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Autore Discussione: Massimo RIVA.  (Letto 107940 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Dicembre 09, 2009, 04:46:24 pm »

Le promesse di Marchionne

di Massimo Riva


Era appena il principio della scorsa estate e Sergio Marchionne tendeva la mano a governo e sindacati. In particolare, assicurando che la Fiat poteva impegnarsi a non chiudere alcun impianto in Italia se lo Stato avesse continuato a dare una robusta mano prorogando incentivi fiscali e cassa integrazione. Sono passati meno di sei mesi da allora e, alle soglie dell'inverno, la musica di Torino è cambiata con specifico riferimento alle sorti dello stabilimento di Termini Imerese.

Marchionne faceva il furbo allora o lo sta facendo adesso? Per rispondere a questa domanda va ricordato che l'ottimismo estivo del boss della Fiat aveva il non lieve difetto di presentare un salto logico del tutto incoerente con le cifre dallo stesso manager denunciate sullo stato del mercato automobilistico. In sostanza, egli aveva detto che la capacità produttiva globale del settore era di 90 milioni di vetture l'anno a fronte di una domanda in grado di assorbirne non più di 60 milioni. Soggiungendo che un identico scarto di tre a due fra offerta e domanda caratterizzava anche il mercato europeo, che resta comunque essenziale per la Fiat.

Le politiche di incentivi agli acquisti, adottate dai maggiori governi europei, hanno alleviato solo in piccola misura questo divario tra offerta e consumi e, in ogni caso, lo hanno fatto spostando in avanti il problema. Perché le vendite gonfiate nel 2009 hanno requisito inesorabilmente quote di maggiore domanda di auto nel 2010 e anni seguenti. Quello di una riduzione della capacità produttiva è e rimane il vero nodo attorno al quale ruota la partita dell'industria automobilistica europea almeno per gli anni più prossimi. Ed è arduo immaginare che il necessario ridimensionamento possa riguardare soltanto le industrie concorrenti e non anche la Fiat medesima.

Ecco perché quest'estate (v. 'L'espresso' del 2 luglio scorso) si criticavano le parole di Marchionne sulla possibilità di non chiudere alcuno degli impianti italiani come affermazioni strumentali e pericolosamente illusorie. Oggi nel confronto con il governo e nello scontro con i sindacati l'amministratore delegato della Fiat raccoglie perciò la tempesta seminata con il vento di rassicurazioni del tutto contraddittorie con la realtà da lui stesso così chiaramente disegnata. A questo punto c'è da sperare che l'ottimo Marchionne non ripeta l'errore di alzare altre cortine di fumo sulle vere intenzioni della Fiat e dei suoi azionisti di controllo quanto agli impegni industriali in Italia. Dica le verità - anche quelle più sgradevoli - ma le dica tutte.

I sindacati temono che la chiusura di Termini Imerese sia soltanto l'inizio di una strategia di progressivo abbandono dell'Italia da parte di Torino. Le cifre sulla produttività comparata con gli impianti esteri esibite da Marchionne possono avvalorare simile sospetto.

In tale prospettiva la concessione di nuovi incentivi sarebbe come aggiungere la beffa al danno perché si può chiedere al contribuente di aiutare la sopravvivenza dell'industria automobilistica in Italia, ma non le fortune del gruppo Agnelli in Polonia o nel Michigan.

(03 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #76 inserito:: Dicembre 13, 2009, 11:07:51 am »

Ottimismo imprudente

di Massimo Riva


Sulla società italiana si sta abbattendo uno tsunami ben più serio e allarmante di quello che ha scosso nei mesi scorsi i bilanci delle banche. Mentre i ministri Scajola e Sacconi non sanno fare altro che dire che in fondo l'Italia sta meglio di altri paesi europei
 
Che il peggio della tempesta finanziaria mondiale sia ormai alle spalle sarà magari vero. Ci sono ancora aree di rischio impreviste e inesplorate - da Dubai alla Grecia, fino ad alcuni paesi dell'Est Europa - ma qualche sintomo di seppur timida ripresa produttiva si sta comunque manifestando nelle economie maggiori, Italia compresa. È, viceversa, sul terreno delle ricadute sociali che la crisi ha appena cominciato a presentare il conto. In casa nostra, il tasso di disoccupazione a ottobre è salito all'8 per cento, superando la soglia dei 2 milioni di senza lavoro per la prima volta dal 2004. E le previsioni più prudenti lo indicano in ulteriore crescita sia nel 2010 sia nel 2011, quando potrebbe avvicinarsi a quota 10 per cento.

Se poi si guarda ai dati disaggregati si scopre che le cose stanno anche peggio. In particolare, per esempio, quanto al tasso di disoccupazione giovanile (soggetti fra i 15 e i 24 anni), che è arrivato ormai a sfiorare l'impressionante cifra del 27 per cento. Mentre è in aumento la folla, non facilmente quantificabile, di coloro che, sfiduciati da tanti inutili tentativi, hanno ormai rinunciato a cercare un posto di lavoro e così sfuggono pure alle rilevazioni statistiche.

A completare il quadro della condizione drammatica in cui vive un numero sempre maggiore di italiani vanno, infine, considerate le cifre sui ricorsi alla cassa integrazione. A novembre si è registrato un calo rispetto al mese precedente del 10,3 per cento di quella ordinaria, ma non è affatto una buona notizia come può sembrare a prima vista. Perché gli accessi a quella straordinaria e a quella in deroga hanno fatto un salto in alto rispettivamente del 34,6 e del 21,3 per cento. Il che significa che alcune situazioni aziendali critiche stanno diventando croniche, con il rischio che in qualche caso la
cassa integrazione possa presto rivelarsi soltanto un'anticamera per altri licenziamenti di massa.

Di fronte a una simile realtà ce ne sarebbe più che abbastanza per rendersi conto che sulla società italiana si sta abbattendo uno tsunami ben più serio e allarmante di quello che ha scosso nei mesi scorsi i bilanci delle banche: una moltitudine di cittadini, infatti, risulta esposta pesantemente alla minaccia di perdere la più naturale forma di sostentamento, con l'aggravante di spegnere le speranze di lavoro segnatamente nelle generazioni più giovani. Di che altro, quindi, dovrebbe occuparsi chi ha la responsabilità di governo del paese se non di questa emergenza prioritaria?

Ma proprio qui siamo al guaio peggiore. Tanto il ministro Maurizio Sacconi (Lavoro) quanto il suo collega Claudio Scajola (Sviluppo) non sanno farfugliare di meglio se non che, in fondo, il tasso di disoccupazione dell'Italia è migliore della media europea. Il che equivale a dire, per esempio, a un giovane licenziato in Sicilia che stia buono e si consoli pensando che ci sono suoi coetanei in Andalusia i quali se la vedono anche più brutta di lui. Nella pur risaputa predicazione berlusconiana dell'ottimismo a tutti i costi non si era mai raggiunto un così alto e indecoroso livello di cinismo politico e sociale.

(11 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #77 inserito:: Dicembre 17, 2009, 08:17:42 pm »

Banchieri sempre in piedi

di Massimo Riva


Grande è la confusione nel cielo della finanza internazionale ma, a dispetto della celebre massima di Mao, la situazione è tutt'altro che eccellente. Soprattutto in Europa: cessato il terrore dei default a catena, numerosi banchieri hanno rialzato la cresta e stanno tornando a correre nella prateria dei rischi avventurosi, come nulla fosse stato. Si susseguono sempre più severi i moniti delle autorità monetarie a consolidare la capitalizzazione degli istituti di credito, ma i richiami del buon Trichet cadono come inutili sassi nell'acqua.

Mentre In Italia si chiacchiera a vuoto in materia, altri governi hanno deciso di dare una lezione ai più arroganti fra i banchieri colpendoli dove loro può far più male sul piano personale: il portafoglio. Primo fra tutti il premier britannico, Gordon Brown, che più degli altri ha svenato le casse statali per soccorrere gli istituti di credito sull'orlo del fallimento.

Brown non sopporta che, appena i conti si sono messi un po' meglio anche grazie alle iniezioni di denaro pubblico, i banchieri siano tornati a gratificarsi con cospicui buoni premio. E perciò ha deciso di imporre un prelievo fiscale pesante su simili compensi autogestiti. Mossa che ha subito raccolto ampio appoggio popolare, obiettivo non trascurabile per un premier in difficoltà e per giunta prossimo ad elezioni politiche generali.

Sullo stesso treno di Brown è salito in corsa anche il presidente francese che ha annunciato analoghe tagliole fiscali per i banchieri di casa propria. Sarkozy non è sotto scadenza elettorale, ma non attraversa momenti felici nei suoi rapporti con il Paese: un provvedimento di così facile impatto positivo sulla pubblica opinione può aiutarlo a recuperare parte del consenso perduto.

Diversa è la musica che si suona a Berlino. Angela Merkel
ha appena superato lo scoglio del voto e ha costituito un governo con il partito liberale da sempre ostile a nuove imposte. Accampando ostacoli giuridici la cancelliera non vuole seguire l'esempio anglo-francese e in alternativa rilancia la cosiddetta Tobin tax, cioè un piccolo prelievo ma su tutte le transazioni finanziarie mondiali. Un modo per mandare in corner la palla della maximposta sui bonus dei banchieri e lasciare tutto come sta. Perché il limite principale della pur luminosa Tobin tax è che per funzionare davvero essa dovrebbe essere introdotta a livello planetario. E si sa che la ferma contrarietà degli Stati Uniti rende simile proposta del tutto accademica.

Ritorna così di prepotenza in primo piano il principale buco nero che lo tsunami finanziario ha lasciato alle sue spalle: quello dell'incapacità dei maggiori governi nazionali a rimettere davvero ordine sui mercati, convergendo su misure di efficacia generale. Per carità, punire con una tassa ad hoc l'avidità dei banchieri che si riempiono le tasche di soldi in simili frangenti è magari sacrosanto. Ma che la politica non sappia escogitare di meglio perché guarda soprattutto al tornaconto demagogico immediato è quanto meno sconsolante. Tanto più nel vuoto di interventi per scongiurare i guai che molti avventurieri del credito stanno di nuovo preparando.

(16 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #78 inserito:: Dicembre 29, 2009, 03:29:12 pm »

Il dilemma del debito

di Massimo Riva
 

L'eredità peggiore che il vecchio anno trasferisce al nuovo si chiama debito sovrano. Ovvero quello che, in misura maggiore o minore, un po' tutti gli Stati hanno lasciato espandere nel corso del 2009 sotto il duplice incubo delle crisi bancarie e della caduta delle attività produttive. Con il concorso di una politica monetaria accomodante delle banche centrali che ha favorito la corsa all'indebitamento attraverso tassi d'interesse mai visti così bassi.

Il caso più imponente è quello degli Stati Uniti che hanno superato il picco storico dei 12 mila miliardi di dollari, quasi l'80 per cento del Pil. Ma anche in Europa non si è scherzato: perfino la virtuosa Germania ha gagliardamente infranto la fatidica soglia del 60 per cento in rapporto al Pil fissata nelle tavole di Maastricht. Quanto all'Italia, già titolare del primato continentale negativo, le cose sono andate di male in peggio. A fine ottobre - dato ufficiale di Bankitalia - il debito nazionale ha scavalcato i 1.800 miliardi di euro con un incremento tra l'8 e il 9 per cento in un anno: circa il doppio della caduta registrata dal Pil.

Secondo stime autorevoli, nel corso del 2010, i paesi dell'Eurozona saranno costretti in conseguenza ad emettere titoli di Stato nell'ordine dei mille miliardi di euro. Per gli Stati Uniti la previsione è addirittura di una quantità doppia in dollari. Sui mercati finanziari si aprirà, quindi, una massiccia campagna di collocamenti dagli esiti quanto mai incerti soprattutto per i paesi più esposti o giudicati meno affidabili. Ai quali non resterà che alzare i rendimenti dei propri titoli per non restare a bocca asciutta. Ciò che sta accadendo in questi giorni alle emissioni del governo di Atene è già una chiara avvisaglia del processo in atto.

L'Italia, per fortuna, non ha gli stessi guai della
Grecia. Ciò non toglie che, date le dimensioni del suo debito (il terzo del mondo in rapporto al Pil), il nostro paese rischia di soffrire parecchio nella concitata gara al collocamento dei titoli pubblici. Lo stesso ministro Tremonti aveva a più riprese messo in guardia su simile minaccia già nel corso di quest'anno. Il fatto che finora non sia accaduto nulla al riguardo indica soltanto che Tremonti ha sbagliato nei tempi del suo allarme, non nella sostanza. Il fenomeno di un costo crescente del servizio del debito che non si è prodotto nel 2009 ha elevate probabilità di verificarsi nel corso del 2010.

Ecco perché sconcerta non poco che lo stesso ministro, il quale aveva previsto un simile pericolo, abbia lasciato correre a briglia sciolta il debito creando così le più solide premesse per la materializzazione dei suoi timori. Per giunta con l'aggravante di aver azzerato l'avanzo corrente (il saldo fra entrate e uscite ordinarie) cosicché nel 2010 il paese si troverà a fare ricorso al mercato non soltanto per rifinanziare il debito in scadenza, ma anche per pagare i maggiori interessi sul medesimo. Insomma, nuovi prestiti per pagare a costi crescenti il servizio di quelli vecchi. Un esercizio di acrobazia contabile che allunga sull'Italia del 2010 l'ombra incresciosa di un avvitamento dei conti pubblici.

(22 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #79 inserito:: Gennaio 08, 2010, 11:46:57 pm »

Sacconi e i disoccupati

di Massimo Riva


Il ministro del Lavoro promette di affrontare la riforma degli ammortizzatori sociali solo dopo le elezioni regionali.
Il messaggio ai disoccupati è chiaro: stringete ancora la cinghia perché il governo ha altro da fare
 
Il 2010 sarà un anno particolarmente orribile sul fronte dell'occupazione. I primi, fragili vagiti di ripresa economica, infatti, non saranno in grado di arrestare la slavina di posti di lavoro che già ha cominciato a manifestarsi nel 2009. E ciò perché molte aziende non stanno più reggendo le nuove sfide del mercato, mentre quelle che sono in condizione di farcela dovranno comunque ricorrere a pesanti ristrutturazioni della manodopera. Su questa amara previsione concordano tutti i più autorevoli osservatori nazionali e internazionali: dalla Confindustria all'Ocse, passando per il Fondo monetario e la Commissione di Bruxelles.

In Italia, dove dall'inizio della crisi di posti se ne sono già persi circa mezzo milione, la situazione si annuncia forse un po' meno drammatica che in altri paesi europei (la Spagna innanzi tutto), ma solo perché il massiccio ricorso alle varie forme di Cassa integrazione ha in parte attenuato l'impatto sociale del fenomeno. Anche se, in larga misura, i licenziamenti hanno colpito la parte più debole del mercato del lavoro, concentrandosi sui titolari di quei contratti a tempo determinato che a molti erano sembrati il toccasana per la disoccupazione giovanile. Cosicché proprio i più giovani e precari si sono ritrovati sul marciapiede dalla sera alla mattina, senza protezione alcuna.

O, per meglio dire, con una protezione pomposamente annunciata dal governo Berlusconi che, alla prova dei fatti, si è rilevata un'autentica burletta. Primo, perché la misura del contributo (140 euro al mese in media) ha il sapore di una pidocchiosa elemosina. Secondo, perché si tratta comunque di un'elargizione 'una tantum'. Terzo, perché le regole fissate dalla legge per il riconoscimento del sussidio sono state così occhiutamente concepite che soltanto il 15 per cento delle domande è andato a buon fine.
Morale: centinaia di migliaia di giovani sono a mani vuote sia di lavoro sia di aiuti. Nel totale del mercato Bankitalia calcola che almeno un milione e 600 mila italiani siano esposti alla disoccupazione senza riparo alcuno.

A questo punto, però, quella che ha tutte le caratteristiche di una tragedia sociale incombente rischia di tradursi in farsa politica dopo l'ultimo annuncio del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Il quale ha sì riconosciuto la necessità di una riforma degli ammortizzatori sociali e precisato che questa dovrà prevedere "un'indennità di disoccupazione su base generalizzata", ma ha anche soggiunto, sfidando l'anacoluto, che se ne parlerà soltanto ".dopo le elezioni regionali della prossima primavera, in un quadro di stabilità democratica che il Paese vorrà prendere dopo il voto.".

Che cosa c'entrano, infatti, le elezioni regionali e la 'stabilità democratica' con l'urgenza di venire incontro alle necessità vitali di chi si trova senza lavoro e senza soldi? Mistero per nulla glorioso. Mentre chiarissima è la cinica sostanza del messaggio inviato ai disoccupati: stringete ancora la cinghia che il governo ha altro da fare.

Magari le leggi ad personam per scongiurare il più eccellente dei licenziamenti: quello di Silvio Berlusconi, che di sussidi non avrebbe certo bisogno.

(08 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #80 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:59:18 am »

Effetto Bengodi

di Massimo Riva
 

Il presidente del Consiglio ha detto di coltivare il sogno di ridurre le aliquote dell'imposta personale sui redditi a due soltanto: 23 per cento fino a centomila euro e 33 oltre questa soglia. A stretto giro di posta, il suo degno ministro dell'Economia si è precipitato ad allinearsi a questo volo di fantasia. L'impatto mediatico di simili annunci è stato travolgente tanto che su numerosi giornali sono subito apparse allettanti tabelle per evidenziare i benefici di una tale riforma tributaria per le tasche dei contribuenti.

Ne è nata così una sorta di psicofarsa collettiva che ha totalmente emarginato agli occhi della pubblica opinione la condizione dirimente perché il sogno del duo Berlusconi-Tremonti possa compiere anche solo i primi e graduali passi per materializzarsi ovvero quel riequilibrio dei conti pubblici che, proprio nell'ultimo anno, hanno subìto un ulteriore e pesante deterioramento. Perfino nell'opposizione c'è stato chi ha mostrato di prendere sul serio la sortita del Cavaliere e ha cominciato a criticarne con puntiglio il merito sostenendo, per esempio, che un'imposta con due aliquote siffatte sarebbe troppo favorevole per i più ricchi e troppo poco per i meno abbienti. Quasi che fosse ormai urgente prepararsi a un esame parlamentare su un provvedimento di imminente approvazione da parte del Consiglio dei ministri.

Insomma, la trappola astutamente escogitata dal premier ha funzionato per ora con indubbia efficacia. Cosicché il tema fiscale non solo sta tenendo banco nell'avvio della campagna elettorale per il voto regionale, ma servirà anche da ottimo diversivo per oscurare il fatto che, nelle prossime settimane, il Parlamento sarà impegnato soprattutto a votare una panoplia di leggi ad personam col fine di evitare al medesimo presidente del Consiglio ogni rendiconto con i tribunali.

Alla luce dell'evidente successo che il parlar di chimere incontra nel dibattito politico nazionale, vorrei confessare che anch'io - oggi purtroppo con scarse speranze - coltivo qualche sogno. In particolare, quello di vivere in un paese banalmente normale. Guidato da un presidente del Consiglio che, invece di lanciare demagogico fumo negli occhi dei cittadini, si acconci a una gestione responsabile della cosa pubblica a cominciare da una più corretta gerarchia dei problemi. In concreto: che, prima di far balenare un Bengodi fiscale per i contribuenti, spieghi loro come intende regolarsi con quella montagna di debito pubblico (vicino ai 1.800 miliardi) che già da sola risulta sufficiente a ipotecare il reddito di due o tre delle prossime generazioni di italiani.

Quello del mio sogno, insomma, è un premier che, invece di nascondersi dietro il paravento di un debito ereditato dalle altrui cattive gestioni, si impegni lui per primo a non farlo crescere ulteriormente come già fatto in passato e come di nuovo è accaduto - ahinoi - proprio nell'ultimo anno in una misura prossima ad altri 140 miliardi. Cifra che da sola vale quattro-cinque volte il beneficio che verrebbe ai contribuenti dalle due aliquote del favoloso progetto berlusconiano.

(14 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #81 inserito:: Febbraio 01, 2010, 11:57:58 am »

Il teatrino di Brunetta

di Massimo Riva
 

Con Renato Brunetta non si corre davvero il rischio di annoiarsi. Maestro nell'arte della politica ridotta a mero spettacolo, egli tiene la scena con l'abilità di un consumato cabarettista. Non passa settimana, talvolta neppure giorno, senza che qualche sua sortita trovi ampio spazio nei giornali e in televisione, per essere poi rapidamente superata e sostituita con pari eco sui media da altra e magari anche più spassosa battuta. Insomma, quel che si dice un vero talento della comicità, ben consapevole del fatto che le fortune di un umorista sono essenzialmente legate alla sua capacità di rinnovare in continuazione il repertorio.

L'aspetto un po' meno burlesco delle sue incessanti esibizioni consiste nel particolare che Brunetta è pur sempre un ministro della Repubblica, incarico che lo spinge a esercitare la sua 'vis comica' su temi, argomenti, problemi che mal si prestano ad essere trattati con la giocosa levità dei frizzi e dei lazzi. È questo il caso - per restare alle cronache recenti - della soluzione che il nostro ha avanzato per uno dei fenomeni più regressivi in atto nella società italiana: quello del crescente numero di giovani che, pur avendo superato anche i trent'anni, non si decidono a uscire dalla casa dei genitori per avventurarsi in solitario o in coppia nella vita.

Il fatto è guardato da più parti con preoccupazione perché considerato sintomo grave dell'incapacità del sistema di offrire alle giovani generazioni opportunità appetibili di autonomia economica, ovvero un lavoro e un salario decenti. Che fare per sciogliere un simile nodo? Ed ecco, sulla scorta dell'alessandrino esempio di Gordio, la brillante trovata del ministro veneziano. Il nodo non si scioglie, ma si taglia con una legge che obblighi tutti i ragazzi a uscire dalla casa natale al compimento dei 18 anni.


Non pago del coro di risate raccolto da simile boutade, invece di cambiare copione, l'incontenibile Brunetta è tornato sull'argomento col tono stavolta di chi vuol fare sul serio. C'è il problema di come e dove potrebbero campare i diciottenni estromessi dalle mura paterne? Ed ecco la soluzione del nostro: un'altra legge per destinare a tutti costoro 500 euro mensili da spesare con una congrua e speculare riduzione delle pensioni di anzianità. Lo spettacolo ha così raggiunto toni tragicomici, tanto che per far calare in fretta il sipario è partita una nota ufficiale di presa di distanza da Palazzo Chigi.

Ma anche questa non è bastata. Stizzito per l'insuccesso della sua rappresentazione, Brunetta ha reagito tacciando l'Italia intera di essere un "paese di ipocriti" nel quale troppo si dà ai padri e troppo poco o nulla ai figli. Battuta questa che si rivela per una volta tutto meno che umoristica nella sua essenziale veridicità. Basti pensare al fatto che la continua crescita del debito pubblico altro non costituisce se non un pesante aumento delle tasse a carico delle future generazioni di italiani: nell'ordine di circa 140 miliardi in più sotto la gestione dell'attuale governo. Dettaglio luciferino cui finora Renato Brunetta non sembra prestare grande attenzione, né come ministro né come brioso intrattenitore.

(28 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #82 inserito:: Febbraio 08, 2010, 10:46:17 am »

Un bolscevico a Washington

di Massimo Riva
 

Negli anni Trenta il 'bolscevico della Casa Bianca' - come allora i bancarottieri di Wall Street chiamavano il presidente Franklin D. Roosevelt con disprezzo misto a paura - salvò il mercato capitalistico dalle sue pulsioni peggiori imponendogli regole nuove, in particolare delimitando il campo di gioco delle attività più speculative ovvero più rischiose. Quello fra autorità politica e potere economico fu uno scontro durissimo, che la prima vinse proprio per la determinazione con la quale seppe perseguire i suoi obiettivi regolatori.

Anche se in quel tempo non esisteva il mercato globale nel quale oggi si vive, la lezione di Roosevelt fece scuola un po' dappertutto. Perfino nell'Italia fascista, dove la legge bancaria del 1935 ricalcò l'impostazione del celebre Glass Steagall Act del 1933, segnatamente sul punto della separazione rigida fra banche di credito ordinario e banche d'investimento. Per mezzo secolo questa distinzione ha operato con successo evitando che i crac bancari, che pure vi sono stati, avessero conseguenze devastanti per l'intero sistema finanziario.

Purtroppo il contrappasso di questo lungo periodo di relativa 'pax bancaria' è stato quello di rendere le autorità politiche più sensibili alle richieste degli spiriti animali del capitalismo che reclamavano mani più libere per i loro affari. In sostanza, il discorso era: "Vi abbiamo dimostrato di essere bravi, adesso lasciateci fare, togliendo di mezzo vincoli e limiti ormai obsoleti". Cosicché, negli ultimi due decenni, un po' dappertutto si sono levate le barriere e si è tornati al modello della banca tuttofare, pronta a impiegare in scommesse ad azzardo elevato anche i soldi raccolti agli sportelli. Coi bei risultati che da un paio d'anni sono sotto gli occhi di tutto il mondo.

Ora, finalmente, pare che un altro bolscevico si sia insediato nel bianco palazzo di Pennsylvania Avenue e voglia ordinare la marcia indietro verso gli anni Trenta. Suo mentore in questa operazione è quel vecchio saggio di Paul Volcker (già capo della Federal Reserve prima del lassista Alan Greenspan) che per età conserva una memoria diretta del decennio rooseveltiano. La principale mossa annunciata dal presidente Obama, infatti, consiste nel divieto per le banche di usare i depositi dei clienti per operazioni speculative in proprio. Sembrerebbe una misura di ovvia ed elementare cautela, ma essa è già bastata per scatenare una guerra furibonda dei banchieri contro le interferenze della politica.

Questo ritorno al clima degli anni Trenta dovrebbe ricordare a Obama e ancor più a Volcker che il successo di Roosevelt nacque non da mezze misure, come quelle ora annunciate, ma dal taglio deciso di alcuni nodi che oggi sono gli stessi di allora. Insomma, ci vuole un altro Glass Steagall Act che separi banca da banca, nonché oggi pure banca da assicurazione. Se guerra vogliono i banchieri, che guerra sia per mete più consistenti.

P.S. Non mi sono soffermato sui contrasti italiani in materia perché finora l'unica iniziativa pratica dell'autorità politica è stata la mobilitazione dei prefetti contro i banchieri. Che ricorda sì gli anni Trenta, ma in una chiave da Carnevale dei Guf.

(04 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #83 inserito:: Febbraio 12, 2010, 02:03:58 pm »

Tremonti contro Tremonti

di Massimo Riva
 

È urgente che qualcuno fra coloro che gli stanno più vicini richiami Giulio Tremonti a una realtà che egli sembra aver dimenticato: quella di essere lui il ministro dell'Economia in carica. Infatti, di nuovo al G7 nella gelida terra degli inuit canadesi, il nostro è tornato a riproporre un ritornello su cui si esercita a vuoto da troppo tempo. Quello del primato dei politici sui tecnici nel definire e varare le nuove norme per imbrigliare i mercati finanziari in modo da scongiurare il ripetersi dei disastri che si sono verificati negli ultimi anni.

Intanto, questa stucchevole litania tremontiana ha una seria controindicazione perché fa trasparire - sovente anche in sedi estere - una tale incontrollata animosità nei confronti del governatore della Banca d'Italia (che presiede con il consenso dei principali governi l'istituzione tecnica più qualificata in materia) da recare non lievi danni all'immagine internazionale del Paese e delle sue istituzioni. Ciò che più conta, però, è che con queste sortite Tremonti si pone in contraddizione con se stesso e con le ragioni dell'ufficio ricoperto.

Il suo non è il caso di un conferenziere che può dire quel che gli pare e piace su tecnici, politici e mercati. Tremonti è ministro della Repubblica per l'Economia ovvero è la principale autorità politica per quanto riguarda l'intera materia di regolazione del sistema finanziario. A lui spetta il compito istituzionale di assumere tutte le iniziative che ritenga più utili per riportare ordine e pulizia nelle attività finanziarie. Dunque, non è a un sosia ma a se stesso che rivolge l'invito ad affermare il primato della politica. E allora tessa la sua tela (se ce l'ha), prenda concrete iniziative di legge e lasci stare le giaculatorie.

Purtroppo, il bilancio di quanto fatto finora è scadente. Dapprima Tremonti ha esordito con una sovrattassa sulle banche decisa solo pochi mesi prima di dover correre con pubblico denaro in soccorso dei bilanci delle medesime. Una svista niente male per chi ama presentarsi come l'unico al mondo ad aver previsto il
patatrac del 2008. Poi ha escogitato la trovata di nominare sul campo i prefetti vigilanti dell'esercizio del credito: una nuvola di fumo nerastro orbace da gettare negli occhi della pubblica opinione per nascondere il sostanziale nulla di fatto.

E, con simili precedenti, adesso insiste nel perorare il primato della politica? Ma qualcuno forse gli ha impedito di esercitare meglio tale primato? E chi se non lui stesso? L'amministrazione Obama, che è in carica da meno tempo del governo Berlusconi, ha deciso di vietare alle banche di lanciarsi in speculazioni coi soldi dei depositanti, primo passo - si spera - per ristabilire la saggia separazione fra banche ordinarie e banche d'investimento. Tremonti ha detto di concordare su questa iniziativa. Bene e allora si muova, metta in cantiere qualcosa di analogo anche per l'Italia. Si occupi magari anche di norme per sciogliere i rischiosi intrecci fra banca e assicurazione. Altrimenti finirà per offrire ulteriori argomenti agli autori del pamphlet il cui titolo dice lapidariamente: 'Tremonti. Istruzioni per il disuso'.

(11 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #84 inserito:: Febbraio 27, 2010, 10:53:35 am »

Non lucciole ma Draghi

di Massimo Riva
 
Con la sua cura per la precisione e per il dettaglio dei dati la Banca d'Italia ha rovinato la festa di Giulio Tremonti e soci per lo sbandierato successo dello scudo fiscale. Secondo le cifre del governo, infatti, la sanatoria offerta agli esportatori illegali di capitali avrebbe totalizzato ben 95 miliardi di euro, di cui 85 attraverso "rimpatri effettivi" di denaro. Un tale trionfo, dunque, da tappare la bocca a tutte le obiezioni di coscienza, di legalità, di equità avanzate dai critici dell'operazione.

E ciò perché quegli 85 miliardi - nella visione propagandata dal governo all'insegna del 'pecunia non olet' - dovrebbero presto trasformarsi in una poderosa fonte di investimenti a beneficio del sistema produttivo domestico. Fin dal principio, del resto, il principale argomento con il quale il ministro Tremonti ha cercato di giustificare l'abnorme provvedimento è stato proprio questo: ci sono migliaia e migliaia di piccole e medie imprese in difficoltà per la stretta del credito; lasciamo che i loro padroncini - pagando un pur modesto obolo - riportino a casa il denaro illecitamente esportato in modo da rimpinguare le casse delle proprie aziende; tutta l'economia ne riceverà un grande beneficio.

Ma ecco appunto la Banca d'Italia a ridimensionare pesantemente il disinvolto entusiasmo del governo. Secondo l'Istituto che registra i flussi della bilancia dei pagamenti, i capitali materialmente rientrati in Italia assommano a non più di 35 miliardi: parecchio meno della metà dei favolosi 85 vantati dai promotori dello scudo. Una banale operazione-verità che, però, ha fatto saltare i nervi ai millantatori del governo Berlusconi. Anche perché l'atteso boom degli investimenti non è per ora alle viste.

Il ministro Tremonti si è pronunciato martedì 23 in appoggio al comunicato dell'Agenzia delle Entrate nel quale, fra l'altro, si dice testualmente che "i giochi statistici possono essere diversi, ma è la somma che fa il totale". Un furbesco gioco - questo sì - di parole che si guarda bene dallo smentire la disaggregazione dei dati operata da Bankitalia e invita a guardare alla cifra complessiva senza fare distinzioni che per il governo suonano solo imbarazzanti.

Chi, invece, ha perso proprio le staffe è il ministro Roberto Calderoli che è partito lancia in resta in un attacco furibondo. "Banca d'Italia o Banca d'opposizione?", si è chiesto con soave sarcasmo l'esponente leghista. E ha proseguito con grande finezza linguistica accusando gli statistici della Banca centrale di aver scambiato "fischi per fiaschi". Ma neppure lui ha messo in campo validi argomenti per smentire i calcoli fatti da Via Nazionale.

Non è la prima volta che membri del governo Berlusconi fanno polemica con i dati di Bankitalia: il ministro Maurizio Sacconi lo ha fatto ripetutamente in tema di disoccupazione. Ciò che rende tutto questo allarmante non è, però, la dialettica fra differenti punti di vista, ma la pretesa sempre più arrogante ed esplicita secondo cui la Banca d'Italia dovrebbe tenere nascosta ogni verità scomoda per la propaganda del governo. C'è un vezzo tirannico in questa attitudine che lascia sgomenti.

(25 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #85 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:14:34 am »

Non lucciole ma Draghi

di Massimo Riva
 
Con la sua cura per la precisione e per il dettaglio dei dati la Banca d'Italia ha rovinato la festa di Giulio Tremonti e soci per lo sbandierato successo dello scudo fiscale. Secondo le cifre del governo, infatti, la sanatoria offerta agli esportatori illegali di capitali avrebbe totalizzato ben 95 miliardi di euro, di cui 85 attraverso "rimpatri effettivi" di denaro. Un tale trionfo, dunque, da tappare la bocca a tutte le obiezioni di coscienza, di legalità, di equità avanzate dai critici dell'operazione.

E ciò perché quegli 85 miliardi - nella visione propagandata dal governo all'insegna del 'pecunia non olet' - dovrebbero presto trasformarsi in una poderosa fonte di investimenti a beneficio del sistema produttivo domestico. Fin dal principio, del resto, il principale argomento con il quale il ministro Tremonti ha cercato di giustificare l'abnorme provvedimento è stato proprio questo: ci sono migliaia e migliaia di piccole e medie imprese in difficoltà per la stretta del credito; lasciamo che i loro padroncini - pagando un pur modesto obolo - riportino a casa il denaro illecitamente esportato in modo da rimpinguare le casse delle proprie aziende; tutta l'economia ne riceverà un grande beneficio.

Ma ecco appunto la Banca d'Italia a ridimensionare pesantemente il disinvolto entusiasmo del governo. Secondo l'Istituto che registra i flussi della bilancia dei pagamenti, i capitali materialmente rientrati in Italia assommano a non più di 35 miliardi: parecchio meno della metà dei favolosi 85 vantati dai promotori dello scudo. Una banale operazione-verità che, però, ha fatto saltare i nervi ai millantatori del governo Berlusconi. Anche perché l'atteso boom degli investimenti non è per ora alle viste.

Il ministro Tremonti si è pronunciato martedì 23 in appoggio al comunicato dell'Agenzia delle Entrate nel quale, fra l'altro, si dice testualmente che "i giochi statistici possono essere diversi, ma è la somma che fa il totale". Un furbesco gioco - questo sì - di parole che si guarda bene dallo smentire la disaggregazione dei dati operata da Bankitalia e invita a guardare alla cifra complessiva senza fare distinzioni che per il governo suonano solo imbarazzanti.

Chi, invece, ha perso proprio le staffe è il ministro Roberto Calderoli che è partito lancia in resta in un attacco furibondo. "Banca d'Italia o Banca d'opposizione?", si è chiesto con soave sarcasmo l'esponente leghista. E ha proseguito con grande finezza linguistica accusando gli statistici della Banca centrale di aver scambiato "fischi per fiaschi". Ma neppure lui ha messo in campo validi argomenti per smentire i calcoli fatti da Via Nazionale.

Non è la prima volta che membri del governo Berlusconi fanno polemica con i dati di Bankitalia: il ministro Maurizio Sacconi lo ha fatto ripetutamente in tema di disoccupazione. Ciò che rende tutto questo allarmante non è, però, la dialettica fra differenti punti di vista, ma la pretesa sempre più arrogante ed esplicita secondo cui la Banca d'Italia dovrebbe tenere nascosta ogni verità scomoda per la propaganda del governo. C'è un vezzo tirannico in questa attitudine che lascia sgomenti.

(25 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #86 inserito:: Marzo 06, 2010, 11:27:01 am »

Geronzi cerca casa

di Massimo Riva
 

L'economia italiana vive momenti di forte sofferenza. Il sistema produttivo fatica a riprendersi dalla gran botta recessiva subita nel 2009, i consumi ristagnano, la disoccupazione continua a crescere. Il riflesso sui conti pubblici è pesante: deficit d'esercizio e debito cumulato sono in forte aumento, mentre l'avanzo primario è tornato ad essere disavanzo. Diffuso è il timore che, dopo la Grecia e la Spagna, possa essere proprio l'Italia a finire presto al centro di attacchi speculativi sui mercati internazionali.

In perfetta sintonia con il governo, che galleggia su questo allarmante scenario senza fare nulla, anche il gotha finanziario domestico sembra in tutt'altre faccende affaccendato. Nel ristretto circuito di potere che tiene assieme Unicredit, Mediobanca, Generali e Intesa-Sanpaolo, infatti, è in corso un'intricata partita che si può riassumere nell'obiettivo di trovare un posto tranquillo per Cesare Geronzi, attuale presidente di Mediobanca. Il fatto è che quest'ultimo non è ancora uscito dalla catena dei suoi guai giudiziari e sul suo capo pende ancora la minaccia di qualche condanna che lo priverebbe dei requisiti necessari per poter restare al vertice di Piazzetta Cuccia.

Ma si può lasciare un personaggio come Geronzi senza un'adeguata poltrona? Il caso vuole che sia in scadenza la presidenza di Antoine Bernheim alle Assicurazioni Generali, di cui Mediobanca è l'azionista di maggioranza relativa. In verità sostituire l'ottantacinquenne Bernheim con il settantacinquenne Geronzi, digiuno per altro di esperienze assicurative, non sembra il miglior messaggio di rinnovamento da inviare ai mercati, ma il cambio darebbe un indubbio vantaggio soggettivo. Per una di quelle stravaganze non insolite nel nostro ordinamento, i requisiti di onorabilità richiesti per gestire una società d'assicurazioni sono ancora meno severi di quelli previsti per i banchieri. Morale (si fa per dire) al vertice di Generali l'ottimo Geronzi troverebbe una sistemazione più tranquilla, anche se le sue vicende giudiziarie dovessero prendere una brutta piega.

Purtroppo sostituire Bernheim con Geronzi significa chiudere una partita e aprirne un'altra, stavolta sulla presidenza di Mediobanca. E qui le cose si complicano perché nell'istituto di Piazzetta Cuccia azionisti partecipanti e partecipati s'intrecciano fra loro in un orribile monumento al conflitto d'interessi che preclude ogni speranza di avere in Italia un mercato finanziario aperto e competitivo come si dovrebbe. Né c'è da sperare che si possa uscire da queste logiche da cupola mafiosa con la carezzevole disciplina sulle cosiddette 'parti correlate' che la Consob mette ora in campo.

Le prime candidature avanzate per una successione in Mediobanca sono state subito impallinate, mentre l'astuto Geronzi tiene coperte le carte perché sa che la sua strada per Trieste passa per la soluzione preventiva del nodo di Milano. La partita dovrebbe chiudersi entro marzo. Chissà se da aprile gli augusti esponenti del potere finanziario troveranno il tempo di occuparsi di qualcosa di più utile di una poltrona per Geronzi: per esempio, dei guai dell'economia italiana.

(04 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #87 inserito:: Marzo 14, 2010, 03:22:14 pm »

Disoccupati e abbandonati

di Massimo Riva
 

Oltre due milioni di italiani sono già senza lavoro mentre, ogni giorno che passa, la fila dei disoccupati si allunga di ulteriori migliaia di sventurati. Licenziano le imprese che non ce la fanno più a stare sul mercato, ma licenziano pure quelle che per reggere la competizione non riescono a fare di meglio se non liberarsi di manodopera. In una situazione così drammatica tutto ci si dovrebbe aspettare da chi ha responsabilità di governo fuorché provvedimenti mirati a rendere più facili e spedite le procedure per disfarsi dei lavoratori.

Purtroppo così non la pensa Maurizio Sacconi, un ministro che non perde occasione per andare controcorrente. Già ai suoi esordi si era distinto per una cantonata davvero sconcertante: la detassazione dei redditi da lavoro straordinario, varata in una fase nella quale la maggior parte delle imprese già faticava a far fare ai propri dipendenti il normale orario di lavoro. Ora che il problema cruciale del Paese è diventato quella della perdita dei posti di lavoro, ecco l'infaticabile Sacconi andare all'attacco delle garanzie contro i licenziamenti previste nel ben noto articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Presto potrà essere un arbitro e non più un giudice a dirimere le cause sui licenziamenti contestati. Ciò significa che le controversie saranno decise più sulla base di criteri equitativi che non in forza delle disposizioni di legge. Novità dal forte olezzo classista perché comporta un evidente e non lieve spostamento di potere fra le parti contendenti in favore dell'impresa e a danno del lavoratore.

Nel 2002 il precedente governo Berlusconi aveva tentato un attacco frontale al già richiamato art. 18 ed era stato costretto a una precipitosa marcia indietro dopo la straordinaria mobilitazione promossa dalla Cgil di Sergio Cofferati
, che aveva portato in piazza a Roma circa tre milioni di persone. Stavolta il ministro Sacconi è stato più abile: non ha preso la questione di petto, ma ha effettuato una manovra di aggiramento che punta comunque al medesimo obiettivo di indebolire la parte già più debole nel rapporto di lavoro.

Tattica indubbiamente efficace, visto che né i partiti di opposizione né gli stessi sindacati hanno saputo muoversi in tempo per scongiurare il successo dell'operazione. Soltanto ora la Cgil s'è svegliata proclamando uno sciopero di protesta, mentre le altre due più pavide confederazioni si nascondono dietro il fatto che la nuova disciplina potrà diventare esecutiva solo dopo il suo recepimento nei contratti collettivi. Un alibi risibile dato che, trascorsi 12 mesi, le modalità del ricorso all'arbitrato saranno fissate d'autorità con proprio decreto dal ministro (si fa per dire) del Lavoro.

Che Cisl e Uil si mostrino così arrendevoli non stupisce più. Ormai è da un pezzo che i loro leader fanno finta di abbaiare mentre scodinzolano in attesa di ricevere qualche carezza di favore dal governo. Ciò che risulta, viceversa, non spiegabile è la tardiva reazione da parte della Cgil e la distratta negligenza con la quale i partiti della sinistra hanno seguito il cammino parlamentare di questa porcheria compiuta alle spalle dei lavoratori.

(11 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #88 inserito:: Marzo 19, 2010, 06:39:30 pm »

Dietro lo scudo Consob

di Massimo Riva
 

Dopo una gestazione estenuante, la Consob ha partorito l'atteso regolamento delle cosiddette operazioni fra parti correlate.
I pochi padroni del mercato borsistico nazionale possono esultare: ora hanno a disposizione una gigantesca foglia di fico dietro la quale riparare le loro peggiori vergogne. In particolare, quell'intricato blocco di conflitti di interessi che ha consentito loro (e ancora consentirà) di praticare spregiudicate operazioni di lucro e di potere sulle spalle del grande gregge dei piccoli risparmiatori ed azionisti. Finora i problemi posti da questo impianto feudale del sistema economico domestico erano stati nascosti ricorrendo a un trucco linguistico ovvero alla definizione di 'capitalismo relazionale', soave espediente per fare apparire fisiologica una situazione minata in realtà da vizi patologici profondi.

Basti pensare a quella grande fabbrica di interessi confliggenti che è stata ed è tuttora la così tanto celebrata Mediobanca, riservatissima stanza di incrocio e compensazione fra i principali protagonisti del potere finanziario nazionale. Adesso, con la solenne scusa di limare le unghie agli abusi che si possono compiere sfruttando simili posizioni di dominio sul mercato, ecco il nuovo regolamento Consob. Con il quale si fa magari qualche passo avanti in termini di maggiore trasparenza delle decisioni, ma al non piccolo prezzo di rendere codificato un modello mercantile inquinato da un endemico conflitto d'interessi, lasciando così sostanzialmente indisturbato il ristretto manipolo dei manovratori della Borsa e dintorni. Le novità introdotte dalla Consob, infatti, sono essenzialmente due. Con la prima si carica sul ruolo dei consiglieri indipendenti - quelli che Guido Rossi ha definito 'financial gigolò' - l'onere del controllo sulle operazioni in conflitto. Con la seconda si stabilisce che, senza il consenso di costoro in consiglio, dovrà essere l'assemblea dei soci a decidere su ogni affare che superi il 5 per cento della capitalizzazione di Borsa della società: una porta spalancata per compiere abusi a fette.

Quanto alla struttura di un mercato dove il conflitto d'interessi è ormai la droga che tiene in piedi il capitalismo italiano, le nuove regole nulla dicono. Le vere vergogne del mercato domestico rimangono, dunque, perfettamente al riparo. Un simile esito, del resto, appare del tutto coerente con le procedure seguite nella fase preparatoria della normativa. Secondo la legge la Consob ha sottoposto una prima e poi una seconda bozza alla consultazione del mercato ovvero di quegli stessi che dal regolamento dovevano essere regolati. Una procedura grottesca perché è un po' come se una commissione incaricata dal ministro della Giustizia di rivedere il codice penale sottoponesse le sue proposte al vaglio di assassini, rapinatori, ladri, corruttori e via delinquendo. Ma di che stupirsi? Con buona pace dei lamenti di facciata del ministro Tremonti, l'abdicazione dello Stato dinanzi al capitale e al potere economico è ormai una costante nell'Italia di questi anni. Non si spiegherebbero altrimenti le fortune di quel mostriciattolo che vive sotto lo pseudonimo di 'capitalismo relazionale'.

(18 marzo 2010)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #89 inserito:: Marzo 29, 2010, 04:34:48 pm »

Progetti? No, poltrone

di Massimo Riva
 
Coraggio! Ancora pochi giorni e il tormentone di Cesare Geronzi presidente sì o no delle Assicurazioni Generali sarà finito perché il termine per l'indicazione delle candidature è ormai prossimo alla scadenza. Certo, anche l'ultima puntata si annuncia non meno imbrogliata delle precedenti, dopo che Unicredit ha sdoganato i diritti di voto del suo pacchetto di Generali cedendolo a Fondazioni amiche che potranno così far sentire il loro peso nelle scelte conclusive.

Qualche colpo a sorpresa è, dunque, sempre possibile anche se lo spettacolo offerto per l'occasione dal sedicente gotha finanziario nazionale - si chiuda in un modo o nell'altro - resta assai poco edificante. In particolare, perché non uno degli attori della partita ha cercato di spiegare agli investitori quali visioni e quali programmi alternativi sul futuro della grande compagnia di assicurazioni siano collegabili a questa o a quella candidatura per la presidenza del gruppo. Tutto si è svolto a trattativa riservatissima fra quella mezza dozzina di personaggi che si sono ormai abituati a manovrare sul mercato azionario come fosse cosa loro.

Così di nuovo riaffermando la pessima immagine di un capitalismo domestico patologicamente afflitto da quel mal sottile del potere economico che si può chiamare 'poltronite acuta'. Un morbo pandemico di cui più o meno gli stessi protagonisti dell'affaire Geronzi hanno denunciato sintomi evidentissimi, proprio in questi giorni, con il rinnovo del consiglio d'amministrazione della Rcs Quotidiani, che poi significa in sostanza 'Corriere della Sera'. Può anche darsi che ci fosse una certa dose di ipocrisia nella soluzione adottata finora di delegare la sorveglianza amministrativa sul grande quotidiano a una serie di personaggi della società civile non azionisti. Resta il fatto che un simile modello aveva almeno il pregio di interporre un filtro o comunque un elemento di separatezza tra le volontà padronali dei principali azionisti e l'esercizio di una delicata funzione civile quale la pubblica informazione.


Ora non è più così. Le voci, per altro dissonanti, dei padroni saranno direttamente presenti nel consiglio di Rcs con l'ingresso simultaneo di Giovanni Bazoli, Luca di Montezemolo, Diego Della Valle, Geronzi, Giampiero Pesenti, Marco Tronchetti Provera. Certo, si può anche argomentare che costoro, mettendo così le mani nel piatto, fanno fare un passo avanti in termini di trasparenza all'ambigua posizione azionaria della Rcs Quotidiani: ora forse si capirà meglio chi ordina la musica. Se non fosse che questa migliorata trasparenza fa finire alle ortiche le belle intenzioni di chi amava spiegare la sua partecipazione al 'Corriere' come contributo alla salvaguardia dello storico organo di informazione della borghesia nazionale. Con il nuovo consiglio ogni maschera è caduta: altro che patriottico investimento finanziario. Ormai - da Mediobanca a Generali, passando per il 'Corriere' - si tratta di pura contesa fra soggetti che hanno ridotto le ambizioni del capitalismo nostrano a una conquista di poltrone, slegata da ogni progetto imprenditoriale e concentrata soltanto sull'affermazione del proprio potere personale.

(25 marzo 2010)
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