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Autore Discussione: MONICA GUERZONI. -  (Letto 46912 volte)
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« inserito:: Gennaio 16, 2008, 12:20:26 am »

Dietro le quinte

Quel faccia a faccia Walter-Romano

Visita a Palazzo Chigi. Poi la nota sulla sintonia


Per ottenere la correzione di rotta dalla viva voce del Cavaliere, Walter Veltroni aveva aperto la giornata cruciale per il destino delle riforme chiamando al telefono Gianni Letta. «Noi andiamo avanti - ha detto Veltroni - ma bisogna scacciare l'ombra di un accordo segreto sulla Gentiloni e tu capisci che l'unico che può smentire Berlusconi è lui stesso... ». Una mossa riuscita, visto che la rettifica del leader di Forza Italia era arrivata a strettissimo giro. Ma poi, scendendo a metà mattina dal treno Bologna—Roma, il premier aveva gettato sui binari del dialogo quella battuta non proprio conciliante su Berlusconi («Mi aspetto una nuova dichiarazione tra un paio d'ore») e il confronto era tornato a incepparsi, con pesanti strascichi nell'Unione e nel Pd.

E così, appena fa buio, Veltroni si presenta a Palazzo Chigi preceduto da un concitato scambio di telefonate. E mette alle strette il presidente del Consiglio. «A questo punto, Romano, ti devo chiedere di fare chiarezza. Come si fa ad andare avanti se non si spazza via il sospetto che le minacce di Mastella siano ispirate direttamente da te?». È il momento della verità, oggi al Senato i partiti metteranno sul tavolo le loro carte e Veltroni, incassate le garanzie del Cavaliere e il soccorso rosso di Bertinotti dal Sudamerica, è determinato a mostrare che la riforma la vuole davvero.

E dunque spinge, prova a forzare il blocco. «Io ho scommesso tutto sulla legge elettorale e ho bisogno del tuo pieno sostegno sul metodo e nel merito». Labbra serrate e faccia scura Prodi lo sta a sentire, quindi ribadisce le sue preoccupazioni sulla tenuta del governo: «Per riformare il sistema c'è bisogno di un accordo più ampio, che coinvolga la maggioranza dell'Unione». Ed è a quel punto che Veltroni gioca d'azzardo: «Stare fermi non ti aiuta a durare. Se andiamo al referendum, Bertinotti fa saltare il banco». I bene informati dicono sia stato questo l'argomento con cui il segretario è riuscito a strappare a Prodi una lapidaria nota a sostegno del suo «sforzo», nonché la rassicurazione che tra i due c'è «identità di vedute». Formula che i veltroniani spiegano come la raggiunta convinzione del premier che sì, «uno sbarramento al di sotto del 5 per cento non risolverebbe i problemi».

Ma poi la giornata muta ancora di segno. Prodi fa sapere che su conflitto di interessi e riforma del sistema tv, il governo va avanti. E a sera, parlando con i suoi, gela così le speranze di Veltroni di portare a casa la riforma: «Non sono sorpreso che il vertice dell'Unione sia finito male... ». Il segretario non molla, ma il sismografo del loft registra segnali discordanti. All'ora di colazione il via libera di Rutelli e Fassino in un vertice al Senato e all'ora di cena il sorriso indecifrabile di Massimo D'Alema: «Noi ci abbiamo provato. Ora ci provano altri e noi facciamo loro i migliori auguri...». Il referendum e i sospetti La tesi del sindaco: bisogna spazzare via i sospetti. Se andiamo al referendum Bertinotti fa saltare il banco


15 gennaio 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Marzo 22, 2010, 03:14:05 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 02, 2009, 11:03:54 pm »

 Democratici - Il segretario attacca D’Alema senza citarlo: «Mai più inciuci»

Franceschini: non vincerà chi fermò Prodi e Veltroni

Replica dei bersaniani: «Anche tu incontravi il premier»


ROMA — Maniche di cami­cia e cravatta rossa Dario Fran­ceschini non cambia look, ma per il segretario è venuto il tem­po di cambiare passo. Giura che non si farà annientare da quei «nostalgici» che hanno mandato a casa prima Prodi e poi Veltroni e promette una op­posizione «intransigente e du­ra », non anti-berlusconiana e tantomeno anti-italiana. Ma l’avversario che il segretario ad­dita, pur senza nominarlo, ai giovani della «generazione pri­marie », non è il leader del cen­trodestra bensì il grande spon­sor di Pierluigi Bersani.

È infatti alla Bicamerale di Massimo D’Alema, conferme­ranno i suoi, che Franceschini allude quando promette che mai consentirà «il ritorno a una gestione di inciuci e intese non dichiarate». Ed è sempre all’ex premier che pensa, quan­do chiede al popolo delle pri­marie di «lottare contro nostal­gie e istinti di conservazione», di sconfiggere quelle «forze che si oppongono al cambia­mento » e che hanno «impedi­to a Prodi di far crescere l’Uli­vo e a Veltroni di fare il Pd che tutti sognavamo». Ma ora ba­sta, apre la sfida finale France­schini: «Io non mi fermerò». Per il segretario è «l’inizio del­la rimonta», ma le sue parole riaccendono lo scontro tra i duellanti tanto che il comitato Bersani rispolvera un incontro «cordiale e amichevole» tra Veltroni e Berlusconi: era il 2007, al governo c’era Prodi e Franceschini, che del tete-à-te­te fu testimone, non può ora «agitare il fantasma dell’inciu­cio ».

Intanto Bersani, forte dei «dati inequivocabili» che gli as­segnano la vittoria nei circoli, invita a «rasserenare il clima» e a «rispettare» chi lo ha vota­to: «Sento girare cose che non vanno bene e non vorrei che per picconare il mio risultato si picconasse la ditta...». A France­schini non resta che puntare tutto sui gazebo del 25 ottobre, dove a lui piacerebbe far trova­re agli elettori un modulo per iscriversi al Pd. Invita a non mi­tizzare gli iscritti e torna a dire che qualcosa proprio non va «se di 820 mila iscritti quasi la metà non va a votare il segreta­rio ». E Antonio Bassolino, può rifare il sindaco di Napoli? «No», lo silura Franceschini. Ignazio Marino si dice «molto soddisfatto» per il suo «quasi» nove per cento, Rosy Bindi defi­nisce Rutelli «scorretto» se «getterà la spugna» durante il congresso e Marini smentisce rischi di scissione: «I popolari stanno nel Pd e ci restano».

Monica Guerzoni

02 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 16, 2010, 10:32:16 am »

I volti oscurati Gabanelli: l’anomalia è questa norma assurda.

L’ex presidente: è anche la nostra débâcle

I conduttori rassegnati L’Annunziata critica: ognuno ha pensato a sé

Vespa: ormai il dietrofront è impossibile


ROMA — Parlano di «bavaglio », di «anomalia», di «norme assurde» e non confidano nemmeno un po’ nelle prossime mosse della Vigilanza Rai. Tra i conduttori dei talk show silenziati prevale il senso di sconfitta. «Non se ne farà niente », allarga le braccia Bruno Vespa. Milena Gabanelli protesta contro la «violazione del principio della concorrenza leale» e Lucia Annunziata invita i conduttori all’autocritica: «È stata una débâcle anche per noi, abbiamo reagito in modo sbrindellato». Per Vespa, che non si era fatto illusioni, «è andata secondo copione».
A sentire l’ideatore di Porta a Porta la decisione del Cda di viale Mazzini era «scontata sin dall’inizio». Non esprime giudizi, ma si è convinto che «finché la Vigilanza non cambia parere» la situazione non si sblocca. Perché il problema è all’origine, cioè nella fonte normativa. «Uno spiraglio c’era—ricorda Vespa—ma se la Vigilanza lo avesse seguito avrebbe dovuto costringere i conduttori a fare le trasmissioni secondo la par condicio. E con l’opzione radicale del "tutto uguale per tutti" sarebbero stati programmi ingestibili e non giornalistici». La tesi di Vespa è che non si può dare al Pdl e al Pd lo stesso spazio che si dà ai Radicali: «O ci danno la libertà di condurre, oppure tanto vale informare gli elettori con la tribuna politica».
Come andrà a finire? «Non se ne farà niente», sospira Vespa. Da premesse simili muove il ragionamento di Milena Gabanelli, dal ’97 conduttrice di Report: «L’anomalia non parte dalla par condicio, ma dalla norma assurda votata in Vigilanza. Finché non viene abolita, non se ne esce». Non offre risposte, la Gabanelli, pone domande: «Come si può pensare di equiparare la propaganda politica all’informazione? E in quale punto del regolamento della Vigilanza sta scritto che devono essere aboliti i talk show?».
La ragion d’essere del servizio pubblico è essere «pluralista» e «senza padrone», mentre oggi è «imbavagliato». Lucia Annunziata, che della Rai è stata presidente, risponde dagli Stati Uniti, dove è volata dopo aver «chiuso il negozio », cioè il suo programma di interviste domenicali In mezz’ora. «Non ho mai visto un tale rimpallo di decisioni tra Parlamento e Cda — attacca —. Un caos». Ce l’ha con i politici e i manager Rai, l’ex direttrice del Tg3, ma anche con i suoi colleghi: «Dovevamo avere più fermezza, dire "questo è un bavaglio" e scegliere il silenzio. Tutti». E invece? «Siamo andati quasi tutti in onda, ma di sguincio. Un bricolage assurdo. Un fai da te che ha confuso gli elettori. Che débâcle!». Ce l’ha con Santoro? «Michele — ricorda la Annunziata—farà Annozero il 25 marzo. Giovanni Floris va in tour con Ballarò.
Serena Dandini non si sa se fa informazione o no, quindi non si capisce se ha violato le regole». E Riccardo Iacona? «Lui ha protestato, ma l’ultima puntata l’ha mandata in onda». Conclusione: «Il mondo del giornalismo tv non ha saputo dare una risposta compatta e univoca. E mi ci metto anch’io, che mi sono cancellata per solidarietà e per non andare in onda con una mano legata dietro la schiena».

Monica Guerzoni
16 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 22, 2010, 03:27:14 pm »

Report rompe il silenzio elettorale

E la Gabanelli sfida i limiti alla tv

Stasera puntata sui doppi (e tripli) incarichi dei politici

   
ROMA— Si può fare (bene) il deputato e il sindaco di una grande città? Il senatore e il presidente di Provincia? Milena Gabanelli rompe il silenzio elettorale e, con una nuova puntata di Report, denuncia lo scandalo de «Gli sdoppiati». I politici, maestri, si fa per dire, nell’arte di accumulare incarichi. L’inchiesta, che riguarda sedici esponenti del centrodestra, è destinata a fare notizia, per il contenuto e perché va in onda dopo le polemiche sui talk show «imbavagliati» e le intercettazioni Rai—Agcom. Sa bene, la Gabanelli, di poter provocare una nuova ondata di polemiche. Ma non intende fermarsi: «Io vado avanti, non abbiamo cambiato nulla della nostra scaletta. Sono tredici anni che vado in onda in campagna elettorale osservando la legge». E la par condicio? «La rispetto — assicura —. Nessuno dei parlamentari che abbiamo intervistato è candidato e l’argomento non è materia di campagna elettorale». È consapevole di lavorare «sul filo del rasoio», ma non se ne cura: «Io rispetto la par condicio, la legge è più forte di una norm a con profili di incostituzionalità». La «norma» è il regolamento con cui, venti giorni fa, il Cda della Rai ha imposto lo stop fino al voto ai talk che vanno in diretta. E l’unico programma di approfondimento giornalistico rimasto aperto è Report. Stasera dunque, alle 21.35 su RaiTre, si parlerà di parlamentari part—time e sindaci—pendolari, accumulatori di poltrone abilissimi nello sdoppiarsi.

Riccardo De Corato è deputato e vicesindaco di Milano con tripla e sostanziosa delega, alla sicurezza, al traffico e all’inquinamento. Ogni settimana, per 48 ore, scende a Roma e indossa i panni di onorevole del Pdl. La legge glielo consente. Lo vieterebbe invece a sindaci e presidenti di provincia, ma l’impossibile diventa possibile quando «si interpreta» la legge. Ecco allora che il leghista Ettore Pirovano può dirsi con una risata «pendolare trasfertista», giacché è deputato e presidente della provincia di Bergamo. Maria Teresa Armosino, presidente della Provincia di Asti e deputato del Pdl, è a Roma dal martedì al giovedì e chissà dove trova il tempo di esercitare come avvocato. Vita di «sacrificio» anche per Edmondo Cirielli, presidente della provincia di Salerno nonché deputato e presidente della commissione Difesa: «Me lo ha chiesto il partito». Un altro che fa miracoli è il presidente leghista della provincia di Brescia, Daniele Molgora, assessore e sottosegretario all’Economia. E ancora il sindaco di Afragola, i presidenti della provincia di Foggia, Biella e Frosinone, i sindaci di Mazara del Vallo, Verbania e Viterbo...

A Roma Mauro Cutrufo, Pdl, si fa in tre: è senatore, vicesindaco e assessore al Turismo. E Alfredo Antoniozzi si divide tra l’assessorato alla Casa nella giunta Alemanno e il Parlamento europeo. Troppo? Non per lui. «Bruxelles è un impegno veramente relativo — lo giustifica la sua portavoce — veramente irrisorio».

Monica Guerzoni

21 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 05, 2010, 12:18:41 am »

La Serracchiani: pronta alle primarie

Leadership del Pd , la scalata dei giovani

Dalla Puppato a Renzi. E Civati: ricambio per tornare a vincere


ROMA — «Nessuno tocchi Bersani», è il loro motto. Il segretario può dormire tranquillo ancora per un po’. Ma al prossimo giro gli emergenti del Pd ci metteranno la faccia. Trentacinquenni alla Matteo Renzi, quarantenni alla Debora Serracchiani e persino cinquantenni alla Laura Puppato. Vogliono rinfrescare l’aria nelle stanze del Pd, si scambiano reciproche strizzatine d’occhio, ma intanto si preparano a scendere in campo sfruttando il traino di postazioni di prestigio. Il meglio piazzato, sulla scacchiera delle nuove leadership, è forse il sindaco di Firenze Matteo Renzi.

Classe 1975, ex scout, tre figli, è diventato primo cittadino con il 59,96% dei voti, dopo aver trionfato alle primarie del centrosinistra. Se si esclude il più anziano dei « giovani » , cioè il presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti (1965), dicono che Renzi sia quello con più carte da giocare. Alle primarie fiorentine si era candidato «contro tutti», contro i veltroniani e contro i dalemiani: «Io non ho sponsor e non li cerco». E se mai si dovesse aprire la corsa per la segreteria del Pd, anche Renzi, dicono, potrebbe essere della partita. Ma il sindaco smentisce: «Lo escludo nel modo più categorico. Sarò credibile nel processo di rinnovamento generazionale se Firenze sarà governata bene. Fare il sindaco è il mestiere più bello del mondo». Lo diceva anche Walter Veltroni, prima di scendere in campo alle politiche. Se primarie saranno, per un nuovo Pd, l’eurodeputata Debora Serracchiani tenterà la sfida: «Io sono disponibile, non starò a guardare. La mia generazione deve metterci la faccia. Alle primarie sarà inevitabile candidare volti nuovi. Serve un salto generazionale». Avvocato, quarant’anni a novembre, è diventata famosa nel 2009 con 13 minuti di critiche ai vertici del Pd. Sponsorizzata da Veltroni e Franceschini, a Bersani chiede «più coraggio per rinnovare il partito». Dalla sua postazione di segretario a Udine guarda con attenzione alla Lega, invoca una «costituente programmatica subito» e sogna «una nuova generazione molto presente sul territorio». Politici come l’onorevole Massimiliano Fedriga, 30 anni, eletto con il Carroccio al Nord. «I Fedriga del Pd? — fa il king maker dei "piccoli" la Serracchiani —. A Padova ci sono Matteo Corbo e Vincenzo Cusumano e, nelle Marche, il sindaco di Recanati Francesco Fiordomo e il consigliere Francesco Comi».

Largo ai giovani. Ma Bersani, almeno per ora, non si tocca. «Sarebbe una follia buttare a mare il neonato con l’acqua sporca» avverte Laura Puppato, la «sindaca» di Montebelluna lanciata da Massimo Cacciari come una speranza per la rifondazione del Pd. Per lei — che alle Regionali, ricorda orgogliosa, ha incassato «26 mila voti col niente» — il problema non è il leader. «Non passiamo altri sei mesi a chiederci chi è il migliore, smettiamola di farci del male». La «leghista» del Pd si tira fuori? «Bersani è una figura valida e splendente — dice la Puppato, che può contare sul sostegno del segretario —. Da soli né io, né i Renzi, né i Chiamparino possiamo fare niente».
E insieme, cosa si fa? «Il Pd del Nord. Sono due anni che aspetto il partito federale». Si candida a guidarlo? «Se si vuole dare un segnale di cambiamento ci sarà bisogno di un gruppo di leader. Figure come Renzi o Zingaretti possono giocare un ruolo di rinnovamento, nel rispetto di chi ha portato sin qui il partito».

Assai più bellicoso si mostra il filosofo Giuseppe Civati detto Pippo. Nato nel ’75 e appoggiato da Ignazio Marino, è un po’ il nuovo Cacciari del Pd. Il 10 aprile a Milano, con l’iniziativa «Oltre», lancerà il «partito dei giovani», un piano in tre mosse per tornare a vincere: «Lega, ricambio e Sud. Ci vuole qualcosa d’altro e, nel mio piccolo, io lo farò». Giorni fa si è candidato a incarnare il «Vendola del Nord», però ammette che «altre figure» possano crescere: «Zingaretti giovane leader? Fra un po’ diventa nonno. Mi auguro che Nicola si candidi sindaco di Roma». E Renzi? «È il meglio della nostra generazione». Se mai ci saranno le primarie per il leader, chi schiererete? «Non ci sono solo io, ma la nostra generazione deve tirare fuori un nome».

Monica Guerzoni

04 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 16, 2010, 04:00:47 pm »

Il ministro

In An vicinissimo al leader, ora sceglie il Cavaliere

Matteoli: no, Gianfranco Io nel Pdl ci sto bene


ROMA —Ministro Matteoli, anche lei ha le valigie pronte?
«No, io non vado».

Non seguirà Gianfranco Fini?
«Non ho nessuna intenzione di aderire a una scissione».

Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti risponde al cellulare alle nove di sera, il tono è (quasi) pacato ma i contenuti sono pesanti. Altero Matteoli non sembra avere nostalgie, niente rimpianti per una storia comune iniziata nel Movimento sociale italiano (Msi). È stato per anni uno degli uomini più vicini all’ex leader di Alleanza nazionale, uno dei pochissimi con cui Fini si consultava prima di ogni decisione importante. Ma ora non più. Ora Matteoli si schiera con il Cavaliere, a costo di ritrovarsi contro il presidente della Camera.

Dunque ministro, siamo al divorzio tra Fini e Berlusconi?
«Lei lo ha letto il comunicato di Fini?».

Dice che Berlusconi deve arrivare a fine legislatura.
«Appunto. Fini ha detto che aspetta una risposta dal presidente del Consiglio. Aspettiamo e vediamo se nelle 48 ore arriva una risposta soddisfacente ».

E se non arriva?
«Io auspico che non si giunga alla rottura».

Forse ci siamo già.
«E allora perché Fini avrebbe fatto quel comunicato?».

Forse è meglio che ce lo spieghi lei...
«Io ho parlato con Fini e posso dirle che non aveva alcun bisogno di convincermi».

Perché è già convinto o perché non la convincerà mai?
«Non farò una scissione, io. Non aderirò ad altri gruppi. Sto bene nel Pdl, ho contribuito a farlo e non sono pentito. Non ho preoccupazioni ».

Qualche tempo fa lei ha detto che per Fini spodestare Berlusconi sarebbe «una vittoria di Pirro», un «suicidio politico per tutto il Pdl». Qual è allora l’obiettivo di Fini?
«Non mi piace andare a vedere i pensieri reconditi degli altri. Se quel che è scritto nel comunicato è vero, ci sono i margini perché la cosa possa rientrare».

Perché allora molti parlano di andare al voto anticipato?
«Io non ne parlo».

E se nascono i gruppi parlamentari di Fini?
«Certo, in quel caso la situazione politica cambia. Lo scenario muta... E allora non è detto che le elezioni anticipate non siano uno sbocco possibile».

Secondo lei, se il presidente della Camera si mette in proprio deve lasciare lo scranno più alto di Montecitorio?
«Secondo me, secondo me... Ma perché mi fa questa domanda?».

Perché al vertice Berlusconi avrebbe detto a Fini che, se fa i gruppi, deve dimettersi dalla presidenza. «Ma Berlusconi ha smentito!».

Quindi Gianfranco Fini non deve dimettersi?
«Le auguro una buona serata».

Monica Guerzoni

16 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 03, 2010, 09:46:45 pm »

No B-Day 2 Sit-in a Roma per 10 mila

Popolo Viola, «lite» con Di Pietro

Il Pd non va in piazza


ROMA— Lo disegnano come una piovra dai tentacoli viola, lo sbeffeggiano a colpi di satira, lo fischiano dal palco, lo insultano con striscioni, slogan e cartelli. C’è anche chi vorrebbe spedire Silvio Berlusconi in galera e chi grida nel megafono che non gli dispiacerebbe vederlo morto. C’è il gruppo delle carriole e quello delle agende rosse di Paolo Borsellino. Ci sono i cori da censura come «Silvio merda!», replicato anche in cartone, con decine di palloncini viola, proprio sotto al palco. C’è il signore col cappello blu che grida nel megafono «Berlusconi bestemmiatore vattene al creatore». Tanti i cartelli contro la «corte» del premier, affollata, nell’immaginario dei viola, di puttanieri, veline, ladri, assassini della democrazia, corruttori, mafiosi e via elencando. «Stato mafia mangano le prove» dice il lenzuolo tenuto su da due ragazzi, dove mangano è scritto con la g per evocare il defunto stalliere (e «uomo d’onore») di Berlusconi.

SVEGLIA - A dieci mesi dal primo No B-Day il popolo viola ha portato in piazza San Giovanni oltre diecimila persone. Star della protesta, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola. Il Partito democratico ha disertato il corteo, che ha visto, dietro lo striscione «Svegliati Italia», cartelli e slogan anche molto duri: «Berlusconi cancro da estirpare», «Mafioso, mafioso!».

BANDIERE - Bersagli preferiti, oltre al premier, i ministri Bossi e Tremonti. Tantissime le bandiere dell’Italia dei valori, al punto che gli organizzatori dal palco hanno chiesto di abbassare tutti i vessilli dei partiti. «Vi preghiamo di togliere tutte le bandiere perché questa è una manifestazione viola, soltanto viola» è l’appello che gli organizzatori gridano dal palco quando la testa del corteo approda sul prato di San Giovanni. Il problema è l’Italia dei valori, i sostenitori di Antonio Di Pietro sono così tanti e così numerose le loro bandiere, che i «big» del popolo viola provano a riprendersi la scena. «Ma come— ci resta male un ragazzo dello staff di Di Pietro, rivolto al leader —, noi gli salviamo la manifestazione e loro ci trattano così?». Ma l’ex ministro non sembra troppo dispiaciuto di aver suscitato la gelosia dei promotori.

IN PULLMAN - «In effetti i nostri sono tantissimi — gongola Di Pietro —, l’Idv ha portato a Roma cento pullman da tutta Italia... Capisco il problema ma va bene così, dobbiamo allargare il più possibile questo popolo». Per essere un corteo pubblicizzato solo via web, il popolo degli antiberlusconiani duri e puri è già piuttosto largo, e anche molto arrabbiato. «Siamo 500 mila— azzarda Gianfranco Mascia dal palco —o comunque, se è vero che la questura dice 50 mila, siamo più di quanti ne portò in piazza Berlusconi». La questura dice diecimila, Di Pietro raddoppia: «Una ventina». Di migliaia, ovviamente.

Monica Guerzoni

03 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_ottobre_03/gurzoni-popolo-viola-dipietro_cdbfafb8-cebe-11df-92c2-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 06, 2010, 06:31:54 pm »

Il terzo polo

Casini attacca: Berlusconi allo sbando

Se resta con un voto in più è da 118

Bersani: Vendola contrario a maggioranze ampie? Non è in Parlamento


ROMA - Stare fermi e aspettare. Sperare che Berlusconi, nella manciata di giorni che restano, comprenda che i voti per incassare la fiducia alla Camera non ci sono e decida di salire al Colle: per rassegnare le dimissioni, ricevere l'incarico dal capo dello Stato e formare un nuovo governo. Con il premier che continua a lanciare i suoi strali contro «i maneggioni della politica» e resiste alle trattative, ai terzopolisti di Futuro e libertà non resta che l'attesa. Confidando nella possibilità che, sia pure in extremis, il Cavaliere esca dal bunker. Per l'onorevole Giuseppe Consolo, che ieri ha visto Fini, è assai più di un auspicio: «Non arriveremo a votare la fiducia, si dimetterà e darà vita a un Berlusconi bis». Il leader di Fli si sarebbe mostrato assai meno convinto che la lunga sfida possa risolversi secondo le linee del «lodo di Mirabello», dal suo discorso di fine estate. Di una cosa soltanto un Fini «sereno e tranquillo» sarebbe certo e cioè che il centrodestra «non ha i voti per ottenere la fiducia».

«È DA 118» - E se il 14 dicembre Berlusconi incassasse la fiducia anche alla Camera e restasse a galla per un voto? «Bisognerebbe chiamare il 118» risponde Pier Ferdinando Casini a Maria Latella, su Sky tg24. E spiega che, se pure un simile scenario dovesse diventare realtà, l'Udc continuerebbe «serenamente» a combattere il governo in Parlamento. «Se il premier ritiene che un voto sia sufficiente vada avanti, noi siamo ipercoerenti», è la sfida di Casini. Il quale chiede al Cavaliere di indicare un nome per un esecutivo di «grande armistizio», bolla come «autogol» le parole di Denis Verdini contro Napolitano e sprona Berlusconi a «non seguire i consigli di qualche sciamannato». Casini riconosce che la doppia veste di Fini, leader politico e presidente della Camera, è «un po' un'anomalia», ma lui la ritiene «trascurabile» in un Paese in cui le anomalie sono la norma. E a sera, quando gli chiedono di replicare all'accusa di voler soffiare il posto al premier, Casini lo gela: «Non voglio polemizzare, Berlusconi è un uomo allo sbando».

IL GIORNO DEL GIUDIZIO - Il giorno del giudizio si avvicina. Giovedì, alla fondazione FareFuturo, Fini riunirà i vertici di Fli e deciderà le mosse finali. I numeri li dà Italo Bocchino: «Siamo sempre lì, 317 o anche 318 per noi». Per il capogruppo «il tempo sta scadendo», ma se Berlusconi cambierà atteggiamento e, invece di dire «o me o il voto anticipato» vorrà spiegare una sua «proposta sui contenuti», i futuristi la valuteranno. Ci spera con forza Silvano Moffa, colomba piuttosto scettica sul futuro del terzo polo. Il presidente della commissione Lavoro della Camera tifa per il Berlusconi bis e invita il premier a «mettere da parte i personalismi inutili e i toni esacerbati». La strada è sempre più «stretta» ammette Moffa, eppure si dice convinto che «ci sia ancora margine per recuperare senso di responsabilità». Berlusconi ha detto che molti parlamentari di Fli torneranno all'ovile, Moffa però smentisce: «Visione di corto respiro. E poi a che servirebbe superare il traguardo dei 316 voti se la questione politica rimane irrisolta?». Carmelo Briguglio, invece, ha fretta di mandare a casa il premier: «Sarà sempre peggio, non è più lucido. Non si confronta, sa solo insultare. Berlusconi è il peggior nemico di Berlusconi». A L'Unità Pier Luigi Bersani dice che «il premier è pericoloso» e per questo il Pd ha presentato una mozione di sfiducia. «È lui la causa dell'instabilità, non vogliamo che l'Italia venga travolta», rincara al Tg2 della sera. Le elezioni «non ci saranno», scaccia il rischio il leader del Pd e chiarisce di avere in mente un governo di larghe intese con tutte le forze che sono in Parlamento. Con Vendola? «Lui non è in Parlamento».

Monica Guerzoni

06 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_06/guerzoni-Casini-attacca-Berlusconi_c4a02c32-010e-11e0-96e9-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:26:14 pm »

L'opposizione

Pd, imbarazzo sulle firme anti-Berlusconi

Bersani: martedì proverò che l'obiettivo è raggiunto. Ma è polemica per le adesioni fasulle


ROMA - Non c'è trucco e non c'è inganno. A dar credito ai dirigenti del Pd i dieci milioni di firme ci sono tutti e martedì Pier Luigi Bersani mostrerà le prove dell'«obiettivo raggiunto». Ma ormai la storia della petizione contro Berlusconi è diventata un caso, anche al vertice del partito. È davvero possibile tirar su in un mese una così imponente valanga di autografi? E che valore hanno tonnellate di schede fitte di nomi non verificabili? L'iniziativa sarà stata pure «un grande successo», ma anche per il segretario non deve essere stato piacevolissimo scorrere sul suo sito gli elenchi dei sottoscrittori. E incappare in Fico Secco da Acqui Terme, Numa Pompilio da Roma, Herman Goering da Berlino, Zeta di Zorro da Messico City, Al Capone da Minervino Murge e via impallidendo: Hitler e Lenin, Castro e Wojtyla.

I quotidiani di centrodestra satireggiano su Bersani e le «adesioni fasulle» e dal Pd parte la controffensiva, con l'ufficio stampa pronto a giurare che i nomi taroccati sono opera degli amici del premier. «Scottati dal successo della campagna "Berlusconi dimettiti" Libero e Il Giornale attaccano con l'apposizione di firme false», si legge su Partitodemocratico.it, dove ieri la raccolta è stata sospesa per qualche ora per consentire ai tecnici di «ripulire il database».

Quante sono le firme «lo vedremo martedì» glissa il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca, il quale davvero non vede «dove sia il problema». Eppure, dai piani alti del Nazareno, un filino di imbarazzo filtra. Se non altro per quel format così libero da consentire a chiunque di imbucarsi. «Per eccesso di trasparenza abbiamo pubblicato le firme in tempo reale - derubrica lo "scandalo" Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione -. Ma l'iniziativa ha superato ogni previsione. E lo dice uno che aveva preso Bersani per pazzo, giudicando i dieci milioni un azzardo». Il dirigente dalemiano si è ricreduto «girando per i banchetti», altri giovani democratici invece sentono odore di buccia di banana.

Il vicepresidente Ivan Scalfarotto, buon conoscitore della rete, parla di errore di comunicazione: «È stata una gaffe, impiccarsi ai numeri è un esercizio sterile. Dovremmo avviare una revisione radicale della comunicazione». Ma Nico Stumpo non si stanca di snocciolare cifre. Ventimila gazebo, quattro milioni di schede inviate alle famiglie... «Sono abituato a lavorare in modo serio - smentisce leggerezze e disfunzioni il responsabile Enti locali -. Qui non si tratta di dimostrare se le firme ci sono o no, è una iniziativa politica e non una petizione legale». Ma intanto il blogger Mario Adinolfi su The Week ironizza sulla «farsa» delle firme elettroniche: «I dieci milioni non esistono, la quota realistica è cinque». Il radicale Marco Cappato abbassa ancora l'asticella e ricorda quando Berlusconi annunciò sette milioni di firme («mai viste») per buttar giù Prodi: «Per un referendum ce ne vogliono 500 mila e non bastano tre mesi».

Stumpo ammette che sì, «con i mezzi ordinari è complicato raccoglierne dieci milioni». E con i mezzi straordinari? «Abbiamo diversi milioni di firme e altri ne arriveranno, anche grazie ai moduli che i circoli hanno imbucato nelle cassette delle lettere». Il sindaco di Bari, Michele Emiliano, ha firmato e si è «sentito un po' patetico, perché Berlusconi se ne frega delle nostre firme».

E su Facebook colleziona commenti l'intervento di Stefano Menichini, uno che più democratico non si può. Il direttore di Europa teme il «boomerang», denuncia «firme inventate, nomi assurdi, nessun controllo», sospetta la «faciloneria di qualche pigro burocrate» e si augura che «qualcuno nel Pd la paghi cara». Parole che fanno infuriare Chiara Geloni, direttore di YouDem: «State attenti voi a sputtanare l'impegno di milioni di persone. Se fossero nove milioni e otto le firme vere, cambierebbe qualcosa?». Il giallo, se di giallo si tratta, sarà svelato martedì. «Bersani dovrà presentarsi col camion...» ironizzano nella minoranza. Ma il portavoce Stefano Di Traglia ridimensiona: «Dieci milioni di firme stanno in un metro cubo».

Monica Guerzoni

05 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #9 inserito:: Aprile 18, 2011, 04:54:12 pm »

La proposta di Veltroni e Pisanu convince il presidente della Camera

«Sì al governo di decantazione»

Fini e Udc si schierano. Gelo nel Pdl

Cicchitto chiude: Berlusconi ha la fiducia.

Democratici divisi, dubbi di Bersani


ROMA - È ora di fermarsi, di sospendere le risse e mettere al centro della scena il Paese. Con una lettera al Corriere l'ex segretario democratico Walter Veltroni e il senatore del Pdl Giuseppe Pisanu, uno degli uomini un tempo più vicini a Berlusconi, lanciano una proposta che fa discutere. L'idea di lasciar «decantare» la crisi dell'Italia per formare un governo di transizione che cambi la legge elettorale è respinta in blocco dal centrodestra e accolta favorevolmente dalle opposizioni. Dove pure non mancano le voci di chi ritiene difficilmente percorribile la via di un esecutivo di «decantazione».

Per stoppare sul nascere ogni ipotesi di dialogo bipartisan, il Pdl fa muro. In rapida successione Fabrizio Cicchitto, Maurizio Lupi e Sandro Bondi ricordano che Berlusconi ha la maggioranza e sostengono che un simile governo non avrebbe ragione di esistere. Era ipotizzabile se il 14 dicembre Berlusconi non avesse ottenuto la fiducia, dice il presidente dei deputati. Ma poiché «è successo esattamente l'opposto» la questione, per Cicchitto, è chiusa.

Più aperto al dialogo l'ex ministro della Cultura. «Stimo Veltroni e Pisanu - è la riflessione di Bondi - non condivido per niente le motivazioni e le proposte contenute nella loro lettera, ma reputo che prenderla in esame sia utile per elevare il tenore del confronto politico». Ma il governo di decantazione, no. Per il coordinatore del Pdl è roba da «iniziati». Carlo Giovanardi, sottosegretario con delega alla Famiglia, accusa Veltroni e Pisanu di «voler sovvertire la volontà popolare» e liquida come «stravagante» l'iniziativa: «Per fare un governo di decantazione bisognerebbe convincere tutti gli schieramenti politici, da Vendola a Di Pietro alla Lega...».

Positive invece le reazioni dell'opposizione. Gianfranco Fini approva senza riserve la lettera, «condivisibile dalla prima all'ultima parola». E il suo vice, Italo Bocchino, ritiene possibile che l'appello venga accolto dopo le amministrative: «Bisogna uscire dal tunnel e scrivere regole condivise, poi ognuno può andare per la sua strada». L'Udc non si tirerebbe indietro. Il presidente Rocco Buttiglione guarda a un «governo di unità nazionale» che faccia riforme strutturali, ma si accontenterebbe di un «rapporto tra maggioranza e opposizione diverso da quello litigioso e rancoroso che sta dilaniando e distruggendo il bipolarismo e la società italiana».

Paradossalmente, la reazione del Pd è assai più tiepida. Pier Luigi Bersani si dice pronto a discutere ogni soluzione che comporti «un passo indietro di Berlusconi e una fase di transizione», ma rivendica la primogenitura dell'idea e mostra dubbi sul tempismo della lettera: «Nel frattempo non dimentichiamo di combattere, perché Berlusconi non sembra avere intenzione di fare un passo indietro».

E Matteo Orfini, esponente della segreteria: «È una vecchia proposta del Pd, ma non mi sembra l'ipotesi più realistica».

Il vicesegretario Enrico Letta apprezza invece senza riserve, per lui il governo «è finito da tempo e bisogna aprire subito una fase nuova». Paolo Gentiloni loda «il coraggio» di Pisanu.

E Marco Follini invita a uscire dalla logica dei due blocchi: «Quando al checkpoint Charlie ci si parla o non ci si spara, è segno che il muro di Berlino prima o poi verrà giù...».

Monica Guerzoni

16 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 30, 2011, 11:27:16 pm »

IL CENTROSINISTRA

Bersani e l'Udc: ora fase costituente

Ma Di Pietro: il terzo polo? Perdita di tempo


ROMA - Il video di Pier Luigi Bersani che duella con Crozza a colpi di metafore (su La7) e si sganascia dal ridere, impazza sul web e racconta bene lo stato d'animo al quartier generale del Pd. Per prudenza i democratici parlano di «fiducia», ma in realtà è con malcelato ottimismo che si preparano all'apertura delle urne. A Milano e a Napoli confidano di vincere con largo margine, mentre a Cagliari e a Trieste si aspettano una vittoria più sofferta.

Pier Luigi Bersani si è concesso una giornata di riposo dopo il tour de force elettorale, soddisfatto per come ha condotto la campagna del Pd e convinto di aver indovinato toni e contenuti. Se le previsioni saranno confermate, a pagare sarà stato lo sforzo di concentrarsi sui problemi del territorio, senza perdere di vista la portata nazionale della sfida. «Oggi si volta pagina», spera il capo del Pd, che dopo aver sofferto per settimane la freddezza dei leader del terzo polo, sembra aver ritrovato la sintonia con Pier Ferdinando Casini.

Con il «twit» di due giorni fa, in cui il leader dell'Udc parlava di «grande avvicinamento» tra i partiti delle opposizioni, Bersani ha trovato conferma della bontà delle sue tesi. «Siamo sulla strada giusta», risponde a chi gli chiede conto dei suoi progetti sul fronte delle alleanze. La strategia non è cambiata, anzi si va rafforzando di ora in ora. E l'architrave dei piani di Bersani resta «l'apertura di una fase costituente», per unire tutte le forze democratiche che sentono l'urgenza di mandare a casa Berlusconi. A Casini non piace la «deriva» del governo e Bersani, che lo va gridando da mesi, non può che applaudire ai segnali lanciati dai centristi: dall'intervento del leader udc su Twitter alla chiusura della campagna a Macerata con Massimo D'Alema, che per primo ha teorizzato la necessità di un accordo con il terzo polo. L'Udc ha lasciato libertà di voto, ma le ultime mosse hanno chiarito come l'urgenza di Bersani di «inaugurare una nuova fase» coincida con l'ansia di Casini di «prendere atto che il quadro è cambiato». Decisioni ufficiali non ce ne saranno prima di un'accurata analisi del voto, ma il rapporto tra Casini e Bersani si sta rinsaldando. «Il risultato delle sfide nelle città non può che certificare la difficoltà spaventosa del governo - conferma l'onorevole Roberto Rao -. Questi ballottaggi sono stati il momento peggiore del peggior berlusconismo. Invece di rendersi conto degli errori li hanno acuiti...». Eppure il cammino per la costruzione dell'alternativa è ancora lungo. Se dovesse aprirsi la crisi di governo prevarrà il modello Marche, che vede Bersani a braccetto con Casini, Fini e Rutelli? O vincerà la formula che ha visto il Pd, a Milano come a Napoli, appoggiare i candidati di Nichi Vendola e Antonio Di Pietro? Il leader dell'Idv non ha dubbi: «L'asse tra Pd, Sel e Italia dei valori è più nei fatti che nelle parole. La costruzione di un'alternativa è sempre più urgente e rincorrendo il terzo polo si rischia di perdere tempo».

Di Pietro ha un piano. Sta organizzando due grandi manifestazioni per lanciare i referendum del 12 e 13 giugno e chiudere la campagna: sul palco ci saranno anche Vendola e Bersani. «Saranno due grandi eventi a Milano e a Napoli - anticipa il leader dell'Idv -. E da lì costruiremo l'embrione di una federazione tra i partiti». E se Luigi de Magistris conquisterà Napoli, Di Pietro avrà più forza per difendere al tavolo del centrosinistra la sua proposta: costruire il nocciolo duro dell'alleanza, concordare un programma condiviso e poi rivolgersi «senza preclusioni» ai centristi. L'ex magistrato ha fiutato «un'aria nuova» e anche Vendola sente che «il vento di cambiamento può diventare un ciclone». I settantamila di piazza del Duomo per Pisapia e i bagni di folla con de Magistris a Napoli, hanno convinto il presidente della Puglia che Berlusconi è sul viale del tramonto. «L'incantesimo si è rotto - incrocia le dita Vendola -. L'Italia migliore vincerà e il peggio di una lunga stagione verrà travolto».

Monica Guerzoni

30 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 08, 2011, 10:09:06 am »

Dopo l'editoriale

La ricetta Monti scuote e divide la politica

Consensi dall'opposizione. Il Pdl fa muro I sospetti Cicchitto, capogruppo del Pdl: quando i tecnici decidono di scendere in politica rischiano di dimenticare molte cose

ROMA - L'Italia governata da un «podestà forestiero». E le misure urgenti di politica economica imposte da un «governo tecnico sopranazionale» che non abita a Palazzo Chigi, ma ha «sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York». L'analisi di Mario Monti, presidente della Bocconi e già commissario europeo (1994-2004), convince gli economisti e accende il dibattito politico suscitando la reazione orgogliosa del Pdl, deciso a respingere l'immagine di un esecutivo che si fa «imporre decisioni» impopolari quanto necessarie.

Pietro Ichino, avvocato giuslavorista e senatore del Pd, trova il ragionamento di Monti «ineccepibile». Una manovra che preveda il pareggio di bilancio fra tre anni rischia di essere «come una promessa di Pulcinella». I vincoli imposti dall'Europa sono «essenziali», per evitare che il nostro Paese «esca dal campionato». E il governo tecnico sovranazionale? «Se chiediamo soldi dobbiamo essere credibili, è ridicolo e infantile protestare perché ci vengono chieste delle garanzie - concorda Ichino - Siamo inguaiati, ma venirne fuori non sarebbe difficilissimo». La sua ricetta? «Basta con l'improvvisazione e la politica dell'annuncio. Occorre coesione di fronte all'emergenza, un governo autorevole guidato da una persona che abbia idee chiare e credibilità internazionale. E Monti è la carta migliore che possiamo giocare».

Per Stefano Micossi, professore al Collegio d'Europa, se l'Italia si è ridotta così la colpa è solo nostra: «Siamo deboli perché l'economia non cresce. Ci stiamo avvicinando a una situazione nella quale le decisioni ce le faranno inghiottire altri». Con conseguente «perdita di dignità», uno dei quattro «inconvenienti» segnalati da Monti assieme al «downgrading politico», al «tempo perduto» e alla «crescita penalizzata». Micossi teme che nel governo ci sia ancora «qualcuno che pensa furbescamente di guadagnare tempo» e incita a «mettere a punto poche proposte incisive, da approvare rapidamente».

Osvaldo Napoli, Pdl, è amareggiato e stupito: «La dignità dell'Italia non è stata venduta né barattata». Ma è Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl, a rivelare quanto l'ex commissario europeo abbia colpito nel segno: «Quando i tecnici decidono di scendere in politica, rischiano di dimenticare molte cose e anche di cambiare le carte in tavola». A scatenare la crisi non è stato Berlusconi, ma la «globalizzazione priva di regole». Il premier dal 2008 ha adottato una «politica di rigore» e certo non è colpa sua se «lo tsunami finanziario colpisce tutto e tutti». Semmai il vero problema è l'euro, la cui gestione, secondo Cicchitto, «condiziona tutti gli Stati europei». Lettura contestata da Maurizio Ronconi dell'Udc, che difende Monti e attribuisce al governo la paternità della crisi. «L'analisi di Monti è puntuale e incontrovertibile», concorda Carmelo Briguglio di Fli.

Anche il senatore del Pd Enrico Morando chiede di «cambiare passo», votare al più presto la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e smetterla di minimizzare: «Come si può far finta di nulla con il quarto debito del mondo? Berlusconi prenda atto che non ce la fa e lasci spazio a un governo del presidente, che gestisca con dignità la fase che si apre». Una lettura meno pessimistica la offre il senatore Nicola Rossi, vicino a Montezemolo: «Capisco che si possa avvertire il senso dell'orgoglio nazionale ferito, ma l'intervento della Bce mi fa sentire ancor più cittadino europeo. Sarei contento se l'Unione procedesse ancora più speditamente nel darsi, su atti concreti, una reale governance economica».

Marco Follini, senatore del Pd, invita con una battuta a «passare dal podestà forestiero al sindaco italiano» e sottolinea il «paradosso» di un Paese costretto ad «appendere le nostre virtù al chiodo di una decisione straniera». Chi invece è rimasto «sorpreso» dalle tesi di Monti è l'ex ministro del Pdl Antonio Martino: «Mi sembra che contraddica un po' il suo europeismo entusiastico. La crisi è planetaria e Monti lo sa bene. Il debito Usa è stato declassato e nessuno ha detto che la colpa è di Obama». Lei lo pensa? «Si, ma nessuno si azzarda a dirlo...».

Monica Guerzoni

08 agosto 2011 07:39© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 24, 2011, 11:43:34 am »

MERCOLEDI' SI VOTA LA SFIDUCIA PER IL MINISTRO

Romano avverte il centrodestra

«Sono il leader di un partito di governo, se sarò sfiduciato cambia la maggioranza»

ROMA - Lo dice con grandissima cautela, «ragionando per ipotesi» e ricorrendo alle arti diplomatiche. Ma il senso è chiaro. «Io sono il leader di un partito politico che sostiene il governo - avverte Saverio Romano -. Con numeri diversi cambierebbe la maggioranza». I «numeri diversi» a cui il ministro dell'Agricoltura allude sono quelli di una eventuale sfiducia contro di lui. Un caso che nella storia italiana ha un solo precedente: Filippo Mancuso, l'ex Guardasigilli sfiduciato nel 1995 e morto nel maggio scorso a 88 anni.

Romano dunque non si dimette. E rilancia. Parla delle missioni che lo attendono tra la Cina e l'India e rivendica i risultati del suo primo semestre. Sulla sua testa pende come una spada la mozione di sfiducia ad personam eppure lui si dice «ottimista». La possibilità che la Camera voti le dimissioni non è «un evento nel novero delle cose possibili». L'ex centrista che un anno fa tagliò i ponti con Casini per entrare in maggioranza alla guida del Pid, quattro preziosi voti, è imputato per concorso in associazione mafiosa e rischia di essere rinviato a processo. E così convoca i giornalisti e chiede di essere giudicato per le sue azioni politiche.

La sfiducia presentata dal Pd e appoggiata da terzo polo e Idv sarà messa ai voti il 28 settembre. Romano non ha paura, nella manica sente di avere tre assi. Il primo è Berlusconi, che gli ha rinnovato «stima e fiducia». Il secondo è Bossi, il quale non lo ama però lo ha rassicurato sulla lealtà della Lega per bocca di Marco Reguzzoni: «Bocceremo la sfiducia». E il terzo asso è il regolamento della Camera. Il «verdetto» infatti non avverrà a scrutinio segreto, bensì a voto palese e per appello nominale, come per la fiducia al governo. È questa la differenza sostanziale con Marco Milanese, che ha scampato l'arresto per sei voti. Nel caso di Romano i deputati dovranno metterci la faccia, il che neutralizza i franchi tiratori.

Eppure il tema di un passo indietro «di responsabilità» non è tabù. Nei giorni scorsi tra i deputati di Pdl, Lega e «responsabili» la questione rimbalzava in questi termini: se lasciasse il posto, il governo avrebbe un (grosso) problema in meno. Non solo. La sua poltrona fa gola a tanti, la Lega ci ha rinunciato malvolentieri e certo non disdegnerebbe di ricollocarci uno dei suoi. Romano lo sa e, come è nel suo stile, ci scherza su: «Posso escludere che un ministero così ambito non possa essere accarezzato nei sogni di qualche parlamentare? Sta nelle cose. Ma la sfiducia è una cosa che non si realizzerà». Perché non lascia? «Mai nessuno mi ha chiesto di dimettermi, ho ricevuto solo incoraggiamenti».

Il libro intervista La mafia addosso , in cui spiega che i sospetti sui rapporti con Cosa nostra sono per lui «come una maglietta fradicia di sudore», è fresco di stampa. E adesso Romano, nei panni dell'avvocato di se stesso, prova a rafforzare la sua posizione con una dettagliata «relazione programmatica» sull'attività dell'Agricoltura dal 23 marzo al 23 settembre. Da quando è diventato ministro col disappunto del Quirinale (era già indagato), si è dato da fare per la terra ai giovani e l'etichettatura dei prodotti alimentari, il contrasto alle frodi e la pesca marittima, gli ogm e il tabacco italiano, il vino e i fondi comunitari... E ora, a colpi di dati e tabelle, conta di suffragare la sua tesi di fondo: «La sfiducia è una vicenda paradossale. Devo rispondere non per fatti inerenti a una attività politica, ma alla mia qualità di persona. E parliamo di vicende che risalgono a otto anni fa e che non possono inficiare l'attività svolta». Tra i fedelissimi di Romano c'è chi guarda con sospetto a Forza del Sud, ma lui smentisce: «Con Micciché ho un ottimo rapporto». La partita si giocherà sulle assenze. Alcuni leghisti potrebbero lasciare vuoti i loro scranni e così qualche esponente del Pdl, che già dovrà scontare la mancanza di Alfonso Papa (in carcere) e di Pietro Franzoso, gravemente infortunato. L'opposizione non ha i numeri, ma in giorni di tensioni fortissime nulla è scontato. Antonio Buonfiglio, uscito da Fli per entrare nel gruppo misto, ammette: «Non ho deciso». E Mimmo Scilipoti, che milita nel gruppo dei «responsabili» fondato proprio da Romano, prende tempo: «Giudicherò secondo coscienza, dopo aver letto il libro e le carte giudiziarie».

Monica Guerzoni

24 settembre 2011 08:09© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_24/romano-avverte-maggioranza-voto-sfiducia_d334fbf8-e66c-11e0-93fc-4b486954fe5e.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Settembre 27, 2011, 10:35:33 am »

MERCOLEDI' SI VOTA LA SFIDUCIA PER IL MINISTRO

Romano avverte il centrodestra

«Sono il leader di un partito di governo, se sarò sfiduciato cambia la maggioranza»

ROMA - Lo dice con grandissima cautela, «ragionando per ipotesi» e ricorrendo alle arti diplomatiche. Ma il senso è chiaro. «Io sono il leader di un partito politico che sostiene il governo - avverte Saverio Romano -. Con numeri diversi cambierebbe la maggioranza». I «numeri diversi» a cui il ministro dell'Agricoltura allude sono quelli di una eventuale sfiducia contro di lui. Un caso che nella storia italiana ha un solo precedente: Filippo Mancuso, l'ex Guardasigilli sfiduciato nel 1995 e morto nel maggio scorso a 88 anni.

Romano dunque non si dimette. E rilancia. Parla delle missioni che lo attendono tra la Cina e l'India e rivendica i risultati del suo primo semestre. Sulla sua testa pende come una spada la mozione di sfiducia ad personam eppure lui si dice «ottimista». La possibilità che la Camera voti le dimissioni non è «un evento nel novero delle cose possibili». L'ex centrista che un anno fa tagliò i ponti con Casini per entrare in maggioranza alla guida del Pid, quattro preziosi voti, è imputato per concorso in associazione mafiosa e rischia di essere rinviato a processo. E così convoca i giornalisti e chiede di essere giudicato per le sue azioni politiche.

La sfiducia presentata dal Pd e appoggiata da terzo polo e Idv sarà messa ai voti il 28 settembre. Romano non ha paura, nella manica sente di avere tre assi. Il primo è Berlusconi, che gli ha rinnovato «stima e fiducia». Il secondo è Bossi, il quale non lo ama però lo ha rassicurato sulla lealtà della Lega per bocca di Marco Reguzzoni: «Bocceremo la sfiducia». E il terzo asso è il regolamento della Camera. Il «verdetto» infatti non avverrà a scrutinio segreto, bensì a voto palese e per appello nominale, come per la fiducia al governo. È questa la differenza sostanziale con Marco Milanese, che ha scampato l'arresto per sei voti. Nel caso di Romano i deputati dovranno metterci la faccia, il che neutralizza i franchi tiratori.

Eppure il tema di un passo indietro «di responsabilità» non è tabù. Nei giorni scorsi tra i deputati di Pdl, Lega e «responsabili» la questione rimbalzava in questi termini: se lasciasse il posto, il governo avrebbe un (grosso) problema in meno. Non solo. La sua poltrona fa gola a tanti, la Lega ci ha rinunciato malvolentieri e certo non disdegnerebbe di ricollocarci uno dei suoi. Romano lo sa e, come è nel suo stile, ci scherza su: «Posso escludere che un ministero così ambito non possa essere accarezzato nei sogni di qualche parlamentare? Sta nelle cose. Ma la sfiducia è una cosa che non si realizzerà». Perché non lascia? «Mai nessuno mi ha chiesto di dimettermi, ho ricevuto solo incoraggiamenti».

Il libro intervista La mafia addosso , in cui spiega che i sospetti sui rapporti con Cosa nostra sono per lui «come una maglietta fradicia di sudore», è fresco di stampa. E adesso Romano, nei panni dell'avvocato di se stesso, prova a rafforzare la sua posizione con una dettagliata «relazione programmatica» sull'attività dell'Agricoltura dal 23 marzo al 23 settembre. Da quando è diventato ministro col disappunto del Quirinale (era già indagato), si è dato da fare per la terra ai giovani e l'etichettatura dei prodotti alimentari, il contrasto alle frodi e la pesca marittima, gli ogm e il tabacco italiano, il vino e i fondi comunitari... E ora, a colpi di dati e tabelle, conta di suffragare la sua tesi di fondo: «La sfiducia è una vicenda paradossale. Devo rispondere non per fatti inerenti a una attività politica, ma alla mia qualità di persona. E parliamo di vicende che risalgono a otto anni fa e che non possono inficiare l'attività svolta». Tra i fedelissimi di Romano c'è chi guarda con sospetto a Forza del Sud, ma lui smentisce: «Con Micciché ho un ottimo rapporto». La partita si giocherà sulle assenze. Alcuni leghisti potrebbero lasciare vuoti i loro scranni e così qualche esponente del Pdl, che già dovrà scontare la mancanza di Alfonso Papa (in carcere) e di Pietro Franzoso, gravemente infortunato. L'opposizione non ha i numeri, ma in giorni di tensioni fortissime nulla è scontato. Antonio Buonfiglio, uscito da Fli per entrare nel gruppo misto, ammette: «Non ho deciso». E Mimmo Scilipoti, che milita nel gruppo dei «responsabili» fondato proprio da Romano, prende tempo: «Giudicherò secondo coscienza, dopo aver letto il libro e le carte giudiziarie».

Monica Guerzoni

24 settembre 2011 08:09© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_24/romano-avverte-maggioranza-voto-sfiducia_d334fbf8-e66c-11e0-93fc-4b486954fe5e.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Novembre 07, 2011, 09:01:13 am »

IL GoVERNO - I NUMERI

I ribelli si organizzano, il gruppo è pronto

Dentro anche deputati di Mpa e Api.

Premier in pressing: Antonione, Bertolini e Stracquadanio vacillano?


ROMA - «Il premier è stato molto affettuoso». Allora è vero onorevole Roberto Antonione, Berlusconi ha recuperato anche lei... «E chi lo dice? Al presidente ho detto che deve fare un passo indietro se non vuole andare incontro a un suicidio politico che sarebbe l'omicidio del Paese». Quindi non è vero che voterà la fiducia? «Stando così le cose non la voto. Ma se il premier allarga la maggioranza...». Il leader dei ribelli dell'Hotel Hassler apre uno spiraglio al capo del governo. La sconfitta è nell'aria, ma l'ultima parola non è ancora detta.

Berlusconi ha chiamato dissidenti e incerti uno per uno e con tutti è stato affettuoso e comprensivo. Nella maggioranza si respira un'aria da fine di Pompei, eppure c'è anche chi non ha perso le speranze, confortato dalle dichiarazioni prudenti di alcuni deputati che si erano mostrati decisi a non votare la fiducia. Nulla è scontato e le buone notizie si alternano con le cattive. È vero che Berlusconi ha «riacciuffato» tre pecorelle smarrite e le ha ricondotte all'ovile? La prima sarebbe Antonione, la seconda Isabella Bertolini e la terza Giorgio Stracquadanio. Il fondatore del Predellino online, che si professa innamorato perso di Berlusconi, conferma che il premier si è convinto di averlo «fatto rientrare nei ranghi». È andata così. Stracquadanio, che ancora milita nel Pdl e che ha votato tutte le fiducie, ha chiamato al telefono Gianni Letta e gli ha detto di essere «furibondo come un puma» per le parole del capo del governo, da Cannes, contro i «traditori».

Si racconta che l'onorevole abbia anche pianto al cellulare mentre spiegava al sottosegretario perché ha firmato la lettera dei sei dissidenti dell'Hotel Hassler: «Il presidente sta perdendo il senso delle cose... Se ci tratta da topi roditori noi gli mordiamo la mano». Alle otto di sera di venerdì Letta richiama Stracquadanio e gli passa un «molto disponibile» Cavaliere: «Caro Giorgio, non ce l'avevo con te quando ho attaccato gli scontenti, ma se ci tieni rettifico». E Stracquadanio: «Non voglio una rettifica, voglio che lei riprenda il comando e voglio parlare con lei dal vivo. Forse potrei darle un dolore, ma le chiedo solo attenzione. Poi lei deciderà e io deciderò». Si vedranno martedì alle 11,30 prima del voto sul rendiconto e Berlusconi ha promesso che gli dedicherà un'ora intera. Il problema del premier sono più che mai i numeri. Verdini gli ha detto che la maggioranza è a quota 306 e che può precipitare fino al 300. E che solo i sei radicali potrebbero risollevare la situazione. Martedì i deputati di Pannella e Bonino vedranno Bersani e all'ultimo minuto faranno sapere cosa hanno deciso: sulle misure chieste dall'Europa potrebbero anche votare sì, mentre sono orientati a dire no alla fiducia. A preoccupare il premier sono le parole dell'ex finiano Adolfo Urso che gli chiede di «lasciare a un nuovo esecutivo».

Ma c'è dell'altro, ci sono le forti sollecitazioni dell'Udc verso i pidiellini Franco Stradella, Enrico Pianetta e Gerardo Soglia, e ancor più le grandi manovre al centro, dove martedì stesso potrebbe vedere la luce un nuovo gruppo. Nelle intenzioni dei fondatori dovrebbe essere un gruppo vero, con venti deputati. Ci sarebbe già il nome: «Popolari liberali e riformisti». Ne farebbero parte Antonione, Giustina Destro, Fabio Gava, Calogero Mannino e Santo Versace. E poi Luciano Sardelli e Antonio Milo. Si parla anche di Giorgio La Malfa e Pippo Gianni, ma a far decollare il gruppo sarebbero i quattro dell'Mpa e i cinque deputati dell'Api, Bruno Tabacci in primis. Ne mancherebbero due e gli scissionisti corteggiano Stracquadanio e Isabella Bertolini. Un gruppo gemello di dieci senatori sarebbe già pronto al Senato, capogruppo in pectore il pisaniano Ferruccio Saro.

da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_06/I-ribelli-si-organizzano-il-gruppo-e-pronto_ce765c60-0854-11e1-8af3-7422a022c6dd.shtml

M. Gu.
06 novembre 2011 13:19© RIPRODUZIONE RISERVATA
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