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Autore Discussione: MONICA GUERZONI. -  (Letto 40565 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Aprile 16, 2014, 06:10:03 pm »

Macché Ncd, siamo seri»
Forza Italia: in crisi anche Sandro Bondi

La compagna Manuela Repetti: «Non si riconosce più»


di Monica Guerzoni

«Andare con il partito di Alfano? Fantascienza...». Sandro Bondi ha riempito un piccolo trolley ed è tornato a Roma, dopo una lunga fase di eremitaggio nella dimora di Novi Ligure. Ma non per traslocare nel Nuovo centrodestra, no. Nella Capitale il senatore è atterrato ieri sera per approvare le liste di Forza Italia, da amministratore nazionale azzurro che ha spedito giorni fa una lettera di dimissioni: respinte. La sua firma è un passaggio cruciale, senza il quale le aspirazioni europee dei vari Toti, Fitto, Tajani, Gardini o Micciché resterebbero inafferrabili miraggi.

Bondi firmerà. Sia pure con animo «tormentato, travagliato, angosciato». Il suo silenzio da anacoreta, che dura da mesi, certifica l’amarezza e il progressivo distacco da un partito che è stato a lungo, per l’ex ministro, autentica ragione di vita. «È deluso da Forza Italia e dalla politica in genere», risponde al cellulare la senatrice Manuela Repetti alle 18.20, con il marito seduto al suo fianco sull’aereo che li porterà a Roma. Sconvolto dall’addio del portavoce di Berlusconi? «Appartato, amareggiato. Però no, Paolo Bonaiuti non c’entra... Diciamo che Sandro è deluso, quanto sereno. Dopo vent’anni si è stancato e ha tirato i remi in barca». Il fondatore lascia? «Non si riconosce più in questo partito e ha scelto di rimanerne fuori. In pratica si è ritirato, non va in Senato da novembre, dopo la scissione... È una scelta di vita. Riservatezza, rigore, serietà».

Bondi è lì accanto, ascolta la sua metà parlare di lui e tace. Un silenzio che è una via libera alle dichiarazioni della compagna: «Abbiamo scelto di stare un po’ fuori». Fuori da Forza Italia e dentro al Nuovo centrodestra? «Ma per cortesia, noi con Alfano? Nemmeno in cartolina! Siamo persone serie e coerenti e avendo dato un giudizio severo sullo strappo di Alfano in un momento molto delicato per il presidente, non cambiamo idea. Non abbiamo rapporti nel Ncd, ci salutiamo e basta». Saluti che alimentano illazioni e interpretazioni e raccontano di un Bondi «vittima» della Grande Epurazione (anche lui) da parte del «cerchio magico» di Berlusconi, dentro il quale si muovono da padroni Giovanni Toti, Francesca Pascale, Maria Rosaria Rossi.

«Sandro è fuori da tutto, fuori da cordate e fuori da cerchi magici» riprende il filo Repetti, mentre le porte dell’aereo si chiudono e quel che resta di Forza Italia sembra crollare. «Però resta vicino al presidente, al di là della politica. Anche se fisicamente si tiene fuori gli dà una mano, psicologicamente...». Un sostegno immateriale, quasi da consigliere spirituale: «Se Berlusconi ha bisogno di un parere, Sandro c’è. Gli italiani guardano ancora al presidente, ma è chiaro che nel partito c’è incertezza. Ci sono scossoni, destabilizzazioni, c’è un grande smarrimento. Il vento antieuropeista ridimensionerà i partiti tradizionali, eppure io sono convinta che Forza Italia alle Europee farà un buon risultato». Nel caos della politica, i coniugi Bondi hanno intravisto una luce: quella di Palazzo Chigi. Due mesi fa, intervistato dal Corriere , il senatore che fu comunista lasciava cadere un consiglio che Renzi sembra aver accolto alla lettera: «Matteo ha un solo modo per salvarsi dalle sabbie mobili della politica italiana, deve correrci sopra. Dev’essere velocissimo. Solo così non verrà risucchiato».

Le giornate nella casa di Novi Ligure scorrono lente. Bondi legge, scrive versi. Cerca affannosamente un senso alla lenta diaspora di Forza Italia, un ordine alla «realtà orribile» da cui ha preso distanza. Dicono sia rimasto molto male anche per l’abbandono di Marinella, la storica segretaria di Berlusconi. A lei il Bondi poeta dedicò, negli anni d’oro di Forza Italia, questa breve lirica: «Muto segreto / inconfessata attesa / desiderata armonia / inavvertita fortezza / sospirata carezza d’amore».

15 aprile 2014 | 07:30
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_15/travaglio-sandro-bondi-che-preferisce-poesia-a5b03b80-c45d-11e3-9713-8cc973aa686e.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Giugno 10, 2014, 11:34:25 am »

I renziani e l’effetto inchieste: «Ora rottamare i quadri locali»
Guerini: le sconfitte bruciano, ma siamo cresciuti.
Via alla riorganizzazione del partito sul territorio

Di Monica Guerzoni

Quella «stanchezza» che contagia gli elettori ai ballottaggi, Matteo Renzi l’aveva prevista. Il premier aveva messo nel conto il crollo dell’affluenza, ma certo non si aspettava che il terremoto giudiziario veneziano avrebbe avuto un tale impatto sul secondo turno, guastando con un tocco amaro il sapore della vittoria di maggio. Da ieri notte sulla roccaforte rossa di Livorno, che fu la «culla del Pci», sventolano i vessilli del M5S. «Una ferita», titola L’Unità. Il Pd è sconfitto a Urbino e Civitavecchia e perde due forzieri di voti come Perugia e Potenza. L’effetto-Renzi è mancato anche a Padova, conquistata dalla rinata alleanza tra Lega e Forza Italia.
«Siamo amareggiati per Livorno - ammette a caldo il vicesegretario Lorenzo Guerini -. Le sconfitte bruciano, ma il Pd è passato da 15 a 19 capoluoghi amministrati». Hai voglia a dire che i Comuni al ballottaggio erano pochi e che, dunque, il valore nazionale della competizione è scarso... La frenata del Pd c’è stata e le conseguenze arriveranno presto. Quando tornerà dalla missione tra Vietnam e Cina, Renzi metterà la testa sui problemi del territorio e i suoi prevedono una rivoluzione che fa rima con rottamazione. «Ci vuole gente nuova, anche nelle città» è il leitmotiv intonato ieri notte dai renziani del giro ristretto. «La rottamazione è solo iniziata», conferma Francesco Nicodemo.

Guerini assicura che la polemica tra vecchia e nuova guardia non ha avuto ripercussioni sulla campagna elettorale, né effetti sul risultato: «Si sono impegnati tutti, vecchi e nuovi». Eppure il tema aleggia. Di chi sono gli aspiranti sindaci sconfitti? «Renziani non sono», rispondono nell’entourage del leader buttando la croce sulla sinistra del Pd. L’arresto di Giorgio Orsoni a Venezia ha diviso i «dem», già provati dai fatti dell’Expo e dall’arresto del deputato siciliano Francantonio Genovese per associazione a delinquere. Ma, anche qui, Guerini smentisce che i ballottaggi siano stati un test sulla tenuta di Renzi dopo gli scandali: «Il Mose non c’entra nulla».

Sfumato l’en plein, niente foto di gruppo al Nazareno. I dirigenti hanno atteso i risultati nei vari comitati, su e giù per l’Italia. E anche Stefano Bonaccini parla di «amarezza per le sconfitte a Perugia, Padova e Livorno». I numeri intaccano lo straordinario risultato del 25 maggio, quando le Europee hanno consentito a Renzi di trainare il Pd anche nei comuni. Alfredo D’Attorre cerca il termine giusto: «È un cappottino... Il Pd amministrava 14 Comuni capoluogo, ora siamo a 20 su 28».

A Livorno il M5S ha giocato duro ed è riuscita a spingere i Democratici verso l’autogol, in una città simbolo per la sinistra da sempre. Le liti fra correnti hanno indebolito il Pd locale e bruciato candidati anche validi. Renzi ha scelto di non farsi vedere al secondo turno in nessuna piazza d’Italia e così a Livorno, in rappresentanza del leader, sono andati Lotti e Nardella. Risultato: il candidato di Grillo, in asse con la sinistra-sinistra, si è preso la città umiliando Marco Ruggeri, primo candidato sindaco nella storia della sinistra livornese ad aver subìto l’onta dello spareggio e poi della débâcle. «Sconfitta pesante - ammette deluso - Ci saranno riflessioni e fortissimi cambiamenti da fare».

Per riorganizzare e svecchiare il partito anche sul territorio, Renzi ha affidato a Guerini il compito di avviare una ricognizione campanile per campanile, con l’obiettivo di dirimere contrasti e spazzar via correnti. Anche a Modena il Pd ha tremato. Nella città della Ghirlandina, dove la sinistra aveva sempre vinto al primo turno, il colore rosso sembrava essersi scolorito. Gian Carlo Muzzarelli, braccio destro del «governatore» bersaniano Vasco Errani, ha dovuto lottare fino all’ultimo per trionfare sul grillino Marco Bortolotti. A Padova invece, dove i venti burrascosi del Mose soffiano forte, il leghista Massimo Bitonci ha avuto facile gioco nel finale di partita, potendo mettere in carico all’ex sindaco reggente Ivo Rossi i «legami del Pd con gli arrestati». A Bergamo, per portar via la poltrona al sindaco Franco Tentorio, Giorgio Gori si è visto costretto a combattere contro i tabù della sinistra, che gli rimprovera di aver lavorato a Mediaset. A Bari, infine, la vittoria di Antonio Decaro era già scritta nei 24 mila voti di scarto con Domenico Di Paola, il candidato del centrodestra. «Abbiamo battuto in maniera sonora Fitto e tutto quel che rimane del centrodestra», esulta Michele Emiliano.

9 giugno 2014 | 08:13
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DA - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_09/i-renziani-l-effetto-inchieste-ora-rottamare-quadri-locali-f788ade8-ef9b-11e3-85b0-60cbb1cdb75e.shtml
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« Risposta #47 inserito:: Giugno 10, 2014, 07:40:23 pm »

Il retroscena

Uno parla di «spine», l’altro chiede una «riflessione profonda»
Le critiche di Bersani e Letta Il voto riapre le ferite nel Pd
E l’ala sinistra vuole una «rigorosa analisi» dei risultati

Di Monica Guerzoni

ROMA - Se la vittoria storica del 25 maggio aveva pacificato il partito e silenziato i capicorrente, il risultato in chiaroscuro dei ballottaggi riapre antiche ferite e rianima la minoranza. Il tentativo di alcuni renziani di spaccare il Pd tra nuova guardia che vince e vecchia guardia che perde ha colpito nell’orgoglio l’ala sinistra del partito, che ora chiede a Matteo Renzi una riflessione profonda sulla natura del partito e sulla gestione delle realtà locali. All’ultima direzione il silenzio dei «big» rottamati era stato assordante, ieri invece si sono fatti sentire uno dopo l’altro, per rimarcare quanto dolorosa sia stata la perdita di storiche roccaforti e sottolineare, più o meno esplicitamente, che il Pd ha un problema a sinistra. «Ci sono delle spine - chiede di studiare “a fondo” la situazione Pier Luigi Bersani - e Livorno è una di queste». Dove il non detto, per i bersaniani, è che dove la sinistra non va a votare il Pd perde.

Persino Enrico Letta, che non era mai intervenuto nel dibattito politico nazionale dalla traumatica staffetta con Renzi, a margine di un seminario a Pisa ha commentato il dato meno felice dei ballottaggi: «La sconfitta del Pd a Livorno merita una riflessione profonda, perché del tutto inattesa». E Perugia, Padova, Potenza? L’ex premier non entra nel merito delle sconfitte incassate dal suo partito, ma da toscano insiste su Livorno: «È la sconfitta più clamorosa e non solo per il suo valore simbolico, per questo credo che necessiti di una riflessione nazionale».

Parole che suonano molto distanti dalla posizione di Renzi, che dal Vietnam ha definito «straordinario» il risultato. Anche questa volta il premier tira dritto sulla via della rottamazione e non si volta indietro. «Dove non abbiamo creato cambiamento abbiamo perso - è il ragionamento che ha condiviso con i suoi -. Paghiamo un prezzo dove siamo stati individuati come un partito strutturalmente al potere». Per lui non esistono città «rosse» e non esistono roccaforti: il voto di domenica dimostra che le rendite di posizione non valgono più e che il Pd i voti deve andarseli a cercare di volta in volta, anche a destra e senza puzza sotto il naso. Una strategia molto distante da quella che la minoranza ex diessina ha portato avanti per anni.

L’ala sinistra chiede di affrontare già nell’assemblea di sabato una rigorosa analisi del voto e contesta l’approccio dei renziani, i quali insistono nel buttare la croce sulle spalle della vecchia guardia. Dario Nardella, sindaco di Firenze, la mette così: «Il risultato negativo si è verificato nelle città dove il Pd non si è rinnovato». Giudizi che Gianni Cuperlo contesta con forza. In un post accorato su Facebook scrive che «alcune ferite pesano e bendarsi gli occhi è ingiusto» e si dice colpito da alcuni commenti dei renziani: «Davvero c’è chi pensa si possa dire che si vince dove il corso renziano si è fatto strada e si perde altrove?
E quale sarebbe la vecchia guardia da rottamare?». Marco Ruggeri, il «dem» sconfitto a Livorno, «ha l’età di Renzi» ricorda l’ex sfidante delle primarie, Wladimiro Boccali (Perugia) ne ha poco più di 40 e quando si perde «la prima cosa da fare non è preoccuparsi di dire che ha perso “uno degli altri”».

Al Nazareno assicurano che le reazioni a catena innescate dai ballottaggi non avranno ripercussioni sulla nuova segreteria a gestione unitaria, la cui composizione Renzi annuncerà entro sabato. Eppure i nomi ballano. Prima di indicare le sue scelte Cuperlo aspetta un incontro con Renzi. Uno dei nodi è che il leader non vuole in squadra chi ha fatto parte della segreteria di Bersani, come Nico Stumpo o Matteo Orfini. Anche la questione della presidenza si è riaperta. La lettiana Paola De Micheli, partita favorita, sa che niente è ancora deciso: «Sono una donna di partito, il resto lo vedremo...». E anche l’ipotesi che il successore di Cuperlo possa essere una figura forte della sinistra ex ds come Nicola Zingaretti, appare adesso più lontana.

10 giugno 2014 | 07:28
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2014/elezioni-europee/notizie/critiche-bersani-letta-voto-riapre-ferite-pd-f4fa6198-f05e-11e3-9b46-42b86b424ff1.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Agosto 12, 2014, 06:31:10 pm »

«Faticoso, ma siamo stati più forti Nessun inciucio con Forza Italia»
Boschi: aperti al confronto, l’impianto però non si tocca. Gli 80 euro funzionano. Lo dico perché prendo i treni regionali e faccio la spesa nello stesso supermercato

di Monica Guerzoni

ROMA - «È stato molto faticoso...».
La riforma è passata con 183 voti. Poteva andare meglio, ministro Boschi?
«È andata molto bene. È stata approvata l’8 agosto, nei tempi previsti. È stato faticoso, ma abbiamo mantenuto l’impegno».

Davanti a 8.000 emendamenti ha mai temuto di non farcela?
«Quando ci sono processi di cambiamento così grandi possono esserci critiche e contrasti. Senza contrasti non c’è progresso. In questo caso però le opposizioni non hanno perso una battaglia, hanno perso una occasione».

Vuol dire che ha vinto lei? Ha vinto il governo Renzi?
«Non è una vittoria mia o di quei ragazzacci del governo. Questa importante riforma è frutto di un lavoro che ha coinvolto tutti, senatori, relatori, esperti e ricercatori. I tecnici del mio ministero sono stati straordinariamente bravi e se la politica ha dimostrato di saper riformare se stessa è un successo dei senatori, prima di tutto. Si sono mostrati più interessati al futuro delle istituzioni che alla loro ambizione personale».

È un grazie ai senatori della maggioranza che si sono rottamati da soli?
«È un grazie a chi ha creduto nel cambiamento. C’era la possibilità di confrontarci nel merito e le opposizioni non l’hanno colta. Quando Chiti propose di prendere tempo fino a settembre, noi eravamo d’accordo. Sono state le opposizioni a rifiutare, scegliendo l’ostruzionismo a oltranza. Per fortuna, noi siamo stati più forti».

Gli abbracci con gli esponenti di Forza Italia sono la prova dell’«inciucio» con Berlusconi?
«Sono stati baci e abbracci bipartisan, di soddisfazione per il risultato raggiunto assieme. Ho ringraziato tutte le persone che hanno collaborato con impegno a questo processo di riforma, Finocchiaro, Zanda, Sacconi, Quagliariello, Romano, Susta, Romani... Non c’è nessun inciucio, c’è un accordo su un serio lavoro di riforme alle quali Forza Italia ha contribuito».

Berlusconi e Verdini sono in maggioranza?
«Forza Italia sta con noi sulle riforme e non al governo, è saldamente all’opposizione. Stiamo scrivendo le regole insieme per non dovere mai più dar vita alle larghe intese. Le scelte in campo economico, come la misura degli 80 euro, sono della maggioranza e non dell’opposizione» (equilibri alla Camera: i numeri di maggioranza e opposizioni).

I numeri non la preoccupano? La riforma del Senato è passata con 183 voti, quando la maggioranza istituzionale ne conta circa 230.
«La maggioranza istituzionale estesa a Forza Italia regge benissimo. Ovviamente altro discorso è il sostegno al governo. Non c’è la possibilità che FI entri al governo, siamo due mondi separati».

Settembre nero in arrivo?
«A settembre faremo tante riforme importanti e c’è la forza politica per approvarle. Pubblica amministrazione, giustizia, lavoro, sblocca Italia... La vera sfida dell’autunno è l’abbinata Scuola-Cultura, un fronte che vede impegnato in prima persona il premier, così come ha fatto da sindaco a Firenze. Quanto a me ho anche la responsabilità dei decreti attuativi da gestire. Abbiamo già fatto un buon lavoro che ha portato dai quasi 900 ereditati dai precedenti governi ai 530 attuali. E si può fare di più».

I dati della recessione dicono che era meglio cominciare con le riforme economiche?
«Stiamo facendo tutto assieme, come dimostra il decreto legge degli 80 euro ci sono le misure sul lavoro che hanno portato a 108 mila occupati in più negli ultimi due mesi».

Se dovevano servire a rimettere in moto la crescita, pare non abbiano funzionato.
«Io credo di sì e lo dico perché continuo a prendere i treni regionali per andare a casa dai miei, continuo a fare la spesa nello stesso supermercato. La realtà della gente comune è diversa da quella che raccontano i giornali. C’è molta più speranza che paura nel Paese e settembre lo dimostrerà».

I dati dello spread o del Pil non sono un’invenzione dei giornali.
«Abbiamo lavorato a un pacchetto di riforme complessivo, anche in ambito economico. Ma la riforma costituzionale serve a dimostrare che la politica è in grado di cambiare se stessa e ha la forza per affrontare le altre sfide che ci attendono».

Ci sono state pressioni su Pietro Grasso?
«L’ho ringraziato per il lavoro complicato e difficile, visto il clima dell’Aula. Alcune decisioni del presidente non sono piaciute alle opposizioni e altre alla maggioranza, per alcuni aspetti ha scontentato tutti, il che vuol dire che ha cercato di svolgere il suo ruolo preservando equilibrio e terzietà».

E l’emendamento con cui Calderoli ha provato a dimostrare che Renzi vuole andare al voto?
«Una simpatica provocazione ai senatori. I mille giorni confermano la volontà di andare avanti con determinazione e fino in fondo».

A ottobre la riforma del Senato sbarca alla Camera. Cercherete di far passare il testo così com’è?
«Restiamo aperti al dialogo e al confronto, sempre che le opposizioni accettino di lavorare in un clima di maggiore serenità. Con l’ostruzionismo fine a se stesso diventa tutto più difficile, perché non possiamo bloccare il percorso delle riforme».

Se ci saranno migliaia di emendamenti chiamerete in soccorso il canguro di Grasso?
«Gli strumenti parlamentari li deciderà la presidenza della Camera. E comunque, vedremo quale sarà il comportamento delle opposizioni. Si può sempre cambiare, non fermarsi».

E se venissero messi in discussione i pilastri della riforma?
«Valuteremo eventuali aspetti da cambiare, come le norme passate a voto segreto che però non intaccano i principi fondamentali della riforma. L’impianto regge, è stato votato da una maggioranza molto ampia e non si tocca. Il dialogo con noi non è mai mancato e proseguirà, sperando che i deputati affrontino la riforma in un clima rinnovato, di maggiore collaborazione».

La platea che elegge il capo dello Stato si può ampliare? E cosa prevede su immunità ed elettività?
«È prematuro. Vedremo se alla Camera alcuni punti verranno messi in discussione. Al Senato abbiamo fatto 4.000 votazioni e la maggioranza ha sempre tenuto, tranne che in un paio di voti segreti. Alla Camera c’è una maggioranza estesa, io sono tranquilla. Non avremo problemi di numeri».

I dissidenti dicono che avete rischiato inutilmente, visto che il Senato elettivo aveva una maggioranza potenziale dell’80% dell’Aula.
«Se fosse così gli emendamenti di Minzolini e altri sarebbero passati... Non è che puoi fare l’elezione diretta e lasciare invariato tutto il resto. È legittimo che alcuni propongano modelli diversi, ma perché avremmo dovuto accettare l’aut-aut delle opposizioni, che non avevano la maggioranza in Senato?».

I due terzi però non ci sono. È sicura che vi convenga andare al referendum? La riforma di Berlusconi del 2005 fu bocciata dai cittadini.
«Abbiamo preso l’impegno di dare l’ultima parola ai cittadini, non per calcolo ma perché ci sembrava giusto. Non è detto che la nostra riforma avrà la stessa sorte di quella del 2005, perché è diversa. Decideranno gli italiani. È il miglior modo per respingere false accuse di autoritarismo».

Nella legge elettorale ci saranno le preferenze?
«Vedremo se mantenere i collegi o introdurre le preferenze. Il testo della Camera è un buon punto di partenza, al Senato valuteremo. Ma volendo ci sono i numeri per chiudere rapidamente, se c’è la volontà di farlo. Noi andiamo avanti, molto fiduciosi».

10 agosto 2014 | 08:38
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_10/faticoso-ma-siamo-stati-piu-forti-nessun-inciucio-forza-italia-a93861d8-2056-11e4-b059-d16041d23e13.shtml
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« Risposta #49 inserito:: Ottobre 30, 2014, 12:28:43 pm »

L’intervista
«Scissione? Sarebbe colpa di Matteo»
Cuperlo: ora la sinistra ha il dovere di organizzarsi per un nuovo inizio Per intervenire alla Leopolda bisogna inviare il testo, Togliatti era più liberale

Di Monica Guerzoni

ROMA Gianni Cuperlo, per il premier la sinistra di piazza San Giovanni è roba da museo delle cere.
«Io non ho nostalgia di nulla, ma un partito deve dire con chi sta e per chi si batte».
La piazza dei «reduci» e la Leopolda dei «pionieri», per dirla con Renzi, prefigurano due diversi partiti?
«Ho più rispetto io per la Leopolda di quanto non ne abbia mostrato Renzi verso i lavoratori e i giovani che hanno riempito San Giovanni. Però mi sembra che da quel palco Renzi osservi il mondo con i google glass. È la scelta di un mondo parallelo depurato da rabbia, paura, speranza».
Non sono i leopoldini a coltivare la speranza?
«Nell’impianto della Leopolda c’è un’idea della politica dove l’impulso del leader prevale sulla forza del diritto. Però questa non è concretezza, è una radice del populismo».
Renzi populista?
«Quando usa l’articolo 18 e dice che parlare delle norme che tutelano dal licenziamento è come voler mettere un gettone nell’iPhone, offende il milione di persone che hanno riempito le vie di Roma. Questo non va bene. Il punto è se tu, per uscire dalla crisi più grave del secolo, lavori per unire il Paese e non per dividerlo».
Il premier spacca il Paese?
«Descrivere la piazza come quelli che girano col telefono a gettoni è non capire che usciremo da questa crisi solo tutti assieme e non l’impresa contro il lavoro, una generazione contro l’altra, il Nord contro il Sud. Chi guida il Paese dovrebbe unirlo, non denigrarlo».
La scissione è in atto?
«Io voglio innovare il Pd e per questo voglio correggere una linea dai riflessi antichi. La scissione sarebbe una sconfitta del progetto nel quale abbiamo creduto e sta a tutti evitare di precipitare lì, ma è chiaro che Renzi ha una responsabilità enorme».
Vuole spingervi fuori?
«Spero non sia così, ma il premier non può spezzare il filo che lega milioni di italiani a una speranza che nasce. La sinistra da immaginare vivrà dentro parole come dignità, diritti umani globali e non nel mito di un futurismo senza visione».



Si sente a casa nel Pd del finanziere Davide Serra?
«Se il Pd diventa quello di chi dice che bisogna mettere dei paletti al diritto di sciopero, il Pd non esiste più. La sinistra è di fronte a una prova decisiva. Ho chiesto a Renzi “che cos’è la Leopolda?” e non mi ha risposto. E se è vero che per intervenire bisognava inviare il testo scritto agli organizzatori, il partito di Togliatti era una avanguardia di liberalismo. A proposito di innovazione...».
Leopolda partito parallelo?
«Con Renzi il Pd rischia di diventare una confederazione e in un modello simile le diverse culture hanno il dovere, non il diritto, di organizzarsi. Il congresso è finito, c’è un’altra storia tutta da scrivere. La sinistra deve porsi questa sfida e io la vivo come un nuovo inizio. Se la Leopolda è una corrente organizzata attorno al premier è evidente che si organizzerà anche un’altra parte, che non è nostalgica del passato, ma che ha un’altra idea di modernità».
L’area di Bersani ci sta?
«Io so che questa è l’esigenza che abbiamo oggi. Io ho cominciato a farlo con SinistraDem, ma la sfida riguarda tutti in un campo aperto».
Per tornare al 25 per cento?
«No, il punto è che dividendo il Paese è Renzi che quel 40% rischia di sciuparlo. Per rimanere lassù c’è bisogno di una sinistra completamente ripensata, che non può liquidare il popolo di San Giovanni come arnese di un passato duro a morire».
L’articolo 18 è la coperta di Linus della sinistra?
«Il nodo è come assumere, non come licenziare. Serve un patto sociale per la crescita e su questo terreno quel popolo è pronto a fare la sua parte. La piazza di sabato parlava anche con le lacrime di chi non ce la fa più. Chi liquida quel mondo morale come un vizio del passato offende il popolo senza il quale il Pd cessa di esistere e nasce un’altra cosa. Io mi batto perché non accada».
Se il Jobs act non cambia, lei vota la fiducia o se ne va?
«Intanto mi batto perché quella delega cambi. La voglio più coraggiosa. Se poi il testo dovesse rimanere quello uscito dal Senato, per me si aprirebbe un problema di coscienza. Così com’è non lo condivido».

27 ottobre 2014 | 10:18
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_27/scissione-sarebbe-colpa-matteo-78578e90-5db9-11e4-8541-750bc6d4f0d9.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Novembre 26, 2014, 05:26:28 pm »

Bindi: si torni all’Ulivo o noi usciamo Matteo ha deluso, è già in caduta
L’esponente della sinistra: se il Pd non cambia ci sarà bisogno di una nuova forza.
Renzi? Fa il salvatore della patria come Grillo, Salvini e il Berlusconi dell’esordio

Di Monica Guerzoni

ROMA «Non ci siamo divisi...».
La minoranza si è spaccata in tre, presidente Rosy Bindi.
«Gli obiettivi di chi ha votato no e di chi ha lasciato l’Aula, come me, erano gli stessi. Marcare la distanza netta da un provvedimento che, eliminando il diritto al reintegro, considera il lavoro come una merce».

L’indennizzo non basta?
«È un passo indietro profondo, secolare, rispetto alla dignità del lavoratore richiamata dal Papa. Oltre a non condividere il merito io ho voluto prendere le distanze dal messaggio che il premier ha costruito in questi mesi. Le sue parole hanno scavato un solco tra il governo, il segretario del Pd e il mondo del lavoro, la parte più sofferente dell’Italia. Abbiamo visto la delegittimazione del sindacato e una provocazione davvero lontana dalla situazione reale degli italiani».

Pensa che l’astensionismo nasca da qui?
«Tra Emilia e Calabria il Pd ha perso 750 mila voti. Se alle Regionali avessero votato gli stessi elettori delle Europee dovremmo dire che oggi il Pd è tornato al 30%, un numero più vicino al 25 di Bersani che non al 41 di Renzi».

L’astensionismo è ininfluente, secondo lui.
«Affermazione molto grave. L’astensionismo è un problema per la democrazia di un Paese, per il Pd e anche per il governo. Il premier ha fatto campagna in prima persona e ha lanciato dal podio dell’Emilia uno dei messaggi piu gravi quando ha detto che lui crea lavoro, mentre il sindacato organizza gli scioperi. Con le Regionali Renzi si è unito ai tanti salvatori della patria a cui gli italiani amano affidarsi, per poi sperimentare la cocente delusione».

Rimpiange Enrico Letta?
«Il paragone non è con Letta. È con Grillo, con Salvini, con il Berlusconi dei primi anni. La rottura della politica col Paese reale è profonda e sembra rimarginarsi quando gli italiani si affidano al salvatore di turno, per poi delusi andare a ingrossare l’unico partito che vince, quello dell’astensione. Il voto di domenica dimostra che è iniziata la parabola discendente, anche di Renzi».

Gufa perché rottamata?
«Sono stati rottamati 750 mila elettori in un colpo solo, non la Bindi. Questa categoria è servita a Renzi per vincere, ma ora, per continuare a governare, deve prendere per mano la povertà, le periferie, il dissesto del territorio, la crisi industriale. Chi guida i processi politici deve indicare il cammino, la speranza, e responsabilizzare tutti nella fatica della paziente ricostruzione».

La minoranza chiederà il congresso anticipato?
«Il gioco interno al Pd non interessa agli italiani, figuriamoci a me. Quel che mi interessa è che ci sia una forza politica che abbia il coraggio di ricostruire il tessuto democratico e affrontare una crisi economica sempre più grave».

Progetta la scissione?
«Dico che questa è la funzione del Pd, se ha memoria delle origini, se non vagheggia l’idea del partito unico della nazione e se è un partito riformista, ma di sinistra. Quello sul Jobs act è stato un primo passaggio di merito, ma ora ce ne sono altri non meno importanti».

La riforma costituzionale?
«Appunto. Così è irricevibile, umilia il Parlamento e lo rende subalterno al governo».

La legge di Stabilità?
«Non può essere una mera, finta restituzione delle tasse, c’è bisogno di sostegno vero al lavoro e agli investimenti».

E l’Italicum, lei lo vota?
«Se il patto del Nazareno non ha più futuro, nessuno pensi di portare avanti quella legge elettorale con sostegni diversi in Parlamento. C’è da dare al Paese una legge che assicuri il bipolarismo, non attraverso i nominati e il premio di maggioranza al partito unico».

E se Renzi va a votare?
«Questo risultato dovrebbe farlo riflettere, non è tempo di facili ricorsi alle urne. Voglio sperare che al di là del messaggio grave, sbagliato e pericoloso che ha mandato all’Italia, Renzi abbia un momento di ripensamento serio. Spero cambi stile e accetti il confronto. E si ricordi che il segno di chi ha la responsabilità più alta è unire, non dividere».

Perché non uscite per fondare una forza alternativa, guidata da Landini? «Se il Pd torna a essere il partito dell’Ulivo, che unisce e accompagna il Paese, non ci sarà bisogno di alternative. Ma se il Pd è quello di questi ultimi mesi, è chiaro che ci sarà bisogno di una forza politica nuova».

Una forza minoritaria?
«Tutt’altro che minoritaria, una forza di sinistra, competitiva con il partito della nazione. E allora servirà, oltre alle idee, la classe dirigente».

La sinistra fuori dal Pd non è un ferro vecchio?
«Renzi sbaglia quando si paragona al partito a vocazione maggioritaria di Veltroni, che prese il 33% e ridusse la sinistra radicale a prefisso telefonico. Quello era collocato nel centrosinistra e non ambiva a fare il partito pigliatutto. Se il Pd è quello di questi mesi una nuova forza a sinistra non sarà residuale, ma competitiva. E sarà un bene per il Paese, se non vogliamo che il confronto si riduca ai due Matteo. Sarà una sinistra riformista e plurale, ma sarà una sinistra. Sarà il Pd».

Il voto sul Quirinale sarà una resa dei conti?
«Quando dovremo confrontarci su quella scelta, spero più tardi possibile, io auspico che venga fatta ricercando l’unità del Paese. Fu un bene bocciare la riforma del centrodestra, che riduceva il capo dello Stato a portiere del Quirinale».

Perché Renzi dovrebbe cercare un nome non condiviso?
«Ci sono molti modi per ridurre il ruolo del Colle, come rinunciare alla ricerca della personalità più autorevole per considerarla strumentale alla politica del governo. Sarà fondamentale trovare la persona che più unisce e la cui autorevolezza sia considerata indiscussa, da tutti».

26 novembre 2014 | 07:01
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_26/bindi-si-torni-all-ulivo-o-noi-usciamo-matteo-ha-deluso-gia-caduta-cd832bb6-7530-11e4-b534-c767e84e1e19.shtml
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« Risposta #51 inserito:: Febbraio 07, 2015, 09:50:02 am »

L’ADDIO

Scelta civica trasloca nel Pd
Il passo di Lanzillotta, Ichino, Maran, Susta, Borletti Buitoni, Tinagli e Calenda.
Via anche il ministro Giannini.
L’ex fondatore Monti non commenta.
Renzi: approdo comune

Di Monica Guerzoni e Redazione Online

Traslocano armi e bagagli nel gruppo del Pd. Lasciano l’incerto approdo di Scelta civica, il partito fondato (e poi abbandonato) da Mario Monti e partono per il porto sicuro di Matteo Renzi. Sono otto senatori e deputati: Linda Lanzillotta, Pietro Ichino, Alessandro Maran, Gianluca Susta e Ilaria Borletti Buitoni, Irene Tinagli e Carlo Calenda. Anche il ministro Stefania Giannini ha intenzione di traslocare. Mario Monti non commenta e resta al suo posto di senatore a vita. Resta sospesa la posizione del sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova: anch’egli ha deciso di lasciare il gruppo di Scelta civica ma non entra (per ora) nei “dem”.

Sotto il Nazareno
Nell’attesa che altri parlamentari centristi rompano gli ormeggi e chiedano asilo, anche alla Camera, il premier si prepara ad aprire le braccia. Sono le otto della sera di giovedì quando Matteo Renzi incoraggia le pecorelle smarrite a tornare a casa: «Ho molto apprezzato il contributo leale arrivato dai senatori del gruppo di Scelta Civica sia sul cammino delle riforme istituzionali ed economiche sia in occasione della elezione del Capo dello Stato...». Il leader del Pd parla di «approdo comune» e di «comune cammino per il cambiamento dell’Italia». Dal punto di vista numerico non cambia nulla, perché Scelta civica è già stabilmente in maggioranza. Ma un partito, per quanto piccolo, che si sgretola e si rifugia sotto il tetto del Nazareno è un ottimo spot per convincere i senatori delle varie opposizioni a dare una mano sulle riforme.

La nota dei fuoriusciti
E in mattinata arriva la risposta ufficiale dei fuoriusciti. «Accogliamo l’invito rivoltoci da Matteo Renzi a un percorso e a un approdo comuni e riteniamo che si debba andare nella direzione che i nostri elettori ci hanno già indicato» e «decidiamo di aderire ai gruppi del Partito Democratico di Senato e Camera, alcuni di noi anche al partito stesso», scrivono in una nota Susta, Giannini, Maran, Lanzillotta, Ichino, Borletti Buitoni, Tinagli e Carlo Calenda. «Ci muove la convinzione - particolarmente sentita da quelli di noi che in altra stagione con sofferenza hanno lasciato il Pd - che ora è finalmente possibile voltar pagina rispetto ai partiti, alle ideologie e alla storia politica del secolo scorso. Oggi - spiegano gli otto parlamentari di Sc - ci ripromettiamo di portare nei gruppi parlamentari del nuovo Pd i nostri valori liberaldemocratici, le nostre idee, i nostri progetti, le nostre competenze e il nostro spirito di servizio, con l’obiettivo di concorrere al lavoro entusiasmante che attende il Parlamento nei prossimi anni: quella riforma europea dell’Italia che sola può dare speranza nel futuro a noi e ai nostri figli». «Il Pd renziano - concludono nella nota - ha assorbito il centro della società prima ancora che quello politico. Ha assorbito la base sociale ed elettorale di Scelta Civica che, infatti, alle elezioni europee nel maggio scorso ha scelto in massa le liste di questo nuovo Pd».

5 febbraio 2015 | 22:30
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_05/strappo-scelta-civica-cinque-senatori-pronti-trasloco-pd-e80cccd0-ad75-11e4-8190-e92306347b1b.shtml
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« Risposta #52 inserito:: Aprile 04, 2015, 12:03:22 pm »

Il partito democratico
Legge elettorale, Bersani avverte: «No aut aut, la sintesi tocca a Renzi»
L’ex segretario: «Minoranza Pd? Sono più preoccupato per il futuro dei nostri figli»

Di Monica Guerzoni

«Se Renzi ha fatto Mattarella, potrà ben fare il Mattarellum...». Con questa battuta Pier Luigi Bersani prova a stemperare la tensione a due ore dall’inizio della direzione del Pd, dove l’ex segretario arriverà a lavori iniziati. «Sono esterrefatto - sono le prime parole di Bersani, appena sbuca dall’auto davanti alla sede dell’Enea - Possibile che si continui a fare analisi e dietrologie su cosa fa Bersani quando si alza la mattina e se ce l’ha o no con Renzi, invece di parlare di quale democrazia stiamo costruendo per i nostri figli? È un oggettino che dovrebbe interessare, non credete? - risponde ai cronisti che lo incalzano sullo scontro tra maggioranza e minoranza del Pd - Finché non si va al merito non ho interesse a dialogare». Bersani arriva nella sede dell’Enea per un convegno sull’energia organizzato dal Nens e le telecamere sono tutte per lui, per l’ex segretario del Pd che a Palazzo Chigi vedono come l’ultimo ostacolo sulla via dell’Italicum.

Renzi non vuole cambiare la legge elettorale.
«Credo che per un segretario sia un compito d’ufficio fare la sintesi parlando del merito delle questioni».

Il premier ha detto alla minoranza che in cambio della riforma del Senato avrebbe modificato l’Italicum. Ora l’Italicum non si tocca, ma vi offre cambiamenti al Senato... Vi sentite presi in giro?
«Questo lo dice lei».

E la proposta di Civati di stare uniti?
«Non è che stiamo facendo il cartello delle minoranze. Qui dobbiamo ragionare del modello di democrazia. C’è il rischio che venga fuori una sorta di democrazia di investitura, con un Parlamento messo a comando e una autostrada per le pulsioni plebiscitarie e populiste che girano in questo Paese. È un interrogativo da poco? Che i giornali siano pieni di paginate su cosa fa la minoranza e cosa pensa Bersani e quanto ce l’ha con Renzi invece di discutere del merito mi preoccupa molto».

Cosa propone, il Mattarellum?
«Se lo fanno lo firmo subito... Renzi ha fatto Mattarella, può fare anche il Mattarellum».
Se invece oggi in direzione il segretario vi mette davanti a un aut aut?
«Spero proprio che non ci si arrivi».

E se offre posti sicuri in lista ai suoi parlamentari?
«I miei? Non esistono. Io le nuove generazioni le ho spinte, non sono mai stato un impedimento per loro. Nessuno deve sentire di avere un problema con Bersani. La gente ragiona con la propria testa».

Renzi vuole dividere lei e D’Alema dai giovani bersaniani e dalemiani?
«Ma non lo so... I posti in lista? Se si allude all’idea che tutto si possa comprare invece di ragionare allora riposiamoci, perché vuol dire che la democrazia è finita».

Cosa la preoccupa tanto, il combinato disposto tra Italicum e nuovo Senato?
«Si, perché diventa una specie di presidenzialismo di fatto senza contrappesi e non lo dico guardando all’oggi, ma guardando avanti. Io alle mie figlie un sistema così non glielo voglio lasciare. Vogliamo discutere o andiamo avanti a colpi di mano e bracci di ferro?»

Renzi autoritario?
«Non ho detto che si va verso l’autoritarismo o il fascismo, ma ritengo che quello proposto dal governo sia un meccanismo democratico azzardato».

Oggi andrà in direzione o diserterà la riunione con Renzi?
«Sono qui a parlare di energia, appena posso ci vado».

30 marzo 2015 | 15:18
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_30/bersani-direzione-pd-non-stiamo-facendo-cartello-minoranze-mattarellum-e665719c-d6de-11e4-a883-4c9c44a1b2f9.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:36:22 am »

Il racconto

Italicum, le battute sull’Armageddon e l’immagine degli sciacalli
Bersani: «Così non ci sto»
Renzi blinda la legge elettorale. Il Pd si spacca.
L’ex segretario: «Un partito che, se il capogruppo lascia, va avanti come nulla fosse, ha un problema»


Di Monica Guerzoni

ROMA «Non sarà un voto alla Armageddon...» esordisce Matteo Renzi aprendo l’assemblea del gruppo al posto del capogruppo, in barba alle barbose tradizioni parlamentari. Nel palazzo dei gruppi l’aria è un mix di emozioni contrastanti, renziani eccitati per la «resa dei conti» e minoranze abbacchiate. Sì, perché solo a riunione iniziata i nemici dell’Italicum trovano la «quadra» e, per non finire in cocci, decidono di non partecipare al voto sulla relazione di Renzi, come suggerito da Pippo Civati.

Ma come, Area riformista non aveva deciso di votare contro la relazione del premier? Contrordine, compagni. Indietro tutta. D’altronde, quanti sono i riformisti pronti a mandare in fumo la legge elettorale per gettarsi in mare aperto e senza scialuppe? «Il mio timore - sospira preoccupato Gianni Cuperlo - è che gli italiani non ci capiscano».

Brutto clima in casa Pd. La giornata era filata via per nulla liscia, tra telefonate cruciali (Renzi-Speranza), faccia a faccia (Renzi-Cuperlo) e l’inquietudine di tanti dem di sinistra stretti tra riconoscenza verso Bersani e lealtà a Renzi. «Tu ci sei stasera, vero?» è stato l’angoscioso interrogativo che, in Transatlantico, correva nei capannelli dell’opposizione, divisa tra non-renziani e aspiranti renziani. E alla fine il panico della diserzione ha spinto i bersaniani soft alla resa.

Ma adesso, alle nove della sera, parla lui e cita Kipling: «Per chi ama il Libro della giungla, fuori di qui ci sono tanti Tabaqui». Grazioso sinonimo di sciacallo. Renzi rispolvera il leit motiv del «Letta impantanato», strappa l’applauso sulle intercettazioni e finalmente, come i dialoganti speravano, semina qualche apertura sulla riforma costituzionale. Ma l’Italicum no, la madre di tutte le riforme non si tocca. Sancita l’intangibilità della legge elettorale il premier si mette a discettare di Imu agricola («un errore»), di università, povertà, città metropolitane...



Alle 21.30 Renzi ha finito e tocca al «povero» Speranza, come lo chiamano perfidi i renziani da quando hanno capito che le dimissioni del capogruppo erano ormai inevitabili. Nell’intervento più difficile della sua carriera spiega le «ragioni vere di un profondo dissenso», ma conferma lealtà al premier la cui «leadership è fondamentale». E poi, sposando la causa renziana: «Il destino del partito della nazione coincide con quello del Paese».

Lui in quella sfida ci sta dentro in pieno assicura Speranza e spiega che, se ha lanciato la sfida di «allargare», lo ha fatto perché in Aula si rischia di non reggere: «Nemmeno tutto il nostro campo, ora, è con il Pd...». Evocata la spaccatura dei dem, Speranza recita il suo atto di fede, «credo con forza in questo governo e nel Pd» e però ammette che la distanza tra quel che lui pensa e la «direzione di marcia è troppo ampia». Sono le 21.30 quando il deputato di Potenza, classe ‘69, annuncia: «Rimetto con serenità il mandato da presidente del gruppo». E mentre ci si interroga sull’irrevocabilità delle dimissioni il quasi ex si accomoda in platea: «Ho fatto la cosa giusta».

La riunione prosegue come nulla fosse. Cuperlo deve trovarlo surreale e prova a scuotere i renziani dicendo che le dimissioni di Speranza «sono un fatto serio», che merita la sospensione dei lavori... Ma no, Renzi non si ferma. Vuole un voto che formalizzi il trionfo e rimanda il dibattito sulle sorti di Speranza: «Non condivido la scelta, Roberto rifletti». Rosy Bindi è una furia e grida: «Fallo te un atto magnanimo e permetti di discutere di queste dimissioni adesso». Appello respinto e la presidente dell’Antimafia che gira i tacchi: «Non è giornata».

La proposta di rinvio è messa ai voti e bocciata e qui, alle 22.15, l’intransigente Fassina e lo sconcertato D’Attorre vanno a dormire, mentre i «buoni» di Area riformista (e Cuperlo) restano. Civati è basito: «Tutti matti!». Zitti, tocca a Bersani. «Molto incazzato», lo descrivono. «Non è un tema di disciplina di partito né di voto di coscienza, ma di responsabilità. Se si vuole si può cambiare, se invece si sceglie di andare avanti così io non ci sto». Sfida Renzi a ridiscutere «davvero» i pilastri della riforma del Senato e infine, come dopo uno schiaffo ricevuto: «Un partito che davanti alle dimissioni del capogruppo va avanti come se nulla fosse ha un problema».

16 aprile 2015 | 06:58
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_16/italicum-pd-retroscena-battute-armageddon-sciacalli-resa-conti-bersani-8dd8ac3e-e3f3-11e4-868a-ccb3b14253dc.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Maggio 01, 2015, 12:08:38 pm »

Italicum, Bersani: «Non è la ditta che ho creato. Prepotenza da Renzi? La sua natura non è bella»
L’ex leader del Pd parla dopo la decisione del premier di mettere la fiducia sulla riforma delle legge elettorale: «Io posso prendere le sberle, l’Italia no»
Di Monica Guerzoni

ROMA Ha l’aria mesta Pier Luigi Bersani mentre sale lo scalone di Montecitorio e si ferma davanti alla porta della commissione Attività produttive: «Vedo tanta tristezza in giro, tanta tristezza...».

Per settimane si è sgolato, si è appellato al senso di responsabilità del presidente del Consiglio, lo ha implorato di non mettere la fiducia sulla legge elettorale, come nella storia d’Italia è accaduto solo due volte: sulla legge Acerbo del 1923 (all’inizio del ventennio di Mussolini) e sulla cosiddetta legge «truffa» del 1953. Gli ha chiesto di farsi carico del pericolo di una spaccatura irreparabile del Partito democratico, ha persino evocato il rischio di una dolorosa scissione. Ma niente, Matteo Renzi ha tirato dritto.

E poiché l’intenzione di accelerare filtrava da Palazzo Chigi sin dal mattino, il già ministro dell’Industria e dello Sviluppo economico ha messo a verbale la sua contrarietà nella votazione a scrutinio palese sulla richiesta di sospensiva dell’Italicum. Sui tabulati il nome di Bersani risulta tra i 17 deputati che sono usciti dall’aula al momento del voto. Un primo messaggio politico, chiaro e forte. E quando la notizia della fiducia è ufficiale, l’ex segretario non riesce a tenere per sé la rabbia e la preoccupazione di cui è gonfio il suo animo.

Davvero non voterà la fiducia?
«Davanti a scelte di questa portata, ognuno deve assumersi le sue responsabilità. Vedremo cosa fare assieme e poi vedrò cosa fare io».

Giudica sbagliata la scelta del premier di legare la legge elettorale alla vita del governo?
«Sì, perché qui il governo non c’entra niente. A essere in gioco è una cosuccia che si chiama democrazia».

Perché Renzi ha deciso di forzare? Nella minoranza si parla di prepotenza...
«Lui è in natura così».

Fiducia sull’Italicum, l’Aventino dei dissidenti del Pd

   

E com’è la natura di Renzi?
«Non è una bella natura».

È rimasto spiazzato dalla prova di forza?
«No, io non avevo dubbi che avrebbe messo la fiducia. Ma che bisogno c’era? Si dice che la gente non capisca di che cosa si sta discutendo in Parlamento. Ma insomma, tocca a me spiegarlo?».

Anche a lei, sì.
«Può essere che tocchi anche a me, ma tocca a tutti. Parliamo delle regole del gioco, parliamo della nostra democrazia. Una cosa che non riguarda Bersani contro Renzi».

Il premier le ha dato una bella sberla mettendo la fiducia.
«Ma io, se serve, di sberle ne prendo quante volete. Il problema non è Bersani, è l’Italia».

Col voto contrario di una parte della minoranza sarà la fine della ditta?
«Non è più la ditta che ho costruito io. Questa è un’altra cosa, un altro partito».

Ma lei ci può stare in un partito così? O pensa alla scissione?
«Ma dove posso andare... Sa come diceva Dante Alighieri? Se io vo, chi rimane? Se io rimango, chi va? (Trattatello in laude di Dante di Giovanni Boccaccio, ndr).

Crede davvero che l’Italicum sia la peggiore delle leggi possibili?
«Con questa legge qua la demagogia va in carrozza. Ma lei se lo immagina cosa diventeranno le prossime elezioni? Sarà il festival della demagogia».

Esagera, onorevole.
«No, saranno una gara a chi la racconta più grossa».

Qual è la cosa che le ha fatto più male?
«La fiducia su una questione così importante per la democrazia. Io lo sapevo fin dall’inizio che finiva così. Com’era quel titolo del Corriere?».

«Bersani pronto a uscire dall’Aula per non dover votare sul governo». Abbiamo sbagliato?
«Direi proprio di no»

29 aprile 2015 | 07:19
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_29/italicum-fiducia-bersani-intervista-prepotenza-renzi-9542fce2-ee2d-11e4-b322-fe8a05b45a01.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 06, 2015, 05:14:32 pm »

Il retroscena / Già pronti logo, magliette e gadget
«Possibile», la cosa rossa di Civati
Nel database ha già 50mila iscritti “Mi seguiranno in tanti, anche big del Pd» -
Al debutto il nuovo movimento del deputato brianzolo fuoriuscito dal Pd
«Sel interlocutore naturale. Landini? La coalizione sociale è motivo di interesse»

Di Monica Guerzoni

Podemos in Spagna, Possibile in Italia. Sull’onda della vittoria tra Madrid e Barcellona del movimento dei post Indignados, Pippo Civati è pronto a battezzare la sua creatura. Subito dopo le Regionali nascerà Possibile, la rete che il deputato uscito dal Partito democratico immagina come un movimento «inedito e diverso dal solito». Di ufficiale non c’è ancora nulla. Ma il simbolo, realizzato da Federico Dolce e Marianna Zanetta del Vixen Studio di Torino, militanti convinti, sarà depositato in queste ore e qualche provino è sfuggito al controllo dei creatori. Tessere di iscrizione, t-shirt con il simbolo, gadget... Tutto è pronto per il lancio.

Il cerchio rosso ciliegia in cui si inscrive il segno tipografico dell’uguale ricorda da vicino le insegne del movimento che ha sedotto i giovani spagnoli. Il viola di Podemos è uno dei colori che, miscelati con il rosa e l’arancio di tante battaglie della sinistra del terzo millennio in Italia, hanno dato vita al rossastro di Civati.

Il deputato risponde al telefono che è sera e si dice «molto sorpreso» di sapere che il suo simbolo non sia più segreto: «Lo presenteremo a giugno, dopo le Regionali». Si è ispirato a Podemos? «No... Possibile non è la trasposizione di alcun modello straniero». Cosa c’è in cantiere? «Questa cosa, che spiegheremo con calma, la mettiamo a disposizione di tutti coloro che possono essere interessati a condividere con noi un modello di lavoro completamente nuovo, che supera i partiti tradizionali». Maurizio Landini? «La coalizione sociale è per noi motivo di interesse e confronto». E Sel? «È un interlocutore naturale. Ma ci sono anche gli ambientalisti, che devono ritrovare una rappresentanza. E soprattutto ci sono i cittadini».

Civati da Prodi alla rottura con Renzi. E ora il nuovo movimento «Possibile»

   


Quanto al traguardo, Civati rivela senza imbarazzo di puntare dritto a Palazzo Chigi: «La fogliolina di ulivo è questa cosa qua, ci si presenta per governare il Paese e non per fare testimonianza». Lei parte da solo, come pensa di costruire l’alternativa al presidente del Consiglio? «A parte che non sono affatto solo, Matteo Renzi in questo momento sta dicendo cose molto confuse e non voglio partecipare alla polemica... Possibile non è uno strappo. È una sfida rivolta a noi stessi e ad altri compagni di strada. Non è contro nessuno e non vuole escludere nessuno».

Il viaggio di Possibile comincia dalla Liguria. Dove lo sfidante di Raffaella Paita, il civatiano Luca Pastorino, spera in un risultato a due cifre. Ecco, per Civati la Liguria non è solo un laboratorio della nuova sinistra fuori dal Partito democratico, ma un vero e proprio test. Quanti voti il nuovo movimento potrebbe rubare al partito di Renzi, alle prossime Politiche? E quanti potrebbe pescarne nell’immenso mare dell’astensione? Civati è ottimista. Sta reclutando giovani «molto motivati», pronti a impegnarsi sul territorio (e via web) per costruire dal basso una forza politica alternativa «molto larga, trasversale, dinamica e moderna», che sia un mix tra rete e movimento.

Via le scatole cinesi dei partiti tradizionali e piramidali, con la direzione, la segreteria, i forum e le vecchie sezioni. La proposta politica di Possibile sarà trasversale e orizzontale e nascerà dalle idee dei cittadini attraverso i comitati, che porteranno avanti campagne su singoli temi. Per aprire un comitato basterà trovare minimo dieci adesioni e massimo cinquanta e chiedere l’iscrizione al partito. Quel che Civati ha in mente è un sistema di consultazione permanente degli elettori, per misurare il battito del cuore della base e non sbagliare mosse: dalla scelta dei candidati alle battaglie da portare in Parlamento, dove il fondatore lavora ai gruppi di Possibile.

Il «tesoretto» di Civati è il database dell’associazione «È Possibile» che conta 50 mila iscritti. Nel calendario è segnata in rosso la data del 3 giugno, giorno in cui la nascita della nuova «cosa rossa» sarà ufficializzata. Seguirà una lettera-documento e poi, a luglio, la festa del partito .

26 maggio 2015 | 10:20
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_26/possibile-nuovo-partito-civati-modello-podemos-89cfca48-037c-11e5-8669-0b66ef644b3b.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 25, 2015, 07:29:55 pm »

Pd romano fra Mafia Capitale, voti comprati e liti interne: «Sembra la Chicago negli anni ‘30»
Dalle relazioni pericolose con Buzzi e Carminati al tesseramento gonfiato, dalle primarie nel caos alle continue risse interne: la crisi profonda del partito commissariato da Matteo Orfini

Di Monica Guerzoni

«Il Pd usato come un taxi, le cordate, il tumore delle correnti... Una Roma che somiglia alla Chicago Anni ‘30». Walter Verini azzarda un paragone da brivido e rispolvera le bande che si accordavano per spartirsi il territorio. «E quando non ci riuscivano» ricorda l’ex braccio destro di Veltroni evocando Al Capone, «c’era la strage di San Valentino». Dopo gli arresti, nel Pd romano è l’ora dei veleni, delle vendette incrociate, dello scaricabarile tra correnti nemiche. E ci si chiede come abbia potuto, il partito che ha nel dna i geni di Enrico Berlinguer, degenerare fino a non vedere quelle mani che trescavano con la destra eversiva e pescavano nel pozzo nero del malaffare.

Le cena con Buzzi
Quali volti, quali storie hanno scandito la mutazione antropologica e favorito le infiltrazioni criminali? Perché, fino a un anno fa, i «dem» non si facevano scrupoli di andare a cena con Buzzi o accettare soldi da lui? Lionello Cosentino, ultimo segretario prima del commissariamento, si difende: «Io amico di Buzzi? Ci conosciamo da vent’anni. Sembra che tutti noi abbiamo avuto rapporti con la mafia, perché nessuno sapeva che Salvatore fosse diventato parte di una banda di ladri. Ma io non ho mai chiesto favori e non ho parenti assunti dalle coop». Qualcuno però i parenti li ha piazzati. Fabio Melilli, segretario del Lazio, chiese allo «spicciaproblemi» di Buzzi, Luca Odevaine, un aiuto per far lavorare la figlia: «Un errore, ma è stata solo una telefonata».

Le primarie e i voti comprati
Tessere e voti comprati, iscritti fantasma, risse nei circoli, primarie taroccate con i rom in coda ai gazebo, volanti ai seggi per sospetti brogli... I vecchietti prelevati al centro anziani di Trastevere per votare per il renziano Tobia Zevi e persino i consiglieri che fanno le carte di identità agli elettori in cambio di un voto. E poi, in un crescendo wagneriano, i «dem» sorpresi a braccetto con Carminati e Buzzi, gli arresti, il mesto corredo di favori, pubblici o privati. «Nelle primarie per il Parlamento - denunciò Marianna Madia - ho visto vere associazioni a delinquere». E Roberto Morassut invita il Pd a «presentare ai romani le scuse per questa brutta storia e ripartire da un congresso».

Segretari capitolini sotto accusa
A sentire i renziani è tutta colpa della «grande famiglia» ex ds, i cui pilastri romani (Zingaretti, Bettini, Cosentino, Miccoli...) avrebbero «ucciso» il rinnovamento. «Il Pd in questi ultimi due anni si è occupato troppo di beghe interne, il che ci ha fatto male» è l’analisi di Lorenza Bonaccorsi. Ma il Pd nazionale non c’entra, si sgolano i dirigenti del nuovo corso. E addebitano il decadimento ai segretari capitolini. Il primo fu Riccardo Milana, le cui presunte spese faraoniche fecero accumulare i primi buffi, lievitati al milione e 200 mila euro di oggi. I giornali della destra si esercitano sul tema «manette rosse» e l’ex DS Chiti chiede aiuto a Berlinguer, implorando i compagni di non smarrire quel patrimonio di «onestà e impegno politico non asservito alle corruttele». Troppo tardi.

Il caso Coratti
Su 125 circoli del Pd, Orfini ne conta diversi di quelli «cattivi», perché fittizi o in guerra per il controllo del territorio. C’è chi parla di bande, chi di tribù e racconta di quando Daniele Ozzimo, la ex moglie Micaela Campana e Umberto Marroni facevano incetta di voti al Tiburtino, terra di conquista di Carminati e Buzzi. Mirko Coratti, l’ex presidente dell’assemblea capitolina in carcere (anche) per corruzione aggravata, è approdato nel Pd portandosi dietro da Forza Italia e Udeur un vistoso pacchetto di voti: 6565 nel 2013. «È entrato quando il segretario era Miccoli, ma il Pd non c’entra - scacciano le ombre al Nazareno - Mirko s’è fatto sempre gli affari suoi». Molti soldi, molte preferenze. Per il Campidoglio ne servono almeno 4000, il che vuol dire da 100 a 200 mila euro. Per il Lazio le spese lievitano. Racconta Tommaso Giuntella: «Mi offrirono di candidarmi in Regione, ma quando mi dissero che serviva anche un milione rinunciai». Buzzi disse di avergli dato 140 voti alle primarie e il presidente dell’assemblea del Pd smentisce: «Mai conosciuto...». Ma i veleni scorrono come il «biondo» Tevere.

L’amarezza di Reichlin
Gli ex DS accusano la Bonaccorsi di aver imbarcato gli orfani di Coratti. «Cattiverie» smentisce l’onorevole renziana e butta il trasformismo alla vaccinara sulle spalle di «chi non ha governato la vocazione maggioritaria». Alfredo Reichlin è attonito: «Da dove sono saltati fuori i nomi di cui si legge? Il mondo politico che conoscevo, fino a Bettini e Veltroni, non c’è più». Il degrado comincia nel 2008, quando Veltroni e Rutelli perdono le elezioni e sul tetto di Roma si insedia la destra di Alemanno. Invece di fare opposizione, gli sconfitti trattano con i nuovi arrivati e i loro amici poco raccomandabili. «Hanno avuto paura di perdere le poltrone», geme Ileana Argentin. Parole chiave: consociativismo e spartizione. Sotto accusa la manovra d’aula (poi abolita da Marino) che divideva la torta tra i consiglieri. Tra gli indiziati c’è Umberto Marroni, allora capogruppo, rimproverato da chi non lo ama di «essersi accordato con Alemanno in cambio delle briciole».

12 giugno 2015 | 08:36
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_giugno_12/pd-romano-mafia-capitale-voti-comprati-liti-interne-sembra-chicago-anni-30-4f23b7ee-10c7-11e5-b09a-9f9a058e6057.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Agosto 09, 2015, 10:43:02 am »

La riforma del senato e i nodi politici
Riforma costituzionale: 17 paletti, dall’elezione diretta all’immunità
Gli emendamenti dei «ribelli»: con il muro contro muro iter a rischio, il premier li valuti con prudenza.
Gotor: «L’articolo due sarà votato dall’Aula. Vogliamo azzerare tutto»

Di Monica Guerzoni

Guai a dire che la minoranza ha piazzato 17 mine sul terreno della riforma costituzionale, perché i «ribelli» si offenderebbero assai. Ma in giorni di metafore belliche incrociate, è così che il fronte renziano potrebbe accogliere le proposte di riforma depositate dai dissidenti di Palazzo Madama. E che Miguel Gotor, in nome del «riformismo mite dei cattolici democratici e dei socialisti europei», offre a Renzi come antidoto alla guerriglia permanente.

«Noi crediamo nel processo riformatore - assicura il senatore - ma poiché il muro contro muro può metterlo a rischio invitiamo il premier a cercare, con prudenza politica, un accordo preventivo sulla via indicata con saggezza dal presidente Grasso». È la proposta di un patto di non belligeranza, che scongiuri il patatrac: «Sarebbe un grave errore non cogliere questa opportunità storica, magari per impuntature caratteriali. Renzi vuole davvero cambiare la riforma? E con quali voti? Con quelli di Verdini e degli amici di Cosentino, secondo la peggiore tradizione del trasformismo italico, o con la spinta riformatrice dell’intero Pd?». Eccoli dunque, i 17 emendamenti firmati da un numero variabile di senatori che va da 26 a 28. Il primo riguarda l’articolo 1 e restituisce ai senatori competenze in materia di Europa. Ma il più importante è quello all’articolo 2, che reca in calce 28 firme: Gotor, Migliavacca, Broglia, Casson, Chiti, Corsini, d’Adda, Dirindin, Fornaro, Gatti, Giacobbe, Guerra, Guerrieri, Lai, Lo Giudice, Manassero, Manconi, Martini, Micheloni, Mucchetti, Mineo, Pegore, Ricchiuti, Ruta, Sonego, Tocci, Tronti e Turano.

«Il Senato della Repubblica - è il passaggio che farà infuriare il Pd di governo - è eletto dai cittadini su base regionale, garantendo la parità di genere, in concomitanza con la elezione dei consigli regionali». È il punto più controverso della riforma, sul quale potrà realizzarsi una «convergenza larga» con M5S, Forza Italia, Sel, Lega e non solo. «L’articolo 2 sarà votato dall’Aula, perché le versioni di Senato e Camera non sono identiche - avverte Gotor -. Per evitare di mettere a repentaglio il processo riformatore consigliamo di emendarlo». Volete azzerare tutto e ripartire da capo? «È un argomento falso, un paradosso propagandistico. Con un accordo basterebbero pochi accorgimenti per far proseguire il processo riformatore». La mediazione del governo prevede l’elezione indiretta con un «listino a scorrimento», idea che Gotor boccia senza appello: «È un pastrocchio. Così il Grande Nominatore sceglierebbe anche i senatori, magari tra quei consiglieri regionali che hanno bisogno dell’immunità... La politica non è il gioco del Monopoli».

Il nuovo assetto
All’articolo 10 Corsini e altri 27 chiedono che alcuni temi qualificati restino di competenza bicamerale, senza però tornare al bicameralismo paritario: libertà religiosa, amnistia e indulto, fine vita, diritti delle minoranze e legge elettorale nazionale. «Vogliamo evitare che il vincitore del premio di maggioranza - spiega Gotor - si ritocchi a proprio piacimento il sistema di voto». E qui il senatore che, in tandem con Chiti, guida i dissidenti, ricorda come «tante volte nei momenti di crisi le minoranze hanno segnato un limite al conformismo». Il mantra di Bersani contro l’uomo solo al comando? «Noi non abbiamo paura del tiranno, dell’uomo nero o della svolta autoritaria, come superficialmente ci viene rimproverato - assicura Gotor -. Il problema è separare le istituzioni dalla politica, perché i salvatori della patria passano e il sistema, già fragile, resta».

L’emendamento all’articolo 13, 26 firme, propone che il sindacato preventivo sulla legge elettorale scatti in automatico. E quello all’articolo 20 chiede per i senatori poteri di verifica, controllo e inchiesta. All’articolo 37 la minoranza ripristina la norma secondo cui due giudici della Corte costituzionale sono scelti dal Senato e, all’articolo 21, ampliano la platea dei grandi elettori del capo dello Stato, perché «il vincitore del premio non può scegliere quasi da solo chi mandare al Quirinale». E qui Chiti propone 200 sindaci eletti proporzionalmente dal Consiglio delle autonomie locali oppure, la stessa platea rafforzata dai parlamentari europei. E ci sono anche due emendamenti Casson all’articolo 7, che cambiano l’immunità per i parlamentari.

7 agosto 2015 (modifica il 7 agosto 2015 | 11:26)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_agosto_07/riforma-costituzionale-17-paletti-dall-elezione-diretta-all-immunita-ba3649ca-3cc3-11e5-a2f1-a2464143b143.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Agosto 09, 2015, 11:08:05 am »

L’ex segretario Bersani: «Il Pd perde pezzi. C’è chi si inventa il Vietnam per giustificare il napalm»
I commenti ai nodi che dividono il Partito Democratico, dal Sud al Senato passando per la riforma Rai: «No a un partito di servi, se si vuole l’accordo c’è»

Di Monica Guerzoni

«Avrei una cosa da dire».

Una sola, onorevole Pier Luigi Bersani? I nodi sono tanti, dal Sud al Senato.
«Il Paese ha difficoltà enormi. Ma io vorrei uscire dal circolo vizioso, non si può rimettere in sesto l’Italia se prima non si mette in sesto il Pd. Questo è il punto di fondo e ne abbiamo un esempio in queste ore. Se qualcuno, a freddo e strumentalmente, si inventa dei Vietnam e dei vietcong, si è autorizzati a pensare che vogliano giustificare il napalm».

Renzi che dà, metaforicamente, fuoco alla minoranza?
«Per dare una mano all’Italia bisogna prendere atto che il tema non sono 25 senatori bersaniani, è che il Pd ha un problema politico profondo. Dopo mesi di parole su lavoro, scuola, tasse, Rai, Verdini, Azzollini, ormai è emerso che tra i militanti c’è un distacco e non sto parlando di Vietnam, ma di Campagnola Emilia. Tra la nostra gente infuria la domanda “Chi siamo? Con chi andiamo?”. Basta girare un po’ e ci si rende conto. Con la stessa generosità che ho mostrato io, chi è segretario ora deve prendere in mano il problema, perché noi abbiamo bisogno del partito riformista del secolo».

Teme la svolta al centro?
«Se si vuole innovare il Pd, io ci sto. Altra cosa è disarmare un’idea, una cultura, una retorica di centrosinistra, aprendo il varco a una destra regressiva. La mia preoccupazione è che nei gruppi dirigenti invece di affrontare il problema si voglia coltivarlo, prendendo di punta un pezzo di Pd e rinnegando un dovere di sintesi».

Renzi vuole creare il «nemico interno»?
«Sì, temo sia questo e rivolgo a Renzi la seguente domanda. Ti ricordi quando, contro tutti, io imposi il cambiamento dello Statuto per far concorrere uno che voleva rottamarmi? Lo feci perché temevo che si spaccasse il Pd e che un pezzo del partito se ne andasse. Adesso vuoi capire o no che, se non viene interpretato questo disagio, c’è un pericolo del genere?».

Sta evocando la scissione?
«Io il Pd voglio salvarlo, perché è l’unica speranza per l’Italia e mi auguro che la mia preoccupazione sia condivisa da chi dirige il traffico. Qui non c’è in gioco solo il Pd, ma il Paese. Se si comprende questo la strada è semplice, cercare una sintesi ed essere il partito che organizza un centrosinistra, con i suoi valori e le sue proposte».

Vuole tornare all’Ulivo?
«L’ispirazione dell’Ulivo era l’idea di un partito riformista che tenesse rapporti con una radicalità di sinistra e con una radicalità civica, senza isolarsi. L’Ulivo è stato questo e non è vero che abbiamo sempre perso, abbiamo vinto, mentre nell’ultima tornata elettorale un pezzo del nostro mondo si è ritratto. Sul piano del programma i punti sono Europa, investimenti per l’occupazione e il Sud, liberalizzazioni, politica industriale e fedeltà fiscale».

Non è lei che frena?
«Io nella mia vita non ho fatto altro che riforme e se ci fosse l’occasione di discutere potrei anche dare una mano. E, se mi si tira per i pochi capelli, devo dirlo: le uniche cose che stanno funzionando per dare un po’ di lavoro, dalle ristrutturazioni della casa al ripescaggio della Sabatini, alla portabilità dei mutui, me le sono inventate io. Riforme, ma di centrosinistra. Io, noi, altri, un po’ di idee le abbiamo, ma purtroppo non stanno in un tweet».

L’ultimo tweet di Renzi è «un abbraccio ai gufi».
«Se andiamo avanti con i gufi non arriviamo lontano».

Da gufi, a vietcong.
«L’unico Vietnam che ho visto io è stato su Marini e Prodi. Nel Pd ci sono in giro degli esperti di Vietnam».

Insiste sulla necessità di cambiare l’articolo 2?
«Io sostengo la tesi che la combinazione fra riforma costituzionale e riforma elettorale ci consegna un sistema costruito per l’uomo solo al comando, senza contrappesi. Tonini nega, ma chi ha buon senso sa che è così. Non è né un sistema parlamentare, né presidenziale, è un sistema del ghe pensi mi . In quale democrazia un premier si nomina gran parte dei parlamentari, capo dello Stato e istituzioni di garanzia? Io non sono d’accordo».

Sanzioni in vista?
«Sui temi costituzionali neanche il Pci chiedeva la disciplina. E se il segretario pensa di togliere le tasse sulla casa a tutti, regalando 500 euro a un ricco e 50 a un povero, pretendo che si discuta a fondo, non in cinque minuti. Perché un conto è la disciplina come coronamento di uno sforzo di sintesi e un conto l’obbedienza. E siccome ho sempre detto che siamo un partito senza padroni, mi augurerei che fossimo anche un partito senza servi».

Il voto sul nuovo Senato è per voi la battaglia finale?
«Io non mi metto su questo piano. Ma quando la gente vedrà che il Senato viene composto in una trattativa su scala regionale, dove uno fa l’assessore e l’altro il senatore, magari per l’immunità, l’ondata di antipolitica che ne deriverà la mettiamo a carico di chi ora fa finta di niente, ok? Se si vogliono risparmiare soldi si riduca di 100 o 150 il numero dei deputati. Perché devono essere 630?».

Sposetti ha proposto di abolire il Senato.
«Una provocazione, ma sono d’accordo. Se non ha nobiltà, aboliamolo senza drammi. Il paradosso è che il cambiamento è a portata di mano. Su una riforma che dicesse superiamo il bicameralismo, rafforziamo le garanzie ed eleggiamo i senatori, magari in una lista collegata ai presidenti delle Regioni, c’è larga condivisione. Capisco la preoccupazione di riaprire il vaso di Pandora, ma io propongo di fare in modo blindato alcune correzioni sensate, non di tornare da capo».

Franco Monaco propone la scissione consensuale.
«Per Monaco io avrei una visione chiesastica del partito, ma rifiuto questa definizione. Siccome ci ho messo dei mattoni, il Pd è casa mia. Se arriva Verdini va fuori lui, non io. Il Pd è molto giovane e chissà quanti Renzi e Bersani vedremo...».

Proverà a riprendersi la «ditta» al congresso?
«Quando arriverà vedremo, non sarò certo io. Ora c’è da governare. Per farlo, il Pd deve trovare il suo profilo di centrosinistra e io penso che le nostre ricette siano utili».

Le piace la nuova Rai?
«Questa roba qui la chiamiamo riforma? È curioso un azionista che rinnova la governance con le vecchie regole, prima di aver definito un progetto per risolvere i problemi industriali. Io mi rifiutai di nominare il cda con la Gasparri. Con tutta la stima per i nominati, che uno come De Bortoli non possa avere cittadinanza è stupefacente».

5 agosto 2015 (modifica il 5 agosto 2015 | 13:34)
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DA - http://www.corriere.it/cronache/15_agosto_05/intervista-pierluigi-bersani-pd-perde-pezzi-chi-si-inventa-vietnam-per-giustificare-napalm-08c16d22-3b34-11e5-b627-a24a3fa96566.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Agosto 22, 2015, 05:07:59 pm »

Migranti, l’irritazione del Pd e i dubbi che il bersaglio siano le unioni civili
Nel partito colpiscono gli attacchi a una linea che è costata molti voti alle Regionali.
Il vicesegretario Serracchiani: «Critiche ingenerose».
I timori di Ncd: anche la rivista online vicina ai centristi rileva il rischio che si fomenti «lo scontro ideologico»

Di Monica Guerzoni

Ai piani alti e semideserti del Nazareno, nessuno si aspettava una simile bordata da Oltretevere. Tanto che per ore i «big» del Pd si sono tenuti alla larga da microfoni e telecamere. Finché, alle otto della sera, Debora Serracchiani ha rotto un imbarazzato silenzio e lasciato trapelare la sorpresa, lo stupore e il fastidio del partito di Renzi per le parole di monsignor Nunzio Galantino: «A tutti quelli che dispensano soluzioni, a chi dà giudizi ingenerosi, a chi la fa facile, rispondiamo che questo governo sta affrontando con razionalità una soluzione difficile e lo sta facendo molto meglio che in altre parti».

Una irritazione palpabile, attenuata solo a tarda sera dalle precisazioni di Famiglia Cristiana. Il capo del governo si tiene fuori dalle polemiche, ma certo Renzi è amareggiato per un attacco che i suoi giudicano «ingeneroso» e che non terrebbe conto di quanto il premier si è speso in Europa sul fronte dell’immigrazione. Il governo italiano «del tutto assente»? Angelino Alfano ufficialmente non commenta, ma lo stato d’animo del ministro dell’Interno filtra tra le righe dell’Occidentale. Il giornale online vicino al Ncd fiuta il rischio di «fomentare lo scontro ideologico», rivendica il «difficile atteggiamento di apertura e solidarietà» mantenuto dal governo e fa notare come l’Europa, a cui monsignor Galantino si appella, sia la stessa «che si chiude a riccio» e che «alza muri», invece di sostenere uno sforzo che pesa «sull’Italia soltanto».

Tra i dirigenti del Pd l’affondo di Galantino è stato giudicato talmente pesante da suscitare il sospetto che il segretario generale della Cei si sia mosso in splendida solitudine, almeno rispetto ai vescovi. Un’uscita «del tutto personale», motivata magari da sentimenti che poco hanno a che fare con la drammatica ondata di sbarchi. La severità del monsignore circa le politiche di Palazzo Chigi riguarderebbe, a quanto si sussurra in casa pd, più i diritti civili che i migranti e cioè le norme allo studio su coppie di fatto e omosessuali. «È un tema talmente delicato su cui il governo sta facendo le cose che deve fare, nel rispetto della vita umana» si tiene cauto il capogruppo Ettore Rosato. E la Serracchiani, al Tg1 della sera: «Nessuno può pensare che l’Italia risolva l’emergenza dell’intero continente da sola, motivo per cui abbiamo fatto sì che tutta l’Europa si muovesse». Se Galantino critica il governo per non aver cambiato leggi come la Bossi-Fini, la vice di Renzi assicura che l’Italia ha preso «tutte le misure» per la sicurezza dei suoi cittadini e chiederà alla Ue «che venga affrontato seriamente il tema del rimpatrio». A toccare i «dem» fin nell’orgoglio è l’insinuazione che Renzi abbia trascurato il dramma dei profughi per mettersi in sintonia con i sentimenti più ostili degli italiani, fomentati da Salvini, Zaia e Grillo. Accusa indigeribile per un Pd convinto di aver pagato un prezzo altissimo alle Regionali, perdendo voti proprio per tener fermo il punto sull’accoglienza. «Che monsignor Galantino dica che si può fare di più lo accetto - replica piccato Emanuele Fiano, responsabile Sicurezza - Che affermi che l’azione del governo è totalmente insufficiente non lo accetto».

13 agosto 2015 (modifica il 13 agosto 2015 | 07:34)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_agosto_13/migranti-l-irritazione-pd-dubbi-che-bersaglio-siano-unioni-civili-b91bf362-417a-11e5-b414-c15278464aa4.shtml
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