andare in una direzione completamente opposta.

A questo punto, si abbia almeno il pudore di non parlare più di 'capitalismo relazionale'. Basta, insomma, con quel dolce (e ipocrita) eufemismo con il quale si è soliti definire quella particolare architettura del potere economico che - ben riparata dietro patti di sindacato, scatole cinesi, incroci azionari e comparaggi di poltrone - consente a un ristretto numero di gruppi e di persone di fare il bello e il cattivo tempo sui mercati, infischiandosene tanto dei sani principi della libera concorrenza quanto del proliferare di macroscopici conflitti d'interessi.

A giudicare, infatti, da alcune novità che il Parlamento si accinge a introdurre appare ormai inarrestabile lo scivolamento dei maggiori gruppi di comando azionario verso la trasformazione in blindate cupole di potere, ai cui membri dovrebbe spettare il titolo più confacente di autentici boss di un capitalismo non altrimenti qualificabile se non con l'aggettivo di 'mafioso'.

Sono decenni che in Italia si blatera sulla necessità di rendere Piazza Affari un vero mercato azionario, ripulendolo da tutti quei marchingegni che i potenti del listino si sono inventati a protezione dei loro particolari interessi. Ma ecco che, con la farisaica giustificazione della dura crisi in atto, ci si sta incamminando sulla strada opposta. Non paga di avere già modificato le regole sulle offerte d'acquisto per rendere meno scalabili le aziende, ora la maggioranza berlusconiana si accinge a offrire altre armi di difesa ai gruppi di comando dominanti. Una prima proposta intende portare dal 10 al 20 per cento il limite di azioni proprie acquistabili da ogni società quotata.

Una seconda punta a far salire dal 3 al 5 per cento del capitale il pacco di azioni che si possono acquistare ogni anno per passare dal controllo di fatto a quello di diritto della singola impresa. Una terza mira ad abbassare dal due all'uno per cento la soglia dell'obbligo di segnalazione alla Consob da parte di chi rastrelli azioni.

Le tre novità hanno il senso di un'operazione politica inequivocabile: impedire che i bassi corsi correnti del listino consentano, a chi ne abbia il denaro e la voglia necessari, di dare la scalata a qualche azienda, mettendo a repentaglio gli equilibri di potere fra le cupole dominanti. Le Opa ostili, che sono il sale del mercato, vengono così bandite dall'Italia. Il tragico è che questa iniziativa parlamentare raccoglie nella sostanza suggerimenti avanzati niente meno che dal presidente della Consob, Lamberto Cardia.

Siamo, dunque, all'insolente paradosso per cui la tutela dell'attuale capitalismo antimercantile viene assunta dalla pubblica autorità che avrebbe come compito di vigilare contro ogni azione diretta a colpire la libera e leale concorrenza, in particolare promuovendo proprio la contendibilità delle aziende.

Ma perché stupirsi di tanto palesi contraddizioni? Non una delle tante voci sedicenti liberali, così pronte a lanciare anatemi contro le invasioni di campo dello Stato negli affari privati, ha speso finora una parola per censurare questo autentico sfregio al libero mercato. Un silenzio omertoso che fa coerente rima con capitalismo mafioso.

(26 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Golden share da ridere
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2009, 10:04:47 am
Massimo Riva


Golden share da ridere


La condanna dei giudici comunitari ha messo a nudo la genericità con cui la legge permette al governo di esercitare un diritto di veto contro l'ingresso di azionisti non graditi  L'amministratore delegato dell'Eni Paolo ScaroniPrevedibile e prevista la condanna della golden share all'italiana da parte della Corte di giustizia europea è arrivata magari in ritardo e però inesorabile. La sentenza dei giudici comunitari va dritta al punto cruciale: l'imprecisione e la genericità con cui la legge indica i criteri in forza dei quali il governo di Roma si riserva di esercitare un diritto di veto contro l'ingresso di azionisti politicamente non graditi in alcune grandi aziende. Ovvero le semiprivatizzate Enel, Eni e Finmeccanica, nonché - e qui siamo all'abuso dell'assurdo - la Telecom, nel cui azionariato non vi è più alcun soggetto pubblico.

Viene così in piena luce l'aspetto deteriore della furbata legislativa tentata con il decreto del 2004, che puntava a lasciare mani libere al potere politico per decidere il destino azionario delle aziende a sua capricciosa discrezione. Ciò che l'Unione europea manda a dire con questa sentenza non è che l'Italia debba rinunciare a difendersi da qualunque assalto a imprese di importanza strategica per l'economia nazionale (come quelle del settore energetico o militare), ma che l'esercizio di questa tutela deve essere fondato su regole ben definite, trasparenti, al riparo da ogni tentazione di arbitrarietà occasionale.

In parole più semplici, abbiamo fatto in Europa l'ennesima figura da magliari. E abbiamo proprio voluto farla a tutti i costi perché, nel corso del giudizio davanti alla Corte, pur di difendere la piena licenza di decisione del patrio governo ci si è nascosti dietro argomentazioni paradossali quali il pericolo che Eni o Enel potessero essere scalate da azionisti legati a organizzazioni terroristiche. Ma i giudici europei non si sono lasciati prendere per scemi e così hanno imposto che l'Italia si liberi di questa golden share 'de noantri'.

Sarà ora da vedere come si muoverà il governo Berlusconi che, in tema di libertà di mercato azionario, appare impegnato in opposta direzione al dichiarato scopo di fornire alle cupole dominanti del potere economico tutti i sostegni (legislativi e non) utili a impedire ogni scalata dall'esterno. In particolare, un test interessante sarà quello della golden share in Telecom, dove lo Stato azionista non c'è più. Intanto c'è da sperare che si abbia almeno il pudore di non rispolverare l'alibi patriottico della tutela degli italiani dallo spionaggio di terzi malintenzionati. Dopo il caso Tavaroli un simile argomento suonerebbe come una grottesca presa per il naso.

Poi c'è da seguire come si atteggerà ora il governo verso gli spagnoli di Telefonica, i quali mal sopportano la convivenza con soci italiani più gelosi del proprio potere artificiale che disposti a difenderlo con denaro sonante. Alla botta della Corte europea il ministro Scajola ha replicato dicendo che Roma verificherà se in materia nell'Unione c'è parità di trattamento per tutti. Uscita improvvida soprattutto quanto ai rapporti fra Italia e Spagna. Enel, infatti, si è appena preso il controllo del gigante iberico Endesa senza che il governo di Madrid alzasse barricate. Per i magliari di Roma sarà dura tenere Telefonica alla larga da Telecom usando espedienti al posto dei soldi.

(03 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Paradiso fiscale Italia
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2009, 10:51:02 am
Massimo Riva


Paradiso fiscale Italia


Il G20 ha deciso di mettere al bando i cosiddetti paradisi fiscali. Una scelta applaudita anche da Silvio Berlusconi e dal ministro Giulio Tremonti, entrambi esperti in materia  Giulio Tremonti a CernobbioI vertici internazionali hanno un curioso effetto di droga euforizzante sui partecipanti italiani. Fra Londra e Strasburgo Silvio Berlusconi ne ha offerto prove ripetute e tutte molto imbarazzanti per l'immagine del nostro paese nel mondo. Ma, seppure con il suo stile più compassato, anche il ministro Giulio Tremonti ha recitato una parte ricca di spunti grotteschi. In particolare, quando ha celebrato con toni compiaciuti (quasi fosse un suo merito personale) la decisione del G20 di mettere al bando i cosiddetti paradisi fiscali.

Che questa sia una scelta giusta e opportuna non v'è il minimo dubbio. Ce ne vorrà di tempo per sbrogliare la matassa degli intrighi finanziari, sovente anche criminali, che si nascondono dietro i paraventi bancari di troppi paesi compiacenti, ma è certo importante che si sia concordato di fare finalmente pulizia fiscale in materia. Non solo: è anche interessante che a questa svolta abbiano dato il loro assenso proprio personaggi come Berlusconi e Tremonti, che in tema di paradisi fiscali vantano - il primo per trascorsi imprenditoriali, il secondo professionali - un'esperienza sicuramente utile al comune lavoro di bonifica.

Ora, però, che i due sono rientrati in Italia forse è il caso di chiedere loro che cosa intendano fare per quanto riguarda quello specifico e non trascurabile paradiso tributario domestico che si sostanzia in una scandalosa evasione fiscale di massa. Va bene mettere alle strette governi e banche della Svizzera o delle Bermuda, ma questa pur necessaria campagna rischia di suonare ipocrita e fuorviante se poi all'interno del paese si chiudono entrambi gli occhi dinanzi a un fenomeno che, per qualità e quantità, mette a repentaglio lo stesso contratto sociale su cui si fonda la Repubblica.

Al riguardo, gli ultimi dati resi pubblici (dichiarazioni 2007 sui redditi 2006) offrono un quadro che è un insulto alla realtà del tenore di vita di molti italiani. Il 35 per cento dei contribuenti vivrebbe con meno di 10mila euro l'anno, mentre meno dell'uno per cento denuncia introiti sopra i centomila. L'una e l'altra di queste percentuali estreme suonano semplicemente incredibili e danno ragione a chi stima che con l'evasione siano sottratti all'Erario non meno di 200 miliardi l'anno: una cifra cha da sola pone l'Italia ai primi posti nella classifica dei paradisi fiscali del mondo intero.


Ebbene che intende fare in proposito il pirotecnico (sui palcoscenici internazionali) duo Berlusconi-Tremonti? Finora i segnali dati sul teatro interno non fanno ben sperare: infatti, una delle prime mosse del governo del Cavaliere è stata la cancellazione del provvedimento che sanciva la tracciabilità dei pagamenti e poneva limiti severi ai versamenti in denaro contante. Così facendo precisamente l'opposto di quanto servirebbe per prevenire e smascherare l'evasione tributaria. E ora i nostri due De Rege della commedia fiscale vorrebbero far dimenticare i loro regali agli evasori, facendo la faccia feroce con la Svizzera o il principato di Monaco? A un premier che ama rivolgersi direttamente al popolo va ricordato che chi evade le tasse froda lo Stato, ma soprattutto imbroglia il popolo italiano.

(09 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il sindacato dei paradossi
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2009, 10:11:44 am
Massimo Riva.


Il sindacato dei paradossi


C'è un serio problema di democrazia al fondo dello scontro che si è aperto tra le confederazioni sindacali sulla riforma del modello contrattuale. Cisl, Uil e Ugl hanno sottoscritto l'accordo con Confindustria dichiarandosi convinti di aver così tutelato al meglio gli interessi dei propri associati. La Cgil, viceversa, non ha firmato perché ritiene che quell'intesa contenga le premesse per una depauperazione di salari e stipendi.

Nessuno dei due fronti, però, è in grado di dire che cosa pensino al riguardo i più diretti interessati, cioè i lavoratori. La Cgil ha chiesto che si organizzasse un referendum generale sui termini del patto raggiunto con Confindustria dichiarandosi pronta a sottoscriverlo in caso di sconfitta, le altre confederazioni hanno rifiutato seccamente questa proposta. A questo punto sempre la Cgil ha tenuto una consultazione al proprio interno che ha dato un sostegno massiccio alla posizione negativa assunta dal segretario Guglielmo Epifani. Dal lato opposto si è replicato sbandierando il risultato di un referendum, svolto negli stabilimenti Piaggio di Pontedera su un accordo aziendale, dove la posizione più rigida di Cgil è uscita perdente nel voto.

A parte la sproporzione evidente fra i due casi, le polemiche che ne sono seguite non hanno fatto altro che sottolineare il punto cruciale: l'assenza di un'intesa fra i sindacati per sottoporre le scelte dei vertici alla verifica del consenso/dissenso della base. Il tema della democrazia sindacale si trascina insoluto ormai da decenni per una principale ragione che proprio questi ultimi sviluppi hanno reso del tutto evidente: a dispetto della tanta retorica sparsa sull'unità sindacale, le confederazioni concorrenti della Cgil temono che la loro voce risulti ridimensionata dal voto dei lavoratori, accrescendo di conseguenza il peso e il ruolo di quello che da tempo è comunque considerato il sindacato maggioritario.

Questo fronte del rifiuto ai referendum fra i lavoratori, guidato principalmente dai vertici della Cisl, ha un chiaro obiettivo: isolare la Cgil e cercare così di logorarne il primato sulla distanza. Una strategia che oggi trova una sponda importante sul terreno politico perché si incontra con un analogo disegno perseguito da tempo dal governo Berlusconi per indebolire il sindacato maggiore che il premier taccia di 'comunista'. Del resto Raffaele Bonanni non fa che replicare lo stesso tentativo compiuto dalla Cisl di Savino Pezzotta durante la precedente esperienza ministeriale del Cavaliere, quando si arrivò, sempre senza Cgil, alla firma del cosiddetto 'Patto per l'Italia': accordo che si rivelò un boomerang per i suoi sottoscrittori perché si risolse in un clamoroso buco nell'acqua.

Non è la prima volta, insomma, che il verde della Cisl - a contatto con Berlusconi - tende a ingiallire nella speranza di poter poi rifiorire a spese del rosso Cgil. Che vi sia lotta politica per la supremazia anche fra sigle sindacali non stupisce di certo. Ma continua a lasciare interdetti che tutto ciò avvenga rifiutandosi di chiamare i lavoratori a dire la loro opinione. Non è così che i sindacati possono ergersi, come vorrebbero, ad alfieri della democrazia.

(24 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Un'altra beffa dal G7
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:49:18 pm
Massimo Riva.


Un'altra beffa dal G7


La finanza internazionale stenta a definire regole nuove e rigorose che evitino il ripetersi dei nefasti crack accaduti di recente.
Con la connivenza dei politici e delle autorità di vigilanza  Mario DraghiNon è che questa storia dei nuovi 'legal standard' per la finanza internazionale si risolverà in una colossale buffonata? Più passano i mesi, più si infittiscono le riunioni di ministri, autorità ed esperti e più l'increscioso dubbio prende corpo. Al vertice G7 di Roma in febbraio si è raggiunto il formidabile risultato - celebrato con giubilo dal nostro ministro dell'Economia - di dichiarare che sì, è proprio necessario definire regole nuove e naturalmente più rigorose. Qualche settimana dopo a Londra si è tenuto il summit allargato del G20 e l'unica cosa che ne è uscita è una lista di paesi fiscalmente canaglia, contro i quali si minaccia un boicottaggio del quale non sono stati definiti né tempi, né modi, né mezzi.

Ora i membri del G7 sono tornati a rivedersi a Washington per concordare che 'entro l'anno' (la prudenza non è mai troppa) si dovrà trovare un linguaggio contabile comune per valutare le perdite provocate dai banchieri d'avventura, oltre a cercare 'approcci coerenti' per la supervisione sui fondi più speculativi. Infine, è stato compiuto un altrettanto sostanziale passo in avanti: la struttura tecnocratica di supporto alle decisioni dei governanti - presieduta dal governatore italiano Mario Draghi - si chiamerà Financial Stability Board e non più banalmente Forum. Una rivoluzione lessicale dalle conseguenze, immagino, incalcolabili.

Nel frattempo sui mercati gli affari - per fortuna, ovviamente - continuano, ma come se poco o nulla del tutto fosse cambiato. Si assiste così a eventi che hanno il sapore di beffe grottesche. Le famigerate (e un tempo reputate) agenzie di rating - quelle stesse che, per esempio, davano il massimo di affidabilità a banche come Lehman Brothers fino al giorno prima del patatrac - hanno ripreso a sfornare le loro valutazioni con l'identica sicumera d'un tempo. L'unica novità è che ai vertici dell'una o dell'altra Mr. Caio ha preso il posto di Mr. Tizio, ma tutto prosegue sempre come se la tempesta finanziaria non avesse pesantemente intaccato la loro credibilità. Di sciogliere il clamoroso conflitto d'interessi in cui versano queste agenzie, essendo pagate dagli stessi soggetti di cui esaminano i conti, neppure si parla.


Ci sono poi alcune grandi banche che hanno ricominciato tranquillamente a diffondere i loro report sulle aziende quotate nelle varie Borse con relativi consigli di acquisto o di vendita di questo o quel titolo. Per esempio, tanto per non far nomi, la svizzera Ubs o l'americana Citi, cioè due fra gli istituti che hanno subito autentici tracolli di bilancio per gli investimenti fatti nel periodo della finanza allegra. Anche qui, tranne qualche giro di valzer nelle poltrone di vertice, nulla è accaduto che possa dare davvero il segno di una fiducia riconquistata.

La sensazione complessiva è che le volpi stiano così tornando a guardia dei pollai. Con l'implicita connivenza dei poteri politici e delle autorità di vigilanza la cui defatigante lentezza nel maturare le regole di un nuovo codice finanziario internazionale rischia alla fine di risolversi in una manovra gattopardesca: far finta di cambiare tutto per non cambiare nulla.

(30 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. La tassa sul futuro
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 04:51:41 pm
Massimo Riva


La tassa sul futuro


Nelle previsioni aggiornate i conti del 2009-2010 saranno drammatici. La crescita del Pil cadrà di almeno il 4,2 per cento quest'anno e il rapporto deficit-Pil salirà al 4,6 per cento  Giulio TremontiC'era una volta la favola bella di una Finanziaria 2009, predisposta e votata in tutta fretta nell'estate 2008, al fine sbandierato di 'mettere in sicurezza i conti pubblici' prima che la tempesta finanziaria globale sconvolgesse il mondo.

Noi sì, è stato fino a ieri il ritornello del duo Berlusconi-Tremonti, che abbiamo capito in anticipo il diluvio incombente e perciò abbiamo provveduto ad alzare gli argini meglio e prima di tutti gli altri. Peccato, però, che quegli argini non stiano reggendo all'inondazione e ora i due fratelli Grimm della finanza pubblica siano costretti a cancellare il lieto fine della storiella raccontata agli italiani.

Infatti, nelle previsioni aggiornate - testé rese note dallo stesso governo - si ammette che i conti del 2009-2010 saranno drammatici. La crescita del Pil cadrà di almeno il 4,2 per cento quest'anno, con forse un rimbalzo dello 0,3 nel prossimo. Il rapporto deficit-Pil salirà ben oltre la fatidica quota 3 per collocarsi al 4,6 per cento, mentre il debito pubblico avrà un'impennata spettacolare: dal 105,8 del 2008 si passerà al 114,3 nel 2009 per arrivare al 117 nel 2010 e superare il 118 nel 2011.

Per completezza bisognerebbe aggiungere che altri organismi autorevoli - come il Fondo monetario internazionale - hanno diffuso stime sull'Italia ben peggiori di quelle dichiarate dal governo. Ma già quest'ultime sembrano più che sufficienti per certificare la totale inconsistenza delle promesse di sicurezza contabile profuse a piene mani in questi mesi da Palazzo Chigi e dal ministero dell'Economia.

Il punto sorprendente è che, non paghi di uno smacco così cubitale, sia Berlusconi sia Tremonti insistono nel diffondere ottimismo sulle prospettive di rilancio dell'economia. L'uno proclama che l'Italia uscirà dal tunnel prima e meglio degli altri paesi, l'altro assicura che il peggio è ormai alle spalle.


Parole spericolate alla luce della lezione di questi mesi, dietro le quali si tenta di nascondere il poco o nulla che è stato fatto in realtà per moderare l'impatto della crisi. Al riguardo va ricordato che, secondo Bankitalia, le decine e decine di miliardi di interventi fatti balenare da Berlusconi nei suoi proclami si riducono per ora a una manovra aggiuntiva intorno al mezzo punto di Pil: 7,5 miliardi.

Ancora meno credibili e più insolenti sono poi i tentativi di far finta di nulla dinanzi alla più pesante delle previsioni: quella che indica il ritorno del debito pubblico verso livelli da bancarotta. Sarà che l'inflazione viene considerata l'imposta più odiosa perché occulta e socialmente crudele, ma che dire allora delle conseguenze del debito? A ben vedere, quest'ultimo rappresenta una forma di tassazione ancora più subdola e malvagia perché si configura come una requisizione del reddito delle future generazioni che offre il vantaggio politico-elettorale di sfiorare soltanto gli interessi immediati dei contribuenti attuali.

Insomma, par di capire che Silvio Berlusconi, come direbbe Umberto Bossi, abbia trovato la quadra per tener fede al solenne impegno di non mettere le mani nelle tasche degli italiani: allungarle con impunita prepotenza in quelle dei contribuenti futuri.

(07 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Più feudale che liberale
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:03:38 am
Massimo Riva


Più feudale che liberale


A parole, il governo Berlusconi non fa che lodare le virtù dell'economia di mercato. Nei fatti, in materia di riforme, l'immobilismo del centrodestra è a dir poco imbarazzante  Giulio Tremonti e Silvio BerlusconiParlano come Oliver Cromwell, agiscono come Carlo I. Nulla meglio di questa tipica locuzione inglese rende l'idea di come si comportano il governo Berlusconi e la sua maggioranza in tema di riforme.

Quando si tratta di magnificare a parole le virtù e i benefici dell'economia di mercato, il linguaggio di costoro assume sovente un ardore e una passione da fervidi rivoluzionari sotto il vessillo della libera impresa e della piena e leale concorrenza.

Viceversa, quando si passa alle specifiche scelte legislative da compiere sul corpo vivo degli affari, il cambiamento di rotta è totale e la deriva della restaurazione prende il sopravvento su tutto e su tutti.

Già c'era stato un pessimo segnale in questo senso con la decisione di modificare le regole del gioco borsistico in modo da aiutare i gruppi di controllo di molte società quotate ad arroccarsi di fronte al rischio di scalate esterne, in deliberato sfregio agli interessi della grande platea degli azionisti di minoranza e dei piccoli risparmiatori in genere.

Un tipico atto ostile al mercato fatto approvare dal Parlamento niente meno che previa scandalosa sollecitazione della Consob, ovvero proprio di quella Autorità 'indipendente' il cui compito fondamentale dovrebbe essere quello di garantire la parità di diritti e di opportunità fra tutti i soggetti del mercato azionario.

Ora a questa prima e grave svolta feudal-corporativa sta seguendo una serie di minacciati interventi settoriali il cui fine inconfessabile è la chiusura degli spazi di libera competizione a difesa dei privilegi acquisiti da chi dispone di posizioni di rendita sul mercato. Sotto tiro sono, in particolare, le liberalizzazioni introdotte dall'ex ministro Bersani in tema di commercio dei farmaci da banco: un provvedimento che, dando spazio a un minimo di concorrenza, ha prodotto sia importanti riduzioni dei prezzi di vendita a favore dei consumatori sia la nascita di migliaia di nuove piccole imprese.


E non basta: anche nel settore assicurativo incombono analoghe minacce di totale marcia indietro, nel senso che si vuole rimettere nelle mani delle grandi compagnie il potere di imporre alla rete degli agenti il ricatto del mandato in esclusiva che quel bolscevico di Bersani aveva tolto di mezzo in nome di una più sana apertura del mercato.

La tecnica con cui si sta sviluppando questa campagna di restaurazione delle vecchie rendite è, al tempo stesso, subdola e spudorata. Subdola perché l'iniziativa è sempre di qualche parlamentare che fa mostra di procedere per ispirazione individuale, ma poi - guarda caso - ottiene i voti dell'intera maggioranza e senza che il governo alzi neppure un sopracciglio (è accaduto così per le misure a favore dei baroni della Borsa, altrettanto sta accadendo con gli emendamenti che puntano a richiudere i pur minimi spazi di concorrenza da poco aperti nel settore dei farmaci e delle assicurazioni).

Spudorata perché questo modo semiclandestino di procedere è l'esplicita riprova della cattiva coscienza del governo Berlusconi che, in materia di libero mercato, è palesemente consapevole di fare l'esatto contrario di quel che fa finta di predicare.

(15 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Re: Massimo RIVA. Il Paese delle favole
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 11:25:59 am
Massimo Riva


Il Paese delle favole


Migliaia di lavoratori, nonostante le promesse del governo, iniziano a sentirsi in balia di una congiuntura che per molti significa perdita del posto di lavoro o o drastica riduzione del salario  Gianni RinaldiniAlcune reazioni politiche e sindacali all'aggressione subita a Torino dal segretario della Fiom, Gianni Rinaldini, appaiono molto più preoccupanti del pur increscioso episodio in se stesso.

Certo, non è la prima volta e non sarà neppure l'ultima che una manifestazione organizzata dai sindacati confederali offra il fianco a contestazioni anche violente da parte di qualche frangia di scalmanati. Ma minimizzare l'accaduto, come ha fatto il leader dell'Uil Angeletti, o di contro a cogliervi addirittura germogli di rinascita brigatista, come ha detto il ministro Calderoli, significa rifiutarsi di guardare con razionalità alla brutta piega che il clima sociale può prendere a seguito della recessione economica in atto.

Con buona pace del presidente del Consiglio, che non demorde dalla sua grottesca tesi di una crisi più psicologica che reale, i dati sulla decrescita del Pil, sul crollo della produzione industriale e sull'aumento della disoccupazione non lasciano spazio a futili esorcismi verbali.

Nei prossimi mesi, non solo la Fiat ma anche altre maggiori o minori imprese finiranno per annunciare ulteriori riduzioni di manodopera, che in molti casi, per giunta, non saranno neppure ammortizzabili con il ricorso al misero salario di sopravvivenza della cassa integrazione. Né per tamponare la situazione è alle viste alcun intervento di sostegno alla congiuntura dato che il governo Berlusconi insiste nel proclamare di aver già fatto tutto quel che si doveva e nel propagandare la favola che ormai il peggio sarebbe alle spalle.

Il fatto che una robusta quota di elettori ami lasciarsi cullare dalle dolci menzogne del governo, tuttavia, non impedisce a una non meno importante minoranza di cittadini, concentrata nel mondo operaio, di sentirsi viceversa esposta e abbandonata alla mercé di una congiuntura che per molti significa soltanto perdita del posto di lavoro o regressione a redditi da fame. Il tutto, come non bastasse, in clamorosa concomitanza con la certificazione ufficiale che già oggi le retribuzioni dei lavoratori italiani sono agli ultimi posti nella classifica internazionale stilata dall'Ocse.


Occorre ricordare che il tema del recupero salariale era già stato posto - non a caso - in cima all'agenda del governo Prodi all'inizio del 2008. Poi ci furono la crisi politica, le elezioni anticipate e il ritorno di Silvio Berlusconi. Il quale ha sì sollevato dall'Ici le tasche dei più abbienti ma nulla ha fatto per la questione salariale, che oggi si ripropone peggio che intatta perché aggravata drammaticamente dagli effetti della crisi generale.

C'è forse da meravigliarsi, in un simile scenario, se focolai di esasperazione sociale si vanno formando nelle aree del Paese dove la ristrutturazione industriale minaccia di lasciare i segni più profondi? C'è da stupirsi, quindi, se alcune minoranze cominciano già a esprimere questo malessere fuori dalle buone regole della convivenza civile e perfino accusando qualcuno dei maggiori sindacati di subalternità a un governo che fa finta di negare la gravità della crisi? Vera e unica ragione di sconcerto è l'ottusa noncuranza del premier verso i drammi sociali in atto.

(22 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Taci, il nemico ti ascolta
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 05:11:01 pm

Taci, il nemico ti ascolta

di Massimo Riva


Il centrodestra continua a scagliarsi contro chiunque diffonda cifre e previsioni sull'andamento della crisi economica in atto. Statistiche, secondo Berlusconi, frutto soltanto di una sindrome psicologica depressivalargamente diffusa  Taci, il nemico ti ascolta... Forse non sono più tanto numerosi gli italiani in grado di ricordare la cupa intimidazione di un tristemente celebre manifesto di ispirazione fascista. Ma Silvio Berlusconi e i suoi ministri stanno facendo davvero di tutto per rinverdire la memoria di quei tempi infelici con le loro intemerate contro la diffusione di cifre e previsioni sull'andamento della crisi economica in atto.

Al fondo di questi atteggiamenti, infatti, c'è una pretesa dall'evidente sapore totalitario che può essere sintetizzata così: solo il governo è depositario della verità e sempre e solo al governo spetta stabilire in quali tempi e in quali dosi far conoscere ai cittadini lo stato dell'arte. In conseguenza, tutti coloro che fanno circolare dati e stime in contraddizione con quelli del governo vanno considerati come pericolosi disfattisti, perché alimentano la paura fra la gente e così precludono o comunque allontanano la via d'uscita dalla crisi.

Già da tempo il presidente del Consiglio insiste con la sua stravagante diagnosi secondo cui le difficoltà attuali sarebbero più che altro frutto di una sindrome psicologica depressiva dalla quale gli italiani dovrebbero uscire dandosi alle spese pazze. Un'idea grottesca e francamente insolente verso il malessere economico diffuso fra ampi strati della popolazione, dove ormai licenziati e cassintegrati si contano a centinaia di migliaia. Poi s'è dovuto assistere con forte imbarazzo istituzionale alle reiterate battute provocatorie del ministro Giulio Tremonti contro il governatore di Bankitalia ogni volta che Mario Draghi rendeva pubblici un dato o una stima dei suoi uffici.

Ora siamo alla polemica del governo anche contro istituzioni internazionali quali il Fondo monetario, l'Unione europea e l'Ocse - nonché contro la stampa non allineata alle direttive di Palazzo Chigi - tutti colpevoli di "diffondere dati che alimentano la paura". La visione sottostante è drammaticamente chiara: i cittadini non devono sapere, non devono poter confrontare notizie e opinioni, ovvero devono comportarsi come sudditi obbedienti agli ordini o, per meglio dire, ai consigli per gli acquisti del capo del governo.


Perdita di credibilità internazionale a parte, tutto questo denuncia un aggravamento serio della condizione di marasma in cui versa il governo di fronte alla sfida di una realtà che non sa come affrontare e perciò vorrebbe che non fosse rivelata nei suoi termini effettivi ai cittadini. Un esempio tipico di questa volontà manipolatoria lo si è appena visto con l'annuncio dell'ultimo decreto del governo, che è stato presentato fra squilli di tromba come una manovra di rilancio del valore di ben 6,2 miliardi.

Peccato però che, a ben guardare, si scopre che questa cifra sarà spalmata su quattro anni, per cui lo stanziamento effettivo per il 2009 si riduce a non più di 1,3 miliardi. In rapporto con il Pil si tratta di qualcosa meno dello 0,1 per cento: la classica e velleitaria goccia d'olio sul mare in tempesta. Far notare questo dettaglio sarà magari da disfattisti. Ma tacerlo equivarrebbe stavolta a considerare come nemici gli italiani.

(03 luglio 2009)


La febbre dell'oro

di Massimo Riva

 Uno stock di lingotti in oroÈ dagli albori della civiltà che l'oro suscita negli uomini gli istinti peggiori. Forse c'è qualcosa di diabolico nel nobile metallo che obnubila le menti e spinge a comportamenti malsani tanto semplici cittadini quanto re, imperatori e perfino governanti delle moderne democrazie. Come oggi sta accadendo sotto i nostri occhi in Italia, dove le ingenti riserve auree della Banca centrale (oltre 2.450 tonnellate) sono tornate al centro dell'ennesimo tentativo di arrembaggio da parte del potere politico.

In tempi recenti ci aveva già provato l'ultimo governo Prodi nell'estate del 2007, facendo approvare dal Parlamento una risoluzione nella quale si raccomandava la vendita, almeno parziale, dell'oro di Bankitalia per destinarne il ricavato a riduzione della sempre incombente montagna di debito pubblico. Operazione di per sé non scandalosa - in Francia si era appena fatto allora qualcosa di analogo - se non fosse stato per la grave controindicazione che nulla di serio era alle viste in parallelo per arginare i flussi in uscita dalle casse pubbliche. Cosicché la riduzione del patrimonio, conseguente all'alienazione delle riserve auree, avrebbe avuto il vistoso difetto di risolversi in una boccata d'ossigeno priva di benefici duraturi. Per fortuna, non se ne fece nulla.

Adesso a riprovarci è il governo Berlusconi con una trovata in apparenza meno traumatica, in sostanza altrettanto allarmante. L'idea sopraffina non è più quella di mettere direttamente le mani sui lingotti, ma di sottoporre a specifico prelievo fiscale le plusvalenze realizzate da Bankitalia sul suo oro, introducendo un'imposta sostitutiva che, nelle stime del governo, dovrebbe dare un gettito pari a un miliardo di euro. La pensata è indubbiamente scaltra, ma non per questo si sottrae a pesanti obiezioni di merito.


La principale e risolutiva fra queste non è tanto dissimile da quella avanzata a suo tempo contro la risoluzione prodiana. Quale senso economico ha lo spremere imposte dal patrimonio aureo di Bankitalia da parte di un governo che, secondo gli ultimi dati, non ha più il controllo della spesa pubblica? Fra le cifre fornite dall'Istat sul primo trimestre dell'anno, ha suscitato, per altro giustamente, forte impressione il balzo del deficit al 9,3 per cento del Pil. Ma questo è soltanto uno dei termometri della febbre contabile in atto. La radice profonda della malattia va cercata nel saldo al netto degli interessi, che è diventato negativo per oltre il 4 per cento del Pil. Ciò significa che, anche escludendo il peso del debito pubblico, le uscite dello Stato sono tornate a superare pericolosamente le entrate. Altro, dunque, che «messa in sicurezza dei conti» come Berlusconi e Tremonti hanno predicato, abbindolando gli italiani per mesi: il bilancio pubblico ha ripreso la corsa sul piano inclinato del dissesto.

E in queste condizioni si vorrebbe pure gettare nel vento della spesa il gettito di un'imposta speciale sull'oro di Bankitalia? Fortuna vuole che l'insano proposito debba, in forza delle regole europee, passare al vaglio della Banca centrale di Francoforte. Dalla quale è lecito attendersi un fermo e severo alt a espedienti miserevoli e disperati.
(09 luglio 2009)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. I silenzi sul superdebito
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 04:03:00 pm
I silenzi sul superdebito

di Massimo Riva

A fine maggio del 2008 il debito pubblico ammontava a 1.648 miliardi. Un anno dopo risulta salito a quota 1.752: 104 miliardi in più.

Ma sia Silvio Berlusconi che Giulio Tremonti continuano a far finta di niente


A costo di farmi dare anch'io della testa di c. - secondo l'elegante linguaggio che il ministro Tremonti usa verso chi fa domande a lui sgradite - credo sia necessario porre qualche quesito su quel che sta accadendo sul fronte del debito pubblico.

A fine maggio del 2008 esso ammontava a 1.648 miliardi. Un anno dopo, alla stessa data, risulta salito a quota 1.752: 104 miliardi in più. Di questi ben 90 accumulatisi nei cinque mesi che vanno dal 31 dicembre 2008 al 31 maggio 2009 con una crescita media giornaliera davvero impressionante: circa 600 milioni di euro ogni ventiquattr'ore, sabati e domeniche compresi.

Sia Silvio Berlusconi sia Giulio Tremonti non amano tanto parlare del debito e, le poche volte che lo fanno, allargano le braccia per far intendere che questa è purtroppo una sciagurata eredità che una sorte avversa ha fatto cadere sulle loro incolpevoli spalle. Peccato, però, che un'impennata così rapida e virulenta come quella verificatasi nei primi cinque mesi di quest'anno non si fosse mai vista.

Quei 90 miliardi in più corrispondono - tanto per usare lo stesso metro cui ricorre spesso il premier per farsi capire meglio - a circa 175mila miliardi di vecchie lire. Sono, insomma, un'enormità. Tanto più allarmante perché finora nessun membro del governo ha avuto l'amabilità di fornire anche la più vaga spiegazione sulle cause di una simile voragine.

Sì, certo, l'ottimo Tremonti è tornato al vecchio vizio di portare a zero, anzi sotto lo zero, il saldo fra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi sul debito. Ma anche questo non è sufficiente a giustificare una cifra così elevata come i suddetti 90 miliardi in cinque mesi. Che cosa è successo di tanto clamoroso e drammatico? Nella sua ultima conferenza stampa il ministro dell'Economia ha accennato alla sua decisione di sbloccare il versamento di crediti arretrati vantati dalle imprese verso l'Erario, ironizzando sui suoi predecessori che avrebbero 'risanato' i conti semplicemente rinviando il pagamento del dovuto.


Ma anche questo è un argomento incongruo a spiegare i famigerati 90 miliardi: non solo per i tempi e l'entità della cifra, ma anche perché, in termini di debito, quello estinto con le imprese pareggerebbe il conto con quello contratto per chiudere l'operazione. Dunque, sarebbe una partita a saldo zero.

Resta perciò intatto il mistero, poco glorioso, sull'esplosione del debito pubblico in questi primi mesi dell'anno. Altro, quindi, che ripararsi dietro il facile paravento del pesante lascito del passato: qui c'è un debito nuovo che il governo sta lasciando correre a briglia sciolta verso picchi drammatici. Cosicché, se per lo stato del bilancio ereditato poteva essere buona la classica metafora della coperta corta, ora siamo alla ben più stringente allegoria del cappio al collo.

E, purtroppo, non soltanto di quegli italiani che continuano a credere nella favola berlusconiana della messa in sicurezza dei conti, ma anche di tutti gli altri. Particolare quest'ultimo che può forse spiegare qualche irritata reazione scurrile del ministro Tremonti, ma rende la noncuranza del governo in materia ancora più odiosa.

(24 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. 2013, ritorno al passato
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 10:21:52 pm
2013, ritorno al passato

di Massimo Riva


E' giunto il momento di guardarsi attorno con un po' meno paura della crisi economica? Forse sì, ma a condizione di non perdere il contatto con la realtà. Per uscire dal tunnel bisognerà aspettare ancora qualche anno
 
Qualche germoglio di ripresa sta sbocciando qua e là nel mondo. In Europa i dati sull'andamento del Pil nel secondo trimestre dell'anno hanno riservato gradevoli sorprese: in Francia e Germania vi è stata una crescita dello 0,3 per cento. Certo, in Italia il segno è rimasto negativo ancora di mezzo punto, ma il fatto che le due maggiori economie di Eurolandia abbiano avuto un sussulto in avanti legittima qualche speranza anche da noi. Quanto al versante americano c'è da registrare il recente messaggio del presidente della Fed, Ben Bernanke, che ha detto di intravedere qualche prima avvisaglia della tanto attesa 'recovery'.

I mercati azionari, che tendono sempre ad anticipare le svolte, si stanno muovendo un po' dappertutto al rialzo. Capita magari che un battito d'ali di farfalla alla Borsa di Shanghai produca sbandate improvvise, ma la curva degli indici delle ultime settimane sembra voler insistere verso l'alto. È giunto, dunque, il momento di guardarsi attorno con un po' meno paura? Forse sì, ma a condizione di non perdere il contatto con la realtà e di voler fare il punto della situazione senza abbandonarsi a entusiasmi fuori luogo. Soprattutto per quanto riguarda il nostro paese.

Il bilancio delle rovine provocate dalla crisi, infatti, non legittima ottimismi. I primi guai, lo si ricorderà, si sono manifestati giusto due anni fa, nell'estate 2007. Ultimo anno nel quale l'Italia ha avuto una crescita positiva, pur se di un buon punto inferiore alla media dei paesi dell'euro. Proviamo a dare valore cento al Pil del 2007 e facciamo due conti. Nel 2008 la crescita è stata negativa di un punto rispetto al precedente: quindi siamo scesi a quota 99. Per quest'anno usiamo pure una stima di calo del Pil meno pessimistica del 6 per cento attuale: diciamo cinque. Rispetto al cento del 2007 scenderemo a quota 94. Facciamo ora lo sforzo generoso di prevedere nel
2010 un rimbalzo positivo non di mezzo ma di un intero punto: il risultato è che arriveremmo a sfiorare quota 95. Per recuperare i livelli del 2007 ci vorrà un ulteriore biennio di crescita attorno al due per cento. Impresa non da poco.

Cosicché se tutto - proprio tutto - andrà per il meglio, soltanto nel 2013 saremo tornati al punto di partenza e gli italiani avranno da spartirsi una torta di ricchezza pari a quella di due anni fa. Con due aggravanti, però, allora assenti. La prima d'ordine finanziario, dovuta al pesante peggioramento in corso sul fronte dei conti pubblici: in termini sia di deficit corrente sia di stock del debito. La seconda d'ordine sociale perché le centinaia e centinaia di migliaia di posti di lavoro perduti fra il 2009 e il 2010 non saranno di certo recuperati negli anni seguenti se non in piccola parte. Che fare, allora? I germogli di ripresa potrebbero, per esempio, essere innaffiati dalla spesa pubblica per infrastrutture. Peccato che Confindustria abbia appena certificato come tali investimenti - chiacchiere del premier a parte - siano stati ridotti di oltre il 13 per cento rispetto al 2008. Ma non era Berlusconi ad aver promesso che l'Italia sarebbe uscita dalla crisi prima e meglio degli altri?

(28 agosto 2009)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Ritorno al corporativismo
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 10:55:09 am
Ritorno al corporativismo

di Massimo Riva


Il meno che si possa dire sulle recenti mosse del ministro Sacconi è che si basano su un uso spregiudicato dello strumento fiscale  Il ministro SacconiIl ministro Maurizio Sacconi ci riprova. Non pago di aver voluto la detassazione del lavoro straordinario, ora insiste con un'analoga misura a favore degli aumenti retributivi aziendali. La prima trovata è affondata nel ridicolo perché proposta in una fase nella quale le imprese già stentavano a reggere i normali orari di lavoro a causa di una recessione che il sagacissimo ministro non aveva visto arrivare. La seconda, viceversa, appare concepita con maggiore astuzia politica. Dapprima Sacconi ha promosso un accordo fra Confindustria e sindacati (tutti tranne la Cgil) per ridurre il peso dei contratti nazionali a favore dei patti aziendali e ora per mandare in porto il suo progetto minaccia ritorsioni fiscali: o i rinnovi contrattuali si adeguano allo schema da lui voluto oppure saltano gli sgravi tributari promessi. Il meno che si possa dire è che questo modo di governare si basa su un uso spregiudicato dello strumento fiscale. E ciò perché la segmentazione del prelievo sulle buste paga è destinata a rendere ancora più distorto un regime tributario già viziato in Italia da forti elementi di iniquità. Stando all'ipotesi Sacconi, infatti, può accadere che la parte più elevata di una retribuzione finisca col subire una tassazione di aliquota inferiore a quella applicata alla quota di salario basata sul contratto nazionale. In aperto sfregio a quel principio di civiltà fiscale che si sostanzia nella progressività del prelievo in rapporto alla capacità contributiva del singolo cittadino. Ma forse richiamare all'attenzione di questo governo i punti fermi della Carta costituzionale è tempo perso. Con la complicità di sindacati un po' ingialliti - come Cisl e Uil - è in atto un progressivo scivolamento verso modelli neocorporativi sia nei rapporti di lavoro sia nel regime fiscale. Avvalora, del resto, questa impressione anche la proposta di compartecipazione dei lavoratori agli utili d'impresa avanzata da
Giulio Tremonti e subito sposata con foga dall'infaticabile Sacconi. Non a caso l'idea è stata salutata con particolare entusiasmo dalla Ugl, sindacato che non fa mistero di affondare le sue radici in una visione corporativistica dell'economia. Qualcuno può magari stupirsi che a promuovere una simile deriva siano ministri dai trascorsi socialisti. Ma la lunga e tormentata storia dell'Italia moderna insegna che chi si distacca dall'albero socialista per spostarsi politicamente a destra non trova di meglio - Mussolini docet - che puntare sul corporativismo per poi finire col salire sul vapore dei padroni e col baciare l'anello a qualche monsignore. Proprio come il pio Sacconi sta già facendo da ministro della Sanità su tutte le materie sensibili agli occhi del Vaticano. Un aspetto paradossale di questa riscoperta del corporativismo è che i suoi promotori sono forse convinti di poter seppellire definitivamente le dottrine marxiste. Non si rendono conto che così si stanno invece allontanando dalla lezione di Adam Smith: lo si è già visto con il dietrofront sulle liberalizzazioni. Come leggere allora la sigla PdL in un paese già soffocato dal prepotere delle corporazioni? Partito della Libertà o Paura della Libertà?

(03 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Le mani sulle banche
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2009, 09:59:01 pm
Le mani sulle banche

di Massimo Riva


Le insistenti polemiche del ministro Giulio Tremonti contro banche e banchieri stanno ormai assumendo toni e modi da sindrome compulsiva. Da tempo non passa settimana - e talvolta neppure giorno - senza che il titolare del Tesoro pronunci parole di fuoco contro gli istituti di credito e i loro amministratori. Poiché la crisi che ha sconvolto l'economia mondiale nasce da errori - in qualche caso perfino nefandezze - riconducibili proprio alle banche, forse Tremonti ritiene che questa sua campagna possa garantirgli un facile consenso popolare.

Infatti, la parte in commedia che il ministro dell'Economia ama recitare è proprio quella del difensore degli oppressi: in particolare, di quella vasta platea di piccoli o medi imprenditori che da sempre ha avuto difficili rapporti con il credito e ora lamenta di essere discriminata dalle banche o comunque non aiutata a superare la fase acuta della crisi. Ma come, protesta il ministro, il governo ha messo a disposizione una gran quantità di soldi, attraverso i cosiddetti Tremonti-bond, e le banche si rifiutano di prenderli per fare da ponte verso una clientela così assetata di finanziamenti? Chi agisce così - sentenzia lapidario lo stesso ministro - si muove "contro l'interesse del Paese". Un'accusa pesante.

A prima vista, l'argomentazione sembra stringente. Peccato che essa non tenga conto di un paio di elementi di fatto non trascurabili. Il primo è che oggi le banche non si trovano dinanzi a un problema di casse vuote o comunque insufficienti a coprire le richieste di finanziamento della clientela. L'ostacolo all'incontro tra domanda e offerta di credito è semmai su un altro piano: quello dell'occhiuta prudenza con cui i banchieri, alla luce della malcerta congiuntura, soppesano l'affidabilità dei loro debitori. Eccesso che il buon Tremonti ha creduto di superare con la balzana impennata dirigista di sottoporre le istruttorie creditizie al vaglio delle prefetture. Risultati? Zero.


Il secondo, determinante, dato di fatto è che le condizioni del mercato finanziario sono mutate rispetto a pochi mesi fa. Oggi i celebrati Tremonti-bond incontrano la temibile concorrenza di altri strumenti ben più appetibili. In altre parole, le banche in cerca di liquidità sono in grado di raccogliere, per esempio, prestiti obbligazionari a tassi significativamente inferiori a quelli dei titoli offerti dal Tesoro. Perché non dovrebbero preferire questa via a quella proposta da Tremonti, che non solo costa di più in termini di stretta contabilità ma rischia pure di portare loro in casa un coinquilino scomodo e impiccione come il potere politico?

Ci sarebbero tante cose utili da fare per un ministro che volesse mettere un po' d'ordine nel nostro sistema creditizio. A cominciare, per esempio, da una decente disciplina dell'intreccio banca-industria, nel quale proliferano scandalosi conflitti d'interesse. Tutta questa insistenza sui Tremonti-bond legittima perciò più di un dubbio sgradevole. In particolare, che essa nasconda l'inconfessato desiderio di questo governo di allungare mani e piedi sulle banche. Prospettiva ben peggiore del male che si dice di voler curare.

(10 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Chi frena la class action
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 12:00:01 am
Chi frena la class action

di Massimo Riva


Con la legge sullo sviluppo economico pubblicata a Ferragosto si è stabilita l'entrata in vigore del nuovo strumento giudiziario, seppure con un'ulteriore dilazione al primo gennaio 2010. Sempre meglio piuttosto che niente. Peccato che resti ancora aperto qualche dettaglio non trascurabile in materia che, nei tre mesi di qui a fine anno, rischia di diventare pretesto per l'ennesimo rinvio dell'ultimo minuto  Renato BrunettaAll'indomani dei crac Cirio e Parmalat, che hanno inghiottito i risparmi di decine di migliaia di persone, sembrava scontato che anche gli italiani potessero avere a disposizione in breve tempo quel tipico strumento di difesa dei propri interessi che è la cosiddetta class action. Ovvero quell'azione collettiva per il risarcimento dei danni, che è un caposaldo della democrazia economica americana, perché offre alle parti più deboli la possibilità di unire le proprie forze per sostenere i costi, spesso proibitivi per i singoli, delle vertenze giudiziarie contro gli abusi di potere delle grandi aziende.

Di rinvio in rinvio, da allora sono trascorsi invano più di sei anni. Soltanto adesso, finalmente, anche nel nostro Paese l'azione collettiva sta per venire alla luce: con la legge sullo sviluppo economico pubblicata a Ferragosto si è stabilita l'entrata in vigore del nuovo strumento giudiziario, seppure con un'ulteriore dilazione al primo gennaio 2010. Sempre meglio piuttosto che niente, e potrebbe esserci motivo di rallegrarsene sebbene a denti stretti. Peccato che resti ancora aperto qualche dettaglio non trascurabile in materia che, nei tre mesi di qui a fine anno, rischia di diventare pretesto per l'ennesimo rinvio dell'ultimo minuto.

Il nodo riguarda la class action nei confronti della Pubblica Amministrazione o dei gestori di pubblici servizi quali luce, gas, acqua, telefoni e anche ospedali. Già al riguardo si intende operare una discriminazione francamente scandalosa. Mentre nei confronti dei soggetti privati i titolari dell'azione potranno richiedere e, se del caso, ottenere un pieno risarcimento dei danni subiti, nei confronti del sistema pubblico l'indennizzo sarà escluso. Cosicché si potrà sì reclamare per un disservizio subito, ma ottenendo soltanto il ripristino, per esempio, di una fornitura mancata e niente più. Insomma, quanto al danno patito lo Stato punta a nascondersi dietro il noto adagio napoletano: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.

Ma ai ministri del governo Berlusconi questa prevaricatoria guarentigia non basta, essi vogliono essere certi che la class action nella Pubblica Amministrazione si riduca a un'arma spuntata. Tant'è che nel testo della disciplina in esame è stata cancellata la dizione secondo cui 'al ricorso è data adeguata pubblicità sui mezzi d'informazione'. Se qualcuno proporrà l'azione, della medesima si potrà dare notizia soltanto sui siti istituzionali dell'amministrazione o del concessionario intimato. In modo da ridimensionare o addirittura azzerare proprio uno dei pilastri costitutivi della class action e cioè la possibilità di raccogliere adesioni attraverso il massimo di pubblicità per unire le forze di tutti coloro che si ritengano vittime dello stesso sopruso. In altre parole, l'azione si potrà fare, purché non se ne parli.

Questo lo stato dell'arte al momento. Chissà se il ministro Brunetta, dismessi per un giorno i panni da McCarthy di Cannaregio in guerra contro il culturame, troverà il tempo per far sì che la Pubblica Amministrazione diventi amica del cittadino, come lui dice, anche con la disciplina della class action.

(17 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Lo scudo è connivente
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:11:27 am
Lo scudo è connivente

di Massimo Riva

L'annesimo premio agli evasori fiscali è stato concepito con un surplus di volontà luciferina. Ai malavitosi viene aperto un insperato canale di riciclaggio senza problemi sotto l'autorevole egida dello Stato
 

Già l'idea di promuovere un terzo scudo fiscale per i capitali all'estero è di quelle che indicano nell'accoppiata Berlusconi-Tremonti una perseveranza diabolica nell'errore. Ma bisogna riconoscere che stavolta l'ennesimo premio agli evasori è stato concepito con un surplus di volontà luciferina. Visto che i primi due tentativi non erano riusciti a prosciugare che una piccola parte della palude di denaro imboscato fuori dai confini, stavolta si è deciso di fare le cose in grande per rendere più allettante la sanatoria offerta dal governo. Con un furbesco gioco di sponda fra proposta ministeriale e emendamenti della maggioranza parlamentare, si sono tolti di mezzo anche quei residuali elementi di cautela giuridica che accompagnavano gli esperimenti precedenti. In particolare, si è stabilita un'amnistia sostanziale per gravi reati contro la pubblica fiducia come il falso in bilancio e si è pure cancellato l'obbligo per gli intermediari di segnalare ogni ragione di sospetto sull'eventuale origine criminale dei soldi in via di rimpatrio.

Ai malavitosi viene così aperto un insperato canale di riciclaggio senza problemi sotto l'autorevole egida dello Stato. Basterebbero simili enormità per squalificare il provvedimento senza perdere tempo in ulteriori esami. Primo, perché nel nostro ordinamento un'amnistia va votata dal Parlamento a maggioranza qualificata, pena la sua invalidità, Secondo, perché spalancare le porte ai capitali accumulati all'estero dalla criminalità organizzata significa rendere lo Stato connivente e complice dei trafficanti di droga, armi, prostituzione e altre amenità penali. Un segnale politico indecente in un paese dove le mafie 'governano' con efferatezza vaste porzioni di territorio. Ma forse altrettanto vergognose sono le due principali giustificazioni che il governo Berlusconi adduce per il ricorso a simile porcheria. Risibile la prima, secondo cui in Italia si sta facendo quello che è in cantiere anche in altri paesi. Questa è soltanto una menzogna.

Certo che pure in Gran Bretagna o negli Usa si stanno varando provvedimenti per il rientro dei capitali, ma con una radicale differenza: in quei paesi non è previsto l'anonimato a favore degli evasori e il prezzo da pagare per la sanatoria è fino a dieci volte maggiore di quello offerto in Italia. La seconda giustificazione è addirittura ripugnante. Poiché quest'anno il bilancio dello Stato è stretto - si argomenta - ecco che il gettito dello scudo consentirà di avere i soldi per far fronte ad alcune uscite più urgenti come una parziale detassazione dei redditi da lavoro o finanziamenti all'università e via elencando da parte dei vari ministri spese sociali per i più bisognosi.
Con simili alibi si vorrebbe sminuire l'obbrobrio politico e giuridico dello scudo fiscale, ma si aggrava viceversa la situazione perché si usano i ceti e le categorie più deboli del paese come scudi umani - e non è un gioco di parole - per rendere socialmente accettabile il cospicuo regalo ai più ricchi e ai più furbi. Una strumentalizzazione così volgare e classista delle difficoltà di tanti italiani non s'era davvero mai veduta.

(01 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Lo spasimante frustrato
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 11:23:19 pm
Lo spasimante frustrato

di Massimo Riva
 

La guerra di Giulio Tremonti contro le banche continua, ma con il passare dei mesi è diventata più patetica che allarmante. Anche perché, dopo il rifiuto dei suoi bond da parte dei due maggiori gruppi creditizi del Paese, il ministro sta sempre più assumendo toni e atteggiamenti da spasimante frustrato. Tanto che non si cura nemmeno più di tenere nascosti quelli che erano (e sarebbero ancora) i reali obiettivi degli aiuti pubblici offerti alle banche. Al punto che nell'ultima (almeno fino al momento in cui sto scrivendo) della sua inarrestabile serie di pubbliche sortite in materia egli si è spinto a celebrare con indispettita nostalgia il tempo delle Bin, le tre grandi banche di interesse nazionale che, attraverso l'Iri, erano costrette a rendere conto dei loro affari al potere politico del momento.

L'aspetto più sorprendente di questa 'dr le de guerre' tremontiana non è, però, che il ministro voglia rinverdire i tristi fasti della 'longa manus' politica sul credito: chi segua con un minimo di attenzione le mosse del governo Berlusconi su ogni scacchiere economico ha avvertito da un pezzo la sostanza dirigista delle sue scelte. Basti pensare alla lunga catena di stop in tema di liberalizzazioni del mercato: dai servizi locali all'Alitalia, passando per le misure antiscalata in Borsa. Ciò che più sconcerta in Tremonti è che l'ossessione di ottenere il bacio della pantofola dagli amministratori delle banche lo stia obnubilando al punto di fargli perdere di vista quanto di ben più serio e più utile lo Stato - vestendo i panni del regolatore e non del padrino - dovrebbe fare per migliorare l'efficienza e la trasparenza del credito.

È piuttosto penoso lo spettacolo di un ministro che va a sbattere la testa invano quasi quotidianamente contro la Maginot di Unicredit e Intesa-Sanpaolo
. Anziché prodursi in sterili assalti con la baionetta delle polemiche verbali, un serio responsabile della strategia politico-finanziaria dovrebbe, proprio come i tedeschi nel 1940, aggirare i fortilizi e dilagare nella pianura delle riforme indispensabili al sistema. Il campo di battaglia sarebbe vastissimo. Ci sono da spazzare via i mostri nati dagli incesti frutto dell'abbandono della separatezza fra banca e industria. Ci sono da eliminare gli abusi dei patti di sindacato e i conflitti d'interesse legati al controllo delle banche sulle società di gestione del risparmio, che sovente finiscono per tradursi in manipolazioni a danno dei risparmiatori: Cirio e Parmalat docent.

E non basta. Le banche sono anche i soggetti più implicati nelle transazioni fra cosiddette 'parti correlate', elegante locuzione che fa da paravento a un sordido commercio di sostegni e favori reciproci fra cupole di potere del mondo finanziario. Siamo al punto che la Consob, dopo aver steso un abbozzo di pur blande regole al riguardo, ha subito ritirato il testo cedendo alle proteste degli interessati. Ci sarebbe, insomma, tanto da fare per riportare ordine e pulizia nel sistema bancario domestico. È avvilente dover constatare che le colorite invettive ministeriali servono soltanto a nascondere il nulla di fatto in materia.

(15 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Liberalizzazioni, anzi no
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 11:15:13 am
Liberalizzazioni, anzi no

di Massimo Riva


Ai tempi delle liberalizzazioni di Bersani, i berlusconiani sostenevano che non si erano toccati gli interessi delle grandi municipalizzate. Adesso tocca a loro liberalizzare e guarda un po': punto fermo è l'esclusione integrale dalla liberalizzazione dei settori del gas, dell'energia elettrica e delle ferrovie regionali  Ai tempi delle lenzuolate di liberalizzazioni dell'allora ministro Bersani, l'opposizione berlusconiana cavalcava a briglia sciolta una contestazione fondata su un argomento senz'altro accattivante. In sintesi si diceva: il centrosinistra sa fare la faccia feroce coi tassisti e altre categorie minori, ma si guarda bene dall'andare a toccare i corposi interessi delle aziende municipalizzate che forniscono in esclusiva gran parte dei servizi pubblici nei comuni rossi. Conclusione: quando toccherà a noi, vi faremo vedere come si liberalizza senza guardare in faccia a nessuno.

Sono passati un paio d'anni e adesso sta toccando a loro. E così lo scorso 25 settembre sulla 'Gazzetta Ufficiale' è uscito un decreto legge che all'articolo 15 reca la versione berlusconiana dell'apertura al mercato dei servizi pubblici locali. Guarda un po', punto fermo del provvedimento è l'esclusione integrale dalla liberalizzazione dei settori del gas, dell'energia elettrica e delle ferrovie regionali. Ovvero proprio di quei rami di attività dove più forte e lucrosa è la presenza di aziende controllate dagli enti locali, che così potranno continuare la discutibile pratica di essere lo stesso soggetto che prima affida e poi gestisce la concessione pubblica.

Il mercato si aprirà, viceversa, soltanto per i settori - in genere assai meno remunerativi - dei rifiuti, dell'acqua, dei trasporti su gomma. Ma poiché anche in questo caso gli enti locali potrebbero non gradire che le proprie aziende siano costrette a mettersi in gara con qualche concorrente al ribasso, si sta procedendo con una serie di ritocchi a rendere l'amara pillola un po' più dolce o addirittura innocua. La principale scappatoia escogitata al riguardo è quella di consentire ancora l'affidamento diretto del servizio a società miste con soci privati, ma nelle quali la quota maggioritaria del capitale - insomma, il controllo - resterà ben custodito in mano pubblica.
 
Forse non è un caso fortuito che queste sedicenti liberalizzazioni del centrodestra non siano state oggetto di un provvedimento specifico, ma siano state seminascoste dentro un decreto legge intitolato all'assolvimento di obblighi comunitari vari, nel quale c'è un po' di tutto. Consapevoli evidentemente che la loro montagna di promesse sull'apertura al mercato dei servizi locali aveva partorito un miserevole topolino, gli esponenti del centrodestra hanno così abilmente cercato di dissimulare la propria marcia indietro.

Ora però il decreto va sotto i riflettori perché comincerà ad essere votato dall'aula del Senato dal 3 novembre per poi passare alla Camera. Le probabilità che il testo subisca modifiche significative in senso più aperto al mercato sono minime: anzi, vista l'aria che tira dentro la maggioranza, c'è da temere qualche ulteriore passo indietro. Ma è lecito attendersi che almeno l'opposizione - a suo tempo svillaneggiata per la sua mancanza di coraggio in materia - sappia condurre una efficace battaglia per smascherare agli occhi della pubblica opinione l'inganno di queste false liberalizzazioni. Per Pier Luigi Bersani, neosegretario del Pd, dovrebbe essere un ghiotto boccone.

(30 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Bonanni cambia linea
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 02:58:36 pm
Bonanni cambia linea

di Massimo Riva


Dopo mesi di intesa cordiale con il governo il segretario della Cisl Raffaele Bonanni sta disotterrando l'ascia di guerra, sul fronte della scuola e degli sgravi fiscali
 
Dopo mesi di 'entente cordiale' con il governo Berlusconi (e di parallele polemiche contro gli 'estremisti' della Cgil) il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, sembra aver dissotterrato l'ascia di guerra. Sul fronte della scuola ha mobilitato la piazza ed ha lanciato un attacco frontale al ministro Gelmini, dichiarando inaccettabili le sue migliaia di tagli al personale del settore. Quanto al dibattito sugli eventuali sgravi fiscali si è spinto ancora più avanti. Se questi dovessero essere riservati al mondo delle imprese, come lasciano intendere le proposte parlamentari di una riduzione dell'Irap, il rinvigorito Bonanni non ha dubbi: la Cisl è pronta a proclamare uno sciopero generale.

Sarebbe senz'altro prematuro parlare di una svolta a 180 gradi. Al momento è più probabile che dietro questo linguaggio minaccioso si nasconda un calcolo tattico piuttosto elementare. Quello di far capire, soprattutto a quei ministri del governo che contano di usare la Cisl come testa d'ariete per rompere l'unità sindacale isolando la Cgil, che un simile gioco comporta qualche inevitabile prezzo da pagare a favore di chi si mostra più collaborativo con il governo. Altrimenti c'è il rischio di regalare ancora maggiori spazi di consenso sociale proprio alla Cgil.

Non è la prima volta che la Cisl si trova di colpo in difficoltà a causa delle sue aperture verso un governo guidato da Silvio Berlusconi. È già successo durante la precedente esperienza ministeriale del Cavaliere, quando l'allora segretario, Savino Pezzotta, ruppe il fronte unitario dei sindacati, sottoscrivendo quel 'Patto per l'Italia' che avrebbe dovuto spalancare le porte a un prepotente rilancio dell'economia, accompagnato da consistenti benefici per i lavoratori. Non ci vollero molti mesi per accorgersi che si trattava di una delle tante operazioni di imbonimento mediatico, nelle quali Berlusconi è maestro. Il celebrato Patto, infatti, rimase lettera morta e la
Cisl si trovò così con un pugno di mosche in mano.

Ora la farsa rischia di essere replicata per quanto riguarda in particolare il tema delle riduzioni fiscali. Nel corso dell'esame della Finanziaria 2010 alcuni parlamentari della maggioranza hanno preso un'iniziativa in proposito, ma tutta concentrata soltanto su tagli dell'Irap e quindi a esclusivo beneficio delle imprese. Ora già simile ipotesi sta incontrando la nota e ribadita contrarietà del ministro Tremonti a ogni riduzione di gettito in questa delicata fase di finanza pubblica. Figuriamoci, quindi, quali aperture potranno venire dal governo per un taglio anche alle tasse sui redditi più bassi dei lavoratori: sgravio, infatti, che nessuno propone né a Palazzo Chigi né in Parlamento.

In queste condizioni è comprensibile che Bonanni fiuti il pericolo di fare la stessa fine del suo predecessore Pezzotta con il 'Patto per l'Italia'. Ma la sua minaccia di uno sciopero generale, se i lavoratori resteranno a bocca asciutta, rischia di diventare un'arma a doppio taglio. Che, da un lato, blocca ogni riduzione fiscale (tanto per le imprese che per i dipendenti) e, dall'altro, rilancia nel mondo del lavoro la linea più intransigente seguita dalla Cgil.

(06 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. L'inganno banda larga
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 12:03:47 pm
L'inganno banda larga

di Massimo Riva

Il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola dice di volersi battere per superare il blocco al piano di 800 milioni per finanziare la diffusione della banda larga. Ma forse a Palazzo Chigi c'è chi medita di destinare una parte di quei fondi ad altri per ora inconfessati obiettivi
 
C'erano una volta tre 'i' che campeggiavano su enormi manifesti elettorali fatti affiggere da Silvio Berlusconi nelle strade di ogni città o paesino d'Italia. Quelle tre 'i' dovevano testimoniare il fermo impegno del Cavaliere a dare una scossa di modernizzazione all'economia nazionale.

La prima - 'i' come impresa - non è stata di sicuro favorita dalla sorte, perché la crisi innescata dallo tsunami finanziario globale ha mutato radicalmente i termini del problema: più che impegnati a spingere l'apertura di nuove imprese, oggi ci si trova semmai assillati dalla prospettiva che se ne chiudano (e non poche) di vecchie. Un rovesciamento di posizioni che sarebbe forse ingeneroso imputare soltanto al vuoto di politica industriale dell'attuale governo.Dove, viceversa, la responsabilità di aver fatto false promesse sta ormai emergendo con tutta evidenza è negli altri due casi.
A svuotare il secondo impegno - 'i' come inglese - ha provveduto in prima persona il ministro Mariastella Gelmini che, nei nuovi programmi didattici, ha significativamente ridimensionato gli insegnamenti dedicati alla lingua straniera. Cosicché, per l'apprendimento di quello che è diventato ormai l'idioma della comunicazione universale, anche le più giovani generazioni di italiani dovranno in pratica arrangiarsi da sole come hanno fatto i loro padri e i loro nonni.

Ancora più sconcertante, tuttavia, è lo stato dell'arte per quanto riguarda la terza sbandierata promessa: 'i' come Internet. Che l'utilizzo diffuso della Rete informatica sia un passaggio vitale per accrescere la competitività e l'efficienza dell'intero sistema economico, nonché della Pubblica Amministrazione, è ormai una verità ampiamente suffragata dai risultati conseguiti in tutti quei paesi che per primi si sono lanciati su questa strada. E che oggi stanno realizzando ingenti piani di investimenti per rendere operativo quel salto tecnologico fondamentale che è il passaggio alla cosiddetta banda larga, ovvero a un Internet superveloce, in grado di rivoluzionare l'intero sistema delle comunicazioni. Ebbene, dopo il nulla o quasi nulla di fatto in materia durante la precedente esperienza ministeriale, ecco che ora si arriva a bloccare anche il piano da 800 milioni progettato per finanziare la diffusione della banda larga in modo almeno da non far diventare incolmabile il ritardo verso quei paesi che stanno forzando il passo dell'innovazione, così offrendo condizioni più allettanti per nuovi insediamenti imprenditoriali.

Il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, dice di volersi battere come un leone per superare questo blocco, sostenendo che si tratta di fondi già stanziati e non di nuove spese che aggraverebbero i saldi di bilancio. E soggiunge che, con l'apertura dei cantieri relativi, si potrebbero avere circa 60 mila nuovi posti di lavoro. Tutti argomenti apprezzabili che finora, tuttavia, non hanno fatto breccia nel muro opposto dal Tesoro e da Palazzo Chigi. Dove forse c'è chi medita di destinare almeno parte di quegli 800 milioni ad altri per ora inconfessati obiettivi. Evidentemente sui vecchi manifesti elettorali per una svista mancava la quarta 'i': quella di inganno.

(12 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Quelle bugie sul debito
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2009, 04:02:02 pm
Quelle bugie sul debito

di Massimo Riva


Il boom del debito 2009 può avere una sola logica spiegazione: alla faccia della pretesa messa in sicurezza dei conti, in realtà Tremonti ha perso il controllo del bilancio o comunque ha rinunciato a esercitarlo  Ministero dell'Economia"I conti pubblici sono in sicurezza". È da almeno un anno che Giulio Tremonti - con il pieno avallo del presidente del Consiglio - insiste nel ripetere questa penosa bugia a dispetto delle cifre che, mese dopo mese, certificano un aggravamento assai serio della situazione. Da ultimo e in particolare sul fronte dove la finanza pubblica è più vulnerabile: il debito. A fine settembre 2009, infatti, esso ha raggiunto il picco dei 1.787 miliardi di euro, quasi 140 in più rispetto alla stessa data dell'anno precedente. Con un incremento percentuale dell'8,42 in dodici mesi.

In altre fasi congiunturali difficili una simile esplosione poteva magari essere spiegata con l'andamento avverso di un fattore fuori dal controllo del patrio governo: la spesa per interessi sul debito medesimo che è condizionata dai movimenti dei tassi d'interesse a livello europeo e mondiale. Si ricorderà, del resto, che lo stesso Tremonti continua a giustificare la sua asserita politica di rigore con il pericolo di improvvise difficoltà a collocare i titoli del Tesoro se non a tassi d'interesse sempre più alti. Fatto sta, però, che nell'ultimo anno il costo del denaro ha subito variazioni soltanto al ribasso, tanto che alcune partite di Bot sono state piazzate sul mercato a rendimenti prossimi allo zero.

Esclusa, quindi, la pressione dal lato degli interessi, il 'boom' del debito 2009 può avere una sola logica spiegazione: alla faccia della pretesa messa in sicurezza dei conti, in realtà Tremonti ha perso il controllo del bilancio o comunque ha rinunciato ad esercitarlo. Come testimonia da mesi anche il progressivo svuotamento di quell'avanzo primario (saldo fra entrate e uscite al netto degli interessi) che è il principale termometro di sostenibilità del debito. Constatazione questa che rende del tutto grottesca la sceneggiata che si cerca oggi di recitare davanti agli italiani di un Tremonti severo custode della cassa assediato dall'accattonaggio molesto dei suoi colleghi di governo.


Può anche darsi, per carità, che almeno ora il ministro dell'Economia si sia finalmente reso conto di quali buchi abbiano provocato l'abrogazione dell'Ici e il suo 'benign neglect' sulla spesa dell'ultimo anno. Ma, se vuole recuperare qualche credibilità in materia, dovrebbe smettere di raccontare favole accomodanti ovvero di nascondersi dietro alibi inconsistenti. Basta, per esempio, con la miserevole scappatoia del confronto con la più veloce impennata dei debiti francesi e tedeschi: in rapporto ai rispettivi Pil, i maggiori stock di Parigi e Berlino risultano comunque lontani anni luce da quello italiano. E poi basta anche con la meschina trovata di spiegare che si sta correndo verso il 120 per cento del debito sul Pil perché quest'ultimo sta scendendo: quest'anno il Pil calerà meno del 5 per cento, mentre il debito sta salendo dell'otto.

Basta, insomma, con l'insultare l'intelligenza degli italiani sostenendo che il governo farebbe faville se non avesse l'eredità di un debito 'non creato da noi', come ama dire il premier. Almeno gli ultimi 140 miliardi di debito in più sono opera esclusiva del formidabile duo Berlusconi-Tremonti.

(20 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Come evitare la bolla-bis
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2009, 03:54:28 pm
Come evitare la bolla-bis

di Massimo Riva


La crisi, nata in banca, si è presto trasferita all'economia reale e ora offre il suo volto peggiore traducendosi in paralisi della politica  Paul VolckerA oltre due anni dai primi lampi della tempesta finanziaria che ha sconvolto l'economia mondiale, nulla di sostanziale è cambiato nelle regole che guidano la vita dei mercati, quello creditizio innanzi tutto. Chi più, chi meno, chi moltissimo come quello americano, tutti i governi hanno messo grandi quantità di denaro a disposizione delle banche in difficoltà. Un'imponente mobilitazione di risorse pubbliche che è stata spiegata con una ragione di tenore economico, ma accompagnata da un preciso impegno d'ordine politico.

La ragione economica è che si trattava di impedire un collasso generale del sistema creditizio, i cui effetti sarebbero stati esiziali per il benessere collettivo. Mentre l'impegno politico, contratto in parallelo agli esborsi, assicurava ai cittadini che, superata l'emergenza, nuove e più stringenti regole sarebbero state calate sui mercati finanziari per impedire il ripetersi degli abusi e delle malversazioni che avevano prodotto il disastro.

L'inadempienza dei governi su questo punto è oggi sotto gli occhi di tutti, tanto in Europa quanto negli Usa, epicentro della crisi. Né vale a nasconderla il miserevole tentativo di gettare fumo negli occhi della pubblica opinione con efferate dichiarazioni o anche con qualche misura contenitiva contro gli scandalosi premi in denaro o azioni che i boss del mondo bancario si sono assegnati e in parte continuano ad assegnarsi con scandalosa protervia. Che il tema dei bonus sia di sicura presa demagogica è un fatto. Ma è altrettanto un fatto che si tratta di una questione di dettaglio che neppure sfiora quei problemi di sostanza di fronte ai quali governi, parlamenti e banche centrali per ora balbettano senza costrutto. E balbettano soltanto perché non trovano il coraggio di riconoscere che il primo e fondamentale passo da compiere riguarda anche un più severo esercizio della vigilanza sul mercato, ma soprattutto una revisione dell'impianto strutturale del sistema bancario. Riforma che si può condensare con l'abbandono del modello della cosiddetta banca tuttofare e con un ritorno al regime creditizio, nato dopo il '
big crash' del 1929, nel quale vigeva la separazione rigida fra banche di credito ordinario e banche d'investimento.

Al riguardo va reso merito a un vecchio saggio come Paul Volcker (a capo della Fed dal 1979 al 1987) e all'attuale governatore della Bank of England, Mervyn King, di aver indicato con fermezza questa soluzione come la vera strada maestra per scongiurare nuovi guai come quelli recenti. Il punto è che l'obiettivo indicato da Volcker e King, non difficile da tradurre in legge - in Usa c'è il precedente del Glass-Steagall Act negli anni Trenta - comporta in concreto una rivoluzione nella geografia del potere bancario a livello mondiale, Italia compresa. E, dunque, postula la volontà dei governi di sfidare le reazioni dell'arrogante establishment finanziario dominante sui mercati. Volontà che non è dato cogliere né di qua né di là dell'Atlantico. A conferma di un singolare paradosso per cui la crisi, nata in banca, si è presto trasferita all'economia reale e ora offre il suo volto peggiore traducendosi in paralisi della politica.

(27 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Le promesse di Marchionne
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:46:24 pm
Le promesse di Marchionne

di Massimo Riva


Era appena il principio della scorsa estate e Sergio Marchionne tendeva la mano a governo e sindacati. In particolare, assicurando che la Fiat poteva impegnarsi a non chiudere alcun impianto in Italia se lo Stato avesse continuato a dare una robusta mano prorogando incentivi fiscali e cassa integrazione. Sono passati meno di sei mesi da allora e, alle soglie dell'inverno, la musica di Torino è cambiata con specifico riferimento alle sorti dello stabilimento di Termini Imerese.

Marchionne faceva il furbo allora o lo sta facendo adesso? Per rispondere a questa domanda va ricordato che l'ottimismo estivo del boss della Fiat aveva il non lieve difetto di presentare un salto logico del tutto incoerente con le cifre dallo stesso manager denunciate sullo stato del mercato automobilistico. In sostanza, egli aveva detto che la capacità produttiva globale del settore era di 90 milioni di vetture l'anno a fronte di una domanda in grado di assorbirne non più di 60 milioni. Soggiungendo che un identico scarto di tre a due fra offerta e domanda caratterizzava anche il mercato europeo, che resta comunque essenziale per la Fiat.

Le politiche di incentivi agli acquisti, adottate dai maggiori governi europei, hanno alleviato solo in piccola misura questo divario tra offerta e consumi e, in ogni caso, lo hanno fatto spostando in avanti il problema. Perché le vendite gonfiate nel 2009 hanno requisito inesorabilmente quote di maggiore domanda di auto nel 2010 e anni seguenti. Quello di una riduzione della capacità produttiva è e rimane il vero nodo attorno al quale ruota la partita dell'industria automobilistica europea almeno per gli anni più prossimi. Ed è arduo immaginare che il necessario ridimensionamento possa riguardare soltanto le industrie concorrenti e non anche la Fiat medesima.

Ecco perché quest'estate (v. 'L'espresso' del 2 luglio scorso) si criticavano le parole di Marchionne sulla possibilità di non chiudere alcuno degli impianti italiani come affermazioni strumentali e pericolosamente illusorie. Oggi nel confronto con il governo e nello scontro con i sindacati l'amministratore delegato della Fiat raccoglie perciò la tempesta seminata con il vento di rassicurazioni del tutto contraddittorie con la realtà da lui stesso così chiaramente disegnata. A questo punto c'è da sperare che l'ottimo Marchionne non ripeta l'errore di alzare altre cortine di fumo sulle vere intenzioni della Fiat e dei suoi azionisti di controllo quanto agli impegni industriali in Italia. Dica le verità - anche quelle più sgradevoli - ma le dica tutte.

I sindacati temono che la chiusura di Termini Imerese sia soltanto l'inizio di una strategia di progressivo abbandono dell'Italia da parte di Torino. Le cifre sulla produttività comparata con gli impianti esteri esibite da Marchionne possono avvalorare simile sospetto.

In tale prospettiva la concessione di nuovi incentivi sarebbe come aggiungere la beffa al danno perché si può chiedere al contribuente di aiutare la sopravvivenza dell'industria automobilistica in Italia, ma non le fortune del gruppo Agnelli in Polonia o nel Michigan.

(03 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Ottimismo imprudente
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2009, 11:07:51 am
Ottimismo imprudente

di Massimo Riva


Sulla società italiana si sta abbattendo uno tsunami ben più serio e allarmante di quello che ha scosso nei mesi scorsi i bilanci delle banche. Mentre i ministri Scajola e Sacconi non sanno fare altro che dire che in fondo l'Italia sta meglio di altri paesi europei
 
Che il peggio della tempesta finanziaria mondiale sia ormai alle spalle sarà magari vero. Ci sono ancora aree di rischio impreviste e inesplorate - da Dubai alla Grecia, fino ad alcuni paesi dell'Est Europa - ma qualche sintomo di seppur timida ripresa produttiva si sta comunque manifestando nelle economie maggiori, Italia compresa. È, viceversa, sul terreno delle ricadute sociali che la crisi ha appena cominciato a presentare il conto. In casa nostra, il tasso di disoccupazione a ottobre è salito all'8 per cento, superando la soglia dei 2 milioni di senza lavoro per la prima volta dal 2004. E le previsioni più prudenti lo indicano in ulteriore crescita sia nel 2010 sia nel 2011, quando potrebbe avvicinarsi a quota 10 per cento.

Se poi si guarda ai dati disaggregati si scopre che le cose stanno anche peggio. In particolare, per esempio, quanto al tasso di disoccupazione giovanile (soggetti fra i 15 e i 24 anni), che è arrivato ormai a sfiorare l'impressionante cifra del 27 per cento. Mentre è in aumento la folla, non facilmente quantificabile, di coloro che, sfiduciati da tanti inutili tentativi, hanno ormai rinunciato a cercare un posto di lavoro e così sfuggono pure alle rilevazioni statistiche.

A completare il quadro della condizione drammatica in cui vive un numero sempre maggiore di italiani vanno, infine, considerate le cifre sui ricorsi alla cassa integrazione. A novembre si è registrato un calo rispetto al mese precedente del 10,3 per cento di quella ordinaria, ma non è affatto una buona notizia come può sembrare a prima vista. Perché gli accessi a quella straordinaria e a quella in deroga hanno fatto un salto in alto rispettivamente del 34,6 e del 21,3 per cento. Il che significa che alcune situazioni aziendali critiche stanno diventando croniche, con il rischio che in qualche caso la
cassa integrazione possa presto rivelarsi soltanto un'anticamera per altri licenziamenti di massa.

Di fronte a una simile realtà ce ne sarebbe più che abbastanza per rendersi conto che sulla società italiana si sta abbattendo uno tsunami ben più serio e allarmante di quello che ha scosso nei mesi scorsi i bilanci delle banche: una moltitudine di cittadini, infatti, risulta esposta pesantemente alla minaccia di perdere la più naturale forma di sostentamento, con l'aggravante di spegnere le speranze di lavoro segnatamente nelle generazioni più giovani. Di che altro, quindi, dovrebbe occuparsi chi ha la responsabilità di governo del paese se non di questa emergenza prioritaria?

Ma proprio qui siamo al guaio peggiore. Tanto il ministro Maurizio Sacconi (Lavoro) quanto il suo collega Claudio Scajola (Sviluppo) non sanno farfugliare di meglio se non che, in fondo, il tasso di disoccupazione dell'Italia è migliore della media europea. Il che equivale a dire, per esempio, a un giovane licenziato in Sicilia che stia buono e si consoli pensando che ci sono suoi coetanei in Andalusia i quali se la vedono anche più brutta di lui. Nella pur risaputa predicazione berlusconiana dell'ottimismo a tutti i costi non si era mai raggiunto un così alto e indecoroso livello di cinismo politico e sociale.

(11 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Banchieri sempre in piedi
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 08:17:42 pm
Banchieri sempre in piedi

di Massimo Riva


Grande è la confusione nel cielo della finanza internazionale ma, a dispetto della celebre massima di Mao, la situazione è tutt'altro che eccellente. Soprattutto in Europa: cessato il terrore dei default a catena, numerosi banchieri hanno rialzato la cresta e stanno tornando a correre nella prateria dei rischi avventurosi, come nulla fosse stato. Si susseguono sempre più severi i moniti delle autorità monetarie a consolidare la capitalizzazione degli istituti di credito, ma i richiami del buon Trichet cadono come inutili sassi nell'acqua.

Mentre In Italia si chiacchiera a vuoto in materia, altri governi hanno deciso di dare una lezione ai più arroganti fra i banchieri colpendoli dove loro può far più male sul piano personale: il portafoglio. Primo fra tutti il premier britannico, Gordon Brown, che più degli altri ha svenato le casse statali per soccorrere gli istituti di credito sull'orlo del fallimento.

Brown non sopporta che, appena i conti si sono messi un po' meglio anche grazie alle iniezioni di denaro pubblico, i banchieri siano tornati a gratificarsi con cospicui buoni premio. E perciò ha deciso di imporre un prelievo fiscale pesante su simili compensi autogestiti. Mossa che ha subito raccolto ampio appoggio popolare, obiettivo non trascurabile per un premier in difficoltà e per giunta prossimo ad elezioni politiche generali.

Sullo stesso treno di Brown è salito in corsa anche il presidente francese che ha annunciato analoghe tagliole fiscali per i banchieri di casa propria. Sarkozy non è sotto scadenza elettorale, ma non attraversa momenti felici nei suoi rapporti con il Paese: un provvedimento di così facile impatto positivo sulla pubblica opinione può aiutarlo a recuperare parte del consenso perduto.

Diversa è la musica che si suona a Berlino. Angela Merkel
ha appena superato lo scoglio del voto e ha costituito un governo con il partito liberale da sempre ostile a nuove imposte. Accampando ostacoli giuridici la cancelliera non vuole seguire l'esempio anglo-francese e in alternativa rilancia la cosiddetta Tobin tax, cioè un piccolo prelievo ma su tutte le transazioni finanziarie mondiali. Un modo per mandare in corner la palla della maximposta sui bonus dei banchieri e lasciare tutto come sta. Perché il limite principale della pur luminosa Tobin tax è che per funzionare davvero essa dovrebbe essere introdotta a livello planetario. E si sa che la ferma contrarietà degli Stati Uniti rende simile proposta del tutto accademica.

Ritorna così di prepotenza in primo piano il principale buco nero che lo tsunami finanziario ha lasciato alle sue spalle: quello dell'incapacità dei maggiori governi nazionali a rimettere davvero ordine sui mercati, convergendo su misure di efficacia generale. Per carità, punire con una tassa ad hoc l'avidità dei banchieri che si riempiono le tasche di soldi in simili frangenti è magari sacrosanto. Ma che la politica non sappia escogitare di meglio perché guarda soprattutto al tornaconto demagogico immediato è quanto meno sconsolante. Tanto più nel vuoto di interventi per scongiurare i guai che molti avventurieri del credito stanno di nuovo preparando.

(16 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il dilemma del debito
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2009, 03:29:12 pm
Il dilemma del debito

di Massimo Riva
 

L'eredità peggiore che il vecchio anno trasferisce al nuovo si chiama debito sovrano. Ovvero quello che, in misura maggiore o minore, un po' tutti gli Stati hanno lasciato espandere nel corso del 2009 sotto il duplice incubo delle crisi bancarie e della caduta delle attività produttive. Con il concorso di una politica monetaria accomodante delle banche centrali che ha favorito la corsa all'indebitamento attraverso tassi d'interesse mai visti così bassi.

Il caso più imponente è quello degli Stati Uniti che hanno superato il picco storico dei 12 mila miliardi di dollari, quasi l'80 per cento del Pil. Ma anche in Europa non si è scherzato: perfino la virtuosa Germania ha gagliardamente infranto la fatidica soglia del 60 per cento in rapporto al Pil fissata nelle tavole di Maastricht. Quanto all'Italia, già titolare del primato continentale negativo, le cose sono andate di male in peggio. A fine ottobre - dato ufficiale di Bankitalia - il debito nazionale ha scavalcato i 1.800 miliardi di euro con un incremento tra l'8 e il 9 per cento in un anno: circa il doppio della caduta registrata dal Pil.

Secondo stime autorevoli, nel corso del 2010, i paesi dell'Eurozona saranno costretti in conseguenza ad emettere titoli di Stato nell'ordine dei mille miliardi di euro. Per gli Stati Uniti la previsione è addirittura di una quantità doppia in dollari. Sui mercati finanziari si aprirà, quindi, una massiccia campagna di collocamenti dagli esiti quanto mai incerti soprattutto per i paesi più esposti o giudicati meno affidabili. Ai quali non resterà che alzare i rendimenti dei propri titoli per non restare a bocca asciutta. Ciò che sta accadendo in questi giorni alle emissioni del governo di Atene è già una chiara avvisaglia del processo in atto.

L'Italia, per fortuna, non ha gli stessi guai della
Grecia. Ciò non toglie che, date le dimensioni del suo debito (il terzo del mondo in rapporto al Pil), il nostro paese rischia di soffrire parecchio nella concitata gara al collocamento dei titoli pubblici. Lo stesso ministro Tremonti aveva a più riprese messo in guardia su simile minaccia già nel corso di quest'anno. Il fatto che finora non sia accaduto nulla al riguardo indica soltanto che Tremonti ha sbagliato nei tempi del suo allarme, non nella sostanza. Il fenomeno di un costo crescente del servizio del debito che non si è prodotto nel 2009 ha elevate probabilità di verificarsi nel corso del 2010.

Ecco perché sconcerta non poco che lo stesso ministro, il quale aveva previsto un simile pericolo, abbia lasciato correre a briglia sciolta il debito creando così le più solide premesse per la materializzazione dei suoi timori. Per giunta con l'aggravante di aver azzerato l'avanzo corrente (il saldo fra entrate e uscite ordinarie) cosicché nel 2010 il paese si troverà a fare ricorso al mercato non soltanto per rifinanziare il debito in scadenza, ma anche per pagare i maggiori interessi sul medesimo. Insomma, nuovi prestiti per pagare a costi crescenti il servizio di quelli vecchi. Un esercizio di acrobazia contabile che allunga sull'Italia del 2010 l'ombra incresciosa di un avvitamento dei conti pubblici.

(22 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Sacconi e i disoccupati
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2010, 11:46:57 pm
Sacconi e i disoccupati

di Massimo Riva


Il ministro del Lavoro promette di affrontare la riforma degli ammortizzatori sociali solo dopo le elezioni regionali.
Il messaggio ai disoccupati è chiaro: stringete ancora la cinghia perché il governo ha altro da fare
 
Il 2010 sarà un anno particolarmente orribile sul fronte dell'occupazione. I primi, fragili vagiti di ripresa economica, infatti, non saranno in grado di arrestare la slavina di posti di lavoro che già ha cominciato a manifestarsi nel 2009. E ciò perché molte aziende non stanno più reggendo le nuove sfide del mercato, mentre quelle che sono in condizione di farcela dovranno comunque ricorrere a pesanti ristrutturazioni della manodopera. Su questa amara previsione concordano tutti i più autorevoli osservatori nazionali e internazionali: dalla Confindustria all'Ocse, passando per il Fondo monetario e la Commissione di Bruxelles.

In Italia, dove dall'inizio della crisi di posti se ne sono già persi circa mezzo milione, la situazione si annuncia forse un po' meno drammatica che in altri paesi europei (la Spagna innanzi tutto), ma solo perché il massiccio ricorso alle varie forme di Cassa integrazione ha in parte attenuato l'impatto sociale del fenomeno. Anche se, in larga misura, i licenziamenti hanno colpito la parte più debole del mercato del lavoro, concentrandosi sui titolari di quei contratti a tempo determinato che a molti erano sembrati il toccasana per la disoccupazione giovanile. Cosicché proprio i più giovani e precari si sono ritrovati sul marciapiede dalla sera alla mattina, senza protezione alcuna.

O, per meglio dire, con una protezione pomposamente annunciata dal governo Berlusconi che, alla prova dei fatti, si è rilevata un'autentica burletta. Primo, perché la misura del contributo (140 euro al mese in media) ha il sapore di una pidocchiosa elemosina. Secondo, perché si tratta comunque di un'elargizione 'una tantum'. Terzo, perché le regole fissate dalla legge per il riconoscimento del sussidio sono state così occhiutamente concepite che soltanto il 15 per cento delle domande è andato a buon fine.
Morale: centinaia di migliaia di giovani sono a mani vuote sia di lavoro sia di aiuti. Nel totale del mercato Bankitalia calcola che almeno un milione e 600 mila italiani siano esposti alla disoccupazione senza riparo alcuno.

A questo punto, però, quella che ha tutte le caratteristiche di una tragedia sociale incombente rischia di tradursi in farsa politica dopo l'ultimo annuncio del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Il quale ha sì riconosciuto la necessità di una riforma degli ammortizzatori sociali e precisato che questa dovrà prevedere "un'indennità di disoccupazione su base generalizzata", ma ha anche soggiunto, sfidando l'anacoluto, che se ne parlerà soltanto ".dopo le elezioni regionali della prossima primavera, in un quadro di stabilità democratica che il Paese vorrà prendere dopo il voto.".

Che cosa c'entrano, infatti, le elezioni regionali e la 'stabilità democratica' con l'urgenza di venire incontro alle necessità vitali di chi si trova senza lavoro e senza soldi? Mistero per nulla glorioso. Mentre chiarissima è la cinica sostanza del messaggio inviato ai disoccupati: stringete ancora la cinghia che il governo ha altro da fare.

Magari le leggi ad personam per scongiurare il più eccellente dei licenziamenti: quello di Silvio Berlusconi, che di sussidi non avrebbe certo bisogno.

(08 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Effetto Bengodi
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:59:18 am
Effetto Bengodi

di Massimo Riva
 

Il presidente del Consiglio ha detto di coltivare il sogno di ridurre le aliquote dell'imposta personale sui redditi a due soltanto: 23 per cento fino a centomila euro e 33 oltre questa soglia. A stretto giro di posta, il suo degno ministro dell'Economia si è precipitato ad allinearsi a questo volo di fantasia. L'impatto mediatico di simili annunci è stato travolgente tanto che su numerosi giornali sono subito apparse allettanti tabelle per evidenziare i benefici di una tale riforma tributaria per le tasche dei contribuenti.

Ne è nata così una sorta di psicofarsa collettiva che ha totalmente emarginato agli occhi della pubblica opinione la condizione dirimente perché il sogno del duo Berlusconi-Tremonti possa compiere anche solo i primi e graduali passi per materializzarsi ovvero quel riequilibrio dei conti pubblici che, proprio nell'ultimo anno, hanno subìto un ulteriore e pesante deterioramento. Perfino nell'opposizione c'è stato chi ha mostrato di prendere sul serio la sortita del Cavaliere e ha cominciato a criticarne con puntiglio il merito sostenendo, per esempio, che un'imposta con due aliquote siffatte sarebbe troppo favorevole per i più ricchi e troppo poco per i meno abbienti. Quasi che fosse ormai urgente prepararsi a un esame parlamentare su un provvedimento di imminente approvazione da parte del Consiglio dei ministri.

Insomma, la trappola astutamente escogitata dal premier ha funzionato per ora con indubbia efficacia. Cosicché il tema fiscale non solo sta tenendo banco nell'avvio della campagna elettorale per il voto regionale, ma servirà anche da ottimo diversivo per oscurare il fatto che, nelle prossime settimane, il Parlamento sarà impegnato soprattutto a votare una panoplia di leggi ad personam col fine di evitare al medesimo presidente del Consiglio ogni rendiconto con i tribunali.

Alla luce dell'evidente successo che il parlar di chimere incontra nel dibattito politico nazionale, vorrei confessare che anch'io - oggi purtroppo con scarse speranze - coltivo qualche sogno. In particolare, quello di vivere in un paese banalmente normale. Guidato da un presidente del Consiglio che, invece di lanciare demagogico fumo negli occhi dei cittadini, si acconci a una gestione responsabile della cosa pubblica a cominciare da una più corretta gerarchia dei problemi. In concreto: che, prima di far balenare un Bengodi fiscale per i contribuenti, spieghi loro come intende regolarsi con quella montagna di debito pubblico (vicino ai 1.800 miliardi) che già da sola risulta sufficiente a ipotecare il reddito di due o tre delle prossime generazioni di italiani.

Quello del mio sogno, insomma, è un premier che, invece di nascondersi dietro il paravento di un debito ereditato dalle altrui cattive gestioni, si impegni lui per primo a non farlo crescere ulteriormente come già fatto in passato e come di nuovo è accaduto - ahinoi - proprio nell'ultimo anno in una misura prossima ad altri 140 miliardi. Cifra che da sola vale quattro-cinque volte il beneficio che verrebbe ai contribuenti dalle due aliquote del favoloso progetto berlusconiano.

(14 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Il teatrino di Brunetta
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2010, 11:57:58 am
Il teatrino di Brunetta

di Massimo Riva
 

Con Renato Brunetta non si corre davvero il rischio di annoiarsi. Maestro nell'arte della politica ridotta a mero spettacolo, egli tiene la scena con l'abilità di un consumato cabarettista. Non passa settimana, talvolta neppure giorno, senza che qualche sua sortita trovi ampio spazio nei giornali e in televisione, per essere poi rapidamente superata e sostituita con pari eco sui media da altra e magari anche più spassosa battuta. Insomma, quel che si dice un vero talento della comicità, ben consapevole del fatto che le fortune di un umorista sono essenzialmente legate alla sua capacità di rinnovare in continuazione il repertorio.

L'aspetto un po' meno burlesco delle sue incessanti esibizioni consiste nel particolare che Brunetta è pur sempre un ministro della Repubblica, incarico che lo spinge a esercitare la sua 'vis comica' su temi, argomenti, problemi che mal si prestano ad essere trattati con la giocosa levità dei frizzi e dei lazzi. È questo il caso - per restare alle cronache recenti - della soluzione che il nostro ha avanzato per uno dei fenomeni più regressivi in atto nella società italiana: quello del crescente numero di giovani che, pur avendo superato anche i trent'anni, non si decidono a uscire dalla casa dei genitori per avventurarsi in solitario o in coppia nella vita.

Il fatto è guardato da più parti con preoccupazione perché considerato sintomo grave dell'incapacità del sistema di offrire alle giovani generazioni opportunità appetibili di autonomia economica, ovvero un lavoro e un salario decenti. Che fare per sciogliere un simile nodo? Ed ecco, sulla scorta dell'alessandrino esempio di Gordio, la brillante trovata del ministro veneziano. Il nodo non si scioglie, ma si taglia con una legge che obblighi tutti i ragazzi a uscire dalla casa natale al compimento dei 18 anni.


Non pago del coro di risate raccolto da simile boutade, invece di cambiare copione, l'incontenibile Brunetta è tornato sull'argomento col tono stavolta di chi vuol fare sul serio. C'è il problema di come e dove potrebbero campare i diciottenni estromessi dalle mura paterne? Ed ecco la soluzione del nostro: un'altra legge per destinare a tutti costoro 500 euro mensili da spesare con una congrua e speculare riduzione delle pensioni di anzianità. Lo spettacolo ha così raggiunto toni tragicomici, tanto che per far calare in fretta il sipario è partita una nota ufficiale di presa di distanza da Palazzo Chigi.

Ma anche questa non è bastata. Stizzito per l'insuccesso della sua rappresentazione, Brunetta ha reagito tacciando l'Italia intera di essere un "paese di ipocriti" nel quale troppo si dà ai padri e troppo poco o nulla ai figli. Battuta questa che si rivela per una volta tutto meno che umoristica nella sua essenziale veridicità. Basti pensare al fatto che la continua crescita del debito pubblico altro non costituisce se non un pesante aumento delle tasse a carico delle future generazioni di italiani: nell'ordine di circa 140 miliardi in più sotto la gestione dell'attuale governo. Dettaglio luciferino cui finora Renato Brunetta non sembra prestare grande attenzione, né come ministro né come brioso intrattenitore.

(28 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Un bolscevico a Washington
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2010, 10:46:17 am
Un bolscevico a Washington

di Massimo Riva
 

Negli anni Trenta il 'bolscevico della Casa Bianca' - come allora i bancarottieri di Wall Street chiamavano il presidente Franklin D. Roosevelt con disprezzo misto a paura - salvò il mercato capitalistico dalle sue pulsioni peggiori imponendogli regole nuove, in particolare delimitando il campo di gioco delle attività più speculative ovvero più rischiose. Quello fra autorità politica e potere economico fu uno scontro durissimo, che la prima vinse proprio per la determinazione con la quale seppe perseguire i suoi obiettivi regolatori.

Anche se in quel tempo non esisteva il mercato globale nel quale oggi si vive, la lezione di Roosevelt fece scuola un po' dappertutto. Perfino nell'Italia fascista, dove la legge bancaria del 1935 ricalcò l'impostazione del celebre Glass Steagall Act del 1933, segnatamente sul punto della separazione rigida fra banche di credito ordinario e banche d'investimento. Per mezzo secolo questa distinzione ha operato con successo evitando che i crac bancari, che pure vi sono stati, avessero conseguenze devastanti per l'intero sistema finanziario.

Purtroppo il contrappasso di questo lungo periodo di relativa 'pax bancaria' è stato quello di rendere le autorità politiche più sensibili alle richieste degli spiriti animali del capitalismo che reclamavano mani più libere per i loro affari. In sostanza, il discorso era: "Vi abbiamo dimostrato di essere bravi, adesso lasciateci fare, togliendo di mezzo vincoli e limiti ormai obsoleti". Cosicché, negli ultimi due decenni, un po' dappertutto si sono levate le barriere e si è tornati al modello della banca tuttofare, pronta a impiegare in scommesse ad azzardo elevato anche i soldi raccolti agli sportelli. Coi bei risultati che da un paio d'anni sono sotto gli occhi di tutto il mondo.

Ora, finalmente, pare che un altro bolscevico si sia insediato nel bianco palazzo di Pennsylvania Avenue e voglia ordinare la marcia indietro verso gli anni Trenta. Suo mentore in questa operazione è quel vecchio saggio di Paul Volcker (già capo della Federal Reserve prima del lassista Alan Greenspan) che per età conserva una memoria diretta del decennio rooseveltiano. La principale mossa annunciata dal presidente Obama, infatti, consiste nel divieto per le banche di usare i depositi dei clienti per operazioni speculative in proprio. Sembrerebbe una misura di ovvia ed elementare cautela, ma essa è già bastata per scatenare una guerra furibonda dei banchieri contro le interferenze della politica.

Questo ritorno al clima degli anni Trenta dovrebbe ricordare a Obama e ancor più a Volcker che il successo di Roosevelt nacque non da mezze misure, come quelle ora annunciate, ma dal taglio deciso di alcuni nodi che oggi sono gli stessi di allora. Insomma, ci vuole un altro Glass Steagall Act che separi banca da banca, nonché oggi pure banca da assicurazione. Se guerra vogliono i banchieri, che guerra sia per mete più consistenti.

P.S. Non mi sono soffermato sui contrasti italiani in materia perché finora l'unica iniziativa pratica dell'autorità politica è stata la mobilitazione dei prefetti contro i banchieri. Che ricorda sì gli anni Trenta, ma in una chiave da Carnevale dei Guf.

(04 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Tremonti contro Tremonti
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2010, 02:03:58 pm
Tremonti contro Tremonti

di Massimo Riva
 

È urgente che qualcuno fra coloro che gli stanno più vicini richiami Giulio Tremonti a una realtà che egli sembra aver dimenticato: quella di essere lui il ministro dell'Economia in carica. Infatti, di nuovo al G7 nella gelida terra degli inuit canadesi, il nostro è tornato a riproporre un ritornello su cui si esercita a vuoto da troppo tempo. Quello del primato dei politici sui tecnici nel definire e varare le nuove norme per imbrigliare i mercati finanziari in modo da scongiurare il ripetersi dei disastri che si sono verificati negli ultimi anni.

Intanto, questa stucchevole litania tremontiana ha una seria controindicazione perché fa trasparire - sovente anche in sedi estere - una tale incontrollata animosità nei confronti del governatore della Banca d'Italia (che presiede con il consenso dei principali governi l'istituzione tecnica più qualificata in materia) da recare non lievi danni all'immagine internazionale del Paese e delle sue istituzioni. Ciò che più conta, però, è che con queste sortite Tremonti si pone in contraddizione con se stesso e con le ragioni dell'ufficio ricoperto.

Il suo non è il caso di un conferenziere che può dire quel che gli pare e piace su tecnici, politici e mercati. Tremonti è ministro della Repubblica per l'Economia ovvero è la principale autorità politica per quanto riguarda l'intera materia di regolazione del sistema finanziario. A lui spetta il compito istituzionale di assumere tutte le iniziative che ritenga più utili per riportare ordine e pulizia nelle attività finanziarie. Dunque, non è a un sosia ma a se stesso che rivolge l'invito ad affermare il primato della politica. E allora tessa la sua tela (se ce l'ha), prenda concrete iniziative di legge e lasci stare le giaculatorie.

Purtroppo, il bilancio di quanto fatto finora è scadente. Dapprima Tremonti ha esordito con una sovrattassa sulle banche decisa solo pochi mesi prima di dover correre con pubblico denaro in soccorso dei bilanci delle medesime. Una svista niente male per chi ama presentarsi come l'unico al mondo ad aver previsto il
patatrac del 2008. Poi ha escogitato la trovata di nominare sul campo i prefetti vigilanti dell'esercizio del credito: una nuvola di fumo nerastro orbace da gettare negli occhi della pubblica opinione per nascondere il sostanziale nulla di fatto.

E, con simili precedenti, adesso insiste nel perorare il primato della politica? Ma qualcuno forse gli ha impedito di esercitare meglio tale primato? E chi se non lui stesso? L'amministrazione Obama, che è in carica da meno tempo del governo Berlusconi, ha deciso di vietare alle banche di lanciarsi in speculazioni coi soldi dei depositanti, primo passo - si spera - per ristabilire la saggia separazione fra banche ordinarie e banche d'investimento. Tremonti ha detto di concordare su questa iniziativa. Bene e allora si muova, metta in cantiere qualcosa di analogo anche per l'Italia. Si occupi magari anche di norme per sciogliere i rischiosi intrecci fra banca e assicurazione. Altrimenti finirà per offrire ulteriori argomenti agli autori del pamphlet il cui titolo dice lapidariamente: 'Tremonti. Istruzioni per il disuso'.

(11 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Non lucciole ma Draghi
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2010, 10:53:35 am
Non lucciole ma Draghi

di Massimo Riva
 
Con la sua cura per la precisione e per il dettaglio dei dati la Banca d'Italia ha rovinato la festa di Giulio Tremonti e soci per lo sbandierato successo dello scudo fiscale. Secondo le cifre del governo, infatti, la sanatoria offerta agli esportatori illegali di capitali avrebbe totalizzato ben 95 miliardi di euro, di cui 85 attraverso "rimpatri effettivi" di denaro. Un tale trionfo, dunque, da tappare la bocca a tutte le obiezioni di coscienza, di legalità, di equità avanzate dai critici dell'operazione.

E ciò perché quegli 85 miliardi - nella visione propagandata dal governo all'insegna del 'pecunia non olet' - dovrebbero presto trasformarsi in una poderosa fonte di investimenti a beneficio del sistema produttivo domestico. Fin dal principio, del resto, il principale argomento con il quale il ministro Tremonti ha cercato di giustificare l'abnorme provvedimento è stato proprio questo: ci sono migliaia e migliaia di piccole e medie imprese in difficoltà per la stretta del credito; lasciamo che i loro padroncini - pagando un pur modesto obolo - riportino a casa il denaro illecitamente esportato in modo da rimpinguare le casse delle proprie aziende; tutta l'economia ne riceverà un grande beneficio.

Ma ecco appunto la Banca d'Italia a ridimensionare pesantemente il disinvolto entusiasmo del governo. Secondo l'Istituto che registra i flussi della bilancia dei pagamenti, i capitali materialmente rientrati in Italia assommano a non più di 35 miliardi: parecchio meno della metà dei favolosi 85 vantati dai promotori dello scudo. Una banale operazione-verità che, però, ha fatto saltare i nervi ai millantatori del governo Berlusconi. Anche perché l'atteso boom degli investimenti non è per ora alle viste.

Il ministro Tremonti si è pronunciato martedì 23 in appoggio al comunicato dell'Agenzia delle Entrate nel quale, fra l'altro, si dice testualmente che "i giochi statistici possono essere diversi, ma è la somma che fa il totale". Un furbesco gioco - questo sì - di parole che si guarda bene dallo smentire la disaggregazione dei dati operata da Bankitalia e invita a guardare alla cifra complessiva senza fare distinzioni che per il governo suonano solo imbarazzanti.

Chi, invece, ha perso proprio le staffe è il ministro Roberto Calderoli che è partito lancia in resta in un attacco furibondo. "Banca d'Italia o Banca d'opposizione?", si è chiesto con soave sarcasmo l'esponente leghista. E ha proseguito con grande finezza linguistica accusando gli statistici della Banca centrale di aver scambiato "fischi per fiaschi". Ma neppure lui ha messo in campo validi argomenti per smentire i calcoli fatti da Via Nazionale.

Non è la prima volta che membri del governo Berlusconi fanno polemica con i dati di Bankitalia: il ministro Maurizio Sacconi lo ha fatto ripetutamente in tema di disoccupazione. Ciò che rende tutto questo allarmante non è, però, la dialettica fra differenti punti di vista, ma la pretesa sempre più arrogante ed esplicita secondo cui la Banca d'Italia dovrebbe tenere nascosta ogni verità scomoda per la propaganda del governo. C'è un vezzo tirannico in questa attitudine che lascia sgomenti.

(25 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Non lucciole ma Draghi
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:14:34 am
Non lucciole ma Draghi

di Massimo Riva
 
Con la sua cura per la precisione e per il dettaglio dei dati la Banca d'Italia ha rovinato la festa di Giulio Tremonti e soci per lo sbandierato successo dello scudo fiscale. Secondo le cifre del governo, infatti, la sanatoria offerta agli esportatori illegali di capitali avrebbe totalizzato ben 95 miliardi di euro, di cui 85 attraverso "rimpatri effettivi" di denaro. Un tale trionfo, dunque, da tappare la bocca a tutte le obiezioni di coscienza, di legalità, di equità avanzate dai critici dell'operazione.

E ciò perché quegli 85 miliardi - nella visione propagandata dal governo all'insegna del 'pecunia non olet' - dovrebbero presto trasformarsi in una poderosa fonte di investimenti a beneficio del sistema produttivo domestico. Fin dal principio, del resto, il principale argomento con il quale il ministro Tremonti ha cercato di giustificare l'abnorme provvedimento è stato proprio questo: ci sono migliaia e migliaia di piccole e medie imprese in difficoltà per la stretta del credito; lasciamo che i loro padroncini - pagando un pur modesto obolo - riportino a casa il denaro illecitamente esportato in modo da rimpinguare le casse delle proprie aziende; tutta l'economia ne riceverà un grande beneficio.

Ma ecco appunto la Banca d'Italia a ridimensionare pesantemente il disinvolto entusiasmo del governo. Secondo l'Istituto che registra i flussi della bilancia dei pagamenti, i capitali materialmente rientrati in Italia assommano a non più di 35 miliardi: parecchio meno della metà dei favolosi 85 vantati dai promotori dello scudo. Una banale operazione-verità che, però, ha fatto saltare i nervi ai millantatori del governo Berlusconi. Anche perché l'atteso boom degli investimenti non è per ora alle viste.

Il ministro Tremonti si è pronunciato martedì 23 in appoggio al comunicato dell'Agenzia delle Entrate nel quale, fra l'altro, si dice testualmente che "i giochi statistici possono essere diversi, ma è la somma che fa il totale". Un furbesco gioco - questo sì - di parole che si guarda bene dallo smentire la disaggregazione dei dati operata da Bankitalia e invita a guardare alla cifra complessiva senza fare distinzioni che per il governo suonano solo imbarazzanti.

Chi, invece, ha perso proprio le staffe è il ministro Roberto Calderoli che è partito lancia in resta in un attacco furibondo. "Banca d'Italia o Banca d'opposizione?", si è chiesto con soave sarcasmo l'esponente leghista. E ha proseguito con grande finezza linguistica accusando gli statistici della Banca centrale di aver scambiato "fischi per fiaschi". Ma neppure lui ha messo in campo validi argomenti per smentire i calcoli fatti da Via Nazionale.

Non è la prima volta che membri del governo Berlusconi fanno polemica con i dati di Bankitalia: il ministro Maurizio Sacconi lo ha fatto ripetutamente in tema di disoccupazione. Ciò che rende tutto questo allarmante non è, però, la dialettica fra differenti punti di vista, ma la pretesa sempre più arrogante ed esplicita secondo cui la Banca d'Italia dovrebbe tenere nascosta ogni verità scomoda per la propaganda del governo. C'è un vezzo tirannico in questa attitudine che lascia sgomenti.

(25 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Geronzi cerca casa
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2010, 11:27:01 am
Geronzi cerca casa

di Massimo Riva
 

L'economia italiana vive momenti di forte sofferenza. Il sistema produttivo fatica a riprendersi dalla gran botta recessiva subita nel 2009, i consumi ristagnano, la disoccupazione continua a crescere. Il riflesso sui conti pubblici è pesante: deficit d'esercizio e debito cumulato sono in forte aumento, mentre l'avanzo primario è tornato ad essere disavanzo. Diffuso è il timore che, dopo la Grecia e la Spagna, possa essere proprio l'Italia a finire presto al centro di attacchi speculativi sui mercati internazionali.

In perfetta sintonia con il governo, che galleggia su questo allarmante scenario senza fare nulla, anche il gotha finanziario domestico sembra in tutt'altre faccende affaccendato. Nel ristretto circuito di potere che tiene assieme Unicredit, Mediobanca, Generali e Intesa-Sanpaolo, infatti, è in corso un'intricata partita che si può riassumere nell'obiettivo di trovare un posto tranquillo per Cesare Geronzi, attuale presidente di Mediobanca. Il fatto è che quest'ultimo non è ancora uscito dalla catena dei suoi guai giudiziari e sul suo capo pende ancora la minaccia di qualche condanna che lo priverebbe dei requisiti necessari per poter restare al vertice di Piazzetta Cuccia.

Ma si può lasciare un personaggio come Geronzi senza un'adeguata poltrona? Il caso vuole che sia in scadenza la presidenza di Antoine Bernheim alle Assicurazioni Generali, di cui Mediobanca è l'azionista di maggioranza relativa. In verità sostituire l'ottantacinquenne Bernheim con il settantacinquenne Geronzi, digiuno per altro di esperienze assicurative, non sembra il miglior messaggio di rinnovamento da inviare ai mercati, ma il cambio darebbe un indubbio vantaggio soggettivo. Per una di quelle stravaganze non insolite nel nostro ordinamento, i requisiti di onorabilità richiesti per gestire una società d'assicurazioni sono ancora meno severi di quelli previsti per i banchieri. Morale (si fa per dire) al vertice di Generali l'ottimo Geronzi troverebbe una sistemazione più tranquilla, anche se le sue vicende giudiziarie dovessero prendere una brutta piega.

Purtroppo sostituire Bernheim con Geronzi significa chiudere una partita e aprirne un'altra, stavolta sulla presidenza di Mediobanca. E qui le cose si complicano perché nell'istituto di Piazzetta Cuccia azionisti partecipanti e partecipati s'intrecciano fra loro in un orribile monumento al conflitto d'interessi che preclude ogni speranza di avere in Italia un mercato finanziario aperto e competitivo come si dovrebbe. Né c'è da sperare che si possa uscire da queste logiche da cupola mafiosa con la carezzevole disciplina sulle cosiddette 'parti correlate' che la Consob mette ora in campo.

Le prime candidature avanzate per una successione in Mediobanca sono state subito impallinate, mentre l'astuto Geronzi tiene coperte le carte perché sa che la sua strada per Trieste passa per la soluzione preventiva del nodo di Milano. La partita dovrebbe chiudersi entro marzo. Chissà se da aprile gli augusti esponenti del potere finanziario troveranno il tempo di occuparsi di qualcosa di più utile di una poltrona per Geronzi: per esempio, dei guai dell'economia italiana.

(04 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Disoccupati e abbandonati
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2010, 03:22:14 pm
Disoccupati e abbandonati

di Massimo Riva
 

Oltre due milioni di italiani sono già senza lavoro mentre, ogni giorno che passa, la fila dei disoccupati si allunga di ulteriori migliaia di sventurati. Licenziano le imprese che non ce la fanno più a stare sul mercato, ma licenziano pure quelle che per reggere la competizione non riescono a fare di meglio se non liberarsi di manodopera. In una situazione così drammatica tutto ci si dovrebbe aspettare da chi ha responsabilità di governo fuorché provvedimenti mirati a rendere più facili e spedite le procedure per disfarsi dei lavoratori.

Purtroppo così non la pensa Maurizio Sacconi, un ministro che non perde occasione per andare controcorrente. Già ai suoi esordi si era distinto per una cantonata davvero sconcertante: la detassazione dei redditi da lavoro straordinario, varata in una fase nella quale la maggior parte delle imprese già faticava a far fare ai propri dipendenti il normale orario di lavoro. Ora che il problema cruciale del Paese è diventato quella della perdita dei posti di lavoro, ecco l'infaticabile Sacconi andare all'attacco delle garanzie contro i licenziamenti previste nel ben noto articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Presto potrà essere un arbitro e non più un giudice a dirimere le cause sui licenziamenti contestati. Ciò significa che le controversie saranno decise più sulla base di criteri equitativi che non in forza delle disposizioni di legge. Novità dal forte olezzo classista perché comporta un evidente e non lieve spostamento di potere fra le parti contendenti in favore dell'impresa e a danno del lavoratore.

Nel 2002 il precedente governo Berlusconi aveva tentato un attacco frontale al già richiamato art. 18 ed era stato costretto a una precipitosa marcia indietro dopo la straordinaria mobilitazione promossa dalla Cgil di Sergio Cofferati
, che aveva portato in piazza a Roma circa tre milioni di persone. Stavolta il ministro Sacconi è stato più abile: non ha preso la questione di petto, ma ha effettuato una manovra di aggiramento che punta comunque al medesimo obiettivo di indebolire la parte già più debole nel rapporto di lavoro.

Tattica indubbiamente efficace, visto che né i partiti di opposizione né gli stessi sindacati hanno saputo muoversi in tempo per scongiurare il successo dell'operazione. Soltanto ora la Cgil s'è svegliata proclamando uno sciopero di protesta, mentre le altre due più pavide confederazioni si nascondono dietro il fatto che la nuova disciplina potrà diventare esecutiva solo dopo il suo recepimento nei contratti collettivi. Un alibi risibile dato che, trascorsi 12 mesi, le modalità del ricorso all'arbitrato saranno fissate d'autorità con proprio decreto dal ministro (si fa per dire) del Lavoro.

Che Cisl e Uil si mostrino così arrendevoli non stupisce più. Ormai è da un pezzo che i loro leader fanno finta di abbaiare mentre scodinzolano in attesa di ricevere qualche carezza di favore dal governo. Ciò che risulta, viceversa, non spiegabile è la tardiva reazione da parte della Cgil e la distratta negligenza con la quale i partiti della sinistra hanno seguito il cammino parlamentare di questa porcheria compiuta alle spalle dei lavoratori.

(11 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Dietro lo scudo Consob
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2010, 06:39:30 pm
Dietro lo scudo Consob

di Massimo Riva
 

Dopo una gestazione estenuante, la Consob ha partorito l'atteso regolamento delle cosiddette operazioni fra parti correlate.
I pochi padroni del mercato borsistico nazionale possono esultare: ora hanno a disposizione una gigantesca foglia di fico dietro la quale riparare le loro peggiori vergogne. In particolare, quell'intricato blocco di conflitti di interessi che ha consentito loro (e ancora consentirà) di praticare spregiudicate operazioni di lucro e di potere sulle spalle del grande gregge dei piccoli risparmiatori ed azionisti. Finora i problemi posti da questo impianto feudale del sistema economico domestico erano stati nascosti ricorrendo a un trucco linguistico ovvero alla definizione di 'capitalismo relazionale', soave espediente per fare apparire fisiologica una situazione minata in realtà da vizi patologici profondi.

Basti pensare a quella grande fabbrica di interessi confliggenti che è stata ed è tuttora la così tanto celebrata Mediobanca, riservatissima stanza di incrocio e compensazione fra i principali protagonisti del potere finanziario nazionale. Adesso, con la solenne scusa di limare le unghie agli abusi che si possono compiere sfruttando simili posizioni di dominio sul mercato, ecco il nuovo regolamento Consob. Con il quale si fa magari qualche passo avanti in termini di maggiore trasparenza delle decisioni, ma al non piccolo prezzo di rendere codificato un modello mercantile inquinato da un endemico conflitto d'interessi, lasciando così sostanzialmente indisturbato il ristretto manipolo dei manovratori della Borsa e dintorni. Le novità introdotte dalla Consob, infatti, sono essenzialmente due. Con la prima si carica sul ruolo dei consiglieri indipendenti - quelli che Guido Rossi ha definito 'financial gigolò' - l'onere del controllo sulle operazioni in conflitto. Con la seconda si stabilisce che, senza il consenso di costoro in consiglio, dovrà essere l'assemblea dei soci a decidere su ogni affare che superi il 5 per cento della capitalizzazione di Borsa della società: una porta spalancata per compiere abusi a fette.

Quanto alla struttura di un mercato dove il conflitto d'interessi è ormai la droga che tiene in piedi il capitalismo italiano, le nuove regole nulla dicono. Le vere vergogne del mercato domestico rimangono, dunque, perfettamente al riparo. Un simile esito, del resto, appare del tutto coerente con le procedure seguite nella fase preparatoria della normativa. Secondo la legge la Consob ha sottoposto una prima e poi una seconda bozza alla consultazione del mercato ovvero di quegli stessi che dal regolamento dovevano essere regolati. Una procedura grottesca perché è un po' come se una commissione incaricata dal ministro della Giustizia di rivedere il codice penale sottoponesse le sue proposte al vaglio di assassini, rapinatori, ladri, corruttori e via delinquendo. Ma di che stupirsi? Con buona pace dei lamenti di facciata del ministro Tremonti, l'abdicazione dello Stato dinanzi al capitale e al potere economico è ormai una costante nell'Italia di questi anni. Non si spiegherebbero altrimenti le fortune di quel mostriciattolo che vive sotto lo pseudonimo di 'capitalismo relazionale'.

(18 marzo 2010)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Progetti? No, poltrone
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2010, 04:34:48 pm
Progetti? No, poltrone

di Massimo Riva
 
Coraggio! Ancora pochi giorni e il tormentone di Cesare Geronzi presidente sì o no delle Assicurazioni Generali sarà finito perché il termine per l'indicazione delle candidature è ormai prossimo alla scadenza. Certo, anche l'ultima puntata si annuncia non meno imbrogliata delle precedenti, dopo che Unicredit ha sdoganato i diritti di voto del suo pacchetto di Generali cedendolo a Fondazioni amiche che potranno così far sentire il loro peso nelle scelte conclusive.

Qualche colpo a sorpresa è, dunque, sempre possibile anche se lo spettacolo offerto per l'occasione dal sedicente gotha finanziario nazionale - si chiuda in un modo o nell'altro - resta assai poco edificante. In particolare, perché non uno degli attori della partita ha cercato di spiegare agli investitori quali visioni e quali programmi alternativi sul futuro della grande compagnia di assicurazioni siano collegabili a questa o a quella candidatura per la presidenza del gruppo. Tutto si è svolto a trattativa riservatissima fra quella mezza dozzina di personaggi che si sono ormai abituati a manovrare sul mercato azionario come fosse cosa loro.

Così di nuovo riaffermando la pessima immagine di un capitalismo domestico patologicamente afflitto da quel mal sottile del potere economico che si può chiamare 'poltronite acuta'. Un morbo pandemico di cui più o meno gli stessi protagonisti dell'affaire Geronzi hanno denunciato sintomi evidentissimi, proprio in questi giorni, con il rinnovo del consiglio d'amministrazione della Rcs Quotidiani, che poi significa in sostanza 'Corriere della Sera'. Può anche darsi che ci fosse una certa dose di ipocrisia nella soluzione adottata finora di delegare la sorveglianza amministrativa sul grande quotidiano a una serie di personaggi della società civile non azionisti. Resta il fatto che un simile modello aveva almeno il pregio di interporre un filtro o comunque un elemento di separatezza tra le volontà padronali dei principali azionisti e l'esercizio di una delicata funzione civile quale la pubblica informazione.


Ora non è più così. Le voci, per altro dissonanti, dei padroni saranno direttamente presenti nel consiglio di Rcs con l'ingresso simultaneo di Giovanni Bazoli, Luca di Montezemolo, Diego Della Valle, Geronzi, Giampiero Pesenti, Marco Tronchetti Provera. Certo, si può anche argomentare che costoro, mettendo così le mani nel piatto, fanno fare un passo avanti in termini di trasparenza all'ambigua posizione azionaria della Rcs Quotidiani: ora forse si capirà meglio chi ordina la musica. Se non fosse che questa migliorata trasparenza fa finire alle ortiche le belle intenzioni di chi amava spiegare la sua partecipazione al 'Corriere' come contributo alla salvaguardia dello storico organo di informazione della borghesia nazionale. Con il nuovo consiglio ogni maschera è caduta: altro che patriottico investimento finanziario. Ormai - da Mediobanca a Generali, passando per il 'Corriere' - si tratta di pura contesa fra soggetti che hanno ridotto le ambizioni del capitalismo nostrano a una conquista di poltrone, slegata da ogni progetto imprenditoriale e concentrata soltanto sull'affermazione del proprio potere personale.

(25 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. I silenzi di Draghi
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 09:43:25 am
I silenzi di Draghi

di Massimo Riva
 
E così il tormentone Geronzi-Generali si è concluso: il settantacinquenne banchiere è riuscito a manovrare con successo per coronare la sua antica ambizione di andare a sedersi in cima al più ricco gruppo finanziario del Paese. Ora si tratta di capire a quali prezzi l'operazione sia andata a buon fine, in particolare per quanto riguarda il costo dei sostegni politici che l'hanno favorita e neanche troppo sotterraneamente. Problema che dovrebbe interessare e - temo - angustiare non poco la vasta platea degli azionisti minori delle Generali.

Che il governo Berlusconi abbia lavorato per spianare la strada a Geronzi è un dato di fatto, anche al netto delle voci sugli appoggi offerti sia dal premier sia dal ministro Tremonti. A rendere plateale il favore politico ha provveduto il ministro Claudio Scajola con dichiarazioni e atti inequivocabili. Come mostra una singolare concatenazione di eventi. Cesare Geronzi ha tuttora in corso procedimenti giudiziari - niente meno che per bancarotta - il cui esito avrebbe potuto privarlo dei requisiti necessari a fare il banchiere, quindi a tenere la sua poltrona in Mediobanca. Tanto che da tempo le sue mire sulle Generali venivano spiegate anche con la ben minore severità delle regole stabilite per gli amministratori delle compagnie d'assicurazioni. Ma proprio di recente questa assurda disparità di trattamenti fra operatori finanziari è stata in parte rivista nel testo di un decreto cui manca solo la firma da parte del ministro Scajola.

Un siluro per Geronzi? Tutt'altro. Il bello di quel testo è che le sue nuove regole sull'onorabilità dei manager assicurativi potranno applicarsi non agli amministratori già in carica, ma soltanto a quelli che saranno nominati dopo l'entrata in vigore del decreto.
Una differenziazione quanto meno bislacca, ma che per il caso Geronzi si è rivelata un abito su misura dopo che il ministro Scajola ha dichiarato di rinviare la firma del decreto al termine ultimo del 30 giugno con la penosa e tartufesca giustificazione di non voler "condizionare le assemblee degli azionisti". Cosicché, grazie a Scajola, Geronzi potrà restare indisturbato presidente delle Generali, anche se qualche sentenza futura dovesse revocare in dubbio la sua onorabilità professionale. Un simile favore personale, calando su Geronzi i panni dell'ultimo boiardo, non può non avere un contrappasso.

Occorrerà che i tanti risparmiatori usi a considerare il titolo Generali una garanzia di prudente gestione stiano in guardia.
Il colosso di Trieste brilla per disponibilità di capitali agli occhi di un governo senza soldi e con parecchie gatte da pelare. C'è il caso Alitalia, dove Berlusconi rischia di perdere la faccia se la compagnia finisce presto nelle mani di Air France. C'è poi la Telecom, dove sempre il premier - a causa dell'intreccio fra cavi telefonici e televisione - teme che tutto possa finire nelle mani degli spagnoli di Telefonica. Ombre minacciose, insomma, si allungano sulle pingui casse di Generali. In proposito sarebbe interessante conoscere anche l'opinione di un particolare azionista di peso, la Banca d'Italia, che è stata finora silente. Chi tace acconsente oppure no?

(31 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Generali sotto accusa
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 04:07:55 pm
Generali sotto accusa

di Massimo Riva
 

Volano gli stracci sulla vicenda Generali e si spezza quel muro di omertoso silenzio che, almeno nelle intenzioni dei protagonisti, avrebbe dovuto circondare la marcia trionfale di Cesare Geronzi verso il vertice del gigante delle assicurazioni. Ed il bello è che a scoperchiare le pentole stavolta è una voce interna al sistema di potere dominante nel circuito Mediobanca-Generali: quella del presidente giubilato di queste ultime, Antoine Bernheim. Che i modi, insieme brutali e sotterranei, con i quali è stato messo alla porta abbiano alimentato un forte risentimento nell'animo di Bernheim va tenuto in debito conto. E però non è certo la prima volta che a Mediobanca si organizzano e si portano a compimento operazioni del genere, mentre è la prima volta che la vittima di una di queste trame rompe con pubbliche e polemiche dichiarazioni il tradizionale costume delle riservate rese dei conti al riparo delle porte imbottite dei cosiddetti salotti buoni.

In ogni caso il punto cruciale è che, al di là di un comprensibile sfogo di amarezza personale, Bernheim mette in campo argomenti pesanti per lanciare un allarme sul futuro della grande compagnia assicurativa. Due i passaggi salienti della sua bellicosa intervista al 'Figaro'. Nel primo attacca la candidatura alla presidenza di Geronzi con parole sprezzanti: "Sono allibito. Non è un assicuratore e ha sempre detto che non voleva quel posto e poi non sappiamo ancora come saranno divisi i poteri tra il presidente e gli amministratori delegati". Nel secondo Bernheim mette in guardia sul rischio che l'operazione sottintenda finalità clandestine e non confessabili: "Sono stato messo da parte perché difendo una gestione ortodossa delle Generali, esclusivamente al servizio degli azionisti e della compagnia, non di interessi particolari. Per questo mi preoccupa molto il futuro di Generali. Dal suo punto di vista Mediobanca non può dare a Generali i margini di manovra di cui ha bisogno". Il riferimento di queste ultime parole di Bernheim è all'utilità di un aumento di capitale per sostenere i progetti espansivi della società.

I timori che lo sbarco di Geronzi a Trieste possa rientrare in una strategia mirata a mettere le mani sulla ricca cassa di Generali per utilizzarla a fini non propriamente di mercato assicurativo, espressi da più parti e anche su queste pagine (vedere 'L'espresso' dell'8 aprile scorso), trovano così una più che autorevole conferma nell'imprevista sortita di Bernheim.

Tanto il vertice di Mediobanca quanto quello della compagnia finora hanno fatto finta di nulla dinanzi alle accuse del presidente uscente, limitandosi a negare l'utilità di un aumento di capitale. Ma il prossimo 24 aprile è in programma l'annuale assemblea dei soci, sede naturale nella quale dare chiare risposte ai tanti, troppi e incresciosi interrogativi che gravano sulla vicenda. In primo luogo, c'è da aspettarsi che lo stesso Bernheim sappia essere all'altezza delle proprie denunce. In particolare, che non si accontenti di ottenere uno strapuntino da consigliere, come traspare un po' obliquamente dalla sua intervista al 'Figaro'. Per la platea dei piccoli azionisti, da lui evocata, sarebbe la beffa più perfida.

(15 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Da Chiamparino a Bossi
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2010, 11:30:46 pm
Da Chiamparino a Bossi

di Massimo Riva
 

La guerra dei campanili bancari che si è accesa sulle nomine ai vertici di Intesa-Sanpaolo rischia di danneggiare non poco l'immagine del grande gruppo creditizio, ma forse ha già compromesso seriamente la reputazione di qualcuno dei suoi maggiori protagonisti. In particolare, del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino.

Considerato finora una delle migliori figure cui i Ds potrebbero affidarsi in un futuro prossimo per risalire la china degli ultimi insuccessi elettorali, il primo cittadino del capoluogo piemontese ha messo mani e piedi nel piatto della contesa bancaria con uno scivolone davvero inatteso e inopportuno. Al punto che chi ne temeva l'ascesa dentro il suo partito - Enrico Letta, per esempio - si è affrettato a cogliere la palla al balzo per bacchettarlo senza risparmio, ma non anche senza ragione.

Il punto è che Chiamparino si è dato un po' troppo da fare per far sì che possa essere il torinese Domenico Siniscalco il nuovo presidente del Consiglio di gestione di Intesa-Sanpaolo al posto di Enrico Salza, anche lui torinese ma sospettato di intelligenza con la controparte milanese della grande fusione bancaria. Una mossa che il signor sindaco ha giustificato in nome della difesa del peso della "torinesità" nell'azienda creditizia e che lo ha portato a spingersi fino a chiedere l'abbandono dell'attuale sistema di governance duale del gruppo per arrivare a un Consiglio d'amministrazione unico con il presidente torinese e l'amministratore delegato milanese.

Già una simile concezione etnica del credito lascia esterrefatti. Si trattasse di una piccola cassa rurale, pazienza per le risse paesane. Ma Intesa-Sanpaolo è uno dei due colossi del credito in Italia ed è regolarmente quotato in Borsa avendo robuste proiezioni internazionali in termini sia di azionariato sia di mercato. Dunque, torinesità o milanesità sono nozioni di cui è arduo afferrare il senso in rapporto a una simile realtà aziendale. Va bene, poi, che il Comune di Torino sia uno dei soci della Fondazione d'origine bancaria che è anche l'azionista maggiore (10 per cento) di Intesa-Sanpaolo, ma che sia il sindaco della città a chiedere una riforma della governance dell'istituto al puro fine di riequilibrare il gioco delle poltrone fra Milano e Torino, questo suona estraneo ad ogni logica di elementare separazione dei ruoli fra politica ed esercizio del credito.

Un fuor d'opera, dunque, che cade pure nel momento politico più sbagliato perché a ridosso della sortita con la quale Umberto Bossi ha minacciato ("La gente ci dice: prendetevi le banche. E noi lo faremo") l'avvio di una campagna di infeudamento del credito attraverso le Fondazioni controllate dagli enti locali conquistati dalla Lega con il recente successo elettorale.

Chiamparino come Bossi? Non è un bel vedere. Eppure c'è chi legge l'iniziativa del sindaco torinese proprio alla luce della vittoria del leghista Cota nel voto per la regione Piemonte: Chiamparino si darebbe tanto da fare per non trovarsi scavalcato dai bossiani nella difesa della torinesità della banca. Una vecchia storia: la moneta cattiva scaccia sempre quella buona.

(23 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Lo spot di Tremonti
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 12:00:44 am
Lo spot di Tremonti

di Massimo Riva

Si vivono giornate molto nervose sui mercati azionari e monetari per la forte incertezza sugli sbocchi della crisi greca e per i timori delle resistenze tedesche. Rassicurare gli italiani è compito del governo. Ma minimizzare, come ha fatto Tremonti, è un'altra cosa

Si vivono giornate molto nervose sui mercati azionari e monetari. Da un lato, gioca la forte incertezza sui possibili sbocchi della crisi che si è aperta in Grecia. Dall'altro, sono diffusi i timori che le caparbie resistenze tedesche sugli aiuti ad Atene possano diventare motivo di attacchi speculativi anche contro altri paesi con i bilanci in disordine. Rassicurare gli italiani sul fatto che la situazione del nostro Paese è ben diversa da quella greca rientra fra i compiti istituzionali del patrio governo. Ma un conto è rassicurare, tutt'altro è minimizzare i rischi incombenti spingendosi - come ha fatto Giulio Tremonti - ad affacciare addirittura una similitudine fra lo stato dei conti italiani e quello dei tedeschi. Lo spunto per questo scriteriato spot pubblicitario è stato offerto dalla pubblicazione di due dati. Il primo riguarda la correzione strutturale ovvero permanente che il Fondo monetario internazionale reputa necessaria fra il 2010 e il 2020 nei vari paesi: per l'Italia è stimata al 4 per cento del Pil, per la Germania poco sotto la stessa percentuale. Il secondo dato, che è stato letto a Roma con compiaciuta sorpresa, si riferisce a una novità verificatasi nella classifica mondiale dei debiti pubblici: l'Italia, da anni terza dopo Stati Uniti e Giappone, è stata scavalcata dalla Germania, il cui stock, a fine 2009, ha raggiunto i 1.762 miliardi, contro i 1.760 del nostro Paese. Dunque, Italia e Germania allineate davanti alle malcerte sfide del futuro? La distorsione implicita in una simile lettura della realtà risulta particolarmente evidente se si pensa che il debito è oggi il fronte più esposto di ogni bilancio pubblico.

Per anni, del resto, lo stesso Tremonti ha sempre detto che il cuore dei guai italiani stava nel fatto di avere il terzo debito del mondo, ma senza essere la terza economia del mondo. Quel che conta, insomma, non è il valore nominale dello stock accumulato ma il suo rapporto in percentuale del Pil. E qui il confronto con la Germania non sta letteralmente più in piedi. I 1.762 miliardi del debito tedesco rappresentano il 73,2 per cento del Pil di quel Paese. I 1.760 miliardi italiani, invece, arrivano al 115,8 per cento del prodotto domestico. Rispetto al fatidico limite del 60 per cento fissato in materia nel
trattato di Maastricht, Berlino sfora di 13 punti percentuali, noi di quasi 56. Altro che due Paesi alla pari! Se poi si guarda all'andamento tendenziale dei rispettivi debiti, le cose stanno anche peggio. Dal 2008 al 2009 quello tedesco è cresciuto di 7,2 punti percentuali, mentre quello italiano di 9,7 punti. E non basta, perché l'ultimo dato ufficiale disponibile dice che alla fine dello scorso febbraio il nostro debito era già schizzato da 1.760 a 1.795 miliardi: altri 35 in più in soli due mesi.

Ciò significa che, in realtà, il mantello del rigore nel quale il ministro Tremonti ama rinserrarsi ha subito strappi e lacerazioni in robusta quantità e ancora ne sta subendo. L'ennesima mascherata dello stare alla pari con la Germania serve, quindi, a ingannare gli italiani e non a rincuorarli.

(29 aprile 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lo-spot-di-tremonti/2126071/18


Titolo: Massimo RIVA. Il boomerang di Bersani
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2010, 02:56:19 pm
Il boomerang di Bersani

di Massimo Riva
 

Uno dei temi da sempre più sfruttati dalla propaganda berlusconiana è quello del Fisco. Nella rappresentazione che il Cavaliere ama dare della questione ci sono, da un lato, gli uomini della sinistra qualificati come partito delle tasse e, dal lato opposto, il Pdl che non mette le mani nelle tasche dei cittadini e, anzi, pensa soltanto a come ridurre le imposte. È un teatrino del tutto falso. Come dimostrano, tanto per restare alla logica implacabile dei numeri, i recenti dati della Banca d'Italia sulla pressione fiscale nel 2009: Silvio Berlusconi regnante, essa è salita a un picco del 43,2 per cento del Pil dal 42,9 dell'anno precedente.

Lascia perciò ancora più stupefatti che a cercare di dare una parvenza di fondamento agli spot berlusconiani siano ora proprio gli esponenti di quel Pd che il Cavaliere ama raffigurare come i Dracula del Fisco. Eppure va registrato che, seppure all'ottimo buon fine sociale di garantire copertura finanziaria a una proroga della Cassa integrazione, dal pensatoio di Pier Luigi Bersani non è uscito di meglio se non la proposta di alzare dal 43 al 45 per cento per il biennio 2010-2011 l'aliquota del prelievo sui redditi superiori ai 200 mila euro. Ipotesi, per giunta, avanzata dietro l'ipocrita schermo nominale di 'contributo di solidarietà', mentre è del tutto evidente che si tratti di una sovrimposta, seppure a tempo determinato.

Anche prima di Robin Hood l'idea di togliere ai ricchi per dare ai poveri ha costituito e ancora costituisce il sostanziale fondamento di qualunque regime tributario improntato ai più elementari principi di equità sociale. Ma in una fase nella quale la pressione fiscale ha già raggiunto i valori che s'è detto, la sortita del Pd appare - se si vogliono usare le stesse parole con le quali Massimo D'Alema ha bollato le iniziative di riforma del governo - davvero 'impressionante per il grado di improvvisazione'. Tanto sul piano economico, quanto su quello politico.

Nel primo caso perché, anziché introdurre qualche primo elemento di riforma di un regime fiscale già inquinato da storture vessatorie verso i redditi da attività lavorative, la proposta Pd si colloca all'interno della vigente logica aberrante aggravandone le distorsioni. Va bene togliere ai ricchi, ma la ricchezza si misura soltanto sui redditi annuali? O forse bisognerebbe allungare lo sguardo anche sui patrimoni e sul tenore dei consumi?

In termini politici, poi, lo sfondone del Pd suona ancora più incomprensibile. Perché, trattandosi di una proposta affacciata in un Parlamento nel quale non esisteva e non esiste la minima possibilità di accoglimento della medesima, la brillante iniziativa assomma il duplice contrappasso di far apparire il Pd come il famigerato partito delle tasse senza neppure che queste poi possano aumentare davvero e almeno fornire i soldi sperati per la proroga della Cassa integrazione. Il classico colpo a salve che danneggia soltanto chi lo ha sparato. Si legge che nel Pd c'è un 'gruppo di lavoro' all'opera per definire presto una serie di proposte organiche di riforma fiscale. Con simili precedenti, non si sa se temere o sperare.

(06 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-boomerang-di-bersani/2126504/18


Titolo: Massimo RIVA. La catena del debito
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 11:08:29 pm
La catena del debito

di Massimo Riva
 
Tutto è cominciato quando i governi si sono mossi al soccorso di banche e assicurazioni per scongiurare il cataclisma di fallimenti finanziari a catena. Dapprima sono stati quelli di Londra e Washington, poi sulla stessa strada si sono incamminati anche quelli di Berlino, Parigi e così via. Forse non si poteva fare altrimenti. Ma così, in sostanza, debiti privati sono stati trasformati dai rispettivi Stati in maggiore debito pubblico, aggravandone la crescita già in atto per la flessione delle entrate fiscali indotta dalla caduta delle attività economiche.
Salvate dagli interventi politici, le banche sono tornate liquide e hanno subito ripreso a fare il loro mestiere come strumenti a disposizione di chi intenda movimentare i mercati con manovre speculative. Bersaglio principale è così diventata proprio quella che, in prima battuta, era sembrata la soluzione del problema ovvero la corsa a gonfiare i debiti sovrani. Logicamente gli attacchi sono partiti contro gli anelli più deboli del sistema: come la Grecia, che alle difficoltà congiunturali sommava il pesantissimo impatto della manipolazione dei propri conti.
Le prolungate resistenze europee - in particolare della Germania di Angela Merkel - ad allestire una pronta rete di sicurezza per i guai di Atene hanno solleticato l'appetito degli speculatori. Dal fronte greco lo scontro si è allargato ad altri paesi del Mediterraneo (Portogallo, Spagna e sullo sfondo Italia) puntando a minacciare la costruzione stessa della moneta unica. Con tardiva resipiscenza ora l'Europa si è mobilitata in difesa dei debiti sovrani allestendo uno scudo fino a 750 miliardi di euro e stabilendo che la Banca centrale europea potrà intervenire sul mercato per acquistare titoli emessi dai paesi in difficoltà.
Poiché l'unico modo di arginare e punire gli assalti speculativi è quello di immettere liquidità sul mercato, anche questa scelta appare in qualche modo obbligata, come lo era la precedente di trasformare in pubblici i debiti privati. Fatto sta, in ogni caso, che anche questa decisione europea - come quelle analoghe già assunte in casa propria da Londra e Washington - avrà l'effetto di far crescere ulteriormente i
debiti sovrani e dunque la massa di carta sui mercati.
A Bruxelles si ritiene che i rischi connessi a questa situazione potranno essere contenuti attraverso politiche di rigore finanziario nei bilanci statali, in particolare da parte dei paesi più esposti. In assenza di una robusta crescita economica, che non è alle viste e che i tagli alla spesa pubblica non favoriranno, una simile ipotesi appare appesa a se stessa: la sproporzione fra il crescente peso dei debiti sovrani e i possibili risparmi sui bilanci nazionali è grande. Troppo grande per riassorbire senza scosse la valanga di carta che si sta accumulando sui mercati. La storia insegna che esiste una sola via certa per rendere sostenibili debiti altrimenti insostenibili: quella di farli bruciare in un bel falò inflazionistico. Che non si accenderà certo a breve ma che, nella prospettiva più lunga, appare un passaggio difficilmente evitabile. Appena ieri si temeva la deflazione, oggi lo scenario si sta rovesciando.

(13 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-catena-del-debito/2127030/18


Titolo: Massimo RIVA. Trincea finanza
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2010, 08:32:05 am
Trincea finanza

Massimo Riva
 

Quest'anno le aspettative che accompagnano le prossime considerazioni finali di Mario Draghi riguardano francamente un po' meno quello che questi vorrà dire come governatore della Banca d'Italia. Anche perché è probabile che egli non possa offrire analisi sulla situazione del Paese granché diverse dalle raccomandazioni fatte un anno fa quanto a contenimento della spesa pubblica. Si può soltanto sperare che stavolta non trascuri il tema dell'evasione fiscale e magari dia una mano autorevole a sciogliere il grande mistero dei costi del federalismo fiscale su cui finora grava un'allarmante incertezza.
Ciò che più interessa è quel che Draghi vorrà dire sulle turbolenze in atto sui mercati internazionali nella sua veste di presidente del Financial Stability Board, l'organismo incaricato di predisporre nuove regole per la struttura del sistema bancario e per le transazioni finanziarie nell'era dell'economia globale.

Fino ad oggi non si può dire che il Fsb abbia raggiunto risultati di rilievo, tanto da essere stato scavalcato da alcuni governi (non di secondo piano) che hanno deciso di procedere sulla materia in via unilaterale. A Washington, per esempio, Casa Bianca e Congresso hanno da poco approvato una riforma che - a parziale imitazione del celebre Glass-Steagall Act degli anni Trenta - alza un primo muro tagliafuoco fra esercizio del credito ordinario e attività più temerariamente speculative. A Berlino poi la cancelliera Angela Merkel - senza nemmeno avvertire i partner europei - ha calato la scure del divieto sulla pratica delle vendite allo scoperto.
La richiamata unilateralità di simili iniziative ne segnala un forte limite implicito. Se a Londra si può allegramente fare ciò che è vietato a Francoforte, quello della Merkel rischia di essere un mezzo buco nell'acqua.

Altrettanto può dirsi della riforma americana: va bene tagliare le unghie a certi banchieri negli Usa, ma se nel resto del mondo non cambia nulla? Non è facile, tuttavia, liquidare Barack Obama e Angela Merkel come due sprovveduti Don Chisciotte. Se si sono mossi come s'è detto, a dispetto dei limiti evidenti della loro azione, forse è anche perché si devono essere stancati di attendere quelle più incisive riforme concertate all'interno dello Stability Board che continuano a latitare.
La reazione punitiva dei mercati alle novità americane e tedesche andrebbe meglio indagata. Si tratta di un giudizio negativo sull'efficacia delle misure oppure di una vendetta contro quelle autorità politiche che hanno scelto di non lasciar più correre a briglia sciolta i cavalli della speculazione finanziaria? Che quest'ultima sia il motore naturale del mercato è fuori discussione. Ma che proprio i giochi arditi della finanza libera abbiano provocato gli sconquassi che il mondo intero sta subendo è non meno certo.
Come lo è pure che il salvataggio di troppi avventurieri è avvenuto a spese di incolpevoli contribuenti. Fino a quando l'autorevole Financial Stability Board vorrà assistere senza colpo ferire alla guerra dichiarata dal mercato contro gli interventi regolatori delle autorità politiche? Una parola in materia da parte di Mario Draghi non guasterebbe.

(27 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/trincea-finanza/2127827/18


Titolo: Massimo RIVA. Authority solo a parole
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2010, 08:34:10 am
Authority solo a parole

Massimo Riva

Con le ultime settimane di primavera si apre la stagione dei rendiconti da parte delle numerose Autorità di sorveglianza dei mercati: creditizio, azionario, energetico, delle comunicazioni. Non c'è purtroppo da attendersi sostanziose novità dalle relazioni che i presidenti degli organismi stanno preparando
 
Con le ultime settimane di primavera si apre la stagione dei rendiconti da parte delle numerose Autorità di sorveglianza dei mercati: creditizio, azionario, energetico, delle comunicazioni, nonché di vigilanza antimonopolistica un po' su tutti i fronti. A parte forse l'appuntamento del 31 maggio con l'assemblea della Banca d'Italia, che meriterà un discorso a parte, non c'è purtroppo da attendersi sostanziose novità dalle relazioni che i singoli presidenti degli organismi stanno probabilmente già preparando.
Non soltanto le serie difficoltà del momento economico ma anche le pressioni di un governo - che resta tetragono ad accettarne il principio dell'indipendenza - hanno spesso inficiato il peso e il ruolo delle varie Autorità. A dispetto di questa cornice sfavorevole, qualcuno ha anche lavorato abbastanza bene. Per esempio, Alessandro Ortis nel controllo del settore energetico. Benché la sua squadra sia stata azzoppata da un vuoto di commissari che si trascina da anni per difetto di intese politiche sulle nomine e nonostante la malevolenza di qualche ministro nei suoi confronti, il presidente dell'Autorità per l'energia ha fatto la propria parte, riuscendo a modulare con discreta tempestività l'andamento delle tariffe elettriche e del gas a vantaggio dei consumatori.
Anche Antonio Catricalà (Antitrust) ha avuto qualche apprezzabile iniziativa, come quando, per esempio, ha denunciato quella grave patologia del sistema domestico per cui un circoscritto gruppo di persone occupa poltrone in una miriade di consigli d'amministrazione e perfino di aziende fra loro in palese conflitto d'interessi sul mercato. Ma nulla è cambiato. Un po' perché per superare questa scandalosa ubiquità di presenze sarebbero necessarie nuove regole legislative che governo e parlamento si guardano bene dal fare. Un altro po' perché sarebbe indispensabile la collaborazione dell'Autorità vigilante sulla Borsa, che però appare del tutto refrattaria a muovere anche il più piccolo passo in materia.

E qui siamo al punto più dolente. Sotto la guida di Lamberto Cardia, la Consob dapprima ha promosso muri regolamentari in difesa dei gruppi di controllo delle principali aziende e poi ha sciolto - a suo dire - il nodo del capitalismo relazionale domestico con norme che lasciano sostanzialmente intatti i poteri delle cricche azionarie che prosperano sui conflitti d'interessi. Il tutto con il pieno appoggio del potere berlusconiano che ora, per riconoscenza, vorrebbe di nuovo prorogare il mandato del prediletto Cardia per consentirgli di continuare la sua nefasta azione di ingessatore del mercato azionario.
Né c'è granché da aspettarsi dal rendiconto dell'Autorità per le comunicazioni, dove - anche al netto delle clamorose interferenze del presidente del Consiglio - il buon Corrado Calabrò non sa far di meglio che barcamenarsi di giorno in giorno, di grana in grana, senza mai alzare un sopracciglio. Da ultimo nemmeno di fronte all'incredibile scelta di Silvio Berlusconi di assumere l'interim di un ministero (lo Sviluppo economico) cui fa capo il mercato dove operano le sue stesse aziende.
Autorità indipendenti dice la legge. Già, ma indipendenti da chi?

(20 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio//2127413


Titolo: Massimo RIVA. Il finto rigore di Tremonti
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2010, 06:48:30 pm
Il finto rigore di Tremonti

Massimo Riva
 

La tragicommedia del risanamento dei conti pubblici sta ormai assumendo i toni della più spudorata delle farse politiche. A imprimere questa svolta nel grottesco è la mascherata di Giulio Tremonti che, sfruttando l'ottusità di alcuni suoi colleghi ministri e la renitenza del premier a fare qualcosa di meglio, vorrebbe ora travestirsi da novello Quintino Sella. Se la situazione finanziaria non fosse davvero pesante, si potrebbe anche sorridere di questa sceneggiata. Ma i rischi che il Paese sta correndo sono tali da imporre di non cadere nella trappola mediatica astutamente allestita dal ministro dell'Economia.
Il personaggio che oggi ama rappresentarsi come inflessibile custode del rigore è la stessa persona che - tra condoni, finanza creativa, cartolarizzazioni, scudi fiscali e via manipolando stime e previsioni - ha creato le premesse dei guai attuali, scientemente ingannando gli italiani con la favoletta dei conti messi in sicurezza. Come mostra inequivocabilmente il consuntivo del suo ultimo esercizio annuale. I dati di fine 2009 dicono, infatti, che il deficit ha superato il 5 per cento del Pil, che il debito pubblico è di nuovo in corsa verso la drammatica quota del 120 per cento, infine che il saldo primario - quella differenza fra entrate e uscite ordinarie che rappresenta il termometro più importante per lo stato di salute del bilancio - è tornato in negativo come nei peggiori momenti della storia nazionale.

Se Tremonti avesse dovuto mobilitare le casse dello Stato per salvare dal fallimento grandi istituti bancari e assicurativi - come è accaduto ai suoi colleghi di Usa, Gran Bretagna, Germania e Francia - questa pessima performance potrebbe trovare plausibili giustificazioni. Ma in Italia così non è stato. Quindi, la rinnovata crescita del debito pubblico può e deve essere attribuita soltanto alla personale incapacità del ministro nel tener dietro al calo delle entrate con tempestivi tagli alla spesa. O ancora alla sua negligenza nell'usare il maggiore deficit almeno per operare provvedimenti di sostegno alla crescita economica. Insomma, né Friedman né Keynes.

L'attuale sedicente rigorista si è limitato a galleggiare sulla situazione declinante senza fare qualche pur minimo sforzo serio per frenarne la corsa verso il basso. Né, ora che dapprima i mercati e poi l'Europa hanno suonato la campana d'allarme, mostra di volersi minimamente discostare da questa linea di sostanziale indolenza politica. Impianto e contenuti della manovra, frettolosamente allestita sotto le pressioni esterne, lo dimostrano: qualche taglio a pioggia e qualche altro a casaccio nel totale disprezzo dell'equità sociale, nulla per spingere davvero la crescita, niente riforme strutturali. Meno di tutte poi quella del Fisco, a dispetto della straordinaria opportunità offerta proprio dall'emergenza battente. Se oggi Tremonti riesce a farsi passare per alfiere del rigorismo può solo ringraziare la gaia irresponsabilità del presidente del Consiglio, ancora più di lui recalcitrante a fare qualcosa di serio. Ma non è che gli italiani e con loro i mercati possano sentirsi rinfrancati da questo numero da fratelli De Rege.

(03 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-finto-rigore-di-tremonti/2128373/18
 


Titolo: Massimo RIVA. Dietro la crisi dell'euro
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 12:13:07 pm
Dietro la crisi dell'euro

Massimo Riva
 

Nell'ottobre di dieci anni fa erano sufficienti 82 centesimi di dollaro per acquistare un euro, ben il 30 per cento in meno dalla quotazione di esordio nel gennaio 1999. Un livello così basso da spingere allora molti a profetizzare che l'esperimento della moneta unica europea si sarebbe schiantato già nella fase di decollo. Soltanto una minoranza si muoveva controcorrente segnalando che la forte ascesa del dollaro non poteva essere che effimera perché non sostenuta da alcun indicatore fondamentale sullo stato di salute dell'economia americana. I successivi andamenti del cambio, pur fra tante oscillazioni, hanno dato ragione ai secondi e torto ai primi.
In realtà, quella quota di 0,82 dollari segnò semplicemente il punto culminante di un attacco concentrico contro l'euro mosso con il preciso intento di strangolare in culla la neonata moneta per riaprire le immense praterie degli attacchi ai cambi fra le un tempo numerose monete europee sui quali la speculazione valutaria aveva potuto abbondantemente esercitarsi fino ad allora. Talvolta con eccellenti profitti, come nell'estate 1992 a spese della lira.

Una storia analoga sembra oggi ripetersi, anche se il cambio euro/dollaro oscilla attorno a quota 1,20 a un livello del 50 per cento superiore al citato minimo storico. Nel frattempo, tuttavia, alcuni elementi sono mutati, altri no. Per esempio, oggi come allora suona stravagante la fiducia che tanti speculatori mostrano nel futuro prossimo del dollaro. Gli Stati Uniti stanno facendo la parte del leone nella collocazione dei titoli di Stato sui mercati internazionali a causa dell'esplosione del loro debito pubblico, già oltre il picco dei 13mila miliardi di dollari. È arduo leggere questa sete di capitali come un'indicazione per il rafforzamento della valuta americana nel medio periodo. Chi gioca su questa aspettativa potrebbe rimetterci le penne come dieci anni fa.

È un fatto, però, che l'euro appare oggi per altri versi più vulnerabile di quanto forse sembrasse allora. Il caso Grecia ha messo a nudo una serie di errori compiuti nella gestione del sistema. Il primo è stato quello di aver allargato, con eccesso di leggerezza, l'area della moneta unica a paesi meno affidabili. Il secondo è di aver mostrato incapacità di concordare decisioni adeguate e tempestive al sorgere delle difficoltà. Il terzo, tuttora in corso, è di aver traccheggiato nei confronti degli assalti speculativi così accettando una disfida sul modello Orazi contro Curiazi, per giunta lanciando segnali di resa condizionata ai mercati con inopinate sortite in favore di uno sdoppiamento dell'euro tra Nord e Sud Europa. Il classico drappo rosso agitato davanti ai tori della speculazione.

Ora i governi nazionali stanno correndo ai ripari con misure che, deprimendo i consumi interni, potrebbero togliere il sostegno della domanda domestica al pieno sfruttamento della componente positiva della svalutazione dell'euro: la maggior competitività sui mercati esterni. Diceva Napoleone dell'Austria: "Toujours en retard, d'une année, d'une armée, d'une idée". Anche stavolta, forse, solo la non credibile forza del dollaro potrà salvarci nel prosieguo da guai peggiori.

(10 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/dietro-la-crisi-delleuro/2128686/18


Titolo: Massimo RIVA. Il bluff sulle province
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:18:00 am
Il bluff sulle province
Massimo Riva

(18 giugno 2010)

Roberto Calderoli Roberto CalderoliDell'abolizione delle province si discute - sempre invano - da circa quarant'anni. Da quando, cioè, furono istituite le Regioni e il mai abbastanza rimpianto Ugo La Malfa argomentò la contemporanea e parallela esigenza di eliminare una struttura amministrativa intermedia dalle scarse competenze e dall'ancor minore utilità nel quadro del nuovo assetto delle autonomie locali. L'unanimità del mondo politico gli rispose assentendo sulla bontà della proposta ma rinviando ogni decisione al momento in cui il neonato esperimento regionale fosse giunto a consolidata maturità.
Nei decenni successivi le Regioni hanno non solo consolidato ma ampiamente esteso le proprie competenze senza che il destino dell'istituzione provinciale venisse rimesso in discussione. Anzi, con scelte parlamentari assunte sovente con voto bi-partisan, il numero delle province è cresciuto di qualche decina con totale sprezzo dei costi che simili decisioni caricavano inesorabilmente su un bilancio già sempre più in rosso.

Da ultimo, in queste settimane, lo stato di seria emergenza dei conti pubblici ha fatto sperare che - finalmente! - si volesse cominciare a sciogliere il nodo. E ciò perché, in una prima versione della manovra Tremonti in corso d'esame al Parlamento, faceva capolino l'ipotesi di abolire le province con meno di 220mila abitanti. Poca cosa, s'intende, perché sì e no ne sarebbero state tagliate una mezza dozzina. Ma almeno si poteva ritenere che la classe politica avesse deciso di rompere un tabù. Le speranze sono morte sul nascere.
Dapprima si è detto che, per buona sintassi istituzionale, tale scelta dovesse uscire dal decreto sull'emergenza per trovare posto nella legge sulle autonomie locali. Scrupolo formale ineccepibile, che però è servito solo ad affossare ogni buon proposito. Nella diversa sede legislativa si è cominciato già male abbassando la soglia di sopravvivenza a quota 200mila abitanti, ma poi governo e maggioranza hanno deciso di lasciar cadere il tutto, con il pieno accordo del principale partito d'opposizione: il Pd, i cui esponenti si sono addirittura nascosti dietro un risibile rilievo di costituzionalità.

Ora che la cancellazione della Provincia in quanto istituzione debba avvenire con riforma costituzionale è un fatto, dato che essa è prevista nella Carta. Ma le singole province sono state create con legge ordinaria: dunque - se si vuole - se ne possono eliminare subito a dozzine anche solo abrogando le leggi istitutive delle medesime. E qui si arriva al nocciolo della questione. La stragrande maggioranza delle forze politiche, di governo come di opposizione, non vuole rinunciare a questa fabbrica di poltrone per consiglieri, assessori e sottopancia di varia inutilità. Non lo vuole il partito di Berlusconi, che ha solo fatto finta di mettere il tema nel suo programma. Non lo vuole la Lega, che per bocca del ministro Calderoli fa finta di battersi per tagliare i costi della politica. E così via via fino al Pd, che sul tema fa finta di ergersi a vestale della Costituzione. Il grottesco di questa situazione è che poi c'è pure qualcuno che si chiede come mai nel paese stia montando l'onda dell'antipolitica.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-bluff-sulle-province/2129195/18


Titolo: Massimo RIVA. Lo squallido suk dell'Expo
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2010, 10:48:34 am
Lo squallido suk dell'Expo

di Massimo Riva

(15 luglio 2010)

Rendering Expo Milano Rendering Expo MilanoC'era una volta la Milan della bella Madunina sotto la quale- cantava con successo Alberto Rabagliati "se sta mai coi man in man". Ma adesso che è il berlusconiano "partito del fare" ad aver allungato le sue di mani sulla città le strofe della celebre canzonetta sembrano parlare di un passato lontano anni-luce. A gettare alle ortiche quello che era un riconosciuto primato di efficienza gestionale e di dinamismo economico hanno provveduto, infatti, gli amministratori del centro-destra al Comune e in Regione, con una conduzione del dossier Expo 2015 indegna del più squallido suk levantino.
Al principio tutto si presentava al meglio: Milano aveva vinto il duello con Smirne non solo perché l'allora governo Prodi aveva fatto un eccellente lavoro diplomatico per raccogliere il consenso internazionale, ma anche perché il progetto presentato si illustrava per grandezza e attrattiva dei contenuti. Quanto al fronte interno, ai cittadini ambrosiani si erano fatte balenare contropartite mirabolanti per il disagio della trasformazione della città in un cantiere per qualche anno: nuove linee di metropolitana, collegamenti via acqua con l'area fieristica, miglioramento generale della viabilità con lunghi tunnel sotterranei, aeroporti avveniristici, e via faraoneggiando.

Presto è venuto alla luce il primo inghippo: ipotesi tante, denari pochi o nessuno. Ma come, si dirà, nella patria della razza del soldo si era progettato senza fare di conto? Già, proprio così. Solo che a questo primo strappo con l'oculata tradizione meneghina altri ne sono seguiti a cascata. Un anno di lavoro è stato letteralmente gettato al vento perché il sindaco, Letizia Moratti, si era incaponita a voler nominare un sovrintendente all'Expo che non piaceva agli altri partner dell'operazione. Un secondo anno è andato perduto perché il finalmente nominato gestore dell'impresa - il deputato berlusconiano Lucio Stanca - si è trastullato fra ricerca di un ufficio degno della sua opera e renitenza a scegliere l'impegno per l'Expo in alternativa al mandato parlamentare: due stipendi, si sa, sono meglio di uno. Poi, qualche settimana fa, l'onorevole Stanca si è stancato del nulla che aveva fatto e si è fatto da parte.

Ora la palla è passata a un nuovo amministratore che continua, beato lui, a promettere mirabilie. Ma nel frattempo, il quadro è peggiorato. Il ministro Giulio Tremonti non vuole aprire i cordoni della borsa statale per l'Expo, mentre i ricchi privati - quelli della "Milan col coeur in man" - si tengono stretti i loro portafogli: perfino i più direttamente interessati come i costruttori, perché anche il principale fra loro, Salvatore Ligresti, non sta attraversando un periodo floridissimo. Già si parla perciò di un drastico ridimensionamento dei progetti coi quali le Moratti e i Roberto Formigoni si sono fatti belli dinanzi al mondo e ai loro amministrati. Prima che questa lenta agonia mortifichi definitivamente l'eredità del glorioso passato milanese, non sarebbe più serio limitare i danni e chiudere la partita? Un'ammissione di inettitudine oggi costerebbe molto meno di un fiasco clamoroso domani.

   
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lo-squallido-suk-dellexpo/2130885/18


Titolo: Massimo RIVA. Expo: il Vietnam della Moratti?
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2010, 11:13:04 pm
Expo: il Vietnam della Moratti?

di Massimo Riva

Tra scelte sbagliate, atti di forza e ambizioni personali, due anni sono andati già persi. Adesso si parla di "ridimensionare" i progetti, ma il governo non molla più un euro. E la Lombardia rischia una figuraccia mondiale

(15 luglio 2010)

C'era una volta la Milan della bella Madunina sotto la quale - cantava con successo Alberto Rabagliati "se sta mai coi man in man".
Ma adesso che è il berlusconiano "partito del fare" ad aver allungato le sue di mani sulla città le strofe della celebre canzonetta sembrano parlare di un passato lontano anni-luce.

A gettare alle ortiche quello che era un riconosciuto primato di efficienza gestionale e di dinamismo economico hanno provveduto, infatti, gli amministratori del centro-destra al Comune e in Regione, con una conduzione del dossier Expo 2015 indegna del più squallido suk levantino.

Al principio tutto si presentava al meglio: Milano aveva vinto il duello con Smirne non solo perché l'allora governo Prodi aveva fatto un eccellente lavoro diplomatico per raccogliere il consenso internazionale, ma anche perché il progetto presentato si illustrava per grandezza e attrattiva dei contenuti. Quanto al fronte interno, ai cittadini ambrosiani si erano fatte balenare contropartite mirabolanti per il disagio della trasformazione della città in un cantiere per qualche anno: nuove linee di metropolitana, collegamenti via acqua con l'area fieristica, miglioramento generale della viabilità con lunghi tunnel sotterranei, aeroporti avveniristici, e via faraoneggiando.

Presto è venuto alla luce il primo inghippo: ipotesi tante, denari pochi o nessuno. Ma come, si dirà, nella patria della razza del soldo si era progettato senza fare di conto? Già, proprio così. Solo che a questo primo strappo con l'oculata tradizione meneghina altri ne sono seguiti a cascata. Un anno di lavoro è stato letteralmente gettato al vento perché il sindaco, Letizia Moratti, si era incaponita a voler nominare un sovrintendente all'Expo che non piaceva agli altri partner dell'operazione.

Un secondo anno è andato perduto perché il finalmente nominato gestore dell'impresa - il deputato berlusconiano Lucio Stanca - si è trastullato fra ricerca di un ufficio degno della sua opera e renitenza a scegliere l'impegno per l'Expo in alternativa al mandato parlamentare: due stipendi, si sa, sono meglio di uno. Poi, qualche settimana fa, l'onorevole Stanca si è stancato del nulla che aveva fatto e si è fatto da parte.

Ora la palla è passata a un nuovo amministratore che continua, beato lui, a promettere mirabilie. Ma nel frattempo, il quadro è peggiorato. Il ministro Giulio Tremonti non vuole aprire i cordoni della borsa statale per l'Expo, mentre i ricchi privati - quelli della "Milan col coeur in man" - si tengono stretti i loro portafogli: perfino i più direttamente interessati come i costruttori, perché anche il principale fra loro, Salvatore Ligresti, non sta attraversando un periodo floridissimo.

Già si parla perciò di un drastico ridimensionamento dei progetti coi quali le Moratti e i Roberto Formigoni si sono fatti belli dinanzi al mondo e ai loro amministrati.
Prima che questa lenta agonia mortifichi definitivamente l'eredità del glorioso passato milanese, non sarebbe più serio limitare i danni e chiudere la partita? Un'ammissione di inettitudine oggi costerebbe molto meno di un fiasco clamoroso domani.

   
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Titolo: Massimo RIVA. Lo sceicco di casa nostra
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2010, 10:29:29 am
Lo sceicco di casa nostra

di Massimo Riva

(23 luglio 2010)

Due sono le principali tare che rendono storicamente vulnerabile il nostro paese. La prima, finanziaria, è il debito pubblico. La seconda, economica, è la dipendenza energetica. Il miracolo prodotto da Sant'Azeglio Ciampi con l'aggancio all'euro ha reso in questi anni meno acuto e avvertito l'allarme su entrambi i fronti. Nel primo caso perché si è verificata una forte caduta dei tassi d'interesse e dunque del costo del debito. Nel secondo perché gli acquisti di gas e petrolio dall'estero hanno beneficiato del più solido tasso di cambio della moneta europea.
Per contrappasso questa tregua vantaggiosa ha prodotto effetti paradossali: poco o nulla si è fatto per alleggerire il debito - che, anzi, è tornato a crescere sotto la gestione del sedicente rigorista Tremonti - ma forse ancora meno si è realizzato per quanto riguarda il mercato dell'energia, dove all'ineluttabile tassa degli sceicchi continua a sovrapporsi quella del califfato domestico impersonato dall'Eni.

La denuncia fatta in proposito dal presidente dell'Autorità per l'energia, Alessandro Ortis, è di quelle che dovrebbero far fare un salto sulla sedia a tutti gli italiani con la testa sulle spalle. Nella sua ultima relazione questi ha calcolato che la posizione di dominio che l'Eni esercita in materia di gas fa pagare al paese almeno il 10 per cento in più del dovuto per le forniture all'ingrosso. Con pesanti conseguenze a cascata anche sui costi dell'energia elettrica dato che in Italia la gran parte delle centrali funziona a metano. Lo sceicco più esoso, insomma, lo abbiamo in casa.

Per tagliare le unghie a questa rendita di posizione Ortis ha riproposto la separazione dall'Eni delle grandi reti di trasporto del gas ovvero Snam Rete Gas. Un'operazione già prevista da una legge del 2003, ma rimasta lettera morta per le resistenze opposte dall'Eni con il sostegno dell'intera classe politica, tanto di destra come di sinistra. La tesi che sta dietro questa posizione è che sia più importante garantire la "massa critica" del monopolio anziché guardare ai benefici che prezzi più bassi del metano potrebbero diffondere non solo sui bilanci familiari, ma anche e soprattutto su un sistema produttivo alla disperata ricerca di recuperi di competitività.

Sul piano politico la sollecitazione di Ortis dovrebbe essere accolta per competenza dal ministero per lo Sviluppo, che in questo momento è ancora tenuto ad interim dal presidente del Consiglio. Cioè, proprio da quello stesso Silvio Berlusconi che tanto s'è dato e si dà da fare con le sue oblique frequentazioni di personaggi quali Vladimir Putin e il colonnello Gheddafi per aiutare l'Eni e qualche suo amico personale ad assicurarsi favori metaniferi particolari. Con tali premesse, quindi, sperare che un simile campione dell'ambiguità politica possa dar seguito all'invito ad aprire a una sana concorrenza il mercato del gas rientra, purtroppo, nel campo delle pie illusioni.

E l'interesse vitale di cittadini ed imprese a godere di un'offerta di metano a prezzi nettamente più convenienti? A quanto si capisce, dal governo all'Eni la risposta è il classico e italianissimo: chi se ne frega!

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Titolo: Massimo RIVA. Quanti errori a Mirafiori
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 05:04:13 pm
Quanti errori a Mirafiori

di Massimo Riva

(30 luglio 2010)

La vicenda Fiat sta diventando un modello esemplare di come non si dovrebbe affrontare il tema della competizione industriale al tempo del mercato planetario. Fin dalle prime avvisaglie di svolta radicale nella divisione internazionale del lavoro, con l'emersione da protagonisti di paesi come Brasile, Cina e India ormai da considerarsi emersi a pieno titolo, era apparso di una chiarezza cristallina il fatto che le economie già industrializzate non avrebbero potuto reggere a lungo la concorrenza nelle produzioni meno sofisticate, dove maggiore è l'incidenza dei costi della manodopera. Gli imprenditori meno intraprendenti hanno cercato di risolvere il problema delocalizzando ovvero trasferendo le loro attività tradizionali in paesi nei quali era possibile scontare salari più bassi. I più coraggiosi, invece, hanno forzato il passo dell'innovazione e degli investimenti tecnologici puntando su produzioni a maggior valore aggiunto, mettendo così al riparo sia le proprie aziende sia i livelli retributivi dei dipendenti. È questo il caso di numerose piccole e medie imprese che hanno conquistato invidiabili quote o solide nicchie di mercato a livello internazionale.

La più grande industria del paese - il gruppo Fiat - ha seguito più l'esempio dei primi che dei secondi. Sarà pure che oggi la fabbricazione di automobili impone un'articolazione multinazionale delle produzioni: sarebbe insensato, per esempio, produrre in Italia vetture che si vogliano vendere in Brasile. Ma il punto cruciale è che la Fiat non ha saputo o voluto sfruttare i benefici delle sue delocalizzazioni per dedicarsi in Italia alla ricerca di produzioni a più elevato valore aggiunto. Anzi, siamo ora al paradosso per cui si vuole trasferire dalla Polonia a Pomigliano la fabbricazione della Panda, che è il modello più economico ed elementare della gamma Fiat. Scelta in forza della quale si avanza la pretesa di ottenere anche in Italia condizioni produttive e salariali almeno pari se non più competitive di quelle praticate altrove. Spingendosi fino all'estremo di puntare alla creazione di una nuova azienda nella quale non applicare neppure le garanzie minime previste per i lavoratori nei contratti collettivi sottoscritti dalla Confindustria.

In altre parole, guidati per mano da Sergio Marchionne, gli eredi del mitico Gianni Agnelli dicono in sostanza ai lavoratori italiani che il loro unico futuro possibile è quello di subire un arretramento delle proprie condizioni di vita ai livelli dei loro colleghi di paesi economicamente più arretrati. Questa - si pontifica - è la legge del mercato globalizzato. Nulla, viceversa, si dice sul fatto che, soprattutto nei paesi di più vecchia industrializzazione, la competitività di una produzione dipende oggi in misura crescente dalla capacità innovativa dell'imprenditore e dalla dimensione dei suoi investimenti. Ma quale legge del mercato? I lavoratori italiani dell'auto sono chiamati a pagare il conto del cinico egoismo con cui gli Agnelli hanno osteggiato aumenti di capitale che mettessero in crisi il loro controllo sull'azienda. Che poi - beffa finale - potrebbe magari essere ceduta in un futuro nemmeno troppo lontano.

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Titolo: Massimo RIVA. Tracollo annunciato
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2010, 03:54:28 pm
Tracollo annunciato

di Massimo Riva

(20 agosto 2010)

Biglietteria Tirrenia Biglietteria TirreniaIl maldestro tentativo di far finta di privatizzare la Tirrenia passandola da una mano pubblica statale a una mano pubblica regionale è naufragato in modi e tempi piuttosto oscuri. Ma questa rimane comunque una buona notizia nella brutta partita che ha portato alla dichiarazione di insolvenza della società dei traghetti. Epilogo inesorabile alla luce di una cassa ridotta a 18.500 euro di liquidità a fronte di debiti complessivi nell'ordine di quasi 650 milioni. Resta solo da chiedersi come mai si sia arrivati appena ora a un esito che era scritto nei bilanci già da parecchi anni.
Il tracollo di Tirrenia, infatti, non giunge per nulla inaspettato. Anni, anzi decenni, di pessima gestione aziendale, tollerata e favorita da allegri ripianamenti dei conti da parte dello Stato, sono la vera e ben conosciuta causa di questo disastro. L'aspetto davvero inquietante della vicenda è che tutti, proprio tutti nel mondo politico, sapevano benissimo da lungo tempo che l'azienda era un colabrodo finanziario senza speranze, ma nulla da nessuno è stato fatto per porvi riparo. Basti dire che - caso unico nella storia dei boiardi di Stato - alla guida della società è stata lasciata la stessa persona, Franco Pecorini, per ben 26 (ventisei!) anni. Un manager così sagace che, fra gli altri sfondoni, ha investito qualche centinaio di milioni in navi che hanno dovuto essere messe alla fonda o perché non tenevano il mare agitato o perché consumavano cinque volte il carburante dei traghetti tradizionali.

Eppure in un Paese che nell'ultimo quarto di secolo è transitato dal Caf a Berlusconi, passando per due governi Prodi, praticamente nessuno è rimasto al proprio posto salvo l'intoccabile Pecorini, rimosso soltanto adesso. E probabilmente nulla ancora sarebbe cambiato se non fosse arrivata una scossa da parte di un agente esterno: l'Unione europea. Che, nella sua battaglia contro le sovvenzioni statali, ha imposto all'Italia di chiuderla con i pagamenti a pie' di lista e di procedere in fretta alla privatizzazione di Tirrenia.
Ma mettere la parola fine a questo festival dello spreco non si sta rivelando impresa semplice. Anche perché non c'è operatore privato al quale interessi la società così com'è: appetibili e appetite sono sì alcune (poche) linee dove c'è margine di profitto mentre tutto il resto in perdita non lo vuole proprio nessuno.

Si sta profilando perciò l'idea di procedere sulla falsariga di quanto avvenuto per Alitalia sdoppiando l'azienda in una "bad company", nella quale concentrare debiti pregressi e rotte a perdere, e in una "good company" dove collocare la polpa.
La prima conseguenza di una simile prospettiva è che - come per il caso Alitalia - il pagatore di ultima istanza sarà una volta ancora il malcapitato contribuente sul quale ricadranno gli oneri maggiori dell'operazione. Per giunta senza che questi possa sperare di essere almeno in parte risarcito attraverso una sacrosanta azione di responsabilità contro coloro che, dentro e attorno a Tirrenia, sono all'origine di tanto prolungato dissesto. Purtroppo, infatti, non s'è mai visto uno Stato fare causa contro se stesso.


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Titolo: Massimo RIVA. L'euro secondo Weber
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2010, 09:14:51 am
L'euro secondo Weber

Massimo Riva

(27 agosto 2010)

Axel Weber Axel WeberAppena nel giugno scorso il cambio dell'euro era sceso attorno al livello di 1,20 verso il dollaro. Gli esportatori si fregavano le mani, mentre sui mercati finanziari si susseguivano previsioni catastrofiche: non solo di ulteriore caduta delle quotazioni, ma anche di probabile disfacimento dell'esperienza stessa di una moneta comune europea. A sostegno dei funerei pronostici venivano anche avanzati argomenti seri come il vuoto di una regìa politica unitaria alle spalle dell'euro, la precarietà dei conti di alcuni paesi mediterranei, l'entità dei debiti sovrani così rapidamente cresciuta per fronteggiare i contraccolpi della crisi generale. Un clima da allarme rosso dominava sia nei mercati sia nelle cancellerie del vecchio continente.
Ora il cambio dell'euro è tornato a sfiorare quota 1,30 verso la valuta americana. Gli esportatori sono un po' meno contenti, in compenso l'aria che si respira in politica e in economia è diventata più leggera. Si ritiene che le misure di rigore varate un po' da tutti i governi abbiano raggiunto lo scopo di bloccare gli assalti speculativi contro la moneta unica. Da Bruxelles sono perfino piovute grandi lodi alla Grecia per la fermezza con la quale sta raddrizzando i conti del paese che aveva rischiato di sprofondare l'euro nell'abisso. Da un allarme esagerato si sta passando a un eccesso di ottimismo?

Che in Europa si sia fatto qualcosa di utile sforbiciando gli eccessi di spesa dei bilanci nazionali è buona cosa. Ma forse il recupero dell'euro è dovuto in maggior misura alla sfiducia che si sta nuovamente manifestando verso il dollaro: la grande macchina dell'economia Usa stenta a riprendersi e i conti del bilancio federale sono anche peggio di quelli di molti paesi europei. I capitali che avevano scommesso sulla disfatta dell'euro contro dollaro stanno facendo qualche marcia indietro.
Resta da capire come vorrà muoversi ora la Banca centrale europea dato che nessuno dei punti critici alla base delle previsioni più nere è stato scalfito: non l'assenza di regìa politica, non la fragilità dei conti, nemmeno l'entità dei debiti pubblici. A sorpresa ha provato a dettare una linea di comportamento il presidente della Bundesbank, Axel Weber, candidato alla successione di Jean-Claude Trichet. Buttata alle spalle la rigidità che lo aveva visto osteggiare il piano di sostegno alla Grecia e ai paesi in difficoltà, costui ha detto che la Bce deve continuare a garantire liquidità illimitata al sistema economico almeno fino al 2011. Effetto logico di queste parole è che l'euro ha rallentato la sua ripresa.

All'inatteso voltafaccia di Weber si possono dare due motivazioni. La prima: quella di cercare, nella corsa al vertice Bce, l'appoggio dei paesi rimasti scottati dai suoi "nein" nelle fasi acute della crisi greca. La seconda: quella di frenare i recuperi dell'euro per non danneggiare il "boom" delle esportazioni di cui da qualche mese sta godendo la sua Germania. Finalità legittime, che però allungano ombre preoccupanti su un uso occasionale e fluttuante dei poteri della Bce. Il peggio che possa accadere in una situazione che resta dominata da drammatiche incertezze.

   
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Titolo: Massimo RIVA. L'alternativa di Bernanke
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2010, 10:10:33 am
L'alternativa di Bernanke

di Massimo Riva

(03 settembre 2010)

Ma la ripresa c'è o non c'è? È più alto il rischio di deflazione o quello di inflazione? I due principali interrogativi che ossessionano da mesi governi, banche centrali, imprese e sindacati si ripropongono intatti al riavvio delle attività dopo la pausa estiva. La sola novità è che quello tracciato dalle ultime rilevazioni statistiche (sul secondo trimestre dell'anno) è un quadro ricco di contrasti e differenziazioni fra un paese e l'altro, tale da impedire risposte univoche.

In alcune parti del mondo la ripresa c'è eccome. Non solo Brasile, Cina e India sono tornati a ritmi di crescita fra il 7 e il 10 per cento, ma si stanno registrando boom imprevisti come l'8 per cento della Turchia. Del tutto opposto, invece, l'andamento congiunturale della maggiore economia del mondo: gli Stati Uniti stentano a reggere un incremento superiore al 2 per cento. Tanto che il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, si è sentito in obbligo di annunciare il ricorso a strumenti "non convenzionali" per dare un colpo di acceleratore al sistema.

In Europa lo scenario si presenta, come sempre, molto variegato ma con un exploit importante della Germania che sembra avviata a chiudere l'anno con un aumento del Pil oltre il 3 per cento. Senza però che la corsa della locomotiva tedesca abbia grandi effetti di trascinamento sugli altri vagoni del treno europeo, accreditato di una crescita media poco sopra l'uno per cento cui forse anche l'Italia potrebbe arrivare.

Il solitario miracolo tedesco ha radici nel forte incremento delle esportazioni, aiutato in parte dalla recente flessione dell'euro ma ancora di più dagli elevati standard tecnologici dei prodotti made in Germany. Ed è proprio questo a fare una grande differenza con il resto d'Europa e con gli Usa. Non è ancora chiaro che cosa intenda Bernanke quando parla di stimoli non convenzionali alla ripresa americana, ma è arduo che possa colmare un gap di fondo con la Germania. Alla Cina, per esempio, Washington offre titoli di Stato, mentre Berlino vende Audi, Mercedes e molti macchinari di alta qualità. Morale: le economie minori, Italia compresa, hanno ben poco da aspettarsi ora dal gigante americano. Le loro speranze sono appese al momento in cui i benefici dell'export tedesco si tradurranno in un rilancio di consumi e salari come già chiedono i sindacati locali.

Quanto al dilemma su deflazione/inflazione anch'esso merita una risposta differenziata per aree e soprattutto per tempi. Al momento, su entrambe le sponde dell'Atlantico, non esiste purtroppo alternativa alla necessità di continuare ad irrorare un mercato in affanno e bilanci pubblici precari con ulteriori dosi di liquidità. Dopo di che è chiaro che l'enorme montagna di carta di debiti privati e pubblici dovrà almeno in buona misura essere bruciata con un ciclo inflazionistico. Già fra un anno o fra due o tre? Tutto dipende dalla capacità dei sistemi economici di far fruttare alla tedesca il denaro in circolazione. Se, viceversa, si continuerà alla Marchionne a puntare tutto e solo sulla deflazione dei salari l'esito scontato sarà un indigesto cocktail di stagnazione ed inflazione.

   
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Titolo: Massimo RIVA. La flebo di Basilea
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 02:14:37 pm
La flebo di Basilea

di Massimo Riva

(17 settembre 2010)

Il cancro finanziario che ha minato (e sta ancora minando) la salute del sistema bancario internazionale sarà sottoposto a una sorta di chemioterapia regolatoria assai diluita nel tempo denominata Basilea 3. Dopo infinite consultazioni - i primi sintomi della malattia risalgono all'estate 2007 - gli illustri clinici della materia ovvero i governatori centrali hanno finalmente concordato i termini della cura. Ma hanno anche stabilito che essa dovrà essere praticata con grande cautela: si comincerà a gennaio 2013 per concludere a dicembre 2019. Dal 2020, insomma, il mondo dovrebbe poter contare su un mercato del credito risanato, stabile, sicuro.

Sarebbe sciocco fare della facile ironia su una così straordinaria lunghezza dei tempi. In realtà, la scelta dilatoria si spiega col fatto che il malato non sarebbe in grado di assumere oggi dosi più robuste e accelerate della terapia proposta. Essa consiste essenzialmente in vincoli più stringenti per quanto riguarda il rapporto fra capitali di garanzia e attività di rischio, oltre che in una serie di misure dirette a impedire le speculazioni più avventurose. Ciò comporta che la generalità degli istituti di credito dovrà fare pulizia profonda nei rispettivi portafogli, ma anche ricorrere al mercato per ricapitalizzarsi. Opzione quest'ultima che, se fosse esercitata da troppi in tempi brevi, si rivelerebbe impraticabile.
Senza volerlo, quindi, con questa terapia a lunga scadenza i governatori delle banche centrali hanno finito per lanciare un ulteriore messaggio di pericolo: se il paziente non può tollerare una cura più forte e più rapida, ciò vuol dire che le sue condizioni sono tuttora molto deboli e preoccupanti. In altre parole, non c'è affatto da stare in tranquilla attesa della prima flebo nel 2013. Nel frattempo, quindi, la prognosi resta riservata, riservatissima. Elevato rimane il rischio che qualche altro grande istituto di credito debba finire in stanza di rianimazione per una terapia intensiva a mezzo di capitali pubblici. Non inganni il fatto che qualche banca abbia già restituito parte delle sovvenzioni ricevute: i profitti per fare la bella figura sono stati realizzati con operazioni che con Basilea 3 diventerebbero sconvenienti.

Può darsi che in termini di medicina i banchieri centrali non potessero fare di meglio. Resta da spiegare perché loro stessi e le autorità politiche di diversi paesi abbiano escluso il ricorso alla chirurgia, rinunciando a intervenire sulla struttura dell'offerta creditizia. Solo la presidenza Obama ha avuto la forza di rifarsi alla lezione degli anni '30 reintroducendo, seppur timidamente, quella distinzione fra banche ordinarie e banche d'investimento il cui abbandono, una ventina d'anni fa, ha fatto da incubatrice al cancro dell'avventurismo finanziario. In tutti gli altri paesi il mito della banca universale continua ad imperare con tutto il suo bagaglio di patologie pesanti. Fra le quali spicca l'inquietante sudditanza dei poteri pubblici di fronte alla prepotenza dei banchieri che, dopo aver combinato sfracelli in assenza di regole, ora ne minacciano di nuovi contro ogni limite al loro libertinaggio.


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Titolo: Massimo RIVA. Privilegi da spin off
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2010, 06:33:02 pm
Privilegi da spin off

di Massimo Riva

(24 settembre 2010)

È un'antica tara dell'angusta Borsa domestica: alcuni azionisti sono più uguali degli altri. La riprova di questa discriminazione, sempre a scapito dei più piccoli, è stata ora fornita dalla vicenda della separazione in due del gruppo Fiat. Dal giorno dell'annuncio della operazione a quello dell'assemblea che l'ha approvata il titolo Fiat ha segnato un recupero di circa il 7 per cento. Nello stesso arco di tempo quello della Exor - la cassaforte dove la famiglia Agnelli tiene il pacchetto di controllo della grande industria - si è prodotto in una risalita di circa il 19 per cento: quasi il triplo.

Non sempre, per carità, il mercato azionario vede giusto e azzecca tutte le sue valutazioni d'anticipo. Tuttavia, questa smaccata diversità di giudizio sulle prospettive di Exor e di Fiat dopo lo spin off di quest'ultima è un segnale che non dovrebbe lasciare indifferenti.
Certo, al momento del via effettivo all'operazione di spacchettamento nel prossimo gennaio, tutti i soci si troveranno allineati sulla stessa riga di partenza. Piccolo o grande che sia il volume del proprio investimento, ciascuno si troverà in mano - al posto di un'azione dell'azienda attuale - due nuovi titoli: uno rappresentativo della Fiat Spa con auto e relativa componentistica, l'altro della Fiat Industrial con veicoli industriali, macchine agricole e movimento terra. In teoria, dunque, tutto come prima. Ma in pratica?

Scopo dichiarato dell'operazione è quello di scindere il destino del settore auto dalla sorte del comparto dei veicoli industriali che ha prospettive meno incerte del primo. Per la salvaguardia del quale si renderanno necessari accordi di integrazione con altri produttori (a cominciare dalla Chrysler) nonché robuste iniezioni di capitale per investimenti che la famiglia Agnelli non sembra tanto intenzionata a fare. In questa luce è superficiale guardare alla separazione in corso soltanto in termini di ottica industriale.
Non basta dire, come fa Marchionne, che così si libera il settore dell'auto affinché possa cercarsi destini migliori nel mondo.
Chi diventa ancora più libero di farsi gli affari propri magari ritirandosi dall'impervia competizione globale sulle quattroruote, ma conservando la polpa più redditizia dei veicoli industriali, è l'azionista di controllo ovvero il clan Agnelli.

Come la Borsa, appunto, ha colto fin dal primo momento premiando molto di più il titolo Exor di quello Fiat. E come anche è stato sottolineato dal risultato delle votazioni nella recente assemblea della società. Al riguardo Salvatore Bragantini ha fatto un calcolo e un'osservazione impeccabili: "Ha detto sì il 39 per cento circa delle azioni: il 7 ha detto no. Dato che Exor è oltre il 30 per cento, fra i soci terzi la proposta è passata di misura; favorevole l'8 per cento, contrario il 7". Non paga, poi, la stessa assemblea ha ulteriormente punito i soci di minoranza mettendo velenose pillole antiscalata a disposizione del management.

Morale: quando proclama (per gli altri) la necessità di passare dalla "cultura dei diritti" alla "cultura della povertà" Sergio Marchionne parla in nome della "cultura del privilegio" dei padroni del vapore.

   
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Titolo: Massimo RIVA. Le scoperte di Emma
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 04:00:01 pm
Le scoperte di Emma

di Massimo Riva

(01 ottobre 2010)


Emma Marcegaglia manda a dire al presidente del Consiglio che la pazienza degli imprenditori è ormai al lumicino. Il suo predecessore al vertice di Confindustria, Luca di Montezemolo, fa muovere la sua Fondazione all'attacco della Lega di Umberto Bossi all'insegna del "basta con le chiacchiere". Un simile linguaggio, che rievoca il "quo usque tandem" delle catilinarie ciceroniane, è francamente insolito nei rapporti fra governo e mondo delle imprese. Esso contraddice platealmente la tradizione che vuole Confindustria filogovernativa, non importa se per necessità o per convinzione.

Ci si deve chiedere, quindi, che cosa abbia spinto gli esponenti del mondo produttivo a salire così imbufaliti sulle barricate. Non basta a spiegare questa svolta la pur grave e ormai grottesca vicenda dei cinque mesi di vacanza ministeriale al dicastero dello Sviluppo economico. Al centro della polemica c'è ben di più che non una nomina così a lungo stentata. Marcegaglia in proposito non ha usato giri di parole denunciando che, dietro il falso slogan berlusconian-tremontiano dello "stiamo meglio degli altri", si nasconde un Paese che fatica a crescere, che ha i conti sempre a rischio, mentre il sedicente "governo del fare" trascura i problemi delle imprese e del mondo del lavoro per occuparsi vuoi dei problemi giudiziari del premier vuoi di squallide lotte intestine dentro la periclitante maggioranza.

A ben vedere con queste accuse la presidente di Confindustria fa un po' la scoperta dell'acqua calda: il poco o nulla di politica industriale da parte del governo Berlusconi è sotto gli occhi di tutti fin dai primi segnali di crisi economica. Semmai bisogna cercar di capire come mai il sindacato degli imprenditori si sia deciso a dire pane al pane soltanto adesso. L'unica spiegazione ragionevole (e preoccupante) sta nelle stime congiunturali aggiornate un paio di settimane fa dall'ufficio studi confindustriale. Il secondo trimestre di quest'anno con il suo 0,5 per cento di crescita aveva fatto sperare in una ripresa che, viceversa, non sarà altrettanto brillante nel secondo semestre con proiezioni poco entusiasmanti anche sul 2011.

Insomma, Confindustria va all'attacco perché prevede un brutto autunno e un cattivo inverno senza che il governo dia segnali di voler fare qualcosa come accade invece nei Paesi concorrenti, Germania in testa. A questo si somma un altro disinganno sul versante dei rapporti sindacali. Al riguardo Marcegaglia e molti altri con lei si stanno probabilmente rendendo conto di essere caduti in una trappola abilmente tesa dal ministro del Lavoro che, per antichi rancori craxiani, da tempo punta a rompere il fronte sindacale isolando la Cgil. L'utile politico che il governo si ripromette da una simile operazione ha come contrappasso per gli imprenditori il costo di una più difficile gestione in fabbrica. Un'altra svolta di Marcegaglia, infatti, è stata la mano riaperta al sindacato di Guglielmo Epifani.
È presto per misurare il tenore di questo passaggio dalla Confindustria di governo alla Confindustria di lotta. C'è da sperare, tuttavia, che esso non serva anche a mascherare lo sciopero degli investimenti in corso.

   
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Titolo: Massimo RIVA. E i tedeschi ringraziano
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2010, 03:40:16 pm
E i tedeschi ringraziano

di Massimo Riva

(08 ottobre 2010)

Il modo sicuro di restare ingannati è credersi più furbi degli altri. Se i leghisti di Umberto Bossi avessero seguito la nota massima di La Rochefoucauld forse non si sarebbero infilati nella battaglia sul vertice di Unicredit con la prosopopea e con l'arroganza che ora rischiano di trasformarli in portatori d'acqua dei soci tedeschi.

La prima furbata è stata quella di nascondere le proprie mire lottizzatorie dietro il paravento di una guerra patriottica per sventare una scalata alla banca da parte del governo di Tripoli: una minaccia così surreale da poter essere presa sul serio soltanto da chi aveva interesse a far finta di crederci.

La seconda e più esile trovata è stata quella di far fronte comune con gli azionisti tedeschi per disarcionare Alessandro Profumo nella presunzione che, tolto di mezzo l'imperatore centralista, si sarebbero dischiuse ampie praterie per una gestione dell'istituto secondo uno schema di satrapie locali orientate più al credito etnico che alla costruzione di una banca di respiro internazionale. Troppo tardi l'astuto capo leghista ha capito che la santa alleanza fra padani e bavaresi pendeva soprattutto dalla parte dei secondi e ha messo in guardia i suoi non più dai libici ma dagli alemanni. Nel frattempo, ben pilotati da Dieter Rampl, questi ultimi sono riusciti a imporre la scelta del nuovo capo-azienda nel nome di Federico Ghizzoni, fra tutti i candidati il più vicino per curriculum e formazione agli interessi di quell'Europa orientale che la Baviera considera un po' casa propria.

Ora il confronto si è spostato sulle posizioni di rincalzo e di sicuro alle Fondazioni padane sarà assegnata in compensazione qualche poltrona di rango. Ma già i tedeschi hanno messo sul piatto anche la pretesa di far ritornare in patria il controllo di Hvb, la banca bavarese che la luminosa gestione di Rampl aveva messo in crisi e che deve la sua salvezza - guarda caso - all'intervento di Profumo. Cosicché, al momento, le mire spartitorie dei leghisti nostrani stanno avendo l'effetto paradossale di favorire soprattutto quelle dei loro "alleati" germanici.

Ce n'è abbastanza per prevedere un futuro prossimo assai agitato in Unicredit. Anche perché l'uscita di scena di un uomo forte come Profumo, che aveva tenuto la banca lontana da tante "operazioni di sistema" (da Alitalia a Telecom, passando per il "Corriere"), può suscitare appetiti esterni molto interessati a usare Unicredit per sistemare alcune partite di potere: in particolare, quella del controllo di Generali. Una bella fusione fra Unicredit e Mediobanca, di cui il primo già possiede il 5 per cento, avrebbe il non trascurabile effetto di ridurre in coriandoli i pacchetti dei maggiori azionisti della società. Così realizzando una situazione invidiabile per l'attuale presidente, Cesare Geronzi, che si troverebbe a guidare il gigante assicurativo senza dover rispondere a soci troppo ingombranti, come se si trattasse di una public company. Forse i leghisti a questa ipotesi non hanno ancora pensato. Di sicuro Bossi può farsela spiegare da Silvio Berlusconi, che ha ottime ragioni d'affari personali (Mediolanum) per assecondare l'amico Geronzi.

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Titolo: Massimo RIVA. Se Pechino sfida il mondo
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2010, 10:56:19 pm
Se Pechino sfida il mondo

di Massimo Riva

(15 ottobre 2010)

È guerra delle monete, ma non soltanto, quella che si sta combattendo fra le due sponde del Pacifico. Nella durezza con la quale Pechino resiste alla richiesta americana di una forte rivalutazione della propria valuta si deve leggere qualcosa che va anche oltre gli interessi economici immediati. Il punto è che - due secoli dopo la minacciosa profezia napoleonica - la Cina si è svegliata. Forte della sua crescita prepotente, il grande paese asiatico comincia a mandare i primi segnali di una sfida ben più importante: quella al dominio solitario degli Stati Uniti nel mondo dopo la fine dell'Unione Sovietica.

Una sfida che oggi si svolge su un terreno particolarmente insidioso per gli Usa, quello monetario, appunto, dove l'impero americano risulta fragile e vulnerabile. Le misure prese a Washington per arginare gli effetti della crisi finanziaria recente hanno inondato i mercati con enormi valanghe di dollari e fatto schizzare a livelli senza precedenti il debito pubblico degli Usa. Alto perciò è il pericolo di conseguenze devastanti per l'economia americana, che avrebbe bisogno di accelerare la crescita, soprattutto delle esportazioni, e di rianimare i consumi interni senza che questi vadano a soddisfarsi nell'import di prodotti altrui, segnatamente cinesi. La caduta già in corso del dollaro non risolve il problema perché ciò di cui l'amministrazione Obama avrebbe bisogno è una sorta di svalutazione selettiva soltanto nei confronti della moneta cinese.

Al riguardo il Congresso ha appena messo a disposizione del presidente eventuali e pesanti misure di restrizione alle importazioni dalla Cina. Ma non pare proprio che a Pechino siano rimasti troppo impressionati da simili minacce. Anche perché il governo cinese ha una doppia ragione per continuare a far muovere la propria moneta in parallelo o quasi al dollaro. Se la prima è quella più evidente di continuare ad aiutare il boom delle proprie esportazioni, la seconda riguarda la contabilizzazione del patrimonio valutario che la Cina ha messo insieme negli anni acquistando massicciamente titoli del debito pubblico americano. Scelta che rappresenta al tempo stesso un punto di forza e uno di debolezza per gli strateghi di Pechino. Di forza perché possono tenere il coltello alla gola degli Stati Uniti, di debolezza nel caso dovessero usarlo davvero per gli effetti sulle proprie casse. Quella in corso, dunque, si presenta come una sfida nella quale al momento nessuno dei contendenti sa come chiudere una partita che, anche per i suoi inconfessati risvolti politici, promette di durare negli anni.

Per il resto del mondo questa situazione è quanto di peggio. L'andatura parallela di dollaro e renminbi sta producendo micidiali effetti di rivalutazione delle monete degli altri paesi, i quali vedono precipitare la competitività delle loro esportazioni ben più di quanto possano guadagnare in termini di acquisti di materie prime. Nell'area euro solo la più solida economia tedesca riesce a reggere il gioco, per tutti gli altri sono e saranno guai. In particolare per l'Italia che, già maestra in tema di svalutazioni competitive, ora rischia di essere vittima impotente di quelle altrui.

   
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Titolo: Massimo RIVA. L'ultima clausola di Tremonti
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2010, 03:27:39 pm
L'ultima clausola di Tremonti

di Massimo Riva

(22 ottobre 2010)

Il cammino verso il federalismo fiscale era già cominciato male l'anno scorso, con una legge quadro approvata nel più fitto buio contabile da un parlamento che l'ha votata senza che il governo si degnasse di presentare una pur sommaria indicazione del rapporto fra costi e benefici per la finanza pubblica. L'oscurità si sarebbe diradata su questo punto non secondario - assicurò allora il ministro Giulio Tremonti - nel momento in cui si fosse passati ai decreti attuativi. Mentre il presidente del Consiglio non perse l'ennesima occasione di promettere che il nuovo regime avrebbe portato comunque a una riduzione delle imposte per i cittadini.

Ora che dai buoni ma vaghi propositi si sta passando alle decisioni concrete le cose stanno procedendo di male in peggio. Anziché cominciare dal mettere ordine sul fronte della spesa degli enti locali, che costituisce la principale fonte di pericolo per gli equilibri contabili delle regioni, Tremonti e Silvio Berlusconi hanno deciso di iniziare dal versante delle nuove regole tributarie. Scelta poco logica, ma addirittura sorprendente per le sue indicazioni specifiche. Soprattutto perché il progetto governativo - alla faccia delle promesse di Berlusconi - spalanca alle regioni la porta per nuovi e non piccoli aggravi delle imposte addizionali, con l'aggravante della facoltà ad operare uno scambio dal sapore odiosamente classista fra tagli all'Irap a beneficio delle imprese e aumenti delle tasse per i lavoratori.

Per dissimulare la minaccia implicita di un incremento della pressione fiscale, che è poi la vera sostanza del decreto, il governo ha fatto ricorso ad un penoso marchingegno inserendo nel testo la cosiddetta "clausola di invarianza", in ossequio alla quale le regioni potranno sì aumentare, per esempio, il peso delle addizionali, ma alla ferma condizione di diminuire qualche altro prelievo in modo da ottenere come risultato finale che la pressione fiscale complessiva risulti alla fine almeno immutata. Sarebbe bello poter credere all'efficacia di una simile trovata, se non fosse che i precedenti al riguardo depongono tutti in senso diametralmente opposto.

La memoria storica ricorda che un'analoga questione fu sollevata durante i lavori dell'Assemblea costituente con riferimento agli equilibri della finanza statale. Per mettere questi ultimi al riparo da decisioni pericolose fu inserito nel tanto celebrato articolo 81 della Costituzione un comma secondo il quale ogni legge "che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte". Formula di straordinario e impeccabile rigore contabile - proposta e voluta da personaggi del calibro di Luigi Einaudi ed Ezio Vanoni - ma che non è certo servita a impedire alle finanze della Repubblica di accumulare nel tempo un debito che ormai si sta avvicinando ai 1.850 miliardi di euro, pari a quasi il 120 per cento in rapporto al Pil.
E oggi, dopo questa amarissima esperienza, gli italiani dovrebbero prestar fiducia alla "clausola d'invarianza" escogitata da Tremonti? Se non l'intelligenza, almeno il portafoglio dei contribuenti meriterebbe un maggiore rispetto da parte del ministro e dei suoi sodali leghisti.

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Titolo: Massimo RIVA. Tremonti come Pirro
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2010, 06:36:17 pm
Tremonti come Pirro

di Massimo Riva

(29 ottobre 2010)

Il giubilo con il quale i ministri economici dell'area euro hanno illustrato l'accordo sulla nuova versione del patto di stabilità è sospetto. E così pure la pioggia di critiche astiose che è caduta sul presidente della Banca europea, Jean-Claude Trichet, per aver apertamente manifestato il suo dissenso da punti essenziali del testo. In particolare, sul nodo delle sanzioni contro i Paesi devianti in materia di debito. La Commissione di Bruxelles, con il pieno consenso della Bce, aveva proposto che tali sanzioni scattassero in modo automatico. I rappresentanti dei governi hanno, viceversa, rivendicato a se stessi il potere di decidere al riguardo, valutando caso per caso.

Si dirà che così è stato riaffermato il primato della politica. Già, ma di quale politica? Ancora fresca è la memoria di quel che accadde, solo pochi anni fa, quando a sforare i parametri del patto furono i governi di due Paesi leader quali Germania e Francia. Con la connivenza dei membri più deboli, interessati a guadagnarsi indulgenza, Berlino e Parigi non pagarono dazio. Scelta che introdusse elementi di forte incertezza sui mercati quanto a serietà e tenuta del sistema di regole che dovrebbe presidiare i corsi dell'euro.

In secondo luogo - e questa sarebbe la maggiore preoccupazione di Trichet - va ricordato che gli interventi per arginare i colpi della recente crisi finanziaria hanno fatto pesantemente crescere gli stock dei debiti nazionali un po' dappertutto in Europa. Tanto che il problema della gestione dei debiti sovrani è salito di prepotenza al primo posto nell'agenda dei vertici internazionali. Forse la Commissione Ue aveva esagerato proponendo di assoggettare i paesi devianti all'obbligo di un rientro a ritmi forzati. E si può comprendere che i ministri abbiano temuto l'effetto recessivo di simili eventuali sanzioni. Ma da questo estremo di rigore ora si è passati all'eccesso opposto, affidando il tema alle contrattazioni occasionali fra rappresentanti dei governi. Scelta che non suona come il miglior viatico per il futuro dell'euro sui mercati: meno i debiti scendono e più si materializza il pericolo di una svolta al rialzo dei tassi d'interesse. E già c'è qualche segnale sull'euribor.

Prospettiva che dovrebbe angustiare soprattutto un Paese con debito abnorme come il nostro. Ma proprio il ministro Giulio Tremonti è stato fra i più entusiasti del "novum pactum". A suo dire, non solo perché si è scongiurata la mannaia delle sanzioni automatiche, ma anche perché grazie a lui l'Italia avrebbe ottenuto che la nozione di debito nazionale prendesse in considerazione quello privato insieme a quello pubblico, così valorizzando la ancor forte propensione degli italiani al risparmio. Ora, a parte il fatto che l'accettazione di un tale doppio parametro non risulta poi così tanto esplicita nei documenti ufficiali, in sede Bce è già stato fatto notare che il debito totale italiano, pubblico e privato, è aumentato negli ultimi dieci anni dal 195 al 251 per cento del Pil: una cifra da paura al primo stormir dei tassi. Tale comunque da far ritenere che Tremonti a Bruxelles abbia riportato la classica vittoria di Pirro.

   
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Titolo: Massimo RIVA. La farsa delle tasse
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2010, 04:19:16 pm
La farsa delle tasse

di Massimo Riva

(05 novembre 2010)

"Meno tasse per tutti". Risale al 1994 lo slogan di indubbia efficacia demagogica sull'onda del quale Silvio Berlusconi entrò per la prima volta a Palazzo Chigi. Dopo sedici anni - per oltre metà dei quali il Cavaliere è stato alla guida del governo - siamo sempre al punto di partenza. La promessa di un taglio alle imposte viene di continuo reiterata a gran voce ma senza che alcun fatto ne consegua. Anzi, la pressione fiscale è semmai in questi ultimi anni risalita.

Durante l'esperienza governativa precedente Berlusconi ebbe pure la sfrontatezza di architettare una penosa sceneggiata, facendosi approvare dal Parlamento una legge-delega che sforbiciava drasticamente il prelievo riducendo in numero e valore le aliquote dell'imposta sui redditi: nessuno avrebbe dovuto pagare più del 35 per cento. Peccato che quella delega non fu mai esercitata e passò alla storia come una solenne presa per il naso dei contribuenti.

Ora il ministro Tremonti è tornato alla carica dando ad intendere con aria particolarmente compunta che questa sarebbe la volta buona.
Ha riunito attorno a un tavolo imprenditori e sindacati per coinvolgerli nell'operazione. Poi ha costituito quattro commissioni di studio sulla materia chiamando a parteciparvi anche esperti vicini all'opposizione, alla quale ha rivolto espliciti inviti ad avanzare proposte in materia.

A prima vista, un simile metodo ispirato alla collaborazione sociale e politica appare apprezzabile: come lo sono anche alcuni paletti fissati dallo stesso ministro. Egli dice, per esempio, che la riforma fiscale dovrà essere compatibile con i conti pubblici e con i vincoli europei. Giustissimo: le entrate sono oggi in calo mentre il debito pubblico continua a salire. Soggiunge poi Tremonti che sì il taglio delle tasse si potrà spesare con la lotta all'evasione, ma non prima che il gettito recuperato sia denaro sonante in cassa. Ottimo e logico proposito.

Assai meno condivisibili, però, sono altre affermazioni del medesimo ministro. Come quelle relative al punto che il nuovo fisco non dovrà prevedere aumenti del prelievo né sui patrimoni né sulle rendite finanziarie. In un paese, nel quale la coperta dei conti pubblici è sempre più corta e potrebbe presto diventare cortissima al primo rialzo dei tassi d'interesse sul debito e dove da decenni lo Stato spreme i redditi da lavoro più di tutti gli altri, diventa davvero arduo capire dove Tremonti intenda trovare le risorse per una riduzione delle tasse senza passare per un'inevitabile redistribuzione sociale del carico fiscale. Nei tagli alla spesa pubblica? Sarà, ma finora nelle sue mani questa è cresciuta. Nella vendita di beni dello Stato? Ma questo sarebbe un obbrobrio contabile dato che incassi una tantum andrebbero a coprire rinunce permanenti di gettito. E allora?

Le forme e i modi di Tremonti saranno anche più accattivanti che in passato, ma forte è il dubbio di trovarsi di fronte a un'incresciosa replica della farsa con la delega a tagliare tasse che non sono mai state tagliate. Anche perché nell'aria c'è profumo di elezioni anticipate e altri manifesti con il "meno tasse per tutti" sono forse già pronti in magazzino.

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Titolo: Massimo RIVA. La malattia dell'Occidente
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2010, 05:31:39 pm
La malattia dell'Occidente

di Massimo Riva

(12 novembre 2010)

Negli Stati Uniti l'hanno ribattezzata "jobless recovery" (ripresa senza lavoro), ma il fenomeno riguarda un po' tutti i paesi dell'Occidente industrializzato. Seppure in modo stentato, infatti, il cammino della crescita è ripreso nel corso di quest'anno e però con una pronunciata caratteristica negativa: l'aumento della produzione non comporta un incremento dei posti di lavoro, anzi. Una contraddizione inattesa che taluni spiegano con ragioni contingenti. Principalmente col fatto che la crisi 2008/2009 ha provocato una dura selezione nel mondo delle imprese. Le più deboli hanno chiuso i battenti e ingrossato le fila dei disoccupati, mentre quelle che hanno resistito si stanno riprendendo soltanto riducendo il carico della manodopera anche più di quanto dovuto al restringimento del proprio perimetro produttivo.
È una prima spiegazione, in parte plausibile, ma che forse s'arresta alla superficie del problema e non coglie elementi più strutturali del cambiamento in atto nel rapporto fra ripresa e occupazione o, per dirla più franca, nella lotta fra capitale e lavoro. Medico più attento e meno pietoso, in un documentato libro appena edito da Laterza, Marco Panara suggerisce di guardare in faccia e più da vicino quella che egli chiama "la malattia dell'Occidente" (titolo del volume): un morbo che nasce, a suo avviso, dalla perdita progressiva del valore del lavoro nelle società che compongono il mondo cosiddetto sviluppato o industrializzato.

Certo che questa svalutazione del lavoro può essere originata da fattori geografici, come la corsa alle delocalizzazioni produttive verso paesi con manodopera a basso o bassissimo salario. Certo che hanno pesato anche fattori tecnologici: in pratica tutti i paesi occidentali, con l'eccezione della Germania, hanno avuto l'intelligenza di alzare il tiro delle loro attività verso beni a più elevato valore aggiunto. Ma il punto centrale sul quale Panara invita a ragionare è che proprio la recente crisi finanziaria ha portato in piena luce un processo di redistribuzione della ricchezza in corso da decenni e nel quale la remunerazione del lavoro continua a cedere quote a favore di quella del capitale.

Emerge da una simile diagnosi un aspetto particolarmente allarmante della malattia del lavoro nei paesi occidentali con risvolti da società suicida. Se l'obiettivo della rendita finanziaria riduce il reddito da lavoro a valore residuale, all'economia viene progressivamente a mancare il sostegno della domanda per consumi e la minaccia di avvitamento depressivo prende sempre più corpo. Prima di Keynes lo aveva già detto Malthus. Dietro la "jobless recovery" di cui si diceva all'inizio, quindi, sono in agguato problemi ben più gravi e seri di quelli esorcizzabili con spiegazioni contingenti e consolatorie. Problemi che invocano una presa di coscienza e di iniziativa da parte dei poteri politici, nazionali e in Europa sovranazionali. È tempo sprecato stare in passiva attesa del mezzo punto in più o in meno nelle statistiche sulla disoccupazione, oggi occorre che soprattutto i governi occidentali guardino ai cambiamenti strutturali in atto nello storico conflitto fra capitale e lavoro.

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Titolo: Massimo RIVA. L'Italia della decadenza
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2010, 09:43:48 am
L'Italia della decadenza

di Massimo Riva

(19 novembre 2010)

Luca Cordero di Montezemolo Luca Cordero di MontezemoloÈ passato appena qualche anno, ma come sembrano lontani i tempi nei quali dal Quirinale Carlo Azeglio Ciampi respingeva con forza l'idea stessa che si potesse parlare di declino del paese. Oggi, purtroppo, su quel piano inclinato ci siamo davvero e lo riconosce lo stesso ex-Presidente della Repubblica nel suo ultimo libro dove dell'Italia attuale dice amaro e perentorio: "Non è il paese che sognavo". Mese non passa, infatti, senza che questa o quella statistica segnali il costante arretramento dell'economia italiana nel contesto internazionale. Da ultimo, lo dicono i dati sulla crescita nel terzo trimestre 2010 che confermano l'esistenza di una sorta di handicap strutturale per cui quando la ripresa accelera l'Italia cresce meno degli altri, mentre più di tutti frena quando l'attività economica rallenta. Tra luglio e settembre in Europa si è avuto un aumento medio del Pil dello 0,4 per cento, ma l'Italia ha messo a segno uno stentato più 0,2: la metà degli altri.

A complicare questa decadenza, già in sé allarmante, si aggiunge la manipolazione politica che distorce la lettura delle rilevazioni statistiche. Soprattutto da parte di chi regge il governo del paese che, fin dai primi segnali della crisi generale, si è attestato su una posizione di negazione radicale della gravità delle cifre andando a cercare, di volta in volta, in Irlanda o in Portogallo un raffronto qualunque che potesse consentire di sostenere l'alibi assolutorio di un'Italia che "sta meglio di altri paesi".
Proprio per uscire dall'assurdità di questo dibattito negazionista della realtà, Italia Futura (la Fondazione presieduta da Luca Cordero di Montezemolo) ha condotto uno studio intitolato "I numeri del quindicennio perso" nel quale ha raccolto una serie di dati sulla situazione socio-economica del paese attingendoli dalle più autorevoli ed affidabili fonti interne e internazionali. Studio dal quale sono ricavate le tabelle di queste pagine che "l'Espresso" pubblica in anteprima (che saranno presentate al convegno della Fondazione sull'occupazione giovanile del 24 novembre ). Quel che ne emerge lascia ben poco spazio agli ottimismi di facciata. Già la serie di dati sull'andamento del Pil è implacabile: negli ultimi quindici anni l'Italia ha avuto una crescita sempre scarsa e comunque di gran lunga inferiore a quella dei principali partner europei. Perfino segnando nel 2009 una caduta del Pil/pro capite che, magari di poco, è però cresciuto altrove. Quanto al minaccioso versante del debito pubblico, si va addirittura di male in peggio con un appesantimento più pronunciato a partire dal 2008 dopo il ritorno al governo della compagine berlusconiana: dieci punti percentuali in più rispetto al Pil solo nel raffronto 2008/2009. Con un'aggravante - occorre soggiungere - che riguarda la progressione del debito in cifra assoluta. A maggio 2008 - riedizione del governo Berlusconi - il debito era cifrato in 1.648 miliardi di euro, un anno dopo si era già a quota 1.752, mentre al 30 settembre scorso è stato stimato da Bankitalia al record di 1.844: quasi 200 miliardi in più in trenta mesi! Numeri da soli più che sufficienti a mandare in pezzi la favoletta mistificatoria di un Giulio Tremonti custode rigoroso dei conti. Tanto più alla luce della tabella sugli aiuti dello Stato nel corso della crisi economica dove si registra che, al contrario di altri paesi, l'Italia ha speso quasi nulla rispetto a quanto fatto dagli altri.

Se poi si guarda alla politica fiscale anche in questo caso finiscono alle ortiche non poche fantasiose menzogne. Non è vero che la pressione tributaria sia stata ridotta, anzi essa risulta aumentata rispetto a una dozzina d'anni fa. Mentre il cuneo fiscale, da tanti indicato come la causa principale della scarsa competitività del "made in Italy" rispetto alle maggiori economie europee, risulta di oltre tre punti inferiore a quello della Germania ovvero proprio del paese che oggi mostra di saper uscire dalla crisi prima e più velocemente degli altri.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/litalia-della-decadenza/2138610/18


Titolo: Massimo RIVA. L'Italia della decadenza
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2010, 05:23:10 pm
L'Italia della decadenza

di Massimo Riva

(19 novembre 2010)

È passato appena qualche anno, ma come sembrano lontani i tempi nei quali dal Quirinale Carlo Azeglio Ciampi respingeva con forza l'idea stessa che si potesse parlare di declino del paese. Oggi, purtroppo, su quel piano inclinato ci siamo davvero e lo riconosce lo stesso ex-Presidente della Repubblica nel suo ultimo libro dove dell'Italia attuale dice amaro e perentorio: "Non è il paese che sognavo". Mese non passa, infatti, senza che questa o quella statistica segnali il costante arretramento dell'economia italiana nel contesto internazionale. Da ultimo, lo dicono i dati sulla crescita nel terzo trimestre 2010 che confermano l'esistenza di una sorta di handicap strutturale per cui quando la ripresa accelera l'Italia cresce meno degli altri, mentre più di tutti frena quando l'attività economica rallenta. Tra luglio e settembre in Europa si è avuto un aumento medio del Pil dello 0,4 per cento, ma l'Italia ha messo a segno uno stentato più 0,2: la metà degli altri.

A complicare questa decadenza, già in sé allarmante, si aggiunge la manipolazione politica che distorce la lettura delle rilevazioni statistiche. Soprattutto da parte di chi regge il governo del paese che, fin dai primi segnali della crisi generale, si è attestato su una posizione di negazione radicale della gravità delle cifre andando a cercare, di volta in volta, in Irlanda o in Portogallo un raffronto qualunque che potesse consentire di sostenere l'alibi assolutorio di un'Italia che "sta meglio di altri paesi".

Proprio per uscire dall'assurdità di questo dibattito negazionista della realtà, Italia Futura (la Fondazione presieduta da Luca Cordero di Montezemolo) ha condotto uno studio intitolato "I numeri del quindicennio perso" nel quale ha raccolto una serie di dati sulla situazione socio-economica del paese attingendoli dalle più autorevoli ed affidabili fonti interne e internazionali. Studio dal quale sono ricavate le tabelle di queste pagine che "l'Espresso" pubblica in anteprima (che saranno presentate al convegno della Fondazione sull'occupazione giovanile del 24 novembre ). Quel che ne emerge lascia ben poco spazio agli ottimismi di facciata. Già la serie di dati sull'andamento del Pil è implacabile: negli ultimi quindici anni l'Italia ha avuto una crescita sempre scarsa e comunque di gran lunga inferiore a quella dei principali partner europei. Perfino segnando nel 2009 una caduta del Pil/pro capite che, magari di poco, è però cresciuto altrove. Quanto al minaccioso versante del debito pubblico, si va addirittura di male in peggio con un appesantimento più pronunciato a partire dal 2008 dopo il ritorno al governo della compagine berlusconiana: dieci punti percentuali in più rispetto al Pil solo nel raffronto 2008/2009. Con un'aggravante - occorre soggiungere - che riguarda la progressione del debito in cifra assoluta. A maggio 2008 - riedizione del governo Berlusconi - il debito era cifrato in 1.648 miliardi di euro, un anno dopo si era già a quota 1.752, mentre al 30 settembre scorso è stato stimato da Bankitalia al record di 1.844: quasi 200 miliardi in più in trenta mesi! Numeri da soli più che sufficienti a mandare in pezzi la favoletta mistificatoria di un Giulio Tremonti custode rigoroso dei conti. Tanto più alla luce della tabella sugli aiuti dello Stato nel corso della crisi economica dove si registra che, al contrario di altri paesi, l'Italia ha speso quasi nulla rispetto a quanto fatto dagli altri.

Se poi si guarda alla politica fiscale anche in questo caso finiscono alle ortiche non poche fantasiose menzogne. Non è vero che la pressione tributaria sia stata ridotta, anzi essa risulta aumentata rispetto a una dozzina d'anni fa. Mentre il cuneo fiscale, da tanti indicato come la causa principale della scarsa competitività del "made in Italy" rispetto alle maggiori economie europee, risulta di oltre tre punti inferiore a quello della Germania ovvero proprio del paese che oggi mostra di saper uscire dalla crisi prima e più velocemente degli altri.

Note non meno dolenti vengono, infine, dal mercato del lavoro e, in particolare, dai dati sul "flusso dei lavoratori qualificati verso l'estero" che segnala una costante fuga dei cervelli migliori (nell'ordine di un quarto di milione l'anno) in netta controtendenza con quanto accaduto nei principali paesi europei. Una migrazione davvero imponente che si può drammaticamente spiegare con un'altra amara rilevazione: quella che vede l'Italia fanalino di coda nella classifica della spesa per ricerca e sviluppo. Segnale inequivocabile che il declino in corso proietta le sue ombre anche sull'avvenire. Unica consolazione è che la ricerca di ItaliaFutura conferma l'ottima quotazione internazionale della sanità italiana: seconda al mondo dopo la francese. Sempre che i famigerati tagli lineari alla cieca, dietro cui Tremonti nasconde la sua incapacità di una politica selettiva della spesa pubblica, non stiano già mettendo a rischio anche questa solitaria eccellenza. Non solo Ciampi, quindi, ma tanti altri italiani oggi possono dire che questo non è il paese del loro sogno.

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Titolo: Massimo RIVA. Debito alla resa dei conti
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:19:49 am
L'opinione

Debito alla resa dei conti

di Massimo Riva

(03 dicembre 2010)

Sostiene Giulio Tremonti che l'Italia non deve temere tempeste presenti o future perché i suoi conti pubblici sono stati "messi in sicurezza". Parole che vengono ripetute a cantilena, come la consolante recita di un rosario quotidiano, dai suoi colleghi di governo e da ogni esponente dell'attuale maggioranza. Vale la pena di chiedersi quanto si possa stare sicuri di questa tanto esibita "sicurezza". Se si guarda allo storico tallone d'Achille del nostro bilancio - il debito pubblico - la situazione appare assai meno confortevole. Ereditato da Tremonti attorno al 105 per cento in rapporto al Pil, il suddetto debito si sta avviando ormai a quota 120 per cento. Nelle giaculatorie governative si sdrammatizza questo minaccioso balzo in avanti asserendo che esso trova ovvia spiegazione nella contemporanea discesa dell'altro termine del rapporto ovvero del Pil. Ma si tratta di un argomento del tutto falso. In realtà, il debito è cresciuto nei due anni e mezzo di governo berlusconiano ben più di quanto abbia frenato il Pil.

Nel maggio 2008, all'indomani del trionfo elettorale di Berlusconi, esso era stimato in 1.648 miliardi, secondo l'ultima rilevazione (settembre 2010) è arrivato a quota 1.844 ovvero 196 miliardi in più con un incremento di circa il 12 per cento in 28 mesi. Va bene che il Pil ha rallentato ma, per fortuna, non in simili proporzioni. Dunque, c'è stato un aumento vigoroso del debito non altrimenti attribuibile che agli effetti della gestione Tremonti anche perché in Italia, al contrario di quanto accaduto altrove, lo Stato non ha dovuto correre al soccorso di banche a rischio di chiusura. La spia del debito apre così una falla gigantesca nella dottrina della messa in sicurezza del bilancio e svela quali siano la vera pasta e il corto respiro del sedicente rigore tremontiano. In pratica il ministro si è limitato a spostare avanti nel tempo la resa dei conti, sottoscrivendo nuove cambiali che dovranno essere onorate da chi verrà dopo di lui e, per giunta, a tassi d'interesse che certo non saranno più quelli di oggi. In termini sociali, poi, quei 200 miliardi di debito in più rappresentano comunque una requisizione del reddito che sarà prodotto negli anni a venire. Un caso classico di imposta post-datata alla faccia del "non metteremo le mani nelle tasche dei contribuenti".

A quanto pare simili manovre non entusiasmano la Commissione Barroso, che da Bruxelles fa intendere di voler chiedere a Roma nel 2011 misure di risanamento ben più serie ed onerose. Per scongiurare simile ipotesi i cantori della messa in sicurezza se ne sono inventata un'altra: l'Italia non merita di essere sottoposta a una disciplina più dura perché, a compensazione dell'abnorme debito pubblico, può vantarne uno ben minore del settore privato a causa della forte propensione al risparmio dei suoi cittadini. Argomento molto pericoloso perché esso può reggere solo a una condizione logica implicita: che, in caso di necessità, lo Stato intenda assoggettare il risparmio degli italiani a un prestito forzoso. Sarebbe questo l'ultimo e più velenoso lascito della pretesa messa in sicurezza dei conti pubblici da parte di Giulio Tremonti.

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Titolo: Massimo RIVA. Prova del fuoco per Vegas
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2010, 10:25:31 am
Prova del fuoco per Vegas

di Massimo Riva

(10 dicembre 2010)

Il caso Ligresti-Groupama offre alla nuova Consob, guidata da Giuseppe Vegas, la preziosa opportunità di far capire da subito al mercato da che parte sta. Da quella dei pochi gruppi dominanti, abituati a fare i propri comodi a Piazza degli Affari, ovvero da quella della larga platea dei piccoli risparmiatori o azionisti di minoranza sovente trattati come indifeso gregge da tosare?
Il nodo da sciogliere riguarda la valutazione dei termini dell'ingresso dei francesi di Groupama in Premafin, la holding di controllo della piramide societaria di Ligresti, che sta per operare un robusto aumento di capitale per raccogliere il denaro fresco utile a ridurre un indebitamento complessivo delle aziende del costruttore siciliano ormai prossimo all'insostenibilità. Quale sia l'interesse del gruppo assicurativo francese a impegnarsi nell'operazione è fin troppo evidente: approfittare delle difficoltà finanziarie di Ligresti per offrirgli una ciambella di salvataggio da farsi ripagare in futuro allungando le mani sull'importante business assicurativo (Fondiaria-Sai) del medesimo impero Ligresti. Che Groupama si muova per una semplice moto di generosità ovvero per aiutare Premafin & C. a costruire altri grattacieli è un'ipotesi che non troverebbe ascolto neppure negli asili infantili.

Con studiata accortezza, però, i francesi intendono perseguire le loro mire con il minimo sforzo. Sottoscriveranno sì una quota dell'aumento di capitale Premafin, ma tale da tenerli lontani da quel limite del 30 per cento che farebbe scattare a loro carico l'obbligo di un'offerta pubblica d'acquisto a favore dell'intero azionariato della società. Anzi, per non lasciare dubbi al riguardo, gli uomini di Groupama hanno già fatto sapere che qualora si materializzasse l'onere dell'Opa essi si ritirerebbero dall'affare.
La questione, tuttavia, rimane più che mai aperta. Una volta che l'operazione fosse perfezionata, infatti, Ligresti e Groupama si troverebbero ad esercitare insieme un controllo della società parecchio superiore alla fatidica soglia del 30 per cento, con le conseguenze di cui sopra. Ed è proprio questo in sostanza l'interrogativo su cui la Consob è chiamata a pronunciarsi: nella Premafin ricapitalizzata le intese Ligresti-Groupama configurano o no la fattispecie del "controllo congiunto"?

Se Vegas e colleghi decidono per il sì, l'operazione salta e l'indebitato Ligresti dovrà cercare altre soluzioni per i suoi guai. Se invece decidono per il no, l'affare va in porto, Ligresti festeggia, i francesi pure in attesa di ulteriori mosse, ma tutti gli azionisti di minoranza restano condannati al ruolo di passivi spettatori di accordi lucrosi soltanto per i maggiori protagonisti. Il giudizio sul mercato azionario italiano come riserva di caccia per una ristretta conventicola di affaristi prepotenti riceverebbe l'ennesima e incresciosa conferma.
Certo, il sottinteso controllo congiunto potrebbe emergere con piena evidenza solo dopo che Ligresti e Groupama si accordassero, ad esempio, per una spartizione del settore assicurativo del gruppo. Ma alla Consob spetta sanzionare tanto gli abusi perfezionati quanto anche quelli tentati.

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Titolo: Massimo RIVA. Porte girevoli all'Authority
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2010, 05:12:27 pm
Porte girevoli all'Authority

di Massimo Riva

(26 novembre 2010)

Non a tutti il tempo porta consiglio, di sicuro non al governo di Silvio Berlusconi. Dopo aver meditato per ben 143 giorni sul nodo della presidenza Consob, finalmente a Palazzo Chigi si è deciso di procedere ma con una nomina che getta l'ombra dell'occupazione partitica sull'Autorità di vigilanza per società e Borsa. Il prescelto, Giuseppe Vegas, sarà pure persona non digiuna di cose economiche - anche se il suo campo d'esperienze riguarda soprattutto i temi della finanza pubblica - ma costui arriva al vertice della Commissione direttamente dall'incarico di vice-ministro dell'Economia. Un inedito inquietante.

D'accordo che nella storia della Consob se ne sono già viste di tutti i colori come la nomina anni fa di un improbabile Bruno Pazzi, che come titolo di merito poteva vantare soltanto di essere sostenuto da Giulio Andreotti. Ma indicare un uomo del governo per la guida di un'istituzione il cui ruolo è fondamentalmente arbitrale e di garanzia verso tutti i soggetti del mercato azionario significa contraddire il senso stesso della missione affidata alla Consob. O, peggio ancora, mostrare totale disprezzo di elementari regole di buongoverno, nonché una visione prevaricatrice dei compiti affidati al potere politico. Vizi allarmanti e per giunta resi più gravi dal complesso di nomine governative decise insieme a quella di Vegas.

Alla Consob, con il neo-presidente, arriva come commissario tale Paolo Troiano, il cui curriculum segna quali elementi più significativi l'essere stato vice-segretario generale di Palazzo Chigi con il precedente governo Berlusconi nonché fra gli ispiratori di quella famigerata legge Gasparri sulle televisioni che fu concepita come un abito su misura per gli interessi del padrone del gruppo Mediaset.

Di male in peggio poi quanto all'altra Autorità in scadenza, quella dell'Energia. A guidarla è stato designato Antonio Catricalà, che lascia così scoperta la presidenza di un altro organismo di massima importanza quale l'Antitrust. Si può riconoscere a Catricalà di non aver operato male nel suo vecchio incarico, anche se egli poteva essere senz'altro più coraggioso ed efficace nel colpire le pratiche anticoncorrenziali che si annidano in settori politicamente sensibili come quello delle comunicazioni. Ma il punto istituzionale è che con questo disinvolto passaggio da un'Autorità all'altra si sedimenta l'idea che quella di garante delle attività mercantili possa diventare una sorta di mestiere come per gli arbitri di calcio che, di domenica in domenica, possono essere mandati a San Siro piuttosto che all'Olimpico. Anche da questa scelta traspare una visione dei rapporti istituzionali deformata da obliqui giochi d'interesse. Come indica, del resto, l'affidamento interinale dell'Antitrust a quell'Antonio Pilati che è noto alle cronache soprattutto per aver collaborato con il succitato Troiano nella stesura della richiamata legge Gasparri sulle Tv.

Ora la questione è al vaglio del Parlamento chiamato a pronunciarsi in commissione a maggioranza qualificata. Si osa sperare che almeno le opposizioni trovino il coraggio di non assecondare una così minacciosa deriva istituzionale.

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Titolo: L'intransigenza dei sindacati non solo, ma anche la loro arretratezza...
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2010, 10:39:42 pm
Mister Panda in cattedra

di Massimo Riva

Secondo l'ad di Fiat a bloccare lo sviluppo del Paese è l'intransigenza dei sindacati.

Ma se è vero che i metalmeccanici della Cgil sono attestati su posizioni rigide, è vero anche che la competitività dipende anche dai fattori legati alle caratteristiche delle auto e all'innovazione tecnologica

(17 dicembre 2010)

Dice Sergio Marchionne che "l'intransigenza della Fiom blocca lo sviluppo del Paese". Sono parole pesanti e anche piuttosto impegnative.
Che i metalmeccanici della Cgil siano attestati su posizioni rigide è un fatto: sovente danno l'impressione non soltanto di volersi opporre ai diktat della Fiat, ma anche di rifiutare a priori la realtà della nuova divisione internazionale del lavoro che si è affermata nella produzione automobilistica mondiale. Che, però, lo sviluppo del Paese possa essere appeso agli atteggiamenti della Fiom è affermazione quanto meno impropria, se non del tutto mistificatoria. È un vecchio vizio di chi gestisce la grande impresa torinese quello di pensare che le sorti dell'Italia dipendano essenzialmente dalla Fiat.

Ma anche intendendo il giudizio di Marchionne come limitato al futuro dell'industria domestica dell'auto, le sue parole non convincono. Certo che oggi esistono seri problemi di competitività per questo settore dopo l'entrata in scena di paesi nei quali il costo del lavoro è ben più basso che da noi. Ma questa constatazione non può nascondere altri, fondamentali, aspetti della questione. La competitività di un prodotto dipende da un insieme di fattori fra cui quello relativo al costo del lavoro non è di sicuro preponderante. Lo stesso Marchionne ha detto che, nel caso dell'auto, esso pesa non più dell'8 per cento.

Ben maggiore, insomma, è il ruolo giocato dalle caratteristiche tecniche dei veicoli, dall'appetibilità dei modelli offerti, dalla capacità commerciale di intercettare i mutamenti della domanda, dalla qualità e dalla quantità degli investimenti per anticipare i concorrenti nell'evoluzione tecnologica e così via. Nel bel mezzo della crisi attuale c'è un'impresa, la tedesca Volkswagen, che ha offerto al riguardo un ammirevole esempio di padronanza di questo insieme di fattori. Ha sì raggiunto con i sindacati intese mirate a calmierare i salari e a rendere più flessibile l'organizzazione del lavoro, ma a fronte di un robusto piano di rilancio della produzione mirato a innovare i modelli e ad espandere anche il settore dei veicoli di gamma più alta dove superiori sono i margini di profitto, dando così - a proposito di sviluppo del Paese - un importante contributo al boom in corso delle esportazioni tedesche.

Quello della Fiat - ahinoi - è per ora l'esempio opposto. Salvo qualche ritocco più di forma che di sostanza, modelli davvero nuovi non se ne sono visti. Quanto al celebrato piano per l'Italia poco o nulla si sa: Sergio Marchionne vuole che si compri il suo cammello ma senza farlo vedere prima agli interessati. Per ora l'unico dettaglio quasi certo dovrebbe essere la costruzione a Pomigliano di una nuova Panda: guarda caso, il prodotto più povero dell'intera gamma Fiat.

E ora Mr. Panda, con l'appoggio di una Confindustria genuflessa, pretende pure di salire in cattedra per denunciare chi sta bloccando lo sviluppo del Paese? Le critiche alla Fiom sarebbero più credibili dalla bocca di chi, con meno supponenza, offrisse la prova di pensare davvero allo sviluppo del Paese e non agli interessi azionari di corto respiro dei suoi mandanti.

   
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Titolo: Massimo RIVA. Telecom, chi grida e chi tace
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 03:21:34 pm
Telecom, chi grida e chi tace

di Massimo Riva

(23 dicembre 2010)

Con la sola eccezione del consigliere indipendente, Luigi Zingales, il board di Telecom Italia ha deciso di non avviare alcuna azione di responsabilità contro i precedenti amministratori per una serie di oblique vicende aziendali. La prima, più clamorosa, quella dei dossieraggi illegali compiuti dal servizio di sicurezza interno sotto la guida di Giuliano Tavaroli. La seconda quella delle carte Sim false (circa tre milioni le linee disattivate). La terza quella del caso Sparkle, già costato all'azienda circa mezzo miliardo di euro.
Tempo fa Guido Rossi aveva irriso al ruolo dei consiglieri indipendenti definendoli "financial gigolò" con allusione al rischio che costoro venissero usati come foglie di fico per i maneggi dei grandi azionisti. Stavolta, nell'affare Telecom, con il suo voto di "totale contrarietà" alla scelta rinunciataria degli altri amministratori, Zingales ha mostrato che anche i presunti gigolò possono - volendolo - svolgere una funzione importante. Nel caso specifico quella di rompere pubblicamente il muro omertoso di decisioni assunte in un contesto inquinato da pesanti conflitti d'interessi.

Accade, infatti, che la gestione contro la quale gli attuali amministratori sono stati chiamati a decidere se proporre o no un'azione di responsabilità sia quella che risale al tempo del controllo di Telecom da parte di Pirelli, segnatamente nelle persone di Marco Tronchetti Provera e Carlo Buora. E, purtroppo, davvero tanti nell'attuale consiglio di Telecom sono i "consiglieri dipendenti" perché rappresentanti di gruppi (come Mediobanca, Generali, Banca Intesa) che sono legati a vario titolo alla sorte economica del gruppo Pirelli e agli affari di Tronchetti Provera.
Le indagini giudiziarie non hanno ancora dipanato l'intera matassa delle responsabilità soprattutto per quanto riguarda gli abusi della security del noto Tavaroli. In un primo tempo è parso che i magistrati fossero orientati ad escludere ogni copertura di Tronchetti Provera ai traffici illegali del servizio di sicurezza. Più di recente l'inchiesta sembra aver preso una diversa piega, più scettica sull'innocenza dei vertici aziendali dell'epoca. In ogni caso Telecom - quella di oggi per quella di allora - si trova a dover affrontare una serie di azioni di risarcimento promosse da numerose vittime dei dossieraggi illegali. Cause che costeranno comunque non poco all'azienda.

Per difendersi dalle accuse più gravi Tronchetti Provera ha sempre sostenuto che i traffici di Tavaroli avvenivano a sua insaputa. In altre parole, escludendo un suo comportamento doloso, ha finito per ammettere la colpa di non aver vigilato come avrebbe dovuto su quanto avveniva nel reparto della security aziendale. Ciò configura, come minima ipotesi di responsabilità, un'inefficienza di gestione con non piccole ricadute sul bilancio della società. Il fatto che l'attuale consiglio di Telecom abbia chiuso gli occhi perfino su questo aspetto della vicenda lascia sconcertati. Anche perché segnala un'attenzione per i grandi azionisti Pirelli superiore a quella per i tanti piccoli azionisti Telecom. Fatti e misfatti del domestico capitalismo relazionale.

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Titolo: Massimo RIVA. Fiat, se questa è modernità
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2011, 05:35:56 pm
Fiat, se questa è modernità

Massimo Riva

Marchionne e Sacconi stanno ancora brindando, ma non si accorgono che azienda e lavoratori stanno andando indietro, tutti insieme.

Con produzioni e relazioni industriali molto vecchie

(21 gennaio 2011)

Maurizio Sacconi Maurizio SacconiSergio Marchionne ha commentato l'esito del referendum di Mirafiori parlando di "svolta storica". Gli ha fatto eco il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, augurandosi "tante altre intese" sul modello Fiat. Insomma, sia l'uno sia l'altro sono convinti che quel voto abbia aperto una fase di straordinario rinnovamento per l'intera economia italiana. È fin dal principio di questa vicenda, del resto, che entrambi si sono attribuiti il ruolo dei grandi modernizzatori, lanciando accuse di ottuso conservatorismo contro l'opposto fronte sindacale e politico mobilitato a contrastare accordi ritenuti lesivi sia di diritti sia di interessi materiali dei lavoratori.

Il principale tasto sul quale i sedicenti modernizzatori battono nei loro sermoni è l'invito a prendere atto che il mondo è cambiato. Nuove potenze economiche si sono prepotentemente affermate insidiando il comodo benessere nel quale si erano adagiati padroni e operai nei Paesi dell'Occidente industrializzato. In Cina, per esempio, è accaduto ciò che soltanto pochi anni fa era inimmaginabile: i capi del più grande Partito comunista del pianeta hanno scelto di lasciar crescere una vasta classe di miliardari intraprendenti sulle spalle di qualche centinaio di milioni di lavoratori retribuiti con paghe irrisorie. Che fare dinanzi a un simile e massiccio processo di dumping economico e sociale?

L'unica idea è stata quella di chiedere ai lavoratori nostrani di fare uno, due, anche tre passi indietro per garantire al sistema produttivo condizioni più favorevoli nella competizione internazionale. Alcuni sindacati (Cisl e Uil) hanno accettato, altri hanno respinto. La Fiom-Cgil, in particolare, si è opposta con una tale radicalità da offrire, anche senza volerlo, il fianco alle accuse di miope conservatorismo che le piovevano già addosso dal fronte Marchionne, Sacconi & C. Il risultato è stato quello di intorbidire vieppiù le acque di questa querelle fra presunti antichi e supposti moderni. In forza dello slogan per cui un operaio può rivendicare diritti sul posto di lavoro soltanto se quel lavoro lo ha, la partita per ora si è chiusa come si sa.

Si rischia così di arrivare davvero alla svolta storica - che piace a Marchionne e Sacconi - senza aver chiarito se essa sia in avanti o all'indietro. In Germania, proprio nell'industria dell'auto, la risposta alla concorrenza altrui è stata di ben altro tenore. Dalla Volkswagen (pubblica) alla Bmw (privata) si è deciso di alzare il tiro della produzione sfruttando quel punto di forza tipico delle economie mature che è il primato tecnologico. Ciò ha comportato uno scambio più equilibrato per tutti fra capitali investiti, salari e organizzazione del lavoro. Un risultato è che oggi la Germania esporta auto ad alto valore aggiunto perfino in Cina.

In Italia, viceversa, si è imboccato anche per la produzione il cammino dei passi indietro seguito coi lavoratori: a Pomigliano si produrrà la banalissima Panda, a Mirafiori si monteranno componenti made in Usa. Scelte che fanno a pezzi la patente di modernizzatori dietro la quale i vari Marchionne e Sacconi stanno cercando di nascondere la loro vista ancor più corta che conservatrice.

   
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Titolo: Massimo RIVA. Più tasse per tutti
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2011, 10:06:12 pm
Più tasse per tutti

di Massimo Riva

Il federalismo fiscale doveva essere la spada affilata per tagliare le tasse e per sottoporre sindaci e governatori al controllo diretto e ravvicinato dei cittadini. Giunti alla prova dei decreti attuativi della celebrata riforma federale, però, di riduzione delle tasse né Bossi né i suoi parlano più

(28 gennaio 2011)

Ma il federalismo fiscale non doveva essere la spada affilata per tagliare le tasse e per sottoporre sindaci e governatori al controllo diretto e ravvicinato dei cittadini? Così almeno Umberto Bossi e i suoi leghisti lo hanno raccontato e magnificato per anni agli italiani raccogliendo consensi crescenti, soprattutto nell'elettorato delle regioni più ricche del Paese e perciò più insofferenti verso l'esosità dello Stato centrale.

Ora, però, che la verde bandiera leghista sventola su numerosi comuni e alcune importanti regioni del Nord, la musica è improvvisamente cambiata. Giunti alla prova dei decreti attuativi della celebrata riforma federale, di riduzione delle tasse né Bossi né i suoi parlano più. Anzi, quel che si profila è semmai un aumento delle imposte, accompagnato dall'introduzione di nuovi balzelli. Da un lato, infatti, si pensa di rimuovere il blocco che impediva ai Comuni di aumentare l'addizionale Irpef. Dall'altro lato, si progetta di estendere anche ai piccoli centri non turistici la novità dell'imposta di soggiorno inaugurata dal municipio capitolino. Con l'aggiunta di una revisione del prelievo sulla raccolta dei rifiuti che punta comunque a un maggiore incasso per gli enti locali.

È lontano il tempo in cui bastonando la finanza locale si mettevano in difficoltà soprattutto amministratori rossi. Oggi, indossata la fascia tricolore, anche i sindaci leghisti si sono accorti che le recenti manovre del loro amico Tremonti hanno svuotato le casse comunali e che perciò diventa necessario ricostituirne in qualche modo la consistenza per non essere costretti a negare ai propri cittadini perfino servizi essenziali. Dal facile slogan del "tagliare gli sprechi" si è così rapidamente passati all'imprevista parola d'ordine del "più tasse per tutti", gettando alle ortiche le reiterate promesse di chissà quale bengodi federal-fiscale.
Ma non è soltanto questo il caposaldo della loro riforma che i leghisti stanno per buttare a mare. Anche sul bel proposito di rendere più stringente il rapporto fra amministratori e amministrati è in atto una solenne retromarcia. La trovata di introdurre una tassa di soggiorno e di allargare l'imposta sui rifiuti punta a ingrassare le casse dei sindaci facendo leva prevalentemente sulle tasche dei non residenti. Cioè di coloro che sarebbero così chiamati a sborsare più denaro dalle proprie tasche, ma senza avere in contropartita la possibilità di manifestare il proprio consenso o dissenso nel voto sulle amministrazioni locali. Una maliziosa furberia per incassare più denaro senza pagare il corrispettivo dazio politico. Ovvero un autentico sberleffo al tanto sbandierato principio del controllo ravvicinato da parte del cittadino elettore.

Già aveva suscitato cattivi pensieri il fatto che, al momento del voto, al Parlamento non fosse stata presentata neppure la più vaga analisi su costi e benefici di questa sedicente riforma. Ora si ha la prova provata dell'improvvisazione strumentale con cui Bossi e Berlusconi si sono mossi sulla materia. C'e solo da sperare che le conseguenze politiche e istituzionali dei baccanali di Arcore aiutino ad archiviare anche questa brutta pagina.

   
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Titolo: Massimo RIVA. L'inutile patrimoniale
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2011, 03:42:11 pm
L'inutile patrimoniale di Massimo Riva

(04 febbraio 2011)

Come accade ormai da tempo, anche quest'anno il tanto celebrato Forum di Davos continua a richiamare nomi altisonanti ma senza lasciare traccia di idee o di progetti nuovi. Che la cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy giurassero sulle imperiture fortune dell'euro era quanto meno scontato: con gli attuali chiari di luna sui mercati ci sarebbe mancato solo che dicessero il contrario. Per il resto tutto il dibattito ha girato intorno al problema dei problemi: la montagna crescente dei debiti sovrani. Ma senza che neppure le voci più autorevoli, come quella del ministro americano Tim Geithner, abbiano saputo indicare vie d'uscita.


Fa perciò ancora più specie, a fronte di questa diffusa sterilità sul tema, la vivace fioritura di proposte che si sta verificando in Italia. Che quello del debito pubblico (il terzo al mondo) sia il nodo cruciale del nostro paese è un fatto: basti pensare che ogni anno si divora circa 80 miliardi soltanto per il pagamento degli interessi. Una cifra che da sola giustifica la ricerca di manovre straordinarie per allentare lo strangolamento del sistema. Ma che non dovrebbe far dimenticare anche la necessità primaria di operare con gli strumenti della più elementare disciplina di gestione.


C'è perciò qualcosa di sgradevolmente subdolo nel dibattito domestico sulla questione. Tutto è cominciato con una scivolosa trovata del ministro Tremonti. Il quale, volendo stendere un velo sugli oltre 200 miliardi di maggiore debito accumulati sotto la sua sedicente rigorosa gestione, ha tentato di accreditare la tesi secondo cui i risparmi privati degli italiani andrebbero considerati alla stregua di una garanzia sulla sostenibilità del debito pubblico. All'obiezione che un simile assioma postulava, senza dirlo, il ricorso o a un prestito forzoso o comunque ad altre forme di prelievo dal privato al pubblico, il ministro non ha mai replicato.
Fatto sta che altri si sono subito mossi per orientare il dibattito in questa direzione. Dapprima Giuliano Amato ha ipotizzato un'imposta una tantum sugli italiani più ricchi in modo da far calare il debito ben al di sotto della parità con il Pil. Poi s'è mosso Pellegrino Capaldo con il similare progetto di una tassa patrimoniale sulle plusvalenze immobiliari. Per una corretta valutazione di tali proposte occorrerebbe scendere nei dettagli tecnici delle medesime. Perché è su questi che si possono soppesare costi e benefici dell'operazione. Una maggiore imposta fondiaria, per esempio, potrebbe cancellare dall'Italia quel che resta di attività agricole.


Ma quel che più sorprende è che tutti questi luminosi progetti sorvolano su un particolare essenziale. A che serve prosciugare d'un colpo il debito anche all'80 per cento del Pil se prima non si è chiuso a monte il rubinetto che continua ad alimentarlo? Ovvero che senso ha prendere soldi dalle tasche degli italiani se poi Tremonti lascia correre il debito a briglia sciolta? Insomma, prima si fissi (magari in Costituzione) un limite minimo all'avanzo primario del bilancio e poi si potrà utilmente ragionare di patrimoniali e dintorni. Altrimenti, direbbero a Davos, "much ado about nothing".

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DA - espresso.repubblica.it


Titolo: Massimo RIVA. Della Valle va alla guerra
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2011, 03:45:11 pm
Della Valle va alla guerra

di Massimo Riva

(11 febbraio 2011)

Una prima crepa si sta forse aprendo nella cupola di potere che domina il domestico "capitalismo relazionale".
L'avverbio dubitativo è d'obbligo perché al momento non sono affatto chiari né la gittata né il bersaglio del colpo che ha provocato questa incrinatura. Quel che si vede ad occhio nudo è che Diego Della Valle ha dissotterrato la sua ascia di guerra ed è partito all'attacco su due fronti cruciali per gli equilibri del potere economico nostrano: il gigante finanziario Assicurazioni Generali da un lato, il variopinto assetto azionario di controllo del "Corriere della Sera" dall'altro.

Alle prime battute la sortita di Della Valle sembrava solo un episodico sfogo personale contro due "arzilli vecchietti" come egli ha polemicamente chiamato Cesare Geronzi, presidente di Generali, e Giovanni Bazoli, dominus del patto di controllo del "Corriere". Poi, però, ha affondato la spada contro il primo ponendo formalmente in consiglio d'amministrazione del gigante assicurativo la richiesta di un'uscita delle Generali dall'azionariato del "Corriere". La sua tesi - non peregrina - è che questa partecipazione editoriale non ha nulla da spartire con il business delle polizze.

Il prossimo 23 febbraio il problema sollevato da Della Valle sarà discusso dal consiglio di Generali nel quadro di un più vasto esame delle partecipazioni non assicurative del gruppo. Ed è qui che la questione rischia di diventare molto interessante. Al suo esordio ai vertici della società, Geronzi ha teorizzato fra i compiti di Generali anche quello di farsi protagonista di quelle che, con soave eufemismo, ha chiamato "scelte di sistema": cioè, operazioni estranee al mondo assicurativo, ma funzionali all'esercizio di un potere di influenza su alcuni gangli fondamentali del sistema economico.

Una tesi che riflette con una certa iattanza l'ambizione personale dello stesso Geronzi ad esercitare, dalla poltrona triestina, un ruolo dominante sui maggiori business del paese. Se il capitalismo italiano è dominato da una cupola, ragiona probabilmente l'arzillo Cesare, perché non cercare di esserne il mammasantissima? Grazie alla ricca dote finanziaria di Generali e alle partecipazioni nel "Corriere" o in colossi come Telecom, il loro presidente può avere voce in capitolo anche in molti affari che incrociano gli interessi del potere politico. Terreno sul quale Geronzi vanta esperienze di lungo corso ora rinfrescate con il governo Berlusconi.

Questo è il paniere nel quale piomba l'offensiva di Della Valle: ne romperà le preziose uova? Il problema è capire a che cosa punti davvero quest'ultimo. A ridimensionare il potere di Geronzi e le connesse "scelte di sistema"? Ovvero a ottenere qualche per ora inconfessata contropartita personale? O addirittura a rimettere in discussione l'impianto feudal-mafioso su cui regge un capitalismo malato di partecipazioni incrociate, patti di sindacato, matrioske azionarie, conflitti d'interessi e comparaggi di poltrone? In un regime di mercato vitale, ammoniva Marx, un capitalista ne uccide sempre molti. Quello di Della Valle può essere un test per saggiare quanto sia davvero vitale l'economia dell'Italia d'oggi.

   
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Titolo: Massimo RIVA. Da uno spot all'altro
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2011, 04:44:15 pm
Da uno spot all'altro

di Massimo Riva

(18 febbraio 2011)

Doveva essere una "frustata" all'economia per ridare slancio agli investimenti e alla crescita.
Dallo strombazzato Consiglio dei ministri straordinario, all'uopo convocato, è uscito niente più che uno spot pubblicitario. Materia nella quale Silvio Berlusconi è maestro riconosciuto nel mondo televisivo, ma che mal si adatta alla pratica di governo. L'esito della riunione, infatti, è stato a dir poco scoraggiante.

L'ennesimo piano casa (il terzo dopo il flop dei precedenti) è stata rinviato a non si sa quando. Si è dato un via libera preliminare al decreto di riforma degli incentivi alle imprese ma, se tutto va bene, diventerà operativo non prima del 2012. L'unica decisione effettivamente presa è quella di una riscrittura dell'art. 41 della Costituzione in senso più lassista che liberale: un'obliqua trovata a fini mediatici per nascondere che sul terreno delle liberalizzazioni concrete - passaggio essenziale per suonare la sveglia sui mercati - il governo non sa da che parte cominciare e forse nemmeno se ha davvero voglia di fare qualcosa al riguardo. Come possa essere questo nulla a spingere la crescita del Pil di quest'anno dall'uno per cento (previsto dai più) anche solo all'1,5 propagandato dal Cavaliere resta un mistero. Ma ormai il distacco di Berlusconi dalla realtà delle cose ha superato ogni limite per spingersi fino alla menzogna più spudorata. Basti dire che, presentando questo suo immaginario piano di rilancio, ha avuto la sfrontatezza di asserire: "Noi non abbiamo aumentato il debito pubblico e abbiamo dimostrato di poterlo sostenere".

Parole che raddoppiano l'allarme sulle prospettive del paese. Da un lato, perché contraddicono platealmente la verità: il debito pubblico ereditato dall'attuale governo nel maggio 2008 era di 1.648 miliardi, mentre a fine 2010 è schizzato a quota 1.843. La bellezza di 200 miliardi in più in meno di tre anni! Dall'altro lato, perché questa pervicace mistificazione lascia trasparire una pericolosa volontà politica di nascondere la drammaticità dei problemi pur di non dover ammettere le proprie responsabilità.
Su questo sfondo è ulteriore motivo di sconcerto il teatrino che si è aperto dentro la maggioranza su una sotterranea divaricazione d'intenti fra il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia. Magari sarà anche vero, come sospettano oggi molti berlusconiani, che Giulio Tremonti si stia muovendo da qualche tempo con la segreta ambizione di guidare una sorta di governo Badoglio una volta che il Cavaliere crollasse sotto il peso dei suoi errori politici e non. Resta che il mancato controllo sulla corsa del debito è una colpa grave che accomuna Berlusconi e il suo ministro in una corresponsabilità inscindibile. Né cambia qualcosa il fatto che il primo abbia la faccia tosta di rovesciare la verità, mentre il secondo si limita a ignorarla o a parlar d'altro.

Più di tutto, comunque, è ragione di scoramento che nel variopinto fronte delle opposizioni ci sia anche qualche finissima mente politica che, invece di smascherare i trucchi sul tema cruciale del debito, arzigogola sulla possibilità di incoraggiare l'esperimento Tremonti-Badoglio.

   
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Titolo: Massimo RIVA. La batosta dei tassi in salita
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2011, 05:55:51 pm
La batosta dei tassi in salita

di Massimo Riva

(25 febbraio 2011)

Jean-Claude Trichet Jean-Claude TrichetÈ già da un paio di mesi che sul mercato del denaro si manifestano pressioni al rialzo: ne sanno qualcosa tutti coloro che hanno sottoscritto mutui indicizzati sull'euribor. Indenni, per ora, sono rimasti i mutuatari che hanno scelto come riferimento il tasso ufficiale di Eurolandia. Ma non sembra proprio che la loro tranquillità sia destinata a durare ancora a lungo nel tempo. Sul fronte dei prezzi, infatti, sono in atto tensioni che già hanno portato l'inflazione a tracimare oltre quel due per cento che per i vertici della Banca centrale europea rappresenta il primo segnale di guardia.

Né le prospettive a breve-medio termine sono rassicuranti. I rivolgimenti politici in corso nella vasta area gas-petrolifera che va dal Maghreb al Golfo Persico hanno provocato non solo quelle immediate esplosioni dei prezzi che automobilisti e trasportatori già hanno cominciato a scontare alle pompe di carburante. Ma, e questo è anche peggio, sui mercati dell'energia si è diffusa una grande incertezza sugli sbocchi delle crisi in atto nei paesi produttori con conseguente innesco di manovre speculative fuori di ogni controllo. L'Europa e l'insieme dei paesi industrializzati rischiano, insomma, di dover fronteggiare nel corso di quest'anno perfino seri problemi di approvvigionamento, comunque aggravati da robusti rincari della propria bolletta energetica.

Si aggiunga a questo plumbeo panorama quanto sta accadendo sul mercato dei prodotti agricoli (da più di un anno ormai dominati da continui rialzi di prezzo per riso, frumento, soia, mais) e la previsione di un'inflazione in netta risalita diventa un esercizio di banale ovvietà. Tanto più alla luce del fatto che la strategia del denaro facile (in quantità e qualità) adottato un po' da tutte le banche centrali per arginare il pericolo della deflazione ha inondato i mercati di liquidità ovvero di ottimo carburante per fiammate inflazionistiche. Il problema, a questo punto, non è se la banca centrale europea muoverà al rialzo i tassi ufficiali, ma più semplicemente quando lo farà e in quale misura.

Per dare una risposta a tale quesito occorre guardare a quanto sta accadendo nella principale economia della zona euro, quella tedesca. Dopo la brillante performance del 2010, la Germania appare in grado di sopportare senza eccessivi contraccolpi un rincaro del costo del denaro. Anzi rischia di essere il paese che lo provoca a causa delle pressioni salariali che si stanno manifestando in coda al mini-boom e che il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha appena scongiurato di frenare. Un modo indiretto per minacciare un intervento preventivo sui tassi.

Di chiaro in questo orizzonte malcerto c'è in ogni caso un punto: paesi come l'Italia, che hanno seri guai sia sul fronte del debito pubblico sia su quello di una lenta e faticosa ripresa della crescita, saranno costretti a misurarsi nei prossimi mesi con un costo più elevato del credito. Fosse anche solo di un quarto di punto cadrebbe come un macigno sull'ilare ottimismo sfoggiato dai governanti quanto a tenuta dei conti pubblici. Mentre, nel settore privato, renderebbe ancora più difficile la ripresa sia dei consumi sia degli investimenti. La realtà del mondo non fa sconti a chi - tanto governo quanto imprese - non ha saputo approfittare della prolungata fase di denaro a buon mercato. Un treno perso è perso.

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Titolo: Massimo RIVA. La resistenza di Geronzi
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2011, 04:45:48 pm
La resistenza di Geronzi

di Massimo Riva

(04 marzo 2011)

Hanno fatto un cattivo affare entrambi. Cesare Geronzi a volere la presidenza delle Generali e il colosso delle assicurazioni ad assecondarne l'ambizione. Non c'era bisogno di un indovino, infatti, per prevedere che l'ex-boss della Banca di Roma avrebbe cercato di usare la poltrona triestina per tessere le sue trame di potere sfruttando la ricca cassa della società, nonché il peso di alcune sue partecipazioni stravaganti come quelle in Telecom o nel Corriere della sera.

I lupi perdono il pelo ma non il vizio: figuriamoci se poteva cambiare usi e costumi un anziano boiardo abituato a muoversi con destrezza e disinvoltura sulla striscia di confine tra affari e politica.

Si può, quindi, anche comprendere l'irritazione che ha spinto un imprenditore come Leonardo Del Vecchio a lasciare il consiglio delle Generali -sarà magari un caso- dopo aver letto che il neo-presidente immaginava di usare i soldi della società allo scopo di finanziare, per esempio, il fantomatico Ponte di Messina. Meno se ne possono giustificare i toni di scandalizzata sorpresa: chi sia stato e chi sia l'ottimo Geronzi sta scritto in un lungo "curriculum vitae" che nessun azionista di rilievo del Leone di Trieste poteva ignorare.

La mancata opposizione alla resistibile ascesa di un simile presidente è stato un errore. Oggi nel porvi rimedio appare particolarmente impegnato Diego Della Valle, ma il muro di gomma dietro il quale cerca di ripararsi Geronzi sta facendo vivere alla società momenti di tensione che si stanno minacciosamente ripercuotendo, ben oltre i confini nazionali, sul giudizio degli analisti delle principali piazze finanziarie. Un dazio che gli azionisti, grandi o piccoli, del colosso triestino non meritavano di pagare e perciò anche un nodo che andrebbe sciolto al più presto.

Ma, se a Trieste si piange, non è che Geronzi abbia motivi per sorridere. La sua fama di astuto manovriere sta subendo, ogni giorno di più, colpi micidiali. All'uscita di Del Vecchio si stanno sommando i continui attacchi di Della Valle e ogni qual volta il presidente tenta di sdrammatizzare gli scontri in corso la situazione per lui diventa sempre meno dignitosa e sostenibile. Da ultimo, di fatto esautorato di ogni potere decisionale sulla sorte delle partecipazioni azionarie di maggiore rilievo, ha perfino cercato di mettere in difficoltà l'amministratore delegato, Giovanni Perissinotto, avanzando dubbi sulla gestione del grande patrimonio immobiliare del gruppo. Con l'esito infausto di ricevere a stretto giro di posta una replica fulminante: "Le performance dell'immobiliare sono ottime...io sono molto soddisfatto". Parole che non è difficile tradurre nei termini di un più sbrigativo "pensa ai fatti tuoi".

Sarà che l'allontanamento di un presidente dopo così poco tempo dal suo arrivo non rientra nel galateo del domestico capitalismo relazionale. Ma c'è anche da chiedersi che senso abbia trascinare in avanti una situazione di sempre più manifesta incompatibilità, dal cui protrarsi possono venire soltanto ulteriori danni per tutti. C'è soltanto una cosa utile che Cesare Geronzi, a questo punto, può fare per il bene di se stesso e delle Generali: ed è porre fine a una simile "mésalliance" ritirandosi in buon ordine. Sul piano personale ne ricaverebbe almeno il vantaggio di concludere la sua carriera meglio di come l'abbia condotta finora.

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Titolo: Massimo RIVA. Nucleare, la via francese
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2011, 10:16:13 pm

PIANI ENERGETICI

Nucleare, la via francese

Il premio Nobel Elias Canetti invitava a diffidare degli uomini che sanno tutto e che mostrano di crederci. Dopo il disastro di Fukushima, è del tutto naturale dubitare di quanti - esperti a vario titolo - proclamano ai quattro venti la sicurezza assoluta dell'energia nucleare e considerano la tragedia giapponese come un evento irripetibile in altri angoli della terra. Per costoro, le «conseguenze nucleari» sarebbero tollerabili e non varrebbero nemmeno una discussione.

Ma non è letteratura apocalittica interrogarsi sul senso di tutto o constatare come in ogni cittadino, a qualsiasi latitudine, le certezze scientifiche e la fiducia nel progresso abbiano subito una scossa sismica. È questa scossa, emotiva fin che si vuole, che ha aperto anche in Francia, uno dei Paesi di più collaudata tradizione nucleare, con ben 58 reattori, il dibattito sulla sicurezza, sul rapporto fra impianti e territorio (nonostante il basso rischio sismico) e sull'anzianità delle centrali. «Dobbiamo tirare le conseguenze degli avvenimenti giapponesi» hanno dichiarato i vertici di Areva ed Edf, i colossi dell'industria nucleare transalpina. In Germania, il governo di Angela Merkel ha deciso la chiusura degli impianti più vecchi e di rivedere gli standard di prolungamento della vita di altri.

Di sicurezza, di centrali obsolete e di necessità o meno di nuovi reattori si parla apertamente in Svizzera, in Austria, negli Stati Uniti. Su iniziativa tedesca, se ne discuterà in sede europea. Oltre a resuscitare l'angoscia di una nuova Chernobyl, le immagini di migliaia di esseri allontanati dalle loro case per il rischio contaminazione, e di tecnici con tuta e maschera che «testano» il rischio morte dei concittadini, hanno persino ridimensionato le paure del caro petrolio, gli scenari macroeconomici sulle conseguenze della rivoluzione nel mondo arabo e l'adesione culturale - insinuatasi anche fra gli ambientalisti - all'idea che la salvezza dell'ecosistema planetario (e del nostro modello di vita) dipenda dalle fonti nucleari, comunque preferibili alla morte per inquinamento.

Altra cosa è la disputa ideologica, che è speculare all'arroganza scientifica. Ecologisti e ampi settori di sinistra tornano ad agitare bandiere, come se il nucleare fosse una cosa di destra e magari l'eolico una soluzione di sinistra. Per inciso la polemica politica non è un'eccezione italiana. Lo stesso avviene in Germania e in Francia, peraltro in vista di scadenze elettorali.

Le spinte emotive e le polemiche non faranno chiudere le centrali nel mondo. È però importante che i responsabili ascoltino le emozioni. È necessario garantire la trasparenza dei processi industriali, l'indipendenza delle autorità di controllo, la certezza che anzianità e affidabilità degli impianti non siano una variabile economica o il capriccio di una lobby, oltre a un corretto rapporto fra costi industriali di costruzione delle centrali e benefici finali sulla bolletta.

Anche il fatto che il rischio zero non esista è un dato scientifico. Ma in Francia, ad esempio, si sottolinea come nessun grave incidente sia avvenuto in 1450 anni (dato ottenuto moltiplicando 58 reattori per 25 anni di funzionamento medio ciascuno). Chernobyl fu la somma di errori umani e cultura sovietica. Non occorre essere esperti per considerare che anche nell'eccezionalità della tragedia giapponese siano intervenute responsabilità umane. Il reattore di Fukushima doveva essere chiuso. Prima del sisma.

Massimo Nava

15 marzo 2011
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da - corriere.it/editoriali


Titolo: Massimo RIVA. Perché i francesi comprano tutto
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2011, 05:15:24 pm
Perché i francesi comprano tutto

di Massimo Riva

Dalla Bnl a Intesa, da Gucci a Bulgari, da Montepaschi a Parmalat.

I colossi d'Oltralpe sui stanno mangiando le aziende italiane.

E il capitalismo nostrano non reagisce
(18 marzo 2011)
Bernard Arnault Bernard ArnaultE' passato circa un quarto di secolo da quando la stampa francese, stupita e ammirata, celebrava in Agnelli, De Benedetti e Gardini i grandi capitani di ventura che stavano guidando l'Italia verso un nuovo Rinascimento economico. In realtà, da allora sembra trascorsa quasi un'era geologica. Se in quel tempo era la Francia a temere le incursioni dei condottieri italiani, oggi la situazione si è perfettamente rovesciata ed è proprio il nostro paese che, un colpo dopo l'altro, è diventato terra di conquista da parte dei capitali transalpini.

Lo dimostra il lungo catalogo delle operazioni, perfezionate o avviate da gruppi d'Oltralpe, che ha raggiunto dimensioni davvero impressionanti in una vasta quantità di campi. In quello bancario la presenza francese è massiccia e ben articolata: Bnp Paribas ha acquisito la Bnl, il Crèdit Agricole controlla Cariparma e Friuladria ed è socio rilevante in Intesa, le assicurazioni Axa hanno una partnership in Monte dei Paschi. In uno dei settori trainanti del "made in Italy", quello della moda e del lusso, il bottino dei cugini transalpini è non meno notevole: il gruppo di François Pinault si è impossessato di marchi storici come Gucci e Bottega Veneta, mentre Lvmh di Bernard Arnault, dopo essersi impadronito di Fendi, ha appena rilevato Bulgari.

Altre importanti operazioni sono state tentate in queste settimane. Le difficoltà finanziarie del gruppo Ligresti, infatti, hanno stimolato l'interesse del gigante Groupama a intervenire in Premafin con l'obiettivo di puntare alla controllata Fondiaria-Sai. L'obbligo di lanciare una costosa Opa, imposto giustamente dalla Consob, ha fatto saltare l'affare: ma non è improbabile che i francesi, magari per altre vie, cercheranno ancora di allungare le mani su questa o altra fetta del mercato.

In campo energetico è aperta la questione del riassetto azionario di Edison dove il colosso pubblico Edf non nasconde la sua voglia di accrescere il controllo della società a scapito delle aziende municipalizzate di Brescia e Milano. Per frenare gli appetiti francesi si è mosso addirittura il ministro Giulio Tremonti, ma è arduo che un intervento politico possa bilanciare alla lunga la supremazia finanziaria e tecnologica dei francesi. Anche perché, se il programma nucleare dell'attuale governo proseguirà al di là dei contraccolpi giapponesi, sarà necessario per l'Italia avvalersi della consolidata esperienza transalpina in materia.

A completamento minimo di questo elenco vanno poi ricordate le rilevanti presenze francesi, nel nome di Vincent Bollorè, in due snodi cruciali del potere economico domestico: le Generali e Mediobanca. Mentre sullo sfondo restano più che mai appesi gli interrogativi sulla sorte definitiva di Alitalia. Immaginare che i sedicenti capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno siano in grado di sottrarsi all'abbraccio finale da parte di Air France può essere considerato, appunto, un puro esercizio di fantasia.

Sarà, quindi, che in Italia le cose stanno andando meglio che negli altri paesi europei, come il duo Berlusconi-Tremonti gorgheggia garrulo ogni giorno, ma il quadro appena tracciato racconta una realtà drammaticamente diversa. Le trombe degli eredi di Carlo VIII stanno ormai facendo sentire il loro suono in tutta la penisola, mentre non si odono campane domestiche in grado di rispondere.

   
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Titolo: Massimo RIVA. Basta bugie, la Fiat se ne va
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:18:03 pm
Basta bugie, la Fiat se ne va

di Massimo Riva

Inutile stare tanto a chiedersi se il quartier generale sarà a Torino o a Detroit: basta vedere le ultime mosse di Marchionne per capire che il trasloco negli Usa è già deciso. Anche se i sindacati fingono di non capirlo

(31 marzo 2011)

Sergio Marchionne è un tipo piuttosto riservato, soprattutto per quanto riguarda le scelte sul futuro della Fiat. Poco o nulla finora ha fatto sapere del tanto declamato piano Fabbrica Italia, del quale si continua a sbandierare che comporterà 20 miliardi di investimenti, ma senza che alcunché trapeli sul come, dove e quando. In parallelo un altro mistero aleggia quanto alla sede definitiva del quartier generale del gruppo una volta che siano state celebrate le nozze tra Fiat e Chrysler: a Torino o a Detroit?

Nessuno in Italia aveva sentito l'urgenza di porsi tale dilemma se non fossero stati gli stessi vertici Fiat a mettere in piazza la questione con dichiarazioni che sono apparse subito come frutto di un ben calcolato tentativo di saggiare le reazioni del mondo sindacale e politico. Dopo una lunga serie di giravolte sul tema, da ultimo sempre Marchionne ha detto che la scelta finale sarà presa "con il cuore e con la mente". Frase ad effetto, ma non poi così criptica da impedire di comprendere dove si stia andando a parare.

Soltanto i vari Angeletti, Bonanni e Sacconi - e tutti coloro che finora hanno fatto da sponda a Marchionne - possono insistere nel fare finta di non capire ciò che ormai è chiaro: il gruppo Fiat-Chrysler potrà anche avere una direzione europea a Torino, ma la testa industriale e finanziaria si stabilirà negli Usa. Così coronando, per quanto riguarda la famiglia Agnelli, l'ultimo sogno inseguito dall'Avvocato attraverso l'intesa poi saltata con General Motors.

Che questo sia l'obiettivo vero di Marchionne si può anche ricavare dal poco o nulla che l'attuale boss di Fiat sta realizzando sui mercati italiano ed europeo. Le ultime cifre sulle immatricolazioni del mese di febbraio parlano da sole: la Fiat perde quote di mercato sia in patria sia nel continente. In Italia le sue vendite sono crollate del 20 per cento in un anno, mentre in Europa la caduta è stata del 16,7. A Torino hanno commentato questi pessimi risultati attribuendoli alla fine della stagione degli incentivi che aveva drogato il mercato in passato.

Giustificazione poco convincente alla luce di alcune contraddizioni. Prima: degli incentivi avevano beneficiato anche i concorrenti, che però meglio hanno resistito alla loro scomparsa. Seconda: nello scorso febbraio il mercato europeo dell'auto è comunque cresciuto dell'1,4 per cento: tedeschi e francesi se ne sono avvantaggiati; perché non la Fiat? Terza contraddizione: in questi mesi dal gruppo torinese è uscito un solo nuovo modello (la Giulietta dell'Alfa Romeo) e guarda caso questo è anche l'unico che ha avuto un segno più nella classifica delle vendite. La morale è semplice: gli altri produttori europei hanno continuato a innovare la loro gamma di modelli, mentre la Fiat è rimasta ferma al palo. Per cui anche una parte della vecchia clientela di Torino è andata a soddisfarsi altrove.

Nella seconda metà dell'anno Marchionne metterà finalmente sul mercato nuove vetture, per lo più di derivazione Chrysler. Ciò consentirà qualche recupero di posizione, ma le opportunità di fatturato perdute tali resteranno. Se è coi ricavi delle vendite che Marchionne intende finanziare quella Fabbrica Italia che dovrebbe raddoppiare la produzione domestica da 6-700 mila a 1.400 mila vetture, ce n'è abbastanza per non prendere sul serio le sue promesse.

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Titolo: Massimo RIVA. Se lo yogurt è strategico
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2011, 12:24:16 pm
Se lo yogurt è strategico

di Massimo Riva

Il ministro Tremonti, a proposito del caso Parmalat, ha temerariamente detto: 'All'Italia manca una nuova Iri sul versante pubblico e Mediobanca sul quello privato'

(08 aprile 2011)

Potenza dello yogurt! Sull'onda del caso Parmalat e dell'assalto francese all'azienda di Collecchio, ecco finalmente il ministro dell'Economia svelare quali siano i capisaldi di politica industriale del governo Berlusconi. All'Italia di oggi - ha detto Giulio Tremonti guardando temerariamente all'indietro - mancano una nuova Iri sul versante pubblico e la Mediobanca d'un tempo sul privato. Detto e fatto: per la parte che gli compete il ministro ha già provveduto caricando sulla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) il compito di rinverdire gli antichi allori dell'Istituto di Via Veneto.

Oltre alle partecipazioni azionarie già possedute, prevalentemente nel settore energetico (Terna ed Eni), la Cassa guidata da Giovanni Gorno Tempini d'ora in poi potrà entrare direttamente nel capitale di aziende industriali purché queste - a giudizio del governo - siano considerate "di rilevante interesse nazionale". Visto che su Parmalat il braccio di ferro è con i francesi di Lactalis, Tremonti cerca così di rispondere ai cugini d'Oltralpe prendendo a modello della sua iniziativa il similare Fond Stratégique d'Investissement creato nel 2008 dal governo di Parigi (la moneta cattiva scaccia sempre quella buona). Ma con una differenza non da poco.

I francesi, che pure sono campioni d'abuso nel protezionismo economico, non si sono mai sognati di considerare strategiche imprese operanti nel settore agro-alimentare. Magari ne hanno difeso la nazionalità (caso Danone) con altri mezzi, ma mai spingendosi a definire la filiera lattiero-casearia come fondamentale per l'interesse dello Stato. L'idea di Tremonti, a quanto pare, è invece che il nuovo Iri da lui proposto possa muovere i suoi primi passi magari a partire proprio dalla raccolta del latte e dalla produzione dello yogurt. Particolare che getta un'obliqua luce grottesca sull'iniziativa del governo italiano. Che il ministro dell'Economia evochi il modello dell'Iri non ha in sé alcunché di scandaloso. Chi conosca la storia economica del Novecento sa che quell'istituto non è stato soltanto un carrozzone sul quale governi e partiti politici scaricavano le loro più nefaste ambizioni. Un esempio su tutti: senza l'apporto dell'acciaio di Stato - settore disertato allora dai privati - il miracolo italiano degli anni Cinquanta non sarebbe mai avvenuto.

Ma un conto è immaginare una politica industriale fondata sulla siderurgia, tutt'altro pensare di realizzarne un'altra oggi a partire dalla raccolta del latte. Che attraverso la difesa dello yogurt nazionale si possa mettere in moto un volano per spingere il rilancio dell'intero sistema economico è semplicemente una scemenza. Sufficiente da sola a smascherare la pochezza e la pericolosità del nuovo Iri tremontiano, che del vecchio modello sembra voler imitare il vizio peggiore, ovvero l'arbitrarietà occasionale degli interventi pubblici.

E non basta. Al contrario di mezzo secolo fa, oggi le imprese italiane operano nel contesto di un'economia apertissima in Europa, oltre che fortemente concorrenziale con il resto del mondo. In questo scenario l'apporto di investimenti esteri è da considerare vitale anche per compensare la latitanza di impieghi domestici. Praticare anche in questa materia il rozzo "foeura di ball" bossiano è allarmante segno di inadeguatezza culturale oltre che politica.

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Titolo: Massimo RIVA. Oracoli e speculatori
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 05:30:49 pm
Oracoli e speculatori

di Massimo Riva

Ancora una volta sui mercati si è lavorato e si sta operando con i paraocchi nell'illusione che dalla crisi si possa uscire magari facendo finta di non vedere la gravità di alcune insidie di fondo

(22 aprile 2011)

Ma che cosa è più allarmante? Il volume crescente del debito federale degli Stati Uniti o la pesante reazione dei mercati all'annuncio che Standard & Poor's vede nero sulle prospettive della strategia finanziaria americana? A ben vedere, infatti, gli analisti di S&P hanno scoperto l'acqua calda, perché in fondo si sono limitati a sottolineare cifre, fatti ed elementi di giudizio che stanno sotto gli occhi di tutti da parecchio tempo.

E' dalla fine della presidenza Clinton che il debito Usa ha ripreso la corsa. Dapprima per le spese delle avventure militari di George W. Bush e poi, con una violenta accelerazione, a causa dei massicci interventi che la presidenza Obama (attraverso il segretario al Tesoro, Timothy Geithner) ha dovuto effettuare per salvare banche, industrie e società coinvolte nella crisi dei mutui immobiliari. Tanto che ora la montagna debitoria ha superato i 14 mila miliardi di dollari (10 mila in euro) arrivando in pratica a eguagliare il prodotto interno lordo. Tutti coloro che operano quotidianamente sui mercati del mondo intero - debbo ritenere - conoscevano e conoscono lo stato dell'arte in materia senza bisogno degli oracoli di qualche società di rating.

Si fa fatica a credere che possano avere accolto con sorpresa il giudizio di S&P.

Si dice che stavolta ciò che ha suscitato timori e tremori nelle Borse è, piuttosto, la previsione negativa sulle prospettive di gestione del debito Usa. Nel senso che, in effetti, a Washington si è creata una situazione politica assai malcerta a causa dei contrasti fra la Casa Bianca e la maggioranza repubblicana nella Camera dei Rappresentanti.

Pochi giorni fa si è addirittura sfiorato l'abisso del blocco dell'amministrazione per mancanza di consenso sull'approvazione del bilancio federale. E lo scontro tuttora continua tra un presidente che non vuole rinunciare a una politica fiscale accomodante con i più deboli e una porzione di Congresso controllata dai repubblicani, decisi a tutto pur di creargli difficoltà in vista della campagna presidenziale del prossimo anno.

Tutto vero, tutto giusto. Ma anche tutto stranoto, perché le cronache politiche e finanziarie dalla capitale Usa danno conto degli sviluppi di questo braccio di ferro quotidianamente e almeno da quando il nuovo Congresso si è insediato nel gennaio scorso. Chi maneggia montagne di capitali sui mercati del mondo intero non aveva certo bisogno degli avvisi di S&P per fare questa scoperta dell'America e dei suoi guai. Tanto più perché il recente tsunami finanzario si è portato via non solo una gran quantità di supposte ricchezze ma anche la credibilità delle agenzie di rating, insegnando al mondo intero che è meglio ragionare con la propria testa che affidarsi ai responsi di divinità compromesse e squalificate.

Ma perché allora queste improvvise e tremebonde reazioni un po' dappertutto e anche più in Europa che negli stessi Stati Uniti? Ancora una volta, evidentemente, sui mercati si è lavorato e si sta operando con i paraocchi nell'illusione che dalla crisi si possa uscire magari facendo finta di non vedere la gravità di alcune insidie di fondo. E questo è forse l'aspetto più inquietante di quanto sta accadendo, perché denuncia che l'antico vizio della manipolazione della realtà resta il sale dei mercati. Né più né meno che ai tempi della speculazione sui bulbi di tulipano olandese.© Riproduzione riservata

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Titolo: Massimo RIVA. Emma è sola, i precari di più
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 05:53:34 pm
Emma è sola, i precari di più

di Massimo Riva

La Marcegaglia si lamenta perché il governo non si fila gli industriali.

Vero, ma la politica si disinteressa di fasce sociale ben più deboli: i disoccupati, i 'flessibili', i pensionati, perfino i piccoli azionisti

(15 aprile 2011)

Mai come oggi gli imprenditori italiani si sentono soli.
Sono parole pesanti quelle pronunciate da Emma Marcegaglia perché segnano una rottura con il governo in carica così esplicita da non avere riscontri nella lunga storia dei rapporti fra Confindustria e potere politico. C'è chi, magari con malizia, le ha giudicate come un tappeto rosso steso ai piedi del suo predecessore, Luca di Montezemolo, per quell'ingresso nell'agone elettorale di cui si parla da tempo. E il fatto che questi si sia prontamente allineato all'inattesa sortita può avvalorare questa interpretazione.

Chi voglia, però, guardare non il dito ma la luna indicata dalla Marcegaglia deve prendere atto che quelle sue parole portano alla luce del giorno soprattutto un profondo malessere, diffuso nel sistema industriale di fronte a un governo capace soltanto di produrre montagne di annunci da cui non escono nemmeno topolini. Malessere, tuttavia, che non lascia il mondo confindustriale così solo come dice la sua presidente.

A ben guardare l'Italia d'oggi, infatti, tanti sono coloro che, in materia d'abbandono, possono fare ampia e folta compagnia a Marcegaglia e soci. Primi fra tutti, in termini del resto speculari, quei milioni di disoccupati o di cassintegrati la cui solitudine quotidiana è socialmente e umanamente ancora più dura da vivere di quella degli imprenditori. Se questi ultimi si sentono frustrati dall'assenza di un qualunque sostegno di politica industriale alle loro iniziative, figuriamoci quale può essere lo stato d'animo di coloro che vedono appesa la propria sopravvivenza a decisioni o a non scelte che maturano a loro insaputa in sedi lontane e secondo criteri sovente occasionali.

Altri e più specifici portatori di una solitudine disperata sono poi quei tre/quattro milioni di lavoratori cosiddetti precari cui la legge e la congiuntura negano ogni progetto di vita stabile, facendo balenare (ai più fortunati) la prospettiva finale di una pensione da autentica miseria. E che dire poi, a proposito di pensioni, di quell'altro blocco di italiani anziani che si vede costretto a campare con trattamenti mensili da 400 o 500 euro senza che nessuno si curi di reintegrarne neppure il potere d'acquisto, eroso da un'inflazione più feroce proprio sui beni di prima necessità? Anche costoro sono soli, anzi solissimi perché ormai estranei a qualunque circuito produttivo.

Lungo, troppo lungo sarebbe l'elenco degli italiani che possono contestare agli uomini di Confindustria il primato della solitudine e dell'abbandono. Ce ne sono perfino tra coloro che pure qualche risparmio da parte lo tengono come l'esercito dei piccoli azionisti.
Non solo da finanzieri di poco scrupolo, ma anche dal governo i risparmi di costoro sono trattati come carne da cannone da usare in guerre di potere che talvolta - con l'assenso di Autorità come la Consob - si ha l'improntitudine di nascondere dietro il tricolore del superiore interesse nazionale. Come accaduto già con Alitalia e oggi si vuol replicare con i casi Ligresti e Parmalat.

Se davvero Confindustria vuole spezzare il cerchio della solitudine dentro cui si sente oppressa, se davvero Luca di Montezemolo vuole farsi alfiere di una riscossa politica dell'Italia abbandonata a se stessa, si ricordino l'una e l'altro che c'è un paese in forte sofferenza anche oltre i cancelli delle imprese.

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Titolo: Massimo RIVA. - Popolari a tutta lobby
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2011, 11:08:16 am
Opinioni

Popolari a tutta lobby

di Massimo Riva

Spezzare la struttura di privilegi espliciti e di comparaggi clandestini è il passaggio necessario per dare una prospettiva vitale al credito "popolare".

Ma nessuno sembra disposto a farlo

(29 aprile 2011)

Due vicende, entrambe clamorose, hanno riacceso i riflettori su un settore del credito da tempo al centro di ipotesi di riforma rimaste perlopiù sulla carta: quello delle banche popolari.

La prima riguarda la Popolare dell'Emilia e Romagna (Bper) la cui assemblea è degenerata in un vero e proprio tumulto acceso dagli esponenti di un gruppo di minoranza che si è visto preclusa ogni rappresentanza nel Consiglio di amministrazione.

La seconda chiama in causa la Popolare di Milano (Bpm) dove il Consiglio ha bocciato una proposta di aumento di capitale da 600 milioni col bel risultato di farsene imporre addirittura uno da 1.200 da parte di una Banca d'Italia preoccupata di ristabilire un equilibrio sostenibile nei conti dell'istituto.

Il credito cooperativo, nel cui ambito rientra l'esperienza secolare di molte banche popolari, ha meriti storici indubbi per aver svolto un ruolo importante nel finanziare lo sviluppo delle economie locali in mercati sovente trascurati dalle maggiori imprese del settore. Tutto ciò è stato reso possibile anche dalle particolarissime norme che hanno governato il settore: a cominciare dalla regola del voto capitario (ciascun azionista vale per uno indipendentemente dalla quantità di titoli posseduti) che ha messo al riparo questi istituti da scalate o attacchi speculativi.

Questo e altri privilegi, col passare del tempo, hanno però fossilizzato molte aree del sistema, reso opaco il mercato delle azioni, indotto comportamenti autoreferenziali e infine favorito degenerazioni che ora rischiano di diventare un ostacolo al perseguimento dei buoni fini originari.

Nel caso della Bper, per esempio, non si sarebbe arrivati alle risse assembleari se fossero state già messe in campo regole più equilibrate sulla rappresentanza delle minoranze nei Consigli d'amministrazione. Quanto all'aumento di capitale della Bpm, la vicenda porta in piena luce il fenomeno forse più insidioso che minaccia la vita delle banche popolari: la posizione dominante assunta dai dipendenti-azionisti nella nomina degli amministratori oltre che nelle scelte di gestione dell'istituto.

Purtroppo si ha ragione di dubitare che la scossa della Banca d'Italia possa sciogliere questi nodi. Certo, la Bpm sarà costretta a eseguire l'aumento di capitale imposto dall'organo di vigilanza dopo il rifiuto espresso dalla coalizione dei dipendenti-azionisti e questo è un bene perché servirà a rendere più solido il bilancio dell'istituto. Ma non è la severità di Via Nazionale che potrà rimuovere i principali vizi nei quali si sta avvitando il sistema delle popolari.

Questa è opera che spetta al legislatore ovvero al potere politico. Ma l'esperienza insegna che in Parlamento si sono accumulati corposi faldoni di proposte senza che si sia mai arrivati a qualche riforma organica. Il lavoro di "lobbying" affinché tutto continui come prima è stata finora l'attività di maggiore successo svolta dai gattopardi delle banche popolari che, pur di restare in sella, non hanno esitato a stringere obliqui compromessi sia con la politica sia con il mondo sindacale.

Spezzare questa struttura di privilegi espliciti e di comparaggi clandestini è il passaggio necessario per dare una prospettiva vitale al credito "popolare". Ma non si intravede, né all'interno né all'esterno del sistema cooperativo, chi voglia prendere il toro per le corna.

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Titolo: Massimo RIVA. Il poker di Marchionne
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 10:28:09 pm
L'opinione

Il poker di Marchionne

di Massimo Riva

(13 maggio 2011)

Il voto delle maestranze della ex-Bertone ha registrato una netta spaccatura fra la base e il vertice del sindacato Fiom-Cgil.
Contro la posizione di quest'ultimo, che insiste nel considerare inaccettabili le proposte contrattuali della Fiat, i lavoratori hanno deciso di approvarle a larghissima maggioranza seppure spiegando questa scelta come un atto di "legittima difesa". L'esito di questo referendum ha fatto parecchio rumore soprattutto perché - a differenza dei casi precedenti di Pomigliano e Mirafiori - le officine ex-Bertone erano considerate una roccaforte dell'ala più intransigente dei metalmeccanici Cgil.

Vuoi vedere - si sono chiesti in molti - che la linea dura impostata da Sergio Marchionne sta rompendo e piegando il sindacalismo più barricadiero? Sarà, ma una lettura meno superficiale della vicenda può portare a conclusioni diverse. Forte è il dubbio, per esempio, che la pur plateale rottura fra vertice e base della Fiom nasconda un abile gioco delle parti. E' vero, infatti, che negli stabilimenti di Grugliasco la maggioranza di aderenti alla Fiom poteva far presumere un secco no al "prendere o lasciare" della Fiat. Ma è altrettanto vero che in questo modo i metalmeccanici della Cgil si sarebbero assunti la responsabilità di far saltare l'investimento con conseguente chiusura definitiva degli impianti.

Una volta perse le battaglie prima di Pomigliano e poi di Mirafiori, alla Fiom devono aver capito che ormai il manico del coltello stava nelle mani di Marchionne. Quindi che un "no" avrebbe soltanto accentuato il loro isolamento rispetto al mondo sindacale complessivo. Di qui la scelta di distribuirsi le parti in commedia. Da un lato, il vertice che insiste nelle questioni di principio contro le nuove regole imposte dalla Fiat. Dall'altro lato, i lavoratori della ex-Bertone che accettano di piegarsi per risparmiare a se stessi e a tutti gli altri la tragedia della morte dell'azienda.

E ciò al fine, non detto ma trasparente, di spostare l'onere del ricatto dalle proprie alle altrui spalle. In particolare, quelle dello stesso Marchionne. C'è qualcosa di parecchio aleatorio, infatti, nei piani che il vertice Fiat dice di avere progettato per gli impianti di Grugliasco. L'idea è quella di farvi costruire a regime 50 mila vetture di gran lusso sotto lo storico marchio Maserati: circa otto volte più di quelle prodotte l'anno scorso. Obiettivo che è eufemistico definire ambizioso alla luce della forte competizione in atto su questo segmento del mercato automobilistico da parte soprattutto dell'agguerrita concorrenza tedesca coi brand Porsche, Mercedes, Audi e Bmw.

Insomma, la partita a poker nascosta dietro il referendum alla ex-Bertone avrà anche creato qualche problema in casa Fiom, ma rischia ora di provocarne molti di più a Sergio Marchionne. Il quale, a questo punto, si trova costretto a mettere le carte in tavola ovvero a partire con i primi 550 milioni di investimenti e poi a tener fede ai piani promessi. Naturalmente, nessuno dubita che si possa arrivare a produrre 50 mila Maserati all'anno, ma tra metterle in fila sui piazzali e trovare 50 mila compratori ci corre una differenza essenziale. Ecco perché in questa vicenda, a prima vista, è facile annoverare il vertice Fiom fra gli sconfitti. Ma, a ben vedere, resta assai difficile considerare quello della Fiat tra i vincitori.


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Titolo: Massimo RIVA. Quel no alle Opa ostili
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 10:20:55 am
L'opinione

Quel no alle Opa ostili

di Massimo Riva

(20 maggio 2011)

Di certo non era nelle sue intenzioni, ma il primo rapporto pubblico che Giuseppe Vegas ha fatto in qualità di presidente della Consob ha avuto almeno il pregio di dare senso compiuto alla contestata scultura col dito medio alzato posta al centro di Piazza degli Affari. Infatti, con il suo discorso, proprio questo in buona sostanza è il gesto che il nuovo capo della vigilanza borsistica ha indirizzato alla grande platea del risparmio piccolo e medio ovvero a tutti coloro che vorrebbero una Borsa emancipata dal ruolo di riserva di caccia per una ristretta cupola di privilegiati.

Di fronte a un sistema ingessato da ogni genere di abuso di potere attraverso patti di sindacato, piramidi societarie, intrecci di poltrone e artifizi vari, l'ottimo Vegas si è voltato dall'altra parte e ha preso di petto le Offerte pubbliche d'acquisto ostili ai gruppi dominanti nelle varie società delineando una sua allarmante visione del capitalismo nostrano. Una Borsa resa asfittica dal blocco artificioso del mercato delle quote proprietarie? Al contrario: l'idea di Vegas è che l'attuale legislazione italiana in materia sia fin troppo sbilanciata a favore della contendibilità delle imprese e che perciò si debba "immediatamente" ampliare le possibilità di difesa delle aziende quotate che si trovino sotto attacco esterno. In sostanza, par di capire che presto la Consob si muoverà per consentire alle società di trasformarsi in fortilizi dai quali versare olio bollente per via statutaria contro gli eventuali assedianti. Fuor di metafora, un risoluto passo all'indietro verso l'economia curtense con nuovi benefici a favore dei grandi feudatari.

L'aspetto più sconcertante di questa trovata è che essa viene spiegata come una sorta di contravveleno rispetto alle attuali degenerazioni del nostro capitalismo relazionale. Se si vuole che sia disboscata la selva dei patti di sindacato e marchingegni consimili occorre - questo l'alibi capzioso - offrire un'alternativa di difesa almeno per via statutaria. Argomento che non peccherebbe di realismo pragmatico se non fosse che esso suona sonoramente ingannevole sulla bocca di un presidente della Consob che non ha speso una sola parola per proporre in parallelo alle nuove armi anti-Opa almeno riforme che puntino a togliere di mezzo tutte le impalcature abusive che tengono in piedi la malcerta costruzione del capitalismo domestico. Quel che conta per Vegas evidentemente è lasciare tutto come sta per non recare il minimo disturbo agli attuali manovratori del listino. Sarà bene che di questo i risparmiatori prendano nota per il futuro.

Ma una tale miope difesa dell'esistente comporta seri rischi anche per lo sviluppo dell'economia in generale. Un noto apologo di Galbraith dice che il bello del capitalismo è che ogni tanto vi accade qualcosa per cui il denaro viene separato dai cretini. Spesso questo monito viene inteso soltanto come censura alla leggerezza con la quale molti sprovveduti affidano i loro soldi a degli imbroglioni. In realtà, il giudizio dell'economista americano riguarda anche coloro che si rivelano incapaci di gestire una banca, un'industria o una qualunque impresa. E le Opa ostili sono di regola uno strumento con il quale si fa pulizia degli inetti sul mercato. Non fa un grande effetto un presidente della Consob che corre in soccorso di questo genere di cretini.


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Titolo: Massimo RIVA. - Tremonti, che spudorato
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 11:38:18 am
Tremonti, che spudorato

di Massimo Riva

Per anni ha retto il moccolo alle promesse demagogiche di Berlusconi sulle tasse.

Adesso sembra diventato un fan del rigore e dell'austerità dei conti. Per fare le scarpe al premier? Forse.
In ogni caso, è una manipolazione mediatica

(14 gennaio 2011)

Ha ricominciato la sua esperienza di ministro dell'Economia nel 2008 reggendo il sacco all'attuazione delle più demagogiche promesse elettorali di Silvio Berlusconi. E così Giulio Tremonti ha esordito nel ritrovato incarico regalando anche ai più abbienti un'esenzione dall'Ici sulla prima casa che ha sottratto all'Erario - e segnatamente alle casse dei Comuni - qualcosa come circa 3 miliardi di euro.
Poi, in rapida sequenza, ha abrogato le regole sulla trasparenza o tracciabilità dei pagamenti, che Vincenzo Visco aveva introdotto per rendere la vita difficile agli evasori più incalliti.

Ora, da qualche tempo, lo stesso Tremonti non ha perso il vizio di manifestare le sue opinioni con apodittica saccenteria, ma sembra diventato un'altra persona. Il registro delle sue parole ha avuto una svolta a 180 gradi e il ministro ama diffondere di sé l'immagine del custode rigoroso e inflessibile dei saldi di bilancio. Al punto che per rifarsi una verginità in materia è tornato sui suoi passi reintroducendo financo alcune norme anti-evasione volute dal suo inviso predecessore. Né perde occasione per smarcarsi dall'ottimismo di maniera del presidente del Consiglio, proclamando che l'orizzonte resta cupo perché la crisi è tutt'altro che finita.

Come valutare questa subitanea metamorfosi? Come un sincero e operoso ravvedimento? Non pochi accreditano questa idea, che trova ascolto anche fra esponenti dell'opposizione. Tanto che c'è chi vagheggia l'ipotesi di una sostituzione di Berlusconi con Tremonti a Palazzo Chigi dopo le eventuali elezioni anticipate o addirittura prima per scongiurare uno scioglimento prematuro delle Camere.
Del resto lo stesso Cavaliere fa fatica a nascondere la sua insofferenza verso il proprio ministro dell'Economia considerandolo ormai un rivale furtivamente impegnato con l'appoggio leghista a fargli le scarpe.

Ma proprio questa presunta ambizione verso Palazzo Chigi dovrebbe far riflettere meglio sui requisiti della patente di rigorista che tanti, un po' troppo disinvoltamente, sembrano riconoscere a Tremonti. E' vero che da ultimo egli mostra di voler resistere all'accattonaggio molesto di molti suoi colleghi. Ma è non meno vero che i suoi tagli banalmente "lineari" alla spesa pubblica non solo non hanno evitato la corsa della medesima in rapporto al Prodotto interno lordo, ma ne hanno anche aggravato le distorsioni distributive rinunciando a disegnare - magari anche dal lato delle entrate - una politica di bilancio degna di chi oggi vorrebbe farsi passare per un nuovo Quintino Sella.

La tardiva austerità tremontiana, poi, non cancella che, nei trenta mesi della sua gestione, l'ottimo Giulio è riuscito nella brillante impresa di far ricrescere la montagna del debito pubblico di oltre 200 miliardi. E ciò pur avendo avuto la fortuna di non dover impegnare grandi risorse per scongiurare fallimenti bancari come, viceversa, è toccato di fare ad altri suoi colleghi, non solo europei.
Fondati o no che siano i dubbi sulle mire presidenziali di Tremonti, l'abito rigorista con cui oggi si presenta appare nulla più che il frutto di una scaltra ma anche un po' spudorata manipolazione mediatica.


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Titolo: Massimo RIVA. - Il programma di Draghi
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:46:28 pm
Il programma di Draghi

di Massimo Riva

La nomina del successore è ora il primo banco di prova sul quale il potere politico sarà chiamato a misurarsi con le sfide lanciate da Via Nazionale

(03 giugno 2011)

L'inattesa morale dell'ultima relazione di Mario Draghi è che il suo prossimo trasloco da Roma a Francoforte è forse più una perdita che un guadagno per il nostro paese. Certo, sul piano del prestigio internazionale, resta un grande risultato che la presidenza della Bce sia assegnata a un italiano. Ma le Considerazioni finali di quest'anno hanno assunto più che mai il tono e i contenuti di un vero e proprio programma di governo.

In una situazione di stallo politico così confuso e paralizzante, come quello che opprime oggi l'Italia, il pensiero torna perciò invincibile a quella stagione non meno drammatica dei primi anni Novanta quando un altro governatore di Bankitalia si caricò dell'onere di raddrizzare una finanza pubblica allo sbando per riportare il paese all'onore del mondo. Un rimpianto cui la presenza fisica di Carlo Azeglio Ciampi al discorso di Mario Draghi ha conferito addirittura plastica e concreta rappresentazione.

Insomma, magari proprio perché in partenza e perciò liberato dal sospetto di essere un concorrente per Palazzo Chigi, stavolta il governatore ha potuto manifestare a fondo e nei dettagli non solo quale dovrebbe essere la cura migliore per far uscire l'Italia dai suoi guai ma anche rendere palese ed esplicito il suo dissenso dalle politiche del governo in carica. In particolare, sotto accusa è finito il metodo applicato dal sedicente rigorista Tremonti al controllo della finanza pubblica.

Su questo punto Draghi non ha usato mezze parole, bocciando senza appello la tecnica dei tagli uniformi e lineari giudicata una strategia negativa e controproducente soprattutto per i suoi effetti depressivi sulla crescita. A questa politica della non scelta fra spese buone e cattive egli ha opposto l'esigenza di operare sul bilancio voce per voce, secondo una valutazione razionale e differenziata delle conseguenze sul sistema economico e sociale. Come stava facendo - ha sottolineato in malcelata polemica con Giulio Tremonti - il precedente ministro, Tommaso Padoa Schioppa, altro uomo della fucina di Via Nazionale.
Né meno pungenti sono stati i rilievi di Draghi sulle tante riforme promesse dal governo Berlusconi e poi malfatte o rimaste lettera morta. In rapida e martellante sequenza il governatore ha elencato le gravi inefficienze nei campi della giustizia civile, dell'istruzione, dei servizi pubblici, delle opere infrastrutturali, del mercato del lavoro: denunciando - con buona pace del ministro Sacconi - gli eccessi di incentivazione a contratti di impiego precario con esiti di profonda ingiustizia sociale.

In tanto eccellente requisitoria programmatica sono in parte mancati toni più severi su alcuni cattivi vezzi del sistema creditizio domestico. In un paese che ha tanta sete di investimenti produttivi non fa un bel vedere, per esempio, che una grande banca come Unicredit impegni così tanti soldi nell'affare Ligresti più al fine di salvare un gruppo di controllo che un'impresa. Anche questo è un terreno sul quale "occorre sconfiggere gli intrecci degli interessi corporativi", come ha detto appunto Draghi. Compito che spetta, tuttavia, a chi governa il paese assai più che a chi vigila da Bankitalia.

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Titolo: Massimo RIVA. - Caro Draghi, ti rimpiangeremo
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2011, 06:29:42 pm
Caro Draghi, ti rimpiangeremo

di Massimo Riva

Il governatore uscente non solo ha lavorato bene, ma ha anche avuto il coraggio di martellare su tutte le false promesse di Berlusconi. Puntando il dito anche sulla precarizzazione selvaggia voluta da Sacconi. E ora, incrociamo le dita sul successore...

(03 giugno 2011)

L'inattesa morale dell'ultima relazione di Mario Draghi è che il suo prossimo trasloco da Roma a Francoforte è forse più una perdita che un guadagno per il nostro paese. Certo, sul piano del prestigio internazionale, resta un grande risultato che la presidenza della Bce sia assegnata a un italiano. Ma le Considerazioni finali di quest'anno hanno assunto più che mai il tono e i contenuti di un vero e proprio programma di governo.
In una situazione di stallo politico così confuso e paralizzante, come quello che opprime oggi l'Italia, il pensiero torna perciò invincibile a quella stagione non meno drammatica dei primi anni Novanta quando un altro governatore di Bankitalia si caricò dell'onere di raddrizzare una finanza pubblica allo sbando per riportare il paese all'onore del mondo. Un rimpianto cui la presenza fisica di Carlo Azeglio Ciampi al discorso di Mario Draghi ha conferito addirittura plastica e concreta rappresentazione.

Insomma, magari proprio perché in partenza e perciò liberato dal sospetto di essere un concorrente per Palazzo Chigi, stavolta il governatore ha potuto manifestare a fondo e nei dettagli non solo quale dovrebbe essere la cura migliore per far uscire l'Italia dai suoi guai ma anche rendere palese ed esplicito il suo dissenso dalle politiche del governo in carica. In particolare, sotto accusa è finito il metodo applicato dal sedicente rigorista Tremonti al controllo della finanza pubblica.

Su questo punto Draghi non ha usato mezze parole, bocciando senza appello la tecnica dei tagli uniformi e lineari giudicata una strategia negativa e controproducente soprattutto per i suoi effetti depressivi sulla crescita. A questa politica della non scelta fra spese buone e cattive egli ha opposto l'esigenza di operare sul bilancio voce per voce, secondo una valutazione razionale e differenziata delle conseguenze sul sistema economico e sociale. Come stava facendo - ha sottolineato in malcelata polemica con Giulio Tremonti - il precedente ministro, Tommaso Padoa Schioppa, altro uomo della fucina di Via Nazionale.

Né meno pungenti sono stati i rilievi di Draghi sulle tante riforme promesse dal governo Berlusconi e poi malfatte o rimaste lettera morta. In rapida e martellante sequenza il governatore ha elencato le gravi inefficienze nei campi della giustizia civile, dell'istruzione, dei servizi pubblici, delle opere infrastrutturali, del mercato del lavoro: denunciando - con buona pace del ministro Sacconi - gli eccessi di incentivazione a contratti di impiego precario con esiti di profonda ingiustizia sociale.

In tanto eccellente requisitoria programmatica sono in parte mancati toni più severi su alcuni cattivi vezzi del sistema creditizio domestico. In un paese che ha tanta sete di investimenti produttivi non fa un bel vedere, per esempio, che una grande banca come Unicredit impegni così tanti soldi nell'affare Ligresti più al fine di salvare un gruppo di controllo che un'impresa. Anche questo è un terreno sul quale "occorre sconfiggere gli intrecci degli interessi corporativi", come ha detto appunto Draghi. Compito che spetta, tuttavia, a chi governa il paese assai più che a chi vigila da Bankitalia.

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Titolo: Massimo RIVA. L'opinione Re Sergio e i cortigiani
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2011, 10:46:33 pm
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L'opinione Re Sergio e i cortigiani

di Massimo Riva

(10 giugno 2011)

Sergio Marchionne Sergio MarchionneChe con il suo "l'Italia deve cambiare atteggiamento" Sergio Marchionne pretenda di presentarsi come il salvatore dell'industria nazionale non meraviglia più di tanto. La sicumera e una certa dose di megalomania sono diventate componenti abituali delle sue sortite pubbliche. Da quando poi gli è riuscito di sostituire con prestiti bancari i finanziamenti ricevuti dal governo Usa, l'amministratore delegato di Fiat-Chrysler sembra aver perso ogni freno alla brama di ridisegnare il mondo a sua immagine e somiglianza.

Ciò che lascia, viceversa, interdetti è la reazione di buona parte dell'establishment nazionale pronto e prono a riconoscergli un ruolo di supremazia assoluta. Alle sue parole di fastidio per le poche, in verità, critiche ricevute nel nostro paese si è scatenata una vera e propria gara alla più trista cortigianeria. Con l'aria di chi chiede scusa e pietisce perdono per allontanare da sé ogni dubbio, il ministro Paolo Romani s'è affrettato a ricordare che il governo Berlusconi ha fatto di tutto per aiutare la Fiat a piegare i sindacati. Il suo collega Maurizio Sacconi s'è trasformato in un Marchionne di complemento prendendosi lui l'incarico di indicare con precisione i veri sabotatori dei progetti della Fiat: il sindacato conservatore, settori ideologizzati della magistratura, ambienti delle borghesie bancarie. Guarda caso, gli stessi nemici contro cui punta il dito ogni giorno Silvio Berlusconi.

Ma l'elenco dei cavalier serventi ha trovato adepti entusiasti anche fra le cosiddette parti sociali. Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha fatto finta di criticare Marchionne ma solo per poter gonfiare il petto orgoglioso rammentando di essere stato lui per primo a spalancare le porte della massima flessibilità dei lavoratori addirittura precedendo i desiderata della Fiat. Mentre, sul fronte confindustriale, niente meno che il vice-presidente, Alberto Bombassei, s'è precipitato a parare il colpo di una possibile uscita della Fiat dall'organizzazione (con conseguente perdita dei robusti contributi associativi della medesima) assicurando a Marchionne che la Confindustria sarà ben lieta di rinunciare al suo stesso ruolo pur di lasciarlo libero di sottoscrivere qualunque contratto collettivo gli aggradi di più.

Nemmeno ai tempi del miglior Gianni Agnelli è capitato di assistere a un così devoto rosario di genuflessioni. A non voler pensar male, tali comportamenti si possono attribuire alla potente attrazione della maggiore promessa fatta da Marchionne: portare la produzione di vetture Fiat in Italia dalle attuali 650 mila a un milione e mezzo entro il 2014. Un balzo che avrebbe effetti indubbiamente straordinari su tutta l'economia del Paese. Peccato che proprio qui stia il punto debole dell'intera vicenda. E' vero che a Torino si racconta dell'esistenza di un progetto Fabbrica Italia da 20 miliardi di investimenti con l'obiettivo che s'è detto. Ma è altrettanto vero che, a tre anni dal 2014, Marchionne tiene il più rigoroso riserbo sui suoi piani: di concreto si sa solo che a Pomigliano si faranno un po' di Panda e a Mirafiori si assembleranno dei Suv costruiti in America. Davvero poco per dare credibilità al traguardo del milione e mezzo di vetture. La fiducia al buio non appartiene al mondo degli affari: perciò non è l'Italia ma Marchionne che "deve cambiare atteggiamento".


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Titolo: Massimo RIVA. Una cupola in banca
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2011, 11:10:45 pm
Una cupola in banca

Massimo Riva

(17 giugno 2011)


In qualunque paese la condizione delle banche è un indicatore fondamentale dello stato di salute dell'intero sistema. In Italia anche più che altrove perché la nostra economia è "bancocentrica" a tutti gli effetti. Deve destare perciò qualche seria preoccupazione il persistente cattivo andamento dei titoli degli istituti di credito sul mercato azionario: fra tutti i settori della Borsa, infatti, quello delle banche registra da tempo prestazioni scoraggianti con punte estreme di caduta, in qualche caso specifico, davvero impressionanti.
E sì che, durante la fase più acuta della recente crisi, proprio il sistema creditizio italiano veniva additato ad esempio di solidità per non essersi cacciato a testa bassa nei guai della finanza speculativa come numerose grandi aziende bancarie di altri paesi, tanto in Europa che negli Stati Uniti. Come mai allora appare così appesantito e affaticato un settore che lo tsunami finanziario internazionale sembrava avere risparmiato?

Esiste al riguardo una risposta almeno in parte consolatoria. L'economia italiana arranca ormai con tassi di crescita minimali tanto che anche quest'anno si stima un aumento del Pil intorno al punto percentuale: meno della metà della media europea, addirittura quasi un quinto della Germania. Dato che si vive in un sistema bancocentrico, la logica conclusione è che il cattivo momento delle banche domestiche altro non è se non il riflesso della pessima congiuntura attraversata dall'intero paese.
Questo indubbio pezzo di verità rischia però di oscurare un altro aspetto della questione. Siamo sicuri che i banchieri non ci abbiano messo e non ci stiano mettendo del loro in questo stato di cose? Trascuriamo pure quei casi di manifesta inadeguatezza all'incarico o di favoritismi clientelari che la vigilanza della Banca d'Italia ha messo a nudo, per esempio, nella gestione di alcuni istituti anche di non piccole dimensioni come la Banca Popolare di Milano. La speranza è che simili vicende siano di portata circoscritta e, quindi, sanabili magari mettendo in campo finalmente una riforma dell'antiquato regime di governo azionario che ancora vige per le banche popolari.
Ciò che più impensierisce è l'assetto complessivo del sistema bancario domestico nel quale trova la sua espressione più alta e pervasiva quel "capitalismo relazionale" che sta diventando il cancro dell'economia italiana. Basti pensare all'incredibile trama azionaria che, in forme dirette o indirette, tiene assieme in una sorta di inconfessabile confederazione di potere IntesaSanpaolo-Generali-Mediobanca-Unicredit con seguito di vassalli, valvassori e valvassini cui concedere quei finanziamenti che sovente vengono invece negati a imprese esterne agli interessi della cupola dominante.

C'è poi tanto da meravigliarsi se, in un contesto medievale del genere, il sistema bancario appesantisce i suoi bilanci con operazioni dalla discutibile profittabilità economica come la nuova Alitalia o la Telco-Telecom, per non dire del salvataggio della famiglia Ligresti? Purtroppo no, c'è semmai ragione di scandalizzarsi ma non di stupirsi. Sarà, quindi, che le banche italiane sono fragili e incerte perché fragile e incerta è la crescita del paese. Ma vale quanto mai anche il rovescio: il paese non si riprende perché i suoi banchieri non sanno alzare gli occhi dall'ombelico dei loro intrecci di potere.

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Titolo: Massimo RIVA. Il virus della crisi greca
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2011, 06:39:05 pm
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L'opinione

Il virus della crisi greca

di Massimo Riva

(24 giugno 2011)

La Grecia è già tecnicamente in bancarotta perché non ha risorse sufficienti a reggere il suo debito: per evitare che da virtuale il default divenga conclamato l'aiuto esterno è indispensabile. Tanto più perché i ritardi, coi quali il resto d'Europa - la Germania sopra tutti - ha preso atto di questa lampante verità, hanno aggravato le cose. Si è lasciato passare troppo tempo prima di accorgersi che non ci si trovava di fronte a una crisi circoscritta le cui colpe potevano essere fatte ricadere sulla falsificazione dei conti operata dal precedente governo ateniese di centrodestra.
Così ai guai greci si sono presto affiancati, seppur per cause diverse, quelli di Irlanda e Portogallo. E ora non è irragionevole temere che serie difficoltà possano manifestarsi per il finanziamento dei debiti sovrani di altri paesi dell'unione monetaria: come l'Italia, forse ancora prima che la Spagna. Il balzo in avanti del differenziale di rendimento (spread) fra titoli del Tesoro italiano e "bund" tedeschi è già un forte campanello d'allarme al riguardo. In sostanza, un mancato salvataggio della Grecia non avrebbe solo conseguenze devastanti per quel paese, ma metterebbe in circolazione un virus che potrebbe contagiare in fretta i paesi con esposizione debitoria particolarmente elevata e perciò fragile. Si tratterebbe di un terremoto in grado di scuotere dalle fondamenta l'attuale costruzione dell'euro, con inevitabili ripercussioni sul progetto politico di costruzione dell'unità europea.

La posta in palio è, dunque, molto alta. Ma par di capire che molti governi dell'Unione non ne siano consapevoli o almeno che alcuni non abbiano il coraggio politico di argomentare presso i propri elettorati la necessità di pagare il prezzo utile per scongiurare la diaspora dell'Europa.
Naturalmente è logico che si chieda alla Grecia di attuare un radicale programma di austerità per evitare che i finanziamenti esterni finiscano dentro un pozzo del quale non si sia chiuso il fondo. Dal nuovo governo Papandreou, che ha appena ricevuto la fiducia del parlamento, ci si attende che faccia digerire al proprio paese una terapia d'urto molto robusta. Le infiammate piazze di Atene dicono che non sarà un'impresa facile. La rigidità di alcuni elemosinieri europei può anche offrire un'utile pedana al governo di Atene per superare i suoi ostacoli interni.
Ma non tutti i richiami appaiono opportuni. Il governatore Mario Draghi, per esempio, ha ricordato ai greci che l'Italia del 1992 era in condizioni anche peggiori e pure ce l'ha fatta a riprendersi. Vero, ma c'è un particolare non secondario: allora il governo Amato prese sì provvedimenti draconiani, ma soprattutto fece ricorso a una svalutazione della lira di circa il 20 per cento.

Oggi per la Grecia questa via è preclusa e non solo perché essa fa parte della moneta unica. Quand'anche Atene ne uscisse, il suo debito sempre in euro resterebbe contabilizzato per cui il ritorno alla dracma non farebbe che peggiorare la situazione. Rilievo questo che è bene sottolineare a uso e consumo di chi in Italia manifesta assurde nostalgie per i tempi delle svalutazioni competitive.
Conclusione: quella che si combatte ad Atene non è una battaglia per la Grecia, è una guerra per l'Europa. Il ritorno allo spirito di Monaco nei confronti della rinnovata cupidigia tedesca promette poco di buono.


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Titolo: Massimo RIVA. Il Porcellum è sindacale
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 11:27:31 am
L'opinione

Il Porcellum è sindacale

di Massimo Riva
(14 luglio 2011)

L'accordo fra Confindustria e sindacati sui contratti è stato favorevolmente accolto da più parti per una serie di condivisibili ragioni. Intanto, stavolta, al tavolo si sono ritrovate concordi tutt'e tre le principali sigle sindacali. Immaginare che da qui possa riprendere il cammino bloccato verso l'unità sarebbe del tutto fuori luogo. Ma risulta apprezzabile che con questo passaggio abbia subito un secco contraccolpo la strategia di chi puntava a una progressiva emarginazione politica dell'organizzazione ancora più rappresentativa, la Cgil. Inoltre è anche possibile che l'intesa raggiunta sui contratti aziendali possa dispiegare effetti positivi sul rilancio degli investimenti da parte delle imprese, dando così una spinta a quella crescita del Pil che resta il grande problema insoluto del paese.

Naturalmente, non va sottovalutato il rischio che tutto si blocchi. Sul fronte sindacale è in corso una consultazione della base da parte della Cgil e si sa che il segretario, Susanna Camusso, deve affrontare un non facile confronto in materia con l'ala più ostile della Fiom.

Sul versante confindustriale è sempre aperta la questione Fiat: anche Emma Marcegaglia deve fronteggiare i guai suoi perché da Torino Sergio Marchionne insiste a proclamare propositi secessionisti se, in un modo o nell'altro, non si dovessero estendere gli effetti dell'intesa alle vicende di Pomigliano e Mirafiori sulle quali i metalmeccanici della Cgil hanno aperto vertenze giudiziarie.

C'è un punto, tuttavia, dell'accordo Confindustria-Cgil-Cisl-Uil che suscita anche più di una perplessità. Concepito alla finalità dichiarata di risolvere l'annosa questione della rappresentatività - ovvero di un'autentica democrazia sindacale - il patto non scioglie il nodo o, comunque, ne offre una soluzione assai più attenta a preservare ruolo e potere delle organizzazioni sindacali che non i diritti dei singoli lavoratori.

In buona sostanza, infatti, la Cgil, la Cisl e la Uil - con il beneplacito interessato della Confindustria - si riservano nella maggior parte dei casi il potere di sottoscrivere contratti aziendali vincolanti per tutti i lavoratori, iscritti o non iscritti al sindacato, senza dover procedere alla consultazione referendaria dei medesimi. Quest'ultima essendo prevista soltanto "in caso di rilevanti divergenze" fra sindacati. Formula nebulosa che lascia un istituto tipico della democrazia in balia dei rapporti di forza fra vertici.

Si rischia così di introdurre nelle fabbriche meccanismi elettorali non dissimili da quel "porcellum" che ha stravolto il sistema della rappresentanza nelle elezioni politiche. Sia perché i vertici delle strutture sindacali si arrogano il maggior potere decisionale, sia perché si riserva alle organizzazioni più consolidate una sorta di premio di maggioranza a priori da far valere su iscritti e non.

Avvalora questa sgradevole impressione, per esempio, l'ostilità della Cisl all'ipotesi che la delicata materia possa essere risolta per via di legge. Suona francamente stonato che, a suo tempo, per la miglior tutela dei lavoratori verso terzi si sia sollecitato un intervento legislativo quale è lo "Statuto" di Giacomo Brodolini, mentre oggi ci si oppone a che si faccia una legge per regolare diritti che appartengono a ciascun singolo lavoratore. Una ripassata alla Costituzione non guasterebbe. Confindustria | Cgil | Cisl | Uil © Riproduzione riservata

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Titolo: Massimo RIVA. Obama sul filo del rasoio
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 11:39:33 am
Obama sul filo del rasoio

di Massimo Riva

(21 luglio 2011)

"L'America non è la Grecia o il Portogallo". Detta così sembrerebbe la classica non-notizia. Chi mai può seriamente immaginare un simile accostamento fra grandezze, sia politiche sia economiche, lontane anni luce? Ma se chi sente di dover dire questa ovvietà è addirittura il presidente degli Stati Uniti, la notizia c'è e suona anche piuttosto allarmante. Perché un'affermazione del genere, fatta da Obama in un pubblico messaggio, dà la misura dello stato di difficoltà in cui versa oggi la Casa Bianca nel padroneggiare la crisi di bilancio di quella che resta pur sempre la prima potenza del pianeta.

Sono ormai parecchie settimane che il braccio di ferro tra democratici e repubblicani a Capitol Hill tiene col fiato sospeso il mondo intero per la minaccia che il prossimo 2 agosto l'amministrazione Usa sia costretta a dichiararsi in "default" con blocco dei pagamenti e conseguenze disastrose sugli equilibri finanziari internazionali. Un evento che lo stesso Obama ha drammatizzato al massimo evocando con il termine "Armageddon" uno scenario da fine del mondo.

A prima vista tutto ruota attorno al nodo del debito federale. In crescita rapida a seguito della crisi 2008-2010, l'indebitamento degli Usa è prossimo alla parità con il Prodotto interno lordo del paese e, in ogni caso, sta superando la soglia di autorizzazione allo sbilancio finora concessa dal Congresso. Se quest'ultimo non rivede al rialzo la cifra, il Tesoro Usa deve chiudere cassa e smettere di pagare per stipendi, sovvenzioni, investimenti, interessi sui titoli in scadenza e così via: la temuta apocalisse di Obama.
In realtà il quattordicesimo emendamento alla Costituzione conferisce al presidente poteri speciali in materia di debito che potrebbero consentire ad Obama di aggirare almeno temporaneamente l'ostacolo. Ma la Casa Bianca si mostra restia agli espedienti e vorrebbe che un innalzamento del tetto al debito procedesse di pari passo con una manovra di bilancio mirata a ridurre il deficit di almeno 4 mila miliardi di dollari in dieci anni. Ed è su questo punto specifico che è in atto il vero scontro fra presidenza e Senato democratici, da un lato, e Camera dei Rappresentanti in mano ai repubblicani, dall'altro. Questi ultimi intendono che i fatidici risparmi siano ottenuti soltanto con tagli alla spesa sociale, quella sanitaria in primo luogo.

Obama e i democratici puntano a una manovra più equa finanziata per almeno un terzo con maggiori tasse sui redditi più elevati. Un'ipotesi contro cui i repubblicani, eredi degli sgravi fiscali elargiti dalla presidenza Bush ai grandi ricchi, fanno muro anche se al Senato una bipartisan "Gang of six" lancia segnali di compromesso.

Sotto questo aspetto sì, in effetti, la situazione americana rivela similitudini con quella dei piccoli paesi in difficoltà di bilancio, come Grecia, Portogallo e perfino Italia. Perché negli Usa come altrove lo scontro interno è concentrato sulla ripartizione sociale dei costi dell'aggiustamento con i gruppi più influenti e affluenti determinati a difendere i propri privilegi e a scaricare gli oneri maggiori sulle spalle delle parti più deboli della comunità. Sui mercati, nel frattempo, la domanda di titoli del Tesoro Usa continua a essere sostenuta. Segno che in pochi credono all'arrivo dell'Armageddon o forse anche che chi maneggia denaro è convinto in cuor suo che ancora una volta i ricchi metteranno in riga i poveri.


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Titolo: Massimo RIVA. Dagli allo speculatore
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2011, 12:32:42 pm
Dagli allo speculatore

di Massimo Riva

In Grecia la crisi, in America il crollo. Anche l'Italia ha i suoi guai finanziari, speculazione in primis.

Se siamo stati così creduloni da berci le favole di Tremonti e Berlusconi, mica si poteva sperare che anche i signori della finanza internazionale fossero altrettanto sprovveduti

(08 agosto 2011)

La pressione dei mercati sull'Italia è diventata davvero molto pesante con un'accelerazione di attacchi speculativi che ricorda infausti precedenti come quello del nero settembre 1992. E, ancora una volta, riaffiora nel mondo politico la comoda tentazione di nascondere le proprie colpe dietro chissà quali complotti orditi da chissà quali oscure centrali della finanza internazionale. Un alibi miserevole per non voler riconoscere almeno un paio di banali verità. La prima, che ai mercati si può mentire anche tante volte ma non all'infinito. La seconda, che la stabilità del paese dipende enormemente di più da quanto si dovrebbe fare in casa nostra piuttosto che da quello che accade altrove.

D'accordo, lo tsunami finanziario che ha sconvolto il mondo nasce negli Stati Uniti e da lì non ha ancora smesso di propagare scosse sismiche. Va bene che in Europa ci si è mossi malamente e in ritardo, soprattutto a causa di una Germania che Angela Merkel ha guidato con mano vacillante e irresoluta. Sia pure che la crisi della Grecia è stata lasciata infettare fino a farne una minacciosa fonte di contagio. Sarà anche che le maggiori agenzie di rating (tutte americane) hanno fatto e stanno ancora facendo giochi spregiudicati che sembrano concepiti apposta per alimentare gli assalti degli speculatori. Ma in Italia nel frattempo che cosa si è fatto?

Per tre anni il patrio governo è andato avanti a ingannare i cittadini con lo slogan dei conti messi in sicurezza. E quanto lo fossero veramente lo si è appena visto ai primi e un po' più robusti stormir di fronde. Con il differenziale fra i titoli del Tesoro e i fatidici "bund" tedeschi schizzato verso quota 4 per cento anche a seguito di massicce vendite di Btp non solo da parte degli avventurosi hedge fund ma perfino di grandi banche europee.

E tutto questo solo per effetto di una malevola congiura? Ma via. I famosi conti in sicurezza celavano al loro interno un aumento record del debito pubblico che, grazie anche alla flebile crescita, ha raggiunto di nuovo il 120 per cento del Pil. Se gli italiani sono stati così creduloni da bersi le favole di Tremonti e Berlusconi, mica si poteva sperare che anche i signori della finanza internazionale fossero altrettanto sprovveduti.

Anche perché in materia l'Italia vanta pessimi precedenti. Uno, in particolare: quello di avere sperperato lo straordinario dividendo incassato con il forte ribasso del costo del denaro dopo l'entrata nell'euro. Non se n'è approfittato nella finanza pubblica, dove anzi Tremonti ha lasciato ripartire il debito, ma neppure a livello privato per dare più fiato agli investimenti ovvero per consolidare capitalizzazione e controllo delle aziende.

Da ultimo ora si è avuto l'ennesimo e grottesco tentativo di imbrogliare i mercati con una manovra finanziaria concepita non per prendere di petto le difficoltà ma solo con l'angusto proposito di non aggravare il marasma politico in cui versano da troppo tempo il governo e la sua maggioranza. Con il bel risultato di offrire ai moventi economici degli attacchi speculativi un argomento in più: quello di un Paese abbandonato a se stesso da un governo ormai a credibilità zero ma che resiste solo in forza della conta aritmetica dei seggi parlamentari. Altro che perfide cospirazioni altrui: se non salta questo tappo, aspettiamoci pure nuovi disastri.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/dagli-allo-speculatore/2157752/18


Titolo: Massimo RIVA. La bufera che investe i mercati finanziari tocca la Germania.
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2011, 04:09:53 pm
Il fantasma recessione

di Massimo Riva

La bufera che investe i mercati finanziari tocca la Germania.

E il rallentamento della crescita economica tedesca preoccupa l'intera Europa

(19 agosto 2011)

Nel bel mezzo della tempesta che sta scuotendo da settimane i mercati finanziari, ora l'Europa rischia di doversi confrontare con serie difficoltà anche sul piano della congiuntura economica. I dati ultimi sull'andamento del secondo trimestre dell'anno, infatti, denunciano un netto rallentamento della crescita e tornano a riproporre l'incubo di una nuova recessione. In particolare, avvalora questa plumbea prospettiva la brusca frenata del Pil tedesco, che ha segnato un misero più 0,1 per cento contro aspettative dello 0,4. E non basta: l'apposito ufficio federale di Berlino ha anche rivisto al ribasso la cifra relativa alla crescita del primo trimestre dell'anno. Contro una stima precedente del più 1,5 per cento ora il dato ufficiale è stato corretto in un assai meno confortante 1,3.

Chi sia in cerca di consolazioni a tutti i costi - com'è antico vizio di Silvio Berlusconi e dei suoi ministri - potrà magari aggrapparsi all'inattesa performance dell'Italia che, sempre nel secondo trimestre, ha realizzato un aumento del Pil dello 0,3 un poco sopra la media europea, attestata sullo 0,2 per cento. Ma, premesso che anche dopo questa prestazione il nostro tasso di crescita tendenziale resta comunque inferiore all'uno per cento, sarebbe miope sottovalutare il peso generale dell'ultimo dato tedesco. La Germania non è solo e di gran lunga la maggiore economia del sistema euro oltre che dell'Europa intera. Il punto specifico è che da quasi due anni essa aveva ripreso a esercitare il ruolo di locomotiva del continente in forza di un boom delle esportazioni che aveva dato un discreto impulso ai consumi interni. Con diffusi benefici anche su altri paesi dell'Unione, non ultima l'Italia.

Per logica conseguenza una frenata della locomotiva tedesca è destinata a coinvolgere, chi più chi meno, tutti i vagoni che le si erano agganciati. Di recente la Confindustria ha reso note previsioni preoccupanti sul terzo e quarto trimestre italiani di quest'anno, denunciando il rischio di una crescita prossima allo zero. Non so se queste stime scontassero già il calo tedesco, certo che quest'ultimo sembra avvalorare i pronostici peggiori. Tanto più perché l'ultima stangata fiscale - benché varata sotto la necessità e l'urgenza di arginare le falle della finanza pubblica - non contiene alcun elemento di pronto rilancio delle attività economiche e rischia perciò di avere un impatto ulteriormente depressivo sulla crescita.

Questo scenario carica di ancor maggiori responsabilità la Bce, unico organismo sovranazionale dell'eurozona, in attesa del Consiglio economico ora proposto da Merkel e Sarkozy. Così come è intervenuta per commissariare governi fragili, quali quelli di Atene e di Roma, la Bce sarà costretta a riesaminare la sua politica sul costo del denaro. Non ha senso, a ben vedere, che essa impieghi decine di miliardi di riserve per acquistare i titoli degli Stati in difficoltà e insieme continui sulla linea di rincaro dei tassi d'interesse dopo gli aumenti di aprile e luglio. Il riaffacciarsi dello spettro della recessione o comunque di una crescita cascante è un segnale d'allarme non meno preoccupante dei timori per una ripresa dell'inflazione. La ricerca di un punto di mediazione fra questi due pericoli è l'eredità più difficile che Jean-Claude Trichet lascia sulle spalle di Mario Draghi nel prossimo autunno.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-fantasma-recessione/2158670/18


Titolo: Massimo RIVA. Il fantasma recessione
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2011, 06:38:52 pm
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L'opinione

Il fantasma recessione

di Massimo Riva

La bufera che investe i mercati finanziari tocca la Germania.

E il rallentamento della crescita economica tedesca preoccupa l'intera Europa

(19 agosto 2011)

Nel bel mezzo della tempesta che sta scuotendo da settimane i mercati finanziari, ora l'Europa rischia di doversi confrontare con serie difficoltà anche sul piano della congiuntura economica. I dati ultimi sull'andamento del secondo trimestre dell'anno, infatti, denunciano un netto rallentamento della crescita e tornano a riproporre l'incubo di una nuova recessione. In particolare, avvalora questa plumbea prospettiva la brusca frenata del Pil tedesco, che ha segnato un misero più 0,1 per cento contro aspettative dello 0,4. E non basta: l'apposito ufficio federale di Berlino ha anche rivisto al ribasso la cifra relativa alla crescita del primo trimestre dell'anno. Contro una stima precedente del più 1,5 per cento ora il dato ufficiale è stato corretto in un assai meno confortante 1,3.

Chi sia in cerca di consolazioni a tutti i costi - com'è antico vizio di Silvio Berlusconi e dei suoi ministri - potrà magari aggrapparsi all'inattesa performance dell'Italia che, sempre nel secondo trimestre, ha realizzato un aumento del Pil dello 0,3 un poco sopra la media europea, attestata sullo 0,2 per cento. Ma, premesso che anche dopo questa prestazione il nostro tasso di crescita tendenziale resta comunque inferiore all'uno per cento, sarebbe miope sottovalutare il peso generale dell'ultimo dato tedesco. La Germania non è solo e di gran lunga la maggiore economia del sistema euro oltre che dell'Europa intera. Il punto specifico è che da quasi due anni essa aveva ripreso a esercitare il ruolo di locomotiva del continente in forza di un boom delle esportazioni che aveva dato un discreto impulso ai consumi interni. Con diffusi benefici anche su altri paesi dell'Unione, non ultima l'Italia.

Per logica conseguenza una frenata della locomotiva tedesca è destinata a coinvolgere, chi più chi meno, tutti i vagoni che le si erano agganciati. Di recente la Confindustria ha reso note previsioni preoccupanti sul terzo e quarto trimestre italiani di quest'anno, denunciando il rischio di una crescita prossima allo zero. Non so se queste stime scontassero già il calo tedesco, certo che quest'ultimo sembra avvalorare i pronostici peggiori. Tanto più perché l'ultima stangata fiscale - benché varata sotto la necessità e l'urgenza di arginare le falle della finanza pubblica - non contiene alcun elemento di pronto rilancio delle attività economiche e rischia perciò di avere un impatto ulteriormente depressivo sulla crescita.

Questo scenario carica di ancor maggiori responsabilità la Bce, unico organismo sovranazionale dell'eurozona, in attesa del Consiglio economico ora proposto da Merkel e Sarkozy. Così come è intervenuta per commissariare governi fragili, quali quelli di Atene e di Roma, la Bce sarà costretta a riesaminare la sua politica sul costo del denaro. Non ha senso, a ben vedere, che essa impieghi decine di miliardi di riserve per acquistare i titoli degli Stati in difficoltà e insieme continui sulla linea di rincaro dei tassi d'interesse dopo gli aumenti di aprile e luglio. Il riaffacciarsi dello spettro della recessione o comunque di una crescita cascante è un segnale d'allarme non meno preoccupante dei timori per una ripresa dell'inflazione. La ricerca di un punto di mediazione fra questi due pericoli è l'eredità più difficile che Jean-Claude Trichet lascia sulle spalle di Mario Draghi nel prossimo autunno.

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da - espresso


Titolo: Massimo RIVA. - La cometa privatizzazioni
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 06:08:20 pm
La cometa privatizzazioni

di Massimo Riva

(25 agosto 2011)

Con la puntualità dei fenomeni astronomici la cometa delle privatizzazioni ricompare periodicamente quando i conti pubblici tornano in emergenza. E, infatti, ci risiamo anche stavolta. Non solo i liberali dal cuore duro e puro, ma anche molte voci di pur differente inclinazione dicono che esiste un'alternativa maestra al prelievo di nuove tasse dalle tasche dei cittadini. L'idea è quella di sottoporre a una drastica cura dimagrante il patrimonio che lo Stato continua a detenere sia come proprietario di una sconfinata quantità di beni immobili sia come azionista di primarie imprese, soprattutto di servizi.

In linea di principio, simile proposito suona senz'altro condivisibile. Anche perché risulta davvero estraneo alla più banale logica economica che un soggetto oberato di debiti, come lo Stato italiano, preferisca lasciar crescere i suoi oneri anziché ridurli con cessioni patrimoniali. Una svolta in materia sarebbe la benvenuta, ma intanto a una condizione pregiudiziale che si può leggere anche nei più sintetici manuali di ragioneria elementare. La vendita di un bene - mobile o immobile che esso sia - rientra in una corretta gestione del bilancio se il suo ricavato va imputato a riduzione del debito e non utilizzato per alimentare la gestione corrente. Altrimenti il rischio è che il debito alla lunga sia lasciato privo di garanzie sottostanti con accelerazione della corsa verso il default. Non sempre e non tutti i sostenitori delle privatizzazioni sembrano avere chiaro in testa questo rigido ma indispensabile vincolo.

Oltre a queste considerazioni di metodo, chi vuole ridimensionare lo Stato padrone ha però anche l'obbligo di uscire dai proclami astratti e di rimettere i piedi per terra. Si fa presto, per esempio, a dire che si può cominciare con la cessione delle caserme e di tanti immobili pubblici, poco o per nulla utilizzati. L'esperienza insegna che iniziative consimili sono state ripetutamente annunciate da parecchi lustri anche con la creazione di apposite società (le famigerate Scip) ma con risultati di fatto nulli. Oggi, per giunta, il mercato immobiliare risulta praticamente bloccato in numerose aree urbane come testimonia la realtà boccheggiante di alcuni imperi privati del settore. Chi e a quale prezzo, per esempio, comprerebbe le caserme in una Milano dove Ligresti e colleghi fanno la fila davanti alle banche con il cappello in mano?

Interrogativi analoghi si pongono se poi si guarda alle proprietà mobiliari dello Stato azionista. Si accantoni pure ogni remora politica sull'uscita della mano pubblica dal controllo delle aziende energetiche. Ma anche solo in una chiave di mera valutazione economica sarebbe una buona idea quella di vendere i pacchetti pubblici di Eni o di Enel quando la crisi delle Borse ha tagliato il loro valore di quasi un terzo nel giro di poche settimane? Chi sollecita oggi simili operazioni non lo farà per favorire eventuali acquirenti privati, più probabilmente si muove per furore ideologico o perché spazientito dopo tanto vane attese. Il risultato sarebbe in ogni caso pur sempre quello di obbligare lo Stato a svendere.
E' una cometa davvero maledetta quella delle privatizzazioni domestiche. La sua luce splende quando esse risultano poco lucrose per il venditore. Ma si spegne subito non appena esse diventano meno redditizie per gli acquirenti.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-cometa-privatizzazioni/2159097/18


Titolo: Massimo RIVA. Diritti e doveri visti da destra
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2011, 04:46:18 pm
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L'opinione

Diritti e doveri visti da destra

di Massimo Riva
(08 settembre 2011)

Ai tanti "desabusés" che ritengono ormai superata e indecifrabile ogni differenziazione fra destra e sinistra si raccomanda vivamente una lettura più attenta del percorso battuto dalla maggioranza berlusconiana con l'attuale manovra d'emergenza. In particolare per due aspetti che riguardano da vicino gli equilibri fra diritti e doveri dei diversi ceti sociali. In un caso si tratta delle novità sull'ordinamento dei rapporti di lavoro, nell'altro caso delle misure relative alla lotta contro l'evasione fiscale. Due interventi che, per modi e contenuti, denunciano in modo esplicito e clamoroso la radice classista e neoconservatrice della loro ispirazione.
Sono anni che nel centrodestra si gira attorno alla questione della libertà di licenziamento da parte delle imprese per far saltare il vincolo della giusta causa sancito nello Statuto dei lavoratori. Dapprima si è tentato un disastroso attacco frontale, poi si è passati a una strategia più subdola mirata a sfruttare la competizione fra le maggiori confederazioni per indebolire il potere sindacale e minarne la capacità di risposta.

Con grande tenacia su questa linea si è mosso l'attuale ministro del Lavoro - l'ex (in tutti i sensi) socialista Maurizio Sacconi - che ha trovato pronta e fattiva collaborazione nella Cisl di Raffaele Bonanni e nella Uil di Luigi Angeletti, entrambi attirati dal miraggio di poter scavalcare la Cgil e assurgere al ruolo di interlocutori privilegiati del governo in carica. Cosicché ora quest'ultimo si è sentito in grado di tirare le somme della collaborazione ricevuta con una proposta normativa di contratti aziendali che potranno annullare le garanzie per i lavoratori previste sia nello Statuto sia nei contratti collettivi nazionali. Vero è che per licenziare sarà comunque necessario un assenso sindacale. Ma in un sistema produttivo di gran lunga costituito da piccole-medie imprese questo limite più che una reale tutela appare come una foglia di fico per mascherare il netto spostamento di potere dalle spalle dei lavoratori alle tasche di quelli che Ernesto Rossi - in tempi nei quali la distinzione fra destra e sinistra era ben chiara a tutti - chiamava i padroni del vapore.

In identica direzione il governo ha mostrato di volersi muovere quanto alla lotta contro gli evasori. La conoscenza del contributo di ciascun cittadino alle spese comuni dovrebbe rientrare in una banale logica di trasparenza contabile: lo si fa in tutti i condomini, perché non con lo Stato? Viceversa, si è scelto di pubblicare sì le cifre degli imponibili fiscali ma in forma anonima. Non si capisce quale deterrente possa esercitare questa indistinta parata di numeri sui ladri di tasse, mentre se ne capisce benissimo il fine sottostante di preservare i medesimi dalla pur minima pena della pubblica riprovazione. Ecco così un'altra scelta che fa quasi rimpiangere la ben più povera Italia di mezzo secolo fa. Quando i conflitti economici e sindacali erano ancora più profondi, ma ogni anno i Comuni rendevano pubblici gli elenchi nominativi dei contribuenti dell'allora imposta di famiglia senza che a nessuno venisse per la mente di parlare di violazione della privacy o di incitamento all'odio sociale. Miseri alibi che vengono ora esibiti soltanto al fine di nascondere la matrice chiaramente classista e destrorsa dei provvedimenti annunciati.


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Titolo: Massimo RIVA. Due leve per la crescita
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2011, 04:48:18 pm
Due leve per la crescita

di Massimo Riva

(14 settembre 2011)

Sotto la pressione (anche stavolta) dei richiami allarmati da parte del Quirinale sembra che il governo Berlusconi - bontà sua - voglia finalmente occuparsi di quel problemino che è la scarsa crescita o, peggio, il rischio di una nuova caduta in recessione. Che è esattamente quello che fanno temere sia gli ultimi dati Istat sia le più aggiornate previsioni Ocse sull'andamento del Pil a fine anno. Ma anche questa tardiva presa di coscienza del governo non nasce sotto i migliori auspici perché - come appena accaduto con la manovra di contenimento dei conti - c'è seriamente da temere che improvvisazione e superficialità la facciano da padrone.
Dice, infatti, Giulio Tremonti che egli intende cominciare la sua opera facendo "il tagliando" alla quarantina di provvedimenti che, a suo avviso, sarebbero già stati presi per stimolare l'economia. Se si parte così davvero l'inizio è pessimo. Quaranta provvedimenti di sostegno alla congiuntura? Alla luce delle statistiche, che ci condannano a una crescita 2011 nettamente inferiore al singolo punto percentuale, il meno che si possa dire è che quelle misure sono state drammaticamente inefficaci e insufficienti alla bisogna. L'idea di "fare il tagliando" a strumenti così imbelli suona come una perdita di tempo. Inclinazione quest'ultima che sta diventando un po' un vizio del ministro dell'Economia visto che anche con la manovra di aggiustamento contabile è partito annunciando piccoli interventi di manutenzione ordinaria e ha dovuto finire con misure fin troppo eccezionali. Qualcuna, poi, come la Robin Tax sull'energia addirittura di segno opposto al rilancio degli investimenti.

Due sono i principali nodi cruciali che dovrebbero essere affrontati per fare qualcosa di serio in tema di crescita. Il primo riguarda quel freno strutturale allo sviluppo che è rappresentato dalla presenza sul mercato interno di un eccesso di posizioni di rendita in una quantità di settori. Su questo l'ultimo gran decreto del governo Berlusconi avrebbe potuto e dovuto fare molto di più di quel poco o nulla che è stato cambiato in materia di "libere" professioni, di esercizi commerciali e di paramonopoli sotto il controllo della mano pubblica, vuoi di Stato vuoi degli enti locali. Qui il problema è semplice: o Tremonti ha il coraggio di prendere per le corna il tema delle liberalizzazioni oppure la smetta di menare il can per l'aia.


Il secondo nodo è di ben maggiore spessore e richiede un'opera di lunga lena. In Italia la congiuntura è fiacca perché la domanda interna è debolissima. E ciò dipende principalmente dal crescente squilibrio nella distribuzione dei redditi e del relativo carico fiscale. Quando le ricchezze si concentrano nelle mani di gruppi ristretti a scapito del resto della società si verifica quel classico ingorgo depressivo che il reverendo Malthus aveva indicato un paio di secoli fa. Accade cioè che il capitale in eccesso degli "happy few" va a ingigantire quelle speculazioni che poi sovente procurano (lo si è appena sperimentato) bolle finanziarie dagli esiti disastrosi. Mentre la scarsità di denaro dei ceti più numerosi provoca la caduta dei consumi togliendo così agli investimenti l'ossigeno più importante. Anche qui: o si avvia una riforma fiscale, che sposti il peso dai redditi inferiori ai patrimoni maggiori, oppure ci si risparmi almeno le prese per il naso.

 
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Titolo: Massimo RIVA. Se Emma si dissocia
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2011, 04:49:04 pm
L'opinone

Se Emma si dissocia

di Massimo Riva

(29 settembre 2011)

La Confindustria è per sua natura filogovernativa, diceva non poi tanti anni fa Gianni Agnelli. Oltre che per natura, è lecito soggiungere, anche per storia. Basti pensare al ruolo che essa ha svolto nelle fasi di ascesa e poi di dominio della dittatura fascista. Durante la quale proprio l'omonimo nonno dell'Avvocato, senatore del Regno, si distinse per i fecondi rapporti (in dare e in avere) coN IL regime, senza mai prenderne le distanze come pure cercò di fare qualche altra voce confindustriale, autorevole ma minoritaria, come fu quella di Alberto Pirelli.
E' utile oggi richiamare questa costante attitudine del passato, più e meno recente, se si vogliono meglio comprendere la portata e il significato delle ultime prese di posizione dell'attuale presidente degli industriali, Emma Marcegaglia. Da quei precedenti non sembra trascorso qualche decennio, ma un'intera era geologica. Negli anni dissensi critici anche molto pesanti non sono mai mancati nei confronti di questo o quel governo: per esempio, contro il centro-sinistra ai tempi della nazionalizzazione dell'industria elettrica. Ma davvero mai s'era sentito un leader degli imprenditori spingersi fino al punto di lanciare contro l'esecutivo una sorta di decreto di sfratto da Palazzo Chigi, come Marcegaglia sta reiterando da settimane nei confronti del gabinetto guidato da Silvio Berlusconi. Con parole di giorno in giorno più sferzanti, a mano a mano che la presidente raccoglie crescenti consensi nella sua base confindustriale.

I puristi dei ruoli istituzionali possono anche storcere il naso e considerare simili iniziative come un fuor d'opera: non spetta certo a Confindustria tenere in sella o disarcionare un governo. Ma proprio questo strappo dà la misura della drammatica torsione cui gli eventi economici del presente stanno sottoponendo i rapporti fra potere politico e società civile. Anche perché la tensione si sta manifestando a tutto tondo.

Quando Marcegaglia dice che o il governo fa qualcosa di serio entro domani oppure è meglio che se ne vada dopodomani segnala la totale insoddisfazione del mondo produttivo per l'assenza di misure dirette a rianimare un'economia che si sente abbandonata a se stessa. Ma quando afferma che gli imprenditori sono stufi di essere accolti come lo zimbello del mondo ogni volta che vanno a vendere i loro prodotti all'estero, denuncia qualcosa di ancora più grave: la caduta verticale di credibilità dell'Italia a causa di una politica economica improvvisata e pressappochista gestita in quel clima a metà fra il postribolare e il circense che avvolge Palazzo Chigi.

Le sue parole sottintendono una domanda che molti italiani si sentono fare quando si trovano fuori dai patri confini: ma come fate a reggere una situazione del genere? Interrogativo che insinua un implicito giudizio negativo sull'assenza di reazioni efficaci a questo stato di cose da parte della classe dirigente economica nazionale. Ecco perché il "Manifesto per salvare l'Italia" annunciato da Confindustria va inteso non soltanto come un insieme di proposte sulle riforme da fare, ma soprattutto come un tentativo di dissociare nettamente le responsabilità del mondo delle imprese dall'onda di discredito che dal governo sta dilatandosi all'intero Paese.
Una sorta di legittima difesa che riflette, purtroppo, la tragica condizione di stallo del presente.

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Titolo: Massimo RIVA. I Buffett de' noantri
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2011, 04:49:56 pm
L'opinione

I Buffett de' noantri

di Massimo Riva
(22 settembre 2011)

Dall'alto della sua montagna di dollari, il plurimilionario americano Warren Buffett ha voluto compiere un bel gesto di civismo sollecitando la Casa Bianca a far pagare più tasse ai grandi ricchi. Non è giusto - egli ha scritto in sostanza - che la mia segretaria sia soggetta a un prelievo percentualmente doppio di quello che io subisco sulle mie fortune. Così richiamando l'attenzione su una stortura di quel sistema tributario per cui la tassazione su plusvalenze patrimoniali e rendite finanziarie in genere si situa attorno al 15 per cento, mentre sugli stipendi si arriva a prelevare anche il 35. Il presidente Obama ha preso la palla al balzo e ha inviato al Congresso una proposta ribattezzata "Buffett rule" al fine di istituire un'aliquota minima del 35 per cento a carico di chi abbia un reddito oltre il milione di dollari (in euro circa 700 mila).
Non sfugge il secondo fine politico di questa iniziativa. La Camera di Washington è dominata dal partito repubblicano da sempre contrario a nuove tasse per i ricchi. Poiché l'anno prossimo si voterà per la presidenza, Obama intende mettere con le spalle al muro i suoi avversari politici facendoli apparire agli occhi della stragrande maggioranza degli americani come i difensori dei privilegi di una minoranza egoista e antisociale. Resta il fatto che anche nel "sancta sanctorum" del capitalismo c'è un governo che si pone il problema di riequilibrare la pressione tributaria in termini di maggiore equità distributiva.

Il nostro sistema fiscale è diverso - certo non migliore - rispetto a quello americano e la "Buffett rule" non sarebbe riproducibile in Italia così come formulata negli Usa. Anche da noi, tuttavia, la provocazione del milionario di Omaha ha trovato seguito in voci rappresentative del capitalismo domestico come quelle, per esempio, di Della Valle o di Montezemolo in favore di un'imposta sui patrimoni maggiori. Ma, al contrario di quanto accaduto dall'altra parte dell'Atlantico, è l'autorità di governo che ha lasciato cadere nel vuoto simili sollecitazioni perché il nostro plurimilionario di Palazzo Chigi non vuole nemmeno sentir parlare di prelievi sulle ricchezze né mobiliari né immobiliari.

E così per meglio scongiurare l'ipotesi stessa di un'imposta patrimoniale si sta ricorrendo alla furbizia di dibatterne una versione sconveniente. Quella, cioè, di un cospicuo prelievo straordinario al fine di dare un taglio importante al debito pubblico per riportare il bilancio in linea di galleggiamento. Che una simile ipotesi sia fuori luogo è evidente. Vuoi perché rischia di ricreare spazi per la corsa della spesa pubblica e, quindi, per nuovo indebitamento. Vuoi perché la sua dimensione necessariamente rilevante può ingenerare un effetto depressivo su una congiuntura già debolissima.

Ma di patrimoniale c'è almeno un'altra versione. Si tratta di un prelievo ordinario, con aliquota molto bassa e una franchigia ragionevole. In questo modo non solo si chiamerebbero a contribuzione le rendite privilegiate e le ricchezze accumulate con l'evasione, ma soprattutto si otterrebbe un gettito con il quale - a pressione fiscale invariata - ridurre le aliquote sui redditi medio-bassi favorendo quella ripresa dei consumi che è l'ossigeno primario per investimenti e crescita economica. Ma chissà perché di questa "Italian rule" si fa così tanta fatica a parlare.

 
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Titolo: Massimo RIVA. La secessione del Lingotto
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 04:40:26 pm
La secessione del Lingotto

di Massimo Riva

(06 ottobre 2011)

E secessione fu. S'era capito fin dalla prima lettera a EMMA Marcegaglia del 30 giugno che la Fiat stava già con un piede e mezzo fuori da Confindustria. Le motivazioni cui ora SERGIO Marchionne ricorre per spiegare il passo definitivo, del resto, non fanno altro che confermare quello che era e rimane il suo principale obiettivo: condizionare la presenza Fiat in Italia alla mano libera in materia di contratti e, soprattutto, di licenziamenti. Un obiettivo perseguito con determinazione e arroganza dapprima prendendo per la gola i sindacati (a Pomigliano come a Mirafiori) e poi ricattando il governo con la reiterata minaccia di andare a investire altrove.

Che questa linea di condotta potesse creare fratture pericolose nelle relazioni sindacali e surriscaldare il clima di fabbrica per tutti gli altri associati di Confindustria è apparsa fin dal principio l'ultima preoccupazione di Marchionne e degli eredi Agnelli. A Marcegaglia e soci è stato così riservato un trattamento uguale a quello degli altri interlocutori: o fate quel che vogliamo o ce ne andiamo. Al contrario del governo, che nella persona del ministro Sacconi ha cavalcato i siluri di Torino nella convinzione di poter così chiudere la sua antica guerra contro la Cgil, l'attuale presidente di Confindustria ha cercato di evitare gli scontri frontali ritenendoli esiziali in una congiuntura plumbea come la presente. Perciò non si è opposta al fatidico articolo 8 del decreto d'agosto con il quale il governo recepiva le richieste della Fiat, ma poi il 21 settembre ha concordato coi sindacati (tutti) una lettura che ne ridimensionava l'impatto sulla libertà di licenziamento. Così offrendo, però, il pretesto che Marchionne aspettava per sbatterle la porta in faccia.

Gesto che pone nuovi problemi e ne lascia aperti non pochi di vecchi. I primi riguardano l'impatto che potrà avere la svolta torinese sulla struttura interna di Confindustria: anche altri e quanti potranno seguire l'esempio di Marchionne? Il momento è politicamente delicato dato che Marcegaglia sta contestando il governo in carica con una durezza senza precedenti. La secessione della Fiat potrebbe alimentare tentazioni analoghe sul versante dei più irriducibili imprenditori filo-berlusconiani.

I problemi vecchi e tuttora insoluti riguardano la sorte del gruppo Fiat. Nel numero scorso "l'Espresso" si chiedeva se Marchionne ce la farà a compiere quella che lui stesso ha definito una "traversata del deserto". E su questo nodo - con Fiat dentro o fuori da Confindustria - nulla è cambiato. I progetti che dovrebbero implementare i famosi 20 miliardi di investimenti del piano Fabbrica Italia sono ancora ignoti o cambiano in continuazione come a Mirafiori. Ora che si è liberata da ogni vincolo sul versante sindacale, sarebbe lecito aspettarsi che la Fiat si decidesse finalmente a darsi una mossa, ma di nuovi modelli in grado di contrastare una concorrenza sempre più spavalda non si vede traccia. L'impressione è che la vera e più ardua "traversata del deserto" sia quella che attende i lavoratori della Fiat e tutti gli interlocutori politici e sindacali che hanno creduto al verbo di Marchionne.

 
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Titolo: Massimo RIVA. Pensioni e lavoro per i giovani
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2011, 05:38:44 pm
di Massimo Riva

Pensioni e lavoro per i giovani

    L’aumento della vita media e la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale impongono un rialzo accelerato dell’età pensionabile. Un’esigenza che si colloca in contrasto con quella di favorire maggiori opportunità di lavoro alle generazioni più giovani. Il superamento di questa contraddizione postula, in primo luogo, misure generali per forzare la crescita del Pil, ma può essere aiutato anche da alcuni interventi mirati.

    In particolare si tratta di assumere provvedimenti che consentano di prosciugare nel tempo la palude del precariato con la quale si è data una falsa soluzione al problema. Vanno, quindi, previsti benefici fiscali per le aziende che assumono con contratti a tempo indeterminato giovani sotto i 30 anni oltre che pari vantaggi fiscali sui redditi percepiti dai nuovi assunti almeno per i primi anni.

    Questo mutamento delle convenienze per le imprese e i giovani disoccupati produrrebbe effetti importanti sul mercato del lavoro dilatando l’offerta e favorendo nuove assunzioni. La crescita conseguente degli occupati finirebbe così per compensare la riduzione del gettito implicita nelle agevolazioni concesse dall’Erario. Un’altra novità a costo zero, dovuta alle giovani generazioni, è l’abrogazione di quella pessima reliquia ottocentesca che si chiama valore legale del titolo di studio. Riforma indispensabile per dare una scossa di vitalità al sistema dell’istruzione e al mercato del lavoro.

da - http://www.repubblica.it/static/speciali/altri/agenda-per-italia/?ref=HREC2-10


Titolo: Massimo RIVA. L'impotenza della Consob
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2011, 11:44:14 pm
L'impotenza della Consob

di Massimo Riva

(20 ottobre 2011)

In prossimità della tradizionale assemblea del 28 ottobre, Mediobanca si trova al centro di un'esemplare vertenza che la dice lunga sulle bulimie di potere di cui si nutre il nostro "capitalismo relazionale". Ma la dice forse ancora più lunga sulla sostanziale impotenza dell'Autorità di vigilanza sulla Borsa a ricondurre entro regole di ovvia correttezza gli inevitabili conflitti d'interessi connaturati a un sistema dove gli intrecci azionari continuano a farla da padroni.

Tutto comincia con una singolare iniziativa della Fondazione Cariverona che, in previsione dell'assemblea dell'istituto di cui possiede un pacchetto azionario del 3,2 per cento, ha presentato una sua lista per i posti del collegio sindacale che la legge assegna alla minoranza. A prima vista, tutto bene. Se non fosse che l'ente veronese è pure socio al 4,2 per cento di Unicredit, che è anche il primo azionista della medesima Mediobanca con l'8,6 per cento e perciò concorre alla presentazione delle liste di maggioranza sia per il collegio sindacale sia per il consiglio d'amministrazione.

L'iniziativa non è piaciuta ad Assogestioni, che per i sindaci di minoranza ha messo in campo una sua lista alternativa. Poiché il Testo unico della finanza stabilisce che "la seconda lista non debba essere collegata, neppure indirettamente, con la lista che risulta prima" un esposto è subito partito all'indirizzo della Consob. La quale, a sua volta, ha inviato due lettere con richiesta di chiarimenti sia all'ente scaligero sia ai vertici di Mediobanca. Questi ultimi risponderanno dopo una riunione del consiglio d'amministrazione convocata ad hoc per lunedì 24 ottobre.

I veronesi, invece, hanno prontamente replicato protestando che la loro "relazione con Mediobanca (per tramite indiretto di Unicredit) presenta tratti così poco qualificanti da sfumare in un'ipotesi priva di qualunque rilevanza giuridica". Come dire, insomma, che tengono impegnata una non trascurabile quantità di denaro tanto in Unicredit quanto in Mediobanca senza avere alcuna seria voce in capitolo sulle nomine più importanti da parte dei due istituti.

Per credere a una simile favoletta ci vorrebbe una così robusta dose di candore da far sperare che i commissari della Consob non si lascino impressionare da tali sofismi da azzeccagarbugli. Resta, però, da vedere che cosa potranno fare per scongiurare questo aggiramento di un evidente conflitto d'interessi. Molto potrebbe aiutarli la risposta del consiglio di Mediobanca, ma le probabilità che questo si schieri contro un suo socio, diretto e indiretto, appaiono francamente minime.

La Consob potrebbe avvalersi di un precedente, quello delle Assicurazioni Generali, per le quali a suo tempo il socio Benetton aveva presentato un'analoga lista di minoranza. Iniziativa che l'Autorità giudicò contrastante con la partecipazione dello stesso Benetton al capitale di Mediobanca, azionista di riferimento del colosso triestino. Pronuncia che spinse l'interessato a lasciar perdere. Ma proprio qui siamo al punto cruciale. In base alle norme vigenti la Consob ha certo una facoltà di "moral suasion" ma i suoi pareri restano in ogni caso non vincolanti per le parti in causa. Conclusione logica: gli abusi del capitalismo relazionale prosperano perché il potere politico, con le sue leggi, non si limita a tollerarli ma li incoraggia.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/limpotenza-della-consob/2164376/18


Titolo: Massimo RIVA. L'ultimo strappo del Cavaliere disperato
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 05:06:18 pm
L'analisi

L'ultimo strappo del Cavaliere disperato

di MASSIMO RIVA


LE INVETTIVE - perché di questo esattamente si tratta - che Silvio Berlusconi ha lanciato ieri contro l'euro non sono voci dal sen fuggite. E c'è poco, quindi, da tentare di ridimensionarle.

Palazzo Chigi ha denunciato in serata interpretazioni maliziose e distorte, ma è il solito stucchevole copione  di smentite tardive e bugiarde. Il fatto è che il Cavaliere, come gli è già capitato ormai decine e decine di altre volte, ha detto esattamente quello che  pensa in cuor suo, secondo quella visione grossolana e sostanzialmente incolta dei problemi che gli tocca di affrontare in qualità di presidente del Consiglio.

Denigrare l'euro come una moneta "strana perché attaccabile sui mercati" è una gaffe politica imperdonabile in una fase di estrema delicatezza come l'attuale. Proprio mentre il Paese è chiamato a fare sacrifici durissimi per salvare la propria economia, proprio mentre gli stati dell'Unione cercano in tutti i modi di salvare Eurolandia, il Cavaliere si sfoga contro la moneta unica che non "convince nessuno". Ma la sua  è molto peggio di una gaffe: significa non aver capito nulla né del ruolo della moneta unica nel processo di costruzione dell'Europa né degli enormi benefici che il nostro Paese ha tratto e potrà continuare a trarre dalla partecipazione a questa storica trasformazione del vecchio continente in una grande area di stabilità e di democrazia a vantaggio dell'intero pianeta. E non basta: significa non
possedere nemmeno gli elementi di conoscenza elementare per capire ciò che sta accadendo da mesi sui mercati finanziari.

Che senso ha, per esempio, parlare di moneta "strana perché attaccabile"? Ma dove ha vissuto finora il sedicente imprenditore di successo Berlusconi? Tutte le monete sono attaccabili dalla speculazione: la storia della lira, della sterlina, del franco e perfino del dollaro ne hanno dato ripetute dimostrazioni. Il fatto è che da qualche tempo ormai il Cavaliere dà chiari segni di aprire la bocca per dare sfogo ai suoi confusi malumori senza rendersi conto di pronunciare parole che - ahinoi - impegnano il presidente del Consiglio della Repubblica Italiana.

Sul piano intimistico si può anche comprendere che egli si senta infastidito o addirittura assediato dalle regole di disciplina imposte dalla partecipazione del nostro paese al condominio monetario europeo. Così come si può capirne la frustrazione di non sentirsi preso sul serio ormai in nessun consesso internazionale e perciò non resista all'impulso di rovesciare il tavolo ignorando anche le norme più elementari della correttezza politica. Ma egli ricopre la carica di capo del governo  e così coinvolge nelle nefaste conseguenze dei suoi malesseri il destino dell'intero paese.

Appena qualche giorno fa hanno suscitato inviperite reazioni di difesa patriottica gli umilianti sorrisi coi quali Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno commentato una domanda sull'affidabilità degli impegni berlusconiani. In realtà, ci è andata ancora bene.

Se in Europa dovessero prendere sul serio le parole pronunciate ieri dal Cavaliere contro l'euro, l'Italia rischia di essere lasciata da sola alla mercé dei mercati con il suo debito e tutti gli altri guai al seguito. Ancora una volta Berlusconi ha dimostrato che il suo ritiro dalla scena è la prima emergenza nazionale.

(29 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/29/news/strappo_berlusconi-24069752/?ref=HREA-1


Titolo: Massimo RIVA. - Assuefazione da spread
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 11:32:25 pm
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L'opinione

Assuefazione da spread

di Massimo Riva

(27 ottobre 2011)

Dimentichiamoci pure dei tempi d'oro nei quali i conti pubblici erano gestiti dalla mano maestra di Carlo Azeglio Ciampi. Allora il fatidico differenziale fra i nostri titoli del Tesoro e i "bund" tedeschi se ne stava pacificamente al di sotto dei 100 punti. Ma ancora nel pieno della passata primavera, quando il sisma della crisi greca era in piena attività, il livello era pur sempre lontano da quota 200. Tanto che nessuno si sognava di chiedere e neppure di immaginare interventi di sostegno sui mercati da parte della Banca centrale europea.

Poi sono arrivati gli improvvisi strappi al rialzo nel cuore dell'estate a fronte della manifesta incapacità di pronta risposta del governo Berlusconi agli attacchi speculativi sul mercato e ai conseguenti declassamenti del nostro debito pubblico da parte delle agenzie di "rating". In poche settimane lo "spread" è balzato oltre i 300 punti per superare nelle giornate peggiori perfino quota 400 a dispetto dei massicci acquisti di titoli italiani effettuati a partire da agosto dalla Bce. Nemmeno la manovra d'emergenza varata dopo il sostanziale commissariamento europeo del governo di Roma ha spento l'incendio. Ormai da qualche tempo quel decisivo differenziale si muove in altalena fra i 350 e i 400 punti.

I riflessi di questa situazione si stanno ampiamente manifestando sull'intero sistema finanziario. Sono saliti inesorabilmente i tassi d'interesse un po' in tutte le ultime aste dei titoli di nuova emissione, mentre i Btp decennali riescono a tenere sul mercato solo a condizione di offrire rendimenti prossimi al 6 per cento.
Ciò significa che si è messa in moto un'onda lunga che minaccia di far salire di non pochi punti percentuali quella montagna di denaro (già prossima agli 80 miliardi) che lo Stato italiano deve sborsare ogni anno ai finanziatori del suo debito.

Ma conseguenze non meno pesanti si stanno abbattendo sulle banche domestiche. Data la caduta delle quotazioni dei nostri titoli pubblici, infatti, gli istituti di credito si vedono costretti ad accrescere la quantità di obbligazioni che devono offrire in garanzia alla Banca centrale di Francoforte ogni volta che abbiano bisogno di ricorrere ai suoi finanziamenti. Cosicché i tassi d'interesse richiesti per i crediti alla clientela italiana sono tornati a crescere: con quale effetto sulla già scarsa propensione agli investimenti è facile arguire.

Ma l'aspetto più sorprendente (o meglio inquietante) di questo stato di cose è che ormai l'intero paese sembra essersi assuefatto all'idea di poter convivere con un simile grado di febbre finanziaria. Sì, talvolta, torna a manifestarsi un po' d'allarme quando il differenziale coi "bund" si riavvicina a quota 400. Ma basta che qualche giorno dopo si riabbassi di 20 o magari 30 punti e tutti si mettono tranquilli.
Tanto che la stessa parola "spread" scompare non solo dalla prima, ma anche dalle altre pagine dei giornali oltre che dai notiziari televisivi. Possibile che non ci si renda conto che anche solo 3 punti in più sui tassi d'interesse sono un dazio micidiale per il nostro debito? Sarà pure che questo stato ipnotico è figlio degli inganni che l'illusionista di Palazzo Chigi sparge a piene mani, ma che cosa aspetta il resto della cosiddetta classe dirigente per svegliarsi?

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/assuefazione-da-spread/2164828/18


Titolo: Massimo RIVA. 'Licenziare fa bene': che bufala
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2011, 11:37:13 pm
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Economia

'Licenziare fa bene': che bufala

di Massimo Riva

Il ministro Sacconi continua a vendere il mantra secondo cui rendere precari i lavoratori accrescerebbe la ricchezza collettiva.

Una teoria mai provata, che forse (forse) può funzionare in una fase di crescita, ma sarebbe devastante in queste condizioni

(07 novembre 2011)

Immaginare che rendendo più facili i licenziamenti si favoriscano maggiori assunzioni da parte delle imprese, come dice di voler fare la riforma minacciata dal governo Berlusconi, è un teorema tutto da dimostrare. Purtroppo, infatti, esso ricorda molto da vicino lo stesso fragile impianto logico di un'altra escogitazione del pensiero liberista: la cosiddetta curva di Laffer. Quella secondo cui una diminuzione delle imposte comporta necessariamente un aumento del gettito fiscale a favore dello Stato perché la minore esosità dell'Erario rende meno conveniente il ricorso a stratagemmi di evasione o elusione tributaria.

Finora nessun paese si è azzardato ad applicare la cura Laffer in termini tali da verificarne gli esiti effettivi.

Né i parziali esperimenti adottati in materia dall'amministrazione Reagan sono stati tali da portare a conclusioni positive. Tanto che un premio Nobel come Joseph Stiglitz si è sentito autorizzato a liquidare quella teoria come uno "scarabocchio su un qualunque pezzo di carta". Uno scarabocchio, tuttavia, che nelle sue pur limitate applicazioni americane ha prodotto conseguenze pesanti sulla distribuzione sociale delle risorse: in particolare, concentrando vieppiù le ricchezze nelle mani delle classi più agiate così spostando a danno dei ceti più poveri l'asse di equilibrio nel sostegno allo Stato fiscale.

Ha un bel dire il ministro Sacconi che la sua nuova disciplina per i licenziamenti non nasce da una visione punitiva nei confronti delle parti più deboli nei contratti di lavoro. Fatto sta che la sua riforma mette assieme una certezza giuridica per la parte relativa alla dismissione dei lavoratori con una scommessa economica del tutto aleatoria per quanto riguarda l'auspicato effetto di rendere altrettanto più facili le assunzioni. Cosicché la novità che egli propone appare come una sperimentazione il cui peso è destinato a ricadere, almeno negli anni iniziali, interamente sulle spalle dei lavoratori. Mentre alle imprese nulla si chiede, nell'astratta speranza che la facilitazione loro concessa possa indurle a disfarsi di un lavoratore per assumerne un altro, se e quando lo riterranno vantaggioso.

Se l'Italia attraversasse una fase di crescita economica quanto meno moderata e di minor pressione inflazionistica sui salari, l'idea di sottoporre il mercato del lavoro a un così drastico esperimento di torsione potrebbe forse apparire un po' meno feroce. Ma il nostro paese arranca, l'inflazione è in crescita, il debito incombe e la disoccupazione aumenta (ben sopra l'8 per cento) anche perché diminuisce il numero degli occupati a dimostrazione che per licenziare non c'è affatto bisogno degli incentivi sacconiani. A parte, quindi, ogni considerazione di merito specifico, la proposta del governo cade oltre tutto nel momento più sbagliato.

Evidentemente il ministro del Lavoro soffre di un serio problema di adattamento delle sue convinzioni ideologiche alla realtà. Già al suo esordio governativo, infatti, Sacconi si produsse nella brillante trovata di puntare sulla defiscalizzazione del lavoro straordinario in una fase nella quale le imprese facevano fatica a mantenere nei loro impianti il normale orario di lavoro.

Perseverare in simili errori - esasperandoli ora con ambigue profezie terroristiche - è segno di malizia politica coniugata a dilettantismo economico.

 
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Titolo: Massimo RIVA. Ici per tutti ma Chiesa compresa
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2011, 05:47:16 pm

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Ici per tutti ma Chiesa compresa

di Massimo Riva

Nessun Paese d'Europa si può permettere di togliere l'imposta sulla prima casa.

Inevitabili dunque che il governo Monti la debba reintrodurre.

Ma deve seguire i principi dell'equità sociale e cancellare le esenzioni per i beni ecclesiastici

(02 dicembre 2011)

Il mattone è il bene rifugio per eccellenza degli italiani. Forse non c'è paese al mondo che superi il nostro nella classifica dei proprietari della casa d'abitazione. Tanto che l'acquisto di quest'ultima resta la prima aspirazione di coloro che sono costretti a vivere in affitto. Sottrarre all'imposizione fiscale un bene patrimoniale così diffuso è un lusso che si può permettere soltanto l'erario di uno Stato particolarmente solido e ricco. Cosicché non c'è grande paese in Europa che preveda simile esenzione e neppure per la cosiddetta "prima casa" che, viceversa, gode da qualche anno in Italia di un trattamento preferenziale.

Questa specifica "anomalia" come l'ha definita il nuovo presidente del Consiglio, è stata introdotta in due fasi diverse. Dapprima dal governo Prodi con l'esclusione dal pagamento dell'Ici (Imposta comunale sugli immobili) delle prime case possedute da titolari di redditi medio-bassi. Poi dal governo Berlusconi con l'estensione dell'identico beneficio a tutti, indipendentemente dal livello dei redditi denunciati al Fisco. Unica eccezione le case classificate di lusso: una rarità statistica.

Che in un frangente così particolarmente drammatico per le finanze pubbliche il governo Monti intenda reintegrare in forma di Ici o consimile un prelievo generalizzato sulle proprietà immobiliari è del tutto logico e scontato. Uno dei vizi di fondo del nostro sistema tributario è quello di aver eccessivamente forzato la mano nel tempo sui redditi da lavoro e da impresa. Con effetti distorsivi sull'allocazione delle risorse, avendo provocato una caduta dei consumi con conseguente frenata degli investimenti e perciò anche dell'occupazione.

La via maestra per spezzare questa spirale negativa indica la necessità di spostare la pressione del Fisco dalle persone alle cose, dai redditi ai patrimoni. E la casa, per quanto ricordato sopra, si offre come il primo e più ovvio cespite al quale rivolgersi.

Essenziale, però, che in materia si proceda nel solco dei buoni principi dell'equità sociale: primo fra tutti, quello della progressività delle imposte, come indicato dalla Costituzione. Circolano al riguardo ipotesi francamente discutibili come quella di commisurare l'entità del prelievo a quella del reddito dichiarato dal contribuente. Avessimo in Italia un basso tasso di evasione fiscale, nulla da eccepire. Purtroppo, così non è: prendere a base della tassazione delle case la dichiarazione Irpef significherebbe aggravare ancora la discriminazione fra i contribuenti onesti e quelli che fanno i furbi. Altra è la via da seguire: realizzare la progressività commisurando il prelievo sui valori catastali delle case opportunamente riveduti. Opera certo di lunga lena. Ma se non la si comincia neppure stavolta l'esito sarà quello di aggravare le ingiustizie del nostro sistema fiscale.

Va soggiunta, in fine ma non per ultima, un'altra avvertenza al governo Monti per la nuova imposta che s'accinge a introdurre. Ci sono esenzioni all'Ici o a quel che sarà che gridano - è proprio il caso di dire - vendetta al Cielo: quelle riferibili a beni ecclesiastici, nei quali un sapiente mix di utilizzo fra culto e commercio consente spesso di estendere i legittimi benefici della prima attività anche alla seconda. Qui non si tratta di dividersi fra cattolici e no, semplicemente di essere giusti.

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Titolo: Massimo RIVA. Monti, metti mano alle banche
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2011, 11:22:00 am
Opinione

Monti, metti mano alle banche

di Massimo Riva

Va bene, in un momento come questo, che lo Stato si faccia garante delle loro passività. Ma in cambio dovrebbe imporre agli istituti un bella riforma contro gli intrecci pericolosi e per mettere fine a quelle dinamiche che hanno creato la crisi. Invece, niente

(12 dicembre 2011)

Fra i tanti che si lamentano per gli effetti della manovra Monti sulle proprie tasche di sicuro non possono esserci i banchieri. Va bene che dovranno imporre ai clienti un dazio più consistente sui depositi di titoli, ma al contempo gli istituti di credito incassano un beneficio straordinario quale la garanzia dello Stato sulle loro passività. Stabilisce, infatti, il decreto che il ministero dell'Economia è autorizzato fino al 30 giugno 2012 a diventare fideiussore dei debiti contratti dalle banche con scadenza da tre mesi fino a cinque anni ovvero, a partire dal primo gennaio prossimo, fino a sette anni per le obbligazioni emesse successivamente all'entrata in vigore del provvedimento. Il tutto a un costo contenuto entro l'uno per cento.

E' chiaro che non si tratta di una comoda regalia perché la mossa obbedisce soprattutto alla necessità di aiutare le banche a superare l'attuale momento difficile nella raccolta di fondi: diventato così critico da dare corpo allo spettro del "credit crunch" che avrebbe effetti devastanti per l'intera economia europea. Tanto che la questione era stata affrontata nel vertice Ue del 26 ottobre ma senza arrivare a conclusioni comuni se non quella di rinviare la palla ai singoli governi per soluzioni a livello nazionale. E proprio in questa logica, anziché stare a vedere che cosa avrebbero fatto gli altri, il nuovo governo italiano ha preso l'iniziativa e fatto la sua parte.

Che il fine dell'operazione sia buono e condivisibile non c'è dubbio. Di fronte a un mercato interbancario in progressivo inaridimento e perciò con costi di raccolta in costante aumento, un governo responsabile non poteva starsene con le mani in mano ad assistere al conseguente strangolamento dei finanziamenti alle imprese, soprattutto medie e piccole. Mario Monti ha perciò calato l'asso della garanzia di Stato e c'è da sperare che la sua mossa possa dare risultati significativi e diffusi sul sistema economico nel suo complesso. Sarà, del resto, la Banca d'Italia a monitorare il merito dei passivi sui quali lo Stato sarà chiamato a offrire la sua garanzia. Fin qui tutto bene.

Tuttavia, un contraccolpo implicito e non particolarmente entusiasmante di questa decisione è che così si farà crescere il debito pubblico. Secondo un elementare criterio contabile, infatti, chi concede una garanzia su impegni altrui non può evitare di registrarne il peso conseguente sul proprio bilancio. Poi, per carità, tutto andrà per il meglio perché con il sostegno della mano pubblica le banche terranno fede magari anche più agevolmente ai loro obblighi. Ma l'aggravio, per quanto temporaneo, sul debito pubblico resta un dato di fatto. A fronte del quale non si intravvede alcuna forma di contropartita e questo sì lascia dell'amaro in bocca.

La crisi finanziaria aveva rilanciato un bel dibattito sulla riforma del sistema creditizio riportando in auge temi come la separatezza fra banca e industria o l'antica e rassicurante distinzione fra istituti di credito ordinario e di credito speciale. E' increscioso dover constatare che una volta di più la pressione condizionante dello stato d'emergenza spinge a dover correre al soccorso di un'architettura del mercato bancario che continua a reggersi sugli stessi schemi in larga misura responsabili dei guai da cui nasce, appunto, lo stato d'emergenza. Qualche riforma mai?


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/monti-metti-mano-alle-banche/2168288/18


Titolo: Massimo RIVA. Conflitti di interessi, che paura
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2011, 06:31:47 pm
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La polemica

Conflitti di interessi, che paura

di Massimo Riva

Quello italiano è un capitalismo chiuso, feudale, protetto da incroci di potere che niente hanno a che fare con la concorrenza. Ma finora il governo si è mostrato molto timido nell'affrontare la questione

(15 dicembre 2011)

Alla guida del governo c'è oggi un uomo come Mario Monti che ha saputo ingaggiare (e vincere) memorabili battaglie antimonopolistiche nella sua qualità di commissario europeo alla concorrenza. Al suo fianco, come sottosegretario alla presidenza, il nuovo premier ha voluto chiamare Antonio Catricalà, che si è trasferito a Palazzo Chigi dal vertice dell'Autorità Antitrust: una scelta che è subito apparsa come un chiaro messaggio di specifico impegno sul fronte della lotta contro i troppi abusi di posizione che caratterizzano la struttura del potere economico domestico. E, infatti, il primo frutto del lavoro di questa singolare accoppiata è subito maturato nell'articolo 36 del decreto cosiddetto Salva- Italia.

Dice testualmente la nuova norma: "E' vietato ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti".

A prima vista, la soddisfazione è davvero grande. Finalmente qualcuno che prende per le corna uno dei vizi più odiosi del capitalismo italiano: quello dei ben calibrati incroci di poltrone che consentono di aggirare i sani principi della concorrenza riducendo l'economia di mercato al vuoto simulacro di se stessa.

Non si fa fatica a riconoscere nella stesura di questo testo di legge anche la mano di Catricalà. Giusto un paio d'anni fa, un'indagine condotta dall'Antitrust sotto la sua presidenza aveva messo in luce in materia una realtà sconvolgente: spulciando i nomi dei membri dei consigli d'amministrazione delle società quotate in Borsa era emerso che in quasi il 90 per cento dei casi vi erano cumuli di incarichi in imprese fra loro concorrenti.

Mettere la parola fine a questo malcostume è opera meritoria. Quel che si capisce francamente meno è perché il divieto sia limitato ai mercati di credito, assicurazioni e finanza. Forse che l'intreccio delle poltrone è meno pericoloso per il dispiegarsi della concorrenza nel settore industriale? Si dura fatica a crederlo.

Un'altra e ben più seria questione riguarda, però, quella particolare struttura tardo-feudale del capitalismo italiano che sta a monte degli scambi di poltrone e ne costituisce spesso il fonte battesimale.

Secondo la già citata indagine dell'Antitrust sotto la gestione Catricalà, ben il 60 per cento delle società quotate in Borsa ha nel proprio capitale azionisti che sono al tempo stesso concorrenti. Va bene, anzi benissimo cominciare con il divieto dei cumuli di incarichi. Ma poiché quest'ultimo potrebbe anche essere aggirato con il ricorso a professionisti prezzolati alla bisogna, occorre fare un altro passo avanti per spezzare il cerchio di un potere economico che - come ha certificato, appunto, Catricalà - si fonda su una diffusione tenace e pervasiva del conflitto d'interessi. Ovvero sul più micidiale ostacolo alla realizzazione di un'economia di mercato aperta alla leale e libera concorrenza.

Certo, opera non facile né spedita quella di imporre per legge lo scioglimento degli abusi in materia di incroci azionari fra concorrenti. Ma questo è il prossimo passo che è lecito attendersi dall'uomo che da Bruxelles ha saputo sfidare in materia i titani dell'economia americana e perfino la Casa Bianca.

 
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Titolo: Massimo RIVA. L'incredibile regalo alle banche
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2011, 07:04:33 pm
L'incredibile regalo alle banche

di Massimo Riva

Duemila miliardi di prestiti. A un tasso dell'1 per cento. Una decisione senza precedenti per volume di denaro e per condizioni di favore. Servirebbe per rilanciare l'economia. Ma non è accompagnata da nessuna misura per imporre agli istituti regole che impediscano nuovi tentativi di speculazione come quelli che hanno causato la crisi

(21 dicembre 2011)

La crisi del mercato creditizio deve essere molto grave. Non si spiegherebbe altrimenti la qualità e la quantità dei provvedimenti messi in campo in tutta fretta dai governi nazionali oltre che dalle autorità europee. In Italia, col decreto d'emergenza, si è deciso di concedere la garanzia dello Stato sulle obbligazioni che gli istituti emetteranno nei prossimi mesi per rimpinguare le loro casse. Una scelta pesante perché lo Stato non potrà non registrare l'onere di simili fideiussioni sul grande libro del debito pubblico.

In Europa si è fatto ancora di più. La banca centrale di Francoforte, infatti, offre fino a 2 mila miliardi di prestiti agli istituti dell'eurozona al tasso ufficiale vigente dell'uno per cento per una durata che può arrivare a 36 mesi. Il tutto accettando in garanzia vuoi titoli dei debiti sovrani (anche quelli più a rischio) vuoi obbligazioni emesse dalle banche medesime vuoi crediti adeguatamente cartolarizzati. Una decisione senza precedenti per volume di denaro e per condizioni di favore. Perciò l'unica spiegazione è che Mario Draghi e i suoi colleghi considerino la situazione davvero molto critica.

La storia, del resto, insegna che le banche - quando siano in seria difficoltà - dispongono di un oggettivo ed enorme potere di ricatto sull'intera filiera delle istituzioni politiche ed economiche. Il fallimento di un istituto di credito non secondario, infatti, ha conseguenze sistemiche pesantissime. Lo si è visto nel corso della depressione degli Anni Trenta del Novecento. Lo si è appena rivisto con il "default" di Lehman Brothers. Correre ai ripari per scongiurare il ripetersi di simili tragedie è, dunque, un imperativo categorico sia per le banche centrali sia per le autorità politiche.

Ciò non toglie che soprattutto la decisione di Francoforte costituisca un regalo davvero straordinario per i banchieri. Il conto è presto fatto: si prendono soldi all'1 per cento per tre anni dalla Bce e si comprano titoli di Stato italiani al 6 con pari scadenza da offrire in garanzia del prestito. Morale: si guadagna il 5 per cento senza correre rischio alcuno. A queste condizioni tutti saprebbero fare il banchiere, anche lo zio di Bonanni.

Si dice, però, che regalando alle banche questi profitti sicuri non si vuole soltanto evitare fallimenti a catena ma anche rimettere in moto il circuito virtuoso dei prestiti per nuovi investimenti produttivi. Questo scrupolo a favore del mondo delle imprese suona pregevole in una fase nella quale il rilancio della crescita è diventato anch'esso un imperativo categorico. Ma chi e come è in grado di asseverare che i maggiori profitti assicurati alle banche si tradurranno in finanziamenti all'economia reale?

Il recente "tsunami" finanziario è stato in larga misura provocato dalla spregiudicatezza con la quale molti banchieri hanno impiegato le loro risorse in spericolati azzardi su titoli tossici di varia natura. Autorità politiche e monetarie avevano promesso riforme epocali del sistema creditizio di cui però non s'è saputo più nulla. Il rischio che la storia delle speculazioni avventurose si ripeta rimane perciò intatto. Va ricordato che anche negli Anni Trenta governi e banche centrali corsero al soccorso degli istituti in crisi, ma ridisegnando l'architettura del mercato con nuove e più stringenti regole. Perché oggi no? La parola a Mario Draghi.

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Titolo: Massimo RIVA. - Lo stile Passera alla prova
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2012, 10:00:17 am
Opinione

Lo stile Passera alla prova

di Massimo Riva

(28 dicembre 2011)

Corrado Passera Corrado PasseraIl ministro Corrado Passera ha deciso di gestire in prima persona il complesso contenzioso che divide italiani e francesi sulla sorte della Edison, il secondo gruppo energetico nazionale. Non è la prima volta, del resto, che il potere politico interviene con tutto il suo peso in una vicenda che si trascina da anni in un'insostenibile situazione di conflitti permanenti tra le parti. Se i francesi del gigante pubblico Edf hanno usato e abusato con prepotenza dell'appoggio del proprio governo, non è che gli italiani per parte loro abbiano scherzato.

Non si può dimenticare, infatti, che in un frangente critico Roma ha fatto perfino ricorso a un decreto di sterilizzazione dei diritti di voto dei francesi nell'assemblea di Edison. Una mossa in patente contrasto con i principi fondamentali del diritto comunitario. Stavolta, però, nell'iniziativa di Passera ci sono delle novità.

Raggiunto dapprima il non facile traguardo di unire il fronte degli azionisti italiani attorno a un'unica proposta da offrire ai francesi, il ministro ha deciso di essere lui stesso il primo negoziatore di un possibile accordo, trattando direttamente con gli uomini di vertice dell'Edf. A questo punto, quindi, il risultato della partita sarà un successo o un insuccesso di Passera. C'è un salto di qualità in questa scelta che denota anche un certo coraggio personale nell'affrontare le sfide più difficili, ma soprattutto fa emergere un'idea di gestione del potere politico decisamente più pragmatica e interventista. Più da banchiere che da ministro nel senso tradizionale. Probabilmente è proprio a questo fine che Mario Monti, sorprendendo un po' tutti compreso il presidente della Repubblica, ha voluto chiamare un banchiere alla guida del ministero dello Sviluppo economico concentrando nelle sue mani anche la guida dei dicasteri di Infrastrutture e Trasporti. Ora, tuttavia, si tratta di vedere come verrà declinato quello che si potrebbe chiamare "stile Passera" nell'ampia gamma di dossier che sono sul tappeto, al di là della specifica vicenda Edison. Sempre coi francesi, per esempio, è in sospeso un'altra questione di non poco peso come quella del loro ruolo nel futuro di Alitalia, dove Air France è presente con una partecipazione di minoranza e però cospicua.

Che la nostra compagnia di bandiera possa sopravvivere in solitaria autonomia è un miraggio a cui nessuno crede. Tanto più perché la crisi generale sta accrescendo le difficoltà del trasporto aereo un po' dappertutto e, per giunta, Alitalia sta per perdere quella riserva d'ossigeno privilegiata che le era stata impropriamente regalata con il monopolio del traffico sulla lucrosa rotta Milano-Roma. A suo tempo, proprio Passera è stato da banchiere il principale protagonista dell'operazione di salvataggio della compagnia attraverso la variopinta compagnia azionaria dei Colaninno & C. A breve il dossier finirà per tornare sulla sua scrivania, ma di ministro anziché di banchiere, in una sovrapposizione di ruoli, presente e passato, non propriamente limpida. Sarà questo il banco di prova decisivo sul quale misurare non solo l'efficacia ma anche la legittimità dello stile Passera.

     
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lo-stile-passera-alla-prova/2170206/18


Titolo: Massimo RIVA. Conflitti di interessi, che paura
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2012, 10:20:28 pm
La polemica

Conflitti di interessi, che paura

di Massimo Riva

Quello italiano è un capitalismo chiuso, feudale, protetto da incroci di potere che niente hanno a che fare con la concorrenza. Ma finora il governo si è mostrato molto timido nell'affrontare la questione

(15 dicembre 2011)

Alla guida del governo c'è oggi un uomo come Mario Monti che ha saputo ingaggiare (e vincere) memorabili battaglie antimonopolistiche nella sua qualità di commissario europeo alla concorrenza. Al suo fianco, come sottosegretario alla presidenza, il nuovo premier ha voluto chiamare Antonio Catricalà, che si è trasferito a Palazzo Chigi dal vertice dell'Autorità Antitrust: una scelta che è subito apparsa come un chiaro messaggio di specifico impegno sul fronte della lotta contro i troppi abusi di posizione che caratterizzano la struttura del potere economico domestico. E, infatti, il primo frutto del lavoro di questa singolare accoppiata è subito maturato nell'articolo 36 del decreto cosiddetto Salva- Italia.

Dice testualmente la nuova norma: "E' vietato ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti".

A prima vista, la soddisfazione è davvero grande. Finalmente qualcuno che prende per le corna uno dei vizi più odiosi del capitalismo italiano: quello dei ben calibrati incroci di poltrone che consentono di aggirare i sani principi della concorrenza riducendo l'economia di mercato al vuoto simulacro di se stessa.

Non si fa fatica a riconoscere nella stesura di questo testo di legge anche la mano di Catricalà. Giusto un paio d'anni fa, un'indagine condotta dall'Antitrust sotto la sua presidenza aveva messo in luce in materia una realtà sconvolgente: spulciando i nomi dei membri dei consigli d'amministrazione delle società quotate in Borsa era emerso che in quasi il 90 per cento dei casi vi erano cumuli di incarichi in imprese fra loro concorrenti.

Mettere la parola fine a questo malcostume è opera meritoria. Quel che si capisce francamente meno è perché il divieto sia limitato ai mercati di credito, assicurazioni e finanza. Forse che l'intreccio delle poltrone è meno pericoloso per il dispiegarsi della concorrenza nel settore industriale? Si dura fatica a crederlo.

Un'altra e ben più seria questione riguarda, però, quella particolare struttura tardo-feudale del capitalismo italiano che sta a monte degli scambi di poltrone e ne costituisce spesso il fonte battesimale.

Secondo la già citata indagine dell'Antitrust sotto la gestione Catricalà, ben il 60 per cento delle società quotate in Borsa ha nel proprio capitale azionisti che sono al tempo stesso concorrenti. Va bene, anzi benissimo cominciare con il divieto dei cumuli di incarichi. Ma poiché quest'ultimo potrebbe anche essere aggirato con il ricorso a professionisti prezzolati alla bisogna, occorre fare un altro passo avanti per spezzare il cerchio di un potere economico che - come ha certificato, appunto, Catricalà - si fonda su una diffusione tenace e pervasiva del conflitto d'interessi. Ovvero sul più micidiale ostacolo alla realizzazione di un'economia di mercato aperta alla leale e libera concorrenza.

Certo, opera non facile né spedita quella di imporre per legge lo scioglimento degli abusi in materia di incroci azionari fra concorrenti. Ma questo è il prossimo passo che è lecito attendersi dall'uomo che da Bruxelles ha saputo sfidare in materia i titani dell'economia americana e perfino la Casa Bianca.


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Titolo: Massimo RIVA. Fondazioni col fiato corto
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2012, 05:05:27 pm
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Opinioni

Fondazioni col fiato corto

di Massimo Riva

(04 gennaio 2012)

E' stata una fine d'anno amara per i cassettisti di Piazza degli Affari. Chi possedeva azioni all'inizio del 2011 registra mediamente una perdita di valore del 25 per cento. Ben peggio è andata per chi aveva e ha in portafoglio titoli delle banche: il settore del credito è quello che ha registrato le cadute più pronunciate, toccando in qualche caso minimi storici assoluti. Una situazione pesante che sta creando seri problemi a una particolare categoria di azionisti del credito: le Fondazioni di origine bancaria, per le quali anche il 2012 non si apre sotto i migliori auspici.
Alle viste, infatti, ci sono prospettive e scadenze davvero stringenti. Da un lato, c'è poco da sperare che, con gli attuali chiari di luna, le banche possano distribuire i lauti dividendi del passato. Dall'altro lato, è sul tappeto per molti e importanti istituti di credito la necessità di mandare in porto congrui aumenti di capitale per adeguarsi alle regole stabilite a livello europeo.

Sul piano formale gli amministratori delle fondazioni possono far finta di non registrare nei rispettivi bilanci le disfatte patrimoniali subite in Borsa. Un decreto reiterato nel luglio scorso consente loro di non svalutare le partecipazioni azionarie detenute qualora ritengano transitoria la perdita di valore intervenuta. E' sul piano sostanziale che la questione non appare aggirabile e pone questi enti dinanzi a un non facile dilemma.
In pratica: o le fondazioni sottoscrivono gli aumenti di capitale delle banche partecipate oppure decidono di diluire la loro presenza nel capitale delle medesime, lasciando spazio (e potere) ad altri azionisti. Nel recente passato la scelta prevalente è stata la prima. Talora con qualche decisione azzardata come quella, per esempio, della fondazione di Siena che, pur di non rinunciare al pieno controllo del Monti dei Paschi, ha raccolto a debito il denaro necessario per ricapitalizzare pro quota la banca. Un genere di soluzione che nell'attuale condizione dei mercati finanziari non appare ripetibile, anzi.

Dai movimenti in corso si arguisce che almeno le fondazioni azioniste di alcuni fra i maggiori istituti (Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte Paschi) sarebbero sì orientate a sottoscrivere le loro quote di nuovo capitale ma operando qualche più o meno significativa limatura delle rispettive partecipazioni. Una scelta di compromesso che viene incontro alle autorevoli sollecitazioni della stessa Banca d'Italia dietro le quali traspare un preciso timore coltivato in Via Nazionale. Quello che una ritirata azionaria delle fondazioni possa rendere inevitabile l'ingresso nelle maggiori banche del paese di altri capitali: oggi realisticamente più esteri che italiani, con il conseguente rischio di vedere trasmigrare oltre i confini il controllo di alcuni istituti primari.

Non si tratta di una preoccupazione fuori luogo: le banche costituiscono il sistema arterioso del corpo economico nazionale e, in effetti, l'ipotesi che il flusso del sangue creditizio possa essere manipolato dall'esterno risulta strategicamente temibile. Resta da chiedersi quanto possa mostrarsi solida nel tempo la strategia di caricare una così impegnativa funzione "patriottica" sulle spalle di enti dall'avvenire economico incerto, dalla struttura a metà autoreferenziale e, per l'altra metà, esposta a infiltrazioni di bassa cucina politica locale.

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Titolo: Massimo RIVA. L'euro è come un calabrone
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 05:02:38 pm
Opinione

L'euro è come un calabrone

di Massimo Riva

(12 gennaio 2012)

Negli anni l'euro ha registrato verso il dollaro oscillazioni molto vistose: da un minimo storico a livello 0,82 a un picco massimo attorno a quota 1,50. Nell'un caso come nell'altro i profeti di sventura sul destino della moneta europea hanno sfoderato una quantità di argomenti, talora anche contraddittori, per giungere comunque a un'univoca conclusione: l'euro non può avere lunga vita.

Nelle fasi di caduta della moneta europea si spiegava che un valore così basso nei confronti della valuta americana poteva anche avvantaggiare le esportazioni dei paesi del vecchio continente, ma mai e poi mai avrebbe consentito all'euro di imporsi come mezzo di pagamento negli scambi internazionali. Nei momenti di rivalutazione i termini del ragionamento venivano prontamente aggiornati ma sempre a sostegno della tesi liquidatoria: un euro troppo forte avrebbe schiantato le esportazioni dei beni "made in Europe" e le economie sottostanti rendendo perciò insostenibile il progetto di una moneta unica per l'area commercialmente più ricca del mondo.

Ma come il calabrone a dispetto delle leggi dell'aerodinamica, così anche l'euro ha continuato a volare all'insù e all'ingiù facendo pi? bene che male ai retrostanti sistemi economici. In particolare, ha offerto ai suoi sottoscrittori il beneficio di una stabilit? monetaria intraeuropea facendo uscire buona parte del vecchio continente da quella pratica delle svalutazioni competitive che alla lunga avrebbe finito per minare alle radici ogni progetto di reale integrazione europea.

Altro importante vantaggio offerto dall'euro è stato quello di garantire bassi tassi d'interesse a tutti i soci, anche ai paesi meno meritevoli di affidabilit? finanziaria. Ed ? su questo terreno che è scattata la trappola micidiale: anzich? cogliere simile opportunit? per rimettere ordine nei rispettivi bilanci, alcuni governi nazionali - quelli berlusconiani in Italia, per esempio - hanno lasciato crescere il proprio debito pubblico senza freni fidando appunto nel suo minore costo di finanziamento. Una cuccagna che non poteva durare e che ora mette a nudo i veri punti deboli della moneta unica, di natura più politica che economica.

Essi riguardano, infatti, non l'architettura della moneta unica - che rappresenta tuttora un presidio irrinunciabile per gli interessi economici dei paesi associati - ma l'incompiutezza della costruzione politico-istituzionale di sostegno. Su due fronti, in particolare. Primo, quello di una banca centrale privata del regolare potere principesco di stampare moneta. Secondo, quello di un'autorità politica comunitaria in grado di amalgamare e far convergere le strategie fiscali dei singoli stati.

Sotto questo profilo quanto sta accadendo sembra poter dare ragione oggi ai più intransigenti scettici sulla sorte dell'euro: quelli secondo cui l'errore capitale consisterebbe nell'aver perseguito l'unione europea partendo dalla moneta anziché dall'integrazione politica dei poteri statali. Tesi seducente, se non fosse che i contrasti fra governi deflagrati con la crisi in atto indicano che oggi quella di una maggiore cooperazione politica più che la via d'uscita è il vero problema. Alla cui soluzione, paradossalmente, può dare lo sprone decisivo proprio l'esistenza dell'euro-calabrone a causa dei costi enormi che la sua caduta comporterebbe per tutti.

 
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Titolo: Massimo RIVA. Ma in Borsa i potenti ridono
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2012, 12:05:08 am
Ma in Borsa i potenti ridono

di Massimo Riva

Speculazioni sui titoli bancari. Salvataggi a spese altrui delle famiglie di notabili.

Mentre Marchionne se ne infischia della Consob.

Altro che trasparenza dei mercati: viene da pensare che invece ci sia connivenza con i grandi manovratori

(19 gennaio 2012)

Ma la Consob da che parte sta? Quella da cui dovrebbe stare è perfino ovvio: dalla parte del mercato ovvero di quell'articolata schiera di soggetti che lo compongono offrendo loro pronta e occhiuta difesa dai tanti manigoldi o anche soltanto prevaricatori che animano le cronache di Borsa. Purtroppo, la nostra autorità di vigilanza sui commerci azionari non vanta in materia ottime credenziali. Il tacito ossequio alle manovre dei potenti di turno è stata la prevalente regola di comportamento, il più delle volte a spese di quella moltitudine di azionisti minori la cui presenza è però essenziale per definire mercato quello che si svolge a Piazza degli Affari.

La gestione Consob di Giuseppe Vegas ha avuto di recente qualche lampo che ha fatto sperare in un mutamento di rotta rispetto a un simile passato. Per esempio, quando ha fatto partire per Torino una secca richiesta di chiarimenti su quel fantomatico piano "Fabbrica Italia" di cui Sergio Marchionne parlava e straparlava in continuazione ma sempre ben guardandosi dal precisarne tempi e contenuti. Vista la disordinata altalena del titolo Fiat in Borsa, anche in conseguenza degli annunci declamati dal suo amministratore delegato, l'iniziativa della Consob risultava non solo pertinente ma anche opportunamente orientata a rendere meno opaca la sollecitazione al pubblico risparmio implicita nella quotazione dei titoli della casa torinese.

La mossa non ha avuto esito felice perché ha raccolto una risposta sprezzante e infastidita da parte di Marchionne con un implicito invito alla Consob a non impicciarsi di simili questioni. Anziché insistere, come avrebbero dovuto, Vegas e colleghi si sono ritirati in buon ordine. E da quel momento sono caduti in una sorta di afasia almeno in pubblico. E sì che da allora in Borsa se ne sono viste davvero di tutti i colori. I titoli del comparto bancario, per esempio, sono stati e sono tuttora al centro di massicce compravendite che in alcuni casi - segnatamente quello di Unicredit - hanno sollevato fieri dubbi su manovre pilotate in forme del tutto prive di minima trasparenza.

E non basta: a tutt'oggi la nebbia più fitta grava sulla sorte riservata alla massa degli azionisti minori da quei protagonisti bancari e assicurativi che si stanno disputando le spoglie di quello che un tempo era chiamato l'impero Ligresti. Di chiaro c'è soltanto che la famiglia dell'imprenditore siciliano riuscirà comunque a salvarsi con una ricca buonuscita, mentre nulla si sa su quel che potranno ricavare tutti gli altri e più deboli soggetti coinvolti.

Certo, è del tutto improbabile che alla Consob si stia assistendo a queste ed altre vicende a braccia conserte. Anzi si può star certi che Vegas e i suoi uomini seguono gli sviluppi di questi affari monitorando le mosse dei protagonisti e sollecitando da loro opportune informazioni. Ma è proprio da questo che nasce l'interrogativo su da che parte stia la Consob. Il principio essenziale della trasparenza del mercato non può esaurirsi all'interno di un rapporto riservato fra attori degli affari e autorità di vigilanza. Tocca a quest'ultima renderlo effettivo rendendo tempestivamente partecipe il mercato dei risultati delle sue iniziative di controllo. Altrimenti i suoi silenzi non potranno che legittimare l'antico dubbio di un'inconfessabile connivenza con i grandi manovratori.

 
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Titolo: Massimo RIVA. Sì, in banca serve una legge
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2012, 11:36:16 pm
Economia

Sì, in banca serve una legge

di Massimo Riva

Non si tratta di 'far piangere' i finanzieri.

Ma di impedire che agli sportelli raccolgano gli spiccioli dei risparmiatori e al trentesimo piano li dirottino in speculazioni e titoli tossici.

Che poi sono quelli che hanno innescato la crisi

(31 gennaio 2012)

Ha lasciato l'amaro in bocca a molti il trattamento riservato alle banche nel decreto sulle liberalizzazioni. Sì, qualcosa c'è come, per esempio, il limite ai costi del bancomat ovvero l'obbligo a prevedere conti correnti con spese all'osso. Ma si voleva molto di più. Soprattutto dalla sinistra dello schieramento politico oltre che dal versante leghista sono partite bordate contro il governo Monti accusato di essere succube strumento del potere bancario. Che esista un diffuso malumore in materia è comprensibile alla luce dei guasti che si sono verificati nel mondo bancario e dei loro pesanti riflessi sull'intera economia: senza lo tsunami finanziario innescato dalle allegre speculazioni di molti banchieri strapagati probabilmente non sarebbe esplosa neppure la grande crisi dei debiti sovrani.

Ma lascia parecchio sconcertati l'idea che il decreto sulle liberalizzazioni dovesse essere l'occasione per procedere a chissà quali sanzioni (pecuniarie?) nei confronti dello strapotere bancario. Una simile impostazione del problema rivela l'incredibile miseria di visione concettuale da parte di quei politici che tuonano contro le banche e però non sanno andare aldilà di richieste dall'imbelle sapore punitivo. Già è stato penoso, i mesi scorsi, assistere a una destra che pensava di rianimare il mercato del credito con la mobilitazione dei prefetti, ora non lo è di meno lo spettacolo di una sinistra che contesta con rivendicazioni riassumibili nello slogan: anche i banchieri piangano.

Innanzi tutto va chiarito che i problemi posti dalla crisi finanziaria in atto riguardano solo in parte esigenze di liberalizzazione nel senso di promuovere una maggiore ed effettiva concorrenza nel sistema bancario: compito che l'Antitrust potrebbe già svolgere oggi senza novità legislative. Il nodo cruciale è piuttosto quello di modificare dalle radici l'ordinamento del sistema e non tanto con più regole quanto attraverso una disciplina della funzione creditizia nuova o, per meglio dire, ispirata ai vecchi criteri che nel Novecento hanno consentito un po' dappertutto di far svolgere alle banche il loro compito senza strappi né tragedie.

Si tratta - ecco il punto cui dovrebbero guardare forze politiche degne di questo nome - di ripensare a quanto accaduto durante la grave crisi degli Anni Trenta, quando dall'America di Roosevelt all'Italia di Mussolini si trovò il coraggio di riformare il mercato bancario stabilendo una ferrea distinzione fra esercizio del credito ordinario e speciale. Occorre, insomma, destrutturare quegli enormi falansteri che si nascondono dietro la soave definizione di banca universale, dove al pianterreno si raccolgono gli spiccioli dei depositanti e al trentesimo piano li si dirotta in speculazioni su derivati e titoli tossici di vario azzardo.

In buona sostanza si tratta di cancellare gli effetti di quella deregolamentazione che dagli anni Ottanta in poi ha fatto cadere il sistema di quei muri antincendio - sia fra banche e assicurazioni sia fra le diverse qualità di credito - che per mezzo secolo hanno scongiurato crisi ingovernabili. Vere e profonde riforme, dunque, e non comodi slogan di piazza: ecco il terreno sul quale si vorrebbe vedere all'opera soprattutto una sinistra che ama, appunto, chiamarsi riformista. Ecco qualcosa di serio da reclamare dal governo Monti.


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Titolo: Massimo RIVA. Monti succube di Confindustria
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2012, 05:05:20 pm
Opinione

Monti succube di Confindustria

di Massimo Riva

Per provare a uscire dalla recessione c'erano due strade. Una era quella aumentare il potere d'acquisto dei lavoratori per rilanciare i consumi. L'altra, quella di attirare gli investimenti riducendo le tutele ai dipendenti. Il governo ha scelto la seconda. Mostrando di essere più liberista che liberale

(14 febbraio 2012)

Un grande maestro della dottrina economica, Adam Smith, diceva che quando l'offerta di lavoro è alta altrettanto forte è il potere delle organizzazioni sindacali. Il rovescio della medaglia è che se aumenta l'esercito di riserva della manodopera diventano più deboli peso e ruolo delle rappresentanze dei lavoratori. Non si può capire fino in fondo il senso dello scontro in atto oggi sul fatidico articolo 18 (licenziamenti immotivati o discriminatori) se non lo si legge anche come effetto del mutato rapporto di forze tra offerta e domanda di lavoro.

Anche qualche anno fa Confindustria era all'attacco su questa norma con il compiaciuto sostegno del governo Berlusconi. Ma i 3 milioni di manifestanti raccolti in piazza da Sergio Cofferati e una congiuntura economica meno pesante dell'attuale avevano consigliato una rapida ritirata. Ora il clima economico e sociale è molto cambiato (l'emorragia di posti di lavoro si somma alla precarietà di molti impieghi) e la richiesta di manomettere le garanzie previste dall'articolo 18 è tornata di prepotente attualità. I datori di lavoro intendono sfruttare la serrata degli investimenti per trasformarla in un loro punto di forza in un braccio di ferro che non riguardo solo la quantità dei salari ma anche i diritti dei lavoratori.

Quella lotta di classe - che molti (chissà poi perché?) consideravano morta e sepolta dopo la caduta del muro di Berlino - torna così ad affacciarsi in campo aperto. In termini anche piuttosto acuti in un paese che, negli ultimi anni, ha visto crescere al suo interno le disuguaglianze economiche al punto da far diventare l'impoverimento del potere d'acquisto dei lavoratori forse la principale causa interna della caduta dei consumi e perciò degli investimenti con effetti recessivi sulla crescita del prodotto interno lordo.

In simile frangente ci si poteva aspettare che un governo composto da rinomati studiosi di cose economiche intervenisse nello squilibrato rapporto fra domanda e offerta di lavoro in senso anticiclico. Ovvero non favorendo ulteriormente il prepotere della seconda contro la prima. Così, però, non sta accadendo perché il governo Monti subendo di fatto l'offensiva confindustriale contro l'articolo 18 si mostra orientato a compiere una scelta di campo senz'altro più liberista che liberale. Non va dimenticato, infatti, che la norma in discussione dispone garanzie giurisdizionali per il cittadino che venga allontanato dal lavoro senza giustificato motivo o, peggio ancora, per discriminazione magari politica o sindacale. Trattasi, dunque, di tutela di un diritto che fa tutt'uno con l'impianto di una classica democrazia liberale.

Quando il presidente del Consiglio spiega che l'attuale articolo 18 ostacola la crescita fa un'affermazione grave di incompatibilità fra economia e diritti. Perché è come se dicesse che o si concedono alle imprese mani libere sui licenziamenti oppure non ci saranno né investimenti né nuove assunzioni: giudizio davvero pesante sulla natura da padroni delle ferriere dei sedicenti moderni imprenditori italiani. Che il modello Marchionne abbia dilagato da Pomigliano a Mirafiori negli stabilimenti Fiat è ormai un dato di fatto dal quale, per altro, non sono scaturiti chissà quali investimenti. Suscita perciò non pochi interrogativi che esso possa diventare una bussola anche per Palazzo Chigi.

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Titolo: Massimo RIVA. L'Alitalia è ancora una farsa
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2012, 12:22:54 pm
La denuncia

L'Alitalia è ancora una farsa

di Massimo Riva

Tre anni e mezzo dopo il 'salvataggio' (costato tre miliardi ai contribuenti) la compagnia è sempre in rosso, il suo amministratore delegato se la dà a gambe levate, la concorrenza sul Milano-Roma resta impedita per legge e Passera fa orecchie da mercante

(16 febbraio 2012)

Dopo aver trascorso tre anni e mezzo di vana rincorsa all'utile, Rocco Sabelli lascia la guida di Alitalia senza aver raggiunto nemmeno il pareggio di bilancio. Ovvero quello che era stato promesso come obiettivo minimo dalla variopinta compagnia di "salvatori della Patria" arruolata da Roberto Colaninno per compiacere l'ingannevole patriottismo aeronautico di Silvio Berlusconi. Come considerare questa uscita di Sabelli? Si tratta di una fuga dai guai oppure di un atto conseguente all'insuccesso della sua gestione? Purtroppo, tutto fa propendere per la prima ipotesi. Il salvataggio berlusconiano di Alitalia è nato come una trovata propagandistica priva di qualunque seria prospettiva economica e il tempo galantuomo ne sta già dimostrando la misera consistenza di cartapesta.

E' grottesco perciò che Sabelli voglia dipingersi un'aureola attorno al capo definendo "massacranti" i lunghi mesi da lui trascorsi al vertice di Alitalia. Eh no! In questa storia di autentici massacrati ci sono soltanto i contribuenti che, per consentire al duo Berlusconi-Colaninno insieme alla banca Intesa Sanpaolo allora di Corrado Passera di fare questo scombinato esperimento, si sono dovuti caricare sulle spalle un fardello di circa 3 miliardi di oneri vari. Un bidone davvero inconcepibile dato che, ancora a primavera 2008, Air France era pronta a caricarsi tutti i pesi di Alitalia e perfino a versare un bel miliardo tondo al Tesoro.

Ma un altro, non meno grave, massacro è quello che i sedicenti patrioti di Alitalia hanno compiuto in tema di regole. Per facilitare il decollo della nuova impresa tricolore, infatti, il governo Berlusconi con legge specifica ha legato per tre anni le mani all'Antitrust al fine di garantire alla nuova compagnia il monopolio dei voli sulla rotta Fiumicino-Linate, che è la più remunerativa dell'intera rete. Pessimo ma inutile espediente perché neppure questa posizione di rendita (a tutto scapito dei viaggiatori) è stata evidentemente in grado di portare in utile il bilancio. Figuriamoci, quindi, che cosa potrà accadere d'ora in poi dato che i termini temporali del privilegio sono scaduti.

In un paese normale, oggi per giunta guidato da un governo liberalizzatore, ci si dovrebbe aspettare che il monopolio aereo Milano-Roma sia dichiarato morto e sepolto senza indugi. Ma così non pare che si voglia fare. L'Antitrust ha preso tempo accampando la ridicola scusa di dover fare un'indagine per verificare se sulla lucrosa rotta ci sia effettivamente un monopolio di Alitalia.

Mentre il ministro Passera - già mentore bancario del funesto progetto patriottico - ha cominciato con l'obiettare che la concorrenza sulla fatidica tratta sarebbe oggi garantita dalla presenza dei treni ad alta velocità. Una sortita grottesca - la vera concorrenza, signor ministro, si misura sulle pari opportunità del medesimo servizio di trasporto sugli stessi terminali - che fa temere un accanimento terapeutico su Alitalia il cui scopo altro non potrebbe essere se non quello di rinviare la resa dei conti con l'errore commesso fin dal principio.

A un presidente del Consiglio, che ha giustamente meritato fama e onori in Europa per le sue indomite battaglie antimonopolistiche perfino contro i colossi d'oltre Atlantico, è lecito chiedere che ponga subito fine a una farsa che contribuenti e viaggiatori sono stufi di finanziare.

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Titolo: Massimo RIVA. Quanti errori, mr Marchionne
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2012, 05:11:26 pm
Quanti errori, mr Marchionne

di Massimo Riva

Prima della crisi, Volkswagen e Fiat stavano più o meno nelle stesse condizioni.

Poi hanno scelto strade diverse: i tedeschi investendo su nuovi modelli, il Lingotto tagliando i costi e scappando in America.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti

(05 marzo 2012)

C'erano una volta in Europa due grandi aziende automobilistiche che facevano la parte del leone soprattutto sul mercato delle vetture più popolari. La prima, tedesca, a prevalente controllo pubblico. La seconda, italiana, privata - anzi, privatissima perché sotto la guida azionaria di una singola famiglia - ma che non disdegnava aiuti pubblici sotto ogni forma, diretta o indiretta. La crisi economica più recente, esplosa nel 2008, ha messo entrambe in serie difficoltà per la robusta caduta della domanda di automobili.

I dirigenti dell'una e dell'altra sono stati costretti a darsi parecchio da fare per evitare grossi guai e però seguendo percorsi assai diversi. I tedeschi hanno scelto di accrescere i loro investimenti, puntando tutto sul versante dell'offerta sul mercato di modelli nuovi o comunque rinnovati. Gli italiani hanno preso la strada opposta, tagliando sia gli investimenti sia l'offerta. E quando l'incubo di un fallimento pareva fin troppo vicino hanno fatto la brillante trovata di uscire dai confini dell'Europa per andare negli Usa a salvare - con il sostanzioso contributo del governo di Washington - la Chrysler e insieme a essa quel che restava del capitale della famiglia Agnelli.

La mossa americana si è rivelata anche rapidamente vincente ma ha comportato il danno collaterale di un semiabbandono dei mercati europei e di quello italiano in particolare. Scelta giustificata col fatto che, mentre negli Usa la domanda di automobili apriva buone prospettive di vendite, nel vecchio continente il calo degli acquirenti rendeva inutile l'impegno a offrire nuovi prodotti sul mercato. Cosicché, senza volerlo, la ritirata del gruppo italiano ha creato condizioni ancora più favorevoli al successo della strategia dei tedeschi che hanno prepotentemente allargato le loro quote di mercato tanto in Europa che altrove nel mondo.

Il risultato di questi percorsi divergenti è oggi sotto gli occhi di tutti. La tedesca Volkswagen ha annunciato un preconsuntivo 2011 con un utile di 16 miliardi pari a circa il 10 per cento del fatturato: un record straordinario. Mentre la Fiat, pur potendosi gloriare del successo americano, è costretta a definire essa stessa un peso morto la sua presenza produttiva soprattutto in Italia. Tanto che il suo boss, Sergio Marchionne, si è spinto a dichiarare che o si riusciranno a vendere negli Usa molte vetture prodotte in Italia oppure egli si vedrà costretto a chiudere almeno due dei cinque impianti ancora semiaperti nel paese. Annuncio sorprendente perché riporta al nodo cruciale dei modelli di auto. L'unica e reale novità Fiat che esce ora dagli stabilimenti italiani è la Panda allestita a Pomigliano. Davvero Marchionne immagina di invadere il mercato Usa con la Panda? Avrebbe fatto più presto a dire che la Fiat intende ritirarsi dall'Italia per concentrarsi negli Usa, come in fondo sognava già di fare l'avvocato Agnelli.

Ma poiché Fiat e produzione d'auto sono in Italia la stessa cosa ciò significa che il paese rischia di perdere presto un'industria manifatturiera di peso, non solo occupazionale, assai rilevante. La morale della favola è che forse il premier Monti farebbe bene a correre in Germania per chiedere a Herr Piech, il lungimirante capo di Vw, che cosa gli serve per aprire qualche stabilimento a casa nostra. Le paghe tedesche, oltre tutto, sono il doppio di quelle italiane.

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Titolo: Massimo RIVA. Riti e misteri confindustriali
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2012, 12:19:40 pm

Opinioni

Riti e misteri confindustriali

di Massimo Riva

(08 marzo 2012)

La guerra di successione al vertice di Confindustria è alle battute finali. Il 22 marzo i cosiddetti saggi, incaricati di esplorare gli umori della base, riferiranno il risultato dei loro sondaggi alla giunta dell'associazione che sceglierà il nuovo presidente. In gara sono rimasti ormai soltanto Alberto Bombassei della Brembo e Giorgio Squinzi della Mapei, due padri-padroni di aziende che hanno saputo gestire con successo anche in questa fase economica critica.

Inutile attardarsi in previsioni sullo scarto numerico fra le due candidature perché, allo stato, i sostenitori dell'uno e dell'altro sono convinti - o fanno finta di crederlo - che il proprio beniamino abbia già la vittoria in tasca. Forse è più interessante cercare di capire quali siano le differenze più significative fra i programmi che i due aspiranti hanno illustrato ai loro colleghi-elettori. Anche perché è proprio su questo terreno che emergono un paio di sorprese davvero singolari.

A parte qualche criptica diversità d'accento sulla riforma organizzativa di Confindustria, infatti, il tema cruciale sul quale Bombassei e Squinzi si muovono in senso opposto è niente meno che la spinosissima questione dell'articolo 18 sui licenziamenti. In continuità con la posizione tenuta finora dalla presidente uscente, Emma Marcegaglia, l'uomo della Brembo ha sposato la linea dura: intesa coi sindacati o no, quella norma va tolta di mezzo. L'uomo della Mapei, in sintonia con un vasto mondo di piccoli e medi imprenditori, ritiene viceversa che quello del fatidico articolo 18 sia l'ultimo dei problemi sui quali valga la pena di impegnare Confindustria in battaglia. Così portando in piena luce un'eresia negazionista che rischia di aprire nel fronte imprenditoriale una rottura di non facile gestione su uno dei temi più caldi del momento.

Ma rende ancora più imperscrutabile la situazione in Confindustria una seconda sorpresa: quella che nasce dall'analisi delle preferenze pubblicamente espresse da alcuni autorevoli elettori. Se si usa proprio il nodo dell'art. 18 come una sorta di cartina di tornasole, infatti, emergono stravaganti contraddizioni. Si assiste, per esempio, alla mossa di Silvio Berlusconi che si fa ricevere dal premier Monti per sollecitare a gran voce la cancellazione della norma in questione. E ciò mentre il suo fedelissimo Confalonieri fa aperta campagna elettorale in Confindustria a sostegno dell'eretico Giorgio Squinzi. A favore del quale è schierata anche la stessa Marcegaglia tuttora paladina della cancellazione della tanto controversa norma. Sull'altro versante accade invece che abbia espresso una preferenza per Bombassei, per esempio, anche l'editore di questo giornale, Carlo De Benedetti, che pure ha definito un'autentica sciocchezza tutto il dibattito imbastito sull'art. 18.

Come leggere questo nebuloso incrocio di posizioni? Una prima risposta possibile a questo interrogativo indica che evidentemente le scelte del corpo elettorale confindustriale obbediscono a logiche diverse da quelle che vengono portate alla pubblica ribalta e forse anche a rapporti personali o d'interessi più forti del dissenso d'opinione su una singola questione. Si rimprovera il mondo politico per la scarsa trasparenza delle sue lotte intestine: non è che Confindustria possa dare lezioni.

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Titolo: Massimo RIVA. Così ci si avvita: verso il baratro
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2012, 03:28:28 pm
Polemica

Così ci si avvita: verso il baratro

di Massimo Riva

Continuare a togliere i soldi dalle tasche dei cittadini vuol dire minori consumi, quindi minori investimenti, quindi minore occupazione.

E così via, in una spirale perversa

(27 marzo 2012)

Il governo Monti si accinge a riscrivere le regole del sistema tributario con lo strumento di una legge di delega da parte del Parlamento. Si annunciano così novità importanti come una diversa e specifica imposta sui redditi d'impresa, mentre per gli immobili si avrà un adeguamento dei valori catastali ai prezzi di mercato pur in un quadro di invarianza del prelievo già fortemente aumentato con l'introduzione dell'Imu. Altre innovazioni riguarderanno il regime dei controlli e delle sanzioni per rendere più efficace la lotta contro evasione ed elusione fiscali. Durante il percorso parlamentare della delega si avrà modo di valutare meglio particolari e disegno complessivo del provvedimento.

Non si vorrebbe, però, che con questa iniziativa il governo intendesse dare per scontate e immodificabili le misure tributarie decise nei mesi scorsi sotto la pressione cogente degli attacchi speculativi sui titoli del Tesoro. Anche se la minaccia di un collasso finanziario dello Stato risulta arginata ma non ancora del tutto scongiurata, sembra arrivato il momento opportuno per ragionare a mente fredda sui contraccolpi negativi insiti nella manovra d'emergenza. In particolare, per quanto riguarda il serio pericolo che il prezzo del salvataggio della finanza pubblica possa essere la desertificazione dell'economia reale a causa di un'ulteriore caduta della domanda interna.

Non c'è bisogno di rifarsi ai recenti allarmi della Corte dei conti per sapere che, togliendo ancora più soldi dalle tasche dei contribuenti, si deprime la crescita precipitando in una spirale perversa. I minori consumi, infatti, scoraggiano gli investimenti e perciò frenano l'occupazione innescando un'ulteriore caduta della domanda con un avvitamento sempre più veloce verso il basso. Una manutenzione un poco più attenta del peso e della distribuzione dei carichi fiscali introdotti di recente sarebbe un atto doveroso da parte di un governo che dice di voler porre l'elevata sapienza tecnica dei suoi ministri al servizio della collettività.

Un primo esempio: la giusta volontà di perseguire fiscalmente la rendita fondiaria è stata declinata in modo così distorto da tartassare i beni strumentali dell'attività agricola al punto da condurre sotto la soglia di sopravvivenza gran parte delle piccole e numerose grandi imprese del settore. Ovvero un pezzo di economia nazionale che, già in seria difficoltà, offre comunque un rilevante contributo in termini sia di Pil sia di esportazioni. Forse i contadini meriterebbero un ascolto almeno pari a quello dato ai ben più rumorosi (e meno essenziali) tassisti.

Un secondo esempio: la mano pesante sulle accise dei carburanti ha sicuramente garantito risultati di pronta cassa per un Tesoro allo stremo, ma al costo non trascurabile di aver prodotto maggiore inflazione con conseguente e reiterata frenata dei consumi. Cosicché l'ulteriore aumento dell'aliquota principale dell'Iva prospettato per l'autunno rischia di sommare a quelli provocati dalle misure d'emergenza nuovi e maggiori effetti depressivi. Sarà anche una buona idea quella di spostare l'attenzione del fisco dalle persone alle cose, ma l'opera al momento risulta incompiuta: la pressione è salita sulle cose senza diminuire - anzi - sulle persone. A questo punto, salvata l'Italia, è bene che Mario Monti si occupi di salvare anche gli italiani.

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Titolo: Massimo RIVA. Ligresti vigilato poco speciale
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2012, 05:21:55 pm
Opinione

Ligresti vigilato poco speciale

di Massimo Riva

(29 marzo 2012)

Fino a pochi giorni fa i guai della famiglia Ligresti sembravano essere soprattutto finanziari. E l'attenzione generale era concentrata su chi l'avrebbe spuntata fra Unipol e i fondi Sator e Palladio nel duello per impossessarsi delle rovine dell'ex-impero assicurativo e immobiliare. Ora la vicenda sta prendendo un'altra piega, non meno complicata, sotto il profilo giudiziario con l'entrata in proscenio della Procura di Milano.

Già da tempo i magistrati contestano a Salvatore Ligresti il reato di ostacolo all'attività degli organi di vigilanza. Adesso però l'indagine si sta allargando a una serie di specifiche decisioni sulle quali pende il sospetto assai increscioso di una distrazione di fondi che avrebbe provocato ulteriori e seri danni alla situazione patrimoniale di Fonsai.

Sotto la lente della Procura ci sono circa una dozzina di operazioni realizzate fra aziende interne alla galassia societaria dei Ligresti con le quali perdite ingenti sarebbero state scaricate sulla suddetta Fonsai. Altro filone dell'inchiesta riguarda poi un singolare contratto di consulenza per 40 milioni a favore di Salvatore Ligresti, nonché alcuni bonus milionari una tantum pagati a famigliari e famigli dello stesso boss del gruppo.

Per capirne di più occorrerà naturalmente attendere le conclusioni del lavoro in corso da parte della magistratura.
Va, tuttavia, annotato che l'intervento di quest'ultima è stato sollecitato dall'esposto di un socio di minoranza, il fondo speculativo Amber, mentre non risulta che analoghe iniziative siano state promosse da altri soggetti. Non dalle autorità cui spetta di vigilare sugli affari delle società quotate in Borsa, ma nemmeno dall'articolato kombinat di banche che pure ha finanziato per tanti anni l'espansione del gruppo Ligresti e ora non sa più da che parte sbattere la testa pur di arginare almeno in parte le perdite conseguenti al suo tracollo.

Sembra così ripetersi anche nei dintorni di piazza degli Affari l'identico schema dell'annosa commedia in atto da vent'anni fra potere politico e potere giudiziario con l'accusa del primo al secondo di invasione di campo a causa delle inchieste sulla corruzione delle attività pubbliche.

Come il mondo politico mal tollera che i magistrati si occupino dei suoi affari sporchi senza per altro provvedere a ripulire le sentine dei propri vizi, così accade che anche nel mondo economico perduri una sorta di sostanziale omertà nel chiudere gli occhi dinanzi a operazioni che proprio perché realizzate fra parti correlate ovvero in conflitto d'interessi meriterebbero semmai il doppio d'attenzione.
Che le banche finanziatrici dei Ligresti non abbiano colto segnali d'allarme dal moltiplicarsi di manovre quanto meno problematiche fra società del gruppo è poco credibile.

Il nodo cruciale è che questo loro "benign neglect" altro non è se non il logico riflesso dell'impianto strutturale di quel capitalismo relazionale che è il morbo caratteristico della nostra sedicente economia di mercato. Un morbo talmente diffuso e pervasivo da aver neutralizzato ogni meccanismo di difesa dagli abusi al punto che, pur di non incrinare il gioco dei reciproci comparaggi, si può arrivare perfino ad accettare robuste perdite nei bilanci.
Tanto, alla fine, c'è pur sempre il gregge dei piccoli azionisti sui quali scaricare i costi delle relazioni pericolose.

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Titolo: Massimo RIVA. E l'incubo del default potrebbe riavvicinarsi
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2012, 04:14:22 pm
Siete sicuri che l'Italia sia salva?

di Massimo Riva

Il governo è molto orgoglioso di aver tagliato tutto, ma l'impoverimento collettivo in cui sono stati abbandonati gli italiani non porta a nessuna ripresa.

E l'incubo del default potrebbe riavvicinarsi

(16 aprile 2012)

Si fa presto a dire "spending review", ma fare pulizia e mettere ordine in una spesa pubblica come quella italiana è opera di lunga e particolarmente complessa lena. Per decenni nei suoi capitoli si sono sedimentati appetiti settoriali, quando non clientelari, in larga misura aiutati da una gestione politica indifferente ai più elementari criteri anche solo di semplice e buona ragioneria. Ma proprio per questo, tanto più risulta indispensabile e urgente che in una fase così critica dei conti pubblici il governo Monti sappia realizzare su questo fronte, per usare un'espressione cara all'attuale premier, una svolta storica.

Piero Giarda, il ministro incaricato dell'arduo compito, ha fatto magari bene in una recente intervista a ridimensionare le attese miracolose di chi si aspetta che la sua forbice sulle uscite possa presto produrre risparmi tali da consentire una significativa riduzione anche delle entrate ovvero un taglio della pressione fiscale. In effetti, lo stato dei conti pubblici che resta comunque precario e l'aria che tira sui mercati finanziari internazionali sono due fattori che impongono tuttora la massima cautela nella movimentazione del bilancio.

Non si vorrebbe, però, che la giusta prudenza dell'ottimo Giarda finisse per alimentare anche uno spirito rinunciatario di fronte alla vastità del compito. Che si parta da questioni minute va benissimo: accentrando gli acquisti di matite, siringhe o consimili per spuntare i prezzi minimi sul mercato si possono realizzare risparmi importanti, anche nell'ordine di qualche miliardo. Ma non è che basti affinare un po' la tecnica dei tagli lineari applicata dall'ex-ministro Tremonti. Il principale difetto di questa strategia è quello di lasciare sostanzialmente inalterata la struttura di un bilancio che ha come suo vizio profondo quello di aver lasciato correre la spesa corrente deprimendo, anno dopo anno, la spesa per investimenti.

Vizio che, in una fase recessiva come l'attuale, sta rivelando tutta la sua negatività facendo venir meno quelle risorse che sarebbero vitali per contrastare il cattivo andamento della congiuntura. Nessuno è così pazzo da chiedere a Giarda di rovesciare in un anno l'impianto del bilancio. Ma, visto che si dichiara già soddisfatto perché il totale della spesa pubblica al netto degli interessi si sta mostrando costante dal 2009, non sarebbe fuori luogo che il ministro assumesse almeno un chiaro impegno su un punto decisivo. I risparmi che ci si ripromette di ottenere con la fatidica "spending review" dovranno avere come scelta preferenziale la destinazione di maggiori risorse alla spesa per investimenti.

L'austerità fiscale che sta aggravando la crisi combinata di consumi e investimenti era probabilmente un passo obbligato per scongiurare il fallimento finanziario del paese. Ciò implica che anche la pressione tributaria non possa essere alleggerita in tempi brevi per evitare di azzerare gli effetti delle manovre attuate. Fin qui d'accordo. Ma non è che si possa lasciare l'Italia abbandonata alla deriva di un impoverimento collettivo: la minaccia di default si ripresenterebbe sotto la nuova veste di bassa o nulla crescita. Primo ed essenziale fine della pulizia del bilancio dovrà essere quello di recuperare risorse affinché gli investimenti pubblici diano la prima spinta per riaccendere le attività economiche.

   
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Titolo: Massimo RIVA. Per la Fiat l'Italia è un gioco
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2012, 05:15:32 pm
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Economia

Per la Fiat l'Italia è un gioco

di Massimo Riva

E' curioso: mentre abbandonano sempre di più il business dell'auto nel nostro Paese, gli eredi Agnelli rinforzano invece la loro presenza nella Rizzoli e nella Juventus. Cioè investono solo nella 'comunicazione d'immagine'

(23 aprile 2012)

Chi teme che i signori della Fiat intendano abbandonare l'Italia ha potuto leggere negli ultimi giorni un paio di notizie che, almeno a prima vista, possono suonare rassicuranti. Anche perché si tratta di fatti, non di parole. Come quelle disinvoltamente contraddittorie sull'argomento che Sergio Marchionne, il più che lautamente retribuito castaldo di casa Agnelli, pronuncia da tempo senza mai dissipare il dubbio che ormai gli eredi dell'Avvocato abbiano già deciso in cuor loro di farsi americani a tutti gli effetti.

Il primo fatto teso a testimoniare un ritrovato impegno del gruppo torinese sul mercato nazionale è stato compiuto niente meno che dal presidente della Fiat, John Elkann, con la scelta di occuparsi in prima persona di uno dei "dossier" più spinosi nella galassia di partecipazioni azionarie della famiglia.

Quello della Rcs (Rizzoli-Corriere della Sera) il cui bilancio soffre di perdite piuttosto ingenti che richiederebbero una cura sostanziosa e fors'anche un congruo aumento di capitale: ipotesi entrambe rese finora poco praticabili dai dissidi interni al variopinto sindacato azionario di controllo della società.

Con l'aria che tira in Fiat, anche dopo i primi successi americani con la Chrysler, si poteva magari immaginare che Torino decidesse di lasciare ad altri il compito ingrato e potenzialmente oneroso di fare ordine nei bilanci Rcs. Invece no. Il giovane Elkann con piglio battagliero ha scelto di affiancare Mediobanca, altro importante socio dell'impresa editoriale, nel duro scontro con alcuni azionisti di peso per imprimere una svolta anche statutaria alla conduzione dell'azienda. Altro che l'immagine degli eredi Agnelli ormai lontani dagli affari italiani: per quanto riguarda il delicato settore della stampa, più che mai presenti.

A suo modo rientra nel campo delle comunicazioni d'immagine anche il secondo impegno domestico assunto di recente sempre dallo stesso Elkann. Quello di far sponsorizzare la Juventus, squadra di casa, da parte del marchio Jeep da poco acquisito nell'ambito dell'operazione Chrysler. E stavolta trattasi di un impegno non proprio finanziariamente esiguo: 35 milioni in tre anni. Un nuovo e costoso stadio per la compagine bianconera inaugurato con successo e ora anche un sostegno multimilionario con soldi che vengono dall'America. Che ne possano gioire i tifosi juventini è scontato. Ma con loro anche tutti gli italiani preoccupati da un futuro del paese segnato dal disimpegno degli azionisti della maggiore impresa manifatturiera?

Con tutto il rispetto per il "Corriere della Sera" e per la Juventus, infatti, né l'editoria né il gioco del calcio - pur rientrando nel campo degli interessi consolidati e ormai tradizionali del gruppo torinese - hanno granché da spartire con il core business industriale della Fiat del quale sono sempre stati finora abbellimenti accessori e funzionali alla strategia d'immagine dell'azienda e dei suoi proprietari. O, per dirla in termini più crudi, sono stati i "circenses" coi quali rendere talora meno indigeste la quantità e la qualità del "panem" distribuito nelle fabbriche italiane. Punto quest'ultimo che resta l'unico, vero banco di prova sulle effettive intenzioni degli eredi Agnelli oltre che sulle capacità imprenditoriali del loro "factotum".

Nel pur declinante mercato europeo la Volkswagen vola, perché la Fiat no?

   
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Titolo: Massimo RIVA. Se la cura ci sta uccidendo
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2012, 11:33:04 pm
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Opinione

Se la cura ci sta uccidendo

di Massimo Riva

Il famoso 'rigore' e il mitico 'pareggio di bilancio' sono come quelle medicine che forse debellano qualche batterio, ma in dosi troppo massicce debilitano l'organismo fino ad abbatterlo. Che anche Draghi e Monti se ne stiano finalmente accorgendo?

(10 maggio 2012)

Udite, udite... La parola "crescita" è riapparsa all'improvviso sulle bocche di alcuni fra i maggiori custodi di quelle politiche di austerità che non hanno ancora consolidato i conti pubblici dei paesi più esposti, ma già minacciano di trascinare l'intera zona euro in una recessione di lunga durata. A suonare la sveglia per primo è stato niente meno che il presidente della Bce, Mario Draghi, davanti al Parlamento di Strasburgo. Il supremo guardiano della stabilità monetaria di Eurolandia non solo ha riconosciuto che le pur necessarie strategie del rigore sono un serio ostacolo alla ripresa delle attività produttive, ma ha anche esplicitamente raccomandato di porre in cima all'agenda dell'Europa proprio il tema della crescita dell'economia reale ovvero di quella produzione di beni e servizi dalla quale soltanto ci si può attendere nuova e maggiore occupazione.

Sotto questa autorevole copertura anche il governo italiano ha trovato di colpo il coraggio di far uscire alla luce del sole l'intenso lavorio diplomatico in corso per spianare la via a un'intesa europea mirata al rilancio dell'economia continentale. Perfino la finora implacabile sacerdotessa del rigore, Angela Merkel, ha lanciato segnali di apertura sul nodo della crescita lasciando intravedere che l'occasione per compiere i primi passi in avanti potrebbe essere il vertice dei capi di Stato e di governo dell'Unione in programma a fine giugno prossimo.

Che si tratti di segnali importanti è fuor di dubbio. La speranza è che finalmente ci si stia accorgendo che le potenti cure di austerità fiscale, pur inevitabili per combattere le diffuse infezioni nei conti pubblici, agiscono come gli antibiotici: eliminano di sicuro alcuni batteri, ma debilitando l'organismo fino al punto di esporlo ad altri attacchi nocivi. Ovvero, fuor di metafora, che se il fatidico pareggio di bilancio viene raggiunto al prezzo di deprimere troppo consumi e investimenti, l'agognata sostenibilità dei debiti pubblici diventa un obiettivo irraggiungibile per contrazione progressiva delle basi imponibili. Con il rischio di innescare così un avvitamento a spirale verso quella caduta in " default" che si vorrebbe scongiurare con le terapie del rigore.

Purtroppo, però, è ancora presto per interpretare questi indizi di svolta come avvisaglie di un cambiamento di rotta effettivamente in corso. Quanto alla Bce, per esempio, va ricordato che, quando si è trattato di spingere il governo italiano a rimettere urgentemente ordine nei suoi conti, da Francoforte è partita una lettera di messa in mora ricca di richieste specifiche e ultimative alle quali mancava solo l'indicazione dell'orario di sveglia mattutina degli italiani. Mentre ora sul nodo della crescita, Draghi s'è limitato a evocarne la utilità, ma nel vuoto di qualunque proposta o anche solo suggerimento concreti.

Quanto alle sperate novità nell'atteggiamento di Berlino, occorre essere quanto mai cauti. I prossimi passi della Germania appaiono fortemente condizionati dalla fitta agenda elettorale europea dei prossimi giorni e settimane. Intanto dall'esito delle presidenziali francesi, ma soprattutto dai risultati del voto in due länder tedeschi di qui a metà maggio. Non illudiamoci. Angela Merkel non è Helmut Kohl: confermerà o smentirà le sue aperture sulla politica europea in funzione dei suoi problemi interni.

 
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Titolo: Massimo RIVA. L'intoccabile casta dei boiardi
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2012, 10:47:20 am
Polemica

L'intoccabile casta dei boiardi

di Massimo Riva

In Italia esiste un grumo di potere fortissimo: i super dirigenti delle aziende a partecipazione statale.

Che non solo hanno stipendi da favola, ma grazie ai capitali che muovono spesso tengono sotto ricatto la politica.

Qualcuno se ne vuole occupare?

(16 maggio 2012)

Eugenio Cefis Eugenio CefisE' passata giusto una ventina d'anni da quando, con un felice colpo di mano legislativo, Giuliano Amato intonò il "requiem" per le Partecipazioni Statali. La sua fu una mossa al tempo stesso semplice e però rivoluzionaria. Fu sufficiente, infatti, imporre alle imprese pubbliche di trasformarsi in società per azioni e un intero sistema di potere crollò su se stesso per impossibilità di sopravvivere secondo le normali regole del codice civile.

Che speranze e che cori di tripudio si sollevarono allora nel paese nella convinzione che la ramazza di Amato avrebbe così spazzato via una volta per tutte quella perniciosa genìa di tracotanti boiardi di Stato che dai vertici delle loro aziende si erano ormai trasformati da controllati in controllori di quello stesso potere politico da cui derivavano la propria investitura. Una metamorfosi il più delle volte compiuta a suon di quattrini pubblici di volta in volta elargiti o negati a questo o quel partito ovvero a questa o quella fazione al fine neanche troppo nascosto di determinare il corso degli eventi politici al punto da poter condizionare nascita, vita e morte dei governi nazionali. Una degenerazione istituzionale che raggiunse forse l'abisso più profondo con le trame di potere tessute dall'autentico principe dei boiardi: Eugenio Cefis. Personaggio che, dapprima dal vertice dell'Eni e poi da quello della Montedison, poteva permettersi di esercitare il ruolo di "king's maker" nella scelta di segretari di partito, ministri, presidenti del Consiglio e perfino della Repubblica.

Da quei lontani anni oscuri ne è passata d'acqua sotto i ponti. La riforma Amato ha davvero cambiato la mappa della presenza statale in economia: non c'è più l'Iri con le sue tre grandi banche d'interesse nazionale, il gigante Telecom è uscito dalla mano pubblica, di enti rovinosi come Efim o Egam non v'è più traccia. Cosicché molti boiardi o boiardini non hanno più le numerose poltrone di un tempo su cui sedersi, ma non c'è spazio per illusioni: la loro specie è tutt'altro che estinta. Magari ha addolcito qualche eccesso di prevaricazione, si è adattata darwinianamente ai mutamenti dell'ambiente politico, ha scoperto nuove terre più defilate di conquista. In ogni caso quel che conta - l'osso del potere autoreferenziale - non l'ha mollato sempre sfruttando con abilità i peggiori istinti di una classe politica per lo più insensibile alla distinzione fra interesse di parte e senso dello Stato.

Di questo neoboiardismo trionfante costituiscono un primo e preclaro esempio le recenti vicende di Finmeccanica, dentro le quali è facile ritrovare un po' tutti i vizi del passato: dalla sponsorizzazione partitica degli incarichi fino all'impotenza della politica nel gestire la crisi dell'azienda a causa dei ricatti sotterranei minacciati dai manager in disgrazia. Un altro, ancorché meglio dissimulato, caso di vigorosa sopravvivenza della classe boiarda è oggi quello offerto dalla variopinta galassia delle Fondazioni cosiddette ex-bancarie i cui esponenti hanno saputo strappare a parlamento e governi una signoria così autoreferenziale da trasformarsi in una casta inattaccabile dall'esterno addirittura sotto l'egida di una legge dello Stato.

Peggio i vecchi o i nuovi boiardi? La migliore risposta sta in un vecchio aforisma francese: "Plus ça change et plus c'est la même chose".

 
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Titolo: Massimo RIVA. Dai salari tedeschi benzina per l'Europa
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2012, 07:07:52 pm
Opinione

Dai salari tedeschi benzina per l'Europa

di Massimo Riva

(24 maggio 2012)

 Qualcosa sembra si stia muovendo in Germania. Appena prima che il rigorismo contabile di Angela Merkel uscisse malconcio dal summit del G8, industriali e sindacati tedeschi hanno firmato un accordo che concede ai lavoratori metalmeccanici aumenti salariali del 4,3 per cento. Un incremento che è il più alto da vent'anni a questa parte e che si segnala soprattutto per un valore più che doppio dell'inflazione corrente, contenuta al 2,1 per cento secondo l'ultima rilevazione. Al di là delle cifre, comunque, il dato più sorprendente viene dal clima generale che ha fatto da cornice a questa intesa.
 
Intanto, il potente sindacato Ig Metall non ha avuto nemmeno bisogno di ricorrere alla classica arma dello sciopero generale, gli è bastato minacciarlo. L'industria del settore, soprattutto quella automobilistica, sta coltivando con sagacia il mercato delle esportazioni e nelle fabbriche si lavora a pieno ritmo per cui il rischio di veder fermare la produzione è stato giudicato dalle imprese come un lusso che non si potevano concedere. Meglio aumentare le buste-paga e continuare a sfornare prodotti sui mercati.
 
Ancora più stupefacente è stata, però, la sostanziale indifferenza con la quale dal tempio del massimo rigore teutonico - la Bundesbank - si è seguita la vicenda. Sì, qualche richiamo alla misura non è mancato, ma in termini così cauti e smorzati rispetto al passato che tutte le parti in causa si sono sentite di fatto autorizzate a concludere l'accordo. Un atteggiamento davvero singolare. Basti ricordare che nei giorni scorsi il presidente della banca centrale tedesca si era arrogato perfino il diritto di mandare a dire piuttosto sgarbatamente al neo-presidente francese François Hollande di non permettersi neppure di mettere in discussione i vincoli d'austerità fissati nel "fiscal compact" europeo. Viene da chiedersi: quel che vale per gli altri non vale per la Germania? La domanda richiede una risposta articolata.

Primo punto: gli aumenti salariali dei metalmeccanici fanno in genere da apripista ai rinnovi contrattuali degli altri settori. Ciò fa presagire un significativo incremento della domanda interna tedesca che non dovrebbe esaurire i suoi effetti soltanto sul mercato domestico. Sotto questo aspetto, quindi, i maggiori consumi tedeschi potranno in parte tradursi in un beneficio anche per gli altri paesi europei raddrizzando almeno un poco gli squilibri commerciali presenti nella zona Euro.
 
Punto secondo: si conferma così, tuttavia, anche il senso più profondo della strategia economica seguita dal governo di Berlino. Non è che la Germania voglia rinunciare al ruolo di locomotiva del convoglio europeo, solo che intende esercitare questo potere in tempi e modi che siano funzionali ai propri specifici interessi nazionali. Lo si era già visto con la crisi greca la cui gestione è stata subordinata essenzialmente alla protezione delle banche tedesche esposte in quel paese. E la storia si ripete oggi con il contratto dei metalmeccanici la cui conclusione potrà anche avere l'effetto collaterale di qualche vantaggio per il resto d'Europa ma appare ispirata in via prioritaria all'esigenza di una redistribuzione del reddito interno più funzionale al mantenimento del primato del "made in Germany". Insomma, quel che si sta muovendo a Berlino è ancora lungi dall'assunzione di una responsabilità europea. Germania

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Titolo: Massimo RIVA. Politica debole, di chi è la colpa
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2012, 04:28:32 pm
 
Opinione

Politica debole, di chi è la colpa

di Massimo Riva

E' vero che oggi troppe decisioni vengono prese dalla finanza e quindi la democrazia è zoppa. Ma sono i governanti eletti che devono ribaltare questa situazione. Che non è ineluttabile

(13 settembre 2012)

Decide il voto e non i banchieri, proclama Pier Luigi Bersani. Impeccabile: in qualunque democrazia, degna di questo nome, è il popolo sovrano a scegliere governi e programmi di governo. Ma il fatto che il segretario del Pd senta il bisogno di fare un'affermazione così ovvia è rivelatore di qualche non piccolo problema emerso sul terreno della normale dialettica fra i due maggiori poteri: quello della politica e quello dell'economia. Leggere un simile conflitto in un'ottica strettamente italiana sarebbe però riduttivo e fuorviante come lo è l'attuale dibattito sul sì o sul no a un Monti-bis dopo le elezioni della prossima primavera.

A ben vedere il caso Italia altro non è che la manifestazione periferica di un ben più ampio processo di traslazione di potere dalla politica all'economia in corso da anni a livello planetario. E non solo perché lo tsunami finanziario del 2007/2008 ha messo in luce fin dal principio quella debolezza o addirittura gregarietà dell'azione politica rispetto ai poteri finanziari che è poi il succo della micidiale formuletta "too big to fail". Si veda il caso degli Stati Uniti. Il fatto che la Casa Bianca sia stata costretta a impegnare risorse pubbliche gigantesche per tamponare i disastri provocati dalla finanza corsara può essere letto soltanto a prima vista come un recupero di ruolo e di peso da parte della politica. In realtà si è trattato di operazioni eseguite in forza di uno stato di necessità (per evitare guai peggiori) subito dall'istituzione democraticamente eletta e, in termini pratici, gestito da un potere tecnocratico collaterale alla filiera elettiva: quello della Federal Reserve. Il cui capo, Ben Bernanke, assomma così oggi nelle sue mani il duplice potere di decidere sia tempi e modi della razione di viveri che viene concessa al sistema finanziario sia la quantità di risorse da immettere nei circuiti dell'economia reale. Tanto da far ritenere che perfino l'esito delle prossime presidenziali dipenda più dalle sue mosse che dai confronti elettorali fra i contendenti.

Una situazione simile è quella che si è creata in Europa attorno al ruolo della Banca centrale di Francoforte. Priva di un principe politico come interlocutore istituzionale, la Bce si è trovata a dover scegliere fra l'accettazione dell'inerzia per difetto di mandato e l'esercizio di una supplenza in mancanza della quale il sistema euro rischia tuttora di collassare. Con la sua recente decisione in tema di interventi sul mercato Mario Draghi ha imboccato la seconda strada. Atto che rimarca l'indipendenza della Bce ma che rende ancora più evidente il difetto strutturale della costruzione europea quanto a legittimazione politico-democratica dei processi decisionali. Una lacuna che dopo l'esplicita richiesta di collaborazione con un altro potere tecnocratico - quello del Fondo monetario - rischia di accrescere l'esautorazione della politica nella gestione della crisi europea. Anche nella più morbida versione di Christine Lagarde, infatti, il Fmi conserva nei suoi interventi una consolidata inclinazione commissariale verso chi ne richiede l'aiuto: come ben si sa oggi in Grecia.

Per tornare all'Italia, resta cosa buona e giusta che Bersani rivendichi un ritorno all'ordinaria legittimazione democratica di chi esercita il potere politico. Ma non basta dire che a decidere non devono essere i banchieri: l'alterazione degli equilibri istituzionali in atto dipende soprattutto dall'abdicazione della politica stessa all'esercizio efficace del suo ruolo. Sintomo questo di un morbo ben più serio e diffuso che stravolge in tutto l'Occidente il rapporto fra potere politico e mercato economico. La libertà di quest'ultimo è stata finora il miglior brodo di coltura per l'affermarsi di democrazie politiche, ma non va dimenticato che il capitalismo ha convissuto anche con regimi autoritari. Tocca alla politica e non ai banchieri impedire un simile arretramento. Ma dov'è questa politica?

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Titolo: Massimo RIVA. Ma loro non si tagliano mai
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2012, 10:18:31 pm
Casta

Ma loro non si tagliano mai

di Massimo Riva

A furor di popolo il Parlamento riduce i consiglieri regionali. Invece la norma che doveva diminuire le poltrone di Camera e Senato è stata infilata nelle 'riforme costituzionali'. In modo da non approvarla (e farla decadere)

(04 ottobre 2012)

Camera: durante il voto sulla spending review, Iole Santelli scatta una foto a Maria Rosaria Rossi Camera: durante il voto sulla spending review, Iole Santelli scatta una foto a Maria Rosaria RossiAnche sui letamai talvolta nascono fiori. Dalla vicenda delle scandalose spese delle Regioni, per esempio, sta spuntando un sussulto di ravvedimento che dovrebbe dare tagli significativi ai costi smodati della politica domestica. Sono stati gli stessi presidenti degli enti locali, infatti, a chiedere che si riduca di qualche centinaio di poltrone l'esorbitante numero dei circa 1.100 consiglieri regionali attuali. I cosiddetti governatori avrebbero fatto miglior figura se si fossero dati una mossa prima che montasse la furiosa ondata di sdegno popolare. Resta il fatto positivo che a breve – dato che s'intende procedere per decreto-legge – una discreta sforbiciata dovrebbe cadere su almeno un versante della inutilmente pletorica rappresentanza politica a livello locale.

IL PAESE RISCHIA, però, di assistere a uno spettacolo davvero paradossale. Quello di deputati e senatori pronti a convertire in legge il provvedimento che taglia il numero delle poltrone regionali senza aver fatto nulla per quanto riguarda la riduzione delle rispettive e non meno sovrabbondanti assemblee. Impegno che da anni viene proclamato da ogni parte politica come passo indispensabile sia per rendere più funzionale il lavoro di Camera e Senato sia per offrire un responsabile contributo al contenimento della spesa pubblica. Ma anche impegno che poi risulta sistematicamente disatteso in un turbinio di astuzie tattiche e di alibi procedurali il cui fine inconfessato è di tenere la questione su un binario morto.

La prova di queste cattive intenzioni è data da quanto accaduto nel corso dell'ultimo tentativo di far pronunciare il Parlamento in materia. Vero è che, prima della pausa estiva, il Senato ha votato una modesta riduzione dei membri della Camera dagli attuali 630 a 500. Ma è altrettanto vero che questa ipotesi è inserita in un disegno di legge di riforma costituzionale che prospetta addirittura il passaggio a una repubblica semi-presidenziale. Cosicché proponendo un tanto radicale stravolgimento dell'attuale sistema politico mai si potrà raggiungere in questo Parlamento la maggioranza qualificata di voti necessaria per rendere esecutiva la modifica. A inventarsi la furbata di porre il taglio dei parlamentari sotto il cappello impraticabile del semipresidenzialismo sono stati i senatori della vecchia maggioranza Pdl-Lega. E non si racconti la balla che si sia trattato di un errore in buona fede. In materia leghisti e berlusconiani sono recidivi avendo già messo in scena in passato un'identica farsa con un'altra analoga riforma che, unendo la riduzione dei parlamentari a indigeribili modifiche radicali del sistema politico, ha subìto un inevitabile rigetto nel referendum popolare.

DATI SIMILI PRECEDENTI, oggi sarebbe indecoroso agli occhi del paese che il Parlamento votasse la sforbiciata dei consigli regionali, ma non quella delle proprie assemblee. Anche perché questa riduzione darebbe un contributo importante alla "spending review" del bilancio pubblico in quanto un numero minore di parlamentari produrrebbe a cascata anche importanti risparmi in termini di spesa per assistenti, personale strapagato delle Camere nonché per affitti di immobili non più necessari. In breve arco di anni: miliardi, non milioni. Certo ora siamo al mese di ottobre e il tempo stringe perché, essendo materia costituzionale, il taglio dei parlamentari richiede un doppio voto di entrambe le Camere a distanza di 90 giorni l'uno dall'altro. Ma sol che lo si voglia la soluzione del problema è praticabile prima della fine della legislatura. Si tratta di stralciare il tema da altre e del tutto pretestuose ambizioni di riforma del sistema costituzionale per operare un primo voto a Montecitorio e Palazzo Madama entro ottobre in modo da chiudere la partita a gennaio. La riduzione dei parlamentari è la prima e più utile delle riforme elettorali anche al fine di scongiurare la temuta ingovernabilità da frammentazione della rappresentanza politica. Una parola autorevole del Quirinale non guasterebbe.

 
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Titolo: Massimo RIVA. Di falso in bilancio non si parla più
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2012, 05:03:57 pm
Opinioni

Di falso in bilancio non si parla più

di Massimo Riva

(25 ottobre 2012)

Il ministro della Giustizia Paola Severino Il ministro della Giustizia Paola SeverinoDice il presidente del Consiglio che in tema di legge contro la corruzione il suo governo avrebbe voluto spingersi più avanti. Ma, a mo' di consolazione, soggiunge che neppure gli esecutivi che hanno preceduto il suo - quelli di destra come quelli di sinistra - hanno saputo fare di più. Insomma, Mario Monti riconosce che il testo votato per ora dal solo Senato è debole o addirittura carente sotto aspetti importanti, ma segnerebbe comunque un passo avanti in nome dell'antico detto secondo cui il meglio è nemico del bene. Ci si può accontentare di una giustificazione che regge soltanto sul realismo comparativo con le inerzie del passato?

LA MIA OPINIONE è che no, non ci si può proprio accontentare. Anche perché il disegno di legge ora all'esame della Camera dovrebbe essere una seria ed esaustiva risposta alle forti sollecitazioni europee affinché l'Italia si allinei su questo delicato terreno agli standard legislativi in vigore nei principali paesi dell'Unione. Ha un bel dire il ministro della Giustizia, Paola Severino, che ad alcune fra le più vistose lacune del provvedimento intende porre rimedio con successive iniziative di legge. Coi tempi stretti di qui alla fine della legislatura il suo appare un impegno ad altissimo rischio. Soprattutto per quanto riguarda un nodo fondamentale della legislazione in tema di corruzione. Quello della prevenzione e della sanzione di uno dei reati più gravi in materia: il falso in bilancio, che una riforma voluta dal governo Berlusconi ha largamente depenalizzato allargando a dismisura le maglie attraverso le quali i manipolatori dei conti possono accumulare impunemente il denaro utile a distribuire mazzette di contanti per comprarsi favori pubblici e privati.

Ha detto testualmente al riguardo la presidente della Commissione Giustizia della Camera: «Tutte queste corruzioni spesso trovano il denaro con cui fare affari nei bilanci delle società. Se un paese non fa una buona legge che tuteli questi conti è chiaro che è come se lasciassimo un'enorme cassaforte aperta, dove tutti possono prendere del denaro e usarlo nel peggiore dei modi». Giulia Bongiorno ha colto nel segno. Fa specie, infatti, vivere in un paese nel quale i gendarmi dell'Agenzia delle Entrate vanno giustamente in caccia degli idraulici che si fanno pagare in nero, ma al tempo stesso gli amministratori di azienda possono imbrogliare bilanci anche miliardari al riparo di una legislazione che è davvero eufemistico definire lassista e tollerante.

A un europeista di solida convinzione quale Mario Monti forse è il caso di ricordare la pesante censura espressa dalla Corte di giustizia europea contro la banalizzazione del falso in bilancio operata dal governo Berlusconi. Al punto che l'avvocato generale di quella Corte si spinse nel 2004 a invitare i giudici italiani a disattendere le norme berlusconiane nelle parti in contrasto con le più rigorose direttive dell'Unione sulla materia. Non penso che esporsi a nuove e reiterate reprimende del genere sia opportuno per il paese e neppure per l'immagine internazionale del presidente del Consiglio.

IL FALSO IN BILANCIO è uno dei reati più odiosi contro la fede pubblica che è, a sua volta, il sale di una sana economia di mercato basata sulla lealtà della competizione fra imprese. Lascia interdetti in proposito la sostanziale negligenza con la quale, per esempio, la Confindustria ha seguito l'iter della sedicente legge anti-corruzione. Un sostegno aperto del sindacato delle imprese a norme più incisive avrebbe potuto e potrebbe ancora aiutare Monti e Severino a superare le resistenze dei parlamentari berlusconiani contro ogni revisione della loro deregolamentazione del falso in bilancio. Ciò non toglie, tuttavia, che le maggiori responsabilità per questo buco nero della legislazione cadano in capo all'esecutivo. Così coraggioso sul riordino dei bilanci pubblici il governo dei tecnici si mostra ora pavido sulla correttezza di quelli privati. Non voglio pensar male, ma i conti non tornano.

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Titolo: Massimo RIVA. Ecco: la Merkel ha fatto autogol
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2012, 05:40:46 pm
Ecco: la Merkel ha fatto autogol

di Massimo Riva

Imponendo agli altri paesi europei un rigore esagerato, il governo tedesco ha finito per danneggiare anche l'economia della Germania. Il guaio è che, nonostante i pessimi risultati, la Cancelliera insiste

(15 novembre 2012)

Fa discutere che Mario Monti abbia detto di intravvedere una luce in fondo a quel tunnel che, in verità, alla gran parte degli italiani appare ogni giorno più lungo e oscuro. Certo, nel suo ruolo, il premier ha anche il dovere di lanciare messaggi di speranza. Ma ormai è un fatto che l'orizzonte italiano ed europeo risulta ancora più plumbeo di quanto fosse anche pochi mesi fa. Da ultimo il commissario Ue all'economia, Olli Rehn, ha aggiornato al peggio le previsioni sulla crescita nei paesi dell'Unione. In Italia non ci sarà alcun segno di ripresa nel 2013 e anche per il 2014 le stime sono ben poco confortevoli. Di rincalzo il presidente della Bce, Mario Draghi, ha avvertito che segnali di difficoltà si stanno manifestando perfino nella portentosa Germania, dove le avvisaglie di frenata si moltiplicano di mese in mese. Al punto da far scrivere a un autorevole giornale tedesco che «la locomotiva d'Europa non ce la fa più a trainare il convoglio».

PAROLE SU CUI CONVIENE meditare perché esse mettono a nudo un punto cruciale ovvero quale enorme equivoco continui a falsare i termini del dibattito europeo. Ma quando mai, in questi ultimi anni, la Germania ha fatto da locomotiva per i paesi dell'eurozona? Al contrario: gli ingenti surplus accumulati da Berlino con le proprie esportazioni – verso la Cina ma anche verso il resto d'Europa – hanno requisito a proprio vantaggio quote crescenti della domanda interna altrui rendendo così più arduo quell'aggiustamento fiscale che la stessa Germania intima perentoria ai soci più deboli dell'eurozona. Tanto che oggi la frenata dell'export tedesco ha tra le sue cause principali proprio la caduta dei consumi interni nei paesi che – come l'Italia, fra gli altri – hanno dovuto sottoporsi a una disciplina contabile di sicuro necessaria ma che per volontà tedesca è stata resa troppo rapida nei tempi e troppo squilibrata sul versante dei tagli diretti o indiretti alla domanda.

Che gli exploit tedeschi nel conquistare maggiori quote sui mercati ?€“ si pensi all'industria dell'auto ?€“ si debbano spiegare anche con una superiore capacità delle aziende germaniche nell'innovare e nell'ottimizzare i fattori della produzione è fuori discussione. Ma altrettanto innegabile è che, a fronte della vista lunga delle proprie aziende, il governo di Berlino non ha avuto pari lungimiranza nel capire che il peso economico dominante acquisito per via industriale andava politicamente declinato in modi meno miopi di quanto fatto con la predicazione di un'austerità "uber alles". Cosicché si sta ora verificando un corto circuito fra le esigenze di espansione del "made in Germany" e gli effetti della politica fiscale restrittiva che il governo di Berlino insiste nel pretendere senza una ragionevole gradualità dall'Europa intera.

DUNQUE, HA UN BEL DIRE Angela Merkel quando afferma che i paesi dell'euro devono muoversi «insieme contro la crisi». Poiché gli ammirati surplus della bilancia tedesca sono in buona misura il riflesso speculare dei deficit altrui, un modo saggio di operare "insieme" sarebbe stato, per esempio, quello di espandere la domanda interna della Germania in modo da aiutare le economie dei soci più deboli dell'euro a compensare gli effetti recessivi delle politiche di risanamento dei bilanci pubblici. Ma la Kanzlerin si rifiuta di farlo pur in presenza di un tasso d'inflazione che la Bce mantiene tuttora vicino al 2 per cento. Anzi, l'ultima trovata di Berlino è di accentuare i termini del cosiddetto "fiscal compact" con la nomina di un supercommissario europeo con diritto di veto sulle scelte di bilancio dei vari paesi. La classica soluzione sbagliata per un'esigenza magari giusta. Con una tale delega a un potere monocratico si può soltanto perseverare sulla linea fin qui seguita senza fare i conti con i gravi danni collaterali che la strategia del rigore a tutti i costi sta facendo emergere ogni giorno di più. Devono essere davvero prodigiosi gli occhiali che consentono a Mario Monti di intravvedere una luce in fondo a un simile tunnel.

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Titolo: Massimo RIVA. Londra dica se vuole o no l'Europa
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2012, 04:46:12 pm
Opinioni

Londra dica se vuole o no l'Europa

di Massimo Riva

(06 dicembre 2012)

E se la fuoriuscita della Gran Bretagna fosse condizione necessaria (sebbene da sola insufficiente) per accelerare l'integrazione politica dell'Unione europea? Non si tratta di un interrogativo banalmente provocatorio. Esso nasce dalla constatazione che in questi decenni Londra ha sistematicamente operato per rallentare, indebolire, talora sabotare, il già faticoso processo federativo del Vecchio continente (vedi l'articolo a pagina 84). Fin dal principio, il Regno Unito ha mostrato di considerare il suo ingresso nella Comunità europea come una sorta di atto di degnazione verso gli altri soci compiuto al fine principale di trarne benefici economici occasionali senza alcuna intenzione di contribuire allo spirito unionista. Né va dimenticato che la svolta britannica avviene solo dopo il fallimento del tentativo di costruire con i paesi del Nord Europa un'area di libero scambio (Efta) concepita in chiaro antagonismo al progetto continentale.

FINORA, PURTROPPO, il pur supponente atteggiamento di Londra è stato subìto piuttosto passivamente dagli altri maggiori paesi della Comunità nella malriposta speranza di aiutare così una definitiva conversione del regno di Elisabetta all'ideale europeo. Al punto che, già all'atto dell'adesione, la Gran Bretagna poté facilmente spuntare condizioni di assoluto privilegio - in termini di "do ut des" comunitario - che tuttora ne fanno uno dei paesi più favoriti su più versanti: soprattutto su quello finanziario. Vantaggi che i governi di Sua Maestà - senza grandi differenze fra premier laburisti o conservatori - hanno saputo consolidare nel tempo giocando con cinismo sul ricatto di dover altrimenti abbandonare il tavolo sotto la pressione di un'opinione pubblica interna in larga misura ostile al progetto europeo.
Non si discosta da questa linea, anzi ne rafforza con una certa veemenza gli aspetti antieuropei, anche l'attuale governo Cameron. La cui pretesa di robusti tagli al bilancio dell'Unione ha la furbizia - in Italia si direbbe "grillina" - di mascherarsi dietro le intemerate contro gli eccessi di costo delle burocrazie comunitarie, ma non riesce comunque a nascondere l'obiettivo strategico di sostanza: togliere risorse all'Unione per impedire che essa possa svolgere un ruolo cruciale nel rilancio delle economie europee. In altre parole, ciò a cui si mira è ostacolare quel salto di qualità nella politica europea che possa portare le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo a pilotare la svolta verso la crescita economica come una sorta di governo europeo in fieri.


ANCHE IL NOSTRO PRESIDENTE del Consiglio ha giudicato irritanti queste posizioni britanniche. Ed ha suggerito che Londra si decida una volta per tutte: anziché sollevare in continuazione obiezioni specifiche su singole questioni, affronti con un bel referendum popolare il nodo fondamentale della sua partecipazione all'Unione europea. Anche perché Mario Monti si dice convinto che, posti di fronte al dilemma cruciale se stare o non stare in Europa, sia il governo sia l'elettorato di quel paese - fatto un rapido conto costi-benefici - finirebbero senz'altro per scegliere il "manebimus optime". In effetti, sono un po' troppi anni che Londra fa riverberare sull'Europa intera il nodo dell'ostilità della sua opinione pubblica, mentre le ipotesi di un conseguente referendum popolare sul tema appaiono e scompaiono dall'agenda politica britannica con un moto pendolare sospetto perché registrato su tempi e modi delle decisioni in calendario a Bruxelles.

Dico subito che il suggerimento di Monti a me pare altamente opportuno, mentre non altrettanto condivisibile è la sua speranza sull'esito del referendum. Certo, un sì popolare toglierebbe dalle mani dell'inquilino di Downing Street un'arma di ricatto nei confronti dei suoi interlocutori europei, ma non per questo lo distoglierebbe dal perseguire la consolidata strategia frenante sul cammino verso l'integrazione federale dell'Unione. Per questo storico obiettivo una vittoria dei "no" sarebbe di sicuro più utile, temo necessaria.

 
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Titolo: Massimo RIVA. Più furbetti che patrioti
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 10:55:01 am
Opinioni

Più furbetti che patrioti

di Massimo Riva

(17 gennaio 2013)

Il patriottismo non sarà soltanto l'ultimo rifugio dei farabutti, come diceva Samuel Johnson, è però un fatto che in Italia nel nome di questo altrimenti nobile sentimento sono state commesse grandi canagliate economiche. Un esempio più remoto è la scelta di bandiera dietro cui si è ammantata la decisione di cedere alla Fiat il controllo dell'Alfa Romeo: con il bel risultato di promuovere una sorta di cannibalismo nell'industria nazionale dell'auto i cui frutti velenosi sono sotto gli occhi di tutti. Un altro e stavolta recentissimo esempio è dato dalla vicenda Alitalia nella quale una pattuglia di affaristi con interessi esposti in tutt'altri campi rispetto al trasporto aereo si è prestata a far finta di credere che si potesse salvare un'impresa decotta al solo e non confessabile fine di ingraziarsi i favori dell'allora premier Silvio Berlusconi sceso in crociata nazionalistica contro l'ipotesi di una cessione ad Air France. Il tutto con un altro duplice e straordinario risultato. Primo, quello di scaricare sulle spalle dei contribuenti perdite per oltre 3 miliardi di euro che l'accordo coi francesi avrebbe viceversa contenuto in maniera consistente. Secondo, quello di doversi ora ripresentare col cappello in mano alla stessa Air France o altro miglior offerente nell'unica speranza di poter limitare i danni di un'avventura sciagurata.

MERITA RAMMENTARE questi precedenti perché oggi appare di nuovo alto il rischio che nel nome di un malinteso patriottismo economico si possano compiere altri e non meno gravi misfatti. Da tempo ci sono parecchie e importanti partite aperte sul tappeto come la sorte della rete Telecom e quella dell'Ansaldo o di altri spezzoni della stessa Finmeccanica. Per sciogliere tali nodi i sedicenti custodi dell'amor patrio guardano insistentemente alla Cassa Depositi e Prestiti che è ormai diventata il raffazzonato rifugio azionario di uno Stato incapace di dotarsi di più validi strumenti di indirizzo della politica industriale. Ad appesantire un clima di confusione, che è il miglior brodo di coltura per i mestatori del patriottismo, è giunto in questi giorni un rapporto dei servizi segreti che lancia un preoccupato allarme sui disegni di penetrazione in Italia da parte di capitali cinesi.

IN PARTICOLARE , si segnala che uomini di Pechino sarebbero interessati a realizzare un investimento ingente per la riconversione dell'area ex Falck di Sesto San Giovanni alla periferia di Milano: quella, per intenderci, che è al centro dei guai giudiziari di Filippo Penati. Premesso che è ottimo servizio da parte dei nostri 007 quello di monitorare gli appetiti economici esteri verso beni italiani, non si vorrebbe che anche il caso specifico di Sesto diventasse motivo per un'altra e insensata crociata patriottica. Magari piovessero soldi dalla Cina per una grande operazione urbanistica che risollevasse dall'abisso la seria crisi edilizia in atto. Anche perché, se c'è un ambito nel quale la potestà di controllo dei poteri pubblici è massima e pervasiva, questo è proprio quello del settore immobiliare: in termini di cubature concesse, di destinazioni d'uso, di vincoli ambientali sugli spazi verdi e così via. Di allarmante ci può essere solo il rischio che i cinesi si mettano a fare concorrenza agli italiani anche sul piano di buste e bustarelle. Ecco che cosa dovrebbe semmai impensierire gli alfieri del tricolore.

C'è, quindi, un salto di qualità da compiere nella politica di difesa degli interessi strategici del paese. Si tratta di superare l'idea secondo cui lo Stato può farsi valere soltanto esercitando il diritto di proprietà come un qualunque privato per approdare a una visione in cui l'autorità pubblica afferma il suo primato attraverso una disciplina ben temperata degli affari e del mercato. Solo il passaggio dallo Stato padrone allo Stato regolatore è la chiave per distinguere i veri patrioti dai farabutti. La dottrina dei campioni nazionali, infatti, ha il non lieve difetto di tradursi sempre in una tassa occulta a carico del contribuente/consumatore.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/piu-furbetti-che-patrioti/2198394/18


Titolo: Massimo RIVA. Gli altri sparano la Ue dorme
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2013, 11:15:20 pm
Gli altri sparano la Ue dorme

di Massimo Riva

(07 febbraio 2013)


Il calabrone dell'euro - che appena un anno fa anche autorevoli premi Nobel giudicavano uno scherzo di natura dalla vita cortissima - ha ripreso a volare. Negli ultimi sei mesi si è rivalutato di oltre il 10 per cento sul dollaro e addirittura - complici le manovre di liquidità espansiva del nuovo governo giapponese - di circa il 30 per cento rispetto allo yen. Ha guadagnato perfino un modesto ma significativo 2 per cento sulla valuta che costituisce il bene monetario rifugio per eccellenza, il franco svizzero. E ciò nonostante che Berna abbia cercato di calmierare la propria moneta.

UNA QUOTA di questo spettacolare recupero può essere senz'altro conseguenza delle politiche di aggiustamento che, sebbene malcerte, hanno allontanato lo spettro di "default" conclamati in paesi come Grecia, Portogallo, Spagna, nonché Italia. Ma ciò spiega solo una piccola parte del fenomeno. Per il resto, la ragione preponderante va cercata sul fronte delle monete concorrenti. A Washington Federal Reserve e Casa Bianca stanno deliberatamente perseguendo una politica mirata a spingere verso il basso il dollaro sia con tassi d'interesse prossimi allo zero sia con robuste e reiterate immissioni di liquidità nel sistema. Quanto allo yen si è già accennato al fatto che il governo Abe ha imperiosamente costretto la propria banca centrale a massicci interventi monetari espansivi al fine esplicito di deprimere il corso della valuta nazionale.
Insomma, il rafforzamento dell'euro sui mercati dei cambi è frutto principalmente di scelte, chiamiamole così, di "dumping valutario" compiute da Usa e Giappone per difendere - se possibile allargare - le rispettive quote di esportazioni in una fase di debolezza delle proprie domande interne e di frenata complessiva dell'economia mondiale. Di qui la pertinente definizione di "guerra delle monete" che è stata avanzata per interpretare quanto sta accadendo. Una guerra, tuttavia, che al momento non ha ancora mostrato tutto il suo potenziale distruttivo perché gli strateghi che la conducono stanno ancora studiando gli effetti reciproci delle loro prime mosse e nessuno forse ha deciso se e quando fare l'attacco frontale. Una situazione che ricorda la "drôle de guerre" sul confine franco-tedesco fra l'autunno del 1939 e la primavera del 1940.

QUESTE ESITAZIONI dipendono soprattutto dall'incertezza sulle mosse di una potenza che finora è stata alla finestra, la Cina. La precipitosa caduta dello yen è un evidente guanto di sfida lanciato dal Giappone per la riconquista dei ricchi e comunque popolosi mercati asiatici. E' possibile che Pechino continui, come nulla fosse, a lasciar rivalutare lo yuan o è più probabile che risponda incamminandosi sul medesimo terreno delle svalutazioni competitive altrui? In questa seconda ipotesi, data la forza economica acquisita nel bene e nel male dal made in China, un'eventuale "Strafexpedition" cinese spingerebbe la guerra delle monete verso un bagno di sangue commerciale di dimensioni planetarie. E dall'Asia, in un baleno, l'onda d'urto arriverebbe anche in Europa.

In un simile scenario gravido di minacce per il non più solido benessere del Vecchio continente, lascia esterrefatti la sostanziale inerzia con la quale da Bruxelles e dalle principali capitali dell'Unione europea si seguono gli sviluppi di questa guerra delle monete. Sembra quasi che la rivalutazione dell'euro sia letta soltanto come una medaglia al valore per l'azione di aggiustamento contabile in corso. Nella totale noncuranza del rovescio della medesima medaglia: la crescente perdita di competitività di prezzo del made in Ue. Né ci si può accontentare che a cavare qualche castagna dal fuoco provveda da sola la Bce portando i tassi d'interesse più vicini allo zero come negli Usa. Mossa comunque utile ma che, in mancanza di una politica di rilancio degli investimenti, rischia di rianimare la domanda interna a maggior beneficio altrui. E' urgente che i governi dell'Unione escano dal loro imbelle pacifismo monetario: la guerra c'è e gli altri sparano.

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Titolo: Massimo RIVA. Chi non vuole regole sui derivati
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2013, 12:05:39 pm
Opinione

Chi non vuole regole sui derivati

di Massimo Riva

Lo sapevate che i contratti derivati in circolazione valgono nove volte il Pil mondiale? E che sono un'arma di distruzione di massa pronta a scoppiare in ogni momento? E che la politica è timidissima a metterci delle regole?

(28 marzo 2013)

Per qualche mese sui mercati ha dominato una discreta calma. Ora è bastata la crisi di Cipro per diffondere nuovamente un panico che dalla piccola isola dell'Egeo si è rapidamente esteso ai ben più corposi circuiti finanziari del resto d'Europa, a cominciare da quelli già più esposti come Spagna e Italia. E' possibile che anche questo difficile passaggio sia superato senza danni collaterali eccessivi, ma quanto sta accadendo è la controprova della grande fragilità che caratterizza l'andamento dei mercati. Sui quali continuano a incombere, ancorché seminascoste, minacce dirompenti tali da poter riaprire una nuova e più tragica stagione di dissesti bancari.

Basta guardare ai dati censiti dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) sulle enormi dimensioni tuttora raggiunte dal comparto più oscuro e minaccioso dei mercati finanziari: quello dei cosiddetti derivati. Contratti che con orrore un finanziere del calibro di Warren Buffet ha definito autentiche armi di distruzione di massa a causa del loro potenziale destabilizzante per l'economia planetaria. Ebbene, contro un Pil mondiale stimato in circa 70 mila miliardi di dollari la massa complessiva dei derivati ha raggiunto nel 2012 (e forse oggi ha già superato) il ragguardevole livello di 639 mila miliardi: nove volte, insomma, la ricchezza prodotta nel mondo intero.

Come non bastasse, di questo arsenale esplosivo si sa assai poco. Nel senso che i contratti derivati si formano e vengono scambiati per lo più fuori dai mercati regolamentati. Hanno tipologie diversificate e riguardano rischi riferiti a un'ampia gamma di valori oscillanti: valute, azioni, materie prime, rischi di default e (nella stragrande maggioranza) tassi d'interesse. In breve: se si può stimarne il volume con buona approssimazione, molto più arduo diventa soppesarne il tenore di pericolosità. Si sa, fra l'altro, che il rischio risulta particolarmente concentrato in alcuni istituti di credito statunitensi come Jp Morgan o Bank of America. Ma il fatto che da sole queste due banche abbiano in corpo circa un sesto dell'intero ammontare dei derivati, mentre in Italia il peso di questi contratti sta sul 10 per cento del Pil nazionale, non suona affatto tranquillizzante. La lezione di Lehman Brothers insegna che l'onda d'urto dei dissesti finanziari non conosce confini e può produrre anzi guai maggiori nei paesi che, magari estranei nello specifico, sono tuttavia in una condizione di strutturale debolezza.

Ora pare che su entrambe le sponde dell'Atlantico ?€“ dopo anni di latitanza e interminabili quanto vani conciliaboli ?€“ le autorità politiche e monetarie abbiano deciso di fare qualcosa per rendere almeno un po' più trasparente e regolato un mercato che finora ha fatto della sua opacità la propria maggiore condizione di sopravvivenza. Negli Stati Uniti i vertici di Jp Morgan sono stati chiamati a rispondere in Congresso dell'avventurosa gestione con la quale hanno infarcito la loro banca di una quantità abnorme di titoli tossici. L'inchiesta parlamentare dovrebbe produrre un nuovo codice di regole "ad hoc" per riportare sotto controllo una situazione ormai sempre più esplosiva. Ma si arriverà mai a questo traguardo? Come si è già visto con la "Volcker rule" ?€“ il tentativo di riseparare il credito ordinario da quello d'investimento ?€“ il condizionamento delle grandi banche sulle scelte dei "congressmen" di Washington è di inusitata potenza.

In Europa si è fatto qualche passo in più. Nel senso che è appena entrata in vigore una disciplina la quale dovrebbe dare buoni frutti per quanto riguarda la trasparenza delle contrattazioni ma assai meno per quel che attiene alla rischiosità insita nei derivati. Così alimentando l'impressione che anche le autorità europee si muovano con estrema cautela nel timore che regole più cogenti possano anticipare un'esplosione devastante. A conferma che, a dispetto della relativa calma sui mercati, la miccia della bomba derivati è già accesa. Si tratta di capire soltanto quanto sia lunga.

   
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Titolo: Massimo RIVA. I contratti Gazprom li paghiamo noi
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:19:41 pm
Opinioni

I contratti Gazprom li paghiamo noi

di Massimo Riva

(11 aprile 2013)

Buoni e, purtroppo, anche cattivi segnali si accavallano sul mercato del gas, diventato ormai una fonte energetica primaria per il nostro paese. Dopo un ciclo di rialzi di circa tre anni, per decisione della competente Authority, i prezzi sono scesi del 4 per cento a partire dal primo aprile. Un sollievo per le bollette a carico dei consumatori – ma anche per il tasso d'inflazione – che potrebbe essere seguito da ulteriori ribassi nel prossimo trimestre. E ciò perché l'Autorità per l'energia sta progressivamente modificando i criteri delle sue scelte tariffarie in materia. Finora i principali valori di riferimento erano quelli relativi ai prezzi dei contratti a lungo termine, resi sovente più onerosi da una specifica clausola imposta dai grandi venditori. Quella definita nella formula del "take or pay". In forza della quale l'azienda acquirente – in Italia sostanzialmente l'Eni – si impegna a prelevare una determinata quantità di gas o comunque a pagare il corrispettivo anche in caso di mancato o parziale ritiro della materia prima.

Ma da qualche tempo, anche a seguito del calo dei consumi indotto da una diffusa recessione, il mercato mondiale del gas si sta rapidamente modificando. Tanto che con gli acquisti cosiddetti "spot" ovvero fatti alla borsa quotidiana si possono spuntare prezzi ben più convenienti di quelli dei contratti a lungo termine. Giustamente la nostra Autorità per l'energia ha perciò deciso di fare le sue valutazioni tariffarie non solo sui contratti più onerosi ma prendendo in considerazione anche i valori più bassi espressi dai mercati "spot". Anzi, ha annunciato che d'ora in poi questi ultimi avranno un peso crescente nelle sue decisioni. Poiché il compito fondamentale di questa Autorità è quello di proteggere i consumatori dal consolidarsi di posizioni di rendita da parte delle aziende distributrici o produttrici, una simile svolta va salutata come benvenuta.

Anche perché altre novità calmieratrici sono alle viste. In particolare a seguito della imminente offerta anche sul mercato europeo di "shale gas" ovvero di metano estratto dalle rocce secondo una tecnologia Usa che promette miracoli in quantità e in prezzi. Prospettiva che sta fortemente allarmando i tradizionali fornitori dell'Europa e del nostro paese: dai russi di Gazprom agli algerini di Sonatrach, dai norvegesi ai libici di Noc. Allarme, tuttavia, condiviso anche dall'Eni per il semplice fatto di essere legato ai suddetti giganti del gas da una serie di contratti "take or pay" che rischiano di disastrare i conti dell'azienda mettendoli in controtendenza con l'andamento ribassista del mercato.

Il numero uno operativo dell'Eni, Paolo Scaroni, ha annunciato di voler rinegoziare i più pesanti contratti in essere ma ha messo le mani avanti precisando che queste trattative saranno laboriose e soggiungendo che «i problemi di sicurezza di approvvigionamento devono essere presi in carica direttamente dai governi». Parole quanto mai sibilline. Se Scaroni chiede che la politica dia una mano a facilitare la riscrittura dei contratti dato che le controparti sono tutte o quasi aziende statali, nulla di male. Viceversa, se il boss dell'Eni sottintendesse, per ipotesi, che il governo deve fare la sua parte magari accettando di scaricare sui consumatori una parte dei prezzi fuori mercato che l'Eni dovesse essere costretta a pagare in futuro, allora è bene dire subito che saremmo fuori da ogni logica istituzionale ed economica. Non si tratta di fare processi alle intenzioni ma di ribadire che l'età dei profitti privati e delle perdite pubbliche è finita per sempre.

L'Eni è stato colto in contropiede da una rivoluzione del mercato del gas che i suoi dirigenti non hanno saputo vedere in anticipo? Bene, questo è un classico problema di pertinenza degli azionisti dell'Eni medesimo. Fra i quali c'è certamente lo Stato per una quota del 30 per cento. Che al restante 70 vada un regalo a spese dei consumatori è ipotesi semplicemente indecente.


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Titolo: Massimo RIVA. Si chiama Enrico ma pare Silvio
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2013, 04:17:38 pm
Opinione

Si chiama Enrico ma pare Silvio

di Massimo Riva

Finora l'unica decisione del nuovo governo è stata quella di non far pagare l'Imu a giugno. Scelta popolare, se non populista, voluta da Berlusconi. Intanto però si aumenta l'Iva. E le tasse sul lavoro restano altissime, così i disoccupati crescono

(03 maggio 2013)

A giugno gli italiani non saranno chiamati a versare la prevista rata dell'Imu. Del lungo, a tratti ovvio, elenco di priorità programmatiche esposte dal neo-presidente del Consiglio questo è l'unico punto che è stato concretamente annunciato con precisa scadenza temporale.

Su tutto il resto dei problemi incombenti - dal rifinanziamento della cassa integrazione al dramma dei cosiddetti esodati - Enrico Letta si è limitato a dire che provvederà ma senza assumere impegni puntuali. La ragion politica di questo annuncio è ben nota: della cancellazione dell'Imu Silvio Berlusconi aveva fatto il suo principale cavallo di battaglia elettorale e la condizione indispensabile per dare l'appoggio del Pdl al nuovo governo.

Se ci si vogliono tingere gli occhiali di rosa si può anche argomentare che in fondo Letta ha escogitato per ora una sorta di scappatoia dalla stretta berlusconiana. In particolare, non si è spinto fino ad annunciare anche il rimborso dell'imposta pagata nel 2012 come spericolatamente propagandato dal Cavaliere: promessa che, insieme all'abrogazione della tassa, avrebbe raddoppiato il buco nelle entrate dell'anno corrente. Resta comunque il fatto che, nel volgere delle poche prossime settimane, il governo dovrà trovare cespiti alternativi al mancato incasso dell'Imu per scongiurare vuoi un incremento del debito pubblico vuoi la paralisi finanziaria dei bilanci comunali.

Ne consegue che il ricorso ai suddetti cespiti alternativi finirà per sottrarre risorse utili alla soluzione di altre esigenze fiscali definite prioritarie dallo stesso presidente del Consiglio: dal taglio delle tasse su lavoro e impresa alla rinuncia all'incremento dello scaglione Iva dal 21 al 22 per cento che dovrebbe scattare il primo luglio. In tempi di coperta corta i margini di movimento sul bilancio restano esigui: non solo si tratta di dare corretta copertura a ogni euro che esce dalla cassa ma di trovarne una altrettanto valida per ogni euro che non entra.

Si può immaginare che Enrico Letta conti di sottrarsi a queste forche caudine negoziando un allentamento degli impegni assunti in sede europea dove, in effetti, comincia a farsi strada l'idea che il rigore contabile assoluto non è più un totem intoccabile. Ma per intuibili ragioni non sarà facile su questo punto ottenere soddisfazioni significative prima delle fatidiche elezioni tedesche di settembre: quando ormai i conti del bilancio 2013 saranno in sostanza compromessi. E di sicuro sarà ancora meno facile presentandosi all'Europa con il biglietto da visita di uno stop agli incassi dell'Imu, ovvero di un'imposta sugli immobili che, magari meglio formulata della nostra, esiste comunque in tutti gli altri grandi paesi europei.

Insomma, sarà stato indispensabile per Letta cominciare lisciando il pelo a Berlusconi sull'Imu, fatto sta che questo messaggio rischia di avvalorare una convinzione diffusa (non solo in Germania) secondo cui quello italiano è un convento povero ma dove i frati sono ricchi e aborrono le tasse. Piaccia o no, la battaglia politica sull'Imu impostata dalla destra ha evidenti connotati di lotta ideologica e classista. Non si tratta soltanto di rimediare alle non poche incongruenze tecniche dell'imposta vigente. Lo scopo, per altro dichiarato, è di contrastare ogni forma di prelievo fiscale sui patrimoni tenendo le relative rendite al riparo dalla necessità di contribuire al funzionamento del bilancio pubblico. C'è solo da sperare che questo "incipit" berlusconiano non diventi la chiave di lettura dominante del governo Letta.


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/si-chiama-enrico-ma-pare-silvio/2206240/18


Titolo: Massimo RIVA. Si chiama Enrico ma pare Silvio
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2013, 11:23:40 pm

Opinione

Si chiama Enrico ma pare Silvio

di Massimo Riva

Finora l'unica decisione del nuovo governo è stata quella di non far pagare l'Imu a giugno. Scelta popolare, se non populista, voluta da Berlusconi. Intanto però si aumenta l'Iva. E le tasse sul lavoro restano altissime, così i disoccupati crescono

(03 maggio 2013)

A giugno gli italiani non saranno chiamati a versare la prevista rata dell'Imu. Del lungo, a tratti ovvio, elenco di priorità programmatiche esposte dal neo-presidente del Consiglio questo è l'unico punto che è stato concretamente annunciato con precisa scadenza temporale.

Su tutto il resto dei problemi incombenti - dal rifinanziamento della cassa integrazione al dramma dei cosiddetti esodati - Enrico Letta si è limitato a dire che provvederà ma senza assumere impegni puntuali. La ragion politica di questo annuncio è ben nota: della cancellazione dell'Imu Silvio Berlusconi aveva fatto il suo principale cavallo di battaglia elettorale e la condizione indispensabile per dare l'appoggio del Pdl al nuovo governo.

Se ci si vogliono tingere gli occhiali di rosa si può anche argomentare che in fondo Letta ha escogitato per ora una sorta di scappatoia dalla stretta berlusconiana. In particolare, non si è spinto fino ad annunciare anche il rimborso dell'imposta pagata nel 2012 come spericolatamente propagandato dal Cavaliere: promessa che, insieme all'abrogazione della tassa, avrebbe raddoppiato il buco nelle entrate dell'anno corrente. Resta comunque il fatto che, nel volgere delle poche prossime settimane, il governo dovrà trovare cespiti alternativi al mancato incasso dell'Imu per scongiurare vuoi un incremento del debito pubblico vuoi la paralisi finanziaria dei bilanci comunali.

Ne consegue che il ricorso ai suddetti cespiti alternativi finirà per sottrarre risorse utili alla soluzione di altre esigenze fiscali definite prioritarie dallo stesso presidente del Consiglio: dal taglio delle tasse su lavoro e impresa alla rinuncia all'incremento dello scaglione Iva dal 21 al 22 per cento che dovrebbe scattare il primo luglio. In tempi di coperta corta i margini di movimento sul bilancio restano esigui: non solo si tratta di dare corretta copertura a ogni euro che esce dalla cassa ma di trovarne una altrettanto valida per ogni euro che non entra.

Si può immaginare che Enrico Letta conti di sottrarsi a queste forche caudine negoziando un allentamento degli impegni assunti in sede europea dove, in effetti, comincia a farsi strada l'idea che il rigore contabile assoluto non è più un totem intoccabile. Ma per intuibili ragioni non sarà facile su questo punto ottenere soddisfazioni significative prima delle fatidiche elezioni tedesche di settembre: quando ormai i conti del bilancio 2013 saranno in sostanza compromessi. E di sicuro sarà ancora meno facile presentandosi all'Europa con il biglietto da visita di uno stop agli incassi dell'Imu, ovvero di un'imposta sugli immobili che, magari meglio formulata della nostra, esiste comunque in tutti gli altri grandi paesi europei.

Insomma, sarà stato indispensabile per Letta cominciare lisciando il pelo a Berlusconi sull'Imu, fatto sta che questo messaggio rischia di avvalorare una convinzione diffusa (non solo in Germania) secondo cui quello italiano è un convento povero ma dove i frati sono ricchi e aborrono le tasse. Piaccia o no, la battaglia politica sull'Imu impostata dalla destra ha evidenti connotati di lotta ideologica e classista. Non si tratta soltanto di rimediare alle non poche incongruenze tecniche dell'imposta vigente. Lo scopo, per altro dichiarato, è di contrastare ogni forma di prelievo fiscale sui patrimoni tenendo le relative rendite al riparo dalla necessità di contribuire al funzionamento del bilancio pubblico. C'è solo da sperare che questo "incipit" berlusconiano non diventi la chiave di lettura dominante del governo Letta.


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Titolo: Massimo RIVA. Sembra di stare a Monaco nel '38...
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2013, 07:03:12 pm
Sembra di stare a Monaco nel '38...

di Massimo Riva

(23 maggio 2013)

Un pessimo clima da anni Trenta del Novecento domina ormai da troppo tempo la scena europea. Fortunatamente non incombono minacce di guerre sanguinose ma, come allora, classi dirigenti imbelli e irresolute stanno offrendo uno spettacolo desolante di mediocrità politica. Anziché esercitare un ruolo di guida delle proprie opinioni pubbliche e di indirizzo verso obiettivi generali di bene comune, i leader di governo appaiono sempre più accodati agli umori di pancia dei rispettivi elettorati nazionali. Non mancano certo periodiche proclamazioni, anche solenni, di impegno e di fedeltà verso l'ideale dell'unità politica ed economica del continente: da ultimo vi si è cimentato con accenti alti e accorati il presidente francese François Hollande. Ma, almeno finora, si è trattato per lo più di vocalizzi senza seguito di azione politica davvero concreta e innovativa. E' come se il funesto e rinunciatario "spirito di Monaco" si fosse di nuovo impadronito delle cancellerie europee.

Alla gravità dei problemi che assillano le società e le economie del continente - una crescente disoccupazione di massa provocata dalla caduta dell'attività produttiva - non si sanno dare risposte pronte, efficaci, lungimiranti. Il confronto fra i sostenitori di una politica d'austerità e i fautori di una strategia di immediato rilancio della crescita ha assunto i toni astratti e feticisti di un incomponibile conflitto fra religioni. Con l'increscioso risultato di non riuscire a compiere alcuna scelta che riesca a discostarsi dall'interpretazione più gretta e ortodossa delle regole fissate in trattati concepiti e sottoscritti in un'epoca nella quale ci si illudeva che le sorti dell'Europa potessero essere soltanto meravigliose e progressive.

L'unione monetaria, in particolare, è scossa da contrasti di interessi fra paesi più deboli e più forti ai quali l'economia dominante - quella tedesca - insiste da tempo nel voler applicare una terapia uguale per tutti. Con un altro esito increscioso: quello di accrescere le difficoltà generali del sistema a moneta unica. Tanto che ora il crollo della domanda interna indotto da una troppo rapida e brusca strategia del rigore nei paesi coi conti in disordine comincia a riflettersi in negativo sull'intera congiuntura continentale fino al punto di provocare una caduta delle esportazioni anche nelle economie più vitali, quella della Germania per prima. Da ultimo ci sono segnali che qualcosa possa mutare nelle rigide (e ottuse) posizioni assunte dal governo di Berlino, ma in concreto non si va oltre a spostamenti millimetrici per lo più affidati ad aggiustamenti verbali nelle dichiarazioni. Cosicché il quadro complessivo resta immutato con l'area più ricca del mondo che non riesce a darsi una politica comune all'altezza dei suoi problemi.

"Toujours en retard, d'un'année, d'un'armée, d'un'idée". Il celebre giudizio di Napoleone sull'Austria dipinge fedelmente l'attuale stato dell'Europa. Dalla più lontana crisi della Grecia a quella più recente di Cipro, un penoso ritardo nei tempi dell'intervento è stato la costante di una politica comunitaria sempre indecisa a tutto fino a rendere sempre più costosa e pesante la terapia necessaria. Quanto ai ritardi negli strumenti c'è una realtà sotto gli occhi di tutti: l'euro è una moneta senza Principe perché manca non solo di un governo sovranazionale di riferimento ma perfino di una banca centrale in grado di esercitare tutti i poteri - a cominciare da quello di stabilire la quantità di carta in circolazione - di cui ovviamente dispongono vuoi l'americana Fed vuoi la Bank of Japan.

Ma il ritardo di gran lunga più grave e allarmante riguarda l'appannamento dell'ideale unitario. Uscita di scena la generazione che aveva vissuto sulla propria pelle le tragedie del Novecento, le ragioni storiche profonde della costruzione europea sembrano uscite dal cuore e dalla mente dei governanti attuali. Su tutto prevale la spinta a gestire in qualche modo il presente senza guardare alle conseguenze future. Ahinoi, proprio come a Monaco nel '38.

 
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Titolo: Massimo RIVA. Letta non batterà mai la crisi
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2013, 11:00:07 am

Opinione

Letta non batterà mai la crisi

di Massimo Riva

Per uscire dalla recessione bisogna ridurre le disuguaglianze: solo così, infatti, ripartono i consumi. Ma questo governo non vuole o non può farlo, anche perché è in ostaggio dei berlusconidi

(18 giugno 2013)

Crescita degli indigenti, impoverimento delle classi medie e ulteriore concentrazione di ricchezze in mani sempre meno numerose: questi i mutamenti più vistosi del quadro socio-economico indotti dalla dura crisi degli ultimi anni. E non solo in Italia, dove l'ascensore sociale si è forse più bloccato che altrove. Poiché si tratta di un dato di fatto convengono su questa fotografia della disuguaglianza perfino i liberisti più incalliti, anche se a loro giudizio a questa situazione si potrà porre rimedio solo lasciando che la mano invisibile dei mercati svolga fino in fondo il suo ruolo salvifico di creazione di maggiori risorse da distribuire (poi) fra tutti.

Contro questa ideologia dominante da decenni in Occidente a poco o nulla sono valse le critiche di economisti di pur rinomata reputazione. Da ultimo il premio Nobel, Joseph Stiglitz, ha colto però un vero e proprio tallone d'Achille della costruzione liberista. Il suo teorema si può sintetizzare così: la crescente disuguaglianza nella ripartizione delle risorse non è soltanto effetto della crisi ma ormai ne è divenuta anche causa di aggravamento. La spiegazione dell'assunto parte da uno dei fattori più critici del momento: la caduta della domanda per consumi su cui si è innestata la frenata degli investimenti in una spirale negativa che toglie spazio vitale anche agli spiriti animali del mercato nella loro spinta alla creazione di maggiore ricchezza. Tutto ciò per la semplice ragione che gli "happy few", pur carichi di soldi, alimentano solo parzialmente i consumi, la cui tenuta o crescita dipende in via prevalente dalla quantità di reddito a disposizione della grande massa di chi ha poco e deve spendere tutto per sopravvivere.

Per questo teorema Stiglitz non riceverà un altro Nobel: le sue tesi, infatti, non sono poi così originali. Ottant'anni fa aveva imboccato la stessa strada J. M. Keynes nei suoi studi su T. R. Malthus che, ai primi dell'Ottocento, aveva offerto al mondo un'interpretazione lungimirante sul rapporto fra distribuzione della ricchezza e vitalità del circuito consumi-investimenti. Una lezione che calza a pennello per i guai in cui ci si dibatte oggi. Per esempio, a fronte di una crisi esplosa a causa di un'abnorme finanziarizzazione dell'economia, ci si continua a chiedere come sia stata possibile la formazione di bolle speculative sconsiderate sui cosiddetti titoli tossici. La risposta è già in Malthus: quando continua ad accumularsi in poche mani, il denaro si allontana dai consumi produttivi e viene inesorabilmente attratto da impieghi in avventure puramente cartacee. Quindi la disuguaglianza crescente nella ripartizione delle ricchezze è doppiamente responsabile. Dapprima di aver creato i presupposti dei terremoti finanziari che hanno inaridito i flussi verso l'economia reale. Poi - cioè ora - di essere diventata il maggiore ostacolo a una ripresa dei consumi che, trascinando gli investimenti, rimetta in moto il volano della crescita economica. Passaggio sempre più indispensabile sia per aggredire il malessere sociale da mancanza di lavoro sia per rendere più agevole il risanamento delle finanze pubbliche indebitate.

In questi giorni nel Paese si moltiplicano i segnali d'allarme - da parte politica e anche imprenditoriale - sui rischi che il disagio dei ceti indigenti e di spezzoni di espulsi dalla classe media si possa saldare ingenerando diffusi sentimenti di rivolta. Pur senza la pretesa che le nostre classi dirigenti si rileggano Malthus, Keynes e Stiglitz, viene spontaneo suggerire che esse impieghino più utilmente il loro potere. Anziché ricorrere ad avventurosi esercizi dilatori sull'impianto della Costituzione o a baloccarsi con l'Imu e consimile bigiotteria fiscale, prendano coscienza che una più equilibrata distribuzione della ricchezza non sarebbe un atto di solidarietà sociale, ma soprattutto un affare economico per il Paese. Quindi, la prima e più urgente delle riforme istituzionali: resta da chiedersi quanto essa sia praticabile da un governo ostaggio dei berlusconidi.

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Titolo: Massimo RIVA. Lavoro, perché Letta è bocciato
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2013, 06:14:15 pm

Economia

Lavoro, perché Letta è bocciato

di Massimo Riva

La disoccupazione è una malattia di massa da aggredire con forza. Il premier dice che ora le aziende non hanno più alibi per non assumere.
In realtà tutto dipende dal crollo della domanda e bisogna chiedere all'Europa nuovi investimenti

(04 luglio 2013)

Ora «le imprese non hanno più alibi per non assumere». C'è uno sconcertante eccesso di sicumera nelle parole con le quali Enrico Letta ha voluto sintetizzare il senso delle mosse del governo in tema di lotta alla disoccupazione giovanile. Né il quasi miliardo e mezzo di fondi strappati in sede europea né il recente decreto sul lavoro, infatti, autorizzano a ritenere che stia per schiudersi chissà quale campagna acquisti da parte delle aziende.

Magari gli imprenditori che già avevano esigenze di nuovo personale diventeranno un po' più generosi nelle loro chiamate alla luce della fiscalizzazione degli oneri sociali prevista dalle nuove norme. Anche perché la maggiore entità del contributo europeo ottenuto dal premier all'ultimo vertice Ue fa ritenere che i benefici concessi potranno durare un po' più a lungo nel tempo. Ma non sarà con questo genere di aspirine che si riuscirà ad aggredire una malattia di massa così profonda e diffusa come la mancanza di lavoro per oltre tre milioni di italiani, di cui quasi la metà sotto i trent'anni. Fa presto, dunque, Enrico Letta a prendersela con gli "alibi" delle imprese ma, così parlando e operando, mette in luce un approccio politico alla materia al tempo stesso riduttivo e fuorviante. Il cui limite principale consiste nel voler affrontare il problema dalla coda e non dalla testa.

Ci sono oggi in Italia migliaia e migliaia di imprese che si vedono costrette a chiudere gli impianti o comunque a ridimensionare robustamente la loro produzione, in entrambi i casi con pesanti effetti sull'occupazione. Questi drammi possono avere anche motivazioni intrinseche all'azienda come l'obsolescenza dei prodotti o dei macchinari piuttosto che l'incapacità gestionale del proprietario o del management. Ma c'è comunque una causa generale che tutte accomuna, le buone come le cattive imprese. Ed è la caduta verticale della domanda interna che prosegue ormai da almeno quattro anni e trova il suo riflesso statistico inesorabile nel dato sempre negativo della crescita del Pil.

Che il mercato del lavoro in Italia abbia bisogno di riforme ordinamentali è senz'altro innegabile. Ma, dopo tanti anni di pasticci in materia con risultati insignificanti, sembrerebbe giunta l'ora per convincersi che il nodo della disoccupazione non può essere sciolto soltanto con un po' di bricolage giuridico della legislazione e dei contratti o con qualche sgravio d'occasione. Al fondo di tutto c'è una questione maledettamente reale: la frenata recessiva dell'economia innescata dall'abbraccio letale fra caduta dei consumi e blocco degli investimenti.

Se non si arresta (e poi si inverte) il moto di questa spirale c'è poco da sperare in un riassorbimento, seppure graduale, della disoccupazione di massa. Il governo Letta può anche decidere di impiegare il miliardo e mezzo dei fondi europei per regalare a costo zero un po' di lavoratori alle imprese ma se quest'ultime non trovano mercato per i loro prodotti data la regressione dei consumi l'esito dell'operazione sarà un buco nell'acqua.

Capisco che, a fini di teatro mediatico, la via più facile sia quella di andare in Europa alzando la bandiera della disoccupazione giovanile per poi tornare a casa con un poco di selvaggina in bocca. Ma ciò significa anche avallare la miopia di quel pensiero oggi dominante nell'Unione secondo cui il rigore dei conti va esteso anche alle spese per investimenti e tanto più nel caso dei paesi che abbiano difficoltà di bilancio. Vuol dire, insomma, rinunciare a condurre a viso aperto una battaglia seria per una svolta politica nelle scelte di Bruxelles e accontentarsi di elemosinare una mancia, ancorché più robusta, lasciando di fatto immutato il quadro complessivo di un'Unione immobile dinanzi alla recessione generale. Sorge così l'increscioso dubbio che, quando denuncia gli alibi altrui, non sia magari Enrico Letta a volersi precostituire un alibi per mascherare i limiti oggettivi e la precarietà temporale dell'attuale approccio governativo al dramma della disoccupazione.


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Titolo: Massimo RIVA. Basta con la bufala dell'Imu
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2013, 04:25:23 pm
Opinione
Basta con la bufala dell'Imu

di Massimo Riva

Le tasse sulla casa esistono tutto il mondo, anche più alte delle nostre. Da noi, invece, quelle che pesano troppo sono le imposte sul lavoro: che uccidono l'occupazione e soffocano la ripresa. Perché nessuno ha il coraggio di dirlo?

(20 agosto 2013)

Quel che fa più impressione, ma suscita anche una certa dose di rabbia, è l'enorme spreco di tempo e di intelligenze. Enrico Letta, Fabrizio Saccomanni e Ignazio Visco sono - ciascuno a suo modo - uomini sagaci, navigati, certo non digiuni di economia politica. Vederli ancora impegnati a spremersi le meningi per trovare una via d'uscita sulla questione dell'Imu è uno spettacolo piuttosto sconfortante. Tanto più dopo che il premier e il ministro del Tesoro hanno annunciato che l'economia italiana si appresta, entro l'anno, a rialzarsi da una recessione che la tiene in ginocchio ormai da parecchi anni.

DIFFICILE SOPPESARE quanto siano affidabili i segnali positivi da cui Letta e Saccomanni traggono buoni auspici per il futuro prossimo. Al 30 giugno le statistiche hanno certificato una caduta del Pil ininterrotta negli ultimi otto trimestri, mentre qualche indicazione di ripresa sta ora venendo sul doppio fronte della produzione industriale e della domanda interna. Sono piccoli indizi ma dicono che qualcosa, in effetti, si sta muovendo. Se ne può volenterosamente dedurre che forse il paese abbia toccato il fondo della crisi e possa da qui in poi cominciare una risalita. Ma se è proprio così - e conviene sperarlo caldamente - a maggior ragione oggi la missione cruciale di governo e autorità monetaria dovrebbe essere quella di concentrarsi su misure in grado di incoraggiare e irrobustire la maturazione della così tanto attesa svolta economica.

Non c'è nemmeno da dubitare che a Palazzo Chigi e in Via Nazionale si ignori quali siano i nodi prioritari da sciogliere per aiutare il ritorno della crescita. Sul terreno fiscale si tratta di impegnare ogni pur minima risorsa disponibile per alleggerire il peso delle tasse sul lavoro e sulle imprese, al duplice scopo di ridare ossigeno alla domanda interna e alla ripresa degli investimenti. Sul terreno monetario si tratta di indurre le banche a un bilanciamento dei loro impieghi che, fra acquisti di titoli del Tesoro e crediti al sistema produttivo, sia un poco più favorevole a quest'ultimo.

Operazioni certo non facili, ma sulle quali sarebbe giusto attendersi il massimo di impegno da parte di chi governa debito e moneta. E invece no: a più di cento giorni dalla nascita del governo Letta, ancora tutto è bloccato dalla bomba politica e contabile dell'Imu.

Il buon Saccomanni ha cercato di disinnescare l'ordigno mostrando, conti alla mano, limiti e sostanziale irrazionalità di un'abolizione dell'Imu. Ma il fatto è che Silvio Berlusconi ha fatto di questa ipotesi la carta vincente della sua campagna elettorale e ora la condizione vitale del suo sostegno al "governo di necessità".
Al novello Ghino di Tacco non interessa che in tutti i Paesi civili sia in vigore un prelievo fiscale sulle case, non importa che questo tributo tenda a riequilibrare in senso patrimoniale un sistema fin troppo sbilanciato a danno dei redditi da lavoro, tanto meno si cura della perdita di gettito e del conseguente buco nei conti. Ancorché certificato ora come delinquente fiscale dalla Cassazione, Berlusconi esige che questa tassa sia tolta di mezzo perché lui così ha promesso. E dunque, come minacciano i suoi bravi: o via l'Imu o via il governo.

DINANZI A SIMILI RICATTI, che impongono di compiere una scelta economica sbagliata pur di tutelare un puntiglio politico di parte, ce n'è abbastanza perché a Palazzo Chigi si ritrovi il coraggio di recuperare una gerarchia più seria delle cose da fare. Il dossier Saccomanni con i suoi conti accurati ha spianato la strada. Per esempio: già oggi è prevista una franchigia di 200 euro, la si porti a 400 e non se ne parli più. Almeno fino a quando - opera di equità questa sì indispensabile - saranno stati aggiornati i valori catastali. Chi guida il Paese avrà così più tempo e più risorse per aiutare imprese e lavoratori ad agganciare la sperata ripresa. I berlusconiani faranno saltare il banco? Data la posta in gioco, val la pena di vedere se lo faranno.

 
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Titolo: Massimo RIVA. Un sospetto sulle privatizzazioni
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2013, 08:21:59 am
Opinioni

Un sospetto sulle privatizzazioni

di Massimo Riva

(26 luglio 2013)

Dice il ministro Zanonato che sicuramente sarà abolita l'Imu sulla prima casa e anche cancellato l'aumento dello scaglione Iva dal 21 al 22 per cento. Nessuno sa con quali risorse alternative sarà coperto il conseguente buco nei conti pubblici, ma l'impegno del governo su queste richieste della sua ala berlusconiana risulta così categorico. Nel frattempo sia il premier Letta sia il ministro Saccomanni hanno riaperto l'antica partita della cessione sul mercato dei residui pacchetti azionari (il 30 per cento circa) di Enel, Eni e Finmeccanica. Fra le due questioni, a prima vista, non c'è alcun collegamento di logica contabile, ma la concomitanza temporale fra i due annunci suggerisce di stare in guardia. Il rischio è che sotto traccia stia maturando la tentazione di un corto circuito fra dossier dismissioni e le promesse su Imu e Iva.

Di una fuoriuscita dello Stato dal capitale delle tre maggiori aziende pubbliche si parla da tempo. Al fine - si assicura - di usare il ricavato per ridurre la montagna oppressiva del debito pubblico secondo una visione ragionieristica impeccabile: meno patrimonio contro meno debito.
Finora non si è proceduto su questa strada a causa di non trascurabili perplessità politiche. In Eni ed Enel sta la chiave dei rifornimenti energetici del paese, in Finmeccanica - al netto dei malaffari recenti e passati - c'è una parte importante della presenza italiana sia su mercati ad alta tecnologia sia su comparti strategici come quello degli armamenti. Su terreni così delicati può lo Stato accontentarsi di esercitare il suo controllo senza detenere azioni, ma ricorrendo a quel controverso strumento giuridico che va sotto il nome di "golden share"?

Il quesito è sensato, ma oggi appare aperto più in astratto che in concreto. E ciò per la semplicissima ragione che la vendita di Enel, Eni e Finmeccanica a fini di riduzione del debito sarebbe un'opzione poco conveniente in termini contabili. Agli attuali corsi di Borsa il ricavato supererebbe di poco la ventina di miliardi, tirandosi dietro anche la perdita di oltre 600 milioni annui di mancati dividendi. Cosicché si finirebbe col perdere il controllo di importanti cespiti industriali per tagliare il debito di un magro 1 per cento: somma insignificante sia agli occhi dei mercati sia quanto a minori costi del servizio del debito.

E, infatti, dentro il governo si sta guardando a ipotesi alternative di leva finanziaria sui pacchetti delle tre grandi aziende. Una di queste sarebbe quella di usare il valore delle azioni detenute dallo Stato come collaterale di nuovi prestiti che, poggiando su simili garanzie, potrebbero spuntare tassi d'interesse ben più bassi di quelli attuali sul debito. Ma anche qui sorge un bel problema: che accadrebbe sui mercati di fronte all'emissione di questi titoli privilegiati? Il rischio serio è che il risparmio ottenuto da un lato verrebbe ampiamente superato dall'altro a causa della richiesta di rendimenti assai più elevati sulla parte rimanente del debito. Insomma, l'ingegneria finanziaria è un campo ricco di controindicazioni che non possono essere aggirate con meri esercizi di fantasia.

Resta perciò da capire dove voglia andare a parare davvero il governo Letta riaprendo il dossier dismissioni. Che vi siano impellenti necessità di cassa è fuor di dubbio. Non si vorrebbe però che il ricorso a cessioni o ipoteche di cespiti patrimoniali obbedisse non all'esigenza di ridurre volume e oneri del debito pubblico, ma all'inconfessabile fine di trovare finanziamenti temporanei per scelte politiche di parte corrente: tanto peggio se assai opinabili come quelle, appunto, su Imu e Iva. Avvalora simile dubbio increscioso il fatto che lo stop su queste due imposte sia appena stato riconfermato in termini ultimativi dal ministro Zanonato senza che sia stato ancora sciolto il nodo delle risorse compensative.
Ecco perché appare necessario richiamare un'elementare regola di buona condotta contabile: ogni intervento sul patrimonio non può avere fine diverso dal taglio dell'indebitamento.


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Titolo: Massimo RIVA. Psicosi tedesca sull'inflazione
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 05:05:29 pm
Opinione

Psicosi tedesca sull'inflazione

di Massimo Riva

(06 settembre 2013)

E se invece di continuare a chiedersi che cosa farà la Germania con l'Europa provassimo, parafrasando il celebre motto di John Kennedy, a rovesciare i termini della questione? Ovvero: che cosa può o, meglio, dovrebbe fare l'Europa con la Germania? Ha un bel dire, infatti, il ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schauble, che «noi tedeschi non vogliamo un'Europa tedesca» asseverando che «noi non stiamo chiedendo agli altri di essere come noi». In realtà, tutte le scelte compiute dall'Unione europea, dalla crisi greca in poi, portano nel bene e nel male un indelebile marchio tedesco.

In particolare, dominante "über alles" è stata l'ossessione tutta tedesca della stabilità monetaria intesa come un dogma impermeabile a qualunque ipotesi di flessibilità contingente. Ne ha appena dato ulteriore prova la Bundesbank con una sortita ufficiale contro la strategia dei bassi tassi d'interesse che la Banca centrale europea vorrebbe perseguire nel lungo periodo per non accrescere le difficoltà dei paesi più esposti. Al contrario di Herr Schauble, gli ex custodi del marco non hanno reticenze nel far intendere che gli altri dovrebbero essere come loro. Né importa che al momento non sia alle viste alcun focolaio di inflazione, essi ritengono che l'intera eurozona debba compiere nuovi sacrifici sull'altare del feticcio tedesco della moneta forte a qualunque costo.

Ecco perché oggi, dopo aver così a lungo subito gli effetti di questa autentica paranoia economica, diventa necessario porsi il problema di che fare con una così preponderante "weltanschauung" tedesca dalle radici storiche profonde. Circa novant'anni fa la Germania è precipitata in una tempesta inflazionistica che ne ha devastato economia e società con i ben noti sbocchi politici mostruosi. Keynes ci ha insegnato che le responsabilità di quella tragedia non furono soltanto tedesche: il crollo della Repubblica di Weimar ebbe come innesco principale l'esosità inconsulta delle condizioni economiche imposte alla Germania con la pace di Versailles. Ma è un fatto che non altri se non i tedeschi hanno cercato e trovato la via d'uscita dai loro guai d'allora affidando ogni potere a Hitler, così trascinando l'Europa e il mondo intero nella guerra più sanguinosa d'ogni tempo e precipitando la Germania stessa nella più grave rovina della sua storia.


Con queste vicende sullo sfondo non è arduo spiegarsi perché la psicosi della moneta forte assilli le classi dirigenti della Germania. Ma il fatto che questa paura di ricadere negli errori del passato continui ancora oggi a orientarne il cammino in Europa, mette a nudo anche una malcelata sfiducia tedesca nelle proprie capacità di gestire politiche economiche più elastiche e flessibili e quindi più utili o addirittura indispensabili (gli Usa docent) quando si tratti di uscire da una congiuntura recessiva come quella che insidia da tempo molte economie di eurolandia. Per l'Europa si tratta, quindi, di porre senza indugi chi uscirà vincente dalle elezioni ormai imminenti - probabilmente ancora Frau Merkel - dinanzi all'esigenza di una svolta nell'amministrazione del condominio monetario dell'euro. Proprio alla luce della storia dell'ultimo secolo si tratta di mettere la Germania in guardia dalla minaccia che la sua linea rigorista possa - questa sì oggi - replicare gli errori degli ottusi vincitori di Versailles ricreando in Europa nuove Weimar seppure fuori dai confini tedeschi.

Cosicché il cuore del problema, a questo punto, è quello di trovare chi abbia in Europa la forza politica per costringere Berlino a fare i conti fino in fondo con i fantasmi del suo passato. La fragilità dei governi di Roma e Madrid e le titubanze della presidenza francese non offrono grandi speranze. Perciò la conclusione diventa particolarmente amara: il fatto stesso che tutti si chiedano che cosa farà la Germania con l'Europa è il triste segno che non sembra esistere un'Europa in grado di decidere che cosa fare con la Germania. Una drammatica replica delle pavide impotenze europee degli anni Trenta.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/psicosi-tedesca-sullinflazione/2214425/18


Titolo: Massimo RIVA. Alitalia si salva a spese nostre
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 10:30:27 am
Massimo Riva
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Alitalia si salva a spese nostre

Prima i Patrioti di Berlusconi e Passera. Ora le Poste. La compagnia di bandiera tira avanti sempre grazie ai
   
Quousque tandem Alitalia abutere pecunia nostra? Ecco la principale domanda da porre ai tanti Catilina che si alternano al capezzale della comunque morente compagnia aerea. Come fa, per esempio, il ministro Maurizio Lupi a vantarsi di aver “salvato Alitalia”? E le tasche degli italiani chi le salva? Si fa presto a gettare fumo negli occhi sostenendo - è il caso dell’amministratore di Poste italiane - che il denaro impegnato in questo ennesimo pasticcio non viene dai conti dei correntisti delle medesime Poste ma dagli utili ricavati dall’ordinaria attività di recapito della corrispondenza. E allora? Mica quei soldi sono del signor Sarmi, essi sono in tutto e per tutto dei contribuenti. Ai quali, quindi, andrebbe spiegata con motivazioni convincenti la logica di un’operazione che al momento appare priva del suo presupposto fondamentale: un realistico piano industriale di risanamento e di rilancio dell’impresa. Né si racconti la frottola delle sinergie tra i quattro aerei delle Poste e la flottiglia Alitalia: come già con AirOne questo sarebbe il classico pasticcio di un’allodola con un cavallo, secondo la celebre battuta di Cesare Merzagora.

Forse l'unico a sollevare almeno uno dei tanti veli che nascondono le incresciose verità di questo malaffare è stato il presidente del Consiglio dicendo che la soluzione abborracciata in questi giorni ha come fine occasionale quello di negoziare lo scontato accordo con Air France-Klm senza più l’acqua alla gola del fallimento incombente. Sarà, ma per quanto tempo l’iniezione di liquidità per mezzo miliardo riuscirà a tenere a galla l’azienda? Intanto 200 di quei 500 milioni sono finanziamenti bancari destinati comunque ad aggravare il versante debitorio dell’operazione. Poi altri 100 dovrebbero essere girati al creditore Eni per scongiurare il blocco delle forniture di carburante. Ne restano così a disposizione 200 per un’azienda che però ne perde uno e mezzo al giorno. Insomma, se il governo Letta voleva acquistare tempo ne ha comprato davvero troppo poco e a un prezzo molto elevato. Anche perché non si può sperare che i francesi siano così ingenui dal precipitarsi a chiudere domani un accordo con una controparte italiana che soltanto dopodomani potrebbe trovarsi nuovamente a negoziare con il cappello in mano.

È vano girare ancora intorno ai problemi con espedienti dalle gambe corte e con affermazioni maleodoranti di ipocrisia. La situazione era già disperata cinque anni fa quando il Fregoli di Arcore, sotto braccio con l’ad di Intesa Corrado Passera, mise in campo la rinomata cordata di pseudo patrioti che fece saltare un’intesa con Air France: quella sì che avrebbe salvato il salvabile della compagnia facendo risparmiare una montagna di denaro ai contribuenti.

E ora di nuovo si vorrebbe raccontarci la favola di aver trovato l’ennesima pozione magica con la quale trasformare in oro il piombo di Alitalia. Ma sempre evitando di dire qualcosa di serio sulle scelte di gestione indispensabili per aggiustare la contabilità aziendale. O, peggio ancora, presentando piani industriali ricchi di impegni impossibili perché scritti sull’acqua con intenti di inganno che ormai è arduo non considerare callidamente dolosi. A questo punto diventa doveroso dire: basta! L’intelligenza e il portafoglio degli italiani meriterebbero un po’ più di rispetto da parte di chi governa il Paese.
Finora gli interventi pubblici non hanno fatto che peggiorare lo stato di salute della compagnia aerea, violare le più elementari regole mercantili, strapazzare utenti e contribuenti. Né l’accanimento su questa strada può essere più mascherato con il demagogico richiamo a chissà quali indefiniti interessi strategici nazionali che sarebbero legati a un’azienda ormai ridotta al rango di compagnia aerea regionale nel senso sempre più ristretto del termine. Si lasci stare, per la decenza, di chiamare in causa a sproposito la nobile nozione di patria e si risponda piuttosto alla domanda iniziale: quousque tandem Alitalia abutere pecunia nostra?

17 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2013/10/16/news/alitalia-si-salva-a-spese-nostre-1.137834


Titolo: Massimo RIVA. L’ONDATA EUROPEA DEL POPULISMO La malapianta del rancore
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 06:37:19 pm
L’ONDATA EUROPEA DEL POPULISMO

La malapianta del rancore

A pochi mesi dalle elezioni europee, il populismo è il solo movimento che raccoglie consenso. Nei ricchi Paesi del Nord come nel Sud impoverito, crescono formazioni con storie e anime diverse (estremismo di vario colore, localismo, nazionalismo, xenofobia) e un unico denominatore: rigetto dell’Europa, delle classi dirigenti, dei partiti tradizionali, del faticoso e talvolta incomprensibile funzionamento della democrazia.

Nessun Paese ne è immune: Norvegia, Olanda, Austria, Finlandia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna, Italia, fino alla Francia (in cui il Fronte Nazionale potrebbe diventare il primo partito) e, a ben vedere, anche la Germania. Il movimento antieuropeo Adf ha mancato l’ingresso al Bundestag, ma la sua ascesa ha condizionato la politica europea della Cancelliera Merkel. La Germania è però un’eccezione di altro genere sui cui dovrebbero riflettere tanti «rottamatori » e profeti di novità: largo consenso a un vecchio partito cristiano e a una sessantenne senza appeal alla terza legislatura.

La destabilizzazione globale della finanza, la moltiplicazione dei conflitti, le tensioni religiose hanno come effetto la disperazione dei più deboli, l’impoverimento delle classi medie, l’aumento dei flussi migratori, la crisi identitaria dei popoli, il ripiegamento su un’idea di nazione e di frontiere invalicabili, mentre circolano liberamente uomini, merci e capitali e declinano gli Stati nazionali.

Dei movimenti populisti conosciamo ormai cause e conseguenze, oltre alla capacità — spesso cinicamente intelligente—di cavalcare bisogni anche condivisibili, di fare come quei galli che cantano per un sole che non sorge mai. Ma stentiamo a individuare gli antidoti e a costruire politiche che potrebbero arginare il fenomeno, anziché nutrirlo.

Tucidide considerava la demagogia la malattia mortale della democrazia, ma demagogia e populismo non sono sinonimi. Problematiche che investono drammaticamente vasti strati di popolazione non dovrebbero rientrare in una definizione talvolta sprezzante, intellettualmente elitaria. Non è populismo la domanda di sicurezza, di partecipazione alle scelte nazionali ed europee, di giustizia fiscale, di controllo dei flussi migratori, di rispetto delle tradizioni e della cultura nazionale. Non è populismo la difesa dei propri interessi di cittadini rispetto a un modello europeo che ha tradito le attese.

Si rischia invece di alimentare il populismo se i governi scambiano il dialogo con il potere di blocco delle minoranze, se si ingannano i cittadini abolendo una tassa per riproporla con un altro nome, se si confondono i livelli di responsabilità, se si danno all’Europa colpe nazionali, se l’ordine pubblico diventa la sola bussola di una società per forza di cose multietnica. Quasi mai il confine fra le due opzioni è subito visibile, come dimostra la vicenda che in questi giorni scuote la Francia. Ma è urgente stabilirlo.

Espellere un’adolescente clandestina, facendola prelevare dalla polizia durante una gita scolastica, non è stata una dimostrazione di umanità. La decisione divide la sinistra. Il presidente Hollande dice che la ragazza può tornare, ma senza famiglia, con uno strappo allo Stato di diritto e al buon senso, mentre il ministro degli Interni socialista difende la linea della fermezza e i francesi l’approvano.

Come ha detto il politologo Offe, il populismo ha consenso, ma non saprebbe governare; le classi dirigenti e la tecnocrazia spesso governano senza consenso e senza coraggio. Il che non produce buona politica. Come ha detto il politologo

23 ottobre 2013 (modifica il 23 ottobre 2013)
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Massimo Nava

http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_21/malapianta-rancore-597f1f8e-3a0f-11e3-970f-65b4fa45538a.shtml


Titolo: Massimo RIVA. La farsa delle tasse
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2013, 07:55:01 pm
La farsa delle tasse

di MASSIMO RIVA
22 novembre 2013

Fa cadere le braccia lo spettacolo di un governo che, a sei mesi dall'annuncio dinanzi alle Camere e a uno dalla scadenza, non riesce ancora a sciogliere quel nodo dell'Imu che si è stretto attorno al collo.

Ma il tutto suscita anche parecchia rabbia e non soltanto per lo stato di continua incertezza nel quale si tengono così milioni di contribuenti. Quel che più infastidisce è che proprio il passare del tempo sta provando, aldilà di ogni ragionevole dubbio, quanto sia stata nociva e insensata la scelta di far nascere il governo Letta con l'handicap particolarmente oneroso di dover rinunciare a un gettito di quattro miliardi e mezzo nel quadro di un bilancio già di suo inficiato da tanti buchi emersi e sommersi.

Sarà anche che una simile tara genetica era un pedaggio inevitabile - visti gli ukase berlusconiani in materia - per poter dar vita al cosiddetto gabinetto delle larghe intese. Ma ciò non toglie che la decisione di cancellare l'Imu 2013 sulle prime case - tutte le prime case, anche quelle di contribuenti facoltosi - non ha soltanto creato quelle serie difficoltà di copertura che sono ancora sotto gli occhi di tutti. Il peggio è che questa scelta ha rovesciato la scala delle priorità economiche e fiscali ponendo in prima fila la tutela tributaria della rendita immobiliare. Il tutto in una fase congiunturale nella quale l'universo mondo - dal Fondo monetario all'Unione europea, da reputati economisti a persone di normale buon senso - raccomandava l'esigenza primaria di dare una spinta alla crescita agendo semmai sull'eccesso di carico fiscale che grava sui redditi da lavoro e da impresa.

La controprova dell'errore commesso l'ha appena offerta del resto la presentazione della Legge di stabilità, nella quale è pur prevista una sforbiciata al famigerato cuneo fiscale su salari e stipendi ma in una misura che suona socialmente e finanziariamente risibile. Tanto da assumere per occhi abbastanza disincantati l'aspetto di una foglia di fico politica nel tentativo, comunque malriuscito, di nascondere quanto ben più efficacemente si sarebbe potuto fare in materia non dovendosi arrampicare sugli specchi per trovare i quattro miliardi e mezzo da destinare alla follia del taglio Imu sulla prima casa.

Come non bastasse la vicenda ha assunto e sta ancora assumendo aspetti tragicomici per quanto riguarda le fonti di copertura immaginate per il mancato gettito. Già la prima rata di giugno (per un valore di circa due miliardi) è stata - si fa per dire - spesata con incassi così poco probabili da rendere indispensabile il ricorso a una cosiddetta "clausola di salvaguardia" ovvero a un decreto ministeriale che al bisogno provvederà ad alzare di un paio di punti le accise sui carburanti e gli anticipi d'imposta delle imprese. Altro bel colpo da assestare al settore produttivo del Paese in una fase tuttora di recessione.

Ora siamo punto e daccapo con la rata di dicembre. Anche in questo caso si intende provvedere al grosso del mancato gettito con un aumento degli anticipi d'imposta stavolta però sul versante finanziario di banche e assicurazioni.
Mancherebbero però all'appello circa 500 milioni. La prima trovata è stata quella di far rientrare nel rango dei pagatori anche quei fabbricati rurali e terreni agricoli che - in un sussulto di raziocinio fiscale almeno verso il settore economico tradizionalmente più fragile - erano stati esclusi dalla rata di giugno. Ora pare che sia in atto un ripensamento su questa logica perversa del colpire sempre e comunque il sistema produttivo. Afferma il ministro dell'Agricoltura Di Girolamo che i fabbricati rurali resteranno comunque esclusi, mentre per i terreni agricoli si vedrà al Consiglio dei ministri del prossimo martedì. Nel frattempo - a completezza dello stato confusionale del quadro - va soggiunto che il relatore della Legge di stabilità in Senato sponsorizza un emendamento che porterebbe di fatto alla rinascita della famigerata Federconsorzi con una dotazione - guarda un po' - di ben 400 milioni.

Continua così fino alla prossima puntata la farsa che, grazie alla prepotenza di Berlusconi e alla remissività di Letta, ha trasformato l'affare Imu in un'incurabile tara genetica del governo cosiddetto di necessità. Farsa, tuttavia, che non fa più ridere nessuno.

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22 Novembre 2013
Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/22/news/la_farsa_delle_tasse-71594577/?ref=HREA-1


Titolo: Massimo RIVA. A chi fa comodo il Supereuro
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2013, 04:07:25 pm
Massimo Riva
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A chi fa comodo il Supereuro

La forza della valuta europea è conseguenza di politiche esterne o addirittura contrarie ai nostri interessi. Perché al gran ballo delle monete sono le banche centrali americana e giapponese a dare il ritmo
Derisa e sbeffeggiata da fitte schiere di economisti la moneta unica europea continua a volare alto. Si può, naturalmente, argomentare che l’euro si apprezza non tanto per forza propria quanto per debolezza altrui, segnatamente di dollaro e yen. E, in effetti, i suoi rialzi sui mercati dei cambi sono in larga misura conseguenza delle politiche monetarie espansive adottate prima dalla Federal Reserve e poi dalla Bank of Japan. Fatto sta che le montagne di carta moneta stampate da Washington e Tokyo spingono molti investitori a cercare in Europa un’alternativa ai propri impieghi per metterli al riparo dalla svalutazione delle proprie valute che è e rimane per ora l’obiettivo deliberato delle strategie americana e giapponese.

È una vecchia storia degli scambi economici questa. Quando sui mercati si mettono in moto movimenti come quelli sopra accennati, le scommesse tendono ad avverarsi. Se si vendono dollari e si comprano euro nella presunzione che la valuta americana sia pilotata al ribasso, altro non si fa che rendere ancora più probabile l’affermarsi di ciò che si prevedeva. Il punto di rottura di questo schema interviene quando i governi che perseguono il deprezzamento della propria moneta a fini di rilancio delle rispettive economie o raggiungono l’obiettivo o si trovano dinanzi a fiammate inflazionistiche di proporzioni allarmanti. In tal caso le politiche monetarie possono avere cambiamenti graduali o anche repentini. Allo stato non sembra che qualcosa del genere stia per accadere vuoi negli Usa vuoi in Giappone.

Ne è significativa conferma il duro e inusitato attacco ufficiale che Washington ha mosso contro il governo tedesco imputandogli di destabilizzare l’economia mondiale attraverso l’accumulo di surplus commerciali spropositati (la Germania oggi è leader planetario nelle esportazioni) senza bilanciarli con una politica di rilancio della domanda interna tale da riassorbire almeno in parte i disavanzi crescenti nei paesi che comprano prodotti tedeschi. È un’accusa che rende palese lo scorno americano per i magri frutti della propria strategia di indebolimento del dollaro e però coglie anche nel segno denunciando l’ottusità più che l’egoismo della posizione di Berlino. I cui effetti peggiori si manifestano all’interno dell’area dell’euro perché costringono a convivere con un cambio forte anche economie che avrebbero bisogno di una moneta indebolita sia per esportare sia per finanziare i propri debiti.

Ci si può inoltrare in ulteriori cronache dei movimenti in corso sui mercati dei cambi. Ma si rischia di contare le foglie degli alberi perdendo di vista la dimensione e la natura del bosco. Se, invece, ci si sforza di guardare la situazione con un grandangolo, ci si accorge subito come oggi più che mai sia in atto quella guerra delle monete di cui, però, tutte le fonti ufficiali negano l’esistenza. Un atteggiamento spiegabile da parte di chi ha aperto le ostilità (gli Usa) e di chi vi si è presto adeguato (il Giappone), ma che suona ipocrita e pusillanime in Europa. Dove si sta facendo finta di non vedere il conflitto monetario per non dover affrontare il nodo cruciale degli armamenti a disposizione della Banca centrale europea per tenere il campo con qualche speranza di successo.

Come i suoi colleghi della Fed e della Bank of Japan, Mario Draghi può manovrare - e ogni tanto lo fa - lo strumento dei tassi d’interesse ma, al contrario di costoro, non dispone di un’arma fondamentale, quella della creazione di carta moneta, perché non solo la Germania ma anche altri paesi di Eurolandia resistono all’idea di affidare alla Bce il ruolo e i poteri connaturati all’effettivo esercizio della sovranità monetaria. Il risultato è che il malcapitato Draghi si trova a muoversi in battaglia come un generale che abbia a disposizione la fanteria leggera ma sia del tutto privo di artiglieria pesante. Un compito impossibile che spiega fin troppo bene come mai oggi il supereuro sia figlio di scelte contrarie o comunque esterne agli interessi europei.
11 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2013/11/07/news/a-chi-fa-comodo-il-supereuro-1.140331


Titolo: Massimo RIVA. Solo l’asse latino potrà salvarci
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2013, 05:26:07 pm
Massimo Riva
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Solo l’asse latino potrà salvarci

Senza un’iniziativa politica di Francia, Italia e Spagna il futuro governo tedesco non cambierà la sua linea di rigore, criticata anche dalla Commissione Ue.

Ed è essenziale agire ora. Perché non sia troppo tardi


La Commissione europea si è finalmente decisa a mettere sotto accusa la Germania per il suo accumulo di surplus commerciali esorbitanti. Purtroppo, non è un bel vedere che l’iniziativa arrivi seconda nel tempo dopo un’analoga denuncia da parte del governo americano che ha apertamente imputato a quello di Berlino di perseguire una strategia economica destabilizzante per i mercati internazionali. Il fatto che a Bruxelles abbiano scelto di muoversi soltanto a rimorchio dell’attacco partito da Washington ridimensiona alquanto le speranze che la Commissione trovi anche il coraggio di emanciparsi dalla latente sudditanza politica di cui soffre nei confronti della Germania e porti fino in fondo la conseguente procedura d’infrazione contro Berlino.

Tanto più perché le prime repliche del governo tedesco a queste accuse mostrano una pervicace volontà di proseguire sulla strada intrapresa. Vero è che al momento sono in corso serrate trattative fra Cdu/Csu e Spd per la formazione di un nuovo gabinetto Merkel che i socialdemocratici vorrebbero più orientato a una strategia economica di espansione della domanda interna ed europea, ma le posizioni del partito della Cancelliera uscente ed entrante non paiono granché discostarsi dalle rigidità del recente passato.

Ai rilievi sugli effetti negativi generali provocati dai propri surplus commerciali l’attuale ministro dell’Economia ha replicato, in sostanza, invitando gli altri paesi a fare come la Germania in materia di esportazioni senza nemmeno rendersi conto di cadere in una trappola dialettica clamorosa. Perché come gli ha fatto sarcasticamente notare uno dei più autorevoli critici della politica tedesca, il premio Nobel Paul Krugman, «l’idea di un mondo in cui tutti sono in forte attivo della bilancia commerciale presenta qualche falla logica».

Il problema cruciale, a questo punto, non è più tanto quello di trovare argomenti per denunciare l’ottusità della linea economica che Berlino impone all’Europa: ce ne sono ormai a iosa e il citato Krugman, per esempio, ne offre di nuovi ogni settimana. Ciò che oggi occorre è un’azione politica forte e congiunta delle altre tre maggiori economie dell’eurozona (Francia, Italia e Spagna) mirata ad aprire un contenzioso politico formale con la Germania, così incoraggiando anche la Commissione di Bruxelles a uscire dal complesso d’inferiorità che segna ogni sua iniziativa quando si tratti di contrastare gli interessi di Berlino. Certo, non è impresa facile far muovere all’unisono Parigi con Roma e Madrid: la tentazione soprattutto francese di ricavare qualche regalia in più in un rapporto bilaterale con i tedeschi è ancora radicata. Resta, però, il dato di fatto che soltanto una pressione a tre - via Bruxelles - può avere qualche probabilità di successo nel far cambiare rotta alla Germania.

In proposito, almeno a prima vista, si può riconoscere che il nostro presidente del Consiglio qualcosa fa o, meglio, dice. Enrico Letta è andato al congresso della Spd a Lipsia per proclamare che «di austerità si può anche morire», soggiungendo che sulla strada attuale del rigore “über alles” le prossime elezioni del parlamento europeo potrebbero portare a Strasburgo compatti manipoli di partiti ferocemente contrari all’Unione europea. Giusto, giustissimo, ma si tratta soltanto di belle parole. Quanto alle iniziative politiche concrete per una svolta economica in Europa il nostro premier rinvia al momento in cui l’Italia avrà la presidenza del consiglio europeo nel secondo semestre dell’anno prossimo. E questo è sbagliato, sbagliatissimo: si tratta di agire “hic et nunc” come si diceva una volta. Sopratutto perché - posto pure che la guida italiana dell’Europa produca i cambiamenti attesi - gli effetti economici delle novità comincerebbero a manifestarsi non prima del 2015 e si dispiegherebbero in termini di vita sociale soltanto nel 2016. Troppo tardi sia per rispondere al malessere di decine di milioni di europei sia per arginare la montante marea populista contro l’euro e l’Unione.
26 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2013/11/21/news/solo-l-asse-latino-potra-salvarci-1.142090


Titolo: Massimo RIVA. - Quanti abbagli per i tolemaici della lira
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2013, 11:55:16 pm
Massimo Riva
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Quanti abbagli per i tolemaici della lira

Berlusconi, Grillo e la Lega vogliono ripudiare l’euro. Convinti che il ritorno a una moneta debole ridarebbe fiato all’economia.
Ma non è così: è stata proprio la droga delle svalutazioni in serie a produrre i guasti peggiori

   

Lo spaccio di una nuova bestia trionfante minaccia di imbrogliare, ogni giorno di più, il dibattito politico sul destino dell’Italia in Europa. Da più parti, infatti, giungono chiari segnali di imbarbarimento del confronto. Quasi che le dure ristrettezze economiche del Paese abbiano già prodotto un effetto pericolosamente restrittivo anche delle capacità intellettive di non pochi attori della scena politica. Accade così che si affaccino insistenti proposte - tanto più disinvolte quanto di più facile smercio demagogico - per risolvere tutti i problemi del Paese con un colpo di magia: l’abbandono dell’euro per un ritorno alla lira.

Se ne fanno alfieri da tempo i leghisti, ora la stessa palla è lanciata ancora più in alto da Beppe Grillo che rievoca con focosa nostalgia l’antico partito della svalutazione. Quanto alla nuova/vecchia Forza Italia, Silvio Berlusconi ha già fatto intendere che la polemica contro la moneta unica sarà al centro della sua prossima campagna elettorale per il parlamento di Strasburgo e, se la situazione interna dovesse precipitare, anche per quello di Roma. È poco chiaro quanto questo variopinto gruppo di, chiamiamoli così, “tolemaici della lira” creda davvero in quello che propone e quanto, invece, dei loro propositi sia soltanto frutto di un’estemporanea deriva propagandistica. Fatto sta che il tema dell’euro sì o no - anche se non proponibile come referendum a termini di Costituzione vigente - dominerà i prossimi mesi sull’onda del voto per il Parlamento europeo.

I fautori della fuoriuscita dall’euro sorvolano con grande vaghezza sulle non poche controindicazioni implicite in una simile scelta. Nulla dicono, per esempio, sulle conseguenze per la gestione di un debito pubblico che andrebbe comunque rimborsato in euro. E se qualcosa dicono, com’è il caso di Grillo, si improvvisano rivoluzionari (da cortile paesano) suggerendo la moratoria dei debiti verso l’estero. Così dimenticando la storica lezione di un rivoluzionario vero, Leone Trotskij, che fu rapidamente rimosso dal primo governo bolscevico proprio per aver inaridito le fonti di finanziamento della nascente Unione sovietica con una scelta consimile.

Ancor più allarmante, tuttavia, è che i “tolemaici della lira” considerino un argomento di forza a loro favore proprio quello che rappresenta il punto più debole e pericoloso della loro proposta. Ovvero la possibilità di offrire in pasto a un sistema produttivo fiaccato dalla crisi una robusta svalutazione (20 o 30 per cento) del cambio lira/euro: al fine di restituire alle imprese domestiche in termini di prezzi quella competitività che le medesime non sono riuscite a guadagnarsi per altre vie. Ipotesi che prefigura per il futuro del Paese niente di meglio se non il ritorno al peggiore cancro del passato. Quello delle ricorrenti svalutazioni competitive responsabili di aver drogato con crescenti dosi di morfina monetaria il sistema produttivo. Al costo - ma su questo si tace - di debilitare in ampi settori la capacità di tener testa alla concorrenza internazionale in termini di innovazione, di investimenti, insomma di ricerca di maggior valore aggiunto.

Proprio le difficoltà incontrate dall’apparato industriale italiano nel convivere con una moneta più stabile quale l’euro sono oggi la prova provata di quali e quanti guasti siano stati prodotti con la prolungata somministrazione dell’oppio delle svalutazioni facili. Era ed è evidente che la disintossicazione del nostro sistema imprenditoriale non poteva essere opera rapida e facile, tanto più in anni di crisi economica generalizzata. Ma il fatto che la nostra bilancia commerciale sia oggi in pur modesto attivo, anche con un euro ben tonico sul mercato dei cambi, indica comunque l’esistenza di imprese - che non saranno magari l’Alitalia o la Fiat - in grado di cavarsela egregiamente senza “pere” valutarie. Dunque, chi vaneggia di ritorno alla lira non compie soltanto un crimine di bassa demagogia politica ma suggerisce un errore economico esiziale per il futuro del Paese.
16 dicembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2013/12/11/news/quanti-abbagli-per-i-tolemaici-della-lira-1.145601


Titolo: Massimo RIVA. Toh, è tornata la lotta di classe
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2014, 05:47:45 pm
Massimo Riva
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Toh, è tornata la lotta di classe
Il vero scontro politico, più che sul taglio alle imposte sul lavoro, riguarda la tassazione degli immobili. Perché se si vogliono trovare le risorse per sostenere la crescita è da lì che bisogna attingere. E invece il governo Letta fin dall’inizio...
   
Davvero pessimo il finale di partita 2013 del governo Letta. Pasticciato e convulso nelle procedure quanto contraddittorio e carente nelle scelte di sostanza. L‘entrata in porto della madre di tutte le leggi – ovvero quella detta di stabilità – è stata gestita in un clima caotico di passi prima in avanti e poi all’indietro che ha reso nebbiosa e indecifrabile la supposta strategia economica del governo. Mai, per esempio, s’era visto il ricorso a decreti d’urgenza per modificare nel giro di poche ore norme fatte appena approvare con voto di fiducia. Eppure proprio così è accaduto per quanto riguarda i cosiddetti “affitti d’oro” delle Camere ovvero la doverosa cancellazione di tagli finanziari punitivi per i Comuni esemplarmente nemici delle “slot machine”. Ma insomma, visto che si era scelta la strada di ricorrere al voto di fiducia, non si poteva avere almeno la buona volontà di sottoporre al Parlamento un testo ripulito da così tante incongruenze? Almeno si sarebbe evitato di offrire al paese l’immagine di un esecutivo incapace di destreggiarsi perfino nei percorsi legislativi.

Quanto alla sostanza della Legge di stabilità, le note sono ancora più dolenti perché i suoi effetti si dispiegheranno nel corso dell’anno appena iniziato. Il nodo principale riguarda quello che tutti indicano come il maggior freno alla ripresa di una crescita di cui forse si può cominciare a scorgere qualche primo e timido germoglio: l’eccessiva tassazione sul lavoro. Non che manchi un’iniziativa di taglio al cosiddetto cuneo fiscale, ma con una penuria di risorse tale da far seriamente temere l’inefficacia a consuntivo del provvedimento. Anche perché ha francamente il sapore di una presa in giro l’impegno a fare di più in corso d’anno coi fondi che saranno recuperati dai tagli di spesa o dal contrasto all’evasione fiscale: tutti questi eventuali risparmi o maggiori incassi sono stati vincolati in via privilegiata ad altre assai probabili esigenze di bilancio corrente.

Si fa presto a dire che i limiti evidenti di questa manovra sono figli di un ostacolo oggettivo: la coperta corta dei conti pubblici. Il dato è inconfutabile ma riparandosi dietro questo schermo si rischia di nascondere agli italiani un’altra parte essenziale di verità. C’è, infatti, nella nascita del governo Letta una sorta di peccato originale che ne ha condizionato pesantemente l’agilità di manovra: quella abolizione dell’Imu sulla prima casa che è stato il pedaggio imposto da Silvio Berlusconi per dare il via alla formazione del governo di larghe intese. Da una coperta già corta di suo si è così passati a una cortissima: con oltre 4 miliardi in meno da spesare in alternativa proprio alle risorse che si sarebbero potute ben più utilmente impegnare sul fronte della tassazione di lavoro e imprese.

Cosicchè, in un paese in serie difficoltà per una congiuntura economica avversa da oltre cinque anni, è toccato di assistere allo spettacolo demenziale di un dibattito politico concentrato in via ossessiva per mesi sul tema dell’Imu. Senza che nessuna o quasi nessuna voce della classe dirigente – neppure la Confindustria che oggi leva alti e tardivi lai – trovasse il coraggio tempestivo e senza remore di denunciare tutta la strumentalità demagogica dell’operazione offrendo così al pur pavido e remissivo Enrico Letta una sponda per non arrendersi al nefasto diktat berlusconiano. La cui coda velenosa, purtroppo, minaccia di intossicare il confronto politico nel corso dell’anno corrente anche a cavaliere dimezzato.

Dicono tutti, infatti, che oggi la priorità è più che mai quella di spingere la crescita economica ma poi - com’è, come non è - a tenere sempre banco è il tema della tassazione dei beni immobili. A parole in cima all’agenda c’è il taglio alle imposte sul lavoro, nei fatti a prevalere è lo scontro sulle rendite fondiarie. Una contraddizione politica dietro la quale, alla fine, si riaffaccia un’antica conoscenza della storia: la lotta di classe. Nel cui segno, piaccia o no, si è chiuso il 2013 e si apre anche il 2014.

06 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/01/03/news/ttoh-e-tornatala-lotta-di-classe-1.147544


Titolo: Massimo RIVA Mastrapasqua il boiardo multiplo un'intollerabile degenerazione...
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2014, 04:59:05 pm
Mastrapasqua, il boiardo multiplo: un'intollerabile degenerazione organizzativa

di MASSIMO RIVA
   
Fa bene Letta a chiedere la "massima chiarezza" sul caso Mastrapasqua soggiungendo nel "rispetto dei cittadini". Infatti, al di là degli aspetti penali la vicenda richiama l'attenzione degli italiani su un'inconcepibile degenerazione organizzativa dei pubblici uffici.

Basti dire che un incarico così importante e delicato quale la presidenza dell'Inps - il gigante della previdenza sociale - dovrebbe essere ragionevolmente ricoperto da una persona che vi si possa dedicare in via esclusiva. Sta, viceversa, venendo alla luce che l'indagato Antonio Mastrapasqua oltre alla poltrona di vertice dell'istituto previdenziale ne occupa, a vario titolo, almeno un'altra ventina in enti di diritto sia pubblico sia privato.
 
Una simile situazione lascia esterrefatti. Ma non tanto per quanto riguarda l'evidente bramosia di potere (e connesse prebende) della singola persona. Ciò che allarma ben di più è che la struttura amministrativa dello Stato sia oggi siffatta da aver tollerato la costruzione passo a passo di un tale cumulo di incarichi senza che nessuno abbia alzato almeno un sopracciglio. Non chi ha governato nel frattempo e pure non perde occasione per squadernare promesse di moralizzazione della vita pubblica. E neppure chi dal versante dei sindacati aveva e avrebbe titolo e poteri da esercitare in tema di gestione dell'Inps.

Come dire che, nel caso specifico, casta politica e società civile si sono trovate d'amore e d'accordo nel non voler vedere ciò che, ai rispettivi livelli di conoscenza, non poteva non essere visto.

Viene perciò da porsi un interrogativo increscioso ma inevitabile: quanti altri casi Mastrapasqua si nascondono, al riparo di occhi conniventi, negli uffici pubblici e quindi nei capitoli di spesa del bilancio dello Stato? Quesito che porta a porne altri e anche peggiori. Il potere politico sa esercitare il doveroso controllo sulle strutture della pubblica amministrazione? Ovvero nei pubblici uffici si è ormai consolidata una corporazione di alti burocrati che, sulle orme dei boiardi delle aziende di Stato, è in grado di perseguire propri e autonomi interessi in barba perfino ai mutamenti delle stagioni politico-parlamentari? Sono dubbi pesanti perché attengono all'identità stessa della funzione statale e fanno temere che, attraverso scivolamenti progressivi nel corso degli anni, il supposto primato della politica sia diventato un fragile simulacro dietro il quale operano in realtà persone e consorterie del tutto prive di investitura elettorale ma ben corazzate da occulte pattuizioni di potere.

Bene, allora, che Enrico Letta chieda la massima chiarezza sul caso Mastrapasqua. Ma perché questa richiesta suoni credibile per il paese occorre che la verità sollecitata dal presidente del Consiglio si spinga ben più in là del vertice Inps. C'è una "spending review" da fare che vada oltre l'esame puntuale dei singoli capitoli di spesa o i risparmi da realizzare unificando i costi d'acquisto delle siringhe del servizio sanitario. Si tratta di compiere una revisione radicale delle strutture stesse in cui è articolata la pubblica amministrazione perché è qui che si annidano le fonti spesso occulte di ingovernabilità del bilancio.

Se così avverrà, anche della vicenda Inps potrà dirsi oportet ut scandala eveniant. Altrimenti anche le parole del presidente del Consiglio resterebbero chiacchiere al vento.
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© Riproduzione riservata 27 gennaio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/27/news/boiardo_multiplo-77010057/


Titolo: Massimo RIVA. E ora Hollande corteggia la Merkel
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2014, 11:56:55 pm
Massimo Riva
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E ora Hollande corteggia la Merkel
Altro che asse mediterraneo con Italia e Spagna: il presidente francese adesso punta tutto su un patto con la Germania per dettare la linea all’Unione europea. E il nostro governo rischia l’isolamento politico
   
La curiosità frustrata per i segreti d’alcova dell’Eliseo ha finito per oscurare, nella stampa e nell’opinione pubblica, l’importanza della strategia indicata da François Hollande per il futuro prossimo dell’Europa. Un brutto abbaglio soprattutto per chi, come l’Italia in primo luogo, avrebbe interesse alla formazione di un blocco triangolare (con Francia e Spagna) da contrapporre alle persistenti rigidità del governo tedesco sulle politiche di contrasto alla crisi economica. Invece, altro che Parigi critica verso Berlino, come molti in cuor loro confidavano: è accaduto l’opposto. Con reiterata insistenza, infatti, il presidente francese ha ribadito la scelta di Parigi per un ancor più solido asse franco-tedesco a guida dell’Unione.

E lo ha fatto in concreto specificando anche tre settori strategici di collaborazione rafforzata fra i due paesi. In primo luogo, quello della difesa con una maggiore integrazione sul campo fra le rispettive forze armate sulla scorta di quanto già in programma con interventi congiunti in Africa centrale. In seconda istanza, Hollande ha messo il surplus francese nella produzione di energia elettrica a disposizione di un’intesa privilegiata in materia con la Germania. Infine, Parigi intende aprire un cantiere fiscale bilaterale per l’armonizzazione dei trattamenti fiscali delle imprese di qua e di là del Reno.

Tutti progetti che suonano come campane a morto per le speranze di poter costruire un fronte politico “mediterraneo” teso a contrastare quella linea dell’austerità contabile “über alles” che Berlino continua a voler stringere come un cappio al collo delle economie più fragili di Eurolandia. Tanto più alla luce di un altro annuncio di Hollande secondo cui il governo di Parigi intende mettere al più presto in campo un piano di sgravi da 30 miliardi per ridare ossigeno al proprio sistema produttivo in difficoltà. Ce n’è più che abbastanza per tirare una prima conclusione assai poco rassicurante per il nostro paese: in Europa oggi l’Italia è sola con i suoi problemi (debito crescente, domanda interna calante, occupazione latitante) e rischia l’isolamento politico se non trova al proprio interno la forza di bloccare la deriva deflazionistica verso la quale sta pericolosamente inclinando.

In questo scenario, sconcertano non poco le diatribe domestiche sui decimali di punto di aumento che il Pil potrebbe avere fra quest’anno e il prossimo. Sarà più 0,7 ovvero più un punto intero? E allora? Una collaudata esperienza economica dice: 1) che tra riavvio della crescita e ripresa dell’occupazione c’è un divario temporale di uno o due anni; 2) che l’offerta di nuovi posti si consolida solo quando i tassi di crescita sono ben superiori al punto percentuale. Prospettive che lasciano ancora più sgomenti dinanzi alla pochezza delle iniziative messe finora sul tappeto da governo e forze politiche. Già la manovra sul cuneo fiscale risplende solo per insignificanza quantitativa, ma anche le più recenti proposte di riforma del mercato del lavoro, che pure contengono idee valide e propositi apprezzabili, non riescono a emanciparsi da una visione minimalista dei problemi. Ben venga, per carità, un po’ di buon “bricolage” legislativo e contrattuale. Ma non si creda che questa sia la via maestra per mandare a regime il motore della crescita.

Il nodo cruciale oggi è la caduta della massa salariale (in quantità globale e in numero di persone) che sta inaridendo progressivamente la domanda interna togliendo così al sistema produttivo la sua fonte primaria di sopravvivenza. Non esistono strategie univoche per aggredire un simile macigno: riforme delle regole di mercato (del lavoro come del credito), redistribuzione dei redditi e dei pesi fiscali ma anche spesa pubblica riveduta e riorientata agli investimenti sono interventi di evidente utilità. Ma ad una condizione: che siano realizzati simultaneamente. Non sembra di poter cogliere nella classe dirigente, politica e imprenditoriale, la consapevolezza di questa urgenza.
27 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/01/22/news/e-ora-hollande-corteggia-la-merkel-1.149498


Titolo: Massimo RIVA. Se Obama sembra un bolscevico
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2014, 11:28:17 am
Massimo Riva
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Se Obama sembra un bolscevico
La proposta di aumento del salario minimo ai dipendenti federali è stata bollata come socialista. Ma il presidente mira a difendere il potere d’acquisto per rafforzare i consumi. E favorire le imprese
   
Un altro “bolscevico” alla Casa Bianca? Sono passati ottant’anni da quando il “new deal” di Franklin D. Roosevelt aveva attirato sull’allora presidente questa sprezzante invettiva da parte dell’America capitalista. Ora la storia sembra ripetersi dopo l’ultima mossa economica di Barack Obama che, nel suo recente discorso sullo stato dell’Unione, ha annunciato due iniziative destinate a creare non poche polemiche. La prima, quella di un decreto per aumentare il salario minimo dei dipendenti federali da 7,25 a 10,10 dollari l’ora. La seconda, quella della richiesta al Congresso per l’introduzione di una sorta di scala mobile con paga oraria indicizzata all’inflazione.

L'area di Impatto della prima novità – ancorché rilevante col suo 40 per cento in più – appare al momento circoscritta a poche migliaia di lavoratori. Soltanto col tempo, attraverso i rinnovi contrattuali, finirà per estendersi a una platea di lavoratori numericamente più significativa. Ma ciò è bastato ad attirare sulla Casa Bianca i fulmini di Wall Street e dei capi delle grandi corporation. Agli occhi dei quali la mossa del presidente, pur nel suo peso economico limitato, è parsa come il segnale di una svolta scandalosamente socialista nella conduzione politica del paese. Né più né meno di quanto accadde, appunto, negli Anni Trenta quando Roosevelt salvò il capitalismo americano dai suoi catastrofici errori introducendo nel sistema dosi crescenti di regolazione del mercato e di tutele dei redditi più bassi.

Si annuncia così una dura battaglia in Congresso per quanto riguarda l’altro annuncio di Obama in tema di scala mobile. Con echi perfino in Italia dove l’ipotesi è stata oggetto di commenti ferocemente critici in memoria di quella sorta di guerra di religione in materia che lacerò il Paese durante gli Anni Ottanta. Molti così dimenticando alcune differenze fondamentali fra l’Italia di allora e gli Usa di oggi. Intanto quella fra il tasso d’inflazione corrente da noi in quel tempo e quello attuale da loro. Ma poi, soprattutto, perdendo di vista l’approccio fortemente pragmatico della politica americana nelle scelte economiche: lo stesso presidente può introdurre la scala mobile quest’anno e tranquillamente revocarla fra un paio d’anni una volta raggiunto l’obiettivo prestabilito.

E qui siamo al punto cruciale. Obama non si muove a caccia di facili consensi popolari: non ne ha neppure bisogno visto che non è rieleggibile. La sua è un’iniziativa squisitamente economica che mira a salvaguardare il potere d’acquisto dei salari ovvero a rafforzare la domanda interna per consumi nella convinzione che l’attuale relativa debolezza del dollaro spingerà questa stessa domanda a soddisfarsi prevalentemente con prodotti “made in Usa”. Quindi, altro che piombo nelle ali delle imprese: con una mossa apparentemente incongrua, la Casa Bianca mira a consolidare gli spazi di mercato interno per la produzione domestica.

La lezione americana manda così anche all’Europa due messaggi di grande importanza. Il primo che la solidità di un sistema produttivo dipende certamente dalla sua capacità competitiva sui mercati esteri, ma non può reggere nel tempo senza avere alle spalle un mercato interno che sia robusto e vitale. Il secondo che la svalutazione progressiva del potere d’acquisto dei salari è la strada più sicura per inaridire la fonte principale di alimentazione delle imprese stesse.

Insegnamenti i quali sottolineano la miope ottusità di chi considera i tagli salariali come la principale o addirittura l’unica via d’uscita dalla crisi. Abbaglio tanto più grave in un Paese come l’Italia, dove la corsa alla riduzione dei salari non appare altro che una variante di quella politica di mera sopravvivenza che si è realizzata in passato con le continue svalutazioni competitive del cambio. Cosicché cambia il nome della droga ma non si guarisce dal vecchio vizio di scaricare a valle sui lavoratori gli errori a monte di una classe imprenditoriale in troppo larga misura riluttante a investimenti e innovazioni.
17 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/02/12/news/se-obama-sembra-un-bolscevico-1.152768


Titolo: Massimo RIVA. Strapagateli, ma mandateli a casa
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 07:41:49 am
Massimo Riva

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Strapagateli, ma mandateli a casa
Per le mancate riconferme dei vertici delle grandi aziende pubbliche si dovrebbero spendere molti milioni.
Ma forse vale la pena sborsarli. Per favorire un vero ricambio. E per spezzare le cordate di potere

   
In tempi di bilanci magri non si dovrebbero consigliare al governo nuovi e maggiori esborsi. Ma ci sono candele per le quali vale sicuramente il gioco di non badare alla spesa. Ed è questo il caso specifico dei sorprendenti oneri collegati al ricambio dei vertici delle principali aziende a partecipazione statale (come Eni, Enel e Terna e non solo). Nella sua bella inchiesta, Luca Piana ha scoperto che alcuni tra i boiardi delle imprese più importanti hanno avuto l’accortezza di inserire nei rispettivi contratti clausole non poco onerose nell’ipotesi di mancata riconferma nell’incarico. Attenzione: per i capi di Eni ed Enel non si tratta di quanto loro spettante come indennità di fine rapporto dirigenziale, ma di una sorta di paracadute d’oro supplementare sganciato dalla valutazione dei risultati gestionali. Di una cifra, insomma, il cui fine ultimo parrebbe solo quello di agire come deterrente al ricambio.

Il costo complessivo dell’eventuale ricambio supera i 17 milioni (molti di più considerando i vertici delle altre aziende in attesa di nomine) e ricadrebbe ovviamente sui loro bilanci: quindi l’onere per lo Stato (azionista parziale) non dovrebbe superare una piccola manciata di milioni. Nulla in confronto al beneficio che si potrebbe ricavare dall’attuazione di un generale rinnovamento degli incarichi nel vasto mondo delle aziende partecipate o controllate dallo Stato. Anzi, proprio da un governo guidato da Matteo Renzi è lecito attendersi che paghi pure senza remore questo increscioso scotto contrattuale considerandolo come il miglior investimento che si possa fare in materia.

Certo, il numero delle poltrone che stanno per arrivare a scadenza nei prossimi due-tre mesi è davvero enorme: c’è chi ne ha censite addirittura quattrocento. Ma è del tutto evidente che i casi di grande rilievo sono quelli che riguardano le imprese di maggiori dimensioni oltre che quotate in Borsa: come, appunto, l’Eni, l’Enel, la Terna insieme a Finmeccanica e a Poste Spa, ormai prossima allo sbarco in Piazza Affari. Senza nulla togliere all’importanza delle altre centinaia di incarichi, infatti, è soprattutto in questo quintetto di aziende che si materializza il senso della presenza pubblica in economia e il ruolo dello Stato sul mercato.

Da più parti giungono pressioni sul neopresidente del Consiglio affinché proceda senza indugi a un ricambio radicale in forza dell’argomento che questo sarebbe il primo e vero banco di prova della sua capacità di rinnovamento rispetto al malcostume clientelare della vecchia politica in tema di nomine pubbliche. Insomma, Renzi faccia pulizia delle resistenze boiardesche e la sua immagine ne trarrà grande giovamento. Condivido ma, riguardo alla necessità della nomina di nuovi amministratori, vorrei soggiungere considerazioni meno legate a vantaggi soggettivi.

Paolo Scaroni (Eni), Fulvio Conti (Enel), Flavio Cattaneo (Terna), per esempio, guidano le rispettive imprese da ben tre mandati triennali. In questi nove e lunghi anni è inevitabile che all’interno delle aziende si siano consolidate cordate manageriali al servizio del capo il cui apporto critico risulta inversamente proporzionale allo spirito di autoconservazione. Succede in tutto il mondo, private o pubbliche che siano le imprese, perché mai non dovrebbe essere accaduto nei casi di specie?

Non solo: in questo lungo lasso di tempo Eni ed Enel hanno sottoscritto grossi contratti di fornitura internazionali ovvero hanno acquisito rilevanti partecipazioni. Iniziative talora assai discutibili: tanto che Eni sta cercando di rinegoziare gli impegni più onerosi ed Enel sta ridisegnando il perimetro delle sue presenze estere. Ha poco senso che a gestire gli errori siano lasciati coloro che li hanno commessi. Renzi dia pure loro una lauta mancia, ma li tolga di mezzo. Il ricambio farà anche bene alla sua immagine politica, ma soprattutto conviene al Paese.

11 marzo 2014 © Riproduzione riservata

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Titolo: Massimo RIVA. - Coraggio, Renzi ancora un passo
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:24:49 pm
Massimo Riva

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Coraggio, Renzi ancora un passo
La scelta di tagliare le tasse ai redditi più bassi non sarà da sola sufficiente a far ripartire la crescita, ma almeno va nella direzione giusta. Mentre perfino il Fondo monetario ora scopre i danni provocati dall’austerità
   
Diventa sempre più evidente come la forte disuguaglianza dei redditi agisca a detrimento della stabilità macroeconomica e della crescita». L’ennesima intemerata del Nobel Paul Krugman contro i cantori dell’austerità e dell’arricchimento selvaggio degli “happy few”? No - incredibile ma vero - parole così perentorie e taglienti sono scritte in uno degli ultimi documenti del Fondo monetario internazionale. Già, proprio di quell’istituzione che finora è stata il presidio principale delle strategie economiche fondate sul rigido controllo dei redditi e dei consumi delle classi medie e povere nella totale noncuranza verso il fenomeno speculare della concentrazione delle ricchezze in un numero sempre più piccolo di persone o gruppi finanziari.

Presto per dedurne che simili giudizi siano il segno di una conversione a U del Fondo rispetto alle ottuse visioni contabili del passato. Ma un così forte accento sul tema della “disuguaglianza” indica comunque che nel dibattito economico mondiale qualcosa sta cambiando. Si sta forse riscoprendo quanto scritto da Keynes nel secolo scorso e dal reverendo Malthus duecento anni fa. Ovvero che la concentrazione della ricchezza tende a produrre soltanto rischiose avventure finanziarie mentre l’impoverimento dei redditi da lavoro spegne i consumi diffusi così togliendo l’ossigeno indispensabile per la crescita economica. Insomma, che la lotta contro le disuguaglianze non è solo un problema di giustizia sociale ma anche di utilità economica generale.

In un’ottica italiana il richiamo a queste novità dello scenario internazionale serve a meglio valutare il merito delle mosse annunciate dal governo Renzi. In particolare per quanto riguarda due degli impegni dichiarati: 1) la defiscalizzazione nell’ordine di dieci miliardi complessivi a favore dei redditi fino a 25mila euro annui; 2) il taglio dell’Irap nella misura del 10 per cento finanziato attraverso un aumento del prelievo sulle rendite finanziarie dal 20 al 26 per cento. Fino a un minuto prima dell’annuncio ufficiale si è a lungo dibattuto se fosse più conveniente per i suoi effetti sul rilancio dell’economia concentrare la spinta dei provvedimenti sui costi delle imprese (Irap) ovvero sui redditi dei lavoratori.

È evidente che la scelta di Renzi fa proprie le preoccupazioni espresse (finalmente!) dal Fondo monetario. Soprattutto per un aspetto particolarmente critico della realtà italiana: quello di una continua caduta dei consumi che rischia di materializzare il minaccioso fantasma della deflazione. Può essere che dieci miliardi in più nelle buste paga non abbiano la forza di produrre quello shock risolutivo alla domanda interna che sarebbe auspicabile. Ma un punto è certo: lo stesso denaro concentrato su un maggior taglio dell’Irap a beneficio dei costi aziendali avrebbe avuto ben minore impatto di rianimazione sul sistema economico. Ne fa fede, del resto, la reazione della stessa Confindustria che ha limitato le sue proteste a quel che si può definire il minimo sindacale.

Quanto alla simmetria fra taglio dell’Irap e aumento del prelievo su dividendi e “capital gain”, anche in questo caso si tratta di un’operazione che sposta i benefici fiscali da investimenti meramente finanziari a impieghi più connessi all’economia reale. Quindi, di una manovra che tende a riequilibrare un’altra delle tante disuguaglianze presenti nel sistema favorendo stavolta la fascia più direttamente produttiva (anche di occupazione) dell’apparato industriale.

Allo stato, perciò, i veri dubbi che rimane lecito sollevare sugli annunci del premier Renzi sono quelli relativi alla compatibilità di una manovra per ora soltanto promessa con i limiti oggettivi di un bilancio pubblico tuttora fragile e sempre esposto ai venti capricciosi della congiuntura mondiale. Sulla direzione degli interventi, però, nulla da eccepire. In un paese, che ha perso più di metà dello scorso anno a dilaniarsi sull’Imu ovvero sui favori alla rendita immobiliare, si tratta di una svolta comunque salutare.

25 marzo 2014 © Riproduzione riservata

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Titolo: Massimo RIVA. Sanzioni tedesche contro l'Europa
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2014, 06:32:40 pm
Massimo Riva
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Sanzioni tedesche contro l'Europa
La severità della signora Merkel contro i paesi che non hanno i conti in ordine, ricorda quella degli alleati verso la Germania sconfitta nella Grande Guerra. Allora fu un errore catastrofico, oggi è ancora possibile evitarlo

Grande è la confusione nei cieli d’Europa ma la situazione - al contrario di quello che diceva il presidente Mao - appare tutt’altro che eccellente. Ci si avvicina, infatti, al rinnovo del parlamento di Strasburgo in un clima che (ahimè) fa ragionevolmente temere l’elezione di focosi manipoli di deputati decisi a sfasciare anche quel poco di autentica Unione che si è riusciti a mettere in piedi negli ultimi cinquant’anni. Lo schieramento dei contestatori è indubbiamente variopinto ma accomunato da rivendicazioni che hanno un po’ dappertutto l’identico sapore di una regressione collettiva verso la rozza difesa di interessi nazionalistici. Con sfumature che ricordano fin troppo da vicino la trista equazione fra Patria e Fascismo. Una tendenza più esplicita in Ungheria ma evidente, ancorché malamente dissimulata, nella Francia lepenista e nell’Italia leghista mentre nella Grecia depauperata assume addirittura connotazioni naziste.

Non c'è al fondo di questa marea montante alcuna visione della costruzione europea, ma essenzialmente una volontà agorafobica di ritorno al passato alimentata da un’inconfessata nostalgia dell’autarchia curtense. Come dimostra il fatto che molti fautori di un abbandono della moneta unica indicano in questo passo la necessaria premessa al ripristino dei dazi commerciali. Dinanzi alla sfida dei grandi spazi aperti dalla globalizzazione economica ci si richiude su se stessi nel maldestro tentativo di nascondere un diffuso sentimento di paura che è il chiaro riflesso di un’incapacità a pensare il futuro in termini di darwiniana sopravvivenza. Prospettiva esiziale per la sorte dell’Unione europea e soprattutto delle centinaia di milioni di cittadini del vecchio continente.

E, tuttavia, ciò che più allarma in questo scenario non sono tanto i pericoli insiti in un possibile successo elettorale delle predicazioni antieuropeiste quanto l’imbelle paralisi di azione politica ed economica da parte di chi - nelle istituzioni comunitarie e nei governi dei maggiori paesi - si dice anche preoccupato da simili minacce ma, appunto, nulla fa per contrastarle. E sì che non ci vorrebbe un raffinato cultore di storia europea per scoprire inquietanti precedenti con quanto accaduto nel vecchio continente meno di un secolo fa. All’indomani della prima guerra mondiale l’esplosione di movimenti nazionalistici altro non fu se non la conseguenza dell’ottusa arroganza con la quale i governi delle allora maggiori democrazie imposero ai vinti (ed anche a parte dei vincitori) il dazio di una propria supremazia economica che rendeva intollerabile la convivenza sociale all’interno dei paesi più deboli. Né il fascismo di Mussolini né poi il nazismo di Hitler furono figli di un destino cinico e baro.

In particolare, a decretare il fallimento dell’esperienza di Weimar e la veloce corsa verso la dittatura nazista furono le insostenibili condizioni di vita economica che i “grandi” di Versailles imposero al popolo tedesco. E oggi sembra di dover assistere a una sorta di nuova Versailles ma alla rovescia, nella quale le derive nazionalistiche - dalla Francia all’Italia, dalla Grecia all’Ungheria - raccolgono crescenti consensi principalmente a causa della politica d’austerità che, con la sua egemonia sulle istituzioni europee, la Germania sta imponendo a molti paesi dell’Unione.

Che alcuni di questi abbiano i conti in disordine è un dato di fatto, com’era nel secolo scorso innegabile che la Germania sconfitta dovesse pagare il fio della propria tracotanza imperiale. Ma è sempre la storia europea più recente a insegnare che la strategia delle sanzioni ottiene i suoi frutti migliori se sapientemente graduata nei tempi e nei modi: come è avvenuto nel secondo dopoguerra proprio nei confronti della neonata repubblica federale tedesca. Scelta lungimirante su cui allora pesò non poco la minaccia del blocco sovietico sui confini orientali. Dobbiamo forse augurarci un’invasione russa dell’Ucraina per scoprire che il modello Merkel con le sue sanzioni rischia di disfare l’Europa?

14 aprile 2014 © Riproduzione riservata

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Titolo: Massimo RIVA. Se il cuneo fiscale diventa un alibi
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 10:52:38 am
Massimo Riva
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Se il cuneo fiscale diventa un alibi
In Germania e Francia tasse e contributi pesano più che da noi. Eppure i lavoratori guadagnano di più.
Perché il vero problema sta negli imprenditori italiani, che da decenni investono e innovano troppo poco


È convinzione radicata che il cosiddetto cuneo fiscale rappresenti uno dei maggiori ostacoli al proficuo dispiegarsi delle potenzialità economiche del sistema Italia. E, in effetti, un prelievo fiscale e contributivo sulle buste paga nell'ordine dei 47,8 punti percentuali (ultimi dati Ocse) segnala una notevole e indubbia esosità da parte dello Stato. Già i salari lordi dei lavoratori italiani sono mediamente più bassi di quelli dei loro omologhi dei principali paesi industrializzati. Se poi l’Erario ne requisisce poco meno della metà, non è poi tanto difficile spiegarsi la continua caduta dei consumi con gli esiti recessivi che sono da tempo sotto gli occhi di tutti.

Nulla perciò da obiettare se l’attuale governo ha deciso di affrontare la questione con un primo taglio della pressione fiscale con il cosiddetto decreto degli 80 euro sulle retribuzioni più basse. Anche perché la manovra comporta un’iniezione di liquidità per circa dieci miliardi su base annua che dovrebbe rianimare la domanda interna con conseguenti effetti di sostegno alla crescita. Tuttavia, i raffronti internazionali mostrano che dietro lo schermo del cuneo fiscale si nascondono nodi un po’ più complessi che non si può immaginare di sciogliere semplicemente con ulteriori sforbiciate alla tanto contestata avidità della mano pubblica.

A ben guardare i numeri della citata indagine dell’Ocse, infatti, l’ingordigia dello Stato italiano appare non poco ridimensionarsi dato che il nostro paese si colloca al sesto posto in Europa quanto a prelievi sulle buste paga. Tanto che il suo 47,8 per cento risulta superato perfino dalle altre due grandi economie manifatturiere della zona euro. I lavoratori francesi subiscono un salasso del 48,9 per cento e quelli della pur fiorente Germania addirittura del 49,3. Differenze che - ahinoi - non si riflettono comunque sul netto dei salari per la risaputa ragione che in entrambi quei paesi le retribuzioni sono di norma superiori alle nostre. A tal punto che anche i tagli testé decisi dal governo Renzi (e ancora non registrati nelle statistiche Ocse) non potranno certo modificare in termini significativi tale conclamata disparità.

Fuori dall'orizzonte ristretto degli interventi congiunturali, viene quindi da chiedersi se le polemiche domestiche contro il cuneo fiscale non stiano oscurando aspetti ben più incresciosi della scarsa competitività della nostra economia. Com’è possibile che le imprese tedesche possano permettersi di versare maggiori oneri all’Erario e insieme di garantire, sia al lordo sia al netto, buste paga più elevate? E il tutto, come non bastasse, realizzando continui primati nelle esportazioni pur operando con la nostra stessa moneta? Dato che la risposta a questi interrogativi non può essere trovata sul versante del costo del lavoro, è lampante che essa vada cercata guardando ad altri fattori: non soltanto agli impieghi di capitale, nel senso della quantità e qualità degli investimenti, ma anche alla connessa capacità imprenditoriale di innovare tanto i prodotti quanto i processi produttivi. Esempio fin troppo facile in proposito il diverso tragitto compiuto in questi anni dagli azionisti della Volkswagen rispetto a quelli della Fiat.

Insomma, non ci si può illudere di raccogliere chissà quali frutti di crescita solo limando le pur rapaci unghie del cuneo fiscale. La lezione dei dati Ocse illumina un’altra e ben peggiore devianza italiana. Il problema cruciale è piuttosto quello di far rispuntare gli artigli imprenditoriali a un sistema produttivo che, debilitato per decenni dalla droga delle svalutazioni competitive, sembra aver perso quel gusto dell’innovazione e dell’investimento che è il sale del capitalismo industriale. Come, purtroppo, testimonia anche la crescente fascinazione del mondo delle piccole e medie imprese - la fatidica ossatura del sistema Italia - per i tanti imbonitori che, predicando la fuoriuscita dall’euro, spacciano per terapia salvifica il colpo di grazia finale alle speranze di ripresa.
08 maggio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/avviso-ai-naviganti/2014/04/29/news/se-il-cuneo-fiscale-diventa-un-alibi-1.163193