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Autore Discussione: FABIO MARTINI.  (Letto 125132 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 22, 2010, 03:36:32 pm »

Politica

22/12/2010 - RETROSCENA

E a cena Fli cambia strategia "Ora basta contrapposizioni"

Il leader futurista ai suoi: «Cerchiamo di lavorare sui contenuti»

FABIO MARTINI

ROMA

Nella sala del Mappamondo - per decenni la stanza più magica di Montecitorio con i suoi libri secolari rigorosamente ordinati, ma da qualche tempo trasformata in uno dei tanti luoghi da convegni - il Presidente della Camera sta facendo l’elogio della stabilità: «Questa è una legislatura che può durare». Gianfranco Fini lo dice davanti ai giornalisti parlamentari, radunati per il rito degli auguri e ai quali però si chiede di non fare domande, demandate al presidente dell’Asp Pierluca Terzulli. Il messaggio «continuista» di Fini, in contrasto con recenti, impegnative profezie («Berlusconi non avrà la fiducia»), va collegato ad una successiva esternazione, quando Fini ha auspicato la modifica dell’attuale legge elettorale, perché entrerebbe in conflitto con «una diversa configurazione del panorama politico».

Fuor di politichese, Fini vuole dire che se alle prossime elezioni si presentasse il Terzo Polo, allo schieramento vincente potrebbe bastare il 35-40% per conquistare il 55% dei seggi, configurando una truffa politica più seria di quella che si sarebbe consumata se fosse diventata operativa la famosa legge truffa del 1953. Dunque, il Presidente della Camera fa capire che a lui non dispiacerebbe una legislatura che durasse fino alla scadenza naturale del 2013 e che considera strategica la prospettiva del cosiddetto Terzo Polo. Fin qui il Fini pubblico. Ma il Fini privato, quello che ha parlato in serata ad una cena di parlamentari futuristi, si è spinto molto più avanti, delinenando una vera e propria contro-svolta, una sorta di «contrordine compagni».

Se fino al 14 Belusconi era il nemico numero uno, da abbattere con una mozione di sfiducia, ieri Fini ha detto: «Basta contrapposizioni Fini-Berlusconi, cerchiamo di lavorare sui contenuti e sulle proposte concrete», sul piano parlamentare, «davanti ad una maggioranza risicata e monca», «valuteremo di volta in volta», anche perché «l’opinione pubblica non capirebbe una opposizione pregiudiziale».

Certo, Fini ha detto che il nuovo Polo «per il momento non è un partito e neppure un cartello elettorale», ma la linea soft con Berlusconi è la traduzione letterale di quanto già stabilito in un incontro precedente, assieme a Pier Ferdinando Casini. Una linea nella quale l’Udc si ritroverà naturalmente, ma che per il Fli rappresenta un brusco cambio di marcia.

Da quel che si apprende dai partecipanti alla cena, Fini non avrebbe accompagnato questa svolta con passaggi autocritici, ma semmai avrebbe invitato i suoi parlamentari «a stare tutti un po’ zitti fino al 10 gennaio», «fate che siano gli altri a parlare». E ancora: «Ho sentito da voi voci interessanti, ma a volte anche strampalate». In altre parole, Fini ha impliticitamente rimbrottato quei parlamentari (Fabio Granata, Carmelo Briguglio, forse persino Italo Bocchino) che da sei mesi hanno interpretato in prima linea l’oltranzismo finiano. E anche per gli interpreti più convinti di una linea politica laica (Luca Barbareschi, Flavia Perina, Chiara Moroni) Fini ha suggerito prudenza: «Sui temi etici non cadiamo in trappole strumentali». Un altro implicito segnale che l’alleanza con l’Udc qualche «prezzo» lo comporterà.

Ma proprio sulle potenzialità del Terzo Polo, sul depresso stato maggiore finiano, cominciano ad arrivare segnali interessanti.
Dice Italo Bocchino, braccio destro di Fini: «Gli ultimi studi demoscopici dimostrano che la coalizione ha una capacità attrattiva che va oltre l’appeal dei singoli partiti». Effettivamente in un complesso sondaggio realizzato per «Il Sole 24 0re» dalla Ipsos di Nando Pagnoncelli il 17 dicembre (tre giorni dopo il voto di fiducia al governo), si scopre che se si sommano le percentuali dei singoli partiti del Terzo Polo (Udc di Casini, Fli di Fini, Api di Rutelli, Mpa di Lombardo) si raggiunge la quota del 13,2%, mentre se ai potenziali elettori si esplicita che quegli stessi partiti sono uniti in coalizione il gradimento sale fino al 20%. Con una lievitazione che gratifica tutti: l’Udc (passa da un 5,8% in solitaria al 7,4%), ma in special modo il Fli che sale dal 5,9% ad una percentuale di tutto rispetto, il 9,5%. Dunque, il Terzo Polo sembra far bene al Fli di Fini, anzi si rivela una specie di additivo.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/380959/
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« Risposta #31 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:22:34 am »

Politica

12/02/2011 -

Terzo Polo-Bersani patto senza Di Pietro

Gianfranco Fini pensa di sospendersi dalla carica di numero uno del partito, per smorzare le polemiche sul suo incarico di presidente della Camera

Grande coalizione (con Vendola) in caso di elezioni anticipate

FABIO MARTINI
INVIATO A MILANO

Dietro il palco, Gianfranco Fini non è di buon umore. Gli hanno detto che la sala del congresso è mezza vuota e infatti l’orario di inizio dell’Assemblea costituente di Futuro e libertà via via slitta, fino a cumulare un ritardo di un’ora e mezza. Ma alle cinque della sera il grandissimo "Padiglione 18" della Fiera si è ripopolato e dei 3500 posti a sedere, almeno duemila sono occupati. Una bionda annunciatrice finalmente può lanciarsi nell’annuncio più atteso: «Salutiamo l’ingresso in sala di, di... Gianfranco Fini».

Ovazione dei duemila, dura sessantadue secondi, ma il pathos è un po’ meno intenso di quello che accolse il Capo a Mirabello, per non parlare dell’entusiasmo commovente dei seimila di Bastia Umbra. E un filo di incertezza deve attraversare anche Fini, se lui, proprio lui, sempre così sicuro di sé, nel fervorino iniziale, ad un certo punto dice: «Il tempo dirà se saremo stati all’altezza di un compito tanto ambizioso».

Certo, arrivare a Milano a proprie spese e restarci per due notti non è impresa per tutti, ma il nuovo partito nasce in un momento di "bassa" del consenso attorno ai futuristi, come confermano tutti i sondaggi. E’ per questo motivo che Fini e i suoi colonnelli nei giorni scorsi hanno deciso che dal congresso dovrà uscire un messaggio nitido, tanto più necessario dopo le oscillazioni comunicative dei mesi scorsi.

Un messaggio che è stato trasmesso ai duemila dai due "colonnelli" più vicini a Fini: Ha detto un applauditissimo Adolfo Urso: «Il Fli sarà un partito di destra e noi non vogliamo fare un terzo polo che faccia da ago della bilancia, ma un Nuovo Polo che erediti il blocco sociale dell’attuale centrodestra e sia alternativo alla sinistra». Anche Italo Bocchino ha ripetuto una decina di volta la parola «destra» associata al Fli e declinata sotto varie forme («del futuro», «europea», «popolare»), un partito che sia pronto a ereditare l’elettorato di centrodestra quando scorreranno «i titoli di coda del berlusconismo».

Insomma i futuristi si ributtano a destra. Anche se proprio Bocchino si è "scoperto" con un piccolo equilibrismo verbale: «Nel passaggio tra la Seconda e la Terza Repubblica non rifaremo l’errore nel passaggio tra Prima e Seconda, stavolta riscriveremo le regole comuni tutti assieme». Un’acrobazia semantica con un suo perché: se il messaggio-forte del congresso sarà quello del partito di destra, dietro le quinte è maturata in questi giorni una svolta di prima grandezza, confidata proprio da Bocchino due giorni fa: se la legislatura dovesse cadere nel giro di poche settimane e si andasse ad elezioni anticipate a maggio-giugno Pierluigi Bersani, Pierferdinando Casini, Francesco Rutelli e Gianfranco Fini hanno già stretto un accordo per presentarsi con la stessa coalizione.

Un accordo di massima che prevede l’inclusione nella coalizione di Nichi Vendola e l’esclusione di Antonio Di Pietro. Un altro snodo di questo congresso è rappresentato dalla classe dirigente del nuovo partito. Fini ha deciso di non assumere incarichi di guida, un escamotage per sfuggire ad una nuova ondata di critiche di chi tornerebbe a rimproverargli l’incompatibilità tra Presidenza della Camera e guida effettiva del Fli.

Perciò si autospenderà da Presidente del Fli, uno smarcamento per salvare la forma e che ricorda quello di Berlusconi autosospeso da presidente del Milan, di cui però resta il leader effettivo. La guida effettiva del partito, dopo le ultime trattative, dovrebbe andare a Italo Bocchino, nella qualità di coordinatore o segretario, poco cambia.

La notizia, trapelata attraverso le agenzie, ha fatto imbestialire Adolfo Urso, che è stato coordinatore del comitato costituente di An e lo è stato del Fli. Urso non ha partecipato alla cena "sociale" con lo chef di "corte" Vissani e il dissidio è destinato a metter pepe su un congresso finora senza emozioni.

da - lastampa.it/politica
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« Risposta #32 inserito:: Febbraio 14, 2011, 03:55:40 pm »

Politica

14/02/2011 - RETROSCENA

I colonnelli s'azzuffano nella cena al veleno

Lite tra Urso e Bocchino, in ballo il posto di numero due

Il capo decide, ma poi cambia idea: e le divisioni restano

FABIO MARTINI
INVIATO A MILANO

Si è fatta notte profonda negli opulenti corridoi dell’Hotel «Principe di Savoia» e in una saletta si sta consumando una faticosa cena, alla quale partecipano sei colonnelli del Fli e il loro generale, Gianfranco Fini. E anche se la tensione è altissima attorno al tavolo, nessuno dei presenti può immaginare che la loro è destinata a diventare una vera e propria «cena delle beffe» del neo-futurismo italico. Argomento dell’incontro in hotel (siamo a cavallo tra sabato e domenica) è l’organigramma di «Futuro e libertà».

In ballo, il posto di vice-Fini e in corsa ci sono i due più stretti collaboratori del Capo. Adolfo Urso, 53 anni, da Acireale, che dopo essersi dimesso dall’incarico «pesante» di viceministro per il Commercio estero, per due mesi e mezzo ha svolto il ruolo di coordinatore del Comitato promotore del Fli. E dunque - ora che, dalla «serie B» si passa alla «serie A» - Urso immagina di meritare la conferma. Ma alla poltrona di vice-Fini ambisce anche Italo Bocchino, 43 anni, casertano, astro ormai nato del firmamento finiano, il personaggio più vicino al Presidente della Camera e che è stato l’artefice dell’unico «miracolo» dei futuristi, la costituzione di un gruppo alla Camera formato da ben 35 deputati.

A cena sembra arrivato il momento delle scelte irrevocabili. Fini in prima battuta preferisce ascoltare. Ma dopo una discussione aspra, si apre uno spiraglio. Dice Bocchino: «Se così stanno le cose, io preferisco restare al Gruppo e per me è giusto che il Coordinatore lo faccia Adolfo». Pasquale Viespoli (presidente dei senatori in buona parte diffidenti verso Bocchino), dice che anche per lui Urso numero due va benissimo. Annuiscono anche Della Vedova e Ronchi. Obietta il triestino Roberto Menia: lui si vede bene come capogruppo alla Camera o come coordinatore.

La via d’uscita sembra vicina, ma Fini - irritato perché non si chiude - si alza e se ne va a dormire, lamentandosi che «stanno tornando le correnti e non va bene». Certo, i neo-colonnelli si dimostrano litigiosi, ma se si è arrivati in pieno congresso con questo macigno, il presidente della Camera sa di non potersela prendere soltanto con i suoi «ragazzi». Ma comunque, dopo una cena spiacevole con Urso e Bocchino che si rinfacciano l’aver spifferato alle agenzie notizie per «bruciarsi» a vicenda, il coordinatore uscente sembra in pole position.

Ieri mattina cambia tutto. Si decide di istituire la carica di «vicepresidente» del partito e all’ora di pranzo comincia a circolare un organigramma con Bocchino vicepresidente e Urso coordinatore della segreteria. Ma non ci siamo. A congresso finito, Fini riunisce di nuovo i «magnifici sei» in una saletta della Fiera. Si litiga, ma alla fine si chiude: Bocchino sarà il vicepresidente, Urso il presidente dei deputati, Menia il coordinatore, Della Vedova il portavoce, Ronchi il presidente dell’Assemblea nazionale. Fini assicura: «Scriverò io il comunicato».

Ripartono tutti, alla Fiera restano soltanto Fini, Bocchino e Menia. Due ore più tardi, il comunicato firmato da Fini (anche se 4 ore prima si era solennemente autosospeso da presidente) ribalta tutto: Bocchino resta, ma Urso da capogruppo passa a portavoce, mentre Della Vedova viene suggerito come presidente dei deputati. La penalizzazione così plateale di Urso è dovuta al fatto che lui, applauditissimo dal congresso, si è opposto alla «Santa Alleanza» con il Pd? Urso fa trapelare la sua «costernazione».

Nella segreteria - dove compaiono personaggi di spessore come Umberto Croppi, Federico Eichberg, Maddalena Calia - è stato indicato anche il professor Alessandro Campi. Ma dal Fli lo hanno inserito senza interpellarlo. Pare che Campi sia stato avvisato dell’avvenuta nomina dal fratello. Oggi gli «sconcertati» (ma non ancora al punto di andarsene) Urso e Viespoli terranno una conferenza stampa. Gli effetti della cena delle beffe sembrano destinati a prolungarsi.

da lastampa.it/politica
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« Risposta #33 inserito:: Febbraio 15, 2011, 10:54:01 am »

Politica

15/02/2011 - FUTURO E LIBERTA'- FALSA PARTENZA

L'ombra di D'Alema dietro il caos del Fli

Il malcontento nato dal patto per la «santa alleanza» contro il premier

FABIO MARTINI
ROMA

La crisi delle poltrone che sta squassando il neonato Fli ha un precedente, consumato dietro le quinte, che in gran parte spiega la querelle futurista, inspiegabile col semplice metro del personalismo. Nei giorni che hanno preceduto il congresso di Milano i cinque colonnelli più vicini a Gianfranco Fini avevano discusso - senza darne a vedere - l’ipotesi più hard nel caso in cui la legislatura dovesse precipitare in tempi stretti: la proposta dell’Alleanza costituente - una sorta di Cln anti-Berlusconi, da Vendola a Fini - lanciata due settimane fa da Massimo D’Alema in un’intervista. Ma poco prima di lanciare quella proposta, lo stesso D’Alema l’aveva preparata nel corso di incontri riservati con alcuni dei potenziali protagonisti.

Nel colloquio con D’Alema, i massimi «vertici» futuristi - oltre a convenire sulla proposta della «Santa Alleanza», oltre a prendere atto dell’idea di formare un grande cartello che però escluda Antonio Di Pietro - hanno anche tratto l’impressione, nulla di più, che l’ex premier non abbia escluso un suo coinvolgimento diretto, in posizioni di vertice, nella durissima battaglia elettorale che dovesse aprirsi contro un Berlusconi politicamente ferito. Ovviamente per la scelta della «squadra» anti-Berlusconi è ancora presto e bisognerà verificare le condizioni «sul campo» poco prima della contesa elettorale.

Ma il riservato patto stipulato con D’Alema per la Santa Alleanza antiCavaliere spiega i due passaggi chiave del congresso del Fli appena concluso: la totale rimozione da parte di Gianfranco Fini e di Italo Bocchino della questione delle alleanze elettorali; la rivendicazione di Adolfo Urso, capo dei moderati, di un Fli connotato come partito di destra e «alternativo alla sinistra».

Le ovazioni che hanno accompagnato il discorso di Urso nel primo giorno del congresso hanno condizionato il successivo dibattito, impedendo smarcamenti a sinistra e discorsi «emergenziali». Ma poi, quando è arrivato il momento di distribuire le poltrone, è come se quella battaglia politica avesse in parte influito nella decisione di arrivare ad un plateale «tagliafuori» nei confronti di Urso.
Perché se era attesa e motivata l’ambizione di Italo Bocchino di diventare vice-Fini di «diritto» oltreché di fatto, l’evidente retrocessione di Urso (no a Coordinatore, no a presidente dei deputati, sì a portavoce), al momento non ha trovato spiegazioni da parte dell’entourage del Presidente della Camera. E da lì che Adolfo Urso ha deciso di ripartire. Ai suoi amici l'ex viceministro ha raccontato il suo stupore per il salto che si è determinato domenica a Milano: «Nella riunione finale alla Fiera, si era raggiunto un accordo in base al quale io sarei stato indicato come capogruppo ai deputati.

Siamo ripartiti, ma appena sono sceso dall’aereo ho saputo che il comunicato finale indicava un altro organigramma. Il punto è questo: cosa è successo in quel lasso di tempo?». Dunque, il retrocesso Urso non mette in discussione la decisione di Fini di nominare Bocchino suo vice. Assieme ad Urso si è schierato il fronte dei moderati del Fli, il presidente dei senatori Pasquale Viespoli, quasi tutti i dieci senatori, l’ex ministro Andrea Ronchi.

Lapidario Luca Barbareschi, in uscita dal Fli: «Se continuano a scegliere le persone sbagliate, faranno la fine del Psi». I senatori si riuniranno oggi per decidere il da farsi, ma per tutto ieri hanno atteso segnali dall’altro fronte. Segnali di fumo. Se Fini ha mandato in avanscoperta il suo portavoce Fabrizio Alfano, sordo ad ogni dialogo è stato Italo Bocchino, che avrebbe detto: «Minacciano di far saltare il gruppo del Senato? Che problema c’è? L’Udc è stata per anni senza gruppo a palazzo Madama...». Un muro che ieri sera induceva alcuni moderati a prendere in esame uno scenario fino a due giorni fa impensabile: lasciare il Fli.

da - lastampa.it/politica
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« Risposta #34 inserito:: Febbraio 17, 2011, 12:20:09 pm »

Politica

17/02/2011 - RETROSCENA

Un senatore se ne va. A rischio il gruppo di Futuro e Libertà

Scioglimento certo se non arriva un rimpiazzo

FABIO MARTINI
ROMA

Erano dieci, hanno votato in tre modi diversi. Ieri mattina, al momento di approvare il decreto “Milleprorogoghe”, nella “bomboniera” di palazzo Madama si è scoperto che dei dieci senatori aderenti al gruppo del Fli, soltanto tre avevano seguito le indicazioni del loro presidente, Pasquale Viespoli; uno si è astenuto; uno (dichiarandolo) non ha partecipato al voto; due (non dichiarandolo) sono restati fuori dall’aula e altri due erano assenti in modo involontario.

Ma i guai sono continuati nelle ore successive: il senatore Giuseppe Menardi, annunciando il suo addio (non immediato) al gruppo, ha posto le premesse per il suo scioglimento perché - se non dovessero arrivare “rimpiazzi” - a quel punto verrebbe meno la quota minima, dieci, per organizzarsi autonomamente. Dopo sette mesi, si scioglierebbe così uno dei due gruppi parlamentari di “Futuro e liberà”, nati nell’estate 2010 sull’onda della “cacciata” ordinata da Berlusconi e alla quale Fini e i suoi reagirono con inattesa efficacia organizzativa.

Ma il plateale sparpagliamento del Fli degli ultimi giorni ritaglia per il neonato partito un destino originale: il recente congresso costituente di Milano - anziché avviare una fase di espansione del consenso - per il momento ha dato la stura a emorragie e mal di pancia di varia natura. E nuovi colpi di scena potrebbero determinarsi sul fronte dei parlamentari di “frontiera”. Sorride Daniela Santanché, che a palazzo Chigi è sempre aggiornatissima sulle «new entry»: «Dal Fli c’è movimento...». Quanti? Non parla la Santanché ma fa “quattro” con le dita e poi «due e due».

Come dire, due deputati e due senatori. Sarà vero? Quella dei “transfughi” è una partita sempre estremamente volatile, i numeri cambiano dalla notte alla mattina. Certo, la diaspora dei senatori era nell’aria da tempo. Francesco Pontone (l’ex cassiere di An, amareggiato per la gestione della vicenda Montecarlo) e Giuseppe Menardi non hanno mai aderito a “Futuro e libertà”, metre altri (Mario Valditara, Mario Baldassarri) sono diffidenti verso una possibile deriva sinistrorsa del partito.

Ma il collasso del gruppo futurista del Senato risente della crisi che sta dividendo quel che era il gruppo dirigente del Fli: il dissidio che divide Gianfranco Fini dai moderati. Adolfo Urso, Pasquale Viespoli e Andrea Ronchi lamentano un organigramma penalizzante; temono una gestione che li tagli fuori nella gestione delle liste elettorali; restano diffidenti sulle intese avviate riservatamente col Pd. E Fini?

Non vuol sentire ragioni, al punto che persino lo squagliamento dei senatori sembra lasciarlo indifferente. Dice Bocchino: «Gli addii? Prima o poi dovevamo affrontare il problema». Il presidente della Camera ritiene che il nuovo partito abbia bisogno, oltreché di una sferzata creativa ed org a n i z z a t i v a (perquesta mission ritiene Bocchino di un’altra categoria rispetto ai concorrenti), anche di segnali di novità nella plancia di comando, grazie alla valorizzazione di personaggi estranei alla storia dell’Msi-An.

E’ questo il motivo per il quale Fini avrebbe preferito, per la presidenza dei deputati un personaggio come Benedetto Della Vedova, una «persona preparata e perbene». I moderati per altre 48 ore attenderanno segni di vita dall’altro fronte, dopodiché decideranno se organizzarsi in minoranza (devono chiarire se la potesta sulle liste elettorali sia dell’Ufficio di presidenza o di una sola persona), oppure se varare un nuovo soggetto, che non torni nel Pdl ma possa rappresentare «la destra del Terzo polo».

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« Risposta #35 inserito:: Marzo 23, 2011, 04:47:13 pm »

Politica

22/03/2011 - ANALISI

Pacifisti e guerrafondai I partiti italiani dalle frontiere mobili

Silvio rallenta, la Lega potrebbe smussare i dubbi, il Pd non si smarca

FABIO MARTINI
ROMA

Come in un formicaio impazzito, i partiti di ora in ora cambiano incessantemente posizione sulla guerra libica.
Smarcamenti e riposizionamenti studiati allo scopo di approdare nel modo più indolore ad un appuntamento a suo modo solenne: la discussione in Parlamento (con tanto di voto) sulla partecipazione militare italiana alla missione di guerra, un dibattito che dovrebbe svolgersi entro le prossime 48 ore e che rappresenterà uno spartiacque, uno di quegli eventi destinati ad entrare se non nei libri di storia, quantomeno nella memoria degli italianielettori. Certo, ogni guerra ha le sue incognite e questo può aiutare a spiegare la grande mutevolezza delle posizioni di leader e partiti, eppure, nel corso della giornata di ieri sono emerse diverse e significative novità, che rendono difficile prevedere se in Parlamento la missione italiana potrà contare sulla stessa maggioranza che si è manifestata quattro giorni fa nelle Commissioni Esteri e Difesa di Montecitorio. In quella occasione - sulla decisione più delicata di tutta la legislatura - ha preso corpo una maggioranza senza precedenti, incardinata sull’asse Berlusconi-Bersani-Casini-Fini. Con i leghisti assenti e i dipietristi astenuti.

Uno schema messo in discussione dalle quattro novità maturate ieri. La prima: il Pdl si è allineato alla posizione del presidente del Consiglio («Il comando delle operazioni passi alla Nato»); la Lega ha fatto capire di essere pronta a riassorbire il suo dissenso, ma ad una condizione: che nella mozione di tutta la maggioranza sia inserito un capitolo sul blocco navale, allo scopo di provare ad arginare dalle coste l’immigrazione clandestina. Terza novità: il Pd, anziché cogliere il cambio di posizione del governo per smarcarsi, non ha contestato un comando militare affidato alla Nato. Quarta novità: il gruppo parlamentari dei Responsabili - sentendo allontanarsi il profumo del rimpasto - hanno assunto una posizione “frondista”, intesa ad alzare il prezzo del proprio appoggio al governo.

Al momento, dunque, si potrebbero sintetizzare grosso modo quattro posizioni. Tra i favorevoli all’intervento, un ruolo di leadership l'ha assunto il Capo dello Stato, sin dalle prime ore intervenuto ripetutamente e risolutamente. Tra i ministri un ruolo «avanguardista» se lo è preso il ministro della Difesa Ignazio La Russa, impegnato in un’intensa attività esternatoria. Nel Pd il fronte del «Sì» è stato aperto da Walter Veltroni, anche se la spinta decisiva ai democratici ha finito per darla il Capo dello Stato e infatti per il momento il segretario Pier Luigi Bersani tiene sulla posizione favorevole, lungo le coordinate quirinalizie, intervento «necessario e legale». Decisamente favorevole Pier Ferdinando Casini e - un po’ defilati - i futuristi di Fini. Ovviamente favorevole ma con tratti di forte prudenza il presidente del Consiglio («Sì alle basi, ma gli aerei non sparino») e il ministro degli Esteri Franco Frattini. In transito da una posizione contraria ad una moderatamente favorevole, sono invece i leghisti, che potrebbero convergere col Pdl a patto che nella mozione sia invocato un blocco navale anti-clandestini.

Posizione che fa drizzare i capelli al Pd. Dice Giorgio Tonini: «Impedire, senza un corridoio umanitario, l’arrivo a chi fugge da una guerra, questa sì sarebbe una posizione che rischia di incrinare i rapporti tra maggioranza ed opposizione». Favorevole alla risoluzione Onu, ma contrario alla gestione dell’azione militare è Nichi Vendola, che si è smarcato dalla posizione del Pd, ma senza assumere un atteggiamento aggressivo verso i Democratici. Stesso atteggiamento sembra prendere Antonio Di Pietro che dopo l’iniziale astensione, era transitato verso il Sì, ma da ieri sembra di nuovo approdato al «nì». Alla sinistra di Vendola ci sono i pacifisti «tout court», contrari comunque ad ogni «ingerenza umanitaria» che utilizzi le armi. Oltre a Gino Strada, anche movimenti cattolici come Pax Christi e la Tavola della Pace.

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« Risposta #36 inserito:: Aprile 18, 2011, 04:52:38 pm »

Politica

16/04/2011 - RETROSCENA

Lo strabismo del Fli preoccupa Casini

Appoggio ai candidati di sinistra? I finiani: no, ma libertà di voto

FABIO MARTINI
ROMA

Lo strabismo verso sinistra del Fli comincia a preoccupare l’Udc di Pier Ferdinando Casini: i centristi si sono fatti sentire per vie formali ed informali e alla fine gli eclettici futuristi si sono prodotti in una piccola, significativa giravolta in vista delle elezioni a Milano e Napoli, città clou delle prossime amministrative di maggio. Nei giorni scorsi i big del Fli avevano ripetutamente dichiarato che in caso di ballottaggi, mai e poi mai avrebbero appoggiato i candidati di centrodestra. Dichiarazioni troppo anticipate per non suscitare irritazione nei vertici centristi, al punto che il malumore del segretario Lorenzo Cesa, pur soffocato per motivi diplomatici, ha finito per tradursi in una dichiarazione di Mauro Libè, responsabile degli Enti locali: «Nel Nuovo polo è il momento di lavorare per guadagnare consensi e non di dare armi ai nostri avversari politici». Come dire: perché regalare in anticipo voti a Berlusconi? Perché consentire al Pdl di poter dire: visto che Fini e il Terzo polo lavorano per la sinistra? E’ bastata una puntura di spillo dell’Udc perché i finiani cambiassero posizione. Italo Bocchino, plenipotenziario del Fli, dopo che aveva escluso «convergenze» al secondo turno sui candidati Pdl, ieri sera ha annunciato che «potrebbe esserci libertà di voto», cioè l’indicazione ai propri elettori di votare per gli invotabili (fino a due giorni fa) Letizia Moratti a Milano e Gianni Lettieri a Napoli.

Ma la schermaglia tra i seguaci di Casini e quelli di Fini è il riflesso delle scosse di assestamento che continuano a destabilizzare un partito, il Fli, che dopo il congresso di Milano di metà gennaio non ha ancora trovato un assetto e una linea politica stabili. Problemi di crescita resi manifesti dalla decisione del Fli di rinunciare a presentare il proprio simbolo nella grande maggioranza dei comuni e delle province nelle quali si voterà a metà maggio. Il termine per la presentazione delle liste scade oggi e dunque un quadro ufficiale si avrà soltanto domani, ma oramai il trend è definito: il Fli sarà presente solamente in 30 comuni su 140 sopra i 15.000 abitanti, in 11 capoluoghi su 26, in 4 province su 11 e oltretutto i finiani non presenteranno una propria lista neppure in tutte e quattro le realtà più grandi (Bologna, Milano, Napoli, Torino), visto che il simbolo futurista sarà presente soltanto nelle ultime due città. Ovviamente moltissimi candidati indicati dal Fli saranno presenti in centinaia di liste civiche, ma resta il dato di fondo: la sera del 16 maggio nessuno potrà misurare la reale consistenza del Fli al suo primo test elettorale, a differenza dell’Udc che sarà presente quasi ovunque, con ciò confermando indirettamente la leadership nel Terzo polo.

Per il neonato Fli era difficile immaginare una partenza da partito radicato, ma Bocchino spiega la presenza limitata come «una scelta deliberata, quella di privilegiare l’opzione del civismo, sempre vincente nei momenti di grande cambiamento». A livello locale intanto continua l’emorragia: a Napoli se ne sono andati 68 su 96 presidenti di circolo. Ma dentro il Fli la vera divisione è sull’opzione strategica: mentre il capofila della minoranza interna, Adolfo Urso, continua a pensare ad un orizzonte futuro dentro il centrodestra, i leader del partito Fini e Bocchino coltivano opzioni strategiche molto diverse. Saltata la prospettiva delle elezioni anticipate da affrontare con la Santa Alleanza da Vendola a Fini, ieri il presidente della Camera ha espresso il suo favore per il «governo di decantazione» proposto dal duo bipartisan Veltroni-Pisanu con una lettera aperta: «Condivisibile dalla prima all’ultima parola», dice Fini.

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« Risposta #37 inserito:: Maggio 17, 2011, 05:07:06 pm »

Elezioni 2011

17/05/2011 - IL CASO

Grillini e De Magistris, l'ora del "partito di Santoro"

Presenze fisse e poco moderate ad Annozero si sono imposte nei seggi

FABIO MARTINI
ROMA

Dove il candidato sindaco dei grillini, Massimo Bugani, un trentunenne con la faccia da ragazzino, dagli slogan netti ma non cattivi, fa una battuta volutamente in politichese, che rende bene l’idea di quel che è successo in queste 48 ore: «Il Terzo Polo? Siamo noi!». Come dire: se nella città natale di Casini e Fini, il Cinque stelle prende il doppio dei voti di consumati terzopolisti come Pier e Gianfranco, noi pesiamo molto più di loro. E anche a Torino, i grillini sono riusciti a superare, sia pur di poco, il Terzo Polo. Ma Santoro, con la sua vocazione da «leader», ha dato una mano anche a Giuliano Pisapia: il più efficace spot televisivo a favore dello sfidante della Moratti, è andato in onda giovedì scorso ad «Annozero».

Ad un certo punto ha telefonato Adriano Celentano, che ha piazzato due, tre battute micidiali. Sulla Moratti: «Lei e Berlusconi hanno stravolto il volto di Milano che ai tempi di Leonardo era una delle città più belle d’Europa». E poi una battuta, che potrebbe persino rivelarsi profetica: «Pisapia dovrebbe ritirare la querela, perché lui ha già vinto!». Uno spot molto più efficace di quelli a pagamento: mentre parlava Celentano si è alzato il picco degli ascolti, trainando «Annozero» verso l’ennesimo dei suoi tanti record. Il «partito di Santoro» è andato forte con i suoi candidati, ma stavolta è andato forte soprattutto il «mood» di sinistra, quello che dice: ce la facciamo da soli, insomma la via autarchica al progressismo. L’opposizione guidata dal Pd dove risulta vincente (a Torino, Bologna, Milano) lo fa grazie a coalizioni di sinistra e, curiosamente, laddove si divide in due spezzoni (a Napoli), lì prevale l’ala più radicale, incarnata da Luigi De Magistris, esponente «eretico» dell’Italia dei Valori.

E la sostanziale irrilevanza del Terzo polo, invocati come potenziali alleati da una parte del Pd, completa il quadro. Nota Marco Follini, esponente moderato del Partito democratico: «La crisi elettorale del berlusconismo costituisce la principale virtù del Pd, mentre la crescita della sinistra radicale costituisce il principale rischio per il Partito democratico». Come dire: non esultiamo troppo per vittorie conseguite per consunzione degli avversari e stiamo attenti ad una sinistra a tradizione «gauchiste». Certo, Luigi De Magistris, Giuliano Pisapia e i grillini sono entità diverse, non riconducibili ad una stessa radice politica e culturale. Ma già da anni, a sinistra, si è formata un’area di opinione, una sorta di polo dell’intransigenza. Con la sua ideologia. I suoi organi di informazione. I suoi frequentatissimi siti web. I suoi leader politici (Antonio Di Pietro e Nichi Vendola), il suo variegato Pantheon ideale (che comprende personaggi come Falcone e Borsellino, Berlinguer e Montanelli) e alcuni guru, che sono anche gli idoli di una intera area. Come Marco Travaglio, Beppe Grillo, Roberto Saviano e colui che riesce ad avere (attraverso la tv) la massima influenza: Michele Santoro.

Una fascia di opinione indignata e intransigente che nelle intenzioni di voto rilevate dai sondaggi oscillava a livello nazionale tra il 10 e il 15%, pur comprendendo in questa area un movimento, come le Cinque stelle grilline, che ci tiene a ripetere di non essere «né di destra né di sinistra». Esemplare la storia di Massimo Bugani, il candidato sindaco dei grillini a Bologna che ieri sera, a conteggi ancora aperti, sfiorava una percentuale eccezionale in una città di sinistra, il 10 per cento: «Mia mamma ha lavorato per dieci anni nell’ufficio stampa del Comune di Bologna, la mia famiglia ha votato sempre centrosinistra ma sentendo dall’interno i racconti delle cose che non funzionavano, ho cercato altre strade» e così quando Grillo «aprì il blog, io fui l’undicesimo a iscrivermi al meetup bolognese su Internet».

E uno dei segreti del successo dei grillini corre proprio lungo la rete, come spiega Mario Adinolfi, un big tra i blogger italiani che conosce bene il mondo «under 35»: «A Bologna, ma non soltanto lì, i ragazzi del Movimento Cinque stelle hanno utilizzato intensivamente e meglio di chiunque altro, la rete e grazie a questa risorsa hanno saputo creare una politica organizzata a livello territoriale, molto più organizzata di quanto si possa immaginare». E ancora: «Per loro, etichettandoli come protestatari e antipolitici, si rischia lo stesso abbaglio che si prese con la Lega, venti anni fa. Chi pensa che sia scontato il loro appoggio a Pisapia a Milano, evidentemente non li conosce».

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« Risposta #38 inserito:: Maggio 31, 2011, 03:58:28 pm »

Elezioni 2011

31/05/2011 - RETROSCENA

Prodi frena gli ardori:"Senza un'idea di Paese tornano a vincere loro"

E il popolo di sinistra lo spinge verso il Quirinale

FABIO MARTINI
ROMA

La perfidia del Professore si libera con una battutina sibilata col sorriso sulle labbra: «Gli è rimasta Cesenatico...». Sono le sei della sera, a palazzo Rospigliosi si è appena concluso un convegno sulla Cina, ma Romano Prodi sa già tutto. Cerca di «tenersi», ma la sconfitta di Silvio Berlusconi gli ha messo un buonumore difficile da imbrigliare e infatti «il prof» - come lo chiamano gli intimi - maramaldeggia: «Un consiglio a Berlusconi? Sono troppo giovane per dar consigli ad un politico maturo come lui...». E così, appena concluso il convegno sulla Cina della Fondazione ItalianiEuropei alla presenza di Massimo D’Alema, il Professore risale sull’auto blu e spiazza tutti. Dice: «E se andassimo alla festa in piazza del Pd?». Detto, fatto. Il Professore arriva in piazza del Pantheon mentre sta già parlando Pier Luigi Bersani, nessuno lo aspetta, lui sale sul palchetto e dalla piazza si alza un’ovazione clamorosa e prolungata, con i due emiliani-padani che si abbracciano. E Bersani si commuove

A questo punto il Professore vorrebbe scendere, ma Bersani lo blocca: «No, Romano questa è casa tua!». Intenerito da tanto affetto, Prodi resta sul palco della nomenclatura Pd (ci sono anche la presidentessa Rosy Bindi e i capogruppo parlamentari Dario Franceschini e Anna Finocchiaro), mentre ai piedi della pedana restano gli eterni duellanti dell’ex Pci, Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Sarà un caso, ma proprio loro due - che quando si incrociano nelle manifestazioni, girano lo sguardo altrove stavolta parlottano tra loro. Stavolta i riflettori sono per altri, stavolta ha vinto Bersani e per Prodi c’è stata quella ovazione che finisce per trasmettere un messaggio subliminale: se non c’è il Prof, non si vince e si vince soltanto quando si è uniti. E dunque, quel Prodi sul palco finisce per associare se stesso al mito della vittoria e al mito dell’unità.

Anche se il «meglio», almeno per il Professore, deve ancora venire: quando la manifestazione del Pd si conclude, Prodi si incammina lungo i vicoli rinascimentali che collegano il Pantheon e Montecitorio, attorno a lui si formano due ali di folla e da lì partono applausi e grida esplicite: «Quirinale!», «Presidente!». Una scena inimmaginabile esattamente tre anni fa, il giorno in cui (era il 9 maggio 2008), Romano Prodi lasciò palazzo Chigi e accanto a lui c’erano soltanto tre ministri: Pier Luigi Bersani, Tommaso PadoaSchioppa, Giulio Santagata.

Ma nel giorno della sconfitta berlusconiana, Prodi riserva un’altra sorpresa. Appena si mette a ragionare sul da farsi, il Professore è tutt’altro che trionfalistico: «Ragazzi attenti: senza un’idea del Paese, la prossima volta rivincono loro!». Proprio così: nel giorno della sconfitta che potrebbe essere definitiva del suo nemico storico, il Professore non rinuncia a sottolineare che al Pd manca ancora una lettura complessiva del Paese: «Quando sopraggiungono cambiamenti così significativi, come quello delle elezioni amministrative, aumentano anche le responsabilità e dunque, si sta una mezz’ora a gioire per il successo, la gioia va bene ma poi passa e perciò si deve ricominciare subito col lavoro di organizzazione, di compattamento e con la preparazione di un programma capace di cambiare in profondità il Paese, con una operazione di grande respiro, che non può essere improvvisata». E la conclusione del ragionamento è cruda: «Attenzione perché se non si fa così, ora il vento è favorevole, ma questo stesso vento può diventare tempesta».

Per Prodi la sconfitta della destra potrebbe non essere epocale: «Nel Paese c’è stanchezza e insoddisfazione, ma questo non significa che sia immediata la possibilità di un cambio, anche perché non è facile dare sicurezza su temi come l’angoscia dei nostri ragazzi per il futuro». Ma Romano Prodi non ce l’ha con Bersani. A Pier Luigi il Professore vuole bene. Lo sente simile a lui, gli ha già fatto il regalo di salire sul palco di Bologna una ventina di giorni fa e ora lo dice chiaro e tondo: «Bersani può guidare il centrosinistra? E perché no? Lo sta già guidando. Io non entro nelle decisioni del partito, ma da stasera la mia fiducia in lui è ancora più forte». E così, anche se nessuno lo ha dichiarato da ieri sera è come se si fosse messo in movimento il ticket Bersani-Prodi: un laico a palazzo Chigi e un cattolico al Quirinale. Ma di queste cose il Professore non vuol proprio sentire parlare e ieri sera ha voluto festeggiare ben altro, «il quarantaduesimo anniversario di matrimonio con Flavia».

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« Risposta #39 inserito:: Giugno 07, 2011, 02:11:53 pm »

Politica

07/06/2011 - DEMOCRATICI DOPO IL SUCCESSO

Bersani agli alleati: "Il Pd al centro dell’alternativa"

Pier Luigi Bersani, segretario del Pd:«L'affidabilità di Vendola la verifichiamo prima del voto, no generiche carovane»

"Saremo il primo partito italiano".

Botta e risposta con Vendola

FABIO MARTINI
ROMA

Qualcuno, maliziosamente, l’aveva descritto come una sorta di «vincitore involontario» delle elezioni amministrative. Ma al termine della Direzione del Pd, che ha approvato all’unanimità la sua relazione, Pier Luigi Bersani si è presentato davanti ai giornalisti senza polemizzare con nessuno e anzi, sciorinando tre affermazioni che finiscono per convergere sulla sua, possibile futura premiership. Ha detto Bersani: «I principali obiettivi del Pd sono: diventare il primo partito italiano e rappresentare il centro dell’alternativa alla destra» e quanto a Nichi Vendola che poco prima aveva aspramente apostrofato proprio Bersani, definendo «meschine e pelose» alcune sue affermazioni? Il leader del

Pd sorride, porge il calumet di pace: «Io non sono un maestrino, ma serve un patto chiaro davanti agli elettori». L’assioma bersaniano è allusivo ma chiaro e ricorda un teorema un tempo teorizzato da Mariano Rumor: poiché la Dc è a centro del sistema e i dorotei sono al centro della Dc, la guida del Paese tocca ai dorotei. Certo, Bersani non ha uno stile democristiano e men che mai berlusconiano. Si esprime con frasi rotonde, con un lessico che ricorda quello del Pci, ma il suo ragionamento per la prima volta si è snodato attorno a questo asse: se il Pd diventa il primo partito, se il Pd è al centro della schieramento alternativo alla destra, se le sferzate di Vendola non meritano replica, al centro del sistema c’è proprio il segretario del Pd. Ma Bersani non vuole sentir parlare di premiership decise a tavolino, prima del tempo: «Io ci sono, ma non mi metto davanti al progetto, le leadership sono a valle: nella sequenza logica viene prima il progetto, poi le forze che lo sostengono e soltanto alla fine i leader».

Certo, il passaggio di ieri con la Direzione unanime dietro al suo leader - è stato importante per Bersani. I suoi critici interni sono scomparsi. Soprattutto Walter Veltroni lui sempre così tempista - alcune settimane prima delle elezioni, aveva rilasciato una intervista che alludeva ad un chiarimento post-elettorale. Critiche scomparse nell’intervento di Veltroni, che si è rivolto a Bersani chiamandolo ripetutamente «Pier Luigi». Dentro il Pd un clima idilliaco sul quale hanno pesato una polemica e una discussione apparentemente di carattere storico. Aveva iniziato il presidente della Regione Puglia, prendendo di mira l’insistenza con la quale Bersani chiede la serietà di tutti, a cominciare dalla politica internazionale: «Dichiarazioni pelose e meschine, nessuno nel centrosinistra può mettersi in cattedra e considerare gli interlocutori come alunni da sottoporre ad esami». Sarà che la permalosità di Vendola è proverbiale, sarà che il Governatore era stato «ripreso» qualche giorno fa anche da Giuliano Pisapia, sta di fatto che Bersani ha chiuso la polemica. Con soddisfazione di Vendola. In compenso l’intero gruppo dirigente del Pd è attraversato dallo stesso spauracchio: dilapidare, come avvenne nel 1993-94, il vantaggio accomunato con le vittorie nelle amministrative. Letture diverse tra ex comunisti ed ex democristiani. Ha detto Massimo D’Alema: «Non faremo l’errore di autosufficienza dei progressisti di allora». Un accento autocritico che riguarda le scelte del Pds allora guidato da Achille Occhetto, ma rispetto alle quali gli ex popolari non si sentono coinvolti. Ha detto Rosy Bindi: «Posso ricordare che nel 1993 il Pd non c’era?». Più esplicito Beppe Fioroni: «Allora il Pds aveva una ossessione: battere e cancellare tutto quello che ricordava la Dc». In quella consultazione il Pds e il Ppi (senza mai cercare un accordo tra loro) si presentarono separati e Berlusconi vinse le sue prime elezioni.

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« Risposta #40 inserito:: Giugno 22, 2011, 12:19:07 pm »

22/6/2011
 
Il paradosso fra Paese e Parlamento
 
 
FABIO MARTINI
 
Proprio alla fine Silvio Berlusconi si concede l’unico sbuffo retorico del discorso più controllato della sua vita: «Mi auguro per l’Italia un futuro di prosperità. Lo dobbiamo ai nostri figli e a questa nostra Italia che noi tutti amiamo. Viva l’Italia!».

Il discorso del premier è finito e nell’aula del Senato è giunto il momento dell’applauso gratificante per il Capo. Ma i senatori del Pdl e della Lega, più che battere le mani, se le sfiorano. Ne esce fuori un applauso affettuoso ma senza fragore. Il ministro Roberto Calderoli smette di applaudire dopo soltanto quindici secondi, poi riprende blandamente. Dunque, un Berlusconi e una maggioranza senza pathos, ma la vera sorpresa è un’altra: le opposizioni hanno rinunciato a presentare documenti sui quali misurarsi. Tanto è vero che tre ore più tardi, alla fine del dibattito sulla verifica parlamentare, i senatori usciranno dall’aula senza sottoporsi al rito del voto.

L’opposizione - si fa sapere - non ha voluto «regalare» un ulteriore voto di fiducia al governo, ma l’esito del dibattito è comunque paradossale, anche perché è la conseguenza di quanto accaduto alla Camera qualche ora prima: chiesta la fiducia sul Ddl Sviluppo, il governo ha incassato 317 sì, 293 no. Un margine largo, di 24 voti, superiore alle attese. Di più: si tratta della vetta più alta in termini di voti a favore mai raggiunta dal governo, a partire dal 14 dicembre 2010. Quel giorno Berlusconi per la prima volta dovette fare i conti con la cospicua secessione dei seguaci di Fini (35 deputati) e nonostante ciò ottenne una sia pur risicata fiducia dalla Camera: 314 sì e 311 no.

Curioso contrappasso, quel margine così largo: proprio mentre nel Paese la maggioranza è in crisi di consensi, sia alle amministrative che ai referendum, in Parlamento il governo non solo tiene - e questo sarebbe fisiologico - ma addirittura si rafforza, diventa sempre più solido. Scherza il senatore ex An Domenico Gramazio: «Berlusconi? E’ come il caffè Lavazza: più lo butti giù, più si tira su!». Scherzosamente lo si potrebbe pure chiamare «effetto Lavazza», ma quella escalation è davvero originale. Come si spiega? «Si spiega con la fifa e la fifa compatta!», dice sorridendo Massimo Garavaglia, uno di quei parlamentari leghisti che non usano mai accenti propagandistici. Sostiene Garavaglia: «Ma bisogna anche aggiungere Pontida. Quest’anno c’era tanta gente, molta più del previsto, soltanto nel 1994 e nel 1996 ce n’era altrettanta. E dunque si è capito che noi le nostre richieste vanno prese sul serio».

Certo, la Lega dice di far sul serio e se le sue richieste saranno disattese, la legislatura potrebbe chiudersi prima del tempo e questo fa paura a tanti parlamentari. Ma nel passato la paura non ha mai fatto lievitare artificialmente le maggioranze. Cosa c’è di diverso in questa stagione rispetto alla Prima Repubblica? «La diversità sta in questo - spiega Paolo Giaretta, già sindaco democristiano di Padova e oggi senatore del Pd - che prima i parlamentari dovevano dar conto ai propri elettori e dunque, anche davanti a uno scioglimento anticipato delle Camere, se erano radicati sapevano di poter tornare in Parlamento grazie al consenso popolare, con le preferenze o nei collegi. Oggi torni in Parlamento soltanto se vuole il leader e dunque ecco spiegato il trasformismo: se cambio casacca, posso sperare che il Capo mi premierà. Conclusione: se la maggioranza è più debole nel Paese, il rischio di elezioni aumenta e in Parlamento la maggioranza si rafforza!». Eccolo spiegato l’effetto fifa. Ma il presidente dei senatori Pdl Maurizio Gasparri aggiunge una chiosa interessante: «A me pare che da parte della sinistra non ci sia tutta questa voglia di spallata, sanno che se vincessero adesso, dovrebbero gestire una stagione di crisi economica e di tagli». Un effetto fifa anche a sinistra? Sorride un politico di lungo corso come l’ex ministro socialista Rino Formica: «Il Pd cercherà di tener su Berlusconi, aspettando che fra un anno o due la pera caschi matura. E’ il riflesso di un vecchio parassitismo comunista, ma chissà se la scommessa è giusta...».

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« Risposta #41 inserito:: Giugno 27, 2011, 05:38:39 pm »

Politica

25/06/2011 - RETROSCENA

Scocca l'ora dei Demo-garantisti

Bersani coglie gli umori di una gran fetta del partito, ma c'è chi teme la trappola

FABIO MARTINI
ROMA

Sta in maniche di camicia, ma è un Bersani meno gigione del solito quello che si offre ai giornalisti al termine della direzione del Pd, e infatti quando gli chiedono delle intercettazioni il leader democratico - anziché rifugiarsi nelle consuete metafore crozziane - si produce in un lessico tecnicistico, anche un po’ oscuro: «Non siamo per prendere il tema a valle, caricando tutto sui divulgatori, ma dobbiamo andarlo a prendere a monte: lasciando che le indagini si svolgano con gli strumenti che è giusto utilizzare, vogliamo che ci sia un luogo preciso», che segni «il discrimine tra intercettazioni che devono essere consegnate alle parti e altre che devono esser distrutte perché non ineriscono il procedimento». Conclusione: «La nostra proposta c’è, se la vogliono discutere, la discutiamo». Fuor di politichese, nelle parole di Bersani ci sono due messaggi inattesi: da una parte c’è una micro-apertura alla maggioranza, dall’altra c’è un’allusione (sia pure velata) a un emendamento del Pd, poco gradito dai magistrati e finora ignorato dal Pdl - e che invece potrebbe diventare un autentico uovo di Colombo di tutta questa vicenda.

Dunque, Bersani non tira giù la saracinesca: deve tener conto dell’esistenza dentro il Pd di una corrente di pensiero che si potrebbe ritrovare nello slogan «vorrei ridimensionare i pm, ma non posso». Bersani deve tener conto dell’insofferenza per il protagonismo di certi magistrati che è stato espresso due giorni fa da Massimo D’Alema: «Leggiamo una valanga di intercettazioni che nulla hanno a che vedere con vicende penali ma sono sgradevolmente riferite a vicende personali». Un’insofferenza sincera, perché viene da lontano, in parte interessata perché l’ex presidente del Consiglio è l’unico big di sinistra citato (certo non «implicato») nelle intercettazioni sul caso Bisignani. Ma nel Pd c’è anche un’ala garantista per principio.
Dice Giorgio Tonini, ex presidente della Fuci, uno degli uomini di punta dell’area liberal: «L’articolo 15 della Costituzione è molto chiaro, sancisce che “la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili” e d’altra parte la scomparsa della sfera privata appartiene ai regimi totalitari. Dunque la garanzia alla riservatezza è un diritto costituzionale da garantire, così come il diritto di indagare senza interferenze da parte dei magistrati e il diritto di pubblicare ogni notizia». Pier Luigi Castagnetti, anche lui un anti-giustizialista, richiama però a un vincolo: «Purtroppo Berlusconi ha bruciato tutti i ponti per affrontare temi seri e d’altra parte come si può partire da una specifica indagine per toccare temi così delicati?».

Ma stavolta da destra sono stati meno manichei del solito e hanno fatto riferimento, come possibile punto di incontro, a progetti di legge presentati nel passato dal Pd: «Se si riferiscono al progetto Mastella - dice il senatore del Pd Felice Casson - non ci sono spazi di comunicazione». Ma proprio Casson, un ex pm che non ha portato la toga in Parlamento, è stato il promotore di un emendamento - poi fatto proprio da tutto il Pd, guardato con diffidenza dai magistrati e al quale alludeva ieri Bersani - col quale si individua nel pm il responsabile unico della «custodia degli atti», prevedendo serie sanzioni, anche disciplinari, per chi lascia trapelare atti coperti dal segreto. Inspiegabile il disinteresse del Pdl? «No - dice Casson - quello è un emendamento-cartina di tornasole: lo hanno ignorato perché a loro interessa soltanto bloccare le indagini».

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« Risposta #42 inserito:: Luglio 22, 2011, 04:20:35 pm »

Politica

22/07/2011 - IL CASO

L’asse dei "tre Roberti" contro il cerchio magico

La strategia di Maroni, Calderoli e Castelli per il futuro della Lega e del governo

FABIO MARTINI

L’Umberto l’aveva confidato soltanto ai suoi e la notizia era stata «silenziata». Due giorni fa, mentre il ministro dell’Interno Roberto Maroni andava su e giù tra i banchi della Lega per «motivare» i suoi nel voto anti-Papa, il capo del Carroccio non era presente in aula perché si era ricoverato per un piccolo intervento di cataratta. Certo, una decisione presa diversi giorni prima, dunque programmata esattamente per le ore in cui alla Camera era stata fissata la votazione sulla richiesta di arresto del deputato del Pdl. Una giustificazione ineccepibile per defilarsi nel giorno della coltellata? Moderate dietrologie sono autorizzate dal calendario degli impegni di Bossi nelle prossime 48 ore: questa mattina l’Umberto non parteciperà alla riunione del Consiglio dei ministri dove sarebbe stato inevitabile un chiarimento a tu per tu con Berlusconi, ma in compenso (a leggere «la Padania») in serata il capo della Lega parteciperà a una festa in provincia di Novara, mentre domattina dovrebbe essere presente all’inaugurazione degli uffici ministeriali alla Villa Reale di Monza.

E d’altra parte per tutta la giornata di ieri Bossi non ha fatto trapelare commenti davanti alle interpretazioni dei giornali che hanno parlato di spaccatura dentro la Lega e di colpo mortale inferto al governo. Ma proprio il silenzio di Bossi sembra confermare una lettura meno lapidaria circa il significato della clamorosa votazione di due giorni fa. Già da qualche tempo - e questa è una novità rispetto alla vecchia geografia interna della Lega - si è saldato un «asse dei ministri», un patto tra due personaggi un tempo antagonisti come Roberto Maroni e Roberto Calderoli, uniti però dall’insofferenza per lo strapotere del cosiddetto «cerchio magico», il clan che da tempo attornia il capo e - a parere di molti - lo condiziona pesantemente: i due capigruppo parlamentari Marco Reguzzoni e Federico Bricolo, la «pasionaria» Rosi Mauro, la moglie del capo, Manuela Marrone. E così, nei giorni scorsi, in vista della decisiva votazione su Papa, il «resto del mondo» leghista si è saldato. Un fronte ampio che comprende quasi tutta la nomenclatura: oltre ai due ministri di punta, il viceministro Roberto Castelli, il segretario della Lombardia Giancarlo Giorgetti e il sindaco di Verona Flavio Tosi. Un patto in difesa della «ditta» che prevede anche una divisione dei ruoli: Maroni si giocherà le sue carte come uomo di governo, Calderoli prenderà in mano le redini del movimento. Con Bossi padre nobile.

Per fare cosa? Far cadere il prima possibile Berlusconi e sostituirlo con un altro premier di centrodestra? Oppure per trasformare la Lega nella locomotiva di una nuova fase politica? Su questo il dibattito è aperto. Quelli che hanno parlato nelle ultime ore con Maroni in via informale hanno ascoltato un Bobo consapevole che dopo il voto del 20 luglio «nulla sarà come prima» e che col voto su Papa è iniziato per davvero il dopo-Berlusconi. Indirettamente lo conferma lo stesso Maroni. Dopo il terremoto mediatico e politico di due giorni fa, nell’unica esternazione fatta ieri, anziché smentire indignato, si è limitato a dire: «Il voto alla Camera non ha avuto alcuna ripercussione sul governo». Tutto qui. Ma un «maronita» emergente, un sindaco di successo come Tosi, primo cittadino di Verona, è molto esplicito: «Il problema non è l’alleanza, ma chi la guida e guida il governo». Come dire: da qui al 2013 non molliamo l’alleanza ma mettiamo un altro premier a Palazzo Chigi. Eppure, da sinistra e anche dal centro, in tanti consigliano a Maroni di rendere la Lega protagonista di una svolta verso una nuova stagione, passando attraverso un governo di unità nazionale. E chi ha parlato informalmente con Maroni - anche big del centro e della sinistra tra cui Massimo D’Alema- si sono sorpresi di trovare un Bobo molto motivato rispetto ad una svolta radicale. Ma un leghista della prima ora come Mario Borghezio non ci crede: «Per come è sistemata la sinistra la vedo difficile, ma in compenso è urgente nella maggioranza un cambio di rotta molto chiaro».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/412529/
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« Risposta #43 inserito:: Luglio 30, 2011, 12:06:52 pm »

Politica

30/07/2011 - PERSONAGGIO

Ora Fini progetta il ritorno: "Sarà un autunno caldo"

Nelle ultime settimane contatti a 360 gradi. Di dimissioni dalla Camera non si parla più

FABIO MARTINI
ROMA

Un licenziamento così non si era mai visto nella politica italiana. Il 29 luglio di un anno fa, dichiarato «colpevole» di dissenso, Gianfranco Fini viene cacciato dal Pdl per effetto di una delibera prodotta dall’Ufficio di Presidenza. In poche ore l’ex leader di An riesce ad organizzare una scialuppa di 44 onorevoli «fuggiaschi», anche se non può immaginare che di lì a qualche giorno avrà inizio quella che il suo amico Italo Bocchino a posteriori definisce «un’estate terribile». Per effetto del forcing asfissiante prodotto da parte dei giornali della destra sulla vicenda della casa di Montecarlo. Storia minore, penalmente irrilevante, anche se rimasta molto opaca.

Ad un anno di distanza, il presidente della Camera si prepara ad un’estate psicologicamente molto diversa (unica continuità la villa presa in affitto ad Ansedonia, la stessa di un anno fa), soprattutto perché ha già deciso - e spiegato ai suoi - la strategia dei prossimi mesi: una ri-discesa in campo, che prenderà corpo nel corso del prossimo autunno, un «autunno caldo». E in queste settimane Fini ha tenuto contatti informali a tutto campo: col governo, con i leader del Pd ma anche col personaggio emergente della Lega, Roberto Maroni. Pochi giorni fa, in una intervista a Repubblica, Fini ha inaspettatamente lanciato Maroni come possibile premier, una sortita che ha fatto il pieno dei dissensi, da destra a sinistra. Ma, pochi giorni prima dell’intervista, il presidente della Camera aveva avuto un colloquio riservato proprio col ministro dell’Interno.

Il «ritorno» di Fini, dunque, si concretizzerà da settembre: a partire dal discorso che pronuncerà alla festa del Fli di Mirabello, il presidente della Camera ha deciso di dismettere l’aplomb ingessato ed istituzionale dei mesi scorsi, sostanzialmente per «iniziare la campagna elettorale», in vista di elezioni che al Fli danno per probabili nella primavera del 2012. Fini ha programmato un giro d’Italia intensivo, con comizi in tutte le province. Un «autunno caldo», quello di Fini, che potrebbe essere preceduto - ma in questo caso il condizionale è di rigore - da un annuncio destinato a rafforzare il suo «ritorno»: le dimissioni da presidente della Camera.

Una decisione per il momento improbabile, lungamente valutata nei pro e nei contro, ma legata ad alcune variabili che, forse, saranno più chiare ai primi di settembre. In una stagione nella quale la prassi costituzionale è stata rivisitata dall’«attivismo» del Capo dello Stato, anche l’anomalia-Fini ha finito per ridimensionarsi. E la scelta di restare o meno alla guida della Camera è tornata ad essere una questione di opportunità politica e non più istituzionale. Nelle settimane scorse Fabio Granata, il «kamikaze» di Fli, aveva dato pubblicamente voce a chi dentro il Fli, preferirebbe un impegno a tempo pieno di Fini sul ring politico, anche a costo di rinunciare ai vantaggi - materiali e di status - derivanti dalla presidenza della Camera. Un’istanza che ora Fini non scarta a priori, anche perché - come dice il presidente dei deputati Benedetto Della Vedova «Fini è psicologicamente libero». Nel senso che nessuno gli chiede più di dimettersi.

E dunque Fini si sente libero di prendere qualsiasi decisione. Anche quella di restare. La soluzione più semplice e più probabile, anche perché - come sostiene il presidente dei deputati Italo Bocchino - «sulla base di una ricerca di opinione molto dettagliata, per gli italiani la questione non esiste». E dunque, da Mirabello, Fini non farà clamorosi annunci, tranne che in un caso: «Se ci fosse la certezza di elezioni anticipate ad aprile 2012, a quel punto Gianfranco potrebbe annunciare in anticipo le sue dimissioni da presidente della Camera», sussurra uno dei fedelissimi del capo.

Certo, il «ritorno» di Fini è determinato anche dalla crisi del Fli. Nell’autunno scorso, subito dopo la Convention di Bastia Umbra («Berlusconi si dimetta») quotato da tutti gli istituti di sondaggio sopra il 7 per cento, a partire dal clamoroso fallimento della sfiducia al governo, il Fli ha via via perso consensi potenziali e reali. Una difficoltà acuita in occasione del secondo turno delle amministrative e dei referendum: la libertà di voto suggerita ai propri potenziali elettori ha finito per alludere ad una sostanziale irrilevanza del movimento.

Digerita la delusione elettorale, pare che in questi giorni Fini sia «molto carico», come sostiene il riservatissimo Alessandro Ruben, lo sherpa delle sue missioni negli Stati Uniti e in Israele. E Bocchino si dice convinto che la nuova stagione premierà proprio il presidente della Camera: «Una ricerca affidata ad una società leader al mondo ci conferma che, per l’evolvere della situazione italiana e per le caratteristiche di Fini, proprio lui è il leader che nel passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica, è quello che potrà garantire meglio il cambiamento tranquillo».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/413715/
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« Risposta #44 inserito:: Settembre 08, 2011, 12:29:36 pm »

Politica

08/09/2011 - MANOVRA- CHI VINCE E CHI PERDE- LA STORIA

"Mi chiami dottore" Ora l’onorevole vuole mimetizzarsi

Spille sulle giacche: non sono rari i casi in cui i parlamenatri se le siano tolte

Se riconosciuti per strada spesso vengono insultati e a volte anche minacciati dalla gente

FABIO MARTINI
ROMA

Ai politici, girando per strada, stanno cominciando a capire cose strane. Sguardi cattivi. Parolacce. E può capitare anche di finire «dentro» sketch da film.Come quello che racconta il protagonista, l’onorevole Francesco Nucara: «Ero in ospedale, mi era stato appena inserito un bypass coronarico, stavo sulla barella ed ero ancora un po’ stordito perché mi avevano appena tolto una cannula dalla bocca. Un infermiere, distraendosi, si mette a raccontare al collega le meraviglie di un appartamento sul quale ha messo gli occhi... Ricomincio a parlare e chiedo: scusate, mi potreste aiutare? A quel punto, l’infermiere mi fa la fatidica domanda: scusi ma lei che mestiere fa? Penso tra me e me: ora gli dico che sono pensionato... Mentre sto per dirlo, penso: magari fra poco passa il professore e mi dice: onorevole, come si sente? Per non essere sbugiardato, dico agli infermieri: sono parlamentare, ma per passione... E uno di loro: quanto guadagna? Glielo dico e l’infermiere risponde: ma le pare che io con milleduecento euro sto qui a pulire la m...?».

L’onorevole Nucara, 71 anni, da Reggio Calabria, è dotato di ironia applicata a sé stesso e dunque si racconta senza remore. Non tutti hanno questa dote, ma da qualche settimana i politici - sia pure tra di loro - si raccontano storie di ordinaria paura. In giro per il Paese si sta alzando un umor nero. Insofferenza per i privilegi della “casta”. Intolleranza. A volte «vero e proprio odio», ammette Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati Pdl. E davanti a questa marea montante, gli onorevoli stanno scoprendo una nuova forma di pudore: provano a dissimularsi. Il napoletano Giuseppe Scalera, pdl, lo racconta in modo spiritoso: «Il mio domestico filippino mi chiama sempre senatore. Gli ho detto, chiamami signore...». E più seriamente Scalera aggiunge: «Due colleghi mi hanno riferito di aver detto ai propri figli: a scuola non dite che papà è onorevole».

Altri cercano di rendersi irriconoscibili. Racconta Aldo Di Biagio, deputato tutto d’un pezzo del Fli: «A me i distintivi non piacciono, ma almeno tre colleghi mi hanno confidato di esserseli tolti per evitare di essere riconosciuti. Diciamo che chi prima eccedeva, ora sta diventando più sobrio, anche se il vero rischio è quello di essere messi tutti nello stesso mazzo. Anche quelli che fanno il proprio dovere». Ma intanto tentare di mimetizzarsi sembra un buon investimento, anche perché chi è sincero e "ammette" il proprio ruolo, finisce dentro situazioni spiacevoli. Sui divanetti in pelle rossa del Transatlantico ieri pomeriggio i deputati del Pd si raccontavano l’ultima leggenda metropolitana, quella che riguarderebbe la deputata Giuseppina Servodio, barese, assistente sociale. Qualche tempo fa, si racconta, era salita su un autobus a Roma e non trovandosi soldi sufficienti in borsa, aveva chiesto un piccolo aiuto ad un passeggero e subito dopo aveva spiegato di essere parlamentare. Col risultato di finire aggredita con apprezzamenti del tipo: ecco, togliete i posti alla gente.

Naturalmente tra qualche pavido ci sono pure gli spavaldi. Racconta il senatore pdl Domenico Gramazio, una giovinezza missina in prima linea a menar le mani: «Martedì, per via dello sciopero, ero venuto al Senato in macchina, la polizia non mi lasciava passare e ho detto: sono un senatore... In quel momento è passato un ragazzo con una bandiera rossa e mi ha detto: e vacce’ a piedi. Io che non mi vergogno di essere senatore, gli ho risposto: quella bandiera te la ficchi...». Un altro che non si nasconde è l’onorevole Antonio Angelucci, il re delle cliniche private romane, pdl. Racconta Benedetto Della Vedova, presidente dei deputati Fli: «Fuori Montecitorio, ci è mancato poco che venissi investito: ho guardato, era Angelucci. A bordo della sua Ferrari gialla».

Ma davanti all’ostilità debordante, cominciano già a spuntare le strategie di sopravvivenza. Racconta Giorgio Stracquadanio, il deputato pdl che, avendo sempre amato le provocazioni più hard, è tra i più esposti a reazioni “toste”: «Sui Social network da tempo ero pesantemente preso di mira con una valanga di insulti. Ho deciso di accettare la sfida, di accettare il confronto alla pari. Per 15 giorni è dura, poi può capitare che uno ti inviti a bere una birra. Ti dicono: non mi hai convinto, ma ti sei confrontato. E’ il riscatto dell’onorevole che di questi tempi, per l’appunto, ha perso l’onore». Ma la marea è ancora alta e uno dell’altro schieramento come l’ex ministro Giulio Santagata, già braccio destro di Romano Prodi a palazzo Chigi, da un po’ di tempo ripete agli amici una delle sue battute paradossali: «Sarà bello se riusciremo ad usciremo da qui salvando la pelle».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419195/
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