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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 107978 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Dicembre 10, 2010, 10:25:31 am »

Prova del fuoco per Vegas

di Massimo Riva

(10 dicembre 2010)

Il caso Ligresti-Groupama offre alla nuova Consob, guidata da Giuseppe Vegas, la preziosa opportunità di far capire da subito al mercato da che parte sta. Da quella dei pochi gruppi dominanti, abituati a fare i propri comodi a Piazza degli Affari, ovvero da quella della larga platea dei piccoli risparmiatori o azionisti di minoranza sovente trattati come indifeso gregge da tosare?
Il nodo da sciogliere riguarda la valutazione dei termini dell'ingresso dei francesi di Groupama in Premafin, la holding di controllo della piramide societaria di Ligresti, che sta per operare un robusto aumento di capitale per raccogliere il denaro fresco utile a ridurre un indebitamento complessivo delle aziende del costruttore siciliano ormai prossimo all'insostenibilità. Quale sia l'interesse del gruppo assicurativo francese a impegnarsi nell'operazione è fin troppo evidente: approfittare delle difficoltà finanziarie di Ligresti per offrirgli una ciambella di salvataggio da farsi ripagare in futuro allungando le mani sull'importante business assicurativo (Fondiaria-Sai) del medesimo impero Ligresti. Che Groupama si muova per una semplice moto di generosità ovvero per aiutare Premafin & C. a costruire altri grattacieli è un'ipotesi che non troverebbe ascolto neppure negli asili infantili.

Con studiata accortezza, però, i francesi intendono perseguire le loro mire con il minimo sforzo. Sottoscriveranno sì una quota dell'aumento di capitale Premafin, ma tale da tenerli lontani da quel limite del 30 per cento che farebbe scattare a loro carico l'obbligo di un'offerta pubblica d'acquisto a favore dell'intero azionariato della società. Anzi, per non lasciare dubbi al riguardo, gli uomini di Groupama hanno già fatto sapere che qualora si materializzasse l'onere dell'Opa essi si ritirerebbero dall'affare.
La questione, tuttavia, rimane più che mai aperta. Una volta che l'operazione fosse perfezionata, infatti, Ligresti e Groupama si troverebbero ad esercitare insieme un controllo della società parecchio superiore alla fatidica soglia del 30 per cento, con le conseguenze di cui sopra. Ed è proprio questo in sostanza l'interrogativo su cui la Consob è chiamata a pronunciarsi: nella Premafin ricapitalizzata le intese Ligresti-Groupama configurano o no la fattispecie del "controllo congiunto"?

Se Vegas e colleghi decidono per il sì, l'operazione salta e l'indebitato Ligresti dovrà cercare altre soluzioni per i suoi guai. Se invece decidono per il no, l'affare va in porto, Ligresti festeggia, i francesi pure in attesa di ulteriori mosse, ma tutti gli azionisti di minoranza restano condannati al ruolo di passivi spettatori di accordi lucrosi soltanto per i maggiori protagonisti. Il giudizio sul mercato azionario italiano come riserva di caccia per una ristretta conventicola di affaristi prepotenti riceverebbe l'ennesima e incresciosa conferma.
Certo, il sottinteso controllo congiunto potrebbe emergere con piena evidenza solo dopo che Ligresti e Groupama si accordassero, ad esempio, per una spartizione del settore assicurativo del gruppo. Ma alla Consob spetta sanzionare tanto gli abusi perfezionati quanto anche quelli tentati.

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« Risposta #121 inserito:: Dicembre 15, 2010, 05:12:27 pm »

Porte girevoli all'Authority

di Massimo Riva

(26 novembre 2010)

Non a tutti il tempo porta consiglio, di sicuro non al governo di Silvio Berlusconi. Dopo aver meditato per ben 143 giorni sul nodo della presidenza Consob, finalmente a Palazzo Chigi si è deciso di procedere ma con una nomina che getta l'ombra dell'occupazione partitica sull'Autorità di vigilanza per società e Borsa. Il prescelto, Giuseppe Vegas, sarà pure persona non digiuna di cose economiche - anche se il suo campo d'esperienze riguarda soprattutto i temi della finanza pubblica - ma costui arriva al vertice della Commissione direttamente dall'incarico di vice-ministro dell'Economia. Un inedito inquietante.

D'accordo che nella storia della Consob se ne sono già viste di tutti i colori come la nomina anni fa di un improbabile Bruno Pazzi, che come titolo di merito poteva vantare soltanto di essere sostenuto da Giulio Andreotti. Ma indicare un uomo del governo per la guida di un'istituzione il cui ruolo è fondamentalmente arbitrale e di garanzia verso tutti i soggetti del mercato azionario significa contraddire il senso stesso della missione affidata alla Consob. O, peggio ancora, mostrare totale disprezzo di elementari regole di buongoverno, nonché una visione prevaricatrice dei compiti affidati al potere politico. Vizi allarmanti e per giunta resi più gravi dal complesso di nomine governative decise insieme a quella di Vegas.

Alla Consob, con il neo-presidente, arriva come commissario tale Paolo Troiano, il cui curriculum segna quali elementi più significativi l'essere stato vice-segretario generale di Palazzo Chigi con il precedente governo Berlusconi nonché fra gli ispiratori di quella famigerata legge Gasparri sulle televisioni che fu concepita come un abito su misura per gli interessi del padrone del gruppo Mediaset.

Di male in peggio poi quanto all'altra Autorità in scadenza, quella dell'Energia. A guidarla è stato designato Antonio Catricalà, che lascia così scoperta la presidenza di un altro organismo di massima importanza quale l'Antitrust. Si può riconoscere a Catricalà di non aver operato male nel suo vecchio incarico, anche se egli poteva essere senz'altro più coraggioso ed efficace nel colpire le pratiche anticoncorrenziali che si annidano in settori politicamente sensibili come quello delle comunicazioni. Ma il punto istituzionale è che con questo disinvolto passaggio da un'Autorità all'altra si sedimenta l'idea che quella di garante delle attività mercantili possa diventare una sorta di mestiere come per gli arbitri di calcio che, di domenica in domenica, possono essere mandati a San Siro piuttosto che all'Olimpico. Anche da questa scelta traspare una visione dei rapporti istituzionali deformata da obliqui giochi d'interesse. Come indica, del resto, l'affidamento interinale dell'Antitrust a quell'Antonio Pilati che è noto alle cronache soprattutto per aver collaborato con il succitato Troiano nella stesura della richiamata legge Gasparri sulle Tv.

Ora la questione è al vaglio del Parlamento chiamato a pronunciarsi in commissione a maggioranza qualificata. Si osa sperare che almeno le opposizioni trovino il coraggio di non assecondare una così minacciosa deriva istituzionale.

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« Risposta #122 inserito:: Dicembre 22, 2010, 10:39:42 pm »

Mister Panda in cattedra

di Massimo Riva

Secondo l'ad di Fiat a bloccare lo sviluppo del Paese è l'intransigenza dei sindacati.

Ma se è vero che i metalmeccanici della Cgil sono attestati su posizioni rigide, è vero anche che la competitività dipende anche dai fattori legati alle caratteristiche delle auto e all'innovazione tecnologica

(17 dicembre 2010)

Dice Sergio Marchionne che "l'intransigenza della Fiom blocca lo sviluppo del Paese". Sono parole pesanti e anche piuttosto impegnative.
Che i metalmeccanici della Cgil siano attestati su posizioni rigide è un fatto: sovente danno l'impressione non soltanto di volersi opporre ai diktat della Fiat, ma anche di rifiutare a priori la realtà della nuova divisione internazionale del lavoro che si è affermata nella produzione automobilistica mondiale. Che, però, lo sviluppo del Paese possa essere appeso agli atteggiamenti della Fiom è affermazione quanto meno impropria, se non del tutto mistificatoria. È un vecchio vizio di chi gestisce la grande impresa torinese quello di pensare che le sorti dell'Italia dipendano essenzialmente dalla Fiat.

Ma anche intendendo il giudizio di Marchionne come limitato al futuro dell'industria domestica dell'auto, le sue parole non convincono. Certo che oggi esistono seri problemi di competitività per questo settore dopo l'entrata in scena di paesi nei quali il costo del lavoro è ben più basso che da noi. Ma questa constatazione non può nascondere altri, fondamentali, aspetti della questione. La competitività di un prodotto dipende da un insieme di fattori fra cui quello relativo al costo del lavoro non è di sicuro preponderante. Lo stesso Marchionne ha detto che, nel caso dell'auto, esso pesa non più dell'8 per cento.

Ben maggiore, insomma, è il ruolo giocato dalle caratteristiche tecniche dei veicoli, dall'appetibilità dei modelli offerti, dalla capacità commerciale di intercettare i mutamenti della domanda, dalla qualità e dalla quantità degli investimenti per anticipare i concorrenti nell'evoluzione tecnologica e così via. Nel bel mezzo della crisi attuale c'è un'impresa, la tedesca Volkswagen, che ha offerto al riguardo un ammirevole esempio di padronanza di questo insieme di fattori. Ha sì raggiunto con i sindacati intese mirate a calmierare i salari e a rendere più flessibile l'organizzazione del lavoro, ma a fronte di un robusto piano di rilancio della produzione mirato a innovare i modelli e ad espandere anche il settore dei veicoli di gamma più alta dove superiori sono i margini di profitto, dando così - a proposito di sviluppo del Paese - un importante contributo al boom in corso delle esportazioni tedesche.

Quello della Fiat - ahinoi - è per ora l'esempio opposto. Salvo qualche ritocco più di forma che di sostanza, modelli davvero nuovi non se ne sono visti. Quanto al celebrato piano per l'Italia poco o nulla si sa: Sergio Marchionne vuole che si compri il suo cammello ma senza farlo vedere prima agli interessati. Per ora l'unico dettaglio quasi certo dovrebbe essere la costruzione a Pomigliano di una nuova Panda: guarda caso, il prodotto più povero dell'intera gamma Fiat.

E ora Mr. Panda, con l'appoggio di una Confindustria genuflessa, pretende pure di salire in cattedra per denunciare chi sta bloccando lo sviluppo del Paese? Le critiche alla Fiom sarebbero più credibili dalla bocca di chi, con meno supponenza, offrisse la prova di pensare davvero allo sviluppo del Paese e non agli interessi azionari di corto respiro dei suoi mandanti.

   
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« Risposta #123 inserito:: Gennaio 08, 2011, 03:21:34 pm »

Telecom, chi grida e chi tace

di Massimo Riva

(23 dicembre 2010)

Con la sola eccezione del consigliere indipendente, Luigi Zingales, il board di Telecom Italia ha deciso di non avviare alcuna azione di responsabilità contro i precedenti amministratori per una serie di oblique vicende aziendali. La prima, più clamorosa, quella dei dossieraggi illegali compiuti dal servizio di sicurezza interno sotto la guida di Giuliano Tavaroli. La seconda quella delle carte Sim false (circa tre milioni le linee disattivate). La terza quella del caso Sparkle, già costato all'azienda circa mezzo miliardo di euro.
Tempo fa Guido Rossi aveva irriso al ruolo dei consiglieri indipendenti definendoli "financial gigolò" con allusione al rischio che costoro venissero usati come foglie di fico per i maneggi dei grandi azionisti. Stavolta, nell'affare Telecom, con il suo voto di "totale contrarietà" alla scelta rinunciataria degli altri amministratori, Zingales ha mostrato che anche i presunti gigolò possono - volendolo - svolgere una funzione importante. Nel caso specifico quella di rompere pubblicamente il muro omertoso di decisioni assunte in un contesto inquinato da pesanti conflitti d'interessi.

Accade, infatti, che la gestione contro la quale gli attuali amministratori sono stati chiamati a decidere se proporre o no un'azione di responsabilità sia quella che risale al tempo del controllo di Telecom da parte di Pirelli, segnatamente nelle persone di Marco Tronchetti Provera e Carlo Buora. E, purtroppo, davvero tanti nell'attuale consiglio di Telecom sono i "consiglieri dipendenti" perché rappresentanti di gruppi (come Mediobanca, Generali, Banca Intesa) che sono legati a vario titolo alla sorte economica del gruppo Pirelli e agli affari di Tronchetti Provera.
Le indagini giudiziarie non hanno ancora dipanato l'intera matassa delle responsabilità soprattutto per quanto riguarda gli abusi della security del noto Tavaroli. In un primo tempo è parso che i magistrati fossero orientati ad escludere ogni copertura di Tronchetti Provera ai traffici illegali del servizio di sicurezza. Più di recente l'inchiesta sembra aver preso una diversa piega, più scettica sull'innocenza dei vertici aziendali dell'epoca. In ogni caso Telecom - quella di oggi per quella di allora - si trova a dover affrontare una serie di azioni di risarcimento promosse da numerose vittime dei dossieraggi illegali. Cause che costeranno comunque non poco all'azienda.

Per difendersi dalle accuse più gravi Tronchetti Provera ha sempre sostenuto che i traffici di Tavaroli avvenivano a sua insaputa. In altre parole, escludendo un suo comportamento doloso, ha finito per ammettere la colpa di non aver vigilato come avrebbe dovuto su quanto avveniva nel reparto della security aziendale. Ciò configura, come minima ipotesi di responsabilità, un'inefficienza di gestione con non piccole ricadute sul bilancio della società. Il fatto che l'attuale consiglio di Telecom abbia chiuso gli occhi perfino su questo aspetto della vicenda lascia sconcertati. Anche perché segnala un'attenzione per i grandi azionisti Pirelli superiore a quella per i tanti piccoli azionisti Telecom. Fatti e misfatti del domestico capitalismo relazionale.

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« Risposta #124 inserito:: Gennaio 21, 2011, 05:35:56 pm »

Fiat, se questa è modernità

Massimo Riva

Marchionne e Sacconi stanno ancora brindando, ma non si accorgono che azienda e lavoratori stanno andando indietro, tutti insieme.

Con produzioni e relazioni industriali molto vecchie

(21 gennaio 2011)

Maurizio Sacconi Maurizio SacconiSergio Marchionne ha commentato l'esito del referendum di Mirafiori parlando di "svolta storica". Gli ha fatto eco il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, augurandosi "tante altre intese" sul modello Fiat. Insomma, sia l'uno sia l'altro sono convinti che quel voto abbia aperto una fase di straordinario rinnovamento per l'intera economia italiana. È fin dal principio di questa vicenda, del resto, che entrambi si sono attribuiti il ruolo dei grandi modernizzatori, lanciando accuse di ottuso conservatorismo contro l'opposto fronte sindacale e politico mobilitato a contrastare accordi ritenuti lesivi sia di diritti sia di interessi materiali dei lavoratori.

Il principale tasto sul quale i sedicenti modernizzatori battono nei loro sermoni è l'invito a prendere atto che il mondo è cambiato. Nuove potenze economiche si sono prepotentemente affermate insidiando il comodo benessere nel quale si erano adagiati padroni e operai nei Paesi dell'Occidente industrializzato. In Cina, per esempio, è accaduto ciò che soltanto pochi anni fa era inimmaginabile: i capi del più grande Partito comunista del pianeta hanno scelto di lasciar crescere una vasta classe di miliardari intraprendenti sulle spalle di qualche centinaio di milioni di lavoratori retribuiti con paghe irrisorie. Che fare dinanzi a un simile e massiccio processo di dumping economico e sociale?

L'unica idea è stata quella di chiedere ai lavoratori nostrani di fare uno, due, anche tre passi indietro per garantire al sistema produttivo condizioni più favorevoli nella competizione internazionale. Alcuni sindacati (Cisl e Uil) hanno accettato, altri hanno respinto. La Fiom-Cgil, in particolare, si è opposta con una tale radicalità da offrire, anche senza volerlo, il fianco alle accuse di miope conservatorismo che le piovevano già addosso dal fronte Marchionne, Sacconi & C. Il risultato è stato quello di intorbidire vieppiù le acque di questa querelle fra presunti antichi e supposti moderni. In forza dello slogan per cui un operaio può rivendicare diritti sul posto di lavoro soltanto se quel lavoro lo ha, la partita per ora si è chiusa come si sa.

Si rischia così di arrivare davvero alla svolta storica - che piace a Marchionne e Sacconi - senza aver chiarito se essa sia in avanti o all'indietro. In Germania, proprio nell'industria dell'auto, la risposta alla concorrenza altrui è stata di ben altro tenore. Dalla Volkswagen (pubblica) alla Bmw (privata) si è deciso di alzare il tiro della produzione sfruttando quel punto di forza tipico delle economie mature che è il primato tecnologico. Ciò ha comportato uno scambio più equilibrato per tutti fra capitali investiti, salari e organizzazione del lavoro. Un risultato è che oggi la Germania esporta auto ad alto valore aggiunto perfino in Cina.

In Italia, viceversa, si è imboccato anche per la produzione il cammino dei passi indietro seguito coi lavoratori: a Pomigliano si produrrà la banalissima Panda, a Mirafiori si monteranno componenti made in Usa. Scelte che fanno a pezzi la patente di modernizzatori dietro la quale i vari Marchionne e Sacconi stanno cercando di nascondere la loro vista ancor più corta che conservatrice.

   
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« Risposta #125 inserito:: Gennaio 28, 2011, 10:06:12 pm »

Più tasse per tutti

di Massimo Riva

Il federalismo fiscale doveva essere la spada affilata per tagliare le tasse e per sottoporre sindaci e governatori al controllo diretto e ravvicinato dei cittadini. Giunti alla prova dei decreti attuativi della celebrata riforma federale, però, di riduzione delle tasse né Bossi né i suoi parlano più

(28 gennaio 2011)

Ma il federalismo fiscale non doveva essere la spada affilata per tagliare le tasse e per sottoporre sindaci e governatori al controllo diretto e ravvicinato dei cittadini? Così almeno Umberto Bossi e i suoi leghisti lo hanno raccontato e magnificato per anni agli italiani raccogliendo consensi crescenti, soprattutto nell'elettorato delle regioni più ricche del Paese e perciò più insofferenti verso l'esosità dello Stato centrale.

Ora, però, che la verde bandiera leghista sventola su numerosi comuni e alcune importanti regioni del Nord, la musica è improvvisamente cambiata. Giunti alla prova dei decreti attuativi della celebrata riforma federale, di riduzione delle tasse né Bossi né i suoi parlano più. Anzi, quel che si profila è semmai un aumento delle imposte, accompagnato dall'introduzione di nuovi balzelli. Da un lato, infatti, si pensa di rimuovere il blocco che impediva ai Comuni di aumentare l'addizionale Irpef. Dall'altro lato, si progetta di estendere anche ai piccoli centri non turistici la novità dell'imposta di soggiorno inaugurata dal municipio capitolino. Con l'aggiunta di una revisione del prelievo sulla raccolta dei rifiuti che punta comunque a un maggiore incasso per gli enti locali.

È lontano il tempo in cui bastonando la finanza locale si mettevano in difficoltà soprattutto amministratori rossi. Oggi, indossata la fascia tricolore, anche i sindaci leghisti si sono accorti che le recenti manovre del loro amico Tremonti hanno svuotato le casse comunali e che perciò diventa necessario ricostituirne in qualche modo la consistenza per non essere costretti a negare ai propri cittadini perfino servizi essenziali. Dal facile slogan del "tagliare gli sprechi" si è così rapidamente passati all'imprevista parola d'ordine del "più tasse per tutti", gettando alle ortiche le reiterate promesse di chissà quale bengodi federal-fiscale.
Ma non è soltanto questo il caposaldo della loro riforma che i leghisti stanno per buttare a mare. Anche sul bel proposito di rendere più stringente il rapporto fra amministratori e amministrati è in atto una solenne retromarcia. La trovata di introdurre una tassa di soggiorno e di allargare l'imposta sui rifiuti punta a ingrassare le casse dei sindaci facendo leva prevalentemente sulle tasche dei non residenti. Cioè di coloro che sarebbero così chiamati a sborsare più denaro dalle proprie tasche, ma senza avere in contropartita la possibilità di manifestare il proprio consenso o dissenso nel voto sulle amministrazioni locali. Una maliziosa furberia per incassare più denaro senza pagare il corrispettivo dazio politico. Ovvero un autentico sberleffo al tanto sbandierato principio del controllo ravvicinato da parte del cittadino elettore.

Già aveva suscitato cattivi pensieri il fatto che, al momento del voto, al Parlamento non fosse stata presentata neppure la più vaga analisi su costi e benefici di questa sedicente riforma. Ora si ha la prova provata dell'improvvisazione strumentale con cui Bossi e Berlusconi si sono mossi sulla materia. C'e solo da sperare che le conseguenze politiche e istituzionali dei baccanali di Arcore aiutino ad archiviare anche questa brutta pagina.

   
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« Risposta #126 inserito:: Febbraio 11, 2011, 03:42:11 pm »

L'inutile patrimoniale di Massimo Riva

(04 febbraio 2011)

Come accade ormai da tempo, anche quest'anno il tanto celebrato Forum di Davos continua a richiamare nomi altisonanti ma senza lasciare traccia di idee o di progetti nuovi. Che la cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy giurassero sulle imperiture fortune dell'euro era quanto meno scontato: con gli attuali chiari di luna sui mercati ci sarebbe mancato solo che dicessero il contrario. Per il resto tutto il dibattito ha girato intorno al problema dei problemi: la montagna crescente dei debiti sovrani. Ma senza che neppure le voci più autorevoli, come quella del ministro americano Tim Geithner, abbiano saputo indicare vie d'uscita.


Fa perciò ancora più specie, a fronte di questa diffusa sterilità sul tema, la vivace fioritura di proposte che si sta verificando in Italia. Che quello del debito pubblico (il terzo al mondo) sia il nodo cruciale del nostro paese è un fatto: basti pensare che ogni anno si divora circa 80 miliardi soltanto per il pagamento degli interessi. Una cifra che da sola giustifica la ricerca di manovre straordinarie per allentare lo strangolamento del sistema. Ma che non dovrebbe far dimenticare anche la necessità primaria di operare con gli strumenti della più elementare disciplina di gestione.


C'è perciò qualcosa di sgradevolmente subdolo nel dibattito domestico sulla questione. Tutto è cominciato con una scivolosa trovata del ministro Tremonti. Il quale, volendo stendere un velo sugli oltre 200 miliardi di maggiore debito accumulati sotto la sua sedicente rigorosa gestione, ha tentato di accreditare la tesi secondo cui i risparmi privati degli italiani andrebbero considerati alla stregua di una garanzia sulla sostenibilità del debito pubblico. All'obiezione che un simile assioma postulava, senza dirlo, il ricorso o a un prestito forzoso o comunque ad altre forme di prelievo dal privato al pubblico, il ministro non ha mai replicato.
Fatto sta che altri si sono subito mossi per orientare il dibattito in questa direzione. Dapprima Giuliano Amato ha ipotizzato un'imposta una tantum sugli italiani più ricchi in modo da far calare il debito ben al di sotto della parità con il Pil. Poi s'è mosso Pellegrino Capaldo con il similare progetto di una tassa patrimoniale sulle plusvalenze immobiliari. Per una corretta valutazione di tali proposte occorrerebbe scendere nei dettagli tecnici delle medesime. Perché è su questi che si possono soppesare costi e benefici dell'operazione. Una maggiore imposta fondiaria, per esempio, potrebbe cancellare dall'Italia quel che resta di attività agricole.


Ma quel che più sorprende è che tutti questi luminosi progetti sorvolano su un particolare essenziale. A che serve prosciugare d'un colpo il debito anche all'80 per cento del Pil se prima non si è chiuso a monte il rubinetto che continua ad alimentarlo? Ovvero che senso ha prendere soldi dalle tasche degli italiani se poi Tremonti lascia correre il debito a briglia sciolta? Insomma, prima si fissi (magari in Costituzione) un limite minimo all'avanzo primario del bilancio e poi si potrà utilmente ragionare di patrimoniali e dintorni. Altrimenti, direbbero a Davos, "much ado about nothing".

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« Risposta #127 inserito:: Febbraio 11, 2011, 03:45:11 pm »

Della Valle va alla guerra

di Massimo Riva

(11 febbraio 2011)

Una prima crepa si sta forse aprendo nella cupola di potere che domina il domestico "capitalismo relazionale".
L'avverbio dubitativo è d'obbligo perché al momento non sono affatto chiari né la gittata né il bersaglio del colpo che ha provocato questa incrinatura. Quel che si vede ad occhio nudo è che Diego Della Valle ha dissotterrato la sua ascia di guerra ed è partito all'attacco su due fronti cruciali per gli equilibri del potere economico nostrano: il gigante finanziario Assicurazioni Generali da un lato, il variopinto assetto azionario di controllo del "Corriere della Sera" dall'altro.

Alle prime battute la sortita di Della Valle sembrava solo un episodico sfogo personale contro due "arzilli vecchietti" come egli ha polemicamente chiamato Cesare Geronzi, presidente di Generali, e Giovanni Bazoli, dominus del patto di controllo del "Corriere". Poi, però, ha affondato la spada contro il primo ponendo formalmente in consiglio d'amministrazione del gigante assicurativo la richiesta di un'uscita delle Generali dall'azionariato del "Corriere". La sua tesi - non peregrina - è che questa partecipazione editoriale non ha nulla da spartire con il business delle polizze.

Il prossimo 23 febbraio il problema sollevato da Della Valle sarà discusso dal consiglio di Generali nel quadro di un più vasto esame delle partecipazioni non assicurative del gruppo. Ed è qui che la questione rischia di diventare molto interessante. Al suo esordio ai vertici della società, Geronzi ha teorizzato fra i compiti di Generali anche quello di farsi protagonista di quelle che, con soave eufemismo, ha chiamato "scelte di sistema": cioè, operazioni estranee al mondo assicurativo, ma funzionali all'esercizio di un potere di influenza su alcuni gangli fondamentali del sistema economico.

Una tesi che riflette con una certa iattanza l'ambizione personale dello stesso Geronzi ad esercitare, dalla poltrona triestina, un ruolo dominante sui maggiori business del paese. Se il capitalismo italiano è dominato da una cupola, ragiona probabilmente l'arzillo Cesare, perché non cercare di esserne il mammasantissima? Grazie alla ricca dote finanziaria di Generali e alle partecipazioni nel "Corriere" o in colossi come Telecom, il loro presidente può avere voce in capitolo anche in molti affari che incrociano gli interessi del potere politico. Terreno sul quale Geronzi vanta esperienze di lungo corso ora rinfrescate con il governo Berlusconi.

Questo è il paniere nel quale piomba l'offensiva di Della Valle: ne romperà le preziose uova? Il problema è capire a che cosa punti davvero quest'ultimo. A ridimensionare il potere di Geronzi e le connesse "scelte di sistema"? Ovvero a ottenere qualche per ora inconfessata contropartita personale? O addirittura a rimettere in discussione l'impianto feudal-mafioso su cui regge un capitalismo malato di partecipazioni incrociate, patti di sindacato, matrioske azionarie, conflitti d'interessi e comparaggi di poltrone? In un regime di mercato vitale, ammoniva Marx, un capitalista ne uccide sempre molti. Quello di Della Valle può essere un test per saggiare quanto sia davvero vitale l'economia dell'Italia d'oggi.

   
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« Risposta #128 inserito:: Febbraio 19, 2011, 04:44:15 pm »

Da uno spot all'altro

di Massimo Riva

(18 febbraio 2011)

Doveva essere una "frustata" all'economia per ridare slancio agli investimenti e alla crescita.
Dallo strombazzato Consiglio dei ministri straordinario, all'uopo convocato, è uscito niente più che uno spot pubblicitario. Materia nella quale Silvio Berlusconi è maestro riconosciuto nel mondo televisivo, ma che mal si adatta alla pratica di governo. L'esito della riunione, infatti, è stato a dir poco scoraggiante.

L'ennesimo piano casa (il terzo dopo il flop dei precedenti) è stata rinviato a non si sa quando. Si è dato un via libera preliminare al decreto di riforma degli incentivi alle imprese ma, se tutto va bene, diventerà operativo non prima del 2012. L'unica decisione effettivamente presa è quella di una riscrittura dell'art. 41 della Costituzione in senso più lassista che liberale: un'obliqua trovata a fini mediatici per nascondere che sul terreno delle liberalizzazioni concrete - passaggio essenziale per suonare la sveglia sui mercati - il governo non sa da che parte cominciare e forse nemmeno se ha davvero voglia di fare qualcosa al riguardo. Come possa essere questo nulla a spingere la crescita del Pil di quest'anno dall'uno per cento (previsto dai più) anche solo all'1,5 propagandato dal Cavaliere resta un mistero. Ma ormai il distacco di Berlusconi dalla realtà delle cose ha superato ogni limite per spingersi fino alla menzogna più spudorata. Basti dire che, presentando questo suo immaginario piano di rilancio, ha avuto la sfrontatezza di asserire: "Noi non abbiamo aumentato il debito pubblico e abbiamo dimostrato di poterlo sostenere".

Parole che raddoppiano l'allarme sulle prospettive del paese. Da un lato, perché contraddicono platealmente la verità: il debito pubblico ereditato dall'attuale governo nel maggio 2008 era di 1.648 miliardi, mentre a fine 2010 è schizzato a quota 1.843. La bellezza di 200 miliardi in più in meno di tre anni! Dall'altro lato, perché questa pervicace mistificazione lascia trasparire una pericolosa volontà politica di nascondere la drammaticità dei problemi pur di non dover ammettere le proprie responsabilità.
Su questo sfondo è ulteriore motivo di sconcerto il teatrino che si è aperto dentro la maggioranza su una sotterranea divaricazione d'intenti fra il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia. Magari sarà anche vero, come sospettano oggi molti berlusconiani, che Giulio Tremonti si stia muovendo da qualche tempo con la segreta ambizione di guidare una sorta di governo Badoglio una volta che il Cavaliere crollasse sotto il peso dei suoi errori politici e non. Resta che il mancato controllo sulla corsa del debito è una colpa grave che accomuna Berlusconi e il suo ministro in una corresponsabilità inscindibile. Né cambia qualcosa il fatto che il primo abbia la faccia tosta di rovesciare la verità, mentre il secondo si limita a ignorarla o a parlar d'altro.

Più di tutto, comunque, è ragione di scoramento che nel variopinto fronte delle opposizioni ci sia anche qualche finissima mente politica che, invece di smascherare i trucchi sul tema cruciale del debito, arzigogola sulla possibilità di incoraggiare l'esperimento Tremonti-Badoglio.

   
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« Risposta #129 inserito:: Febbraio 27, 2011, 05:55:51 pm »

La batosta dei tassi in salita

di Massimo Riva

(25 febbraio 2011)

Jean-Claude Trichet Jean-Claude TrichetÈ già da un paio di mesi che sul mercato del denaro si manifestano pressioni al rialzo: ne sanno qualcosa tutti coloro che hanno sottoscritto mutui indicizzati sull'euribor. Indenni, per ora, sono rimasti i mutuatari che hanno scelto come riferimento il tasso ufficiale di Eurolandia. Ma non sembra proprio che la loro tranquillità sia destinata a durare ancora a lungo nel tempo. Sul fronte dei prezzi, infatti, sono in atto tensioni che già hanno portato l'inflazione a tracimare oltre quel due per cento che per i vertici della Banca centrale europea rappresenta il primo segnale di guardia.

Né le prospettive a breve-medio termine sono rassicuranti. I rivolgimenti politici in corso nella vasta area gas-petrolifera che va dal Maghreb al Golfo Persico hanno provocato non solo quelle immediate esplosioni dei prezzi che automobilisti e trasportatori già hanno cominciato a scontare alle pompe di carburante. Ma, e questo è anche peggio, sui mercati dell'energia si è diffusa una grande incertezza sugli sbocchi delle crisi in atto nei paesi produttori con conseguente innesco di manovre speculative fuori di ogni controllo. L'Europa e l'insieme dei paesi industrializzati rischiano, insomma, di dover fronteggiare nel corso di quest'anno perfino seri problemi di approvvigionamento, comunque aggravati da robusti rincari della propria bolletta energetica.

Si aggiunga a questo plumbeo panorama quanto sta accadendo sul mercato dei prodotti agricoli (da più di un anno ormai dominati da continui rialzi di prezzo per riso, frumento, soia, mais) e la previsione di un'inflazione in netta risalita diventa un esercizio di banale ovvietà. Tanto più alla luce del fatto che la strategia del denaro facile (in quantità e qualità) adottato un po' da tutte le banche centrali per arginare il pericolo della deflazione ha inondato i mercati di liquidità ovvero di ottimo carburante per fiammate inflazionistiche. Il problema, a questo punto, non è se la banca centrale europea muoverà al rialzo i tassi ufficiali, ma più semplicemente quando lo farà e in quale misura.

Per dare una risposta a tale quesito occorre guardare a quanto sta accadendo nella principale economia della zona euro, quella tedesca. Dopo la brillante performance del 2010, la Germania appare in grado di sopportare senza eccessivi contraccolpi un rincaro del costo del denaro. Anzi rischia di essere il paese che lo provoca a causa delle pressioni salariali che si stanno manifestando in coda al mini-boom e che il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha appena scongiurato di frenare. Un modo indiretto per minacciare un intervento preventivo sui tassi.

Di chiaro in questo orizzonte malcerto c'è in ogni caso un punto: paesi come l'Italia, che hanno seri guai sia sul fronte del debito pubblico sia su quello di una lenta e faticosa ripresa della crescita, saranno costretti a misurarsi nei prossimi mesi con un costo più elevato del credito. Fosse anche solo di un quarto di punto cadrebbe come un macigno sull'ilare ottimismo sfoggiato dai governanti quanto a tenuta dei conti pubblici. Mentre, nel settore privato, renderebbe ancora più difficile la ripresa sia dei consumi sia degli investimenti. La realtà del mondo non fa sconti a chi - tanto governo quanto imprese - non ha saputo approfittare della prolungata fase di denaro a buon mercato. Un treno perso è perso.

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« Risposta #130 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:45:48 pm »

La resistenza di Geronzi

di Massimo Riva

(04 marzo 2011)

Hanno fatto un cattivo affare entrambi. Cesare Geronzi a volere la presidenza delle Generali e il colosso delle assicurazioni ad assecondarne l'ambizione. Non c'era bisogno di un indovino, infatti, per prevedere che l'ex-boss della Banca di Roma avrebbe cercato di usare la poltrona triestina per tessere le sue trame di potere sfruttando la ricca cassa della società, nonché il peso di alcune sue partecipazioni stravaganti come quelle in Telecom o nel Corriere della sera.

I lupi perdono il pelo ma non il vizio: figuriamoci se poteva cambiare usi e costumi un anziano boiardo abituato a muoversi con destrezza e disinvoltura sulla striscia di confine tra affari e politica.

Si può, quindi, anche comprendere l'irritazione che ha spinto un imprenditore come Leonardo Del Vecchio a lasciare il consiglio delle Generali -sarà magari un caso- dopo aver letto che il neo-presidente immaginava di usare i soldi della società allo scopo di finanziare, per esempio, il fantomatico Ponte di Messina. Meno se ne possono giustificare i toni di scandalizzata sorpresa: chi sia stato e chi sia l'ottimo Geronzi sta scritto in un lungo "curriculum vitae" che nessun azionista di rilievo del Leone di Trieste poteva ignorare.

La mancata opposizione alla resistibile ascesa di un simile presidente è stato un errore. Oggi nel porvi rimedio appare particolarmente impegnato Diego Della Valle, ma il muro di gomma dietro il quale cerca di ripararsi Geronzi sta facendo vivere alla società momenti di tensione che si stanno minacciosamente ripercuotendo, ben oltre i confini nazionali, sul giudizio degli analisti delle principali piazze finanziarie. Un dazio che gli azionisti, grandi o piccoli, del colosso triestino non meritavano di pagare e perciò anche un nodo che andrebbe sciolto al più presto.

Ma, se a Trieste si piange, non è che Geronzi abbia motivi per sorridere. La sua fama di astuto manovriere sta subendo, ogni giorno di più, colpi micidiali. All'uscita di Del Vecchio si stanno sommando i continui attacchi di Della Valle e ogni qual volta il presidente tenta di sdrammatizzare gli scontri in corso la situazione per lui diventa sempre meno dignitosa e sostenibile. Da ultimo, di fatto esautorato di ogni potere decisionale sulla sorte delle partecipazioni azionarie di maggiore rilievo, ha perfino cercato di mettere in difficoltà l'amministratore delegato, Giovanni Perissinotto, avanzando dubbi sulla gestione del grande patrimonio immobiliare del gruppo. Con l'esito infausto di ricevere a stretto giro di posta una replica fulminante: "Le performance dell'immobiliare sono ottime...io sono molto soddisfatto". Parole che non è difficile tradurre nei termini di un più sbrigativo "pensa ai fatti tuoi".

Sarà che l'allontanamento di un presidente dopo così poco tempo dal suo arrivo non rientra nel galateo del domestico capitalismo relazionale. Ma c'è anche da chiedersi che senso abbia trascinare in avanti una situazione di sempre più manifesta incompatibilità, dal cui protrarsi possono venire soltanto ulteriori danni per tutti. C'è soltanto una cosa utile che Cesare Geronzi, a questo punto, può fare per il bene di se stesso e delle Generali: ed è porre fine a una simile "mésalliance" ritirandosi in buon ordine. Sul piano personale ne ricaverebbe almeno il vantaggio di concludere la sua carriera meglio di come l'abbia condotta finora.

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« Risposta #131 inserito:: Marzo 18, 2011, 10:16:13 pm »


PIANI ENERGETICI

Nucleare, la via francese

Il premio Nobel Elias Canetti invitava a diffidare degli uomini che sanno tutto e che mostrano di crederci. Dopo il disastro di Fukushima, è del tutto naturale dubitare di quanti - esperti a vario titolo - proclamano ai quattro venti la sicurezza assoluta dell'energia nucleare e considerano la tragedia giapponese come un evento irripetibile in altri angoli della terra. Per costoro, le «conseguenze nucleari» sarebbero tollerabili e non varrebbero nemmeno una discussione.

Ma non è letteratura apocalittica interrogarsi sul senso di tutto o constatare come in ogni cittadino, a qualsiasi latitudine, le certezze scientifiche e la fiducia nel progresso abbiano subito una scossa sismica. È questa scossa, emotiva fin che si vuole, che ha aperto anche in Francia, uno dei Paesi di più collaudata tradizione nucleare, con ben 58 reattori, il dibattito sulla sicurezza, sul rapporto fra impianti e territorio (nonostante il basso rischio sismico) e sull'anzianità delle centrali. «Dobbiamo tirare le conseguenze degli avvenimenti giapponesi» hanno dichiarato i vertici di Areva ed Edf, i colossi dell'industria nucleare transalpina. In Germania, il governo di Angela Merkel ha deciso la chiusura degli impianti più vecchi e di rivedere gli standard di prolungamento della vita di altri.

Di sicurezza, di centrali obsolete e di necessità o meno di nuovi reattori si parla apertamente in Svizzera, in Austria, negli Stati Uniti. Su iniziativa tedesca, se ne discuterà in sede europea. Oltre a resuscitare l'angoscia di una nuova Chernobyl, le immagini di migliaia di esseri allontanati dalle loro case per il rischio contaminazione, e di tecnici con tuta e maschera che «testano» il rischio morte dei concittadini, hanno persino ridimensionato le paure del caro petrolio, gli scenari macroeconomici sulle conseguenze della rivoluzione nel mondo arabo e l'adesione culturale - insinuatasi anche fra gli ambientalisti - all'idea che la salvezza dell'ecosistema planetario (e del nostro modello di vita) dipenda dalle fonti nucleari, comunque preferibili alla morte per inquinamento.

Altra cosa è la disputa ideologica, che è speculare all'arroganza scientifica. Ecologisti e ampi settori di sinistra tornano ad agitare bandiere, come se il nucleare fosse una cosa di destra e magari l'eolico una soluzione di sinistra. Per inciso la polemica politica non è un'eccezione italiana. Lo stesso avviene in Germania e in Francia, peraltro in vista di scadenze elettorali.

Le spinte emotive e le polemiche non faranno chiudere le centrali nel mondo. È però importante che i responsabili ascoltino le emozioni. È necessario garantire la trasparenza dei processi industriali, l'indipendenza delle autorità di controllo, la certezza che anzianità e affidabilità degli impianti non siano una variabile economica o il capriccio di una lobby, oltre a un corretto rapporto fra costi industriali di costruzione delle centrali e benefici finali sulla bolletta.

Anche il fatto che il rischio zero non esista è un dato scientifico. Ma in Francia, ad esempio, si sottolinea come nessun grave incidente sia avvenuto in 1450 anni (dato ottenuto moltiplicando 58 reattori per 25 anni di funzionamento medio ciascuno). Chernobyl fu la somma di errori umani e cultura sovietica. Non occorre essere esperti per considerare che anche nell'eccezionalità della tragedia giapponese siano intervenute responsabilità umane. Il reattore di Fukushima doveva essere chiuso. Prima del sisma.

Massimo Nava

15 marzo 2011
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« Risposta #132 inserito:: Marzo 24, 2011, 05:15:24 pm »

Perché i francesi comprano tutto

di Massimo Riva

Dalla Bnl a Intesa, da Gucci a Bulgari, da Montepaschi a Parmalat.

I colossi d'Oltralpe sui stanno mangiando le aziende italiane.

E il capitalismo nostrano non reagisce
(18 marzo 2011)
Bernard Arnault Bernard ArnaultE' passato circa un quarto di secolo da quando la stampa francese, stupita e ammirata, celebrava in Agnelli, De Benedetti e Gardini i grandi capitani di ventura che stavano guidando l'Italia verso un nuovo Rinascimento economico. In realtà, da allora sembra trascorsa quasi un'era geologica. Se in quel tempo era la Francia a temere le incursioni dei condottieri italiani, oggi la situazione si è perfettamente rovesciata ed è proprio il nostro paese che, un colpo dopo l'altro, è diventato terra di conquista da parte dei capitali transalpini.

Lo dimostra il lungo catalogo delle operazioni, perfezionate o avviate da gruppi d'Oltralpe, che ha raggiunto dimensioni davvero impressionanti in una vasta quantità di campi. In quello bancario la presenza francese è massiccia e ben articolata: Bnp Paribas ha acquisito la Bnl, il Crèdit Agricole controlla Cariparma e Friuladria ed è socio rilevante in Intesa, le assicurazioni Axa hanno una partnership in Monte dei Paschi. In uno dei settori trainanti del "made in Italy", quello della moda e del lusso, il bottino dei cugini transalpini è non meno notevole: il gruppo di François Pinault si è impossessato di marchi storici come Gucci e Bottega Veneta, mentre Lvmh di Bernard Arnault, dopo essersi impadronito di Fendi, ha appena rilevato Bulgari.

Altre importanti operazioni sono state tentate in queste settimane. Le difficoltà finanziarie del gruppo Ligresti, infatti, hanno stimolato l'interesse del gigante Groupama a intervenire in Premafin con l'obiettivo di puntare alla controllata Fondiaria-Sai. L'obbligo di lanciare una costosa Opa, imposto giustamente dalla Consob, ha fatto saltare l'affare: ma non è improbabile che i francesi, magari per altre vie, cercheranno ancora di allungare le mani su questa o altra fetta del mercato.

In campo energetico è aperta la questione del riassetto azionario di Edison dove il colosso pubblico Edf non nasconde la sua voglia di accrescere il controllo della società a scapito delle aziende municipalizzate di Brescia e Milano. Per frenare gli appetiti francesi si è mosso addirittura il ministro Giulio Tremonti, ma è arduo che un intervento politico possa bilanciare alla lunga la supremazia finanziaria e tecnologica dei francesi. Anche perché, se il programma nucleare dell'attuale governo proseguirà al di là dei contraccolpi giapponesi, sarà necessario per l'Italia avvalersi della consolidata esperienza transalpina in materia.

A completamento minimo di questo elenco vanno poi ricordate le rilevanti presenze francesi, nel nome di Vincent Bollorè, in due snodi cruciali del potere economico domestico: le Generali e Mediobanca. Mentre sullo sfondo restano più che mai appesi gli interrogativi sulla sorte definitiva di Alitalia. Immaginare che i sedicenti capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno siano in grado di sottrarsi all'abbraccio finale da parte di Air France può essere considerato, appunto, un puro esercizio di fantasia.

Sarà, quindi, che in Italia le cose stanno andando meglio che negli altri paesi europei, come il duo Berlusconi-Tremonti gorgheggia garrulo ogni giorno, ma il quadro appena tracciato racconta una realtà drammaticamente diversa. Le trombe degli eredi di Carlo VIII stanno ormai facendo sentire il loro suono in tutta la penisola, mentre non si odono campane domestiche in grado di rispondere.

   
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« Risposta #133 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:18:03 pm »

Basta bugie, la Fiat se ne va

di Massimo Riva

Inutile stare tanto a chiedersi se il quartier generale sarà a Torino o a Detroit: basta vedere le ultime mosse di Marchionne per capire che il trasloco negli Usa è già deciso. Anche se i sindacati fingono di non capirlo

(31 marzo 2011)

Sergio Marchionne è un tipo piuttosto riservato, soprattutto per quanto riguarda le scelte sul futuro della Fiat. Poco o nulla finora ha fatto sapere del tanto declamato piano Fabbrica Italia, del quale si continua a sbandierare che comporterà 20 miliardi di investimenti, ma senza che alcunché trapeli sul come, dove e quando. In parallelo un altro mistero aleggia quanto alla sede definitiva del quartier generale del gruppo una volta che siano state celebrate le nozze tra Fiat e Chrysler: a Torino o a Detroit?

Nessuno in Italia aveva sentito l'urgenza di porsi tale dilemma se non fossero stati gli stessi vertici Fiat a mettere in piazza la questione con dichiarazioni che sono apparse subito come frutto di un ben calcolato tentativo di saggiare le reazioni del mondo sindacale e politico. Dopo una lunga serie di giravolte sul tema, da ultimo sempre Marchionne ha detto che la scelta finale sarà presa "con il cuore e con la mente". Frase ad effetto, ma non poi così criptica da impedire di comprendere dove si stia andando a parare.

Soltanto i vari Angeletti, Bonanni e Sacconi - e tutti coloro che finora hanno fatto da sponda a Marchionne - possono insistere nel fare finta di non capire ciò che ormai è chiaro: il gruppo Fiat-Chrysler potrà anche avere una direzione europea a Torino, ma la testa industriale e finanziaria si stabilirà negli Usa. Così coronando, per quanto riguarda la famiglia Agnelli, l'ultimo sogno inseguito dall'Avvocato attraverso l'intesa poi saltata con General Motors.

Che questo sia l'obiettivo vero di Marchionne si può anche ricavare dal poco o nulla che l'attuale boss di Fiat sta realizzando sui mercati italiano ed europeo. Le ultime cifre sulle immatricolazioni del mese di febbraio parlano da sole: la Fiat perde quote di mercato sia in patria sia nel continente. In Italia le sue vendite sono crollate del 20 per cento in un anno, mentre in Europa la caduta è stata del 16,7. A Torino hanno commentato questi pessimi risultati attribuendoli alla fine della stagione degli incentivi che aveva drogato il mercato in passato.

Giustificazione poco convincente alla luce di alcune contraddizioni. Prima: degli incentivi avevano beneficiato anche i concorrenti, che però meglio hanno resistito alla loro scomparsa. Seconda: nello scorso febbraio il mercato europeo dell'auto è comunque cresciuto dell'1,4 per cento: tedeschi e francesi se ne sono avvantaggiati; perché non la Fiat? Terza contraddizione: in questi mesi dal gruppo torinese è uscito un solo nuovo modello (la Giulietta dell'Alfa Romeo) e guarda caso questo è anche l'unico che ha avuto un segno più nella classifica delle vendite. La morale è semplice: gli altri produttori europei hanno continuato a innovare la loro gamma di modelli, mentre la Fiat è rimasta ferma al palo. Per cui anche una parte della vecchia clientela di Torino è andata a soddisfarsi altrove.

Nella seconda metà dell'anno Marchionne metterà finalmente sul mercato nuove vetture, per lo più di derivazione Chrysler. Ciò consentirà qualche recupero di posizione, ma le opportunità di fatturato perdute tali resteranno. Se è coi ricavi delle vendite che Marchionne intende finanziare quella Fabbrica Italia che dovrebbe raddoppiare la produzione domestica da 6-700 mila a 1.400 mila vetture, ce n'è abbastanza per non prendere sul serio le sue promesse.

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« Risposta #134 inserito:: Aprile 09, 2011, 12:24:16 pm »

Se lo yogurt è strategico

di Massimo Riva

Il ministro Tremonti, a proposito del caso Parmalat, ha temerariamente detto: 'All'Italia manca una nuova Iri sul versante pubblico e Mediobanca sul quello privato'

(08 aprile 2011)

Potenza dello yogurt! Sull'onda del caso Parmalat e dell'assalto francese all'azienda di Collecchio, ecco finalmente il ministro dell'Economia svelare quali siano i capisaldi di politica industriale del governo Berlusconi. All'Italia di oggi - ha detto Giulio Tremonti guardando temerariamente all'indietro - mancano una nuova Iri sul versante pubblico e la Mediobanca d'un tempo sul privato. Detto e fatto: per la parte che gli compete il ministro ha già provveduto caricando sulla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) il compito di rinverdire gli antichi allori dell'Istituto di Via Veneto.

Oltre alle partecipazioni azionarie già possedute, prevalentemente nel settore energetico (Terna ed Eni), la Cassa guidata da Giovanni Gorno Tempini d'ora in poi potrà entrare direttamente nel capitale di aziende industriali purché queste - a giudizio del governo - siano considerate "di rilevante interesse nazionale". Visto che su Parmalat il braccio di ferro è con i francesi di Lactalis, Tremonti cerca così di rispondere ai cugini d'Oltralpe prendendo a modello della sua iniziativa il similare Fond Stratégique d'Investissement creato nel 2008 dal governo di Parigi (la moneta cattiva scaccia sempre quella buona). Ma con una differenza non da poco.

I francesi, che pure sono campioni d'abuso nel protezionismo economico, non si sono mai sognati di considerare strategiche imprese operanti nel settore agro-alimentare. Magari ne hanno difeso la nazionalità (caso Danone) con altri mezzi, ma mai spingendosi a definire la filiera lattiero-casearia come fondamentale per l'interesse dello Stato. L'idea di Tremonti, a quanto pare, è invece che il nuovo Iri da lui proposto possa muovere i suoi primi passi magari a partire proprio dalla raccolta del latte e dalla produzione dello yogurt. Particolare che getta un'obliqua luce grottesca sull'iniziativa del governo italiano. Che il ministro dell'Economia evochi il modello dell'Iri non ha in sé alcunché di scandaloso. Chi conosca la storia economica del Novecento sa che quell'istituto non è stato soltanto un carrozzone sul quale governi e partiti politici scaricavano le loro più nefaste ambizioni. Un esempio su tutti: senza l'apporto dell'acciaio di Stato - settore disertato allora dai privati - il miracolo italiano degli anni Cinquanta non sarebbe mai avvenuto.

Ma un conto è immaginare una politica industriale fondata sulla siderurgia, tutt'altro pensare di realizzarne un'altra oggi a partire dalla raccolta del latte. Che attraverso la difesa dello yogurt nazionale si possa mettere in moto un volano per spingere il rilancio dell'intero sistema economico è semplicemente una scemenza. Sufficiente da sola a smascherare la pochezza e la pericolosità del nuovo Iri tremontiano, che del vecchio modello sembra voler imitare il vizio peggiore, ovvero l'arbitrarietà occasionale degli interventi pubblici.

E non basta. Al contrario di mezzo secolo fa, oggi le imprese italiane operano nel contesto di un'economia apertissima in Europa, oltre che fortemente concorrenziale con il resto del mondo. In questo scenario l'apporto di investimenti esteri è da considerare vitale anche per compensare la latitanza di impieghi domestici. Praticare anche in questa materia il rozzo "foeura di ball" bossiano è allarmante segno di inadeguatezza culturale oltre che politica.

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