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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 103759 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Agosto 21, 2010, 03:54:28 pm »

Tracollo annunciato

di Massimo Riva

(20 agosto 2010)

Biglietteria Tirrenia Biglietteria TirreniaIl maldestro tentativo di far finta di privatizzare la Tirrenia passandola da una mano pubblica statale a una mano pubblica regionale è naufragato in modi e tempi piuttosto oscuri. Ma questa rimane comunque una buona notizia nella brutta partita che ha portato alla dichiarazione di insolvenza della società dei traghetti. Epilogo inesorabile alla luce di una cassa ridotta a 18.500 euro di liquidità a fronte di debiti complessivi nell'ordine di quasi 650 milioni. Resta solo da chiedersi come mai si sia arrivati appena ora a un esito che era scritto nei bilanci già da parecchi anni.
Il tracollo di Tirrenia, infatti, non giunge per nulla inaspettato. Anni, anzi decenni, di pessima gestione aziendale, tollerata e favorita da allegri ripianamenti dei conti da parte dello Stato, sono la vera e ben conosciuta causa di questo disastro. L'aspetto davvero inquietante della vicenda è che tutti, proprio tutti nel mondo politico, sapevano benissimo da lungo tempo che l'azienda era un colabrodo finanziario senza speranze, ma nulla da nessuno è stato fatto per porvi riparo. Basti dire che - caso unico nella storia dei boiardi di Stato - alla guida della società è stata lasciata la stessa persona, Franco Pecorini, per ben 26 (ventisei!) anni. Un manager così sagace che, fra gli altri sfondoni, ha investito qualche centinaio di milioni in navi che hanno dovuto essere messe alla fonda o perché non tenevano il mare agitato o perché consumavano cinque volte il carburante dei traghetti tradizionali.

Eppure in un Paese che nell'ultimo quarto di secolo è transitato dal Caf a Berlusconi, passando per due governi Prodi, praticamente nessuno è rimasto al proprio posto salvo l'intoccabile Pecorini, rimosso soltanto adesso. E probabilmente nulla ancora sarebbe cambiato se non fosse arrivata una scossa da parte di un agente esterno: l'Unione europea. Che, nella sua battaglia contro le sovvenzioni statali, ha imposto all'Italia di chiuderla con i pagamenti a pie' di lista e di procedere in fretta alla privatizzazione di Tirrenia.
Ma mettere la parola fine a questo festival dello spreco non si sta rivelando impresa semplice. Anche perché non c'è operatore privato al quale interessi la società così com'è: appetibili e appetite sono sì alcune (poche) linee dove c'è margine di profitto mentre tutto il resto in perdita non lo vuole proprio nessuno.

Si sta profilando perciò l'idea di procedere sulla falsariga di quanto avvenuto per Alitalia sdoppiando l'azienda in una "bad company", nella quale concentrare debiti pregressi e rotte a perdere, e in una "good company" dove collocare la polpa.
La prima conseguenza di una simile prospettiva è che - come per il caso Alitalia - il pagatore di ultima istanza sarà una volta ancora il malcapitato contribuente sul quale ricadranno gli oneri maggiori dell'operazione. Per giunta senza che questi possa sperare di essere almeno in parte risarcito attraverso una sacrosanta azione di responsabilità contro coloro che, dentro e attorno a Tirrenia, sono all'origine di tanto prolungato dissesto. Purtroppo, infatti, non s'è mai visto uno Stato fare causa contro se stesso.


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« Risposta #106 inserito:: Agosto 29, 2010, 09:14:51 am »

L'euro secondo Weber

Massimo Riva

(27 agosto 2010)

Axel Weber Axel WeberAppena nel giugno scorso il cambio dell'euro era sceso attorno al livello di 1,20 verso il dollaro. Gli esportatori si fregavano le mani, mentre sui mercati finanziari si susseguivano previsioni catastrofiche: non solo di ulteriore caduta delle quotazioni, ma anche di probabile disfacimento dell'esperienza stessa di una moneta comune europea. A sostegno dei funerei pronostici venivano anche avanzati argomenti seri come il vuoto di una regìa politica unitaria alle spalle dell'euro, la precarietà dei conti di alcuni paesi mediterranei, l'entità dei debiti sovrani così rapidamente cresciuta per fronteggiare i contraccolpi della crisi generale. Un clima da allarme rosso dominava sia nei mercati sia nelle cancellerie del vecchio continente.
Ora il cambio dell'euro è tornato a sfiorare quota 1,30 verso la valuta americana. Gli esportatori sono un po' meno contenti, in compenso l'aria che si respira in politica e in economia è diventata più leggera. Si ritiene che le misure di rigore varate un po' da tutti i governi abbiano raggiunto lo scopo di bloccare gli assalti speculativi contro la moneta unica. Da Bruxelles sono perfino piovute grandi lodi alla Grecia per la fermezza con la quale sta raddrizzando i conti del paese che aveva rischiato di sprofondare l'euro nell'abisso. Da un allarme esagerato si sta passando a un eccesso di ottimismo?

Che in Europa si sia fatto qualcosa di utile sforbiciando gli eccessi di spesa dei bilanci nazionali è buona cosa. Ma forse il recupero dell'euro è dovuto in maggior misura alla sfiducia che si sta nuovamente manifestando verso il dollaro: la grande macchina dell'economia Usa stenta a riprendersi e i conti del bilancio federale sono anche peggio di quelli di molti paesi europei. I capitali che avevano scommesso sulla disfatta dell'euro contro dollaro stanno facendo qualche marcia indietro.
Resta da capire come vorrà muoversi ora la Banca centrale europea dato che nessuno dei punti critici alla base delle previsioni più nere è stato scalfito: non l'assenza di regìa politica, non la fragilità dei conti, nemmeno l'entità dei debiti pubblici. A sorpresa ha provato a dettare una linea di comportamento il presidente della Bundesbank, Axel Weber, candidato alla successione di Jean-Claude Trichet. Buttata alle spalle la rigidità che lo aveva visto osteggiare il piano di sostegno alla Grecia e ai paesi in difficoltà, costui ha detto che la Bce deve continuare a garantire liquidità illimitata al sistema economico almeno fino al 2011. Effetto logico di queste parole è che l'euro ha rallentato la sua ripresa.

All'inatteso voltafaccia di Weber si possono dare due motivazioni. La prima: quella di cercare, nella corsa al vertice Bce, l'appoggio dei paesi rimasti scottati dai suoi "nein" nelle fasi acute della crisi greca. La seconda: quella di frenare i recuperi dell'euro per non danneggiare il "boom" delle esportazioni di cui da qualche mese sta godendo la sua Germania. Finalità legittime, che però allungano ombre preoccupanti su un uso occasionale e fluttuante dei poteri della Bce. Il peggio che possa accadere in una situazione che resta dominata da drammatiche incertezze.

   
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« Risposta #107 inserito:: Settembre 04, 2010, 10:10:33 am »

L'alternativa di Bernanke

di Massimo Riva

(03 settembre 2010)

Ma la ripresa c'è o non c'è? È più alto il rischio di deflazione o quello di inflazione? I due principali interrogativi che ossessionano da mesi governi, banche centrali, imprese e sindacati si ripropongono intatti al riavvio delle attività dopo la pausa estiva. La sola novità è che quello tracciato dalle ultime rilevazioni statistiche (sul secondo trimestre dell'anno) è un quadro ricco di contrasti e differenziazioni fra un paese e l'altro, tale da impedire risposte univoche.

In alcune parti del mondo la ripresa c'è eccome. Non solo Brasile, Cina e India sono tornati a ritmi di crescita fra il 7 e il 10 per cento, ma si stanno registrando boom imprevisti come l'8 per cento della Turchia. Del tutto opposto, invece, l'andamento congiunturale della maggiore economia del mondo: gli Stati Uniti stentano a reggere un incremento superiore al 2 per cento. Tanto che il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, si è sentito in obbligo di annunciare il ricorso a strumenti "non convenzionali" per dare un colpo di acceleratore al sistema.

In Europa lo scenario si presenta, come sempre, molto variegato ma con un exploit importante della Germania che sembra avviata a chiudere l'anno con un aumento del Pil oltre il 3 per cento. Senza però che la corsa della locomotiva tedesca abbia grandi effetti di trascinamento sugli altri vagoni del treno europeo, accreditato di una crescita media poco sopra l'uno per cento cui forse anche l'Italia potrebbe arrivare.

Il solitario miracolo tedesco ha radici nel forte incremento delle esportazioni, aiutato in parte dalla recente flessione dell'euro ma ancora di più dagli elevati standard tecnologici dei prodotti made in Germany. Ed è proprio questo a fare una grande differenza con il resto d'Europa e con gli Usa. Non è ancora chiaro che cosa intenda Bernanke quando parla di stimoli non convenzionali alla ripresa americana, ma è arduo che possa colmare un gap di fondo con la Germania. Alla Cina, per esempio, Washington offre titoli di Stato, mentre Berlino vende Audi, Mercedes e molti macchinari di alta qualità. Morale: le economie minori, Italia compresa, hanno ben poco da aspettarsi ora dal gigante americano. Le loro speranze sono appese al momento in cui i benefici dell'export tedesco si tradurranno in un rilancio di consumi e salari come già chiedono i sindacati locali.

Quanto al dilemma su deflazione/inflazione anch'esso merita una risposta differenziata per aree e soprattutto per tempi. Al momento, su entrambe le sponde dell'Atlantico, non esiste purtroppo alternativa alla necessità di continuare ad irrorare un mercato in affanno e bilanci pubblici precari con ulteriori dosi di liquidità. Dopo di che è chiaro che l'enorme montagna di carta di debiti privati e pubblici dovrà almeno in buona misura essere bruciata con un ciclo inflazionistico. Già fra un anno o fra due o tre? Tutto dipende dalla capacità dei sistemi economici di far fruttare alla tedesca il denaro in circolazione. Se, viceversa, si continuerà alla Marchionne a puntare tutto e solo sulla deflazione dei salari l'esito scontato sarà un indigesto cocktail di stagnazione ed inflazione.

   
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« Risposta #108 inserito:: Settembre 17, 2010, 02:14:37 pm »

La flebo di Basilea

di Massimo Riva

(17 settembre 2010)

Il cancro finanziario che ha minato (e sta ancora minando) la salute del sistema bancario internazionale sarà sottoposto a una sorta di chemioterapia regolatoria assai diluita nel tempo denominata Basilea 3. Dopo infinite consultazioni - i primi sintomi della malattia risalgono all'estate 2007 - gli illustri clinici della materia ovvero i governatori centrali hanno finalmente concordato i termini della cura. Ma hanno anche stabilito che essa dovrà essere praticata con grande cautela: si comincerà a gennaio 2013 per concludere a dicembre 2019. Dal 2020, insomma, il mondo dovrebbe poter contare su un mercato del credito risanato, stabile, sicuro.

Sarebbe sciocco fare della facile ironia su una così straordinaria lunghezza dei tempi. In realtà, la scelta dilatoria si spiega col fatto che il malato non sarebbe in grado di assumere oggi dosi più robuste e accelerate della terapia proposta. Essa consiste essenzialmente in vincoli più stringenti per quanto riguarda il rapporto fra capitali di garanzia e attività di rischio, oltre che in una serie di misure dirette a impedire le speculazioni più avventurose. Ciò comporta che la generalità degli istituti di credito dovrà fare pulizia profonda nei rispettivi portafogli, ma anche ricorrere al mercato per ricapitalizzarsi. Opzione quest'ultima che, se fosse esercitata da troppi in tempi brevi, si rivelerebbe impraticabile.
Senza volerlo, quindi, con questa terapia a lunga scadenza i governatori delle banche centrali hanno finito per lanciare un ulteriore messaggio di pericolo: se il paziente non può tollerare una cura più forte e più rapida, ciò vuol dire che le sue condizioni sono tuttora molto deboli e preoccupanti. In altre parole, non c'è affatto da stare in tranquilla attesa della prima flebo nel 2013. Nel frattempo, quindi, la prognosi resta riservata, riservatissima. Elevato rimane il rischio che qualche altro grande istituto di credito debba finire in stanza di rianimazione per una terapia intensiva a mezzo di capitali pubblici. Non inganni il fatto che qualche banca abbia già restituito parte delle sovvenzioni ricevute: i profitti per fare la bella figura sono stati realizzati con operazioni che con Basilea 3 diventerebbero sconvenienti.

Può darsi che in termini di medicina i banchieri centrali non potessero fare di meglio. Resta da spiegare perché loro stessi e le autorità politiche di diversi paesi abbiano escluso il ricorso alla chirurgia, rinunciando a intervenire sulla struttura dell'offerta creditizia. Solo la presidenza Obama ha avuto la forza di rifarsi alla lezione degli anni '30 reintroducendo, seppur timidamente, quella distinzione fra banche ordinarie e banche d'investimento il cui abbandono, una ventina d'anni fa, ha fatto da incubatrice al cancro dell'avventurismo finanziario. In tutti gli altri paesi il mito della banca universale continua ad imperare con tutto il suo bagaglio di patologie pesanti. Fra le quali spicca l'inquietante sudditanza dei poteri pubblici di fronte alla prepotenza dei banchieri che, dopo aver combinato sfracelli in assenza di regole, ora ne minacciano di nuovi contro ogni limite al loro libertinaggio.


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« Risposta #109 inserito:: Settembre 24, 2010, 06:33:02 pm »

Privilegi da spin off

di Massimo Riva

(24 settembre 2010)

È un'antica tara dell'angusta Borsa domestica: alcuni azionisti sono più uguali degli altri. La riprova di questa discriminazione, sempre a scapito dei più piccoli, è stata ora fornita dalla vicenda della separazione in due del gruppo Fiat. Dal giorno dell'annuncio della operazione a quello dell'assemblea che l'ha approvata il titolo Fiat ha segnato un recupero di circa il 7 per cento. Nello stesso arco di tempo quello della Exor - la cassaforte dove la famiglia Agnelli tiene il pacchetto di controllo della grande industria - si è prodotto in una risalita di circa il 19 per cento: quasi il triplo.

Non sempre, per carità, il mercato azionario vede giusto e azzecca tutte le sue valutazioni d'anticipo. Tuttavia, questa smaccata diversità di giudizio sulle prospettive di Exor e di Fiat dopo lo spin off di quest'ultima è un segnale che non dovrebbe lasciare indifferenti.
Certo, al momento del via effettivo all'operazione di spacchettamento nel prossimo gennaio, tutti i soci si troveranno allineati sulla stessa riga di partenza. Piccolo o grande che sia il volume del proprio investimento, ciascuno si troverà in mano - al posto di un'azione dell'azienda attuale - due nuovi titoli: uno rappresentativo della Fiat Spa con auto e relativa componentistica, l'altro della Fiat Industrial con veicoli industriali, macchine agricole e movimento terra. In teoria, dunque, tutto come prima. Ma in pratica?

Scopo dichiarato dell'operazione è quello di scindere il destino del settore auto dalla sorte del comparto dei veicoli industriali che ha prospettive meno incerte del primo. Per la salvaguardia del quale si renderanno necessari accordi di integrazione con altri produttori (a cominciare dalla Chrysler) nonché robuste iniezioni di capitale per investimenti che la famiglia Agnelli non sembra tanto intenzionata a fare. In questa luce è superficiale guardare alla separazione in corso soltanto in termini di ottica industriale.
Non basta dire, come fa Marchionne, che così si libera il settore dell'auto affinché possa cercarsi destini migliori nel mondo.
Chi diventa ancora più libero di farsi gli affari propri magari ritirandosi dall'impervia competizione globale sulle quattroruote, ma conservando la polpa più redditizia dei veicoli industriali, è l'azionista di controllo ovvero il clan Agnelli.

Come la Borsa, appunto, ha colto fin dal primo momento premiando molto di più il titolo Exor di quello Fiat. E come anche è stato sottolineato dal risultato delle votazioni nella recente assemblea della società. Al riguardo Salvatore Bragantini ha fatto un calcolo e un'osservazione impeccabili: "Ha detto sì il 39 per cento circa delle azioni: il 7 ha detto no. Dato che Exor è oltre il 30 per cento, fra i soci terzi la proposta è passata di misura; favorevole l'8 per cento, contrario il 7". Non paga, poi, la stessa assemblea ha ulteriormente punito i soci di minoranza mettendo velenose pillole antiscalata a disposizione del management.

Morale: quando proclama (per gli altri) la necessità di passare dalla "cultura dei diritti" alla "cultura della povertà" Sergio Marchionne parla in nome della "cultura del privilegio" dei padroni del vapore.

   
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« Risposta #110 inserito:: Ottobre 01, 2010, 04:00:01 pm »

Le scoperte di Emma

di Massimo Riva

(01 ottobre 2010)


Emma Marcegaglia manda a dire al presidente del Consiglio che la pazienza degli imprenditori è ormai al lumicino. Il suo predecessore al vertice di Confindustria, Luca di Montezemolo, fa muovere la sua Fondazione all'attacco della Lega di Umberto Bossi all'insegna del "basta con le chiacchiere". Un simile linguaggio, che rievoca il "quo usque tandem" delle catilinarie ciceroniane, è francamente insolito nei rapporti fra governo e mondo delle imprese. Esso contraddice platealmente la tradizione che vuole Confindustria filogovernativa, non importa se per necessità o per convinzione.

Ci si deve chiedere, quindi, che cosa abbia spinto gli esponenti del mondo produttivo a salire così imbufaliti sulle barricate. Non basta a spiegare questa svolta la pur grave e ormai grottesca vicenda dei cinque mesi di vacanza ministeriale al dicastero dello Sviluppo economico. Al centro della polemica c'è ben di più che non una nomina così a lungo stentata. Marcegaglia in proposito non ha usato giri di parole denunciando che, dietro il falso slogan berlusconian-tremontiano dello "stiamo meglio degli altri", si nasconde un Paese che fatica a crescere, che ha i conti sempre a rischio, mentre il sedicente "governo del fare" trascura i problemi delle imprese e del mondo del lavoro per occuparsi vuoi dei problemi giudiziari del premier vuoi di squallide lotte intestine dentro la periclitante maggioranza.

A ben vedere con queste accuse la presidente di Confindustria fa un po' la scoperta dell'acqua calda: il poco o nulla di politica industriale da parte del governo Berlusconi è sotto gli occhi di tutti fin dai primi segnali di crisi economica. Semmai bisogna cercar di capire come mai il sindacato degli imprenditori si sia deciso a dire pane al pane soltanto adesso. L'unica spiegazione ragionevole (e preoccupante) sta nelle stime congiunturali aggiornate un paio di settimane fa dall'ufficio studi confindustriale. Il secondo trimestre di quest'anno con il suo 0,5 per cento di crescita aveva fatto sperare in una ripresa che, viceversa, non sarà altrettanto brillante nel secondo semestre con proiezioni poco entusiasmanti anche sul 2011.

Insomma, Confindustria va all'attacco perché prevede un brutto autunno e un cattivo inverno senza che il governo dia segnali di voler fare qualcosa come accade invece nei Paesi concorrenti, Germania in testa. A questo si somma un altro disinganno sul versante dei rapporti sindacali. Al riguardo Marcegaglia e molti altri con lei si stanno probabilmente rendendo conto di essere caduti in una trappola abilmente tesa dal ministro del Lavoro che, per antichi rancori craxiani, da tempo punta a rompere il fronte sindacale isolando la Cgil. L'utile politico che il governo si ripromette da una simile operazione ha come contrappasso per gli imprenditori il costo di una più difficile gestione in fabbrica. Un'altra svolta di Marcegaglia, infatti, è stata la mano riaperta al sindacato di Guglielmo Epifani.
È presto per misurare il tenore di questo passaggio dalla Confindustria di governo alla Confindustria di lotta. C'è da sperare, tuttavia, che esso non serva anche a mascherare lo sciopero degli investimenti in corso.

   
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« Risposta #111 inserito:: Ottobre 08, 2010, 03:40:16 pm »

E i tedeschi ringraziano

di Massimo Riva

(08 ottobre 2010)

Il modo sicuro di restare ingannati è credersi più furbi degli altri. Se i leghisti di Umberto Bossi avessero seguito la nota massima di La Rochefoucauld forse non si sarebbero infilati nella battaglia sul vertice di Unicredit con la prosopopea e con l'arroganza che ora rischiano di trasformarli in portatori d'acqua dei soci tedeschi.

La prima furbata è stata quella di nascondere le proprie mire lottizzatorie dietro il paravento di una guerra patriottica per sventare una scalata alla banca da parte del governo di Tripoli: una minaccia così surreale da poter essere presa sul serio soltanto da chi aveva interesse a far finta di crederci.

La seconda e più esile trovata è stata quella di far fronte comune con gli azionisti tedeschi per disarcionare Alessandro Profumo nella presunzione che, tolto di mezzo l'imperatore centralista, si sarebbero dischiuse ampie praterie per una gestione dell'istituto secondo uno schema di satrapie locali orientate più al credito etnico che alla costruzione di una banca di respiro internazionale. Troppo tardi l'astuto capo leghista ha capito che la santa alleanza fra padani e bavaresi pendeva soprattutto dalla parte dei secondi e ha messo in guardia i suoi non più dai libici ma dagli alemanni. Nel frattempo, ben pilotati da Dieter Rampl, questi ultimi sono riusciti a imporre la scelta del nuovo capo-azienda nel nome di Federico Ghizzoni, fra tutti i candidati il più vicino per curriculum e formazione agli interessi di quell'Europa orientale che la Baviera considera un po' casa propria.

Ora il confronto si è spostato sulle posizioni di rincalzo e di sicuro alle Fondazioni padane sarà assegnata in compensazione qualche poltrona di rango. Ma già i tedeschi hanno messo sul piatto anche la pretesa di far ritornare in patria il controllo di Hvb, la banca bavarese che la luminosa gestione di Rampl aveva messo in crisi e che deve la sua salvezza - guarda caso - all'intervento di Profumo. Cosicché, al momento, le mire spartitorie dei leghisti nostrani stanno avendo l'effetto paradossale di favorire soprattutto quelle dei loro "alleati" germanici.

Ce n'è abbastanza per prevedere un futuro prossimo assai agitato in Unicredit. Anche perché l'uscita di scena di un uomo forte come Profumo, che aveva tenuto la banca lontana da tante "operazioni di sistema" (da Alitalia a Telecom, passando per il "Corriere"), può suscitare appetiti esterni molto interessati a usare Unicredit per sistemare alcune partite di potere: in particolare, quella del controllo di Generali. Una bella fusione fra Unicredit e Mediobanca, di cui il primo già possiede il 5 per cento, avrebbe il non trascurabile effetto di ridurre in coriandoli i pacchetti dei maggiori azionisti della società. Così realizzando una situazione invidiabile per l'attuale presidente, Cesare Geronzi, che si troverebbe a guidare il gigante assicurativo senza dover rispondere a soci troppo ingombranti, come se si trattasse di una public company. Forse i leghisti a questa ipotesi non hanno ancora pensato. Di sicuro Bossi può farsela spiegare da Silvio Berlusconi, che ha ottime ragioni d'affari personali (Mediolanum) per assecondare l'amico Geronzi.

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« Risposta #112 inserito:: Ottobre 15, 2010, 10:56:19 pm »

Se Pechino sfida il mondo

di Massimo Riva

(15 ottobre 2010)

È guerra delle monete, ma non soltanto, quella che si sta combattendo fra le due sponde del Pacifico. Nella durezza con la quale Pechino resiste alla richiesta americana di una forte rivalutazione della propria valuta si deve leggere qualcosa che va anche oltre gli interessi economici immediati. Il punto è che - due secoli dopo la minacciosa profezia napoleonica - la Cina si è svegliata. Forte della sua crescita prepotente, il grande paese asiatico comincia a mandare i primi segnali di una sfida ben più importante: quella al dominio solitario degli Stati Uniti nel mondo dopo la fine dell'Unione Sovietica.

Una sfida che oggi si svolge su un terreno particolarmente insidioso per gli Usa, quello monetario, appunto, dove l'impero americano risulta fragile e vulnerabile. Le misure prese a Washington per arginare gli effetti della crisi finanziaria recente hanno inondato i mercati con enormi valanghe di dollari e fatto schizzare a livelli senza precedenti il debito pubblico degli Usa. Alto perciò è il pericolo di conseguenze devastanti per l'economia americana, che avrebbe bisogno di accelerare la crescita, soprattutto delle esportazioni, e di rianimare i consumi interni senza che questi vadano a soddisfarsi nell'import di prodotti altrui, segnatamente cinesi. La caduta già in corso del dollaro non risolve il problema perché ciò di cui l'amministrazione Obama avrebbe bisogno è una sorta di svalutazione selettiva soltanto nei confronti della moneta cinese.

Al riguardo il Congresso ha appena messo a disposizione del presidente eventuali e pesanti misure di restrizione alle importazioni dalla Cina. Ma non pare proprio che a Pechino siano rimasti troppo impressionati da simili minacce. Anche perché il governo cinese ha una doppia ragione per continuare a far muovere la propria moneta in parallelo o quasi al dollaro. Se la prima è quella più evidente di continuare ad aiutare il boom delle proprie esportazioni, la seconda riguarda la contabilizzazione del patrimonio valutario che la Cina ha messo insieme negli anni acquistando massicciamente titoli del debito pubblico americano. Scelta che rappresenta al tempo stesso un punto di forza e uno di debolezza per gli strateghi di Pechino. Di forza perché possono tenere il coltello alla gola degli Stati Uniti, di debolezza nel caso dovessero usarlo davvero per gli effetti sulle proprie casse. Quella in corso, dunque, si presenta come una sfida nella quale al momento nessuno dei contendenti sa come chiudere una partita che, anche per i suoi inconfessati risvolti politici, promette di durare negli anni.

Per il resto del mondo questa situazione è quanto di peggio. L'andatura parallela di dollaro e renminbi sta producendo micidiali effetti di rivalutazione delle monete degli altri paesi, i quali vedono precipitare la competitività delle loro esportazioni ben più di quanto possano guadagnare in termini di acquisti di materie prime. Nell'area euro solo la più solida economia tedesca riesce a reggere il gioco, per tutti gli altri sono e saranno guai. In particolare per l'Italia che, già maestra in tema di svalutazioni competitive, ora rischia di essere vittima impotente di quelle altrui.

   
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« Risposta #113 inserito:: Ottobre 24, 2010, 03:27:39 pm »

L'ultima clausola di Tremonti

di Massimo Riva

(22 ottobre 2010)

Il cammino verso il federalismo fiscale era già cominciato male l'anno scorso, con una legge quadro approvata nel più fitto buio contabile da un parlamento che l'ha votata senza che il governo si degnasse di presentare una pur sommaria indicazione del rapporto fra costi e benefici per la finanza pubblica. L'oscurità si sarebbe diradata su questo punto non secondario - assicurò allora il ministro Giulio Tremonti - nel momento in cui si fosse passati ai decreti attuativi. Mentre il presidente del Consiglio non perse l'ennesima occasione di promettere che il nuovo regime avrebbe portato comunque a una riduzione delle imposte per i cittadini.

Ora che dai buoni ma vaghi propositi si sta passando alle decisioni concrete le cose stanno procedendo di male in peggio. Anziché cominciare dal mettere ordine sul fronte della spesa degli enti locali, che costituisce la principale fonte di pericolo per gli equilibri contabili delle regioni, Tremonti e Silvio Berlusconi hanno deciso di iniziare dal versante delle nuove regole tributarie. Scelta poco logica, ma addirittura sorprendente per le sue indicazioni specifiche. Soprattutto perché il progetto governativo - alla faccia delle promesse di Berlusconi - spalanca alle regioni la porta per nuovi e non piccoli aggravi delle imposte addizionali, con l'aggravante della facoltà ad operare uno scambio dal sapore odiosamente classista fra tagli all'Irap a beneficio delle imprese e aumenti delle tasse per i lavoratori.

Per dissimulare la minaccia implicita di un incremento della pressione fiscale, che è poi la vera sostanza del decreto, il governo ha fatto ricorso ad un penoso marchingegno inserendo nel testo la cosiddetta "clausola di invarianza", in ossequio alla quale le regioni potranno sì aumentare, per esempio, il peso delle addizionali, ma alla ferma condizione di diminuire qualche altro prelievo in modo da ottenere come risultato finale che la pressione fiscale complessiva risulti alla fine almeno immutata. Sarebbe bello poter credere all'efficacia di una simile trovata, se non fosse che i precedenti al riguardo depongono tutti in senso diametralmente opposto.

La memoria storica ricorda che un'analoga questione fu sollevata durante i lavori dell'Assemblea costituente con riferimento agli equilibri della finanza statale. Per mettere questi ultimi al riparo da decisioni pericolose fu inserito nel tanto celebrato articolo 81 della Costituzione un comma secondo il quale ogni legge "che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte". Formula di straordinario e impeccabile rigore contabile - proposta e voluta da personaggi del calibro di Luigi Einaudi ed Ezio Vanoni - ma che non è certo servita a impedire alle finanze della Repubblica di accumulare nel tempo un debito che ormai si sta avvicinando ai 1.850 miliardi di euro, pari a quasi il 120 per cento in rapporto al Pil.
E oggi, dopo questa amarissima esperienza, gli italiani dovrebbero prestar fiducia alla "clausola d'invarianza" escogitata da Tremonti? Se non l'intelligenza, almeno il portafoglio dei contribuenti meriterebbe un maggiore rispetto da parte del ministro e dei suoi sodali leghisti.

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« Risposta #114 inserito:: Novembre 02, 2010, 06:36:17 pm »

Tremonti come Pirro

di Massimo Riva

(29 ottobre 2010)

Il giubilo con il quale i ministri economici dell'area euro hanno illustrato l'accordo sulla nuova versione del patto di stabilità è sospetto. E così pure la pioggia di critiche astiose che è caduta sul presidente della Banca europea, Jean-Claude Trichet, per aver apertamente manifestato il suo dissenso da punti essenziali del testo. In particolare, sul nodo delle sanzioni contro i Paesi devianti in materia di debito. La Commissione di Bruxelles, con il pieno consenso della Bce, aveva proposto che tali sanzioni scattassero in modo automatico. I rappresentanti dei governi hanno, viceversa, rivendicato a se stessi il potere di decidere al riguardo, valutando caso per caso.

Si dirà che così è stato riaffermato il primato della politica. Già, ma di quale politica? Ancora fresca è la memoria di quel che accadde, solo pochi anni fa, quando a sforare i parametri del patto furono i governi di due Paesi leader quali Germania e Francia. Con la connivenza dei membri più deboli, interessati a guadagnarsi indulgenza, Berlino e Parigi non pagarono dazio. Scelta che introdusse elementi di forte incertezza sui mercati quanto a serietà e tenuta del sistema di regole che dovrebbe presidiare i corsi dell'euro.

In secondo luogo - e questa sarebbe la maggiore preoccupazione di Trichet - va ricordato che gli interventi per arginare i colpi della recente crisi finanziaria hanno fatto pesantemente crescere gli stock dei debiti nazionali un po' dappertutto in Europa. Tanto che il problema della gestione dei debiti sovrani è salito di prepotenza al primo posto nell'agenda dei vertici internazionali. Forse la Commissione Ue aveva esagerato proponendo di assoggettare i paesi devianti all'obbligo di un rientro a ritmi forzati. E si può comprendere che i ministri abbiano temuto l'effetto recessivo di simili eventuali sanzioni. Ma da questo estremo di rigore ora si è passati all'eccesso opposto, affidando il tema alle contrattazioni occasionali fra rappresentanti dei governi. Scelta che non suona come il miglior viatico per il futuro dell'euro sui mercati: meno i debiti scendono e più si materializza il pericolo di una svolta al rialzo dei tassi d'interesse. E già c'è qualche segnale sull'euribor.

Prospettiva che dovrebbe angustiare soprattutto un Paese con debito abnorme come il nostro. Ma proprio il ministro Giulio Tremonti è stato fra i più entusiasti del "novum pactum". A suo dire, non solo perché si è scongiurata la mannaia delle sanzioni automatiche, ma anche perché grazie a lui l'Italia avrebbe ottenuto che la nozione di debito nazionale prendesse in considerazione quello privato insieme a quello pubblico, così valorizzando la ancor forte propensione degli italiani al risparmio. Ora, a parte il fatto che l'accettazione di un tale doppio parametro non risulta poi così tanto esplicita nei documenti ufficiali, in sede Bce è già stato fatto notare che il debito totale italiano, pubblico e privato, è aumentato negli ultimi dieci anni dal 195 al 251 per cento del Pil: una cifra da paura al primo stormir dei tassi. Tale comunque da far ritenere che Tremonti a Bruxelles abbia riportato la classica vittoria di Pirro.

   
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« Risposta #115 inserito:: Novembre 05, 2010, 04:19:16 pm »

La farsa delle tasse

di Massimo Riva

(05 novembre 2010)

"Meno tasse per tutti". Risale al 1994 lo slogan di indubbia efficacia demagogica sull'onda del quale Silvio Berlusconi entrò per la prima volta a Palazzo Chigi. Dopo sedici anni - per oltre metà dei quali il Cavaliere è stato alla guida del governo - siamo sempre al punto di partenza. La promessa di un taglio alle imposte viene di continuo reiterata a gran voce ma senza che alcun fatto ne consegua. Anzi, la pressione fiscale è semmai in questi ultimi anni risalita.

Durante l'esperienza governativa precedente Berlusconi ebbe pure la sfrontatezza di architettare una penosa sceneggiata, facendosi approvare dal Parlamento una legge-delega che sforbiciava drasticamente il prelievo riducendo in numero e valore le aliquote dell'imposta sui redditi: nessuno avrebbe dovuto pagare più del 35 per cento. Peccato che quella delega non fu mai esercitata e passò alla storia come una solenne presa per il naso dei contribuenti.

Ora il ministro Tremonti è tornato alla carica dando ad intendere con aria particolarmente compunta che questa sarebbe la volta buona.
Ha riunito attorno a un tavolo imprenditori e sindacati per coinvolgerli nell'operazione. Poi ha costituito quattro commissioni di studio sulla materia chiamando a parteciparvi anche esperti vicini all'opposizione, alla quale ha rivolto espliciti inviti ad avanzare proposte in materia.

A prima vista, un simile metodo ispirato alla collaborazione sociale e politica appare apprezzabile: come lo sono anche alcuni paletti fissati dallo stesso ministro. Egli dice, per esempio, che la riforma fiscale dovrà essere compatibile con i conti pubblici e con i vincoli europei. Giustissimo: le entrate sono oggi in calo mentre il debito pubblico continua a salire. Soggiunge poi Tremonti che sì il taglio delle tasse si potrà spesare con la lotta all'evasione, ma non prima che il gettito recuperato sia denaro sonante in cassa. Ottimo e logico proposito.

Assai meno condivisibili, però, sono altre affermazioni del medesimo ministro. Come quelle relative al punto che il nuovo fisco non dovrà prevedere aumenti del prelievo né sui patrimoni né sulle rendite finanziarie. In un paese, nel quale la coperta dei conti pubblici è sempre più corta e potrebbe presto diventare cortissima al primo rialzo dei tassi d'interesse sul debito e dove da decenni lo Stato spreme i redditi da lavoro più di tutti gli altri, diventa davvero arduo capire dove Tremonti intenda trovare le risorse per una riduzione delle tasse senza passare per un'inevitabile redistribuzione sociale del carico fiscale. Nei tagli alla spesa pubblica? Sarà, ma finora nelle sue mani questa è cresciuta. Nella vendita di beni dello Stato? Ma questo sarebbe un obbrobrio contabile dato che incassi una tantum andrebbero a coprire rinunce permanenti di gettito. E allora?

Le forme e i modi di Tremonti saranno anche più accattivanti che in passato, ma forte è il dubbio di trovarsi di fronte a un'incresciosa replica della farsa con la delega a tagliare tasse che non sono mai state tagliate. Anche perché nell'aria c'è profumo di elezioni anticipate e altri manifesti con il "meno tasse per tutti" sono forse già pronti in magazzino.

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« Risposta #116 inserito:: Novembre 16, 2010, 05:31:39 pm »

La malattia dell'Occidente

di Massimo Riva

(12 novembre 2010)

Negli Stati Uniti l'hanno ribattezzata "jobless recovery" (ripresa senza lavoro), ma il fenomeno riguarda un po' tutti i paesi dell'Occidente industrializzato. Seppure in modo stentato, infatti, il cammino della crescita è ripreso nel corso di quest'anno e però con una pronunciata caratteristica negativa: l'aumento della produzione non comporta un incremento dei posti di lavoro, anzi. Una contraddizione inattesa che taluni spiegano con ragioni contingenti. Principalmente col fatto che la crisi 2008/2009 ha provocato una dura selezione nel mondo delle imprese. Le più deboli hanno chiuso i battenti e ingrossato le fila dei disoccupati, mentre quelle che hanno resistito si stanno riprendendo soltanto riducendo il carico della manodopera anche più di quanto dovuto al restringimento del proprio perimetro produttivo.
È una prima spiegazione, in parte plausibile, ma che forse s'arresta alla superficie del problema e non coglie elementi più strutturali del cambiamento in atto nel rapporto fra ripresa e occupazione o, per dirla più franca, nella lotta fra capitale e lavoro. Medico più attento e meno pietoso, in un documentato libro appena edito da Laterza, Marco Panara suggerisce di guardare in faccia e più da vicino quella che egli chiama "la malattia dell'Occidente" (titolo del volume): un morbo che nasce, a suo avviso, dalla perdita progressiva del valore del lavoro nelle società che compongono il mondo cosiddetto sviluppato o industrializzato.

Certo che questa svalutazione del lavoro può essere originata da fattori geografici, come la corsa alle delocalizzazioni produttive verso paesi con manodopera a basso o bassissimo salario. Certo che hanno pesato anche fattori tecnologici: in pratica tutti i paesi occidentali, con l'eccezione della Germania, hanno avuto l'intelligenza di alzare il tiro delle loro attività verso beni a più elevato valore aggiunto. Ma il punto centrale sul quale Panara invita a ragionare è che proprio la recente crisi finanziaria ha portato in piena luce un processo di redistribuzione della ricchezza in corso da decenni e nel quale la remunerazione del lavoro continua a cedere quote a favore di quella del capitale.

Emerge da una simile diagnosi un aspetto particolarmente allarmante della malattia del lavoro nei paesi occidentali con risvolti da società suicida. Se l'obiettivo della rendita finanziaria riduce il reddito da lavoro a valore residuale, all'economia viene progressivamente a mancare il sostegno della domanda per consumi e la minaccia di avvitamento depressivo prende sempre più corpo. Prima di Keynes lo aveva già detto Malthus. Dietro la "jobless recovery" di cui si diceva all'inizio, quindi, sono in agguato problemi ben più gravi e seri di quelli esorcizzabili con spiegazioni contingenti e consolatorie. Problemi che invocano una presa di coscienza e di iniziativa da parte dei poteri politici, nazionali e in Europa sovranazionali. È tempo sprecato stare in passiva attesa del mezzo punto in più o in meno nelle statistiche sulla disoccupazione, oggi occorre che soprattutto i governi occidentali guardino ai cambiamenti strutturali in atto nello storico conflitto fra capitale e lavoro.

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« Risposta #117 inserito:: Novembre 19, 2010, 09:43:48 am »

L'Italia della decadenza

di Massimo Riva

(19 novembre 2010)

Luca Cordero di Montezemolo Luca Cordero di MontezemoloÈ passato appena qualche anno, ma come sembrano lontani i tempi nei quali dal Quirinale Carlo Azeglio Ciampi respingeva con forza l'idea stessa che si potesse parlare di declino del paese. Oggi, purtroppo, su quel piano inclinato ci siamo davvero e lo riconosce lo stesso ex-Presidente della Repubblica nel suo ultimo libro dove dell'Italia attuale dice amaro e perentorio: "Non è il paese che sognavo". Mese non passa, infatti, senza che questa o quella statistica segnali il costante arretramento dell'economia italiana nel contesto internazionale. Da ultimo, lo dicono i dati sulla crescita nel terzo trimestre 2010 che confermano l'esistenza di una sorta di handicap strutturale per cui quando la ripresa accelera l'Italia cresce meno degli altri, mentre più di tutti frena quando l'attività economica rallenta. Tra luglio e settembre in Europa si è avuto un aumento medio del Pil dello 0,4 per cento, ma l'Italia ha messo a segno uno stentato più 0,2: la metà degli altri.

A complicare questa decadenza, già in sé allarmante, si aggiunge la manipolazione politica che distorce la lettura delle rilevazioni statistiche. Soprattutto da parte di chi regge il governo del paese che, fin dai primi segnali della crisi generale, si è attestato su una posizione di negazione radicale della gravità delle cifre andando a cercare, di volta in volta, in Irlanda o in Portogallo un raffronto qualunque che potesse consentire di sostenere l'alibi assolutorio di un'Italia che "sta meglio di altri paesi".
Proprio per uscire dall'assurdità di questo dibattito negazionista della realtà, Italia Futura (la Fondazione presieduta da Luca Cordero di Montezemolo) ha condotto uno studio intitolato "I numeri del quindicennio perso" nel quale ha raccolto una serie di dati sulla situazione socio-economica del paese attingendoli dalle più autorevoli ed affidabili fonti interne e internazionali. Studio dal quale sono ricavate le tabelle di queste pagine che "l'Espresso" pubblica in anteprima (che saranno presentate al convegno della Fondazione sull'occupazione giovanile del 24 novembre ). Quel che ne emerge lascia ben poco spazio agli ottimismi di facciata. Già la serie di dati sull'andamento del Pil è implacabile: negli ultimi quindici anni l'Italia ha avuto una crescita sempre scarsa e comunque di gran lunga inferiore a quella dei principali partner europei. Perfino segnando nel 2009 una caduta del Pil/pro capite che, magari di poco, è però cresciuto altrove. Quanto al minaccioso versante del debito pubblico, si va addirittura di male in peggio con un appesantimento più pronunciato a partire dal 2008 dopo il ritorno al governo della compagine berlusconiana: dieci punti percentuali in più rispetto al Pil solo nel raffronto 2008/2009. Con un'aggravante - occorre soggiungere - che riguarda la progressione del debito in cifra assoluta. A maggio 2008 - riedizione del governo Berlusconi - il debito era cifrato in 1.648 miliardi di euro, un anno dopo si era già a quota 1.752, mentre al 30 settembre scorso è stato stimato da Bankitalia al record di 1.844: quasi 200 miliardi in più in trenta mesi! Numeri da soli più che sufficienti a mandare in pezzi la favoletta mistificatoria di un Giulio Tremonti custode rigoroso dei conti. Tanto più alla luce della tabella sugli aiuti dello Stato nel corso della crisi economica dove si registra che, al contrario di altri paesi, l'Italia ha speso quasi nulla rispetto a quanto fatto dagli altri.

Se poi si guarda alla politica fiscale anche in questo caso finiscono alle ortiche non poche fantasiose menzogne. Non è vero che la pressione tributaria sia stata ridotta, anzi essa risulta aumentata rispetto a una dozzina d'anni fa. Mentre il cuneo fiscale, da tanti indicato come la causa principale della scarsa competitività del "made in Italy" rispetto alle maggiori economie europee, risulta di oltre tre punti inferiore a quello della Germania ovvero proprio del paese che oggi mostra di saper uscire dalla crisi prima e più velocemente degli altri.

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« Risposta #118 inserito:: Novembre 26, 2010, 05:23:10 pm »

L'Italia della decadenza

di Massimo Riva

(19 novembre 2010)

È passato appena qualche anno, ma come sembrano lontani i tempi nei quali dal Quirinale Carlo Azeglio Ciampi respingeva con forza l'idea stessa che si potesse parlare di declino del paese. Oggi, purtroppo, su quel piano inclinato ci siamo davvero e lo riconosce lo stesso ex-Presidente della Repubblica nel suo ultimo libro dove dell'Italia attuale dice amaro e perentorio: "Non è il paese che sognavo". Mese non passa, infatti, senza che questa o quella statistica segnali il costante arretramento dell'economia italiana nel contesto internazionale. Da ultimo, lo dicono i dati sulla crescita nel terzo trimestre 2010 che confermano l'esistenza di una sorta di handicap strutturale per cui quando la ripresa accelera l'Italia cresce meno degli altri, mentre più di tutti frena quando l'attività economica rallenta. Tra luglio e settembre in Europa si è avuto un aumento medio del Pil dello 0,4 per cento, ma l'Italia ha messo a segno uno stentato più 0,2: la metà degli altri.

A complicare questa decadenza, già in sé allarmante, si aggiunge la manipolazione politica che distorce la lettura delle rilevazioni statistiche. Soprattutto da parte di chi regge il governo del paese che, fin dai primi segnali della crisi generale, si è attestato su una posizione di negazione radicale della gravità delle cifre andando a cercare, di volta in volta, in Irlanda o in Portogallo un raffronto qualunque che potesse consentire di sostenere l'alibi assolutorio di un'Italia che "sta meglio di altri paesi".

Proprio per uscire dall'assurdità di questo dibattito negazionista della realtà, Italia Futura (la Fondazione presieduta da Luca Cordero di Montezemolo) ha condotto uno studio intitolato "I numeri del quindicennio perso" nel quale ha raccolto una serie di dati sulla situazione socio-economica del paese attingendoli dalle più autorevoli ed affidabili fonti interne e internazionali. Studio dal quale sono ricavate le tabelle di queste pagine che "l'Espresso" pubblica in anteprima (che saranno presentate al convegno della Fondazione sull'occupazione giovanile del 24 novembre ). Quel che ne emerge lascia ben poco spazio agli ottimismi di facciata. Già la serie di dati sull'andamento del Pil è implacabile: negli ultimi quindici anni l'Italia ha avuto una crescita sempre scarsa e comunque di gran lunga inferiore a quella dei principali partner europei. Perfino segnando nel 2009 una caduta del Pil/pro capite che, magari di poco, è però cresciuto altrove. Quanto al minaccioso versante del debito pubblico, si va addirittura di male in peggio con un appesantimento più pronunciato a partire dal 2008 dopo il ritorno al governo della compagine berlusconiana: dieci punti percentuali in più rispetto al Pil solo nel raffronto 2008/2009. Con un'aggravante - occorre soggiungere - che riguarda la progressione del debito in cifra assoluta. A maggio 2008 - riedizione del governo Berlusconi - il debito era cifrato in 1.648 miliardi di euro, un anno dopo si era già a quota 1.752, mentre al 30 settembre scorso è stato stimato da Bankitalia al record di 1.844: quasi 200 miliardi in più in trenta mesi! Numeri da soli più che sufficienti a mandare in pezzi la favoletta mistificatoria di un Giulio Tremonti custode rigoroso dei conti. Tanto più alla luce della tabella sugli aiuti dello Stato nel corso della crisi economica dove si registra che, al contrario di altri paesi, l'Italia ha speso quasi nulla rispetto a quanto fatto dagli altri.

Se poi si guarda alla politica fiscale anche in questo caso finiscono alle ortiche non poche fantasiose menzogne. Non è vero che la pressione tributaria sia stata ridotta, anzi essa risulta aumentata rispetto a una dozzina d'anni fa. Mentre il cuneo fiscale, da tanti indicato come la causa principale della scarsa competitività del "made in Italy" rispetto alle maggiori economie europee, risulta di oltre tre punti inferiore a quello della Germania ovvero proprio del paese che oggi mostra di saper uscire dalla crisi prima e più velocemente degli altri.

Note non meno dolenti vengono, infine, dal mercato del lavoro e, in particolare, dai dati sul "flusso dei lavoratori qualificati verso l'estero" che segnala una costante fuga dei cervelli migliori (nell'ordine di un quarto di milione l'anno) in netta controtendenza con quanto accaduto nei principali paesi europei. Una migrazione davvero imponente che si può drammaticamente spiegare con un'altra amara rilevazione: quella che vede l'Italia fanalino di coda nella classifica della spesa per ricerca e sviluppo. Segnale inequivocabile che il declino in corso proietta le sue ombre anche sull'avvenire. Unica consolazione è che la ricerca di ItaliaFutura conferma l'ottima quotazione internazionale della sanità italiana: seconda al mondo dopo la francese. Sempre che i famigerati tagli lineari alla cieca, dietro cui Tremonti nasconde la sua incapacità di una politica selettiva della spesa pubblica, non stiano già mettendo a rischio anche questa solitaria eccellenza. Non solo Ciampi, quindi, ma tanti altri italiani oggi possono dire che questo non è il paese del loro sogno.

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« Risposta #119 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:19:49 am »

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Debito alla resa dei conti

di Massimo Riva

(03 dicembre 2010)

Sostiene Giulio Tremonti che l'Italia non deve temere tempeste presenti o future perché i suoi conti pubblici sono stati "messi in sicurezza". Parole che vengono ripetute a cantilena, come la consolante recita di un rosario quotidiano, dai suoi colleghi di governo e da ogni esponente dell'attuale maggioranza. Vale la pena di chiedersi quanto si possa stare sicuri di questa tanto esibita "sicurezza". Se si guarda allo storico tallone d'Achille del nostro bilancio - il debito pubblico - la situazione appare assai meno confortevole. Ereditato da Tremonti attorno al 105 per cento in rapporto al Pil, il suddetto debito si sta avviando ormai a quota 120 per cento. Nelle giaculatorie governative si sdrammatizza questo minaccioso balzo in avanti asserendo che esso trova ovvia spiegazione nella contemporanea discesa dell'altro termine del rapporto ovvero del Pil. Ma si tratta di un argomento del tutto falso. In realtà, il debito è cresciuto nei due anni e mezzo di governo berlusconiano ben più di quanto abbia frenato il Pil.

Nel maggio 2008, all'indomani del trionfo elettorale di Berlusconi, esso era stimato in 1.648 miliardi, secondo l'ultima rilevazione (settembre 2010) è arrivato a quota 1.844 ovvero 196 miliardi in più con un incremento di circa il 12 per cento in 28 mesi. Va bene che il Pil ha rallentato ma, per fortuna, non in simili proporzioni. Dunque, c'è stato un aumento vigoroso del debito non altrimenti attribuibile che agli effetti della gestione Tremonti anche perché in Italia, al contrario di quanto accaduto altrove, lo Stato non ha dovuto correre al soccorso di banche a rischio di chiusura. La spia del debito apre così una falla gigantesca nella dottrina della messa in sicurezza del bilancio e svela quali siano la vera pasta e il corto respiro del sedicente rigore tremontiano. In pratica il ministro si è limitato a spostare avanti nel tempo la resa dei conti, sottoscrivendo nuove cambiali che dovranno essere onorate da chi verrà dopo di lui e, per giunta, a tassi d'interesse che certo non saranno più quelli di oggi. In termini sociali, poi, quei 200 miliardi di debito in più rappresentano comunque una requisizione del reddito che sarà prodotto negli anni a venire. Un caso classico di imposta post-datata alla faccia del "non metteremo le mani nelle tasche dei contribuenti".

A quanto pare simili manovre non entusiasmano la Commissione Barroso, che da Bruxelles fa intendere di voler chiedere a Roma nel 2011 misure di risanamento ben più serie ed onerose. Per scongiurare simile ipotesi i cantori della messa in sicurezza se ne sono inventata un'altra: l'Italia non merita di essere sottoposta a una disciplina più dura perché, a compensazione dell'abnorme debito pubblico, può vantarne uno ben minore del settore privato a causa della forte propensione al risparmio dei suoi cittadini. Argomento molto pericoloso perché esso può reggere solo a una condizione logica implicita: che, in caso di necessità, lo Stato intenda assoggettare il risparmio degli italiani a un prestito forzoso. Sarebbe questo l'ultimo e più velenoso lascito della pretesa messa in sicurezza dei conti pubblici da parte di Giulio Tremonti.

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