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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 127422 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Luglio 25, 2011, 12:03:53 pm »

UNA DIFFICILE RAPPRESENTANZA POLITICA

L'inquietudine del mondo cattolico

Nel disfacimento politico in atto era inevitabile che acquistasse spazio l'ipotesi della ricostituzione di un polo politico cattolico grande abbastanza (e quindi tendenzialmente unitario?) da svolgere un ruolo di rilievo. Inevitabile perché la storia non è acqua, e se i cattolici - e la Chiesa - non furono certo tra i soci fondatori del Regno d'Italia, invece lo sono stati senz'altro della Repubblica italiana. Insieme ai comunisti, com'è noto. Con la differenza però che la scomparsa dalla scena degli uni e degli altri non ha avuto certo il medesimo senso e la medesima portata. Mentre i comunisti, infatti, sono stati travolti da una smentita storica che li ha privati della legittimità della loro stessa nascita, gli altri hanno semplicemente visto il proprio partito, la Democrazia cristiana, messo in crisi da un logoramento complessivo, da fenomeni di malgoverno, da una serie di disavventure giudiziarie: tutte cose gravi sì, che però assai più che specificamente della Dc, erano comuni ad un intero sistema e ad un'intera cultura (o incultura) civica (tanto è vero che sono tuttora vitalissime).

In prospettiva, di contro, appaiono sempre più chiari a tutti i meriti storici del cattolicesimo politico italiano: la sua forte capacità inclusiva (sociale e ideologica), la conoscenza e comprensione del Paese, la sua costante volontà d'interlocuzione e di dialogo, la moderazione dei gesti e delle parole unita però a un fondo di valori forti. Non avrebbe forse di tutto ciò l'Italia un gran bisogno ancora oggi? Sicuramente sì. Ma l'ipotesi di ricostituzione di un grande polo politico cattolico implica, mi pare, che si chiariscano preliminarmente almeno due problemi decisivi.

Il primo è un problema per così dire posizionale, che sottintende però formidabili questioni di sostanza. Così come dopo il 1989 al Partito comunista non riuscì di diventare un partito socialdemocratico (cioè la sola cosa che poteva diventare), egualmente alla Dc non riuscì dopo il '93 di abbandonare la sua collocazione centrista e di occupare il solo posto libero nello schieramento politico italiano: quello di destra.

Il problema si pone ancora oggi nei medesimi termini, come mostra il fatto che non esiste sistema politico al mondo che veda la presenza di un partito di sinistra democratica (come accade finalmente anche nell'Italia attuale) e in cui il partito cattolico (o cristiano che sia) non abbia la funzione di contrapporsi al suddetto partito: cioè stia a destra. In realtà la collocazione centrista della Dc dipese interamente dalla particolare situazione del dopoguerra italiano, quando il solo termine destra faceva subito pensare al fascismo, e del resto esisteva un partito neofascista che si diceva per l'appunto di destra. Ma in un sistema a suffragio universale contrapporsi alla sinistra - in questo senso stare a «destra» - non implica affatto sostenere politiche antipopolari, reazionarie o classiste. Sostiene forse politiche di tal genere la cancelliera Merkel?

La generica propensione «a sinistra» della vecchia Dc (salvo però che al momento delle elezioni!) era determinata dalla presenza al suo interno di una componente di sinistra. Questa da un lato era convinta che per rappresentare esigenze «sociali» bisognasse per forza avere una qualche intesa con i comunisti, visti, nell'Italia povera di un tempo, come i naturali rappresentanti del «popolo» e delle suddette esigenze: equiparazioni oggi più che mai discutibili. Dall'altro lato, la sinistra cattolica si serviva del suo dialogo con il Pci per spostare a proprio favore gli equilibri interni del partito, con l'accreditare l'idea di essere l'unica ad avere una visione strategica in grado di compensare sul medio-lungo periodo l'inevitabile usura del potere (Aldo Moro fu essenzialmente questo).

È possibile immaginare che tutto ciò sia finito e che il nuovo partito cattolico sia ora disposto ad essere alternativo al Pd? E cioè, per dire la cosa più importante, a mantenere - come ha suggerito del resto proprio ieri dalle colonne di Avvenire la voce autorevole del rettore della Cattolica, Lorenzo Ornaghi - una forma sia pure corretta di legge elettorale maggioritaria? È certo che se così non fosse, se dovesse invece prendere piede un'opzione favorevole alla proporzionale, ciò equivarrebbe a un segnale quanto mai negativo. Il segnale che il nuovo partito cattolico è pronto ad essere un partito lacerato da anime contrapposte, un partito incapace di scegliere, alla fine tenuto insieme solo dal potere di coalizione. Proprio come fu troppo spesso la Democrazia cristiana nella seconda parte della sua vita.

Dopo quello dello schieramento, il secondo problema riguarda il rapporto con il mondo cosiddetto laico di cultura in senso lato liberale. Il problema si pose anche nel dopoguerra e, come è noto, fu risolto da De Gasperi grazie all'alleanza centrista motivata dalla necessità dell'anticomunismo, protrattasi in varie forme per oltre quarant'anni sempre in nome del «fattore K». Il collante dell'anticomunismo non esiste più, ma anche oggi un rapporto-incontro di quel tipo appare pur sempre necessario al fine di costituire una forza non rinchiusa in un recinto confessionale - che oggi tra l'altro sarebbe assai più angusto elettoralmente di quello che poteva essere nel 1948 - e capace quindi di svolgere un ruolo non minoritario. Un rapporto con il mondo laico di cultura liberale non potrebbe che avvenire, naturalmente, sulla base di un incontro sui programmi ma anche sui valori. Cioè su che cosa può e deve essere l'Italia, sulle scelte importanti, talvolta dolorose, che il Paese deve decidersi a fare se vuole uscire dalla crisi in cui si trascina da due decenni. Ma anche sulle risposte da dare alle sfide che l'onnipotenza congiunta della globalizzazione, della tecno-scienza e di un pangiuridicismo sempre più invadente pongono alle società democratiche e all'intera nostra tradizione culturale.

Lo spazio per un simile incontro oggi forse c'è o si sta creando nella società italiana. E tanto maggiore esso potrebbe essere, a mio avviso, se la nuova Dc, chiamiamola così, più che un partito stricto sensu cattolico si sentisse e si concepisse - secondo ciò che del resto diceva il suo nome di un tempo - come un partito cristiano: per dissipare qualunque equivoco sulla dipendenza dalle gerarchie ecclesiastiche, e per ribadire esplicitamente la propria proiezione al di là dell'ambito confessionale. Cristiano, del resto, per dire l'essenziale di ciò che va detto, basta e avanza.

Ernesto Galli della Loggia

25 luglio 2011 08:18© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_25/dellaloggia-inquietudine-cattolici_106bb244-b67c-11e0-b3db-8b396944e2a2.shtml
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« Risposta #106 inserito:: Luglio 31, 2011, 11:28:43 am »

I PARTITI, LA CORRUZIONE, IL PAESE

La pozzanghera del malaffare

Perché insistere a chiedere all'onorevole Bersani risposte sincere ed esaurienti sui gravissimi sospetti di corruzione che da settimane colpiscono il Pd? Perché correre il rischio di sembrare di avercela per partito preso con la sinistra, quasi che così si volesse fare un favore alla destra? Perché attirarsi l'accusa di essere al servizio niente di meno che di una «macchina del fango» rivolta contro l'opposizione?

Una prima risposta a chi si facesse queste domande (e temo che l'onorevole Bersani sia tra questi) la fornisce il Fatto di ieri: un giornale con il quale spesso si è costretti a non essere d'accordo ma al quale va riconosciuta una notevole indipendenza politica. Ebbene, sul Fatto di ieri Ferruccio Sansa - un giornalista che è a sinistra e ha lavorato al Messaggero , a Repubblica , al Secolo XIX - racconta con abbondanza di particolari come per esperienza personale «chi tocca il centrosinistra muore»: e cioè che «i fastidi che (gli) hanno procurato le inchieste sul centrosinistra non hanno eguali» rispetto a quelle sul centrodestra, dove per «fastidi» si devono intendere «le calunnie, gli insulti, le telefonate a direttori ed editori» che le suddette inchieste gli hanno attirato in un ambiente come quello di Genova, pesantemente e capillarmente dominato dalla macchina politico-burocratica del Pd.

Ecco, fuori dai diffusi opportunismi e dai riguardi malriposti questa è l'Italia vera, quella descritta da Sansa: come sa bene chiunque conosca il Paese, le sue città, i suoi ambienti e le pratiche abituali con cui viene governato. Non foss'altro che per questo, un minimo di decenza vuole che i giornali (proprio come ha fatto il Corriere con il ministro Tremonti per la penna di Sergio Romano) non facciano sconti a nessuno; né alla destra né alla sinistra, e che gli stessi giornali si muovano con la medesima incisività: spregiudicata e forse un po' sbrigativa, se si vuole, ma questo è un altro discorso; che se lo si fa, però, allora lo si deve fare innanzi tutto quando riguarda l'avversario, non già se stessi.

Ma c'è una ragione ancora più importante, d'importanza decisiva, per cui la grande stampa d'informazione non può fare alla sinistra gli sconti che abitualmente e da anni non fa alla destra, pur avendo naturalmente l'obbligo di sottolineare tutte le diversità, se eventualmente emergono, tra i due tipi di corruzione.

La ragione è presto detta. Tutto lascia credere che l'inquinamento della nostra vita pubblica abbia ormai raggiunto livelli spaventosi, quasi vicini al punto di non ritorno. L'esperienza dice altresì che anche a sinistra, cadute le antiche barriere protettive, il fenomeno non ha virtualmente più argini significativi. Di fatto, da anni, le inchieste giudiziarie sui legami tra politica e affari sono divenute l'elemento assolutamente centrale della lotta politica italiana, mentre strumento principe di tale lotta sono sempre più i dossier che ognuno cerca di fabbricare illegalmente sul conto di tutti gli altri. Principalmente per questo è cresciuto di pari passo il ruolo virtualmente politico della magistratura, in modi e misura con ogni evidenza abnormi, e magari, lo si può ammettere, contro la volontà degli stessi magistrati anche se certo non di tutti.

Ruolo di fatto politico, che è divenuto anch'esso elemento assolutamente centrale, e patologico, della lotta tra i partiti: oggetto di polemiche continue, di dispute e ritorsioni ossessive che hanno finito per assorbire quasi ogni altra questione sul tappeto. Corruzione politica da un lato, e prassi e regole dell'azione giudiziaria dall'altro: ecco due giganteschi nodi di problemi che se non vengono sciolti sono destinati a strangolare la democrazia italiana. Ma l'esperienza ormai di decenni mostra che da sole né la destra né la sinistra riescono a farlo. Vittime l'una e l'altra dei rispettivi pregiudizi, delle rispettive convenienze, dei rispettivi legami più o meno espliciti: la destra convinta di poter riuscire prima o poi a mettere il morso alla magistratura, la sinistra convinta che alla fine le inchieste giudiziarie l'avvantaggeranno in modo risolutivo.

S'illudono entrambe. Ma mentre nutrono le loro illusioni il Paese è paralizzato, e, se si muove, è per correre alla rovina. La sola possibile soluzione per sciogliere i due nodi di cui sopra è nella fine delle illusioni sia della destra che della sinistra, e nell'affermarsi dell'idea che è necessario uno sforzo comune per trovare un'intesa all'insegna delle reciproche concessioni: un'intesa, come ripete da tempo il presidente Napolitano, che su tali questioni è un obbligo di carità di patria, di solidarietà nazionale, oltre che una necessità per la salvezza della Repubblica. Su questi temi la grande stampa d'informazione non può né deve avere indulgenza per nessuno, oltre che per le ragioni dette sopra, anche per ciò: perché tanto la destra che la sinistra devono convincersi che i due problemi fin qui considerati riguardano entrambe, che anche in questo caso non ha senso chiedersi per chi suona la campana perché la campana suona per tutti. Se la sinistra si ostina a negarlo non fa che allontanare il bene del Paese per ritrovarsi alla fine in un vicolo cieco.

Ernesto Galli della Loggia

31 luglio 2011 09:28© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_31/la-pozzanghera-del-malaffare-ernesto-galli-della-loggia_bc78fa60-bb40-11e0-acae-70d086d49d73.shtml
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« Risposta #107 inserito:: Agosto 17, 2011, 04:29:01 pm »

SPESA PUBBLICA, SCARSI VALORI

Il vero disavanzo delle democrazie


Con il terremoto della finanza mondiale e con i disordini in Inghilterra l’estate del 2011 sta facendo suonare un campanello d’allarme generale per tutti i regimi democratici. In particolare per quell’aspetto cruciale che è il rapporto dei governi con le risorse disponibili. Tutto ha inizio con il suffragio universale, cuore di quei regimi. Nei quali, come si sa, ogni tot anni chi è al potere deve per l’appunto cercare di avere un voto in più dei rivali, dimostrare che i propri risultati (ovviamente limitati) sono superiori alle promesse (potenzialmente illimitate) degli avversari. La questione decisiva è dunque ogni volta la seguente: come ottenere quel voto in più? Nel corso del tempo le risposte si sono andate riducendo in pratica ad una sola: spendendo, impiegando risorse per soddisfare le esigenze o comunque le richieste dei più vari gruppi sociali in modo da ottenerne così il favore elettorale. Ma spendere significa trovare i soldi per farlo, cioè tassare. Spendere con una mano e tassare con l’altra è divenuta così la regola generale dei regimi democratici. Una regola sempre più vincolante a partire dagli Anni 70 del secolo scorso: allorché alcuni importanti motivi di consenso di tipo politico-ideologico fino ad allora operanti nei regimi democratici (la difesa di certi interessi nazionali ancora largamente sentiti, la necessità di opporsi al comunismo o il ricordo ancora recente del fascismo) hanno perduto di peso o sono svaniti.

Da allora le motivazioni di tipo materiale hanno sempre più rapidamente sostituito quelle immateriali. Tanto più che, sempre a partire dagli stessi Anni 70, la crescita dei redditi, la rivoluzione dei consumi e la comparsa di sempre nuovi beni d’uso quotidiano, hanno cominciato ad occupare sempre di più l’orizzonte delle nostre società, sempre più condizionando le attese degli individui e la formazione della loro stessa soggettività. In questo modo dal dibattito ufficiale delle democrazie è stato rapidamente espulso ogni elemento ideale. Nelle società democratiche, nelle nostre società, non hanno trovato più spazio un qualunque discorso pubblico riguardante il mondo dei valori personali e collettivi, la qualità della vita individuale e della convivenza, le prospettive del futuro. Conseguenza diretta ed esemplare (dappertutto, ma specie in Italia) di questo assottigliamento spirituale—è consentito chiamarlo così? —della cultura democratica, è stata la progressiva perdita di rilevanza e di qualità che ha colpito tanto il sistema dell’istruzione pubblica che l’informazione. Ed è accaduto così che al di là dell’elemento procedurale, l’unica sostanza delle democrazie sia divenuta la pura e semplice tutela, sempre più ampia, di sempre nuovi diritti per i singoli e per i gruppi. La spesa pubblica ha acquistato, in questo modo, un ruolo assolutamente decisivo nella costruzione del consenso democratico. Dovendo tra l’altro fare i conti con un’ulteriore disposizione psicologica tipica delle democrazie: che ciò che è concesso una volta diviene di fatto irrevocabile. Opportunità, elargizioni, benefici e diritti vari, una volta riconosciuti o dispensati possono solo aumentare, mai diminuire.

Ma il meccanismo del consenso attraverso la spesa pubblica, attraverso sempre più spesa pubblica, diventa alla lunga insostenibile, specie se per qualunque ragione il ciclo economico rallenta o si ferma per qualche tempo e il sistema produttivo non genera ricchezza sufficiente da consentire un prelievo fiscale crescente, o tale comunque da soddisfare le richieste che fanno la fila davanti allo sportello della politica (e che tra l’altro aumentano proprio quando le condizioni dell’economia peggiorano). È quello che è capitato alle democrazie occidentali (per prima all’Italia) più o meno negli ultimi trent’anni, allorché, inoltre, il grande consolidamento postbellico dei regimi democratici ha voluto dire un’immissione stabile nella cittadinanza dei più larghi strati sociali, di milioni di persone. L’economia reale, insomma, non ha tenuto dietro al costo della democrazia. È a questo punto che le classi politiche sono state costrette a cercare le risorse necessarie ad ottenere il consenso ricorrendo sempre di più all’indebitamento.

Ed è a questo punto, di conseguenza, che «i mercati», cioè la finanza, hanno cominciato a diventare gli effettivi padroni degli Stati e dei governi; in definitiva della società nel suo complesso. Ma il problema com’è chiaro non è nella finanza o nella speculazione: è nei deficit di bilancio di democrazie che non sanno essere che democrazie della spesa. Come possono fare a non esserlo? A non esserlo, almeno, oltre una certa misura, a non essere solamente tali? C’è un’unica strada mi sembra: oggi difficile perfino a dirsi, ma probabilmente la sola possibile. Trovare alla democrazia nuovi contenuti. Contro l’unidimensionalità economicistica riscoprire la politica; allargarne lo spazio di nuovo, come fu un tempo, ai valori essenziali che ci preme salvaguardare, ai grandi problemi del modello di società che vogliamo. Contro il minimalismo pseudorealista riscoprire la politica e la capacità che essa deve avere di animare un dibattito pubblico con verità, senza chiacchiere utopiche, ma anche con capacità di visione e di mobilitazione ideale. Nei tempi duri, forse durissimi, che ci attendono, la sola speranza della democrazia è nella politica, in una politica siffatta. Solo con questa politica riusciremo, se ne saremo capaci, a fare sì che le nostre società non diventino una docile e invivibile appendice della Borsa.

Ernesto Galli della Loggia

17 agosto 2011 08:26© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_17/galli_loggia_disavanzo_democrazie_ae878f10-c898-11e0-a392-b95dcb34082b.shtml
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« Risposta #108 inserito:: Agosto 21, 2011, 11:48:07 am »

LA DEBOLEZZA DELLE LEADERSHIP

Governanti del nulla

Nonostante gli sforzi di Merkel e Sarkozy per apparire due veri statisti, o l'impegno di Obama per apparire un presidente capace di tenere tutto sotto controllo, le opinioni pubbliche occidentali si rendono sempre più conto che in realtà, oggi, nessuno dei propri governanti tiene sotto controllo un bel nulla. E tanto meno riesce a immaginare una qualche via d'uscita da una crisi che ormai sembra avviarsi ad essere di sistema. Proprio nel momento peggiore della sua storia postbellica l'Occidente, insomma, scopre di essere nelle mani di leader privi di temperamento, di coraggio e soprattutto di visione.

Non è un caso. Il deterioramento qualitativo delle classi politiche, infatti, è innanzi tutto un prodotto inevitabile di quella «democrazia della spesa» vigente da tempo nei nostri Paesi, in forza della quale governare significa in pratica solo spendere, e poi ancora spendere, per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (e quindi tassare e indebitarsi: con relative catastrofi finanziarie). Quando le cose stanno così, per governare basta disporre di risorse adeguate, non importa reperite come, o prometterne. L'esercizio del potere si spoglia di qualunque necessità di conoscere, di capire, di progettare, e soprattutto di scegliere e di decidere. Non solo, ma il denaro diviene a tal punto intrinseco alla politica che esso finisce per apparirne il vero e ultimo scopo: a chi l'elargisce come a chi lo chiede o lo riceve. Con la conseguenza, tra l'altro, che dove il denaro è tutto, inevitabilmente la corruzione s'infila dappertutto. La «democrazia della spesa», insomma, è un meccanismo che, oltre a svilire progressivamente la sostanza e l'immagine della politica, contribuisce a selezionare le classi politiche al contrario, non premiando mai i migliori (per esempio quelli che pensano all'interesse generale).

Lo stesso effetto lo ha la personalizzazione mediatica, specie televisiva, ormai centrale per ogni carriera politica in tutta l'area euro-americana. Da che mondo è mondo, la personalità in politica ha sempre contato moltissimo. Giustamente. Ma quando la valutazione di essa è fatta in gran parte attraverso le apparizioni televisive (in Italia per giunta della durata media di 45-90 secondi), allora è ovvio che a contare siano specialmente l'aspetto, la «simpatia», lo scilinguagnolo, l'abilità nello scansare gli argomenti scomodi. Caratteristiche che però, come si capisce, non sono proprio quelle più significative se si vogliono selezionare dei leader capaci di guidare un Paese nei momenti difficili.

Ad aggravare gli effetti di questa personalizzazione mediatica dei capi si aggiunge paradossalmente, quasi a fare da contrappeso apparente, la progressiva spersonalizzazione, invece, delle loro decisioni: specie di quelle davvero cruciali. Cioè la virtuale deresponsabilizzazione degli stessi capi. Dal momento, infatti, che i problemi hanno sempre di più un carattere mondiale o a dir poco regionale, che la globalizzazione impone le sue regole irrevocabili, l'ambito nazionale diventa secondario.

Quelle che davvero contano in modo vincolante sono sempre di più le decisioni prese da qualche vertice o da qualche istituzione internazionale, più o meno lontani e indifferenti rispetto all'arena politica domestica. Decisioni che così finiscono per essere figlie di nessuno e un comodo alibi per tutti. Come possono formarsi in questo modo vere élites politiche? Veri, autorevoli, capi politici?
Per i paesi di medio livello come l'Italia la cosa è clamorosamente evidente. Basti pensare che per ben due volte negli ultimi anni ci siamo trovati addirittura impegnati in operazioni militari di grande rilievo politico - contro la Jugoslavia prima, e adesso contro la Libia - di fatto solo perché altri avevano preso per noi la decisione relativa e noi non potevamo dispiacergli.

Già, la guerra; e dunque la politica estera di cui la guerra un tempo rappresentava l'apice. Non è politicamente corretto ciò che sto per dire, lo so. Ma certo è difficile pensare che la virtuale scomparsa dall'esperienza europea di questi due ambiti decisivi di ciò che fino a qualche decennio fa è stata la politica - i due ambiti cruciali in cui fino a ieri i capi politici potevano essere chiamati a dare prova di sé, ad essere preparati a dare prova di sé - non abbia avuto la sua parte nel rendere sempre più scadente la qualità delle classi politiche del Vecchio continente. È solo un caso, mi chiedo, se i tre principali leader di paesi democratici nell'Europa della post-ricostruzione - De Gaulle, la signora Thatcher e Helmut Kohl - abbiano legato tutti e tre il proprio nome a grandi decisioni di politica estera e/o di tipo bellico (l'Algeria e l'armamento atomico, la guerra delle Falkland, l'unificazione tedesca)? Forse no, direi, non è proprio un caso.

Ernesto Galli della Loggia

21 agosto 2011 09:53© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_21/della-loggia-governanti-del-nulla_ab16e80a-cbc5-11e0-b17c-f32c89c7e751.shtml
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« Risposta #109 inserito:: Settembre 10, 2011, 05:57:58 pm »

EGOISMI E PAURE TRASVERSALI

Conservatori e immobilisti


Sì, Berlusconi si sta rivelando un pessimo presidente del Consiglio, non si sa come mandarlo via e di fronte alla crisi economica il governo si è mostrato di una pochezza e una goffaggine uniche. Sì, l'opposizione riesce solo a balbettare ma non è capace di nessuna proposta alternativa seria. Sì, la maggioranza è spaccata e l'opposizione è divisa. E per finire c'è l'abominevole casta che tutti ci sentiamo così bravi e onesti a detestare. È tutto vero, sì, l'Italia è tutto questo.

Ma chi cerca di non fermarsi alla superficie sa che nessuno di quelli ora detti è il problema vero del Paese.

Il problema vero, profondo, strutturale dell'Italia sta altrove. Sta nell'esistenza di un immane blocco sociale conservatore il cui obiettivo è la sopravvivenza e l'immobilità. Nulla deve cambiare. È questo il macigno che ci schiaccia e oscura il nostro futuro. Il blocco conservatore-immobilista italiano è un aggregato variegatissimo. Ne fanno parte ceti professionali vasti e ferreamente organizzati intorno ai rispettivi ordini, gli statali sindacalizzati, gli alti burocrati collegati con la politica, i commercianti evasori, i pensionati nel fiore degli anni, i finti invalidi, gli addetti a un ordine giudiziario intoccabile, i tassisti a numero chiuso, i farmacisti contingentati, i concessionari pubblici a tariffe di favore, il milione circa di precari organizzati, gli impiegati e gli amministratori parassitari delle spa degli enti locali, gli imprenditori in nero, i cooperatori fiscalmente privilegiati, i patiti delle feste nazionali, i nostalgici della contrattazione collettiva sempre e comunque, le schiere di elusori fiscali, gli imprenditori in nero, gli aspiranti a ope legis e a condoni, quelli che non vogliono che nel loro territorio ci sia una discarica, una linea Tav, una centrale termica, nucleare o che altro. E così via per infiniti altri segmenti sociali, per mille altri settori ed ambiti del Paese. In totale, una massa imponente di elettorato.

Un elettorato ormai drogato, abituato a trarre la vita, o a sperare il proprio avvenire, dal piccolo o grande privilegio, dall'eccezione, dalla propria singola, particolare condizione di favore. Avendo scritto un paio di settimane fa che abbiamo bisogno di una politica capace di parlare «con verità», Emanuele Severino - con tipico massimalismo filosofico, me lo lasci dire - mi ha chiesto polemicamente «che cosa significhi verità». Ecco, caro Severino, significa per esempio una politica capace di dire le cose banali ma vere di cui sopra, di dire questa verità, che la società italiana è questa qui. Invece tra la politica e il blocco conservatore-immobilista si è da tempo stabilito un rapporto di assoluta complicità.

Forte della debolezza della politica, delle sue pessime prove, sempre più spesso la società italiana sembra non voler riconoscere più alcun potere di direzione alla politica stessa, ma di cercarne solo l'appoggio necessario per la sua sopravvivenza spicciola. E domani capiti quel che può capitare. Essa si muove in questa ricerca con consumata spregiudicatezza, tanto a destra come a sinistra, utilizzando per i propri interessi tutto l'arco della rappresentanza parlamentare.
Ogni gruppo sociale appena importante, ogni interesse e segmento professionale sa di poter contare sui suoi deputati e senatori di riferimento (particolarmente rilevante il caso dei magistrati e degli avvocati che hanno a disposizione un vero e proprio partito ombra), i quali intervengono puntualmente a difendere i propri tutelati contro la destra, contro la sinistra, contro tutti. Come si è visto drammaticamente proprio in queste settimane: quando il governo, la maggioranza, e in modo solo meno diretto anche l'opposizione, si sono mostrati incapaci di esprimere indirizzi rapidi, incisivi e coerenti, di sostenere scelte dure, perché di fatto totalmente in balia del blocco conservatore-immobilista, perché ricattati e minacciati dai milioni e milioni di cittadini impegnati allo spasimo perché tutto resti com'è.

In Italia non sembra più ormai possibile fare nulla, cambiare nulla, perché c'è sempre qualcuno dotato di un potere d'interdizione che dice di no. Anche per questo siamo un Paese che dà sempre di più l'impressione soffocante di un Paese vecchio, immobile, paralizzato. Dove perfino i discorsi, i pensieri, le conversazioni si susseguono sempre eguali. Un Paese prigioniero del suo passato, nel quale troppi hanno costruito la propria esistenza sfruttando rendite di posizione, contingenze favorevoli irrepetibili, trincerandosi in ben muniti fortini corporativi. Un Paese che fino a ieri poteva forse credere di essere una sicura Fortezza Bastiani, ma che oggi, quando il tempo dei barbari è forse arrivato, assomiglia sempre di più a un disperato Forte Alamo.

Ernesto Galli della Loggia

10 settembre 2011 10:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_10/conservatori-e-immobilisti_8cf35bf0-db6b-11e0-b2c4-3586dc7a9584.shtml
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« Risposta #110 inserito:: Settembre 27, 2011, 10:39:57 am »

IL PDL TRA PUBBLICO E PRIVATO

Una commedia italiana


È difficile che Berlusconi non lo sappia. Ma se questo fosse il caso, allora è opportuno che qualcuno glielo dica. Gli dica che in pratica non c'è uno, uno solo, dei deputati e dei senatori della sua maggioranza (nonché dei suoi ministri) che in privato non si mostri convinto che il presidente del Consiglio ha fatto il suo tempo, e che la cosa migliore per tutti è che lasci al più presto il proprio incarico.
È bene che il Cavaliere lo sappia: il deputato che incrociandolo a Montecitorio gli stringe rispettosamente la mano, la sottosegretaria che gli sorride al banco del governo, il fidato collaboratore, tutti, appena lui si allontana, confidano a chiunque che così non si può andare avanti, che il premier deve lasciare. Tutti, indistintamente: ma sempre alle sue spalle. Da settimane sul palcoscenico italiano la destra mette in scena un triste spettacolo di doppiezza.

L'onorevole Alfano ha detto pochi giorni fa che gli avversari del Pdl vogliono non solo cacciare Berlusconi dal governo, ma cancellare in realtà l'intera storia politica di coloro che in lui si sono riconosciuti. Forse. Quel che è certo è che se c'è però un modo di evitarlo è quello di fare politica, come egli appunto cerca di fare in queste ore, non già invece quello che troppo spesso è sembrato prevalere di recente tra gli esponenti del Pdl: in pubblico mettere la testa sotto la sabbia, e in privato abbandonarsi alla confidenza ironica, al qui lo dico e qui lo nego.

Coloro che si comportano così non sembrano rendersi conto che l'Italia vive oggi il momento forse più critico della sua storia postbellica. Il terrorismo e le vicende di «Mani pulite», infatti, non rappresentarono mai un pericolo capace di minacciare ciò che minaccia di fare la crisi economica attuale. E cioè scompaginare le basi sociali stesse della democrazia italiana riducendo drammaticamente le risorse a sua disposizione. E dunque cancellare intere parti della realtà non solo economica ma anche civile e umana del Paese. Egualmente non sembrano rendersi conto che ormai per il Popolo della libertà è questione di vita o di morte: o il Pdl, infatti, riesce a svincolarsi da Berlusconi, e quindi a mantenere in vita un'esperienza dimostratasi cruciale per l'esistenza di un polo politico-elettorale di destra, o per lo stesso Pdl molto verosimilmente è finita. E per la gran massa dei suoi esponenti - privi quasi sempre di un qualunque retroterra di consenso personale - ci sarà forse, a suo tempo, un vitalizio delle Camere, ma di sicuro non c'è più alcun avvenire politico.

Ciò che sta venendo al pettine in questo fosco tramonto del berlusconismo è il nodo del partito, non solo e non tanto personale come è stato tante volte definito, quanto padronale, a cui Berlusconi stesso ha dato vita diciassette anni fa. Un singolare partito, formalmente politico, ai cui esponenti però è stato finora vietato l'accesso a quello che da che mondo è mondo è il momento cruciale della politica stessa: il momento della decisione, delle scelte. Finora, invece, riservato solo al capo e ai suoi fidi. Ma la storia ha voluto prendersi la vendetta di questa bizzarra anomalia. Ora il momento di decidere è inappellabilmente venuto, per ognuno e per tutti. E a tutti è fin troppo ovvio ricordare che in realtà non decidere è già un decidere. E di sicuro, oggi, è la decisione sbagliata.

Ernesto Galli Della Loggia

25 settembre 2011 10:35© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_25/Una-commedia-italiana_cf21ac62-e745-11e0-a00f-4bc86d594420.shtml
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« Risposta #111 inserito:: Ottobre 07, 2011, 04:52:13 pm »

COSTITUZIONE E VOTO SU CSM E CONSULTA

Trattata male (e in silenzio)

Ci sono molti modi per tradire la Costituzione, per violarne lo spirito e di fatto, quindi, mettersela sotto i piedi. Uno è il modo diciamo così alla Bossi: sguaiataggini secessioniste, apprezzamenti ingiuriosi per questo o quell'organo dello Stato, per questa o quella prescrizione della Carta. Ma ce n'è anche un altro, più sottile ma non meno grave: per esempio quello costituito dal modo in cui ormai abitualmente vengono eletti dal Parlamento quei membri della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura la cui elezione la Costituzione riserva appunto alle Camere con modalità stabilite da apposite leggi costituzionali. È il modo, per intenderci, con cui sono stati appena eletti un membro del Csm, Ettore Albertoni, e un giudice della Corte costituzionale, Sergio Mattarella (le cui qualità personali non sono naturalmente qui in alcun modo in discussione).

Stupisce però che questi due modi di tradire/violare la Costituzione o il suo spirito non suscitino affatto la stessa reazione. Nel primo caso (il modo bossiano), infatti, sdegno e riprovazione universali si sprecano. Nel secondo, invece (quello messo in opera dal Parlamento), silenzio di tomba, rotto talvolta solo dalla inascoltata voce dei deputati radicali.

Spiego in che cosa consista a mio giudizio la violazione delle leggi di attuazione costituzionale da parte del Parlamento, della quale sto parlando. È stabilito da tali leggi, tanto per l'elezione dei membri «laici» del Csm che della Corte costituzionale da parte delle Camere riunite, il raggiungimento di un quorum.

Non basta cioè la semplice maggioranza sia pure assoluta: è necessario un consenso più vasto (nel caso dei giudici della Corte i due terzi e dopo i primi tre scrutini a vuoto almeno i tre quinti dei componenti dell'Assemblea; i tre quinti servono anche per i membri del Csm). E per giunta il voto deve essere a scrutinio segreto.

È evidente il senso di queste disposizioni: evitare l'elezione a cariche così importanti di figure di parte, di figure inserite in strette logiche di schieramento. Fare sì, viceversa, che i partiti presenti in Parlamento - i quali sono di fatto i veri titolari del diritto di nomina - trovino l'accordo su personalità di valore e quanto più possibile super partes, in grado quindi di raccogliere la stima e il consenso più ampi.

Ma questa saggissima indicazione è da anni vanificata. Da tempo infatti i partiti hanno rinunciato a qualsiasi concertazione, a qualunque discussione sulle qualità di questo o quel candidato. Hanno preferito tutti adottare, invece, il metodo brutale della spartizione: «Questa volta si vota per il candidato che hai scelto tu, qualunque esso sia; la prossima volta si voterà per quello che ho scelto io». Accade così paradossalmente che non solo non si realizza il fine voluto dalla legge costituzionale, ma che si realizzi esattamente l'opposto. Non solo non c'è la concertazione, il comune convenire sull'eccellenza del candidato, non si sceglie cioè quello che ai più appare «il migliore». Ma capita che - salvo il limite imprecisabile costituito dalla decenza - ogni partito di regola scelga chi gli pare. E dunque, presumibilmente, la persona che dà più affidamento al partito stesso: non è difficile immaginare, nella maggioranza dei casi, per quali ragioni. Così come non è difficile immaginare quale indiscutibile autorità, quale dignità pubblica, possono alla lunga conservare - e rivendicare - organi pur di suprema garanzia ma che i cittadini sanno eletti a questo modo.

Ernesto Galli Della Loggia

07 ottobre 2011 09:01© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_07/dellaloggia-costituzione-voto-csm_a1d3b23c-f0a5-11e0-a040-589a4a257983.shtml
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« Risposta #112 inserito:: Ottobre 19, 2011, 10:14:07 am »

Una bandiera primitiva

L'indignazione è all'ordine del giorno. È di gran moda, anzi, visto che parti significative delle classi dirigenti europee e americane che fino a ieri sembravano del tutto a loro agio nel «sistema», adesso arrivano a dirsi, se non «indignate» anch'esse, perlomeno solidali con chi lo è.

«L'indignazione» all'ordine del giorno è l'ennesima manifestazione dell'antipolitica che cresce, della progressiva cancellazione dall'esperienza di masse crescenti di cittadini di che cosa voglia dire la politica e di che cosa sia il mondo. Infatti, chi cerca di capire come funziona la società, e insieme ha qualche rudimento di economia, e dunque qualche idea di che cosa siano la polis e il suo governo, di che cosa sia e di come sia organizzato il potere, non si indigna. Propone qualcosa, sciopera, fa la rivoluzione, vota per l'opposizione o ne crea una: ma non si indigna. Soprattutto non sta lì a «proclamarsi indignato». Marx non si indignava. E neppure Turati, per dire qualcuno di tutt'altra pasta. Robespierre lui sì, amava dirsi indignato, ma forse è passato alla storia per aver fatto anche qualcos'altro.

L'indignazione in politica, quando è autentica, è una reazione immediata ed elementare. Se diviene permanente, se diviene una bandiera, allora testimonia di una concezione delle cose più che semplificata: primitiva. È la concezione per cui il mondo dovrebbe essere buono e potrebbe esserlo se non fosse per qualche sciagurato che viola le regole senza che nessuno pensi a impedirglielo rimettendo le cose a posto. Non basta l'ingiustizia, infatti, per suscitare l'indignazione: è necessaria l'impunità dei colpevoli veri o presunti. L'indignazione - lo si vede e lo si sente bene nelle agitazioni odierne - è sempre una denuncia della protervia degli impuniti. Essa è animata da questo tratto elementare come testimonia del resto il carattere altrettanto elementare del rimedio che la piazza «indignata» propone per gli attuali problemi del mondo: il debito, i debiti? Non li si paghi! Un occhio per occhio finanziario, insomma: come non averci pensato prima.

Proprio per il suo tratto radicalmente (ed elementarmente) etico, l'indignazione ha successo innanzitutto fra i giovani ma più in generale in tutta una società come la nostra dove, come ho detto, sta scomparendo la politica con la sua noiosa complessità e dove tutte le spiegazioni del mondo fornite dalle ideologie di un tempo non hanno più corso.

Guai però, terribili guai, a sottovalutare la portata dei sentimenti elementari. Specie se scelgono come nemico un nemico già di per sé - per sua natura, a prescindere da ogni malefatta - impopolare come la finanza e le banche. È, questa, l'impopolarità tipica di ciò che risulta astratto, immateriale, lontano, per giunta transnazionale senza patria, incomprensibile (nessun gergo come quello finanziario è interamente dominato dall'inglese); come apparentemente incomprensibile è la magica capacità del denaro di crescere su se stesso. La finanza è il volto cattivo del capitalismo industriale che, almeno lui, si tocca con mano e più o meno si capisce cosa fa e come funziona.

Nulla come la finanza si presta a meraviglia a divenire il simbolo negativo dell'intero capitalismo, dell'intera dimensione economica quando questa non riesce più a darci le cose necessarie alla vita (innanzitutto il lavoro). Ma anzi, come sta accadendo in questi anni minaccia con le sue dure leggi di occupare ogni territorio sociale, di sterilizzare e cancellare ogni ideale collettivo, ogni progetto, ogni speranza. Quando accade cioè, come ora, che l'economia si trasformi in un economicismo asfissiante: vale a dire che essa diviene l'alfa e l'omega di tutto, il vincolo assoluto di ogni decisione.

C'è una sola barriera capace di tenere separata l'economia dall'economicismo. C'è una sola arma per impedire che le nostre società diventino altrettante succursali delle banche (magari della Bank of China): ma non è quella di indignarci e tanto meno di non pagare i debiti. È la politica. A tutti i costi, discutendo e dividendoci, ma questo solo ci può tirare fuori dai guai: tornare a una grande politica.

Ernesto Galli Della Loggia
19 ottobre 2011 08:26© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_19/una-bandiera-primitiva-ernesto-galli-della-loggia_9faad4e8-fa11-11e0-81c3-3aee3ebb3883.shtml
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« Risposta #113 inserito:: Novembre 01, 2011, 11:29:29 am »

I PERICOLI DELL’ASSE BERLINO-PARIGI

I vasi di coccio dell'Unione

In maniera sempre più evidente la crisi economico-finanziaria, proprio perché è innanzi tutto crisi nostra, italiana—e ha fatto bene Mario Monti a ricordarlo domenica scorsa sul Corriere— ci ha messo negli ultimi mesi in un rapporto nuovo e per certi versi drammatico con l’Unione europea. Facendocene apprezzare l’aiuto vitale e necessario, ma anche facendoci toccare con mano il modo sicuramente problematico in cui la costruzione europea si sta sempre più definendo.

L’Europa di oggi non è certo quella del 1958, di cui fummo tra i fondatori, pensata e nata su un piede di assoluta parità tra i suoi membri. Gli sviluppi successivi, infatti, i vari allargamenti succedutisi (in modo particolare quello sciaguratissimo da 15 a 27 Paesi), nonché la crisi economica recente, hanno fatto emergere, di fatto, al suo interno un direttorio franco-tedesco. Direttorio che, benché possa essere considerato allo stato delle cose inevitabile, pone certamente in modo nuovo la questione della cessione di sovranità insita nel trattato dell’Unione.

La domanda cruciale che oggi dobbiamo porci (e forse non solo noi) è: quando obbediamo alle sempre più numerose e vincolanti direttive della Ue, a chi stiamo cedendo sovranità? All’Europa, o piuttosto alla Francia e alla Germania? Domanda tanto più fondata in quanto non c’è nessuna persona di buon senso che possa dubitare del fatto che i governi di Parigi e di Berlino, anche quando trattano affari europei e decidono in quella sede, in realtà si preoccupino innanzi tutto dei propri interessi politici e nazionali. Ma noi? Siamo davvero sicuri, noi, che invece il nostro interesse nazionale e l’interesse politico della maggioranza elettorale che si esprime nel nostro governo, siano sempre e comunque coincidenti con quelli «europei» presi nel modo che ho detto?

A questo proposito a me personalmente appare esemplare quanto ha più volte sentenziato la Corte costituzionale tedesca. E cioè che a norma della costituzione federale, in determinate materie il parlamento della Germania mantiene piena e assoluta sovranità, a dispetto di qualunque decisione possa prendere un qualunque organismo europeo. Qualcosa del genere, mi pare, dovrebbe valere anche per noi, essendo una conseguenza evidente del principio democratico secondo il quale per una moderna comunità politica certe decisioni cruciali sono legittime solo se prese da organi elettivi. Mentre, come è noto, nessun organo realmente decisionale dell’Unione europea lo è. Il che, allora, pur volendo prescindere da ogni questione di forma (ammesso che in questo caso si tratti solo di forma), dovrebbe però obbligare comunque a porsi una domanda non da poco: è accettabile che il nostro interesse nazionale sia di fatto condizionato o addirittura deciso in modo vincolante da governi stranieri?

La verità è che l’Unione europea si trova oggi stretta in una tenaglia. Da un lato le decisioni sempre più importanti a cui soprattutto l’esistenza dell’euro la spingono non le consentono più di seguire la regola, seguita fino ad oggi, per la quale ogni Paese, anche il più piccolo, può esercitare un insindacabile diritto di veto.

Dall’altro lato, però, non le è neppure possibile (per l’inesistenza di un «popolo europeo» e dunque di un medium linguistico comune, e pertanto per l’impossibilità di una vera esistenza politica comune) di adottare la sola procedura alternativa effettivamente democratica: affidare le decisioni medesime a un parlamento eletto da tutti i cittadini dell’Unione. Che vorrebbe dire, poi, il primo passo verso una vera unione federale.

La via d’uscita escogitata per sfuggire a questa tenaglia è una falsa via d’uscita. Mi riferisco al progetto di «pesare» ogni singolo Stato sulla base del numero dei suoi abitanti e di adottare quindi solo le decisioni prese da un numero di Stati la cui popolazione sia almeno pari al 65 per cento dell’intera popolazione dell’Ue.

È una falsa via d’uscita perché in realtà lascia tutto ancora nelle mani dei governi, cioè degli Stati, e dunque affida tutto ai rapporti di forza tra di essi. Che cosa mai impedirebbe, per esempio, all’attuale direttorio franco-tedesco, ricorrendo ai più diversi mezzi di pressione, di convincere del proprio punto di vista un numero di Paesi sufficiente a raggiungere la quota di popolazione prescritta? Non è forse lo stesso direttorio in grado già oggi di costruire l’unanimità intorno ai propri voleri?

C’è poco da fare. Fino a che la parola non passerà ai cittadini-elettori (chissà quando), la volontà dell’Europa sarà sempre la volontà — sia pure la migliore immaginabile: ma il punto non è questo— solo di alcuni Stati, cioè di alcuni governi, cioè in definitiva di alcuni interessi politico-nazionali. Tra questi oggi non c’è di certo l’Italia. Ma siccome il problema non è solo nostro, forse proprio l’Italia potrebbe almeno farsi iniziatrice di un grande dibattito pubblico nella cerchia dell’opinione più qualificata del continente, allo scopo di porre all’attenzione di tutti una questione che alla fine riguarda il futuro di tutti. Senza alcuna iattanza, naturalmente. Ma anche, piacerebbe sperare, senza nessuna timidezza.

Ernesto Galli Della Loggia

01 novembre 2011 09:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_01/della-loggia-i-vasi-di-coccio-unione_6beaeade-0458-11e1-89f9-a7d4dc298cd1.shtml
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« Risposta #114 inserito:: Novembre 27, 2011, 03:12:42 pm »

LE DIFFICOLTÀ DEL NUOVO ESECUTIVO

L'immagine che non c'è

I governi tecnici non esistono. E dunque anche il governo Monti è, come tutti i governi, un governo politico. Ma a giudicare da questi primi giorni sembra che il primo a doversene convincere sia, paradossalmente, il governo stesso. Il quale, se crede nel senso della propria esistenza, deve al più presto, invece, porsi un obiettivo: acquisire - visto che un'identità politica di partenza gli manca - un'immagine politica. Per due ragioni importanti. Innanzi tutto perché solo così esso cesserà di apparire una diretta emanazione della volontà del presidente della Repubblica, si emanciperà dalla sua tutela. E poi perché solo acquisendo una propria immagine politica esso può sperare di resistere al più che probabile assedio dei partiti. I quali per il momento lo appoggiano, è vero, ma intenzionati presumibilmente a consentirgli di sparare al massimo un colpo o due, per poi disfarsene o comunque neutralizzarlo. Ciò che però non sarebbe certo un vantaggio per il Paese. È vero infatti che in una democrazia parlamentare un governo nato al di fuori del circuito politico-partitico costituisce un'evidente anomalia. Ma visto che ormai c'è, conviene lasciargli il tempo e la possibilità di fare ciò che esso è chiamato, e riesce, a fare.

Per il governo Monti acquisire un'immagine politica significa riuscire innanzi tutto a stabilire una comunicazione efficace con gli italiani. Al consenso in certo modo solo formale strappato ai partiti esso deve aggiungere un consenso d'opinione: che allo stato potenziale esiste di certo in notevole misura, ma che ha bisogno di essere motivato e strutturato adeguatamente. La crisi economica è stata decisiva per accreditare la necessità di un cambio alla guida del Paese. Ma ora che questo è avvenuto, il governo deve mostrarsi capace di parlare all'opinione pubblica, di convincerla della necessità dei sacrifici che l'aspettano. E deve farlo nel modo in cui la politica richiede che tali cose vadano fatte. Cioè in modo non notarile, in modo non «tecnico». Sia pure alla loro maniera, con il loro stile, il governo, il presidente del Consiglio, i ministri devono incominciare a parlare al Paese la lingua, tutta politica, dei sacrifici, sì, ma anche degli alti propositi, della speranza, delle emozioni: a un Paese che oggi sembra più che disposto a prestare ascolto a un discorso pubblico fondato sui valori della coesione e dell'equità sociali, della sobrietà dei comportamenti, della buona amministrazione, cioè sui contenuti che Monti si è proposto di dare alla sua azione di governo.

C'è poi un ambito specifico che sembra fatto apposta per la costruzione di un'immagine politica del governo. È quello della politica europea. L'Ue quale l'abbiamo conosciuta negli ultimi quindici anni è ormai virtualmente morta. L'unica cosa rimasta sulle sue rovine è il tentativo di direttorio franco-tedesco. Ciò che però non solo è del tutto contrario al nostro interesse nazionale, ma è quasi certamente destinato a suscitare l'opposizione anche di un certo numero di altri Paesi. Ebbene, perché l'Italia non potrebbe cercare di essere un punto di coagulo di tale opposizione, facendosi iniziatrice di una revisione profonda della costruzione europea? Perché non potrebbe assumersi il compito di avanzare una serie di proposte volte a sostituire ai mandarini di Bruxelles e alla Duma di Strasburgo un'Europa finalmente politica, dotata di effettivi poteri, sanzionati democraticamente dai popoli del continente?
Oggi più che mai, insomma, l'Italia e con lei l'Occidente hanno bisogno di idee, di valori, di progetti: hanno bisogno di politica.

Ernesto Galli della Loggia

25 novembre 2011 | 12:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_25/governo-monti-tecnico_0960dec6-172e-11e1-8448-ba9de42f6fce.shtml
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« Risposta #115 inserito:: Novembre 30, 2011, 11:36:03 am »

POTERI ISTITUZIONALI E COSTITUZIONE

Una discussione a Carta aperta


Qual è il grado di salute della seconda parte della nostra Costituzione, riguardante l'organizzazione dei poteri pubblici? Sono ancora le sue regole capaci di soddisfare esigenze minime di buon governo assicurando efficacia e trasparenza? E in quale misura tali regole sono realmente applicate? Quanto accade da anni sotto i nostri occhi impone di porci queste domande. Un Paese serio discute dei propri problemi senza falsi pudori o ritegni di sorta. E naturalmente - anche se è noto quanto in Italia sia difficile affrontare certi argomenti senza venire immediatamente sospettati di chissà quali secondi fini - dei problemi seri come questi discute seriamente, sottraendoli all'eventuale strumentalizzazione politica.

È più che evidente che in generale tutta l'impalcatura dei poteri disegnata dalla Carta del 1948, tutto l'insieme del regime parlamentare puro lì immaginato (che, lo ricordo, non ha corrispettivo in nessun altro grande Paese dell'Europa occidentale), appare bisognoso di una decisa revisione. Non fosse altro perché, in specie a causa della presenza dei partiti, il ruolo delle Camere e dei parlamentari come centro e motore unico della formazione dei governi e della decisione politica ha subito nei fatti un radicale ridimensionamento.

Ma è in particolare sul ruolo e sui poteri del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio che mi sembra divenuto ormai improcrastinabile avviare una riflessione: non essendoci bisogno di sottolineare come è specialmente su queste due figure che si è andato sempre più focalizzando il cuore istituzionale del processo politico. Ed essendo altresì indiscutibile - al di là di ogni personale simpatia e del vario giudizio che si può dare su coloro che negli anni hanno ricoperto questi ruoli - che è a proposito di ciò che riguarda le prerogative e il modo del loro esercizio da parte delle figure di cui sopra, che si è verificato lo scostamento forse più significativo rispetto al quadro delineato dalla Costituzione. O forse, ancora di più, rispetto alle intenzioni dei suoi autori.

In linea generale, infatti, si può dire che mentre è andato crescendo di molto, e in una direzione schiettamente politica, il ruolo del presidente della Repubblica, viceversa si sono palesati in misura altrettanto forte i gravi limiti oggettivi (a cominciare per esempio dal suo potere nei confronti dei singoli ministri) che incontra l'azione del presidente del Consiglio, pur se è ad esso che nel nostro ordinamento spetta di «dirigere la politica generale del governo e ne è responsabile». Specie nel caso del presidente della Repubblica, poi, i fatti hanno dimostrato, a me sembra in modo chiarissimo, quanto il numero e la sostanziale indeterminatezza di molti dei suoi poteri possano dar luogo a una troppo larga varietà di interpretazioni circa il suo ruolo. Da un'interpretazione minimalista e per così dire notarile, a una invece assai penetrante e per così dire interventista, dotata di una fortissima capacità d'impatto e di condizionamento sull'orientamento politico del Paese. Con l'ovvia conseguenza di uno stato di tensione tra le due cariche, reso più acuto dalla diversa origine prima della loro legittimazione.

Certo, si può ben a ragione osservare che inevitabilmente la concreta esistenza delle costituzioni produce degli scostamenti di fatto dalle loro norme scritte; e che in certa misura è anche opportuno che ciò avvenga, non essendo possibile racchiudere la vita reale delle persone e delle istituzioni nella cadaverica rigidità di un testo. Ci sono però scostamenti e scostamenti dalla lettera della norma: si tratta di misurarne quantità e qualità. Se gli scostamenti sono numerosi, ripetuti e significativi - come io credo che siano nel caso nostro - allora bisogna scegliere. O fare come se nulla fosse, chiudere gli occhi e lasciare che la prassi si svincoli a suo piacere dalle regole (con tutti i pericoli che ciò comporta: a cominciare dal fatto che in questo modo «non si sa dove si può andare a finire»), o invece riflettere sui mutamenti intervenuti e decidere di cambiare le regole.

L'opinione pubblica italiana - pur di fronte a un problema di tale importanza per la nostra vita pubblica - non sembra aver scelto, viceversa, né una strada né l'altra. Bensì quella per lei tristemente abituale del dividersi secondo le linee dell'appartenenza politica e basta. Da un lato, cioè, quelli che non vogliono vedere il problema e dietro ogni accenno ad esso, dietro ogni invito a meditare sulle eventuali inadeguatezze della nostra Costituzione, immaginano chissà quali imminenti attentati ad essa; e dall'altro lato quelli che invece vedono già all'opera da tempo violazioni della Costituzione scientemente perseguite a loro danno da chi pure ne dovrebbe essere il custode. Fuor di metafora: da un lato i simpatizzanti del centro-sinistra, dall'altro quelli della destra. Sperare che finalmente si ponga fine al clima da stadio, e ci si metta a ragionare dando inizio a una discussione vera, degna di questo nome, è allo stato attuale una di quelle speranze che è obbligatorio avere. Anche se in questo Paese sono proprio queste speranze che a forza di essere deluse conducono spesso alla disperazione.

Ernesto Galli della Loggia

30 novembre 2011 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_30/una-discussione-a-carta-aperta-ernesto-galli-della-loggia_6daf71cc-1b1a-11e1-915f-d227e00dc4bd.shtml
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« Risposta #116 inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:14:45 pm »

L'EMERGENZA E IL DIRITTO COSTITUZIONALE

Stato d'eccezione, ma non se ne parla

All'ordine del giorno nelle vicende della Repubblica è oggi uno dei temi chiave della grande riflessione politologica del Novecento: lo «stato d'eccezione». Cioè quella condizione di straordinarietà nella vita di una Costituzione in cui, per la necessità di fronteggiare una situazione di emergenza, le sue regole sono sospese, a cominciare da quelle riguardanti la formazione del governo e l'ambito dei suoi poteri. La sospensione può avvenire in via di fatto o di diritto, anche se per ovvie ragioni sono ben poche (almeno a mia conoscenza) le costituzioni democratiche che prevedono, al di fuori del caso di una guerra, le procedure per dichiarare lo stato d'eccezione e i modi di questo.

Che con il varo del governo Monti l'Italia si sia trovata virtualmente in una condizione del genere lo ha ricordato in un editoriale di Avvenire (4 dicembre scorso) Marco Olivetti parlando di «una vera e propria crisi di sistema» che ha colpito il Paese, e di «ruolo eccezionale» svolto dal presidente della Repubblica. Aggiungendo subito dopo: «Quando la macchina dell'ordinario funzionamento delle istituzioni si inceppa, il presidente (come il re negli ordinamenti monarchici da cui la nostra presidenza deriva) è una sorta di "motore di riserva" che entra in funzione, fino al punto di diventare una sorta di reggitore sussidiario del sistema (corsivo mio, ndr ), al fine di consentire che esso riprenda a funzionare. Dalla fine di ottobre ad oggi Napolitano ha svolto eccellentemente questo ruolo». È senz'altro questo ciò che è accaduto, e l'Italia deve essere certamente grata al suo presidente per l'avveduta prontezza con cui egli è intervenuto come «motore di riserva».

Ciò nondimeno sono sicuro che con la sua cultura democratica Napolitano per primo si renda conto degli interrogativi non irrilevanti che l'azione a cui è stato costretto suscita. Che sono principalmente due. Primo: quali sono le condizioni - non previste in alcun luogo della Costituzione, è bene ricordarlo - che rendono necessario, per usare la metafora di Avvenire , un «motore di riserva»? E secondo: chi è che decide quando esse si verificano? Ad esempio, la decisione dei primi del 1994 del presidente Scalfaro di sciogliere le Camere contro la volontà della maggioranza dei parlamentari, o, per dirne un'altra, la lettera assolutamente irrituale con cui pochi mesi dopo lo stesso Scalfaro mise di fatto sotto tutela il neonato primo governo Berlusconi, con il farsi personalmente garante della sua conformità democratica, rientrano o no nella fattispecie del «motore di riserva»?

Che sull'insieme di tali questioni ci sia urgente, anzi urgentissimo, bisogno di una discussione approfondita lo testimoniano alcune interpretazioni della nostra Costituzione che sulla scia degli ultimi avvenimenti stanno vedendo la luce, e che a me sembrano del tutto prive di fondamento e nella sostanza assai pericolose. Ne cito una per tutte, considerata l'indubbia autorevolezza dell'autore e la sua influenza sull'opinione pubblica: quella avanzata da Eugenio Scalfari su La Repubblica (4 dicembre scorso).

Auspicando che il governo Monti - il quale a suo dire «realizza in pieno il ritorno alla Costituzione» - rappresenti l'annuncio di un'auspicabile «Terza Repubblica» (data tuttavia per «già cominciata» nell'ultima riga dell'articolo), e dopo aver sottolineato che non è affatto detto che quando esso «avrà compiuto la sua opera e realizzato i suoi obiettivi tutto debba tornare come prima», Scalfari scrive di augurarsi che d'ora in poi «i futuri governi siano sempre governi istituzionali che riflettano gli indirizzi della maggioranza parlamentare ma la cui composizione sia decisa dal capo dello Stato come la Costituzione prescrive con estrema chiarezza » (corsivo mio, ndr ). E ribadisce poco dopo che la scelta dei ministri «spetta al capo dello Stato» e non ai partiti, essendo questa secondo lui «una distinzione fondamentale che preserva l'essenza del governo-istituzione». Come possa un presidente della Repubblica con un tale ruolo, un presidente della Repubblica che decide la composizione dei governi, che ne sceglie i ministri, rappresentare «l'unità nazionale» è argomento su cui il nostro autore non si diffonde. Così come non si ferma a chiarire in quale modo il presidente del Consiglio possa «avere maggiori poteri rispetto ai suoi ministri» - come pure egli vorrebbe - una volta che tali suoi ministri, anziché scelti dal premier stesso, fossero stati designati, invece, niente di meno che dal capo dello Stato.

Come si vede, insomma, sta nascendo nel Paese, sull'onda degli ultimi rivolgimenti, una grande voglia di novità. Che investono anche, come io personalmente credo sia giusto e ormai improrogabile, anche parti decisive dell'assetto costituzionale dei poteri pubblici. Ma questa voglia di novità deve manifestarsi all'insegna della chiarezza, attraverso una grande discussione pubblica che veda in prima fila, innanzitutto, gli studiosi di diritto costituzionale (perlopiù finora, invece, singolarmente timidi e abbottonati, pur di fronte a cose di grande rilievo e nonostante il loro frequente atteggiarsi a «guardiani della Costituzione»). In un Paese democratico non può esserci posto per modifiche della Carta costituzionale attraverso vie surrettiziamente interpretative e forzando a piacere il testo della medesima.

Ernesto Galli della Loggia

12 dicembre 2011 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #117 inserito:: Gennaio 01, 2012, 06:33:40 pm »

CRISI E DEMOCRAZIA PARLAMENTARE

La debolezza dei partiti


Ha ragione il presidente Napolitano: in Italia non c'è alcuna «democrazia sospesa». Chi lo dice non sa ciò di cui parla.
Ma c'è, eccome!, una crisi gravissima della democrazia parlamentare: cioè di quella specifica forma di democrazia adottata sessanta anni fa dalla nostra Costituzione - sia pure con alcune modifiche non decisive (principale delle quali l'esistenza di una Corte costituzionale) - e che si sostanzia per l'appunto nell'assoluta centralità del Parlamento.

La realtà e il motivo primo di tale crisi sono presto detti. Stanno nel fatto che il Parlamento - il quale, è bene ricordarlo, resta pur sempre il solo organo del potere legittimato in via diretta dalla sovranità popolare - non solo non è più al centro del processo politico reale, ma non è più al centro di nulla: neppure del processo di formazione delle leggi, essendo perlopiù divenuto, ormai, solo una sede passiva di convalida e ratifica di decisioni prese comunque altrove.

Questo è quanto è più o meno accaduto, beninteso, in quasi tutte le democrazie. Ma con un'importante differenza. Mentre altrove, infatti, lo storico declino del Parlamento è andato sì di pari passo con un aumento del potere di fatto dei partiti, ma si è comunque accompagnato anche a un aumento delle prerogative del governo e/o del suo capo (dal dominio sull'agenda dei lavori parlamentari alla preminenza assoluta del premier nei confronti degli altri ministri, fino al potere di sciogliere le Camere o di essere sfiduciato ma solo previa indicazione da parte del Parlamento del suo successore) solo in Italia, invece, il suddetto declino parlamentare si è accompagnato a una crescita esclusivamente del ruolo e del potere dei partiti. Sarà pure da ricordare che proprio la crisi storica della centralità del Parlamento ha motivato altrove, in un gran numero di casi, l'adozione di sistemi di democrazia presidenziale o semipresidenziale. Solo in Italia, invece, come dicevo, siamo sempre rimasti formalmente in una condizione di classica democrazia parlamentare, ma con l'intero potere politico nelle mani dei partiti, di fatto padroni assoluti del Parlamento. E con esso del governo, alla completa mercé delle maggioranze partitiche.

È stata questa, per l'appunto, la stagione del lungo dopoguerra, della partitocrazia dominatrice della Prima Repubblica. Ma con la fine di quest'ultima, dopo il crollo del muro di Berlino e dopo le inchieste di Mani pulite, è accaduto che la forza e il prestigio dei partiti siano andati rapidamente declinando fino a diventare l'ombra di ciò che erano. È a questo punto - si tratta della fase nella quale siamo immersi da anni - che si è creato un vuoto gigantesco: con un Parlamento espropriato da sempre, con i partiti ridotti allo stato evanescente, con un presidente del Consiglio e un governo tradizionalmente privi di poteri propri significativi. Ed è a questo punto, e per queste ragioni, che ha cominciato a diventare sempre più centrale e incisivo il ruolo del presidente della Repubblica.

Fino a diventare assolutamente determinante nell'ultima crisi di governo allorché, mentre era ancora formalmente in carica il ministero Berlusconi che aveva preannunciato le proprie dimissioni, Napolitano, nominando senatore a vita il professor Monti - prima ancora che avesse inizio qualunque consultazione con i gruppi parlamentari, per il momento ancora detentori formali del potere di convalida - ha reso evidentissime le proprie intenzioni e la propria designazione. Ma mettendo così i partiti, ridotti ormai allo stato larvale, di fronte al fatto compiuto, nell'impossibilità politica di rifiutare il proprio sostegno a un governo destinato ad assommare in sé, in modo singolarissimo, la duplice natura di «governo dei tecnici» e insieme di «governo di unità nazionale» (cioè del governo più politico che ci sia, quello per esempio tipico dei periodi di guerra).

In una materia così delicata è bene essere chiari, anzi chiarissimi. Il presidente della Repubblica non ha certo commesso alcun atto contro la Costituzione, men che meno ha «sospeso la democrazia». Con ogni probabilità, la sua azione - dai tratti così oggettivamente «estremi» - è valsa a riacchiappare per i capelli una situazione del Paese che forse era a un passo dall'andare fuori controllo. E che proprio perciò ha reso inevitabile il ricorso a procedure così insolite. Ma ciò non muta la sostanza: e cioè che l'equazione reale dei poteri pubblici italiani, il quadro dei loro rapporti effettivi, sono ormai lontani dallo schema disegnato nella nostra Carta costituzionale. Solo un cieco potrebbe negarlo. Nell'ambito che stiamo qui discutendo, la Costituzione «materiale» ormai vigente, le sue regole che ormai cominciano ad avere valore di «precedente», hanno, per così dire, un rapporto sempre più problematico con la Costituzione scritta del lontano 1948. Secondo il mio umile parere sarebbe una degna conclusione del settennato del presidente Napolitano se, con un solenne messaggio alle Camere, proprio lui - che di quella Costituzione ha sondato come nessun altro tutta l'elasticità interpretativa, ma sempre servendone con lealtà lo spirito - proprio lui, dicevo, indicasse agli Italiani la necessità di apportarvi le necessarie e ormai improcrastinabili modifiche.

Ernesto Galli Della Loggia

28 dicembre 2011 | 7:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_28/debolezza-dei-partiti-della-loggia_6303313e-311b-11e1-b43c-7e9ccdb19a32.shtml
« Ultima modifica: Gennaio 01, 2012, 06:35:40 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #118 inserito:: Gennaio 09, 2012, 05:47:12 pm »

MODI DI GOVERNO E RUOLO DEI PARTITI

Svolta necessaria nostalgie inutili

È una sensazione diffusa che nella politica italiana dopo Monti — sempre che il suo governo concluda con successo il compito che si è assegnato — nulla sarà più come prima. Ma per quale ragione? E che cosa più precisamente potrebbe cambiare? E quale significato dunque potrebbe avere la novità da lui rappresentata nella vicenda italiana?

Il punto è che per rappresentare effettivamente tale novità, e insieme per avere successo, il premier deve adottare un modo nuovo di governare. È questa, mi pare, la condizione cruciale, di cui forse egli e i suoi ministri ancora faticano a rendersi conto. Un modo nuovo di governare significa evitare le snervanti trattative, le infinite mediazioni, le mezze misure. Significa mostrare capacità di decisione, prontezza, non lasciare marcire i problemi, scegliere donne e uomini nuovi (non gli eterni pur ottimi consiglieri di Stato, non gli eterni pur ottimi alti burocrati, «gabinettisti» in servizio permanente effettivo). Significa insomma prender sul serio «l’emergenza » — cioè la vera ragion d’essere e la vera legittimazione di questo governo — per farne uno strumento di rinnovamento dell’azione e quindi dell’immagine dell’esecutivo.

Se Monti riuscisse in tutto ciò, egli segnerebbe un punto di non ritorno. La maggioranza dell’opinione pubblica italiana, infatti, non sarebbe più disposta a ripiombare nel passato, a essere governata come è stata governata fino al novembre dell’anno scorso. Non sarebbe più disposta, in particolare, a sopportare governi di coalizione: governi fisiologicamente divisi sulle cose da fare, lottizzati in feudi partitici, intimiditi dai sindacati e dalle lobby di ogni genere, vittime sempre di veti incrociati. Come per l’appunto sono stati più o meno tutti i governi della seconda Repubblica (ma anche la prima non scherzava). Non sarebbe più disposta, infine, a essere governata da un personale politico da decenni inamovibile, logorato, popolato di mezze calzette.

I partiti italiani si trovano di fatto presi in una tenaglia: non possono decentemente augurarsi che il governo Monti fallisca, ma d’altro canto il suo successo segna l’inevitabile tramonto della loro forma attuale. È dunque incominciata per essi una corsa contro il tempo. Sono chiamati a cambiare il proprio modo d’essere, i criteri di scelta dei propri esponenti e dei propri rappresentanti nelle assemblee politiche. Ma soprattutto sono chiamati a cambiare il modo di governo del Paese: più precisamente le regole che presiedono alla sua formazione e al suo funzionamento. In altre parole, la legge elettorale da un lato e dall’altro le prerogative dell’esecutivo e del suo capo, cioè gli articoli della Costituzione che regolano tale materia.

Con Mario Monti gli italiani hanno già in qualche modo iniziato a prendere confidenza con una leadership di tipo nuovo, democratica ma forte, che mira diritto allo scopo. Un’analoga indicazione, verso lo stesso tipo di leadership, viene da tempo dall’azione innovativa e dalla figura popolarissima del presidente Napolitano. Si tratta ora di dare a tale nuovo modo di governo forma stabile e regole conformi. Da qui alla primavera dell’anno prossimo questo deve essere il compito dei partiti. Tutto il resto equivale solo a una perdita di tempo e ad aria fritta e il Paese, c’è da giurarci, questa volta non sarebbe un giudice clemente.

Ernesto Galli Della Loggia

9 gennaio 2012 | 15:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_09/galli-della-loggia-svolta-necessaria_8066358a-3a87-11e1-8a43-34573d1838c1.shtml
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« Risposta #119 inserito:: Gennaio 21, 2012, 10:55:57 pm »

L’OLIGARCHIA DEGLI ALTI BUROCRATI

Una invisibile supercasta

Non è vero che il contrario della democrazia sia necessariamente la dittatura. C’è almeno un altro regime: l’oligarchia. E tra i due regimi possono esserci poi varie forme intermedie. Una di queste è quella esistente da qualche tempo in Italia. Dove ci sono da un lato un Parlamento e un governo democratici, i quali formalmente legiferano e dirigono, ma dall’altro un ceto di oligarchi i quali, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere: essendo tentati spesso e volentieri di abusarne a fini personali. I frequenti casi scoperti negli ultimi anni e nelle ultime settimane hanno aperto squarci inquietanti su tale realtà.

Non si tratta solo dell’alta burocrazia dei ministeri, cioè dei direttori generali. A questi si è andata aggiungendo negli anni una pletora formata da consiglieri di Stato, alti funzionari della presidenza del Consiglio, giudici delle varie magistrature (comprese quelle contabili), dirigenti e membri delle sempre più numerose Authority, e altri consimili, i quali, insieme ai suddetti direttori generali e annidati perlopiù nei gabinetti dei ministri, costituiscono ormai una sorta di vero e proprio governo ombra. Sempre pronti peraltro, come dimostra proprio il caso del governo attuale, a cercare di fare il salto in quello vero.

È un’oligarchia che non è passata attraverso nessuna selezione specifica né alcuna speciale scuola di formazione (giacché noi non abbiamo un’istituzione analoga all’Ena francese). Designati dalla politica con un g r a d o a l t i s s i m o d i arbitrarietà, devono in misura decisiva il proprio incarico a qualche forma di contiguità con il loro designatore, alla disponibilità dimostrata verso le sue esigenze, e infine, o soprattutto, alla condiscendenza, all’intrinsichezza — chiamatela come volete — verso gli ambienti e/o gli interessi implicati nel settore che sono chiamati a gestire. Ma una volta in carriera, l’oligarchia — come si è visto dalle biografie rese note dai giornali — si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire rapidamente un potere personale. Grazie al quale ottiene prima di tutto la propria sostanziale inamovibilità.

Sempre gli stessi nomi passano vorticosamente da un posto all’altro, da un gabinetto a un ente, da un tribunale a un ministero, da un incarico extragiudiziale a quello successivo, costruendo così reti di relazioni che possono diventare autentiche reti di complicità, sommando spessissimo incarichi che incarnano casi clamorosi di conflitto d’interessi. E che attraverso doppi e tripli stipendi e prebende varie servono a realizzare redditi più che cospicui, a fruire di benefit e di occasioni, ad avere case, privilegi, vacanze, stili di vita da piccoli nababbi.

Se i politici sono la casta, insomma, l’oligarchia burocratico- funzionariale italiana è molto spesso la super casta. La quale prospera obbedendo scrupolosamente alla prima (tranne il caso eccezionale della Banca d’Italia non si ricorda un alto funzionario che si sia mai opposto ai voleri di un ministro), ma facendo soprattutto gli affari propri. Il governo Monti ha un’agenda fittissima, si sa. Ma se tra le tante cose da fare riuscisse anche a scrivere un rigoroso codice etico per la super casta, sono sicuro che qualche decina di milioni di italiani gliene sarebbe grata.

Ernesto Galli Della Loggia

20 gennaio 2012 | 12:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_20/supercasta-galli-della-loggia_022dd928-4330-11e1-8047-0b06b4bf3f34.shtml
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