LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Gennaio 02, 2008, 11:50:45 am



Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2008, 11:50:45 am
Un incontro fuori tempo

di Ernesto Galli della Loggia


Una parte significativa, qualcuno forse direbbe una gran parte, della storia politica dell'Italia repubblicana è stata occupata dal rapporto tra i cattolici e i comunisti. Entrambi legati profondamente alle masse popolari; entrambi animati da ideali universalistici fondati sulla solidarietà e sul rifiuto dei valori acquisitivi; entrambi estranei alla cultura delle élite statali tradizionali: dopo il 1945 tutto era fatto per avvicinarli. E infatti allora e dopo reciproche attrazioni ideologiche si fecero sentire non poco, specie tra gli intellettuali.

Nell'incontro con i comunisti molti cattolici vagheggiarono il più facile compimento di una radicale promessa di giustizia sociale; nella collaborazione con i cattolici, dal canto loro, molti comunisti videro la premessa per un consenso delle masse popolari capace di rendere la «via italiana al socialismo » una cosa diversa dalla tenebrosa prospettiva sovietica.

A fare in modo che l'incontro restasse almeno potenzialmente possibile in futuro ci pensarono due decisioni strategiche di Togliatti e di De Gasperi: da un lato il voto del Pci a favore dell'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, con cui i comunisti non solo sancirono la loro assoluta diversità dal laicismo delle vecchie élite liberal- democratiche, ma provvidero altresì a spogliare di qualunque riflesso internazionale con la Santa Sede ogni loro eventuale rapporto con i cattolici; dall'altro il rifiuto del leader trentino, a dispetto della scomunica del '49 e delle pressioni del «partito americano », di procedere alla messa fuori legge del Partito comunista.

Ma nella Prima Repubblica, come si sa, quell'incontro non ci fu, se non in forme spurie e provvisorie. Dovrebbe invece esserci ora nel Partito democratico, si dice. Si dice anzi che il Partito democratico in quanto tale sarebbe il sospirato frutto di quell'incontro a lungo rimandato. Così a lungo rimandato da avvenire però, oggi, in condizioni che lo rendono, a me pare, cosa assai diversa da quella che avrebbe potuto essere un tempo, e politicamente molto più problematica.

Tra l'Italia di appena ieri e l'Italia di oggi è infatti intervenuta una gigantesca cesura: il cattolicesimo ha virtualmente cessato di essere la viva matrice dei valori culturali e degli orientamenti pratici della maggioranza della popolazione. Sicché mentre un tempo per esempio la borghesia, pur se politicamente progressista, aveva tuttavia una morale sessuale e familiare in larghissima misura coincidente con quella tradizionale cattolica, oggi, invece, proprio su questi terreni «etici» essa tende a fondare e ad affermare la propria identità politica di sinistra, inalberando l'insegna della «modernità». E' la «modernità », infatti, è essa, oggi, che è divenuta, insieme alla sua sorella la «laicità», assai più della «giustizia» o della «solidarietà» il vero e massimo connotato ideologico dello schieramento progressista.

«Modernità» che naturalmente coinvolge— muovendosi in questo caso specialmente lungo linee generazionali — anche le classi popolari. Le quali, quindi, oggi tendono a non avere più nel retaggio cristiano quel tratto unitario, al di là della destra e della sinistra, che esisteva fino a un paio di decenni fa e che, come il Pci sapeva bene, esigeva il dovuto rispetto.

Ma anche sul versante cattolico c'è oggi, rispetto a ieri, un'importantissima novità.
Proprio in coincidenza con il ruolo via via sempre più centrale che la «modernità» ha acquistato sull'orizzonte dell'epoca, e dunque anche nella società italiana, proprio in coincidenza con ciò — per ragioni che devono sottrarsi a una banale ripulsa in nome della «ragione» o della «libertà» come invece ama fare tanto laicismo nostrano intellettualmente torpido — la posizione cattolica ha preso a identificarsi con una critica sempre più approfondita e combattiva verso la medesima «modernità». O perlomeno verso la sua vulgata più facile e più diffusa: accettando lucidamente, in questa prospettiva, anche il rischio di finire per rappresentare una posizione virtualmente di minoranza.

Ce n'è abbastanza, mi pare, per rendere l'amalgama che dovrebbe realizzarsi nel Partito democratico tra postcomunisti e cattolici tanto diverso da quello (eventuale) del passato quanto di assai problematica utilità politica. L'amalgama odierno, infatti, non solo urta da un lato contro un'ideologia identitaria diffusa nel popolo di sinistra (la cosiddetta «modernità-laicità»), che ieri non era significativa e che oggi invece ha acquistato un fortissimo rilievo politico, ma urta anche contro il nuovo orientamento del cattolicesimo di cui si è detto. E come se non bastasse non è per nulla certo, anche a causa della mutata incidenza quantitativa dei cattolici nel Paese, che esso sarebbe la premessa di quella grande maggioranza elettorale che invece avrebbe sicuramente arriso qualche decennio fa all'antico incontro tra cattolici e comunisti.


02 gennaio 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto Galli Della Loggia Non c’è la Chiesa dietro alla temuta ondata neoguelfa
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2008, 10:59:31 am
L'ITALIA CON TROPPA POLITICA

Conformismo ghibellino e Italia con troppa politica

Non c’è la Chiesa dietro alla temuta «ondata neoguelfa»

di Ernesto Galli Della Loggia


È una bella immagine quella dell' «ondata neoguelfa », uscita dalla penna di Aldo Schiavone in un articolo di qualche giorno fa su la Repubblica.
A stare al quale nell'Italia di oggi, a causa del degrado della vita politica e dell'etica pubblica, starebbe andando ancora una volta in scena «un'antica tentazione» della nostra storia politica e intellettuale, vale a dire «la rinuncia allo Stato », percepito come qualcosa di fragile che «non ce la può fare», e la sua sostituzione con una sorta di «protettorato super partes» attribuito al Papa: fino al punto di fare del magistero della Chiesa «il custode più alto della stessa unità morale della nazione ». Insomma, un vero meccanismo di supplenza, alimentato dall'illusione che «una religione possa occupare il posto della politica e del suo discorso». L'analisi di Schiavone ha precedenti illustri. Che la statualità italiana da un lato, e la Chiesa e il cattolicesimo romano dall'altra, siano due termini sostanzialmente antitetici fu opinione corrente durante il nostro Risorgimento. Che non a caso si compiacque di riprendere l'antica esecrazione antichiesastica di Machiavelli e Guicciardini (puntualmente citata anche da Schiavone), additando altresì nella Controriforma una delle massime fonti della rovina d'Italia: «Quando a noi toccò la parrocchia — scrive anche il nostro autore — mentre gli altri, in Europa, costruivano gli Stati». Qualunque sia l'effettiva plausibilità di questa interpretazione della nostra storia, dubito assai che essa possa farci capire quanto sta accadendo nell'Italia attuale. Riportare sempre tutto, anche fenomeni palesemente e radicalmente nuovi (che dimostrano di essere tali, tra l'altro, proprio tendendo a ridisegnare secondo linee inedite gli schieramenti del passato), riportare sempre tutto, dicevo, come ama fare la maggior parte della cultura italiana, nell'ambito tradizionale delle dicotomie Stato-Chiesa, laico-clericale, conservatore-progressista, mostra solo quanto quella cultura sembri interessata più che alla realtà, più che a comprendere la novità dei tempi, a mantenere ad ogni costo saldo e credibile l'antico universo dei suoi valori e dei suoi riferimenti.
Com'è possibile, mi chiedo, non accorgersi che l'intera impalcatura ideologica otto-novecentesca — di cui le dicotomie italiane di cui sopra sono parte — sta oggi diventando un reperto archeologico? Non accorgersi che sotto l'incalzare di due grandi rivoluzioni — e cioè dell'effettivo allargamento per la prima volta dell'economia industriale- capitalistica a tutto il mondo, e dell'estensione della tecnoscienza alla sfera più intima del
bios — tutta la nostra vita sociale, a cominciare dalla politica, con le sue confortevoli certezze culturali e i suoi valori, deve essere ripensata e ridefinita?
Come non accorgersi che è per l’appunto questa pervadente crisi di senso, e dunque questo drammatico interrogativo sul futuro, a segnare l’attuale drammatico passaggio tra due epoche storiche? E che sono per l’appunto questi fatti, non altro, che rilegittimano potentemente la dimensione religiosa candidandola a occupare nuovamente, in tutto l’Occidente, uno spazio pubblico? Ma se le cose stanno a questo modo— mi domando ancora — chi potrà mai scandalizzarsi se in un Paese come il nostro, con la sua tradizione, il risveglio della dimensione religiosa implichi immediatamente anche il risveglio della voce e della presenza della Chiesa cattolica? Va bene, si obietta, ma si tratta di una voce e di una presenza assolutamente fuori misura. In realtà a me pare che l’impressione di un che di eccessivo, di strabordante, del discorso religioso specialmente sui temi etici (che poi sono anche politici e viceversa, come troppo spesso i denunciatori dell’«ingerenza » non vogliono vedere) è in grande misura favorita dal carattere intellettualmente pigro e ideologicamente conformista della nostra cultura, diciamo pure dalla sua assenza. Il rilievo non riguarda certo Aldo Schiavone che anzi con il suo Storia e destino (Einaudi 2007) ha rappresentato un caso di riflessione originale e coraggiosa sui grandi temi della rivoluzione tecnoscientifica in atto.
Ma un caso raro. È un fatto che invece la cultura laica italiana si è perlopiù abituata oramai a sposare in modo sostanzialmente acritico tutto ciò che abbia a qualunque titolo il crisma della scienza. Non ne parliamo poi se la novità ha modo di presentarsi come qualcosa che possa rientrare nella sfera di un diritto quale che sia. Una sorta di idolatria della scienza opportunamente insaporita da un libertarismo da cubiste è così divenuto la versione aggiornata e dominante del progressismo e del politicamente corretto nostrani. Invano, da noi, si cercherebbe un Habermas, un Gauchet, un Didier Sicard che animano di dubbi e di domande la discussione in altri Paesi. I fari dello spirito pubblico italiano sono ormai Umberto Veronesi e Piergiorgio Odifreddi. Tutto il resto è silenzio. In questa stupefacente condizione di resa intellettuale ai tempi, non c’è da meravigliarsi se la dimensione religiosa e la Chiesa, rimaste di fatto le sole voci significative a obiettare e a parlare una lingua diversa, raccolgano un’attenzione e un ascolto nuovi da parte di chi pensa che esistano cose ben più importanti della scienza. E che anche per ciò, dunque, esse sembrino assumere contorni di particolare rilievo superiori alla loro effettiva realtà.
Inevitabilmente nel silenzio ogni sussurro sembra un grido. Tutto ciò ha poco a che fare con qualche supposto vuoto di politica e di Stato che caratterizzerebbe l’Italia di oggi, secondo quello che invece mostra di credere Schiavone. Se infatti il punto realmente critico della condizione italiana, come a me pare, è l’assenza da parte della nostra cultura di vera discussione pubblica intorno ai grandi temi del Paese e dell’epoca, nonché l’appiattimento conformistico di quella medesima cultura, ebbene allora una parte non piccola di responsabilità ne porta proprio non già il vuoto, ma l’eccesso di politica, in cui siamo stati fino ad oggi immersi. È stata la crescente, spasmodica, politicizzazione del discorso pubblico, di qualunque discorso pubblico, che ha imprigionato l’intellettualità italiana riducendola oggi, checché se ne dica, a una delle meno vivaci e meno interessanti d’Europa.
Facendone altresì, da sempre, in mille ambiti, e tranne pochissime eccezioni, un’articolazione di fatto del sistema politico e della sua ideologia, e dunque rendendola incapace di alimentare la politica stessa di valori e di punti di vista nuovi. Questo corto circuito politica-cultura viene da lontano. Risale alla nascita stessa dello Stato italiano, alla cui origine vi fu una supplenza decisiva: quella per l’appunto rappresentata dalla necessaria iperpoliticizzazione (allora «rivoluzionaria », ma non solo allora) di alcune minoranze—e tra queste la cultura e gli intellettuali furono come si sa in prima fila — al fine di ovviare ad un vuoto decisivo: l’assenza dell’anima profonda del Paese e del suo consenso generale, l’assenza della nazione. È stata altresì questa iperpoliticizzazione—diciamo così—originaria della compagine statale italiana la responsabile immediata dell’ipertrofia statalista che ci accompagna dal 1861. Per potersi esercitare su una società riluttante e lontana di cos’altro poteva servirsi la politica, infatti, se non dello Stato? Insomma, in un implacabile gioco di rimandi, solo all’apparenza contraddittori, il deficit di Stato nazionale ha reso inevitabile l’ipertrofia dello Stato. Ma di uno Stato che non ha potuto essere, nella sostanza, che uno Stato politico-amministrativo: per giunta quasi sempre monopolio politicamente di una parte e amministrativamente quasi sempre inefficiente.
Tutt’altra cosa cioè dallo Stato della nazione, capace invece di incarnare una dimensione realmente rappresentativa di istanze comuni a tutti i cittadini nonché di un’etica pubblica diffusa. Insomma, appellarsi oggi in astratto, come è tentato di fare Schiavone, allo Stato e alle culture politiche come dimensioni in quanto tali salvifiche — per resistere all’«ondata neoguelfa», così come per qualunque altro scopo — serve solo a nascondere il vero dramma dell’Italia, la quale cela proprio nell’ambito dello Stato e della politica le contraddizioni sempre più paralizzanti della sua storia.


12 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto Galli della Loggia L'IDENTITA' DEI CATTOLICI
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2008, 04:06:17 pm
POLITICA E FEDE

di Ernesto Galli della Loggia

L'IDENTITA' DEI CATTOLICI


L'identità cristiana dell'Italia: proprio per la sua difesa, l'onorevole Casini, come non si stanca di ripetere, ha deciso di rompere la più che decennale alleanza della Casa delle libertà e di presentarsi da solo davanti al corpo elettorale. Non credo perché pensasse che la Cdl fosse diventata da un giorno all'altro una minaccia per la suddetta identità; bensì perché evidentemente convinto che tale identità, per essere affermata e difesa davvero e fino in fondo, abbia bisogno della presenza di un partito cristiano (leggi: cattolico), non possa fare a meno in Parlamento di una sigla, di un simbolo che esplicitamente inalberino la Croce.

Questo convincimento di Casini serve a ricordarci una delle caratteristiche più singolari della politica italiana: la sua disinvoltura nel gettarsi il passato dietro le spalle e far finta che ciò che è successo non sia successo o non voglia dire nulla. Il passato rimosso è in questo caso la Democrazia cristiana. Che come si sa fu un partito cattolico, un grande partito cattolico, titolare per oltre quarant'anni di un ruolo egemonico nel sistema politico italiano. Ebbene: si può forse dire che la Dc riuscì a difendere l'identità cristiana dell'Italia? Avrei qualche dubbio. Naturalmente dipende da che cosa s'intende con un' espressione così impegnativa, ma sta di fatto che proprio con un grande partito cattolico addirittura al governo del Paese, proprio in una condizione teoricamente così favorevole, l'Italia ha conosciuto un massiccio e per molti aspetti radicale processo di secolarizzazione. Tra il 1948 e il 1992, tanto per dirne qualcuna, fu adottata una legislazione sul divorzio e sull'aborto, non fu preso alcun provvedimento per la famiglia, il settore della cultura, quello dei media e dell'intrattenimento videro l'affermazione pressoché incontrastata di temi, prodotti, persone se non ostili certo lontani da una prospettiva cristiana, il tono etico della vita pubblica andò continuamente declinando, le organizzazioni della delinquenza organizzata non fecero che rafforzarsi, l'uso del rito religioso per la nascita e il matrimonio prese a scemare sempre di più e così il numero delle vocazioni, nonché la frequenza negli istituti di educazione cattolica. Perfino il nuovo concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, come si sa, fu negoziato e firmato non per volontà di un esponente politico cattolico bensì socialista, Bettino Craxi.

E allora? Come mai, secondo Casini, la presenza — e che presenza ! — in tutti quei decenni di un partito cattolico non riuscì a evitare nessuno dei fenomeni detti sopra? La mia risposta è che in realtà, sull'identità di un Paese, e in particolare sulla sua identità religiosa (e specialmente se si tratta di una democrazia), la politica non può più di tanto. Tutto si svolge a livelli più profondi e più complessi di quelli che la politica è capace di controllare. In genere quando si arriva alla politica e alle leggi, la partita dell'identità è già decisa. Al massimo, e forse (con molti forse), la politica e i suoi strumenti sono in grado di contrastare questo o quel provvedimento di uno schieramento politico (quando vi sia) di segno esplicitamente antireligioso, il quale, per l'appunto, intenda visibilmente attaccare «l'identità cristiana» di un Paese.

Ma davvero esiste oggi in Italia un simile schieramento? E davvero potrebbe mai bastare un «partito cattolico» a farvi argine?

Vi è tuttavia una seconda e forse più importante obiezione all'idea che sia indispensabile un partito cattolico per tutelare l'identità cristiana del nostro Paese. L'obiezione è iscritta in modo chiarissimo nella vicenda italiana di questi ultimi anni. Durante i quali, se non sbaglio, quell'identità è stata tematizzata, analizzata e per così dire fatta oggetto del discorso pubblico, ne è stato compreso il significato, ne sono stati rivendicati con forza l'importanza e il peso sulla cultura occidentale e dunque anche nostra, ne sono stati messi a fuoco i complessi rapporti con la modernità e con la storia italiana, ne è stato mostrato l'insuperabile rilievo etico, soprattutto a opera di donne, uomini, ambienti e iniziative, che nulla o quasi avevano a che fare con qualsivoglia «partito cattolico ». Diciamolo chiaramente: sono stati in special modo dei non credenti, ovvero dei credenti estranei però ai chiusi e sempre circospetti circuiti iniziatici delle organizzazioni cattoliche, sono stati loro che hanno fatto uscire il grande tema della religione e della fede, nonché del rapporto di entrambe con il mondo contemporaneo, dal chiuso in cui, almeno qui da noi, esso era andato a finire. Sono stati loro, i loro libri, i giornali da loro creati o diretti, le loro iniziative, che hanno riportato con forza all'attenzione dell'opinione pubblica e della cultura laica il grande tema delle radici cristiane, dell' «identità cristiana », rinnovandone il senso e la portata, riaccendendone l'interesse.
E hanno fatto tutto questo, se non sbaglio, senza che alcun politico cattolico c'entrasse nulla e per un lungo tratto neppure si accorgesse del fenomeno, tanto meno lo assecondasse, a differenza di alcuni alti esponenti della gerarchia cattolica, mostratisi invece assai più consapevoli e avveduti di loro.

Dunque anche per questo aspetto certo non secondario, l'esistenza di un «partito cattolico» quale quello voluto da Casini non sembra in grado di avere un' incidenza effettiva sulla difesa di quell'«identità cristiana» del Paese, per la quale pure dice di scendere in campo. La sua nascita risponde solo a ragioni di politica, di rispettabilissima politica naturalmente, ma sia chiaro: tutto comincia e finisce qui.


24 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto Galli Della Loggia. L'invenzione dei mostri
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2008, 10:43:51 am
LE AGGRESSIONI A FERRARA

L'invenzione dei mostri

di Ernesto Galli Della Loggia


Certo: si può chiudere il discorso tirando in ballo le solite «frange folli », dicendo che dopotutto si tratta di non più di qualche centinaio di scalmanati, ignari della fondamentale distinzione tra la forza degli argomenti e l’uso della forza come argomento: cose che ci sono e ci saranno sempre e dovunque. Si può fare così, certo: ma sarebbe come nascondere la testa sotto la sabbia al pari degli struzzi. Le ripetute, violente manifestazioni inscenate ai comizi di Giuliano Ferrara, i tentativi di impedirgli di parlare, testimoniano infatti di qualcosa di diverso e di più grave.

Nel vilipendio della stessa immagine fisica dell’avversario (l’evocazione insistita della sua corpulenza come sinonimo di un’anormalità più sostanziale, antropologica, che va punita), nel pregiudizio livoroso verso ciò di cui egli viene eletto a simbolo («tornatene in televisione») così come verso i supposti veri moventi delle sue opinioni («servo dei servi di Berlusconi »), in tutto questo si avverte l’eco di qualcosa che conosciamo anche troppo bene, e che non è certo patrimonio esclusivo di qualche gruppetto di esagitati.

Ci sentiamo l’eco del disprezzo e della manipolazione che in Italia viene regolarmente riservato a chi non la pensa come noi. E non già dalle «frange folli », ma spessissimo dai più illustri commentatori, dai rappresentanti più accreditati della cultura. Ha un bel dire oggi con tono virtuoso Miriam Mafai (e con lei tanti altri) che se fosse stata a Bologna sarebbe stata con Giuliano Ferrara «contro coloro che con la violenza gli hanno impedito di parlare». Vorrei vedere il contrario! Ma il punto non sta qui. Non è quando si arriva alle sediate in testa e all’assalto al palco, infatti, che bisogna far sentire la propria voce. È — o meglio era, ormai — quando da mille parti si è dipinto di continuo Ferrara come una sorta di orco antiaborista, uno che voleva ricacciare le donne nella clandestinità delle mammane.

Quando, piuttosto che riconoscere che le cose che il direttore del Foglio diceva, e per come le diceva, ponevano alla politica questioni tremendamente, forse insopportabilmente, serie, si è preferito invece consegnarlo in pasto alla demonizzazione estremistico- femminista nascondendosi dietro la solfa fintamente virtuosa del «ma nessuno è favorevole all’aborto in quanto tale»; lasciando quindi che lo si considerasse come un subdolo mistificatore o, nel caso migliore, uno squilibrato. Si è preferito cioè, seguire il copione abituale che in Italia caratterizza la discussione pubblica — si parli di aborto o della Costituzione, di immigrazione o di storia del fascismo —: cambiare le carte in tavola, fingere di non capire, far dire all’altro ciò che quello non ha mai detto ma che secondo noi voleva dire.

Tutto pur di non prendersi l’incomodo di discuterne realmente le idee, ritenute pericolose per le certezze nostre e della nostra parte. Con il risultato inevitabile, e voluto, di far passare chi ha il solo torto di non pensarla come noi, di far passare lui, paradossalmente, come il colpevole di strumentalizzare le idee in funzione di chissà quale disegno politico. E gettando così le premesse per la costruzione della figura del nemico pubblico numero uno: attività alla quale, in Italia, per strano che possa sembrare, non sono dediti tanto gazzettieri di terz’ordine o politici senza scrupoli, ma per lo più la crema intellettuale del Paese, uomini e donne assolutamente dabbene.

06 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto Galli Della Loggia. Una storia finita
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 11:50:14 am
Una storia finita

di Ernesto Galli Della Loggia


Ha ragione chi ha notato che il nuovo Parlamento italiano nato dalle elezioni di domenica e lunedì sarà l'unico dei principali parlamenti europei dove non troverà posto alcun partito che nel nome si richiami al socialismo o al comunismo. E questo accade nonostante che, come è noto, partiti con quei nomi abbiano segnato profondamente per decenni la storia della sinistra italiana e, insieme, la storia del Paese. Siamo di fronte, insomma, a una svolta profonda non solo del nostro sistema politico, ma della nostra intera vicenda nazionale, del lungo e tormentato configurarsi delle culture politiche italiane. Svolta tanto più significativa in quanto poi coincide con lo schierarsi elettorale a destra di tutto il Nord, cioè delle regioni più industriose, più ricche e più avanzate della penisola, un tempo, in molte zone, roccaforti della sinistra che aveva il socialismo o il comunismo nella propria insegna.

Da questo punto di vista è oltremodo indicativo il sorprendente successo della Lega in una regione come l'Emilia Romagna, con oltre il 7% dei voti alla Camera. In realtà la Prima Repubblica non è finita nel 1994, è finita ieri; e il terremoto che ha colpito la sinistra può essere interpretato come la conseguenza del modo miope e insufficiente con cui proprio la sinistra affrontò 15 anni fa la crisi di quella fase della democrazia italiana, non cogliendone né il significato né le implicazioni. E perciò riducendosi oggettivamente, allora e poi, a un ruolo di puro e semplice freno anziché di spinta e di direzione. Ciò che portò alla fine la Prima Repubblica fu essenzialmente la mancanza di alternativa di governo, il fatto che per svariati decenni a reggere il Paese fossero più o meno sempre le stesse forze. Uno degli effetti ne fu per l'appunto la vasta corruzione (da qui Mani Pulite), insieme alla progressiva decrepitezza dei meccanismi e degli strumenti amministrativi (per primi quelli dell'amministrazione statale) e all' inamovibilità castale delle élites del Paese in quasi tutti i campi. Inutile dire il motivo della mancanza per tanto tempo di una credibile alternativa di governo: la presenza all'opposizione di un Partito comunista il cui sfondo ideologico e la cui collocazione internazionale, essendo entrambi storicamente contigui alla vicenda bolscevico- sovietica, non lo legittimavano a governare una democrazia occidentale come l'Italia.

La fine dei partiti di governo della Prima Repubblica (Dc e Psi) per effetto delle inchieste giudiziarie di Di Pietro non ebbe l’effetto di spingere quelli che erano ormai i reduci del naufragio comunista a una revisione radicale della propria storia. E neppure li indusse a una rivisitazione altrettanto radicale di tutto l'impianto socio- statuale italiano, delle reti d'interesse, dei luoghi di potere accreditati, delle convenzioni bizantine, delle fame posticce di un regime ormai alle corde. Ebbe anzi un effetto paradossalmente pressoché opposto. Indusse gli ex comunisti a considerarsi quasi come i curatori testamentari di questo insieme di lasciti, facendosi catturare dalla tentazione di poterne addirittura diventare agevolmente gli eredi. Ciò che infatti cominciò fin da subito a verificarsi. Con la conseguenza però che abbagliati da questa facile conquista gli scampati al naufragio comunista non sentirono più l'urgente necessità, che invece avrebbero dovuto sentire, di buttare a mare alla svelta il proprio patrimonio ideologico, di ravvedersi senza esitazioni delle loro mille cantonate, di prendere coraggiosamente un nome e un abito nuovi. O, se lo fecero, presero a farlo con tempi politicamente biblici, dell'ordine degli anni.

Nel frattempo, come dicevo, orfano della protezione un tempo elargitagli dalla Dc e dal Psi, il potere tradizionale italiano cresciuto e prosperato sotto la Prima Repubblica si apriva volenterosamente a quelli che esso riteneva ormai i nuovi padroni della situazione. In breve tutto l'establisment economico- finanziario del Paese, tutta la cultura, tutta la burocrazia, tutti gli apparati di governo, dalla polizia alla magistratura, gran parte del vecchio cattolicesimo politico divennero o si dissero di sinistra. Ma proprio la massiccia operazione di riciclaggio e di «entrismo» da parte dei vertici della società italiana e dei suoi poteri, nell'area della sinistra ex Pci, insieme all'esasperante lentezza con cui procedeva la revisione ideologica di questa, hanno valso a porre il partito della sinistra ex comunista, nell'ultimo dodicennio, in una posizione sostanzialmente conservatrice. L’hanno reso di fatto il tutore massimo dell'esistente, incapace di comprendere i grandi fatti nuovi che si andavano producendo nel Paese, di rompere incrostazioni e tabù, restio a politiche animate da coraggio e da fantasia, timoroso infine di rompere le vecchie solidarietà frontiste. In vario modo questa parte, invece, se la sono aggiudicata fin dal 1994 le varie destre che allora videro la luce e/o che allora presero a ricomporsi.

Le quali, a cominciare da Berlusconi, hanno invece avuto facile gioco, esse sì, ad apparire fino ad oggi (e quale che fosse la realtà) tese al cambiamento, lontane dal potere costituito, prive di troppi pregiudizi ideologici, in sintonia con la pancia e con le esigenze più vere del Paese. Il merito indiscutibile di Walter Veltroni è stato quello di capire che sulla strada iniziata nel lontano 1993-94 la sinistra non poteva più procedere. Prendere le distanze dal governo Prodi ha voluto dire precisamente prendere visibilmente le distanze dalla tradizione. Da quella tradizione italiana che se da un lato era servita a far vivere il nome del socialismo e del comunismo, dall' altro però aveva reso sempre impossibile— ai partiti che ne portavano i nomi— qualunque autonomo ruolo politico innovativo alla guida del Paese. Veltroni ha capito che bisognava cancellare questa storia, la quale era stata anche tanta parte della storia della prima Prima Repubblica; che era finalmente giunto il momento di porre fine alla Prima Repubblica. Per farlo ha oggi dovuto pagare un prezzo assai alto, certo. Ma i conti veri, come sempre, si potranno fare solo alla fine.

16 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto Galli della Loggia
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 10:54:35 am
SINISTRA E SCONFITTA ELETTORALE

La ribellione delle masse

di Ernesto Galli della Loggia


«Arrogante», «oligarchico », «lontano dalle masse e vicino ai salotti»: si sprecano le analisi che rimproverano al Partito democratico di aver perso le elezioni a causa del suo essersi sempre più rinchiuso nei recinti della «casta», smarrendo il contatto con la realtà italiana e alienandosi parti rilevanti del proprio elettorato, specie popolare.

Comunque stiano le cose, di sicuro esse sono apparse così agli occhi di molti e qualche buon motivo, allora, deve pure esserci. Ma va cercato non già nell'ultimo paio di anni, nel tratto più o meno sbrigativo di questo o quel leader, nelle candidature più o meno paracadutate dall'alto, nelle mises
un po' troppo sul «semplice ma raffinato» di Barbara Pollastrini o di Giovanna Melandri, bensì in quello che è successo in Italia almeno negli ultimi due decenni.

A cominciare dall'epoca di Mani Pulite e subito dopo, allorché parti via via crescenti dell'establishment italiano, per scampare al naufragio dei suoi tradizionali referenti politici — la Democrazia Cristiana, il Partito socialista e quello Repubblicano — corsero a rifugiarsi sotto le ali ospitali dei postcomunisti. Il furbo dirigente Rai, la giovane industriale in sintonia con i tempi, il navigato notabile meridionale, il pm in carriera, il banchiere di peso, il direttore generale desideroso di non perdere il posto, tutti andarono inevitabilmente «a sinistra», per non dire di buona metà e forse più dell'intero gruppo dirigente democristiano. Tutti sicuri che lì era il nuovo baricentro del potere: lì le nuove combinazioni decisive, le assegnazioni di incarichi, i riconoscimenti ambiti. Fuori dalla «sinistra» (o da quella sua versione allargata che da lì a poco sarebbe stato l'Ulivo), della classe dirigente italiana non rimase praticamente che ben poco. E quel poco, per giunta, mantenne quasi sempre il più assoluto silenzio: accrescendo così ancor di più la visibilità pubblica dell'altra parte, quella della grande trasmigrazione a sinistra. Il cui adeguato involucro ideologico fu subito approntato: l'ideologia della «difesa della Costituzione», opportunamente messa a punto e diffusa proprio allora dall'ex sinistra democristiana con il potente ausilio strategico del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

A tutto ciò il Pds e poi i Diesse aprirono, anzi spalancarono, le braccia. Essi videro probabilmente in questa generale corsa verso di loro delle classi dirigenti italiane l'annuncio inaspettato di una qualche raggiunta egemonia. Non si accorsero che era invece la premessa del proprio snaturamento. Della propria mutazione da partito popolare a partito di «quelli che contano ». Ancora peggio: di quelli sicuri che saranno sempre loro a contare.

Ma se le cose hanno potuto svolgersi in questo modo è perché già il Partito comunista — di cui il Pds e poi i Diesse hanno rappresentato una sorta di aggiornamento, sempre più aggiornato se si vuole ma sempre legato per mille fili alla matrice originaria — già il Partito comunista, dicevo, non era mai stato in realtà un partito popolare nel vero senso della parola. Il Pci fu sempre altra cosa, infatti, rispetto ai grandi partiti socialdemocratici europei, per esempio al Labour britannico o alla Spd tedesca.

Partiti dove forte si è mantenuto, anche negli usi e nei rituali, un tradizionale sostrato culturale e antropologico schiettamente popolaresco, e perfino plebeo, espresso adeguatamente fino a tempi recenti da figure di capi tratti per l'appunto dai ceti popolari e dai suoi mestieri, con i gusti e i modelli espressivi relativi. Nel Pci no. Nel Pci Palmiro Togliatti tradusse l'antica diffidenza leninista per la spontaneità delle classi subalterne e insieme la lezione egemonica gramsciana in una direzione opposta: cercare di fare largo spazio nel partito, e specie tra i massimi dirigenti, a persone di buona cultura, ancor meglio se di buona famiglia, sostanzialmente a intellettuali borghesi. Al «Migliore» non sarebbe mai venuto in mente, tanto per dire, che un capocellula di Mirafiori contasse quanto un professore della Normale. Caratteristica già del Pci, insomma, fu un forte elitismo sprezzante di tutto ciò che sapesse di «piccolo-borghese», pur se innestato su una penetrante attenzione al sentire delle «masse» considerate sempre, però, alla luce di un pedagogico paternalismo disciplinatore. Da qui il grande fascino che, anche nei tempi della più aspra conflittualità, i comunisti hanno di continuo esercitato sulla borghesia italiana: precisamente per la loro capacità di presentarsi come un partito fatto apposta per dirigere, per governare, luogo vocazionale del potere, di un potere capace di mettere insieme l'alto e il basso della società.

Ma la formula di successo del vecchio Pci, la sua miscela singolare di alto e basso in tanto potevano reggere finché il partito era obbligatoriamente lontano dal potere. Quando dopo il '94 le cose sono cambiate, la formula allora non ha più tenuto, l'alto e il basso sono progressivamente andati ognuno per conto suo, e del paternalismo pedagogico le masse, alla fine, non hanno saputo più che cosa farsene.


03 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Perché il Sud è senza voce
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2008, 05:04:05 pm
LA DISFATTA DI NAPOLI

Perché il Sud è senza voce


di Ernesto Galli della Loggia


«Da capitale a prefettura »: con questa battuta del ministro Tremonti il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco, ha titolato un suo editoriale di qualche giorno fa, riassumendo così in quattro parole il declino storico di Napoli, travolta dalla tragedia dei rifiuti e in pratica commissariata dal governo nazionale. Un declino a conferma del quale si può aggiungere un altro episodio, di portata certo assai minore ma, per chi conosce un po' di storia, di un valore simbolico pari se non addirittura maggiore rispetto alla vicenda dell'immondizia. E cioè che oggi è sì al governo, in qualità di sottosegretario, un erede della vecchia classe politica del centrosinistra che dominò Napoli negli anni '70 e '80, Vincenzo Scotti (l'unico: tutti gli altri intristiscono in una grigia irrilevanza), ma lo è solo perché «in quota Lombardo», come si dice, vale a dire unicamente perché sponsorizzato da quello che ormai è il vero e proprio viceré della Sicilia e un protagonista di prima fila della scena nazionale.

Dunque Napoli messa sotto tutela non solo da Roma, e passi, ma costretta addirittura a rifugiarsi sotto l'ala protettrice di Palermo, sua antica rivale di sempre. Per il «rinascimento napoletano» sognato da Bassolino non si potrebbe immaginare epilogo più triste e paradossale. A ben vedere, però, insieme a Napoli è tutto il Mezzogiorno continentale — le due Isole, si sa, sono state sempre una cosa diversa— a far registrare da anni la propria assenza dal novero dei protagonisti della vita politica italiana, in non casuale concomitanza con la propria scomparsa dall'agenda politica del Paese. Quello che viviamo, si sa, è il tempo della «questione settentrionale ». Per la «questione meridionale » non c'è più spazio, non se ne sente più parlare da anni. E una volta scomparsa quella, sembrano aver perduto la propria voce pure il Meridione e i suoi gruppi dirigenti (politici e non) ridotti a contare sempre di meno.

Perché le cose sono andate così? Non è facile dirlo, ma si può forse stabilire il punto di svolta. Fu tra la fine degli anni ’80 e l'inizio dei ’90, quando agli occhi degli italiani l'immagine del Mezzogiorno cessò d'identificarsi con quella di una miseria antica, e divenne quella del crimine organizzato. Fosse a causa del vasto malaffare campano legato al terremoto in Irpinia, fosse per effetto dello stragismo mafioso culminato nell'eliminazione di Lima, Falcone e Borsellino, fosse per la presenza negli ultimi governi Dc-Psi di un nugolo di ministri meridionali campioni di un clientelismo arrogante e dissipatore, sta di fatto che a un certo punto il Paese si convinse che nel Sud non era questione di soldi ma di altro. Il guaio è, però, che in una democrazia i soldi sono inevitabilmente il riassunto di tutti o quasi gli strumenti di governo a disposizione. Un regime democratico è portato sempre a credere che a risolvere ogni problema basti un' iniezione di denari; e ancora di più lo credono naturalmente i politici i quali quei soldi sono incaricati poi di spendere. Ma se il Mezzogiorno dimostra qualcosa è che i soldi, nel suo caso, non sono (non erano) affatto tutto: che contano forse anche di più la correttezza e la capacità amministrativa, la cultura civica, il senso della legalità e dello Stato, lo spirito d'iniziativa.

Di tutto questo si convinse alla fine degli anni ’80-inizio ’90 l'opinione pubblica italiana. E decise perciò di smettere di rovesciare sul Sud il fiume di soldi che vi aveva rovesciato fino allora: in qualche modo di chiederne conto, anzi. Oggi ci appare abbastanza chiaro che la chiusura della Cassa del Mezzogiorno (1984), segnando l'inizio della fine delle grandi politiche di sostegno al cosiddetto sviluppo dell'Italia meridionale, ha segnato, al tempo stesso, pure l'inizio della fine del ruolo politico nazionale del Mezzogiorno stesso. Il fatto è che per decenni le sue classi dirigenti hanno tratto proprio dalla centralità ideologico-culturale della questione meridionale l'essenza del proprio profilo e del proprio ruolo politico sulla scena nazionale. Mentre la lotta per ottenere le conseguenti erogazioni di fondi e i modi di spenderli hanno definito in modo decisivo il cuore della loro funzione, nonché il trait-d'-union, tra il loro ruolo locale e quello romano.

Agli inizi degli anni ’90, si diceva, tutto ciò è però venuto meno. Con la fine della cosiddetta Prima Repubblica il Sud si è trovato in certo senso politicamente nudo e si è accinto a uscire di scena. Le sue classi dirigenti avrebbero dovuto capire che, finita la «questione meridionale», restava loro forse una sola via per continuare a svolgere un ruolo realmente nazionale: e cioè prendere con forza la guida di una grande battaglia per la legge e l'ordine. La via della richiesta, non di più soldi, ma di più Stato: non lo Stato keynesiano bensì quello del monopolio della forza da invocare, magari, contro la propria stessa società. Ma era difficile trovare qualcuno con il coraggio per una simile scommessa; e infatti non si è trovato. A quel punto è stato giocoforza prendere atto che mentre il Nord aveva bene o male una sua idea d'Italia, una sua idea di dove il Paese dovesse andare, il Sud era mille miglia lontano dal potere o saper fare altrettanto. E si è visto anche— non a caso contemporaneamente— che l'ambizione dell'Italia settentrionale a svolgere un ruolo egemonico era capace di dotarsi degli strumenti politici adeguati.

La Lega Nord e Forza Italia sono stati per l'appunto questi strumenti; mentre l'antica vocazione delle classi dirigenti siciliane, risalente al momento stesso dell'Unità, al 1860, a bypassare Napoli e il Mezzogiorno per mettersi direttamente d'accordo con l'Italia settentrionale, scriveva ora una nuova pagina all'insegna, questa volta, del comune orientamento a destra. La Napoli di oggi, sommersa dai rifiuti, decapitata politicamente, muta intellettualmente e incontrastata terra di caccia della camorra, è il simbolo di questo Sud assente, corpo ormai lontano da un'Italia lontana.

29 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - Uccidere il padre
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 12:22:54 pm
IL COMPITO DEL PD

Uccidere il padre


di Ernesto Galli Della Loggia


Fossi nei panni del Partito democratico, più che di quello che ha scritto Famiglia Cristiana questa settimana mi preoccuperei di quello che ha scritto il Corriere della Sera ieri. In un articolo di Paolo Foschi in cronaca di Roma, a proposito della decisione del Presidente della Regione Marrazzo di togliere la delega della dissestatissima sanità all’assessore Battaglia, per affidarla ad un esponente dell’ex Margherita, si poteva leggere infatti quanto segue: «Ma gli ex Ds hanno fatto muro: "Battaglia era nel nostro partito, l’assessorato tocca a noi. Se invece deve andare alla Margherita, allora serve un rimpasto"».

Parole memorabili, le quali testimoniano che forse il problema vero del Pd (e dei politici cattolici che vi hanno eletto dimora), e dunque il pericolo vero per la sua unità, non è tanto rappresentato dalla pattuglia di parlamentari radicali eletti nelle liste del Pd stesso, tanto invisi a Famiglia Cristiana, quanto il feroce arroccamento dell’apparato tradizionale di provenienza Ds sulle sue posizioni di potere. Sono infatti gli apparati i grandi nemici di qualunque operazione di unificazione tra i partiti. O meglio un apparato, quello del partito più grande. È il segretario di federazione del partito maggiore A, il quale deve rinunciare alle scadenze ambite e previste per la propria carriera a favore del collega del partito B; è il consigliere regionale del partito A che si vede sfilare l’assessorato su cui da tempo aveva messo gli occhi e che gli era stato promesso: sono questi protagonisti apparentemente di seconda fila quelli che in genere mandano in tilt le operazioni di amalgama tra formazioni politiche diverse.

Quelli appunto, tanto per ricordare il maggiore esempio della nostra storia politica, che a suo tempo (complice anche allora una sconfitta elettorale) furono i veri responsabili del fallimento in cui incorse l’unificazione tra socialisti e socialdemocratici varata nel lontano 1966. Figuriamoci poi quando, com’è nel caso del Partito democratico, il partito maggiore e i suoi quadri vengono da una storia comunista, cioè non solo orgogliosamente identitaria come poche, ma almeno in alcune zone del Paese assai radicata sul territorio, e infine di consumatissima capacità nel controllo del proprio patrimonio di voti. Vale a dire da una storia peculiarmente predisposta all’autonomia e all’autosufficienza. Ma ciò detto, non si vede proprio quale altra scelta abbia oggi il Pd se non la scelta di proseguire il cammino iniziato.

Tra l’altro lo consiglia in questo senso proprio la vicenda richiamata sopra, la china rovinosa che il Psi sperimentò a partire dal fallimento dell’unificazione, cioè dal ’69 in avanti, quando arrivò ad un passo dalla virtuale dissoluzione prima che arrivasse Bettino Craxi in extremis a salvarlo. Per evitare questa fine il Partito democratico sa quel che deve fare. Innanzi tutto deve liquidare il potere dell’apparato tradizionale che ancora oggi vuole dire la sua, poi mettere a punto le procedure per scegliere i suoi nuovi quadri evitando ogni alchimia di provenienza, infine mandare in pensione tutti quei riti, simboli, formule e linguaggi che appartengono al passato. Per diventare adulto è necessario uccidere il proprio padre: se capita di averne due l’impresa è certo più difficile, ma proprio per questo più necessaria.

11 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Se il rapito non fa politica
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:41:58 pm
OSTAGGI DIMENTICATI IN SOMALIA

Se il rapito non fa politica


di Ernesto Galli Della Loggia


Perché in queste settimane nessuno è sembrato occuparsi di Jolanda Occhipinti e di Giuliano Paganini? Perché — pur dando ovviamente per scontata una comprensibile discrezione da parte degli organi di governo — quasi tutti ne ignoriamo perfino i nomi, come ignoriamo quello di Abdirahaman Yussuf Harale, rapito insieme a loro in Somalia circa un mese fa? Perché le cose vanno così, mentre invece di altri nostri connazionali spariti in circostanze analoghe abbiamo sentito ripetere i nomi in continuazione, nelle aule delle Camere, nei consigli comunali, nei cortei, in decine di trasmissioni radio-televisive, li abbiamo visti stampati sulle prime pagine dei giornali, ripetuti nei tanti manifesti che ne effigiavano anche i volti? Cos’è che innesca il meccanismo del rapito di serie A e del rapito di serie B, dell’ «unità di crisi» sì e dell’ «unità di crisi» no, dei due pesi e due misure tra gli ostaggi? Cosa bisogna fare, insomma, per meritarsi il trattamento mediatico- istituzionale «due Simone », se così posso chiamarlo?

Qualche spiegazione per questa distrazione generale l’hanno già fornita gli autorevoli personaggi del mondo giornalistico intervistati ieri dal Corriere: perché Occhipinti e Paganini erano due sconosciuti, hanno detto, perché l’opinione pubblica oggi è stanca e distratta, infine perché l’Italia non è in alcun modo coinvolta in Somalia come lo era invece in Iraq o in Afghanistan, e così via. Tutte risposte, però, che girano intorno al problema vero: che, cioè, in Italia continua a esserci poca nazione, e il vuoto di questa è riempito da troppa politica. È la politica—la feroce, pervasiva, politicizzazione di questo Paese o, almeno, della sua parte che conta — a spiegare il vasto silenzio in cui è precipitata la sorte dei due cooperanti italiani e del loro collaboratore somalo di cui non si sa più nulla. Non appartenevano ad alcun movimento politico, con la loro opera in Africa non intendevano rappresentare alcuna posizione politica, insomma non interessavano politicamente a nessuno. Questa è la verità. E dunque — dispiace dirlo ma è così — per la stessa ragione oggi essi non interessano neppure alla stampa, alla radio e alla televisione, ormai abituate troppo spesso, qui da noi, a pensare a se stesse come a un’articolazione della sfera politica, una specie di terzo ramo del Parlamento.

Ma se non basta essere italiano per avere l’appoggio dei propri connazionali perché quel che conta è stare dalla parte giusta (e mettiamoci pure conoscere le persone e gli ambienti «giusti»), questo significa che l’Italia si porta ancora appresso quella fragilità, quell’inconsistenza congenita come Paese, che l’affligge da sempre e che insieme a molte altre cose ci impedisce anche di avere istituzioni forti ed efficaci, di essere uno Stato capace di stare alla pari con gli altri, di avere un’idea esatta dei nostri interessi e la capacità di farli valere. Tutte cose per le quali, infatti, è necessario preliminarmente credere nell’esistenza di un vincolo comune, di una cosa che, piaccia o non piaccia, ha un solo nome: nazione. E che in molti altri posti si è soliti, pur se nei modi e con le eccezioni dovute, far venire prima di tutto.

19 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. La patologia italiana
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2008, 11:55:00 am
IL CAVALIERE, LA GIUSTIZIA E IL PD

La patologia italiana


di Ernesto Galli Della Loggia


Chi legge un po' di giornali e ha qualche conoscenza della scena pubblica del Paese sa benissimo che anche l'attuale opposizione di sinistra così come l'opinione pubblica che in essa si riconosce sono in stragrande maggioranza d'accordo su almeno tre punti decisivi della patologia che affligge la giustizia italiana. Questi: 1) l'obbligatorietà dell'azione penale da parte del pubblico ministero, astrattamente prescritta dalla Costituzione, ha dato luogo nella pratica, a causa della sua assoluta impraticabilità tecnica, al più totale arbitrio d'iniziativa del pm stesso. Da guardiano autonomo e imparziale della legge il pubblico ministero si è trasformato per forza di cose in padrone discrezionale e incontrollabile della stessa; 2) il procedimento giudiziario italiano manca in misura rilevantissima del necessario criterio di terzietà. Nonostante qualche piccola modifica apportata, magistratura inquirente e giudicante sono virtualmente una cosa sola: ogni imputato italiano si trova così a essere sempre giudicato da un magistrato che è un amico e/o collega di colui che lo ha messo sotto accusa; 3) il protagonismo mediatico- politico dell'apparato giudiziario in genere e in modo tutto speciale dei pubblici ministeri è ormai diventato un male gravissimo, oggettivamente esaltato e protetto da un Consiglio superiore della magistratura al quale una malfatta legge istitutiva, e ancora di più un infame sistema elettorale, consentono di esercitare abusivamente i poteri di una virtuale terza Camera del sistema costituzionale. Come dicevo all'inizio, anche una buona parte della sinistra e del suo elettorato è convinta nel proprio intimo che le cose stiano così.

Si tratta, infatti, di fenomeni troppo clamorosamente evidenti, che tra l'altro non esistono in alcun altro Paese dell'Occidente, e di cui fanno quotidianamente le spese migliaia di cittadini, com'è ovvio senza distinzione di destra e di sinistra. La domanda che a questo punto è (o dovrebbe essere) naturale porsi è la seguente: è ragionevole o no pensare che gli aspetti patologici della giustizia italiana sopra descritti abbiano qualcosa a che fare, c'entrino qualcosa, con le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi? E' ragionevole o no immaginare, sospettare, che l'immane mole di procedimenti giudiziari collezionati da costui (in una quantità, credo, superiore a chiunque altro nella storia d'Italia, ma aspetto precisazioni da Marco Travaglio) abbiano qualcosa a che fare con l'arbitrio dell'azione penale, con la mancanza di terzietà, con la ricerca di visibilità mediatico-politica da parte dei pm? E' ragionevole pensare una cosa simile, che esista un nesso di qualche tipo tra questi due universi di fatti, o invece è una pura assurdità, un'insinuazione senza fondamento, un volere dare corpo ai fantasmi? La sinistra riformista (cioè più o meno l'intero Partito democratico), pur essendo convinta che Berlusconi in qualche problema con la giustizia sia effettivamente incorso (e personalmente mi unisco a questa convinzione), pensa però che un nesso ci sia.

Pensa cioè che nelle vicende giudiziarie dell'attuale Presidente del Consiglio si manifestino anche, e in misura spesso decisiva, tutti i parossismi patologici della giustizia italiana. Ma non riesce a dirlo. La sua classe dirigente tace o tutt'al più farfuglia, sospira a mezza bocca, perché non sa che pesci pigliare, ricattata com'è dal suo passato recente, dal suo legame con la corporazione dei magistrati e dalla paura di apparire complice con il nemico. Un'altra parte del Paese, invece, diciamo una metà abbondante degli Italiani, anch'essa pensa che sì, che è ragionevole credere che un nesso ci sia. E poiché non ha le remore storiche della sinistra le basta questo, le basta vedere le patologie presenti nelle vicende giudiziarie di Berlusconi, per considerare queste comunque superiori alle sue eventuali colpe, e continuare a votarlo. Non già perché sia una parte del Paese formata da uomini e donne dediti al malaffare o moralmente ottusi, come invece pensa qualche moralista esagitato. Ma se le cose stanno così, allora vuol dire che proprio i caratteri patologici della giustizia italiana stanno rivelandosi i migliori alleati dell'eterno inquisito Silvio Berlusconi. Che proprio questi caratteri gli hanno consentito e gli consentono tuttora di apparire ragionevolmente una vittima, di nascondere dietro di essi i problemi veri che ha: insomma di volgere a proprio favore le sue disgrazie giudiziarie. Ma se le cose stanno così ciò vuol dire anche, per concludere, e non è conclusione di poco conto, che il principale interesse della Sinistra italiana dovrebbe essere, anzi è, uno solo: togliere ogni alibi al proprio rivale. E cioè mettere fine una buona volta, lei per prima, alla devastante patologia che affligge da decenni il nostro sistema giudiziario. Che poi, in tutta questa faccenda, è anche il vero interesse del Paese.

29 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. La patologia italiana
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2008, 09:20:21 am
IL CAVALIERE, LA GIUSTIZIA E IL PD

La patologia italiana


di Ernesto Galli Della Loggia


Chi legge un po' di giornali e ha qualche conoscenza della scena pubblica del Paese sa benissimo che anche l'attuale opposizione di sinistra così come l'opinione pubblica che in essa si riconosce sono in stragrande maggioranza d'accordo su almeno tre punti decisivi della patologia che affligge la giustizia italiana. Questi: 1) l'obbligatorietà dell'azione penale da parte del pubblico ministero, astrattamente prescritta dalla Costituzione, ha dato luogo nella pratica, a causa della sua assoluta impraticabilità tecnica, al più totale arbitrio d'iniziativa del pm stesso. Da guardiano autonomo e imparziale della legge il pubblico ministero si è trasformato per forza di cose in padrone discrezionale e incontrollabile della stessa; 2) il procedimento giudiziario italiano manca in misura rilevantissima del necessario criterio di terzietà. Nonostante qualche piccola modifica apportata, magistratura inquirente e giudicante sono virtualmente una cosa sola: ogni imputato italiano si trova così a essere sempre giudicato da un magistrato che è un amico e/o collega di colui che lo ha messo sotto accusa; 3) il protagonismo mediatico- politico dell'apparato giudiziario in genere e in modo tutto speciale dei pubblici ministeri è ormai diventato un male gravissimo, oggettivamente esaltato e protetto da un Consiglio superiore della magistratura al quale una malfatta legge istitutiva, e ancora di più un infame sistema elettorale, consentono di esercitare abusivamente i poteri di una virtuale terza Camera del sistema costituzionale. Come dicevo all'inizio, anche una buona parte della sinistra e del suo elettorato è convinta nel proprio intimo che le cose stiano così.

Si tratta, infatti, di fenomeni troppo clamorosamente evidenti, che tra l'altro non esistono in alcun altro Paese dell'Occidente, e di cui fanno quotidianamente le spese migliaia di cittadini, com'è ovvio senza distinzione di destra e di sinistra. La domanda che a questo punto è (o dovrebbe essere) naturale porsi è la seguente: è ragionevole o no pensare che gli aspetti patologici della giustizia italiana sopra descritti abbiano qualcosa a che fare, c'entrino qualcosa, con le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi? E' ragionevole o no immaginare, sospettare, che l'immane mole di procedimenti giudiziari collezionati da costui (in una quantità, credo, superiore a chiunque altro nella storia d'Italia, ma aspetto precisazioni da Marco Travaglio) abbiano qualcosa a che fare con l'arbitrio dell'azione penale, con la mancanza di terzietà, con la ricerca di visibilità mediatico-politica da parte dei pm? E' ragionevole pensare una cosa simile, che esista un nesso di qualche tipo tra questi due universi di fatti, o invece è una pura assurdità, un'insinuazione senza fondamento, un volere dare corpo ai fantasmi? La sinistra riformista (cioè più o meno l'intero Partito democratico), pur essendo convinta che Berlusconi in qualche problema con la giustizia sia effettivamente incorso (e personalmente mi unisco a questa convinzione), pensa però che un nesso ci sia.

Pensa cioè che nelle vicende giudiziarie dell'attuale Presidente del Consiglio si manifestino anche, e in misura spesso decisiva, tutti i parossismi patologici della giustizia italiana. Ma non riesce a dirlo. La sua classe dirigente tace o tutt'al più farfuglia, sospira a mezza bocca, perché non sa che pesci pigliare, ricattata com'è dal suo passato recente, dal suo legame con la corporazione dei magistrati e dalla paura di apparire complice con il nemico. Un'altra parte del Paese, invece, diciamo una metà abbondante degli Italiani, anch'essa pensa che sì, che è ragionevole credere che un nesso ci sia. E poiché non ha le remore storiche della sinistra le basta questo, le basta vedere le patologie presenti nelle vicende giudiziarie di Berlusconi, per considerare queste comunque superiori alle sue eventuali colpe, e continuare a votarlo. Non già perché sia una parte del Paese formata da uomini e donne dediti al malaffare o moralmente ottusi, come invece pensa qualche moralista esagitato. Ma se le cose stanno così, allora vuol dire che proprio i caratteri patologici della giustizia italiana stanno rivelandosi i migliori alleati dell'eterno inquisito Silvio Berlusconi. Che proprio questi caratteri gli hanno consentito e gli consentono tuttora di apparire ragionevolmente una vittima, di nascondere dietro di essi i problemi veri che ha: insomma di volgere a proprio favore le sue disgrazie giudiziarie. Ma se le cose stanno così ciò vuol dire anche, per concludere, e non è conclusione di poco conto, che il principale interesse della Sinistra italiana dovrebbe essere, anzi è, uno solo: togliere ogni alibi al proprio rivale. E cioè mettere fine una buona volta, lei per prima, alla devastante patologia che affligge da decenni il nostro sistema giudiziario. Che poi, in tutta questa faccenda, è anche il vero interesse del Paese.

29 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Tre miti eterni
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2008, 10:13:53 am
GIROTONDI E PD

Tre miti eterni


di Ernesto Galli Della Loggia


Neppure gli organ izzatori si aspettano che alla manifestazione dei girotondi di domani a Roma partecipino più di alcune migliaia di persone. Ciò nonostante, come si è visto in questi giorni, una simile adunata di persone certo non oceanica, appoggiata solo da un partito forte di appena il 3% dei voti ma da nessuna organizzazione di massa, da nessun sindacato, è in grado di mettere in grave imbarazzo il Partito democratico, di creare forti tensioni sia alla sua base che tra i suoi esponenti di vertice. Com'è possibile?

È possibile perché l'iniziativa girotondina, pur avendo alle spalle ben poche forze, evoca però tre grandi miti che dominano da sempre l'immaginario e la pratica della sinistra italiana.

a) Il primo mito è quello delle «due Italie», delle quali, come è ovvio, la sinistra si sente sempre chiamata a impersonare (e come potrebbe essere altrimenti?) l'Italia dei Buoni. Dei «buoni italiani » in lotta perenne contro gli «italiani alle vongole », gli italiani cattivi i quali invece hanno, loro soltanto, il monopolio di tutti i vizi del Paese: calpestano le leggi, evadono le tasse, parcheggiano in seconda fila e non amano né il Csm né il protocollo di Kyoto. Sarebbero dotati addirittura di un altro Dna, come ha suggerito appena ieri Nanni Moretti. È una visione rassicurante (se vinci è perché ragionevolmente alla fine il bene non può che trionfare; se perdi è perché, altrettanto ragionevolmente, i furfanti, come si sa, trovano sempre il modo di avere la meglio) ma ha soprattutto il grande vantaggio di semplificare radicalmente ogni questione, e di alimentare così, anche per questa via, b) il secondo mito, che è quello dell'«unità». Unità che ha la sua principale raffigurazione nella fatidica «manifestazione unitaria »: come per l'appunto pretende, vuole a tutti costi, esige assolutamente di essere quella di domani, anche se, piuttosto paradossalmente, essa è indetta da una sparutissima minoranza. Ma tant'è: come potrebbe giustificarsi infatti la divisione dei buoni di fronte al male? Solo in un modo, semmai, e cioè solo con il più o meno celato passaggio di una parte dei buoni stessi nel campo nemico. Ed è precisamente questo il ricatto che fa capolino di continuo dietro il mito dell'Unità: se non stai con noi, già solo perciò vuol dire che almeno per una parte stai potenzialmente con «gli altri». Il mito dell'Unità diviene così la premessa necessaria del mito del Tradimento. Entrambi, insieme al mito della «Nazione dei buoni », tendono sempre, comunque, a porre la politica fuori dell'ambito suo proprio: a farne un'appendice della morale. Non a caso Vincenzo Cerami ha definito «bacchettoni di mestiere» gli organizzatori della manifestazione di domani. Parole ruvide che però servono bene a indicare il c) terzo mito che domina immaginario e pratica della sinistra: il mito del moralismo.

Il moralismo è il modo classico in cui la sinistra declina la tendenza all'antipolitica che da sempre, e oggi più che mai, alligna anche nelle sue file. Laddove la destra è abituata a declinare l'antipolitica nelle forme del disincanto qualunquistico spinto fino al cinismo, la sinistra, invece, l'incanala in quelle dell'eticismo condotto al limite dell'arroganza di tipo razzista. Ma pur se nelle forme del moralismo l'antipolitica non cessa per questo di adempiere la sua funzione abituale. Che consiste nel rendere superflua la fatica di pensare, di misurare, di distinguere; e nel considerare un pavido, un misero emulo del «sor Tentenna», chiunque a tale fatica non intenda rinunciare.

Ecco dunque qual è la vera forza dei girotondini. È la minaccia che immediatamente pesa su chi osa, a sinistra, dissentire da essi; la minaccia cioè di vedersi accusati di mettere in dubbio tre grandi capisaldi dell'ideologia diffusa della sinistra stessa: la convinzione di avere il copyright del bene, di dovere essere tutti uniti contro il male e, infine, che si è puri solo se si è duri. Il problema, insomma, non sono poche migliaia di «girotondini». Come quasi sempre accade in Italia, il problema sono i nodi che la storia ha intrecciato e che ora è maledettamente difficile sciogliere.


07 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. Il moralismo in un Paese solo
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 06:18:54 pm
SINISTRA E POLITICA

Il moralismo in un Paese solo


di Ernesto Galli della Loggia


È un demone antico quello che martedì scorso è rispuntato sul palco romano di piazza Navona. È il demone che spinge di continuo una parte di Italiani a credere non solo che il proprio Paese è governato (o può esserlo da un momento all'altro se vincono gli «altri») da una masnada di furfanti corrotti, ma che questi furfanti, in fondo, non sono altro che il vero specchio del Paese, o meglio della sua maggioranza. È il demone, appunto, del moralismo divisivo: cioè dell'idea che l'Italia non è un solo Paese, con propensioni, aspetti, caratteri buoni e cattivi, intrecciati inestricabilmente in tutte le sue parti e in certa misura dentro ognuno di noi. No, l'Italia sarebbe invece un Paese con due anime, due morali, addirittura due popoli di segno opposto. Da una parte gli Italiani cattivi (per natura reazionari, prevaricatori e imbroglioni) e dall'altra invece gli Italiani buoni (altrettanto naturalmente democratici, rispettosi della legge e attenti al bene pubblico). Da una parte insomma l'Italia maggioritaria moralmente grigia; e di fronte, a cercare di contrastarla, quella che ama definirsi «l'altra Italia», irrimediabilmente di minoranza.

La rappresentazione di questo modo di vedere le cose è andata in scena nel modo più evidente sul palco di Roma: dove è apparso chiaro, per l'appunto, che l'essenziale era urlare a squarciagola che Berlusconi incarna il massimo degli obbrobri possibili. Dimenticando però che, proprio se un simile figuro non ha dalla sua nessuna buona ragione, tanto più allora vi devono essere però delle buone ragioni se una maggioranza di Italiani lo ha votato. Ma il moralismo serve appunto a vanificare ogni questione politica di tal genere: la maggioranza degli Italiani ha votato Berlusconi? E che problema c'è? Vuol dire che sono fatti della sua stessa pasta, è la prova che sono dei furfanti come lui.

È una storia antica, dicevo, questa del moralismo. Una storia che comincia subito dopo l'Unità, quando lo sdegno per le miserie del Paese e il venir meno delle grandi speranze risorgimentali si tramutano nella messa sotto accusa delle sue classi politiche, del «Paese legale»; che prosegue poi con l'antigiolittismo di tanta parte della cultura nazionale la quale, alla denuncia delle malefatte del «ministro della malavita», associa ora la novità importante della denuncia dell'inadeguatezza morale dell'opposizione socialista, colpevole di essere collusa e di tenergli bordone. Una storia, infine, che fino ad oggi sembrava culminare e compendiarsi nella fiammeggiante predicazione di Gobetti e nel suo culto per le «minoranze eroiche » chiamate a lottare contro tutto e contro tutti. Contro Giolitti, contro Turati, contro Mussolini: tutti colpevoli egualmente, anche se a vario titolo si capisce, di promuovere la «diseducazione» morale e politica del popolo italiano. Considerato peraltro — c'è bisogno di dirlo?— non desideroso di altro.

Sono stati gli scrittori, i poeti, il ceto accademico, gli intellettuali in genere, a svolgere un ruolo centrale nel far sorgere e nell'alimentare questa tradizione del moralismo divisivo. Un ruolo che rimanda al ruolo politico di coscienza della nazione che sempre gli intellettuali hanno avuto in Italia, prima e durante il Risorgimento, e che hanno mantenuto fino ad oggi.

La storia politica italiana specie nel '900 è stata per molti versi, infatti, una storia d'impegno politico degli intellettuali; e questo impegno si è esercitato quasi sempre come denuncia e scomunica dai toni moralistici non di una politica con nome e cognome, ma dell'Italia «cattiva», di «quest'Italia che non ci piace», secondo le parole famose di Giovanni Amendola.

È naturale che farsi alleato un simile atteggiamento, sollecitarlo e vezzeggiarlo, rappresenta una tentazione per qualunque forza d'opposizione. La sinistra italiana ne sa qualcosa. Nel dopoguerra, infatti, il Partito comunista iniziò una politica di stretta alleanza con gli intellettuali, e dunque anche esso fece proprio in misura notevole il moralismo divisivo che nella tradizione italiana caratterizzava il loro impegno. Del resto, un partito antisistema com'era il Pci di allora — sicuro di non poter mai arrivare al governo per vie normali, condannato alla contrapposizione permanente — divisivo lo era naturalmente. Per forza esso doveva alimentare la divisione in «buoni» e «cattivi». Il taglio moralistico che vi aggiunsero gli intellettuali dunque vi fu, e fu certo significativo, se non altro per mantenere viva una tradizione, ma il gelido realismo di Togliatti curò di non farsene prendere mai la mano, di sbarrargli qualunque avvicinamento al terreno cruciale della decisione politica. Dove invece restarono famose le sue «aperture» e i suoi «dialoghi» (perfino con gli ex fascisti).

Le cose sono iniziate a mutare del tutto con Berlinguer. È allora infatti che il discredito progressivo della tradizione comunista e la crisi dell'Urss lasciano il Partito comunista privo sempre più della sua identità storica. Ed è allora che il vuoto ideologico, che nel frattempo diviene progressivamente vuoto politico, comincia inesorabilmente a essere sempre più riempito dall'irrigidimento moralistico. Il quale tende a sua volta a diventare urlo delegittimatore, creazione del nemico assoluto, visto addirittura come frutto di una «mutazione genetica ». Con sempre meno operai e sempre più esponenti del «ceto medio riflessivo » nelle proprie file, suggestionato da spregiudicati gruppi editoriali che ambiscono quasi a dettargli la linea, pressato da giudici di tipo nuovo che considerano se stessi e la giustizia come investiti di una missione etica, e infine condizionato da una stampa straniera abituata a semplificare drasticamente una realtà italiana che nella sostanza non conosce, il Pci non trova di meglio che fare della «questione morale» la sua nuova carta d'identità. Incapace di convertirsi alla socialdemocrazia, al partito di Gramsci e di Togliatti, che pure un tempo non ignorava gli aspri dilemmi della politica, non rimane che presentarsi come «il partito degli onesti»; che affidare le sue speranze alla delegittimazione morale dell' avversario.

Lì avviene il ripudio drammatico e totale di una storia, una rottura sociale e antropologica, quello che potrebbe definirsi il salto verso il moralismo in un Paese (e dunque in un partito) solo. È da quel momento che un nugolo di professori, di giornalisti, di teatranti, di showmen televisivi, di romanzieri, comincia a pensare ormai di essere di fatto il padrone dell'elettorato di sinistra. E, quel che è peggio, in una certa misura lo diventa davvero. L'8 luglio romano ha rappresentato l'esito di questo lungo itinerario. Esso però dovrebbe aver fatto capire definitivamente, a chi non l'avesse ancora capito, che cosa implica alla fine il moralismo divisivo: in una parola la concreta impossibilità della democrazia. Se infatti l'Italia che politicamente non ci piace è fatta di gente moralmente ottusa guidata da un malandrino, è ovvio che la sola possibilità è una lotta all'ultimo sangue, muro contro muro, senza alcun compromesso immaginabile, mai. E se poi si dà il caso che quell'Italia così detestabile vince le elezioni, allora è inevitabile convincersi che la democrazia, un sistema che permette cose simili, in realtà è niente altro che una truffa. Ma è questo che conviene davvero alla sinistra? È questo che conviene al Partito democratico?

13 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La cultura come risorsa
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2008, 10:43:32 pm
DESTRA E IDENTITA' ITALIANA

La cultura come risorsa


di Ernesto Galli della Loggia


Servono a qualcosa, al governo Berlusconi, i ministeri dell'Istruzione e della Cultura? La domanda non è paradossale. Vuol significare semplicemente questo: retorica a parte, la destra italiana pensa di avere in quei ministeri, in quegli ambiti, un particolare, specifico, interesse politico o no? Pensa cioè che al suo programma e alla sua identità l'Istruzione e la Cultura possano contribuire in qualche modo o no? Ancora: ritiene la destra italiana che Istruzione e Cultura abbiano un qualche rilievo strategico nel futuro del Paese oppure no?

È difficile dare una risposta. So però perché ha senso porsi queste domande. Il motivo è che l'Italia di oggi appare un Paese inerte. Il fatto che da quindici anni, come scriveva domenica Francesco Giavazzi, non cresca il reddito reale medio è in certo senso solo la conseguenza ultima di qualcosa di più profondo. L'inerzia italiana non è nella sostanza economica. È piuttosto il venir meno di un'energia interiore, il perdersi del senso e delle ragioni del nostro stare insieme come Paese, delle speranze che dovrebbero tenere legato il primo alle seconde. È un lento ripiegare su noi stessi, un'incertezza che ci ha fatto deporre progressivamente ogni ambizione, ogni progetto. È l'invecchiamento di una popolazione che da anni non cresce; la consapevolezza deprimente che da anni siamo fermi, non facciamo, non creiamo, non costruiamo nulla d'importante, così come non risolviamo nessuno dei problemi che ci affliggono. È la sensazione che il Paese non ha più né un baricentro né una meta. Ed è la sensazione che nel frattempo le differenze sociali, culturali e quindi geografiche tra le varie parti della penisola si stanno approfondendo; che tutti i legami vanno allentandosi: tra le persone come all'interno delle famiglie e con le istituzioni. È la percezione impalpabile che ci stiamo allontanando pian piano dal centro della corrente: come se la storia contrastata ma viva, fertile e felice, della Prima Repubblica fosse giunta al capolinea, e non riuscisse a cominciarne nessun'altra.

A un Paese così è necessaria una scossa. L'Italia ha oggi bisogno di riprendere il filo della sua vicenda in quanto nazione, di riscoprire il senso e le molte vocazioni della sua identità, di riacquistare in questo modo fiducia in se stessa. In teoria non si potrebbe immaginare un compito più alto e più tipicamente proprio della politica. Peccato però che la destra non sembri avere alcuna consapevolezza di tutto ciò. Il «rialzati Italia » della sua campagna elettorale, infatti, non è mai uscito da una dimensione per così dire economicistica, nella sostanza non è mai stato altro che un'arma polemica contro la linea Visco-Padoa-Schioppa. Finora, insomma, e fatta salva l'adesione più o meno formale ad alcuni punti della morale cattolica e ad un generico patriottismo, la destra di governo ha mostrato una singolare timidezza/ indifferenza a muoversi sul terreno delle questioni ideali, dei valori individuali e collettivi, delle prospettive storico-identitarie. Finora essa non ha mai voluto parlare al Paese parlando del Paese.

Ma stare al governo può far capire molte cose. Può far capire per esempio che proprio il momento straordinario che stiamo vivendo e le necessità che esso pone sono fatti apposta per attribuire all'Istruzione e alla Cultura (che poi vuol dire inevitabilmente ai due rispettivi ministeri) un grande compito politico: non certo quello di stabilire nuove, impossibili egemonie alternative alla sinistra, bensì quello appunto di rianimare il Paese tutto, di aiutarlo a riannodare il filo della sua storia, e dunque a ritrovare senso e identità, alla fine fiducia in se stesso. Istruzione e Cultura, infatti, hanno a che fare nella loro essenza con il Sapere, il Passato e la Bellezza, cioè con il cuore dell'identità italiana. Sapere, Passato e Bellezza rappresentano le tre grandi prospettive che da sempre caratterizzano e per più versi racchiudono l'intera nostra vicenda, le tre prospettive che da secoli sono valse a mantenere questa piccola penisola mediterranea al centro dell'attenzione del mondo, portando il nome italiano oltre ogni confine. Sappiamo bene l'uso insopportabilmente retorico che tante volte di quelle tre parole si è fatto, ma ciò non toglie che è proprio da esse che possiamo, e in certo senso dobbiamo, ripartire.

L'Italia esiste, infatti, ha una compattezza identitaria e civile che adeguatamente sollecitata è capace di diventare lavoro, impegno, industriosità, fantasia di costruzioni istituzionali e sociali, solo in forza del legame che riesce a mantenere con quel cuore della sua storia. Ciò che la tiene insieme e la sua anima sono lì: nel Sapere, nel Passato, nella Bellezza. Il conoscere, il portare a sé il mondo e ripensarlo dentro di sé, che ha rappresentato lo strumento costante della multiforme crescita delle nostre collettività; e poi il rapporto con l'Antichità, con le origini classiche e cristiane, che continua ad essere per noi non solo fonte di un prestigio planetario ma anche motivo non estinguibile di autoriconoscimento, di una pietas del Ricordare e del Custodire in cui si riassume un tratto universale di civiltà; e infine la singolare vocazione italiana all'invenzione e all'armonia delle forme che, a partire dal paesaggio e dai mille modi della quotidianità, si è riversata poi in una vicenda artistica immensa: quanto ci piacerebbe che i nostri ministri dell'Istruzione e della Cultura ricordassero al Paese queste cose! Quanto ci piacerebbe che se ne ricordassero essi per primi quando si tratta di organizzare la scuola, l'università, i musei, la tutela del nostro patrimonio culturale, superando i mille inciampi burocratici di ogni giorno! Quanto ci piacerebbe, soprattutto, che essi riuscissero a parlare al Paese per l'appunto mettendo il Sapere, il Passato e la Bellezza al centro di un alto discorso politico rivolto al futuro della collettività nazionale! Forse essi non sospettano neppure l'ascolto che potrebbero ottenere. Forse la politica, questa triste generazione politica a cui è toccato in sorte di governare l'Italia disanimata attuale, neppure immagina le energie che essa potrebbe suscitare solo che sapesse trovare le parole, le immagini e le idee giuste! Una cosa è certa: chi in un modo o nell'altro vive negli ambiti istituzionalmente affidati all'Istruzione e alla Cultura non ne può più di doversi regolarmente presentare con il cappello in mano al ministro del Tesoro di turno, di essere sempre costretto a disquisire di «tagli », di organici, di soldi. Vorremmo una buona volta poter parlare, e sentir parlare, d'altro. Del nostro Paese, per l'appunto: del suo e del nostro avvenire.


22 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Difendere i diritti della persona umana
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 11:27:33 am
IL DIBATTITO SU ELUANA

Difendere i diritti della persona umana


di Ernesto Galli Della Loggia


Si faccia avanti chi sarebbe disposto a far dipendere la propria vita, il proprio diritto di essere lasciato in vita, da un giudizio da lui stesso pronunciato quando aveva 16 anni, in circostanze che non lo riguardavano affatto personalmente, e dunque quando, come è ovvio, non poteva neppure lontanamente immaginare che quel giudizio allora espresso avrebbe potuto decidere un giorno, dopo anni e anni, della sua esistenza. Eppure è proprio questo, in sostanza, quanto ha deciso la giustizia italiana nel caso di Eluana Englaro, immersa da molto tempo nella misteriosa condizione del coma profondo. Bisogna tenerlo bene a mente per capire che chi si oppone a sospendere la somministrazione per via artificiale di acqua e di «cibo» a Eluana —perché solo di questo si tratta, di acqua e di «cibo», non c'è nessuna «macchina che la tiene in vita» come invece dicono in tanti, a dimostrazione della disinvolta superficialità con cui spesso ci si pronuncia su un caso senza preoccuparsi neppure di conoscerne i termini reali —chi si oppone a questo, appunto, difende semplicemente il diritto di ognuno di decidere lui, e nessun altro, della propria vita.

Difende il primo e più elementare diritto di libertà, che nessun giudice, nessun tribunale, nessuna sentenza, può usurpare o confiscare. Con il caso di Eluana Englaro l'eutanasia e il testamento biologico non c'entrano propriamente nulla. E semmai a rigor di logica, e se la logica ha un senso, proprio chi sostiene la liceità dell'eutanasia e del testamento biologico (testamento biologico la cui introduzione legislativa io ad esempio personalmente auspico) dovrebbe essere oggi a favore del mantenimento in vita di questa nostra sfortunata concittadina. Quella liceità, infatti, è reclamata dai suoi fautori precisamente in nome della volontà del soggetto: ma della volontà libera di questi, a lui direttamente ed espressamente imputabile, voglio sperare, non già della sua volontà presunta, come invece è accaduto nel caso di cui stiamo discutendo. Nessun tribunale di Milano o di Vattelapesca, soprattutto in assenza di una qualunque legge votata dai miei rappresentanti, ha il diritto di dire quale sarebbe stata presumibilmente la mia decisione sulla mia morte, può arrogarsi il potere di desumere tale mia volontà su base indiziaria (indiziaria!) e per giunta sulla base di indizi debolissimi se non inconsistenti.

E infine: solo in un Paese sempre pronto a farsi accecare dalla faziosità, e nel quale una parte dell'opinione pubblica sembra ormai vivere dominata dall'ossessione fobica dell'«ingerenza clericale», solo in un Paese così è possibile interpretare un caso come questo episodio alla luce di uno scontro tra cattolici e laici. Ma stavolta l'opinione dei cattolici o l'«ingerenza clericale» non c'entrano nulla. C'entrano, per usare un'espressione adeguatamente aulica, solamente i «diritti della persona umana». La cui difesa sarebbe assai singolare che venisse lasciata solo alla Chiesa di Roma e al suo magistero, senza che dal mondo liberale, pure a parole oggi così affollato, non si alzasse una voce forte e decisa di protesta.

02 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il prezzo dei giochi
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2008, 04:21:23 pm
POLITICA E OLIMPIADI


Il prezzo dei giochi


di Ernesto Galli Della Loggia


Come sempre ci appassioneremo all'impegno agonistico di tutti gli atleti per superare se stessi e l'avversario. Come sempre faremo naturalmente il tifo per gli «Azzurri », e come sempre sentiremo qualcosa muoversi dentro di noi ogni volta che vedremo il tricolore salire sul pennone accompagnato dall'inno di Mameli.

Ma anche assistendo ad una gara sportiva e tifando per i «nostri» non potremo certo smettere di essere interamente noi stessi. E perciò di considerare le Olimpiadi non soltanto un insieme di gare e di record, di accoglienza efficiente e di impianti strepitosi: da molto tempo, infatti, esse sono pure qualcos'altro. A decidere dove si tengono, è ogni quattro anni il Comitato olimpico internazionale (Cio) — un gruppo di signori discretamente avidi, con un passato macchiato da numerosi episodi di corruzione, e comunque orientati a prendere le proprie decisioni fondamentalmente in base ai proventi ricavabili dalle sponsorizzazioni e dalla vendita dei diritti televisivi. Non meraviglia che non abbiano nessun problema a far cadere la loro scelta su regimi dittatoriali: sono proprio questi, infatti, che, se vogliono, possono spendere più soldi e dunque far riuscire più grandiosa e spettacolare la manifestazione, rendendola così più reclamizzabile e appetibile. Il perché è facile da indovinare: i regimi di questo tipo sono i più interessati al profitto politico ricavabile dall'investimento olimpico. La scelta della Cina è stata perciò una scelta avveduta: un grande Paese in crescita impetuosa e con una quantità di risorse da spendere, un regime sicuro del fatto suo ma spasmodicamente bisognoso di far dimenticare le proprie brutture. All'oligarchia comunista cinese i Giochi olimpici servono soprattutto a questo, come un belletto.

E chi oggi proclama la necessaria separazione tra lo sport e la politica avrebbe forse fatto bene a dire qualcosa anche di fronte al prolungato, massiccio tentativo, fattosi sempre più asfissiante negli ultimi mesi, da parte del regime di Pechino, di usare propagandisticamente le Olimpiadi. Non era, non è politica pure questa? Mai come stavolta i Giochi servono anche ad uno scopo politico (va bene: anche, ma è un anche pesante come un macigno). In questo caso servono a nascondere l'altra faccia del miracolo cinese: la repressione spietata delle minoranze nazionali e di qualunque richiesta di diritti politici e sindacali, il record mondiale delle esecuzioni capitali, il sostegno ai regimi più impresentabili del pianeta (dalla Birmania allo Zimbabwe, al Sudan), lo sfruttamento bestiale nelle fabbriche, le condizioni miserabili di tanta parte delle campagne, la catastrofe ecologica diffusa; e infine la presenza al vertice di una casta chiusa e corrottissima. Lo sviluppo economico cinese ha costi umani, sociali e politici orribili, ed è per nascondere questi costi che sono state organizzate le Olimpiadi di Pechino: distruggendo le abitazioni di migliaia di famiglie per far posto agli stadi, deportando fuori città decine di migliaia di persone per ragioni di «ordine pubblico», in pratica sottoponendo da tempo la capitale cinese ad un vero e proprio stato d'assedio. Ogni cosa ha il suo prezzo, si sa, ma cosa resterà mai degli «ideali olimpici», mi chiedo, dopo che ne avranno pagato uno così alto?

07 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una scuola per l'Italia
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2008, 10:57:33 am
LA CRISI DI UN’ISTITUZIONE

Una scuola per l'Italia


di Ernesto Galli Della Loggia


Tra neppure un mese la macchina della scuola italiana ricomincerà a macinare lezioni ed esami. Una gigantesca macchina fatta di circa un milione di dipendenti, di migliaia di edifici frequentati da milioni di studenti, pronta anche quest’anno ad allestire milioni di iniziative le più varie, a sfornare tra circolari, lettere, verbali e registri, il solito astronomico numero di tonnellate di carta. Una macchina gigantesca, appunto. Ma senz’anima: che non sa perché esiste né a che cosa serva, e che proprio perciò si dibatte da decenni in una crisi senza fine. Crisi la cui gravità non è testimoniata tanto dai pessimi risultati ottenuti dagli studenti della nostra scuola nei confronti internazionali, ma da qualcosa di più profondo e di più vero. Dal fatto che essa si sente un’istituzione inutile e in realtà lo è: apparendo tale, e dunque votata ineluttabilmente al fallimento, innanzi tutto alla coscienza dei suoi insegnanti, dei migliori soprattutto.

La scuola italiana non riesce più a conferire alcuna autorevolezza a nessun fatto, pensiero, personaggio o luogo di cui si parli nelle sue aule. Non riesce più a creare o ad alimentare in chi la frequenta alcun amore o alcun rispetto, alcuna gerarchia culturale. E perciò non serve a legittimare culturalmente — e cioè ideologicamente o storicamente— più nulla: non il Paese o il suo passato, la sua tradizione, e tanto meno lo Stato, la Costituzione, il sistema politico: nulla. Si possono tranquillamente frequentare le sue aule e non essere mai sfiorati dal sospetto che l’azione del conte di Cavour, o il Dialogo sopra i massimi sistemi, o una terzina del Paradiso rappresentano vertici d’intelligenza, di verità e di vita, posti davanti a noi come termini di confronto ideali, ma anche concretissimi, destinati ad accompagnarci in qualche modo per tutta l’esistenza. Il sintomo politico più evidente della crisi in cui versa la scuola è il sostanziale disinteresse, venato di disprezzo, di cui, al di là di tutte le chiacchiere di maniera, essa è ormai circondata dall’intera classe dirigente, a cominciare per l’appunto dalla classe politica.

Se il responsabile del Tesoro può impunemente tagliare i fondi destinati all’istruzione, infischiandosene di ogni possibilità di commisurare i risparmi alle esigenze di qualcuna delle ipotesi di cambiamento proposte dal volenteroso ministro Gelmini, ciò accade precisamente perché in realtà Tremonti, come tantissimi altri suoi colleghi, non sa a che cosa questa scuola possa davvero servire, e in essa non riesce a vedere altro che una macchina erogatrice e sperperatrice di risorse. Come di fatto, peraltro, essa rischia ormai di essere. La verità è che la scuola pubblica che l’Europa conosce da due secoli non è solo un sistema per impartire nozioni. Nessuna scuola autentica del resto lo è mai stata: deve impartire nozioni, come è ovvio, ma può riuscirvi solo se insieme—aggiungerei preliminarmente — è anche qualcos'altro, e cioè se al suo centro vi è un’idea, una visione generale del mondo. La scuola pubblica europea è nata intorno al compito di testimoniare un’idea del proprio Paese, i caratteri e le vicende della collettività che lo abita, sentendosi chiamata a custodire l’immagine di sé e gli scopi di una tale collettività. 

Non può esistere una scuola pubblica mondial-onusiana, una scuola italiana che parli in inglese o esperanto. Un sistema d’istruzione pubblico appartiene sempre a un contesto culturale nazionale. Questo è il punto, dunque qui sta il cuore del problema: alla fine, nella sua sostanza più vera, la crisi della scuola italiana non è altro che la crisi dell’idea d’Italia. E’ lo specchio della profonda incertezza di coloro che a vario titolo la guidano o le danno voce - i governanti, gli apparati dello Stato, gli imprenditori, gli intellettuali, l’opinione pubblica - circa il senso e il rilievo del suo passato, circa i suoi veri bisogni attuali e quello che dovrebbe essere il suo domani. Il profondo marasma della nostra scuola, il grande spazio preso in essa dal burocratismo, dalle riunioni, dalle questioni di metodo, dalle futilità docimologiche, a scapito dei contenuti, è lo specchio di un Paese che non riesce più a pensarsi come nazione da quando la sua storia ha attraversato negli anni ’60-’80 la grande tempesta della modernizzazione.

E’ da allora che l’idea del nostro passato si sta dileguando insieme alla consapevolezza dei suoi grandi tratti distintivi. E non a caso è da allora che è diventato sempre più difficile anche organizzare il presente e immaginare il futuro. Da qui, per esempio, ha tratto origine la crisi che ha colpito a suo tempo le tradizionali culture politiche della democrazia repubblicana, e sempre qui sta oggi la difficoltà di vederne sorgere di nuove. Da qui, anche, la generale sensazione d’immobilismo che abbiamo da anni, quasi che dopo il trauma della modernizzazione non sapessimo più ritrovarci, non riuscissimo più a riprendere il bandolo della nostra storia e dunque non riuscissimo più a muoverci. Negli anni ’90 la cesura che era andata producendosi nei tre decenni precedenti è venuta finalmente alla luce: ha definitivamente preso forma un’Italia nuova, ma questa Italia nuova non riesce più a pensare se stessa, non riesce più a pensarsi come un intero, come nazione, a progettare il suo futuro, perché non riesce più a incontrare il suo passato.

Riappropriarsi di questo passato e della propria tradizione per ritrovarsi: questo è il compito urgente che sta davanti al Paese che sa e che pensa. Ed è alla luce di questo compito che esso deve ripensare anche l’intera istituzione scolastica, la quale solo così potrà riavere un senso e una funzione, e sperare di tornare alla vita. Ridare profondità storico-nazionale alla scuola, ma naturalmente in vista delle esigenze che si pongono all’Italia nuova di oggi e tenendo conto dell'ambito e dei contenuti propri degli studi. E cioè, non volendo sottrarmi all’onere di qualche indicazione, mirare innanzi tutto a ricostituire culturalmente (e per ciò che riguarda l’istituzione anche organizzativamente) il rapporto centro- periferia e Nord-Sud, riaffermando il carattere multiforme ma unico e specifico dell'esperienza italiana; in secondo luogo porre al centro, ed esplorare, il nostro tormentato rapporto con la modernità e i suoi linguaggi, mettendone a fuoco debolezze e punti di forza e cercando anche in questa maniera di costruirci un modo nostro di stare nei tempi nuovi, di averne l’appropriata consapevolezza senza snaturamenti e scimmiottamenti; e infine ribadire la funzione della scuola nella costruzione della personalità individuale, principalmente attraverso l’apprendimento dei saperi, delle nozioni, e la disciplina che esso comporta.

Tutto ciò facendo piazza pulita delle troppe materie e degli orari troppo lunghi che affliggono la nostra scuola, e ricentrando con forza i nostri ordinamenti scolastici intorno a due capisaldi: da un lato la lingua italiana e la storia della sua letteratura, cioè intorno alla voce del nostro passato, e dall’altro le matematiche, cioè il linguaggio generale del presente e del futuro universali. A questo punto ci si può solo chiedere: esiste un governo, esistono dei ministri in Italia? Personalmente mi ostino a pensare di sì. E a credere che ogni tanto gli capiti perfino di ascoltare i gridi di dolore, come questo, che si levano dai giornali.

21 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. L'Italia falsa delle fiction
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2008, 11:35:02 am
VENEZIA, IL CINEMA E LA TV

L'Italia falsa delle fiction

La fiction televisiva è l’esatto opposto del cinema italiano... una sua caricatura


di Ernesto Galli Della Loggia


Come si vede in questi giorni a Venezia il cinema italiano continua a mostrarsi ricco di idee e di talenti, vitale e competitivo. L’Italia però non sembra accorgersene, non sa che farsene: solo così si spiega come mai da noi impazzi da anni quella particolare rappresentazione cinematografica che si chiama fiction, la quale ha nella televisione pubblica e privata la sua produttrice e consumatrice esclusiva, e quindi può contare su milioni di spettatori ogni sera. La fiction televisiva è l’esatto opposto del cinema italiano, una specie di sua adulterazione permanente. Meglio: una sua caricatura. Il cinema ha raccontato l’Italia agli italiani e al mondo, e facendolo non solo ha contribuito a formare come nessun altro la coscienza vera del Paese, ma ha saputo spesso esprimere significati morali ed estetici di valore universale. Ancora oggi registi come Pupi Avati, Giuseppe Tornatore, Gabriele Muccino, Marco Tullio Giordana, raccontano con il timbro della verità e della poesia storie che parlano di noi, che riguardano il nostro passato e il nostro presente.

Esattamente l’opposto di quanto si vede sugli schermi televisivi: non per nulla tranne eccezioni rarissime nessuno dei registi di nome del nostro cinema viene chiamato a dirigere la fiction che va in televisione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Sempre fatte salve le solite eccezioni (dalla lontanissima «Piovra » ai più recenti «La meglio gioventù» o «Montalbano ») la fiction sia della Rai che di Mediaset è una cosa da brividi: dialoghi surreali, scenografie e location posticce, interpreti regolarmente mal scelti e una recitazione sempre sgangherata, fuori tono, in genere troppo enfatica (anche bravi attori come Virna Lisi, Diego Abatantuono o Giancarlo Giannini sono costretti a recitare battute improbabili in ruoli che non stanno assolutamente in piedi). Ma sono le trame e le sceneggiature che soprattutto gridano vendetta. Qui è il trionfo dell’inautentico, dell’implausibile, del finto. Finti, fintissimi, i carabinieri, i distretti di polizia, la gente di mare, i posti al sole, i medici, e tutto il resto che popola le serate degli italiani. Finte pure le foibe, i don Bosco, i De Gasperi.

Ma non la grande finzione delle favole, bensì il povero finto delle stoffe dei magliari. Si capisce a prima vista, ad esempio, che tutti sono alla ricerca del nazional- popolare, del «semplice ma avvincente e profondo», epperò ogni volta il risultato è il patetico, il falso, la tirata retorica, la lacrima e il grido che sanno unicamente di artificio. Alla fine, così, restano solo e sempre, anche quando fischiano le pallottole e ululano le sirene, scialbi, scialbissimi fumettoni piccolo-borghesi dove nulla riesce ad apparire ciò che vorrebbe essere. Il difetto è nel manico, dice chi se ne intende. E cioè che nel caso della televisione italiana il ruolo del regista è sempre sostanzialmente marginale mentre invece il potere vero è nelle mani dei vertici delle direzioni aziendali, ormai divenuti i veri grandi boss della produzione. Da tempo sono ormai questi a decidere delle trame, degli sceneggiatori, degli attori, di tutto. Quasi sempre però— e questo è il punto decisivo— tenendo conto soprattutto del proprio personale tornaconto, spessissimo di propri personali legami con interessi esterni, anziché di parametri qualitativi degni di questo nome. È anche in questo modo, umiliando il proprio cinema, restringendo il campo d’azione dei suoi uomini e donne migliori e dunque perdendo la capacità di raccontarsi, che un Paese non riesce più ad essere se stesso, a ritrovare la propria identità. E se quel Paese è l’Italia, la cosa forse ci riguarda da vicino.

31 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. Scuola e opinione pubblica. Il silenzio del sud
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2008, 11:32:54 am
Scuola e opinione pubblica

Il silenzio del sud


di Ernesto Galli Della Loggia


«Esiste una questione meridional e nella scuola italiana? Temo proprio di sì (…). L'Europa non boccia l'Italia e i suoi quindicenni (…) ma boccia il Sud e le Isole, assai indietro rispetto alla media europea mente il Centronord la supera nettamente. (…) Le fredde statistiche rivelano un fenomeno inedito: un abbassamento della complessiva qualità scolastica nel Sud. Nel passato, in piena "questione meridionale" generale, un liceo o una scuola elementare di Napoli aveva in genere un livello analogo alle consorelle milanesi. Oggi non è più così». A parlare in questo modo non è il ministro Gelmini, il ministro della «solita destra italiana». No. E' un esponente di antica data della sinistra come Luigi Berlinguer, tra l'altro un ex ministro dell'Istruzione, in un articolo di rara onestà intellettuale pubblicato sull'Unità del 29 agosto scorso. Articolo che però, abbastanza sorprendentemente, non ha provocato neppure la più blanda protesta da parte di quella legione di politici, professori e intellettuali che invece solo pochi giorni prima si erano stracciati le vesti per le cose più o meno analoghe dette dal responsabile attuale dell'Istruzione, il ministro Gelmini di cui sopra, seppellita sotto una valanga di vituperi per il suo supposto razzismo antimeridionale.

Il fatto è che dovremmo prendere atto tutti, una buona volta, di alcuni dati di fatto. Non solo di quelli ormai notissimi delle rilevazioni Ocse-Pisa, ma anche, per esempio, della circostanza, che negli ultimi 7-8 anni i migliori piazzamenti nelle varie olimpiadi di matematica, informatica, fisica o nei certami di latino, ecc. organizzati internazionalmente, li hanno ottenuti quasi sempre studenti dell'Italia settentrionale. Così come dovremmo chiederci perché mai, di fronte a questi risultati, accade però che la maggiore concentrazione dei 100 e lode all'esame di maturità delle scuole italiane si abbia proprio in Calabria e in Puglia, o che le più alte percentuali di punteggi massimi si registrino in una scuola di Crotone (ben 34 «100 e lode »!) di Reggio Calabria (28) e di Cosenza (21), mentre i Licei Mamiani e Tasso di Roma si devono accontentare di appena due, e rispettivamente un solo, 100 e lode. Geni in erba a Crotone e geni incompresi a Friburgo o ad Amsterdam? Andiamo! E forse dovremmo pure chiederci come mai il Friuli, regione che pure fa segnare la percentuale di 100 e lode più bassa fra tutte le regioni d'Italia, veda invece poi i suoi studenti, nell'ultimo quinquennio, fare incetta di premi nelle più varie competizioni.

E' fin troppo evidente che questo insieme di dati tira pesantemente in ballo non solo la realtà scolastica ma l'intera realtà sociale del Mezzogiorno. Ne parla del resto, senza peli sulla lingua, lo stesso Berlinguer nell'articolo citato: «Gli enti locali nel Centro- nord hanno fatto in questi decenni cose straordinarie per la scuola, egli scrive (…), nel Sud tutto questo o è episodico o non c'è. Nel Centro-nord la scuola è tema che influenza le scelte dell'elettorato locale, che stimola così gli amministratori. Al Sud o è episodico o non c'è». Insomma la società meridionale presta scarsa o nulla attenzione alla sua scuola, alla qualità dell'insegnamento, perché evidentemente non le considera cose molto importanti.

Le famiglie, più che alla sostanza sembrano guardare all'apparenza dei «bei voti» comunque ottenuti. E quando la verità comincia a venir fuori — com'è per l'appunto accaduto con la sacrosanta denuncia del ministro Gelmini — allora la reazione generalizzata è quella del perbenismo indignato, del ridicolissimo «ma come!? noi che abbiamo avuto Croce e Pirandello!»: nella sostanza, cioè, è il fingere di non vedere, di non capire. E' il silenzio.

Un sostanziale silenzio sulle condizioni del proprio sistema scolastico che appare come un aspetto del più generale silenzio del Mezzogiorno. Un Mezzogiorno che ormai da anni ha cessato di parlare di se stesso e dei suoi mali, che da anni ha messo volontariamente in soffitta la «questione meridionale», che sembra ormai rassegnato a fingere una normalità da cui invece è sempre più lontano. E così la spazzatura copre Napoli, la scuola del Sud è quella che abbiamo visto, intere regioni sono sotto il dominio della delinquenza, in molti centri l'acqua ancor oggi viene erogata poche ore al giorno, i servizi pubblici (a cominciare dai treni) sono in condizioni pietose, il sistema sanitario è quasi sempre allo stremo e di pessima qualità, ma il Sud resta muto, non ha più una voce che dica di lui. Unica e isolata risuona la nota dissonante di un pugno di scrittori e di saggisti coraggiosi come Mario Desiati, Marco Demarco, Gaetano Cappelli, Adolfo Scotto di Luzio di cui sta per uscire il bellissimo «Napoli dai molti tradimenti». Sì, l'opinione pubblica meridionale, specie quella del Mezzogiorno continentale, nel suo complesso latita, è assente. Mai che essa metta sotto esame, e poi se del caso sotto accusa, i suoi gruppi dirigenti locali di destra o di sinistra che siano; mai che crei movimenti, associazioni, giornali, che agitino i temi della propria condizione negativa; mai che da essa vengano analisi sincere, e magari (perché no?) autocritiche, dello stato delle cose e dei motivi perché esse stanno al modo come stanno.

Soprattutto sorprendente e significativo (eppure si trattava della scuola, dell'istruzione, santo iddio!) è apparso nei giorni scorsi il silenzio — o, peggio, l'adesione alla protesta perbenistico-sciovinista — da parte di tanti intellettuali. E' stata la conferma di un dato da tempo sotto gli occhi di tutti: che proprio la cultura meridionale, ormai, non si sente più tenuta a rappresentare quella coscienza polemicamente e analiticamente esploratrice della propria società, a svolgere quella funzione critica, che pure dall'Unità in avanti avevano costituito un tratto decisivo della sua identità. In questo silenzio e con questo silenzio degli intellettuali la «questione meridionale» mette davvero fine alla sua storia. Abituati a essere portatori di istanze di critica e di cambiamento, abituati cioè a svolgere un ruolo socio-culturale oggettivamente di opposizione, e dunque, almeno in questo dopoguerra, orientati tradizionalmente a sinistra, gli intellettuali meridionali si direbbe che siano rimasti vittime della rivoluzione politica verificatasi nel Mezzogiorno negli ultimi vent'anni. La vittoria della sinistra in tanti comuni e in tante regioni, infatti, se per alcuni di essi ha voluto dire l'arruolamento in questo o quell'organismo pubblico, e dunque l'assorbimento puro e semplice nel potere, per molti di più, per la stragrande maggioranza, ha significato essere privati di una potenzialità alternativa essenziale, di una sponda decisiva per il proprio ragionare e il proprio dire d'opposizione.
Dopo la vittoria della sinistra essere «contro» ha rischiato di significare qualcosa di ben diverso che per il passato: ed è stato un rischio che quasi nessuno si è sentito di correre.

Peccato però che evitare i rischi non significa in alcun modo esorcizzare i pericoli: a cominciare, in questo caso, dal pericolo di un declino inarrestabile di cui sono testimonianza proprio le brillantissime pagelle degli studenti del Mezzogiorno.

14 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. CRISI E RIBELLIONE DELLE MASSE
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 12:15:33 am
CRISI E RIBELLIONE DELLE MASSE

Le élites in pericolo


di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA


Il fenomeno si era già manifestato qualche giorno fa con il voto della Camera dei Rappresentanti contro il piano di salvataggio di 700 miliardi di dollari varato dalla Casa Bianca: una parte significativa di americani era, ed è, più interessata a punire Wall Street che a salvare l'economia. Ce ne dà una conferma il New York Times di ieri informandoci che la crisi in corso sta spaccando il Partito repubblicano, sempre più diviso tra la sua vecchia anima East Coast, moderata, favorevole alle istituzioni federali e alla business community, e la sua nuova anima, invece, conservatrice, ostile a «quelli di Washington» e al mondo della finanza, forte soprattutto negli Stati del Centro e del Sud. L'anima, per l'appunto, che si è fatta prepotentemente viva con il voto di cui dicevo all'inizio. Questo appena citato è però solo un esempio dei mutamenti, dei grandi mutamenti, che il terremoto economico in corso forse preannuncia o già lascia scorgere: non solo negli Stati Uniti ma in tutto l'Occidente e forse neppure qui soltanto. Sia negli Usa che in Europa la crisi sembra funzionare da acceleratrice di fenomeni in incubazione da tempo che nel nuovo clima si solidificano e vengono finalmente alla luce. Il primo di questi fenomeni è la riattualizzazione, lo straordinario rilancio, della duplice categoria Stato-sovranità in rapporto ad una sorta di rinazionalizzazione dell'economia.

La crisi, infatti, è crisi di istituzioni bancario- finanziarie le quali hanno, sì, fitti legami con l'estero, ma che innanzi tutto vedono coinvolte in larghissima misura i bilanci di persone e famiglie che vivono in un unico Paese, in un unico Stato. Il che crea immediatamente un problema politico per chi lo governa: e cioè come rispondere alle difficoltà e alle proteste di quelle persone e quelle famiglie che, tra l'altro, sono anche un elettorato. Insomma la crisi appare economicamente mondiale ma politicamente è quasi esclusivamente nazionale. L'internazionalismo politico sembra sostanzialmente fuori gioco o non avere molto da dire: la prova lampante è data dall'Unione europea che divisa come al solito tra i diversi interessi e tra le diverse strategie statali non riesce a decidere alcuna linea politica comune. E così è dal governo di ogni singolo Stato che tutti si aspettano interventi, piani di salvataggio e di rilancio, nuove regole, e soprattutto erogazione di fondi: dal momento che quando si arriva alle strette sono solo gli Stati che possiedono le risorse economiche, la massa di risorse finanziarie in grado di cercare di rimettere le cose in sesto. E possiedono altresì i mezzi d'imperio necessari e la legittimazione a usarli: due risorse d'incommensurabile valore, in certe circostanze, di cui verosimilmente nessun mercato e nessuna organizzazione internazionale potrà mai disporre in misura analoga.

Questa enfasi nuova che la crisi pone sull'elemento statual-nazionale è del resto in perfetta sintonia con l'importanza sempre maggiore che gli sviluppi più recenti dell'economia tendono ad attribuire a un fattore assai strettamente collegato a quell'elemento: la territorialità. Paradossalmente, infatti, mentre eravamo convinti di essere ormai entrati nel regno della rete, della tecnologia sempre più sofisticata, dell'immateriale, mentre eravamo convinti che la finanza globalizzata era ormai destinata a dominare il mondo, ci siamo accorti d'un tratto che il nostro futuro dovrà invece fare i conti in misura crescente con quelle cose assai poco immateriali che sono l'acqua, i raccolti, il petrolio. Tutte cose che, guarda un po', possono certo essere trasportate da un luogo all'altro della terra ma sono comunque legate in modo assoluto ad uno spazio circoscritto, a un territorio. Cosicché chi si trova a esserne sovrano, possiede certamente parecchie carte in più rispetto a chi non lo è, a chi ha la sfortuna di vivere in un posto senza raccolti, senza petrolio e senza acqua. Vengo alla seconda novità che presagisce però una frattura. Chi dice Territorio, Stato, Governo, inevitabilmente dice Politica, e dunque Leadership. A questo riguardo la crisi economica sembra produrre due fenomeni convergenti. Da un lato la consapevolezza dell'oggettivo bisogno di leadership autorevoli, la richiesta di qualcuno che sappia prendere in mano la situazione. Dall'altro lato un'ondata di discredito per le leadership esistenti, specie economiche, rivelatesi così inadeguate e piene di zone d'ombra.

E insieme qualcosa di ancora più profondo e in certo senso inquietante: un discredito, un'insofferenza, un'immagine di inadeguatezza, un senso di lontananza, che tende a coinvolgere l'intera classe dirigente in un numero crescente di Paesi dell'Occidente. Sembra cioè farsi sempre più strada, in vasti settori della popolazione, la convinzione che prima che le loro azioni siano le stesse idee delle élites sociali finora in auge, il loro modo di sentire e di essere, la loro cultura nell'accezione complessiva del termine, ad aver fatto il proprio tempo e a essere sempre più estranee alle opinioni delle maggioranze. La richiesta di leadership, insomma, alimenta sotterraneamente un ramificato ma possente movimento di delegittimazione delle classi dirigenti e degli assetti politici tradizionali, che si manifesta nelle improvvise «rivolte» elettorali o nelle svolte repentine degli umori collettivi di questi ultimi e ultimissimi tempi, dall'ascesa conservatrice in Austria-Baviera al crollo dei consensi laburisti in Gran Bretagna, alla ribellione dei congressmen americani contro Bush (e forse anche la vittoria della destra in Italia vi ha qualcosa a che fare). Si ha l'impressione che le élites tradizionali, i loro partiti, i loro programmi, ma anche i loro riti, i loro giornali, i loro intellettuali accreditati, i loro format direbbe qualcuno, facciano sempre più fatica a comprendere, e quindi a rappresentare, ciò che non da oggi sta prendendo forma negli strati profondi delle società occidentali e che la crisi economica rinvigorisce, accresce, agita potenzialmente a dismisura. Di fronte a tutto ciò parlare di una «ribellione delle masse» all'ordine del giorno sarebbe francamente esagerato. Ma tenere gli occhi ben aperti di certo non lo è per nulla.

04 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Scuola, i riformisti del no
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2008, 08:35:50 am
CORTEI, PD E SINDACATI

Scuola, i riformisti del no


di Ernesto Galli Della Loggia


Che cosa realmente sanno della scuola, della causa per cui protestavano, gli studenti che l'altro giorno hanno affollato le vie e le piazze d'Italia? Probabilmente solo che il potere, cattivo per definizione (figuriamoci poi se è di destra!), vuole fare dei «tagli», termine altrettanto sgradevole per definizione, e imporre regole limitatrici della precedente libertà (grembiule, valore del voto di condotta), dunque sgradevoli anch'esse. Sapevano, sanno solo questo, non per colpa loro ma perché ormai da tempo in Italia, nel dibattito tra maggioranza e minoranza, e di conseguenza nel discorso pubblico, la realtà, i dati, non riescono ad avere alcun peso, dal momento che su di essi sembra lecito dire tutto e il contrario di tutto. Nulla è vero e nulla è falso, contano solo le opinioni e i fatti meno di zero.

Esemplare di questo disprezzo per la realtà continua a essere il dibattito sulla scuola. C'è un ministro, Mariastella Gelmini, che dice che la scuola italiana non funziona. Porta delle cifre: sul numero eccessivo d'insegnanti, sull'eccessiva percentuale assorbita dagli stipendi rispetto al bilancio complessivo, sui risultati modesti degli studenti, sulla discutibile organizzazione della scuola nel Mezzogiorno; evoca poi fenomeni sotto gli occhi di tutti: l'allentamento della disciplina, gli episodi di vero e proprio teppismo nelle aule scolastiche. E alla fine fa delle proposte. Discutibilissime naturalmente, ma la caratteristica singolare dell'Italia è che nessuno, e men che meno l'opposizione, men che meno il sindacato della scuola che pure si prepara a uno sciopero generale di protesta, sembra interessato a discutere di niente. Né dell'analisi né di possibili rimedi alternativi a quelli proposti.

Cosa pensa ad esempio dei dati presentati dal ministro Gelmini il ministro ombra dell'istruzione del Pd, la senatrice Garavaglia? Sono veri? Sono falsi? E cosa indicano a suo giudizio? Che la scuola italiana funziona bene o che funziona male? E se è così, lei e il suo partito che cosa propongono?
Non lo sappiamo, e bisogna ammettere che per delle forze politiche e sindacali che si richiamano con forza al riformismo si tratta di un atteggiamento non poco contraddittorio. Riformismo, infatti, dovrebbe significare prima di tutto la consapevolezza di che cosa va cambiato, e poi, di conseguenza, la capacità di indicare i cambiamenti del caso: le riforme appunto. Non significa dire solo no alle riforme altrui, e basta.
Infatti, alla fine, dato il silenzio circa qualsiasi misura nel merito, l'unica proposta che rimane sul tappeto da parte del Partito democratico e del sindacato appare essere virtualmente solo quella di lasciare le cose come stanno. Naturalmente nessuno si prende la responsabilità di dirlo esplicitamente, ma ancor meno nessuno osa esprimere il minimo suggerimento concreto.

In realtà, a proposito della scuola una proposta precisa è stata ed è avanzata di continuo dall'opposizione politico-sindacale. Alla scuola — ci viene detto — servono più soldi (nel discorso pubblico italiano, di qualsiasi cosa si tratti, servono sempre o «ben altro» o «più soldi»). Insomma, la colpa del malfunzionamento della scuola starebbe nelle poche risorse di cui essa dispone: ciò che almeno serve politicamente a rendere ancor più deplorevole la recente decisione del ministro del Tesoro di togliergliene delle altre. Peccato però che pure in questo caso, per dirla con le parole di uno studioso che non milita certo nel campo della destra, Carlo Trigilia, sul Sole-24 ore di martedì scorso, dall'opposizione «non è stata elaborata alcuna proposta di manovra finanziaria che spiegasse se e come era possibile coniugare rigore finanziario e scelte concrete diverse da quelle del governo». Dunque neppure sul come e dove trovare quei benedetti soldi l'opinione pubblica ha la minima indicazione su cui discutere, su cui fare confronti e alla fine farsi un'idea.

Questo non tenere conto dei fatti, dei dati concreti, questo continuo scansare la realtà, finiscono così per diventare uno dei principali alimenti della diffusa ineducazione politica degli italiani. Nel caso della scuola contribuiscono a far credere a tanti, a tanti insegnanti, a tanti studenti, di vivere in un Paese governato da ministri sadici, nemici dell'istruzione, che chissà perché rifiutano di distribuire risorse che invece ci sono; contribuisce a far credere a tante scuole, a tante Università, che i problemi possono risolversi con la messa in scena spettrale — più o meno per il quarantesimo anno consecutivo! — dell'ennesimo corteo, dell'ennesima «okkupazione».

13 ottobre 2008
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'Italia Immobile
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2008, 07:02:52 pm
PRIGIONIERI DEL PASSATO

L'Italia Immobile


di Ernesto Galli della Loggia


Un Paese fermo, consegnato all'immobilità: ecco come appare oggi l'Italia. Non già nella cronaca convulsa del giorno per giorno, nell'agitazione della lotta politica, nei movimenti sempre imprevedibili di una società composita, frammentata e priva di inquadramenti istituzionali forti. Ma un Paese fermo perché anche nelle sue élites prigioniero dei luoghi comuni, incapace di pensare e di fare cose nuove in modo nuovo, di sciogliere i nodi che da tanto tempo ostacolano il suo cammino.

Da trent'anni ci portiamo sulle spalle un debito pubblico smisurato che non riusciamo a diminuire neppure di tanto. Da decenni dobbiamo riformare la scuola, la Rai, la sanità, le pensioni, la magistratura, la legge sulla cittadinanza, e siamo sempre lì a discutere come farlo. Da decenni dobbiamo costruire la Pedemontana, le prigioni che mancano, il sistema degli acquedotti che fa acqua, il ponte sullo Stretto, le metropolitane nelle città, la Salerno- Reggio Calabria, la Tav del corridoio 5, e non so più cos'altro. Ma non lo facciamo o lo facciamo con una lentezza esasperante. Nel tempo che gli altri cambiano il volto di una città, costruiscono una biblioteca gigantesca, un museo straordinario, noi sì e no mettiamo a punto un progetto di massima sul quale avviare discussioni senza fine.

Perché in Italia le cose vanno così? I motivi sono mille ma alla fine sono tutti riconducibili a una sensazione precisa: siamo una società prigioniera del passato. Con lo sguardo perennemente rivolto all'indietro, che ama crogiolarsi sempre negli stessi discorsi, nelle stesse contrapposizioni, nelle stesse dispute, assistere sempre allo spettacolo degli stessi gesti e degli stessi attori. Da noi il passato non diviene mai inutile o inutilizzabile. Non si butta via mai niente. Ogni cosa è potenzialmente per sempre: ogni ruolo, ogni carica è a vita, e pure se siamo reduci da qualcosa lo siamo comunque in servizio permanente effettivo. In un'atmosfera di soffocante ripetitività siamo sempre spinti a conservare o a replicare tutto: idee, appuntamenti stagionali, parole d'ordine, comizi, titoli di giornali.
Ci domina una sorta di freudiana ritenzione anale infantile: paurosi di abbandonarci alla libertà creativa e innovativa dell'età adulta, a staccarci dalla comodità del già noto, solo noi, nella nostra vita pubblica, abbiamo inventato la figura oracolare e un po' ridicola del «padre della patria» con obbligo di universale reverenza. È, il nostro, l'immobilismo di un Paese abbarbicato a ciò che ha vissuto perché non riesce a credere più nel proprio futuro, di un Paese che sotto la vernice di un'eterna propensione alla rissa in realtà fugge come la peste ogni rottura e conflitto veri, e desidera solo continuità. Che come un vecchio Narciso incartapecorito anela solo a rispecchiarsi nel già visto.

Un Paese, come c'informa La Stampa di qualche giorno fa, dove Guido Viale, antico giovane di un remoto «anno dei portenti », si compiace — invece di averne orrore — che oggi «le occupazioni delle scuole si fanno assieme ai genitori», e che «questi ragazzi lottano accanto ai professori e ai presidi». Già, «accanto ai professori e ai presidi»: che lotte devono essere! E comunque è con queste, buono a sapersi, che l'Italia si allena ai duri cimenti dell'avvenire.

25 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Le spalle al cristianesimo
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2008, 10:48:59 am
LE UCCISIONI DIMENTICATE

Le spalle al cristianesimo


di Ernesto Galli della Loggia


Dall'India alle Filippine, dall'Iraq al Pakistan, si susseguono gli assassinii di sacerdoti e di fedeli cristiani: perlopiù cattolici anche se numerosi sono pure i protestanti. Di fronte a queste uccisioni l'opinione pubblica occidentale ha una reazione ormai scontata: gira la testa dall'altra parte. Non fa sostanzialmente eccezione, cosa all'apparenza straordinaria, neppure la parte esplicitamente cristiana di quell'opinione pubblica, quasi che avesse il timore, alzando troppo la voce, di rendere le cose ancora peggiori.

Naturalmente viene da chiedersi quale sarebbe invece la reazione dell'uomo della strada, dei media e dei governi occidentali, se in una qualunque parte del mondo ad essere presi di mira per la loro appartenenza religiosa, al posto dei cristiani, ci fossero i seguaci di altre confessioni, per esempio gli ebrei. Ma chiederselo sarebbe solo indulgere in una polemica sterile. In realtà, infatti, la reazione quasi inesistente dell'opinione pubblica alle notizie di uccisioni di cristiani non è niente altro che il frutto di fenomeni profondi da lungo tempo all'opera nelle nostre società, l'effetto di lenti smottamenti ideologici che ne stanno cambiando il profilo ultramillenario.

Sotto i nostri occhi si sta consumando una gigantesca frattura storica: non vogliamo essere, non ci sentiamo più delle società cristiane. Non vogliono più esserlo non le grandi maggioranze, ma soprattutto le élite intellettuali. La critica della religione, infatti, è rimasta, alla fine, il solo e vero denominatore comune sopravvissuto alle infinite vicissitudini della cultura moderna. Dell'illuminismo, del marxismo, del darwinismo, del freudismo e di ogni altro «ismo» tutti gli snodi e gli assunti sono stati di volta in volta smentiti, contraddetti e abbandonati. Una sola cosa però, comune ad ognuno di essi, è restata come acquisto generale: l'idea che la religione, e quindi innanzitutto il cristianesimo, rappresenta la prima «alienazione» dell'umanità premoderna, di cui i tempi nuovi esigono che ci si sbarazzi. È così accaduto che nelle società occidentali — lo dico con sbigottimento di non credente — la religione sia diventata intellettualmente impresentabile, e dunque sempre meno rappresentata culturalmente. E che anche perciò nelle nostre società (tranne forse gli Stati Uniti) il cristianesimo, di fatto, non strutturi più alcun senso di appartenenza realmente collettiva. Che esso sia, debba obbligatoriamente essere, invece, un fatto solo privato. Ne consegue come cosa ovvia che le sue sorti pubbliche e storiche non ci riguardano più: figuriamoci poi se si svolgono in qualche remota contrada dell'Asia o dell'Africa.

A sentire in questo modo ci ha spinto, paradossalmente, lo stesso senso comune diffuso per molti anni in tanta parte del mondo cattolico. Il quale, fino a tempi assai recenti, è stato attentissimo, anche nelle sue massime espressioni istituzionali, a non essere collegato a nulla che sapesse di Europa o di Occidente, per paura che ciò avrebbe automaticamente messo in pericolo la sua autonomia politica e/o macchiato la sua purezza evangelica. Nutrendo forse la speranza, non saprei quanto fondata, che alla fine ciò gli avrebbe fatto guadagnare altrove il terreno che qui andava perdendo.


03 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. Una nazione sotto l'ala di Dio
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2008, 11:43:54 am
GLI IDEALI AMERICANI

Una nazione sotto l'ala di Dio


di Ernesto Galli Della Loggia


«La vera forza della nostra nazione non scaturisce dalla potenza delle nostre armi o dalla misura delle nostre ricchezze, ma dal richiamo intramontabile dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e una speranza indomita ». E’ racchiuso in queste parole, pronunciate da Barack Obama a Chicago, la notte della vittoria, il senso più vero della sua elezione alla presidenza degli Stati Uniti: il «richiamo intramontabile dei nostri ideali». Un'elezione che nella sua essenza non possiede tanto un carattere estrinsecamente politico, non ha tanto a che fare con le categorie di liberal, di progressista, o quant'altro, ma esprime piuttosto lo straordinario bisogno della comunità americana di sentirsi intimamente animata e guidata da un'alta ispirazione ideale, e insieme la sua capacità e il suo modo peculiarissimi di soddisfare tale bisogno nei momenti di crisi, d'incertezza, quando diviene chiaro che bisogna affrontare nuovi compiti, intraprendere un cammino nuovo.

A ogni nazione capita in tali momenti di fare appello ai motivi e ai valori del proprio stare insieme: di richiamarsi cioè alla propria storia e alle sue ragioni. Le quali ragioni, tuttavia, proprio perché legate alla storia, al tempo e al suo trascorrere, sono anche, inevitabilmente, soggette spesso a consumarsi e a corrompersi. Con il risultato che il richiamarsi ad esse finisce per suonare vuoto e retorico, risultando alla fine del tutto inefficace e magari politicamente controproducente. Nel caso degli Stati Uniti ciò non avviene. Avviene anzi il contrario, avviene cioè che il richiamo al passato si manifesti costantemente come eccezionale risorsa politica, per una ragione che chiunque ha potuto percepire con chiarezza guardando le immagini della notte magica di Chicago. Perché esso non è propriamente un richiamo alla storia, a «una» storia, ma è il richiamo a una fortissima ispirazione originaria di carattere ideale, a quella ispirazione costituita dalla religione, dal Cristianesimo nella sua declinazione biblico-giudaica propria del Protestantesimo.

Per riprendere forza l'America non guarda al passato, non guarda indietro, guarda in alto, a Dio. Da lì sente venire «la speranza indomita» e «la chiamata », come ha detto il neopresidente Obama con un termine che sarebbe impossibile ascoltare sulla bocca di qualunque statista europeo. Da qui, dunque, il tono sempre obbligatoriamente profetico-visionario che in modo del tutto naturale prendono in quel Paese la «grande» politica e il suo discorso pubblico. Da qui anche—cosa ben più importante — la costante spinta alla «grandezza» che riceve la politica, sollecitata, specie nei momenti di crisi, a essere all'altezza dell'originaria ispirazione religiosa che presiede all' esistenza della comunità. Sollecitata altresì a trovare personalità nuove e carismatiche capaci di incarnare e dare voce a quell'ispirazione. Sempre da qui, infine, un altro fenomeno di straordinario rilievo: cioè il fatto che negli Stati Uniti, come è per l'appunto avvenuto con la recentissima vittoria dei democratici, ogni proposta di cambiamento, di riforma, anche quella dalla portata più radicale come l'elezione di un nero alla guida del Paese, è in grado di presentarsi facendo appello all'ideale originario.

E’ quindi in grado di presentarsi sempre in una veste rassicurante, in certo senso di conservazione, non divisiva, ma anzi capace di aggregare dietro di sé una vasta maggioranza. Negli Usa ogni rivoluzione si presenta nella sostanza come una restaurazione: è l'adempimento dell'antica «promessa» giudaico-cristiana che si manifesta nella «speranza indomita» nei valori universali della persona umana. Tutto ciò sottolinea la siderale distanza che ci separa, che separa tutti noi europei, di destra, di centro e di sinistra, dal panorama umano e storico che si stende tra i due oceani. All'origine delle nostre comunità politiche non ha potuto esserci alcun covenant, alcun patto religioso, alcuna promessa di «una città sulla collina»: e forse è proprio per questo che oggi ci tocca assistere allo spettacolo paradossale di tanti portabandiera del laicismo nostrano che piegano le ginocchia, rapiti, davanti al nuovo Mosè d'Oltreatlantico.

09 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La fine di un solista
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2008, 09:31:25 am
VELTRONI E L'UNITA' DELLA SINISTRA


La fine di un solista


di Ernesto Galli Della Loggia


Un passo dopo l'altro il Pd sembra rimangiarsi il suo impegno di neppure un anno fa di «andare da solo», di considerarsi potenzialmente maggioritario, e dunque di non avere bisogno di nessuna «unione» con altri. Come conseguenza, un passo dopo l'altro ritorna d'attualità l'unità delle sinistre. Lo indica tutta una serie di fatti: dalla nessuna presa di distanza da parte del Pd nei confronti della linea dura della Cgil di Epifani, all'appoggio senza riserve offerto al movimento contro le riforme volute dal ministro Gelmini, che pure hanno riscosso un favore tutt'altro che limitato al centro destra, alla crescente tentazione dell'antiberlusconismo duro e puro presentato di nuovo come argine necessario contro il «regime», alla gestione della questione della Commissione di vigilanza sulla Rai, infine alla presentazione di una candidatura unitaria (espressa dall'Italia dei Valori, e anche questo è significativo) per le elezioni regionali in Abruzzo.
Di per sé, naturalmente, nessuna di queste scelte è una scelta esplicita per l'unità delle sinistre. Esse lo diventano però dal momento che, complessivamente, allontanano inevitabilmente il Pd da una posizione riformista spostandolo su posizioni agitatorie e radicali tradizionalmente proprie delle forze alla sua sinistra, dai Verdi a Rifondazione. Sono scelte, ad esempio, che fanno incontrare al Partito democratico una piazza che esso ormai conosce e controlla solo in parte, e di cui quindi finisce spesso per essere più la coda che la guida. Sono scelte che di fatto consegnano la bandiera dell'opposizione, e dunque anche quella del Pd, nelle mani di categorie (i piloti), di pezzi di sociale (il magma studentesco), di protagonisti (Di Pietro, i comici!), che in realtà hanno a che fare poco o nulla con un moderno partito riformista. L'unità delle sinistre si sta riformando nelle piazze e negli studi televisivi.

E' chiara qual è la causa immediata di questo lento ma deciso abbandono da parte del Pd delle posizioni «soliste» abbracciate poco prima delle ultime elezioni. E' la debolezza della leadership di Walter Veltroni. Azzoppato dalla dura sconfitta elettorale; insidiato dalle continue, inestinguibili, lotte interne; incapace di comporre in un accettabile grado d'unità le due o tre diverse anime confluite nel Pd, Veltroni non è ancora riuscito a trovare — e a praticare — una linea politica d'opposizione capace di tenere insieme, e di rendere egualmente visibili, il profilo riformista del suo partito da un lato, e dall'altro la chiarezza del quotidiano contrasto rispetto al governo. Così, sentendo il terreno mancargli ogni giorno sotto i piedi, si è «buttato a sinistra », come si dice. Privo del consenso degli elettori ha cercato almeno quello dei manifestanti; persa la battaglia dei votanti, si è messo a sperare nelle lotte dei «movimenti». E ha consentito, anche con la sua voce, che divenissero sempre più forti le voci del no, della contrapposizione di principio, di un'esibita quanto dubbia diversità antropologica.

Ma non c'è solo la debolezza di un leader dietro la svolta in atto che sta irresistibilmente spingendo il Pd verso una riedizione dell'unità delle sinistre. C'è qualcosa di più profondo, ed è la sua evidente difficoltà di condurre una lotta politica su due fronti: proprio quella lotta, cioè, che, specie nell'ambiente italiano, così pervaso di vecchi e sempre nuovi massimalismi, è la linea obbligata di un partito riformista. Ma è un obbligo che il Partito democratico fa una terribile fatica ad assolvere perché per farlo dovrebbe abbandonare (e forse non avere mai neppure conosciuto) quella cultura di antica matrice comunista che esso invece ancora si porta dentro. Cultura che ha la sua premessa decisiva nell'idea che nella storia, alla fine, c'è posto solo per due parti: quella del bene e quella del male, destinate allo scontro finale.

Come evitare, però, se si adotta questa visione l'obbligo di stare tutti i buoni dalla stessa parte, tutte le sinistre insieme a sinistra? Si dirà che però di battaglie su due fronti, e cioè anche contro formazioni alla sua sinistra, il vecchio Pci ne fece tante: per esempio contro i trotzkisti o contro il terrorismo goscista. E' vero, ma non a caso, come ognuno ricorda, ogni volta esso sentì il bisogno, per farlo, di qualificare pubblicamente i propri avversari di sinistra come «fascisti» (lo stesso Craxi e i suoi non sfuggirono all'epiteto): ristabilendo così la dicotomia accennata sopra. In forza della quale, insomma, a sinistra c'è posto solo per una parte, per i buoni: cioè per «noi» e i nostri amici; tutti gli altri non possono che essere finti buoni, lupi travestiti da agnelli, «fascisti» appunto. Solo la cultura del riformismo socialista, rifiutando una visione manichea della storia, ha avuto storicamente la possibilità di combattere vere battaglie su due fronti, contro la destra e contro la sinistra radicale (perlopiù comunista), chiamando quest'ultima con il suo nome e accettando la sfida a sinistra. Il Pd, invece, è preso in una morsa: se vuole essere riformista si trova di fatto ad avere, anche stando all'opposizione, dei nemici a sinistra che il suo riformismo stesso gli impedisce però di considerare «fascisti»; ma non essendo ideologicamente riformista abbastanza, non riesce ad accettare di essere combattuto e di combattere tali nemici, rinunciando all'idea di farseli in qualche modo alleati. Nasce da qui, alla prima occasione, il ricorrente miraggio dell'unità delle sinistre, altra faccia obbligata del «niente nemici a sinistra»: una linea che è sempre stata la pietra tombale di ogni riformismo. Schiacciato dalla quale Walter Veltroni minaccia di concludere oggi la sua appena iniziata avventura di «solista».


18 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’Europa degli indecisi
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2008, 09:51:28 am
NOI E IL TERRORE

L’Europa degli indecisi


di di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA


Cosa si prefiggono il terrorismo islamista e le forze ad esso collegate? Quale obiettivo hanno gli attentati che dall'11 settembre insanguinano la scena mondiale? Non sono proprio domande dappoco, eppure sono domande che noi, opinione pubblica europea, sostanzialmente non ci poniamo o alle quali, se proprio dobbiamo, diamo risposte vaghe e sfuggenti. Ogni volta registriamo i fatti, li deploriamo doverosamente, ribadiamo la necessità di «tenere alta la guardia» (una delle espressioni più stupide e inconcludenti del nostro gergo politico, e proprio per questo adoperatissima), e guardiamo da un’altra parte. Non c'è dubbio che anche dopo i fatti di Mumbai sarà così. Cioè anche dopo la dimostrazione che il terrorismo islamista è ormai in grado di passare dagli attentati, sia pure in grande o in grandissimo stile tipo quello alle Torri gemelle, a vere e proprie operazioni di sbarco con conseguente attacco a interi distretti urbani.

Non ci poniamo le domande perché abbiamo paura delle risposte. Di una risposta soprattutto: e cioè che il terrorismo islamista e i diversi gruppi che esso ispira mirano essenzialmente a terrorizzare «noi»; sì, noi che con tutta evidenza costituiamo il suo vero obiettivo strategico.

Va benissimo, infatti, versare il sangue di indiani, filippini, turchi, iracheni o marocchini; ma quello di cui i terroristi vanno ogni volta ansiosamente in cerca, dovunque colpiscono, è soprattutto il sangue di americani, inglesi, francesi e tedeschi; anche di italiani se capita. E di sangue ebraico naturalmente: quello sempre. Le vittime che soprattutto essi vogliono sono vittime occidentali: «crociati» e «sionisti». Non perché i terroristi siano belve accecate dal fanatismo (lo sono, ma in un senso più complicato di ciò che si pensa di solito). Ma perché si prefiggono lucidamente un obiettivo, e pensano che ammazzarci possa aiutarli a conseguirlo: l'obiettivo di ridurre via via fino a cancellarla l'area di rapporti e d'influenza politica, nonché l'insieme di legami economici, culturali e religiosi, che una storia millenaria ha stabilito tra Europa e America da un lato e il mondo afro-asiatico dall'altro.

Dimostrando ai governi di Asia e Africa che basta il rifiuto di essere nemici dell'Occidente e degli Stati Uniti in particolare, ovvero basta avversare a qualunque titolo i disegni del radicalismo islamico, per attirarsi la sua spietata furia omicida. Di fronte a questo piano del terrorismo islamista noi—intendo noi europei dell'Unione, fatti salvi come al solito gli inglesi— non ne abbiamo tragicamente nessuno. Gli Usa, infatti, con Bush una via, la si giudichi come si vuole, l'hanno scelta da tempo, e vedremo adesso come la cambierà Obama. Ma è certo che gli Usa continueranno comunque a fare qualcosa.

Siamo noi Europei dell’Unione, invece, che non sappiamo cosa fare. Abbiamo degli uomini sul campo ma non vediamo l'ora di ritirarli; critichiamo di continuo gli americani ma non vogliamo né sappiamo essere alternativi in alcun modo ad essi; siamo decisi a parole ma poi indecisi e divisissimi tra noi in ogni azione: sballottati qua e là dalle tempeste di una storia nella quale pensiamo sempre meno di dover avere una parte, e di poterla avere.

29 novembre 2008

da lastampa.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Mani Pulite 2, no grazie
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2008, 11:24:08 am
CORSI E RICORSI

Mani Pulite 2, no grazie


di Ernesto Galli Della Loggia


Nessuno sa bene in questo momento che cosa nascerà dalle inchieste avviate a carico di esponenti di amministrazioni locali di centrosinistra da Firenze a Napoli, da Pescara a Potenza. Ma fin d'ora la politica, la stampa, l'opinione pubblica, una cosa possono, anzi devono, promettere a se stesse: che in ogni caso non sarà come fu all'epoca di Mani Pulite. In ogni caso cercheremo tutti di non ripetere gli errori commessi allora.

È una promessa necessaria perché invece la tentazione di ripetere (più o meno) quel copione fa continuamente capolino. Da tutte le parti e in tutti i sensi. Per esempio, in molte osservazioni sulle indagini della magistratura che Bruno Miserendino ha raccolto per l'Unità di mercoledì scorso tra i dirigenti del Pd, del tipo: «È come se le Procure avessero fiutato il vento», è «Come se qualcuno avesse dato il via», «Non penseremo davvero che dietro tutto questo non ci sia una regia politica?». Ovvero nella diffusa voluttà di nemesi, all'insegna del «Chi la fa l'aspetti», che spira in altri ambienti. Cerchiamo allora di fissare poche regole di base con le quali affrontare la situazione che potrebbe crearsi nell'immediato futuro se le inchieste dovessero allargarsi.

Prima regola: un'accusa è solo un’accusa, non una colpa provata. Rimane esclusivamente un'accusa e nulla di più anche quando essa è ripetuta, e magari sceneggiata, in uno studio televisivo: ciò che peraltro costituisce una barbarica (sì, barbarica) condizione di sfavore ai danni di una parte.

Seconda regola: mantenere fermo che gli atti illegali commessi da esponenti politici devono sì cadere senza remore sotto la più rigorosa sanzione della legge, e cioè essere individualmente perseguiti e puniti, ma che questi atti, nel caso in cui indicano l'esistenza di un fenomeno di massa, costituiscono altresì un problema eminentemente politico che va risolto politicamente, partendo dai problemi concreti. Vale a dire non limitandosi a chiedere e a distribuire condanne penali ma introducendo regole adeguate. Ad esempio un provvedimento intelligente come «l'anagrafe degli eletti» proposta da tempo dai Radicali ma che nessuno fin qui si è filato.

Terza regola: considerare i magistrati, in specie i pm, come benemeriti della cosa pubblica quando compiono il proprio dovere con rispetto scrupoloso delle procedure e senza guardare in faccia nessuno. Evitare però che solo per questo essi assurgano al rango di eroici arcangeli del bene e a supremi rappresentanti della moralità civica, vedendosi sommersi di interviste, invocazioni, fax, e per giunta omaggiati con l'offerta della carica di ministri, parlamentari, sindaci, e quant'altro. Ricordarsi che istruendo dei processi essi fanno solo il loro dovere e nulla di più.

Infine resistere alla tentazione di adoperare a getto continuo e a sproposito termini come «società civile», «casta», «questione morale»: sono gratificanti perché fanno sentire dalla parte giusta, è vero, ma quasi sempre sono fuorvianti. Al tempo stesso ricordarsi che nelle aule di giustizia si comminano condanne penali e si decretano assoluzioni. Ma quelle aule — ormai dovremmo saperlo — non sono mai state il posto adatto per sottoporre la politica ad alcun lavacro purificatore.

21 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. IL CASO TARIQ RAMADAN
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2009, 04:20:47 pm
IL CASO TARIQ RAMADAN

I mediatori introvabili


di Ernesto Galli Della Loggia


Mediazione, mediazione: come sempre in ogni crisi israelo- palestinese anche questa volta, da parte delle opinioni pubbliche europee, dei loro giornali e delle loro cancellerie, è tutto un invocare la necessità di una mediazione. Politici e osservatori accreditati si affannano a sottolineare che bisogna trovare a tutti i costi una mediazione, individuare un punto d’incontro. Esigenza sacrosanta. Se non fosse per un piccolo particolare: perché ci sia una mediazione deve esserci qualcuno con cui mediare, vale a dire qualcuno non solo convinto dell’opportunità di un accordo basato sul do ut des, ma che dia garanzie di voler lui stesso per primo rispettare un tale accordo, nonché di poter farlo rispettare a chicchessia. La crisi mediorientale non ha mai trovato una soluzione perché finora da parte araba una figura, un’autorità, una cultura del genere, sono sempre mancate.

Israele si trova dunque periodicamente confrontato militarmente da forze radicali—un tempo era Fatah, ora è Hamas dietro cui si scorge il potente alleato iraniano—le quali si prefiggono né più né meno che la sua eliminazione (Hamas auspica anche l’eliminazione di tutti gli ebrei dalla faccia della terra), senza che però si trovi mai nel mondo islamico qualche leader o qualche governo importanti, qualche voce autorevole, in grado di condannare recisamente e pubblicamente, prima ancora che la ferocia, il nullismo politico suicida del radicalismo. Dai colloqui riservati di queste ore, ad esempio, trapela che la maggioranza dei paesi arabi giudica assolutamente sbagliata la linea terroristica di Hamas, ne condanna la politica di divisione del fronte palestinese, l’intolleranza fondamentalista. Ma nessuno di essi ha il coraggio di gridarlo con forza e di schierarsi apertamente contro. Il perché si sa: perché quei governi hanno paura di essere travolti, complice il terrorismo, dalle rispettive popolazioni, conquistate da tempo a un antiisraelismo cieco e violento, nutrito spessissimo di antisemitismo.

Ogni mediazione è impossibile sulla questione israelo-palestinese perché la rende impossibile la cultura politica diffusa tra le grandi masse del mondo arabo, abituate ad apprezzare solo il radicalismo bellicista. Per convincersene basta leggere l’articolo scritto ieri sul Riformista da un noto intellettuale arabo, Tariq Ramadan, incautamente accreditato da molti democratici europei di una presunta ragionevolezza che lo candiderebbe, si dice, a prezioso interlocutore in vista della nascita di un Islam europeo. Ebbene, un articolo, quello di Ramadan, tutto improntato a una grottesca unilateralità: su Hamas neppure una parola, tutti i governi israeliani, di qualunque colore, «mentono, giustiziano sommariamente gli oppositori, non danno pressoché nessun peso alle morti di civili», mentre i palestinesi di Gaza sono vittime di «genocidi» (sic) «approvati dall’80 per cento degli israeliani». E così via, in un delirio «antisionista » che lo stesso direttore del giornale, il bravo Antonio Polito, ha duramente stigmatizzato come frutto di puro «odio verso Israele». E’ la definizione giusta. Ma se questo è quello che scrive un intellettuale islamico in piena dimestichezza con la cultura occidentale, figuriamoci cosa pensano e dicono gli altri: e figuriamoci quale mediazione possa mai venir fuori in un contesto del genere.

03 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il pacifismo impossibile
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2009, 05:13:35 pm
Editoriali           I RAPPORTI TRA IL VATICANO E ISRAELE

Il pacifismo impossibile


di Ernesto Galli Della Loggia


L’incauto paragone fatto dal cardinale Martino tra Gaza e un campo di concentramento (allestito dagli israeliani, naturalmente) ha riproposto il tema del rapporto tra Chiesa e Israele. Un tema che, al di là del paragone azzardato di cui sopra, e al di là delle ben diverse ed equilibrate espressioni adoperate invece dal Papa, si ripropone regolarmente perché in realtà esso riguarda sì un contenzioso specifico, ma insieme si presta come pochi altri ad essere lo specchio di questioni e dilemmi di portata amplissima che riguardano la storia del Cattolicesimo e dell’Ebraismo in quanto tali, dei loro rapporti, nonché il modo d’essere del primo sulla scena del mondo. Per quanto riguarda il contenzioso arabo-israeliano e il ruolo della Chiesa, su di esso non può non pesare ancora come un macigno il mancato riconoscimento diplomatico del nuovo Stato da parte della Santa Sede. Protrattosi per oltre un trentennio dopo la nascita di Israele, esso sortì l’effetto paradossale di equiparare di fatto il Vaticano, la massima autorità del mondo cristiano, al «fronte del rifiuto» arabo- islamico.

Nel 1947 e nei molti anni successivi la diplomazia vaticana e chi la guidava non capì che il riconoscimento di Israele da parte della Chiesa di Roma era un gesto simbolico dovuto alla storia, alle sue ragioni supreme cui era necessario inchinarsi. Che sarebbe stato un gesto di sapore profetico in grado di imprimere una svolta sorprendente ad una storia lunga e tormentatissima, segnandone forse un nuovo inizio. Nella circostanza in questione, invece, gli aspetti simbolici pesarono sì (molto probabilmente) ma solo in senso negativo. Dovettero certo pesare, ad esempio, l’antica avversione per il «popolo deicida» che per la prima volta riusciva ora ad assurgere ad un’autonoma esistenza statale, lo sconcerto nel vedere tale Stato padrone addirittura della culla storica del Cristianesimo, il fatto, infine, che tutto ciò accadesse per una singolare convergenza protestante-marxista in seno alle Nazioni Unite (il voto di Usa e Urss). Mentre dal canto suo l’obiettivo accampato di solito per giustificare quel mancato riconoscimento — e cioè la protezione delle comunità cristiane nei Paesi arabi — non poteva rivelarsi più illusorio.

A dispetto delle scelte vaticane, infatti, quelle comunità sono andate da allora riducendosi progressivamente di numero e d’influenza fino ad essere oggi sul punto di scomparire. Al mancato riconoscimento diplomatico si aggiunsero poi altri gesti di segno ancora più inequivoco: memorabile la scoperta di un vescovo cattolico, monsignor Capucci, sorpreso negli anni ’70 a trasportare armi nel bagagliaio della propria auto per conto delle organizzazioni armate palestinesi. Come avrebbe reagito in un caso analogo, ci si deve chiedere, un’opinione pubblica diversa da quella israeliana, per esempio italiana? E che cosa avrebbe pensato dell’assenza di qualunque sanzione nei confronti del suddetto prelato da parte delle autorità religiose? Israele reagì accentuando l’atteggiamento di risentimento e di ostilità, anche se celato dietro un’apparenza di gelida correttezza formale, che aveva tenuto fin dall’inizio nei confronti della presenza cattolica nel suo territorio, e che estese dopo il 1967 ai territori occupati. Lo fece, e continua tuttora a farlo, non solo non distinguendo in alcun modo tra arabi cristiani e musulmani, trattando entrambi con pari ostilità, ma soprattutto facendo sentire tutto il peso della propria autorità e quindi del proprio controllo occhiutamente oppressivo, sui luoghi santi della tradizione cristiana.

Israele, insomma, ha colto senza pensarci due volte la singolarissima occasione che la storia gli ha offerto di rovesciare le parti: la condizione di sottomissione che per secoli gli ebrei hanno dovuto subire all’interno delle società cristiane è divenuta la medesima, almeno simbolicamente, che ai cristiani e alle loro istituzioni tocca ora sopportare all’interno della società ebraica. Ma l’atteggiamento della Chiesa nel conflitto arabo-israeliano si colora di un aspetto tutto particolare per un’altra ragione, che va oltre il rapporto cristianesimo-ebraismo. Si tratta del fatto che mai come a proposito di quel conflitto— che una vasta parte dell’opinione pubblica occidentale tende a considerare come una guerra «giusta» o perlomeno inevitabile —si manifesta il carattere problematico delle posizioni che la Chiesa è venuta assumendo sempre di più negli ultimi anni sulla scena internazionale. Una posizione che, come si sa, si compendia in pratica (anche se non in teoria: ma finora nella pratica non ricordo che vi siano state eccezioni) nel rifiuto/denuncia della guerra, virtualmente di ogni guerra.

Questo pacifismo suscita inevitabilmente, però, una questione di grande rilievo, destinata a emergere di continuo nelle accese discussioni pubbliche che accompagnano sempre il conflitto mediorientale, come per l’appunto si vede anche in questi giorni. Essa riguarda il carattere quasi sempre non neutrale del pacifismo, spesso a dispetto dei suoi stessi promotori. In molte circostanze, infatti, schierarsi per la pace non significa per nulla essere davvero equidistanti tra le parti o al di sopra di esse. Specialmente perché un pacifismo coerente dovrebbe indurre non solo ad essere contro la guerra, ma a denunciare di continuo con eguale forza anche ogni manifestazione di conflittualità, di qualunque tipo o misura, che spesso costituisce la premessa obbligata del successivo scoppio delle ostilità vere e proprie. È dunque lecito chiedersi: la Santa Sede che è contro le odierne operazioni belliche di Israele, lo è stata allo stesso modo, con la stessa nettezza, lo stesso tono e soprattutto con la medesima pubblicità, nei confronti per esempio della politica estera di Siria e Iran? O di tante quotidiane manifestazioni violentissime del fronte palestinese? Ognuno può rispondere da sé.

Resta da dire che una vera politica pacifista è in realtà impossibile per qualunque organizzazione vasta e complessa, tutrice di vari e molteplici interessi, perché, intesa coerentemente, essa implicherebbe la rinuncia di fatto a svolgere un qualunque vero ruolo politico—basato, come questo inevitabilmente è, sulla contrattazione (anche del silenzio) e le alleanze— per limitarsi, viceversa, ad un ruolo di esclusiva testimonianza morale, sempre e comunque. La scelta della Chiesa di Roma non sembra proprio andare in questa direzione. È lecito aggiungere, per fortuna?

11 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - L'INCONTRO TRA LAICI E CATTOLICI
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 02:54:39 pm
L'INCONTRO TRA LAICI E CATTOLICI

Una stagione al tramonto

di Ernesto Galli della Loggia


Tutto sembra indicare che una stagione italiana sta finendo: la stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici.
Si capisce a quale stagione, a quale incontro mi riferisco: a quella che si aprì intorno agli inizi degli anni Novanta, nel momento della crisi della Prima Repubblica e con essa della Democrazia cristiana, del centro sinistra, ma anche del Partito comunista colpito a morte dalla fine dell'Urss, e che ricevette una spinta decisiva dall'attentato newyorkese dell'11 settembre. Quegli eventi, nonché la sensazione più generale che si stesse chiudendo un'intera epoca storica, aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi e di problemi riguardanti l'Italia e il mondo: immaginare una nuova collocazione e una nuova «missione» politica sia per i cattolici che per le forze laiche non attratte nell' orbita del vecchio Partito comunista; elaborare l'avvicinarsi di una temperie culturale nuova aperta dai progressi impressionanti della tecnoscienza in settori quali l'ingegneria genetica; affrontare le inedite tensioni geopolitiche, vieppiù dominate da componenti fondamentalistiche, che sembravano imporre un ripensamento/rilancio della categoria di Occidente. Dunque un dialogo tra laici e cattolici che però aveva poco a che fare con quello tradizionale della storia politica italiana, a suo tempo avviato dal Pci togliattiano, e proseguito per decenni, con la sinistra cattolica poi ribattezzata con il nome di «cattolicesimo democratico». Diversi i contenuti, ancora più diversi i protagonisti.

I risultati non sono mancati: soprattutto, direi, la nascita di quotidiani, riviste, libri, iniziative culturali varie, dove, per la prima volta in modo così continuo e sistematico nella storia italiana, la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico hanno intrecciato analisi, rilevato coincidenze e scambiato punti di vista; dove si sono stabiliti importanti rapporti e consuetudini anche personali. Da tempo però tutto sembra avviato verso una ripetitività sempre più stanca, i contenuti non si rinnovano, non si aggiungono energie nuove mentre all'opposto si sommano nuove ostilità. E mentre continua ad apparire sempre assai lontano, quasi irraggiungibile, il traguardo della nascita nel nostro Paese di una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso.
Qui mi limiterò a indicare alcuni motivi che a mio giudizio hanno reso sempre più difficile e sempre meno produttivo il dialogo di cui sto dicendo.

Innanzi tutto tale dialogo, che aveva una natura sostanzialmente culturale (anche se con possibili, evidenti, conseguenze politiche), si è trovato fortemente squilibrato per la scarsissima presenza in campo cattolico di un'opinione pubblica colta non orientata a sinistra. Sul versante cattolico i pochi interlocutori disponibili sono stati perlopiù figure di giovani intellettuali, quasi sempre cresciuti nei movimenti, e alcuni di quegli stessi movimenti (penso specialmente a Comunione e Liberazione). Dominati tuttavia, gli uni e gli altri, da un fortissimo spirito di parte, orientati a un forte radicalismo, pronti assai spesso a perdere repentinamente interesse, e magari a guardare con sospetto, proprio coloro dell'altro campo con i quali fino al giorno prima si erano trovati a discutere insieme.

E' accaduto così che il dialogo ha finito per vedere protagonisti, da parte cattolica, soprattutto gli esponenti della gerarchia, la Chiesa.
Molti prelati vi hanno visto un'occasione, nel caso migliore per uscire dal proprio ruolo intellettualmente non troppo appagante, nel caso peggiore per mettersi in mostra, per acquistare un'immagine pubblica di maggior rilievo. Ne sono derivate due conseguenze negative intrecciate insieme. Che l'incontro tra laici e cattolici, non avendo visto alcun impegno di parti significative del laicato cattolico, non ha potuto ricevere l'apporto di energie culturali vaste e profonde che non fossero quelle di qualche vescovo o cardinale (pochi per la verità, ben pochi!). Con il che, però, esso è divenuto di fatto un incontro con la Chiesa, caricandosi in tal modo di un significato immediatamente e inevitabilmente politico, o comunque potendo facilmente essere così etichettato. E dunque facilmente suscitando, da parte dei laici intransigenti e della sinistra, un fuoco d'interdizione rivelatosi alla fine efficace.

Il ruolo assunto dalla Chiesa ha evidenziato un ulteriore fattore negativo. Ha infatti reso ancora più chiara l'autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli a improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente, e che nel caso dell'organizzazione ecclesiastica raggiunge l'apice. Autoreferenzialità significa difficoltà di stabilire rapporti realmente paritari con chi è fuori da quel mondo, difficoltà di farsi persuaso che perché ci sia una reale interlocuzione con chiunque è necessario dare nella stessa misura in cui si riceve, non lesinare riconoscimento e visibilità, capire che se si vogliono conseguire obiettivi di rilievo non si può prendere come bussola solo se stessi, solo il proprio immediato tornaconto. E' così accaduto tante volte, per esempio, che pur mostrandosi molto interessata al dialogo con i laici di orientamento liberale la Chiesa e i suoi esponenti fossero pronti, però, con lo stesso interesse (anzi assai spesso di più), a incontrarsi con i più aspri avversari di quelli, con quei laici intransigenti che magari vituperavano gli altri proprio a causa — colmo dei paradossi — del dialogo da essi intrattenuto con il mondo cattolico: fossero pronti a invitarli, a scrivere sui loro giornali, a chiederne la collaborazione.

Forse qualcuno potrebbe giudicare tutto ciò una manifestazione di quella malizia e spregiudicatezza talvolta considerate proprie della più sofisticata abilità politica. Sono convinto del contrario. A ben vedere, infatti, l'autoreferenzialità — di cui tanto spesso la Chiesa e il suo mondo ancora non riescono a liberarsi, e che è emersa con chiarezza nel dialogo con i laici interessati ad avviare un rapporto nuovo con il cattolicesimo — non è che la conseguenza della separatezza a cui la vicenda storica ha costretto la Chiesa stessa insieme al retroterra sociale che fa capo ad essa. Una separatezza che costituisce un grave ostacolo proprio rispetto alla possibilità di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no, magari perfino di farsi arricchire da essi (non oso dire cambiare). E' su questi scogli che il dialogo tra laici e cattolici si è incagliato e forse sta naufragando. Di sicuro non sarà qualche progetto di legge disposto a recepire per intero il punto di vista della Santa Sede che cambierà le cose.


15 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Pd, il rischio della rivolta
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2009, 06:34:34 pm
SE PREVALE SOLO IL MALCONTENTO

Pd, il rischio della rivolta


di Ernesto Galli Della Loggia


E’ la sala della Pallacorda, non uno squallido hangar della Fiera di Roma, il luogo vero — vero perché definito dalla misteriosa verità dei simboli — dove si riunisce oggi l'assemblea del Partito democratico. Quella sala della Pallacorda, a Versailles, dove nella primavera del 1789 si riunirono i rappresentanti del Terzo Stato in rivolta contro il timido riformismo paternalistico di Luigi XVI, dando così inizio alla rivoluzione. Oggi i 2.800 delegati dell'«Assemblea costituente» (potenza dei nomi che ritornano) possono essere gli emuli di quei rappresentanti del Terzo Stato. Dalla loro riunione, dominata presumibilmente dalla delusione e dall'ira, può uscire di tutto. Se lo vogliono possono sfiduciare in blocco l'intera leadership del loro partito approfittando del suo stato comatoso, possono imporre la convocazione di un nuovo congresso, possono avviare la procedura per l'elezione di un nuovo segretario e più o meno chiaramente indicare chi deve essere.

Possono fare la rivoluzione, appunto, e in fin dei conti il loro attuale gruppo dirigente se la meriterebbe. Lasciamo perdere Veltroni, di cui si è detto già tutto; ma quando sulla Repubblica di ieri leggiamo Massimo D'Alema affermare con la più sfacciata disinvoltura che nel Pd «nessuno ha complottato» e che lui comunque di quel gruppo dirigente non fa parte «da un pezzo», allora viene davvero da pensare che i capi «democratici» si meritino dalla loro base il trattamento più duro. Ma un'assemblea del Pd che oggi cedesse al desiderio di rivalsa e di rivolta avrebbe l'unico risultato di avviare il Partito democratico verso un salto nel buio molto probabilmente mortale. A questo esito quasi sicuro condurrebbe, infatti, l'eventuale scelta a favore sia di un congresso in tempi brevissimi sia dell'elezione immediata di un nuovo segretario: due decisioni che cozzerebbero entrambe in modo potenzialmente disastroso con la necessità di preparare e affrontare le prossime elezioni amministrative ed europee e il loro pressoché sicuro esito negativo.

Alla democrazia italiana non serve un Pd sull'orlo dell'abisso e a rischio catastrofe. Serve un Pd vivo. Ma proprio per questo serve un Partito democratico diverso, assai diverso, da quello che è stato fino a ora. Serve un partito nel quale i vecchi oligarchi iscrittisi alla Dc e al Pci a diciotto anni si mettano finalmente da parte, in cui si liquidino una buona volta i vari passati che opprimono il presente, un partito in cui la base abbia davvero voce in capitolo e i dirigenti del quale, quando compaiono ogni sera alla televisione, non ricordino immediatamente, e simultaneamente, il secolo scorso, il salotto Angiolillo e «Fortunato al Pantheon».

A conti fatti, e benché possa apparire (e forse essere) paradossale, una reggenza di Dario Franceschini fino all'autunno si presenta in questo momento come la soluzione più ragionevole e meno traumatica. A condizione che tale reggenza, però, sia chiaro, non nasca assediata dai capicorrente di sempre, ma fin da subito si presenti con un segno reale di frattura: per esempio con tutti gli incarichi direttivi affidati a un manipolo di segretari regionali della nuova leva, i quali, sotto qualunque bandiera siano stati a loro tempo scelti, sono pur sempre espressione degli iscritti. Che in questo modo potranno forse cominciare a essere finalmente i padroni del loro partito.

21 febbraio 2009


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il divieto dai due volti
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2009, 10:25:31 am
SINISTRA ANTIPROIBIZIONISTA

Il divieto dai due volti


di Ernesto Galli della Loggia


Il popolo di sinistra, come si sa, ama la Costituzione della Repubblica, s'identifica con essa e si considera impegnato a difenderla contro tutti i suoi veri o supposti nemici. Ne sa qualcosa chi a suo tempo ne ritardò l'applicazione di alcune parti (come la Democrazia cristiana negli Anni 50 e 60), o chi, come Craxi, pensò alla possibilità di rivederne certe norme riguardanti l'organizzazione dei poteri. Ancor di più, infine, ne sa qualcosa Silvio Berlusconi che nella sua azione di governo si muove spesso nella disattenzione alle regole della Carta, desidera esplicitamente cambiarne non poche e, con ancora maggiore evidenza, nutre un totale disinteresse per quelli che si chiamano «i valori» della Costituzione, il suo «spirito». Valori e spirito che invece, come dicevo, stanno molto a cuore all'opinione di sinistra, specialmente su questo terreno acerrima nemica del presidente del Consiglio.

Alla quale opinione di sinistra, però, oggi come oggi sembrano stare a cuore — anzi: sempre più a cuore — anche altri orizzonti ideologici, altri principi, forse non proprio collimanti con quelli contenuti nella Costituzione. Una Costituzione che certo non può definirsi «sovietica », come l'ha definita il premier, ma che altrettanto sicuramente ha una forte impronta statalista. Nel senso se non altro che affida alla Repubblica (cioè alla legislazione, dunque al potere pubblico e all'amministrazione, cioè allo Stato: e a chi altri se no?) la «tutela», la «promozione », l'«aiuto» o la «protezione» (tutti termini rinvenibili nel suo testo) a riguardo di una lunga serie di ambiti: dalla cultura alla piccola e media impresa, dalla famiglia alla maternità e infanzia, dal lavoro alle bonifiche, al risparmio, alla cooperazione, alle pari opportunità. In pratica quasi tutta la vita sociale.

La domanda che inevitabilmente si pone è la seguente: come altro possono esprimersi tutte queste forme di interessamento positivo dello Stato previste, anzi prescritte dalla Costituzione, se non anche (ho detto «anche», non «solamente») attraverso dei divieti, delle proibizioni? Una sfera pubblica che intende tutelare, promuovere, proteggere, non può che essere una sfera pubblica che insieme sanziona tutti quei comportamenti che vanno nel senso contrario all'obiettivo prefisso. Se voglio tutelare la famiglia dovrò per forza cercare di impedire tutto ciò che a mio avviso le nuoce, se voglio proteggere il lavoro, il risparmio o le bonifiche dovrò per forza fare delle leggi che indichino che cosa in ognuno di questi ambiti è vietato. A spese perciò, inevitabilmente, della possibilità per chiunque di agire in tali ambiti come più gli aggrada. A spese, diciamo pure, della sua libertà. Insomma, la protezione sociale cara alla democrazia, e la libertà individuale stella polare del liberalismo, non sono fatte proprio per andare sempre e comunque d'accordo. Come del resto hanno sempre saputo tanto i democratici che i liberali veri.

Nell'Italia di oggi, invece, il popolo di sinistra sembra averlo dimenticato. Come in passato esso intende difendere fino in fondo la Costituzione, ne agita polemicamente i valori, e in particolare i valori sociali, contro il Cavaliere, ma rispetto al passato è intervenuto nelle sue file un mutamento significativo. A sinistra infatti sono sempre più coloro che allo stesso tempo rivendicano un tipo di libertà individuale dai contorni illimitati, pronta tendenzialmente a vedere in ogni limite e in ogni regola un'ingerenza illegittima dello Stato.

Dal campo della morale e dei comportamenti sessuali questo atteggiamento si è esteso via via a quello dei modi e modelli della genitorialità, della famiglia, della procreazione, della fine della vita, in un crescendo di ostilità contro la dimensione stessa della proibizione.

Non a caso, con la prontezza giornalistica e la capacità di dare voce al senso comune di sinistra (e di crearlo) che sono stati sempre una sua caratteristica, L'Espresso ha captato questo orientamento diffuso, e nel numero in edicola dedica un ampio servizio — naturalmente per deprecarlo — a quello che viene battezzato «il neoproibizionismo ». «Siamo alla società del divieto», «ci trattano come bambini », si lamenta Umberto Galimberti, e osserva filosoficamente che «limitare la libertà negli spazi pubblici significa limitare gli spazi di fiducia reciproca». Perché mai, insomma, si chiede il giornale, deve essere proibito mangiare cornetti di notte a Roma, abbattere cinghiali, gettare indumenti in piscina (sic!), rubare o distruggere cartelli, fumare nei parchi pubblici, raccogliere prostitute dalla strada? E poche righe sotto ecco spuntare le parole fatidiche degne di un pamphlet manchesteriano: abbiamo ormai a che fare con lo «Stato Onnipotente » (maiuscole originali).

Onnipotente? Forse; ma forse, più semplicemente, con uno Stato che, come prescrive la nostra Carta costituzionale e la nostra cultura politica maggioritaria, vuole proteggere il salutare sonno dei cittadini e il patrimonio storico-artistico delle vie e delle piazze della Capitale, vuole impedire di rovinarci con le sigarette, vuole tutelare la fauna, vuole proteggere la famiglia. E non può farlo che nel solo modo possibile: ricorrendo anche al proibizionismo. Di sicuro qualche sindaco si è fatto prendere un po' troppo la mano, non c'è dubbio, ma è ancora più sicuro che inalberare il cartello «vietato vietare» non sembra proprio il modo più coerente di difendere la Costituzione e la democrazia.


09 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA BENEDETTO XVI E LA LETTERA AI VESCOVI
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2009, 09:55:03 am
BENEDETTO XVI E LA LETTERA AI VESCOVI

Sfidato dalla storia


di Ernesto Galli Della Loggia


Per il suo carattere eccezionale e per le parole che contiene la lettera di Benedetto XVI ai vescovi cattolici dice molto di più delle personali ambasce di un Papa il quale, a proposito del caso Williamson, si è visto attaccato e insidiato anche dai suoi, e che vede, in generale, come anche nella Chiesa — nella stessa Curia, ha fatto capire il direttore dell'Osservatore
romano — «ci si morde e ci si divora».

La lettera e il suo contenuto tradiscono sentimenti di sconcerto e di disappunto che lasciano intravedere qualcosa di ben più importante, in realtà: e cioè una complessiva difficoltà di direzione che oggi grava sugli stessi vertici della Chiesa.

Da molti sintomi sembra, in effetti, che stiano venendo al pettine alcune contraddizioni accumulatesi nell'ultimo mezzo secolo intorno al ruolo del papato via via che questo ha conosciuto una profonda trasformazione storica. Tale trasformazione ha avuto due aspetti principali con i quali la figura del Pontefice ha dovuto fare i conti: l'avvento della televisione e il Concilio. L'avvento della televisione ha voluto dire la virtuale trasformazione del Papa da capo della Chiesa di Roma in una figura della scena mondiale quotidianamente alle prese con l'opinione pubblica planetaria, per lo più non cattolica e neppure cristiana. Alle prese cioè con i media, che di tale opinione sono i servi-padroni. Giovanni XXIII, eletto alla fine degli Anni 50, cioè in coincidenza con la piena diffusione planetaria della Tv, è stato il primo Pontefice che ha potuto godere dell'indubbia opportunità offerta da questo cambiamento: diventare di fatto un leader etico-carismatico universale, in certo senso meta-religioso (il papa «buono», quasi che i predecessori fossero «cattivi»: ma in certo senso così essi venivano fatti indirettamente apparire dalla potenza dei media, e di fatto così divenivano).

Ma naturalmente questa intrinsichezza con l'opinione pubblica mondiale e con i media rappresenta per il Pontefice un vincolo non da poco. Specialmente perché è un vincolo che non ha sostanzialmente alcuna natura religiosa (neppure spirituale, forse), e però esso influenza non poco la popolarità del Papa nello stesso mondo cattolico, alle cui divergenze interne i media mondiali, tra l'altro, non mancano mai di offrirsi puntualmente come sponda interessata, quasi sempre, tra l'altro, definendo e enfatizzando quelle divergenze nel modo ideologicamente più banale. Il Papa rischia così di divenire prigioniero da un lato dell'obbligo del carisma, dell'obbligo di «venire bene» in tv, di avere una congrua propensione scenica, di essere «simpatico », dall'altro dell'obbligo del politicamente corretto da cui il conformismo mediatico fa dipendere di solito il proprio consenso. Insomma una specie di Dalai Lama con i paramenti pontificali.

La seconda trasformazione gravida di tensioni l'ha arrecata, al ruolo istituzionale del papato, il Vaticano II. In pratica, infatti, il Concilio ha voluto dire la nascita dei partiti all'interno della Chiesa. Intendiamoci, nella Curia ci sono sempre stati dei «partiti»: ma nella Curia, appunto, ai vertici dell'organizzazione e con tutta la felpata cautela del caso, non tra i fedeli, non nell'universo cattolico in generale.

Con il Vaticano II, e intorno ad esso, intorno ai suoi dettami e al suo «spirito », invece, questo universo cattolico si è diviso in due grandi tronconi: i cauti e i radicali. I quali da quarant'anni si combattono apertamente e incessantemente, ognuno avendo i propri capi e rappresentanti più o meno autentici e più o meno interessati dentro la Curia. I cui «partiti» in questo modo, però, potendo contare su un effettivo retroterra diciamo così di «seguaci», sono diventati ben più battaglieri, e quindi ben più riottosi e insidiosi, che nel passato.

Fino al punto, a quel che si capisce, di opporsi apertamente o di boicottare dietro le quinte la stessa autorità del Papa quando questi appartiene per caso al partito avverso. E' a questo punto che si configura in pieno la contraddittoria situazione che la storia ha creato. Il Pontefice in realtà ha oggi una sola arma per superare l'ostilità del partito cattolico che gli si oppone, per affermare nel suo stesso regno la propria indiscutibile autorità di sovrano assoluto: l'arma dell'appeal carismatico-mediatico, del consenso metareligioso della platea mondiale, del gesto e della parola che bucano lo schermo della Cnn, che arrivano sulla prima pagina del New York Times. Ma per farlo egli rischia di perdere un tratto essenziale del retaggio che si accompagna storicamente al suo ruolo: l'indipendenza spirituale. Quell'indipendenza che non garantisce certo dagli errori, anche dai più riprovevoli, per carità, ma che almeno serve a tenere sempre aperta la possibilità di dare voce a qualcosa di diverso dai comandi del secolo. Una cosa sembra certa: nella ricerca di una difficile via che possa conservare la libertà della Monarchia assoluta tra i partiti da un lato e l'opinione pubblica mediatico-mondiale dall'altro, tra queste due tipiche creature della modernità, Benedetto XVI appare dolorosamente, irrevocabilmente solo.

14 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Le ombre del passato
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2009, 10:51:43 am
L’ITALIA DI BERLUSCONI

Le ombre del passato


di Ernesto Galli Della Loggia


Anche un ascolto o una lettura superficiali del discorso di Silvio Berlusconi al Congresso di fondazione del Popolo della libertà consentono di coglierne immediatamente il cuore ideologico: è l'anticomunismo. Tutto il resto appare solo accennato, sbrigato in poche parole e comunque affatto generico. All'anticomunismo, invece, è stata riservata la parte centrale, e anche retoricamente ed emotivamente quella più insistita, di un discorso tutto tenuto—come è forse giusto per un'occasione fondativa, e in obbedienza d'altronde a una tradizione molto italiana — su un registro sostanzialmente storico, rivolto al passato. Le parole di Berlusconi collocano il Pdl in questa prospettiva: e dunque politicamente esso nasce contro la sinistra, lì è la sua principale ragion d'essere. E la sinistra è il «comunismo », tra i due termini egli stabilisce di fatto una sostanziale equivalenza. La tradizione socialista- riformista, men che meno quella laico-democratica, non esistono; così come non esiste alcun rapporto tra esse e l'esperienza politica dei cattolici (se ho letto bene neppure citata): Craxi, non a caso, è solo un amico personale del presidente del Consiglio che in pratica ha il solo merito di averlo anticipato nello sdoganamento della destra.

Affermando questa centralità dell'anticomunismo, Berlusconi compie la stessa operazione che la prima Repubblica compì con l'antifascismo. Di fronte allo scarso rilievo fondante della Carta costituzionale, al suo ancora più scarso valore ideal-simbolico (una costante storica delle nostre Carte: dallo Statuto albertino alla Carta del lavoro fascista), al vuoto che essa così lascia, egli usa l'anticomunismo allo stesso modo in cui la prima Repubblica e i suoi gruppi dirigenti usarono per quarant'anni l'antifascismo: come reale ideologia fondativa dell'ordine politico e motivo di autoidentificazione legittimante. E perciò, insieme, come motivo di esclusione nei confronti di tutto quanto non può essere ricondotto a essa. Non solo: ma come la prima Repubblica e suoi uomini si sono sempre compiaciuti di riferirsi alla Costituzione qualificandola sì come democratica, ma ancora più spesso attribuendole la qualifica politico- ideologica di «antifascista », allo stesso modo, ma rovesciando l'interpretazione, Berlusconi non nasconde di considerare anche la Costituzione «comunista». «A ideologia, ideologia e mezza» sembra essere ancora oggi il suo motto: anche perché non ignora che il cuore del Paese, alla fin fine, batte molto di più dalla parte dell'anticomunismo che dell'antifascismo.

Ma tutto ciò pone Berlusconi in contraddizione con quello che pure —l'ha detto lui stesso ed è da credergli—costituirebbe un suo effettivo desiderio: essere l'uomo della pacificazione nazionale; soprattutto, rappresentare un vero elemento di novità e di rottura rispetto alla vicenda italiana. Infatti l'antagonismo, la contrapposizione frontale, insiti nel proclama anticomunista mal si conciliano, anzi, diciamolo pure, rendono impossibile ogni proposta di pacificazione. All'opposto, perpetuando antichi baratri divisivi, inasprendo antichi scontri, esse collocano irrimediabilmente il presidente del Consiglio e il Popolo della Libertà nel solco del vecchio, nella storia dell'Italia del Novecento, della sua guerra civile apertasi nel 1915 e che avrebbe dovuto finire (ma ahimè non è finita) nel 1991. Dunque, pur cercando di imprimere sulla fondazione del Popolo della Libertà il significato di un nuovo inizio, pur cercando di indicare questo nuovo inizio nel consolidamento definitivo del bipolarismo e nel declino epocale della sinistra, il discorso di Berlusconi testimonia di come nella sostanza più profonda il suo tentativo urti frontalmente contro la base ideologica vera che egli ha voluto dare alla fondazione suddetta, l'anticomunismo. E di come contro questo scoglio minacci di naufragare.

Il punto è che il presidente del Consiglio appare tutto immerso, biograficamente e culturalmente, nella prima Repubblica. Lì stanno con ogni evidenza i suoi riferimenti ideali, a cominciare dall'antifascismo e dall'anticomunismo. Ma come possono essere l'uno e l'altro compatibili con la rottura, con il nuovo?

Lo ha capito Gianfranco Fini, che nel suo discorso al Congresso non ha fatto spazio neppure una volta, se non sbaglio, alla parola comunismo, mentre non casualmente si è impegnato a disegnare le linee programmatiche che il Pdl dovrebbe fare sue da domani; che, invece di intrattenersi sul passato, ha preferito guardare all'avvenire.

29 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’identità incerta della sinistra d’oggi
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2009, 12:42:52 pm
L’identità incerta della sinistra d’oggi

Quell'Italia ancora schiava del passato

Un saggio di Schiavone sull'interminabile transizione rivela un'incapacità culturale e politica di autocritica


di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Perché tanto il Pdl che il Pd appaiono organismi tuttora fragili e dall’incerto destino? Perché la transizione italiana ancora non accenna a finire? Perché non siamo ancora riusciti a dar vita a culture e forze politiche che appaiano realmente nuove e vitali? Vorrei provare a dare una risposta diversa da quelle che si danno di solito, una risposta che guarda al passato. La mia ipotesi è che non riusciamo a fondare nulla di nuovo perché non riusciamo a superare il passato. E non riusciamo a superarlo, vi siamo incon­sapevolmente inchiodati, perché non siamo d’accordo su come sono andate le cose. La se­conda Repubblica non può nascere perché an­cora siamo divisi sia su che cosa è stata e per­ché è finita la prima, sia su che cosa è l’Italia che essa ci ha lasciato.

Questo disaccordo di fondo l’ho sentito in tutta la sua forza leggendo l’ultimo libro di Al­do Schiavone. Il libro cioè di uno storico di va­glia che come pochi contribuisce da anni in modo originale al discorso pubblico del Paese, e che con questa sua ultima fatica - L’Italia contesa (Laterza editore) - procede ad una ri­cognizione del presente italiano e dei suoi tra­scorsi. Ma lo fa - e questo è il punto decisivo -sforzandosi di essere comunque fedele ad un’appartenenza, intenzionato a non troncar­ne il filo che corre attraverso gli anni. E dun­que non riuscendo a vedere le cose da una di­stanza sufficiente a pensarle con la necessaria dose di spregiudicata esattezza.

È, questa, una condizione che oggi riguarda in particolare tanti italiani che sono stati comu­nisti durante la prima Repubblica. Che lo sono stati molto spesso in modo intelligente e per nulla dogmatico — com’è appunto il caso di Schiavone, estromesso a suo tempo dalla dire­zione dell’Istituto Gramsci; che si sono allonta­nati del tutto da quel panorama ideologico, ma che, soprattutto a causa dell’avvento di una destra come quella incarnata da Berlusconi, si sentono nonostante tutto obbligati a dirsi, e a pensarsi, ancora «di sinistra». Quasi per forza d’inerzia, ma comunque abbastanza da essere spinti a figurarsi la realtà italiana presente e passata in modo da non disturbare troppo il loro precario accomodamento di oggi, anziché per ciò che essa è stata ed è realmente. Si tratta di un fenomeno importante ai fini del supera­mento del passato dal momento che finché le energie intellettuali e morali rappresentate da questa sinistra che fu, da questa sorta di pen­siero prigioniero di se stesso, non si sblocche­ranno, non avranno il coraggio di liberarsi per intero dei vincoli della loro vecchia apparte­nenza, fino ad allora la chiusura dei conti con il passato italiano non si potrà fare, il discorso politico non potrà ripartire, e dunque restere­mo quello che siamo: un Paese fermo.

Il libro di Schiavone consente di vedere in modo nettissimo i due principali travisamenti storici (tali secondo chi scrive, beninteso) su cui è rimasto incagliato il punto di vista della sinistra che fu e che oggi mi pare piuttosto una «sinistra suo malgrado». Travisamenti che hanno una duplice funzione: da un lato quella di sollevare la sinistra (o per meglio dire il Partito comunista) dalla piena responsabilità della patologia politico-sociale che finì per di­struggere la prima Repubblica; dall’altro servo­no a dipingere un panorama dell’Italia attuale tutto sommato ottimistico perché diviso sì tra «buoni» e «cattivi», ma con questi ultimi e il loro capo, Silvio Berlusconi, che sarebbero or­mai vicini alla fine del loro predominio.

Innanzitutto il ruolo del Pci, dunque. Schia­vone non vede, a mio giudizio, fino a che pun­to il «congelamento politico» del Paese dal ’48 in poi, la sua «sovranità limitata», la mancanza di alternanza, la memoria antifascista come unica matrice possibile dell’identità democrati­ca, fino a che punto ognuno di questi caratteri negativi, che egli per primo richiama con for­za, sia da ricondurre direttamente e per intero a null’altro che alla presenza nel sistema politi­co italiano del Partito comunista. A proposito del quale egli non esita ad adoperare ancora l’indulgente categoria del «ritardo», categoria tipica dell’armamentario concettuale del dibat­tito comunista dell’epoca. Ma altro che di «ri­tardo » si è trattato! Ormai dovrebbe essere evi­dente che fu la stessa natura più intima, il ca­rattere e la storia profonda di quell’organismo politico, che ne fecero un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico del Paese: non qualche casuale arresto, qualche fortuito in­ciampo (e che poi anche in quel partito ci fos­se qualcosa o magari parecchio di buono, è ov­vio: nella storia la negatività assoluta è rarissi­ma).

Fu la presenza del Pci, e dunque l’assenza di un’opposizione costituzionale e il clima di divisività ideologica che ne derivarono, l’ele­mento decisivo che fece dell’Italia una demo­crazia diversa (nel male) da tutte le altre del­l’Occidente. Quando avvenne il crollo della coa­lizione di governo nel 1992-93 in seguito alle inchieste di «Mani pulite» fu per l’appunto questa anomalia assoluta del nostro sistema politico che impedì l’altrimenti ovvio passag­gio di mano all’opposizione, determinando in­vece il collasso di tutto il sistema e il suo pas­saggio alla fragile novità in cui viviamo. Come si fa ancora oggi a non porre tale questione al centro dell’analisi? L’altro punto di disaccordo riguarda l’Italia post-Mani pulite, che Schiavone considera con­quistata all’egemonia populista di Berlusconi, egemonia che ora però sarebbe ormai giunta al capolinea grazie alla crisi economica mon­diale. Colpisce come solo a questo esaurimento, per così dire nei fatti, siano affidate in sostanza le possibilità di riscossa della sinistra, circa la cui futura azione politica e le relative risorse necessarie il libro non riesce a darci però la minima indicazione concreta.

La realtà è che in queste pagine il berlusconi­smo appare molto spesso un alibi per non ve­dere che cosa è oggi (ma non da oggi) la socie­tà italiana. La quale, forse, più che farsi «berlu­sconizzare » dalle magiche arti del premier, è stata lei, io credo, a scegliere Berlusconi per es­sere ciò che voleva essere. Ciò che voleva conti­nuare ad essere dopo la grande trasformazio­ne antropologico-culturale degli anni Settanta e Ottanta. Ma ancora una volta, per evitare che la sinistra possa incorrere in una ulteriore, sgradevole, chiamata in correità e perdere così anche la sua presunta natura alternativa alla de­stra, Schiavone non vuol vedere - e infatti non cita neppure una volta - la parte attiva anche da essa avuta (o meglio avuta dai suoi immediati antenati, il Pci e la Dc dei «cattolici democratici») nel produrre la non entusia­smante realtà sociale italiana di oggi.

Così co­me neppure un cenno viene fatto agli effetti deleteri che pure sul popolo di sinistra hanno avuto, dagli anni Settanta in poi, mutandone radicalmente il profilo morale e culturale, le politiche di conquista del consenso sia a livel­lo locale che nazionale, la sindacalizzazione dell’impiego pubblico, la degenerazione della giustizia, il permissivismo scolastico, l’evasio­ne fiscale assolutamente generalizzata, la lottiz­zazione e l’antimeritocrazia dappertutto, il mo­ralismo dipietrista, la divulgazione di tutte le più idiote mitologie modernistico-massmedia­tiche, le «notti bianche», i premi Grinzane-Ca­vour, i «vaffa day» e così via, così via. Ma in questo modo svanisce di fatto l’Italia vera e pro­fonda. Un’Italia che oggi può essere definita «contesa» solo guardandone la superficie, dal momento che in essa, in realtà, destra e sini­stra appaiono avvinte (non da oggi!) l’una all’al­tra: un grigio Paese che una spenta politica, sia di destra che di sinistra, non ha la minima idea di come fare uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato.

15 aprile 2009
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Sicurezza nelle città
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 04:36:13 pm
Sicurezza nelle città


di Ernesto Galli Della Loggia


Negli ulti­mi mesi stiamo as­sistendo a un crescendo di episodi di criminalità organizzata spesso per mano di extra­comunitari o di rumeni, e non conoscono sosta le tragiche avventure dei battelli che trasportano poveri cristi sulle spiagge di Pantelleria»: così si leg­geva venerdì sul Riformi­sta per la penna dell’ex di­rettore dell’Unità, Peppi­no Caldarola. Tralascian­do il riferimento agli im­migrati clandestini, che costituiscono evidente­mente un capitolo a par­te, non c’è dubbio che la questione sicurezza è or­mai da tempo una que­stione centrale della so­cietà italiana. Lo confer­mano gli ultimi efferati episodi di cronaca nera — da Napoli a Roma, a Torino, a Vicenza — e l’opinione di un esperto riconosciuto come il so­ciologo Marzio Barbagli che, intervistato sempre venerdì dalla Repubblica ha sottolineato soprattut­to «l’inarrestabile cresci­ta » del numero delle rapi­ne (di quelle in banca l’Ita­lia detiene il record euro­peo), solo metà delle qua­li denunciate, ma che in realtà arriverebbero a cir­ca 100 mila l’anno; e che per circa la metà avvengo­no sulla pubblica via sfo­ciando con una certa fre­quenza in altrettanti omi­cidi. È vero che il numero di questi, cioè degli omici­di in quanto tali, diminui­sce da anni, ma dal punto di vista del cittadino non è certo molto consolante sapere di avere assai più probabilità di venire «so­lamente » aggredito, rapi­nato e magari picchiato selvaggiamente pur riu­scendo alla fine a salvare la pelle, piuttosto che di essere mandato diretta­mente al creatore.

Comunque i dati ora detti sono solo la punta drammatica di un feno­meno di insicurezza assai più vasto che specialmen­te nelle aree urbane, e in particolarissimo modo nelle periferie, deriva ai cittadini soprattutto dalla sensazione di essere la­sciati soli in balia di illega­lità certamente di minore portata, ma non perciò fonte minore di disagi, pa­ure ed esasperazioni spes­so incontrollabili. Lascia­ti soli a cavarsela con an­goli delle strade trasfor­mati in pubblici orinatoi, marciapiedi occupati dal traffico del sesso o ridotti a stretti viottoli per la pre­senza perlopiù abusiva di tavolini di bar e ristoran­ti, con schiamazzanti mo­vide notturne, con pub e discoteche sotto le fine­stre, con piazze adibite a luogo di ritrovo per scia­mi di adolescenti motori­nizzati sgassanti ad ogni ora, con grandi arterie tra­sformate specie di notte in piste omicide per auto­mobilisti folli e spesso ubriachi o drogati e con non so quante altre piace­volezze.

Di fronte a tutto ciò ap­pare evidente la scarsa ef­ficienza dei corpi di poli­zia urbana. Cambiarne il nome in quello un po’ pomposo di «polizia loca­le » non sembra essere servito a molto. Infatti, se Pubblica sicurezza e cara­binieri fanno — general­mente molto bene — quello che devono, è so­prattutto alla polizia urba­na che risale la responsa­bilità per il mancato con­trollo capillare e conti­nuo del territorio, per la mancata opera quotidia­na di prevenzione e di sanzione, unici rimedi idonei nei confronti dei fenomeni di minuta ille­galità cui sopra. Il difetto è nel manico, in chi ha la responsabilità politica della polizia urba­na.

La verità, infatti, è che da parte dei sindaci, sia di destra che di sinistra, non c’è stato finora alcun desiderio reale di impegnarsi davvero sul terreno di questo ordine pubblico. Anche i propositi «rondisti» e le iniziative della Lega, per esempio dei vari Tosi a Verona o Gentilini a Treviso, in ge­nere non sono mai andati (e bisogna dire in questo caso per fortuna) oltre l’esibizione della faccia feroce nei con­fronti di vu’ cumprà e lavavetri. L’esempio del mitico sinda­co di New York Giuliani e del suo popolarissimo program­ma di «tolleranza zero» da noi, insomma, non ha fatto cer­to scuola.

Tutto ciò si spiega, credo, con due motivi. Il primo è la scarsa volontà/capacità da parte dei sindaci di far valere la propria autorità nei confronti in generale delle amministra­zioni di cui sono a capo, ma in modo particolare nei con­fronti della polizia locale o vigili urbani che siano. Questi rappresentano quasi sempre potenti corporazioni, adagiate­si da anni in consuetudini e pratiche di lavoro gestite di fatto da esse stesse, con numerose nicchie di privilegio, di fannullaggine e di scarsa trasparenza, che nessun sindaco osa toccare. Meglio lasciare tutto in mano a un «comandan­te », facile semmai da licenziare per offrirlo in sacrificio al­l’opinione pubblica se scoppia qualche grana. Il secondo motivo sta nel fatto che la repressione del genere di reati «minori» che affliggono la vita quotidiana degli abitanti delle città, soprattutto delle grandi città, comporta un’azio­ne repressiva che andrebbe inevitabilmente a colpire o co­munque a disturbare in vario modo due categorie assoluta­mente minoritarie sul piano numerico ma, sia pure per mo­tivi diversi, entrambe in pratica intoccabili.

Da un lato alcuni titolari di bar, ristoranti, pub, discote­che che (tra la larga maggioranza di commercianti corretti e spesso bersaglio degli episodi di criminalità) rappresenta­no lobby potenti nei confronti di qualunque amministrato­re; e dall’altro lato quella dei «giovani», protetti dal tabù che circonda ogni loro moda, svago, o comportamento col­lettivo, anche quelli più stupidi o riprovevoli.

19 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'assurdo limite ai bravi sindaci
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2009, 05:16:21 pm
IL DIVIETO DI UN TERZO MANDATO

L'assurdo limite ai bravi sindaci


di Ernesto Galli Della Loggia


Il carattere nazionale delle elezioni europee sta oscurando la consultazione amministrativa, frantumata sì in circa quattromila consultazioni locali ma, dal punto di vista del potere, senz’altro più importante dell’altra. Si eleggeranno dunque un gran numero di sindaci: il che vuol dire che ancora una volta si manifesterà in tutta la sua portata un aspetto quanto mai pernicioso dell’attuale legge elettorale, e cioè l’ineleggibilità dei sindaci con più di due mandati alle spalle. È questa una norma che ci portiamo appresso dalla stagione di «Mani pulite», dall’ondata di antipolitica e di cieca avversione al cosiddetto professionismo politico che allora sommerse il Paese.

Eppure non dovrebbe essere troppo difficile capire che nel professionismo politico in quanto tale non c’è nulla di male: il male sta semmai nel cattivo professionismo. Il Senato degli Stati Uniti, tanto per fare un esempio, è pieno di membri eletti ininterrottamente da trenta, quarant’anni; eppure esso è certamente l’assemblea più autorevole e prestigiosa del mondo. Noi italiani, invece, abbiamo deciso che, anche se siamo riusciti a trovare un bravo sindaco per la nostra città, onesto ed efficiente, dopo due mandati dobbiamo per forza licenziarlo.

Si può immaginare qualcosa di più stupido che rinunciare all’operato di chi si è rivelato capace di servire ottimamente la collettività, solo per rendere omaggio ad un principio per giunta sbagliato? Se proprio si vuole impedire una troppo facile permanenza al potere da parte di chi già lo occupa da tempo, perché non ricorrere ad altri mezzi, come ad esempio stabilire che per essere eletti dopo due mandati è richiesta la maggioranza assoluta dei votanti al primo turno o che al ballottaggio si superi il 60-65 per cento dei voti?

Che la regola dell’ineleggibilità sia sbagliata, è dimostrato dal fatto che nessuno ha mai pensato di applicarla dove, se quella norma fosse sensata e fondata, dovrebbe, allora, essere applicata per primo, e cioè alla carica di parlamentare (ciò che, tra parentesi, in nessuna parte del mondo, che io sappia, ci si è mai sognati di fare). Perché mai, infatti, il cosiddetto professionismo politico, se è quel male che si dice, è da combattere nelle amministrazioni locali ma non nel cuore della politica medesima, cioè nel parlamento?

C’è di più. In realtà, la regola dell’ineleggibilità è controproducente: lungi dal combattere il male che dice di voler estirpare essa semmai lo favorisce, rinfocolando proprio il carrierismo politico. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, l’uomo pubblico che arriva al suo secondo mandato come sindaco, e sa che non potrà essere rieletto, piuttosto che ritirarsi tranquillamente nell’ombra cercherà di assicurarsi in tutti i modi qualche nuovo e diverso incarico, utilizzerà la sua carica ormai in scadenza per procurarsi le amicizie opportune, per ingraziarsi i poteri e gli uomini che gli servono, piegando a questo scopo l’operato dell’ultimo periodo della sua amministrazione: con quale giovamento per i suoi amministrati è facile immaginare. Può non piacere ma gli esseri umani, quelli reali, sono fatti così: solo noi italiani, chissà perché, preferiamo invece far finta qualche volta che essi possano essere angeli.

04 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Antitaliani con strane alleanze
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2009, 10:30:57 am
Antitaliani con strane alleanze

I separati dell’Alto Adige


Dapprima il vicesindaco di Bolzano della Südtiroler Volkspartei Oswald Ellecosta, che dice che il 25 aprile lui non può festeggiarlo perché i sudtirolesi sono stati liberati non nel 1945 ma nel settembre 1943 dalla Wehrmacht. Poi la maggioranza di lingua tedesca nel consiglio provinciale, sempre di Bolzano, che approva (con il voto anche di un rappresentante del Pd!) una mozione presentata dal raggruppamento di estrema destra Südtiroler Freiheit, il partito di Eva Klotz affermatosi alle ultime elezioni, con la quale si auspica un provvedimento di clemenza per i terroristi sudtirolesi da decenni riparati all’estero per non scontare le condanne ricevute in Italia, e definiti nel documento «combattenti della libertà». Da ultimo, la notizia che da più parti si vorrebbe che gli atleti sudtirolesi iscritti nelle gare internazionali non gareggiassero più sotto il tricolore italiano, come è avvenuto finora, bensì sotto l’insegna biancorossa della Provincia di Bolzano. Dunque, come intitolava ieri il Corriere, è ripartita in Alto Adige «la campagna contro gli italiani». Il che sottolinea ancora una volta come la politica accomodante ed economicamente generosissima di Roma nei confronti di Bolzano, perseguita da decenni, non sia valsa per nulla ad assorbire l’irredentismo irriducibile della destra sciovinistica tedesca. Questa appare anzi in crescita, e ha riportato di recente un significativo successo elettorale. È una destra la cui presenza pone ormai in maniera ineludibile il problema della coerenza e della capacità politica della maggioranza moderata della Svp, della sua tenuta.

L’attuale capo del partito di raccolta tedesco, Luis Durnwalder, ha dichiarato al nostro Marco Imarisio di sentire «sul collo il fiato» degli avversari, aggiungendo rivolto agli italiani: «Siete voi che dovete aiutarci. L’Italia dia un segno non ostile, rimuovendo i simboli fascisti da Bolzano». Sono affermazioni stupefacenti. Si guardi intorno Durnwalder: vedrà i mille segni di una minoranza etnica che è certamente la più tutelata e più ricca d’Europa e probabilmente del mondo. Mille segni, nei quali forse l’Italia c’entra per qualcosa, e che non indicano davvero alcuna ostilità. Dunque il nostro Paese la sua parte l’ha fatta. Quanto ai simboli «fascisti» a Bolzano e altrove, essi furono sì innalzati dal regime mussoliniano, ma in sostanza sono simboli della vittoria italiana nella prima Guerra mondiale: e così come nessun austriaco o francese si sente offeso, per esempio, dalla statua collocata a Berlino sulla Colonna della vittoria, a ricordo dei successi tedeschi su Austria e Francia nel 1866 e nel 1870, così oggi solo un nazionalista fanatico può adontarsi per l’esistenza di quei monumenti che ricordano fatti di circa un secolo fa. La verità è che i moderati della Svp e Durnwalder non hanno il coraggio, che invece ebbe a suo tempo Magnago, di impegnare una battaglia politica a fondo contro la destra. La quale per la sua propaganda si fa forte proprio di ciò che essi sono diventati da tempo: un’oligarchia politica soddisfatta, abituata a vivere di rendita, con tutti i limiti e i vizi di un potere senza ricambio. Un’oligarchia che quando si sente minacciata sa solo chiedere aiuto agli altri invece di cercare di correre ai ripari da sola.

Ernesto Galli Della Loggia
08 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'integrazione non si fa così
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 10:25:00 am
SCUOLA, DA PISACANE A MAKIGUCHI

L'integrazione non si fa così


Spesso sono i picco­li episodi che rive­lano i grandi fatti. Che cosa sia diven­tata ad esempio, per tan­ta parte, la scuola italia­na, quale sia il senso co­mune che vi regna, quale sia anzi il senso comune che probabilmente ha già messo abbondanti radici in tutto il Paese, ce lo di­ce quanto è appena acca­duto a Roma, alla scuola materna ed elementare Carlo Pisacane. La cui pre­side, con l’accordo unani­me del consiglio d’istitu­to, ha deciso che il nome di Pisacane non è proprio il più adatto per una scuo­la che accoglie tanti alun­ni non italiani, apparte­nenti, come c’informano i giornali, a ben 24 etnie diverse, con prevalenza di bengalesi, romeni e ci­nesi.

Pisacane: avete presen­te? Un mazziniano, con la testa piena di idee confu­se sulla patria e sul sociali­smo, che si era fissato di fare una rivoluzione con i contadini del Mezzogior­no e che fu capace, inve­ce, solo di andare incon­tro alla propria rovina la­sciandoci la vita. Un italia­no poi, figuriamoci!, a chi volete che interessi? Chi volete che lo conosca que­sto Pisacane? Molto me­glio intitolare la scuola, hanno pensato i docenti romani, a un personaggio di ben altro calibro e noto­rietà, per esempio a Tsu­nesaburo Makiguchi. Ma certo, Makiguchi! Sappia­mo tutti chi è: pensatore e pedagogista celeberri­mo, teorizzatore della or­mai diffusissima (anche troppo!) «educazione cre­ativa ». E che poi sia giap­ponese non può che fare sicuramente piacere ai tanti alunni asiatici, in specie a quelli cinesi che, come si sa, conservano del Paese del Sol Levante un così simpatico ricor­do.

In realtà c’è poco da iro­nizzare su questa Italia di oggi, di cui i poveri inse­gnanti della ex Pisacane, alla fine, appaiono più che altro delle vittime. Vit­time di un Paese che ha una venerazione idolatri­ca verso tutto ciò che sa di «territorio» e di «deci­sione dal basso» e per­mette che denominazioni così simbolicamente cru­ciali (la cui importanza ci ricorda un aureo libretto di Alberto ed Elisa Benzo­ni in uscita proprio in questi giorni da Bietti, Le vie d’Italia) come i nomi delle cose che sono di tut­ti, adoperate da tutti, qua­li sono per l’appunto i no­mi delle scuole, siano a di­sposizione del primo con­siglio d’istituto che vuole cambiarli.

Un Paese così ipnotizza­to dalle mitologie interna­zional- mondialiste, e in­sieme così abituato a ve­dersi secondo l’immagi­ne negativa che gli fabbri­cano ogni giorno i suoi tanti moralisti di profes­sione, da credere che or­mai la propria storia, la propria identità, non vo­gliano dire più nulla per nessuno, non abbiano più alcun valore. E dun­que un Paese che di fron­te all’immigrazione si tro­va nell’incapacità di fare la sola cosa utile che c’è da fare. Cioè cercare d’in­tegrare, far diventare ita­liani gli stranieri legal­mente in Italia, conceden­dogli dunque con larghez­za la cittadinanza (con lar­ghezza! Lo si capisca una buona volta) e facendoli partecipi della nostra lin­gua, della nostra storia, della nostra cultura: prin­cipalmente nella scuola, che di tutto ciò deve, o meglio dovrebbe, essere il simbolo operante. Invece preferiamo striz­zare l’occhio alle mode e farci belli gingillandoci con un multiculturalismo suicida che ha il solo effet­to di ghettizzare gli stra­nieri e di alzare una bar­riera tra noi e loro.

Erneso Galli Della Loggia

20 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Europa, la fine di un ciclo
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2009, 05:34:25 pm
ELITES E OPINIONE PUBBLICA

Europa, la fine di un ciclo


Negli ultimi anni le classi dirigenti europee hanno usato e abusato di due termini-chiave per giustificare le loro sempre più evidenti difficoltà nella raccolta del consenso: «euroscetticismo» e «populismo». Il significato dei due termini, adoperati spesso insieme, è incerto. Ciò che invece si capisce subito è a che cosa serve il loro uso così insistito: ad assolvere preliminarmente le suddette classi dirigenti da ogni colpa o difetto, nonché ad esimerle da ogni esame spregiudicato della realtà. Dire «euroscetticismo» e «populismo » è come dire il maltempo o una malattia. Ci sono e basta: l’unica cosa certa è che noi non ne abbiamo colpa. Anche per spiegare (si fa per dire) i risultati delle ultime elezioni europee, in specie la rovinosa sconfitta della socialdemocrazia, si invocano adesso di nuovo i malefici effetti dell’ «euroscetticismo» e del «populismo». E’ giunta dunque l’ora di cercare di capire cosa si nasconda davvero dietro queste due parole. In realtà esse alludono, sia pure inconsapevolmente e travisandone grossolanamente il senso, a una drammatica cesura in atto nello scenario storico europeo. Sotto i nostri occhi finisce oggi, infatti, l’epoca apertasi nel 1945. Sono scomparsi o sono in crisi i meccanismi di legittimazione con cui i gruppi dirigenti socialisti e cristiani si affacciarono sulla scena del dopoguerra e costruirono la loro egemonia.

Poniamo mente a qualche dato di fatto: da un lato è cessata la possibilità di lucrare sulla guerra fredda; dall’altro il carattere ormai problematico del rapporto con gli Stati Uniti, insieme al ritorno in gioco delle nazioni della parte orientale del continente, aprono un drammatico interrogativo epocale sul significato e sul futuro geopolitico dell’Europa; dal canto suo il Welfare State è ormai improponibile perlomeno nelle forme sin qui sperimentate, mentre dappertutto le economie europee sono afflitte da gravi problemi di tenuta e di competitività; contemporaneamente, su un altro fronte non meno importante, secolarizzazione e immigrazione vanno interpellando in modo radicale forme e contenuti delle nostre identità collettive. A un tale enorme ammasso di problemi le culture politiche e i gruppi sociali fin qui egemoni in Europa non si sono mostrati in grado di dare la minima risposta. Anzi hanno spesso cercato di negarli. Il loro armamentario intellettuale è apparso desolantemente vuoto, e proprio questa assenza ha reso sempre più evidente la prevalenza nelle classi dirigenti del continente di un carattere progressivamente asfittico, autoreferenziale, e alla fine oligarchico; ha sottolineato la loro perdita di rapporto con la realtà. Ciò riguarda non solo le élites politiche. Riguarda in eguale misura tutte le élites delle società europee (economiche, intellettuali, burocratiche), via via convertite tutte allo stesso modo, nell’azione sociale, a una miscela di mercato e di tassazione, di assistenzialismo e di meritocrazia, senza mai nessuna scelta coraggiosa, innovativa. Così come tutte si sono allo stesso modo accomodate culturalmente in un pensiero unico fatto di cautela, di misurata scaltrezza, di equilibrismi convenzionali, all’insegna di un’ossessiva banalità democratica, di un universalismo culturale che è solo tiepidezza, di un relativismo etico dominato da «ascolti » e «dialoghi».

Ma dietro questo melting pot ideologico delle società europee le opinioni pubbliche non faticano a indovinare sempre più spesso il nulla. Il nulla e l’opportunismo. Questa sensazione di un nulla impastato di opportunismo che ormai di fatto domina l’azione dei partiti e l’intera sfera sociale è ciò che sta producendo un sentimento oscuro ma profondo di disistima e di ribellione, di delegittimazione, verso tutte le élites dominanti in Europa a partire dal ’45. Soprattutto di quelle di sinistra, come è ovvio, dal momento che proprio la sinistra è tradizionalmente ancora considerata da molti, nel nostro universo politico-simbolico, come l’ambito elettivo di personalità, progetti e valori «veri». È proprio questo, invece, che appare sempre più dubbio. Perché infatti un elettore di sinistra dovrebbe dare fiducia alla socialdemocrazia quando vede uno dei suoi più illustri esponenti storici, l’ex cancelliere Schröder, trasformarsi, nel più totale silenzio dei suoi ex compagni, in un danaroso procacciatore d’affari al servizio dello zar di tutte le Russie? E tanto per restare in Germania, perché mai un elettore del vecchio continente non dovrebbe diventare euroscettico vedendo—pure questa volta senza che nessuno abbia nulla da ridire— la signora Merkel preferire che la Opel vada a finire in mani russe (ancora!) e canadesi, anziché in quelle della Fiat?

Ernesto Galli della Loggia
11 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La politica cancellata
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2009, 11:14:55 am
L’ECCESSIVA PERSONALIZZAZIONE

La politica cancellata


Le accuse che si rovesciano in questi giorni sul presidente del Consiglio, le si condivida più o meno, sono la riprova definitiva del grado estremo di personalizzazione che la politica ha raggiunto oggi in Italia: una riprova che, alquanto paradossalmente, stanno offrendo proprio coloro che fino a ieri additavano la suddetta personalizzazione come sbagliatissima e assolutamente da evitare.

Non tenevano conto però che la personalizzazione è un fenomeno inerente alla leadership: tanto più questa è autorevole e forte tanto più s’identifica inevitabilmente con la persona di chi l’esercita. Né tenevano conto del fatto che i regimi democratici, proprio per il pluralismo che caratterizza le loro società, hanno quanto mai bisogno di una leadership forte e unificatrice.

Ma è anche vero che le accuse che ogni giorno riempiono i nostri quotidiani, con grande attenzione alla vita privata di Berlusconi, testimoniano di un livello di personalizzazione che dire estremo è poco. A questo proposito è stato osservato giustamente che anche in altri Paesi europei o negli Usa i vertici del potere (Kennedy e Mitterrand, per fare solo due esempi) sono stati coinvolti ripetutamente in storie scabrose di sesso dense di particolari piccanti, ma in nessun caso però i rispettivi media se ne sono occupati più di tanto, anzi quasi sempre non se ne sono occupati per nulla. Sui gusti e le frequentazioni sessuali delle leadership la regola è stata dappertutto una sostanziale cortina di silenzio. Il fatto che in Italia non sia così, anzi sia l’opposto, potrebbe naturalmente voler dire che l’informazione italiana è assai più libera di quella straniera, ovvero, forse, può voler dire che in Italia la personalizzazione di cui si diceva ha raggiunto livelli realmente patologici.

È questa l’ipotesi più plausibile. Ma bisogna allora domandarsi perché. A me sembra che ciò dipenda dal fatto che in pochi altri Paesi occidentali c’è stato come in Italia una così massiccia cancellazione della politica nel senso che normalmente si dà a questa parola. Idee, programmi, procedure di selezione, organi collettivi di dibattito e di direzione, tutto, a destra come al centro e a sinistra, è stato vanificato o ha provveduto spontaneamente e letteralmente a evaporare. Esauritesi le culture e i partiti politici che risalivano al Cln e alle vicende «alte» della storia nazionale (ciò che in Europa non è accaduto da alcun’altra parte), è subentrato un generale nulla. Sono rimaste solo le persone, sole le nude persone (è il caso di dirlo!). Da questo punto di vista Berlusconi, lungi dall’essere la malattia, è solo il sintomo: esasperato se si vuole ma solo il sintomo.

Nessuna meraviglia allora se la vita pubblica italiana offre da tempo lo spettacolo che offre: dove prima delle «squillo» di casa a Palazzo Grazioli ci sono state le «esternazioni » politiche della moglie del premier golosamente raccolte, il costo delle scarpe di D'Alema, i flirt veri o supposti e la paternità più o meno rocambolesca di Fini, il cachemire glamour di Bertinotti, la carica di capo della Lega trasformata in personale- ereditaria per il giovane Bossi senza che dai suoi si sia levata una critica: il tutto in un affollarsi di giornali e di trasmissioni tv che in pratica si occupano solo di cose del genere.

Ormai in Italia, anche a prescindere dalle ultime settimane, la politica è ridotta a questo. Mentre sullo sfondo si agita il vortice delle intese sotterranee, degli interessi economici che si combinano e si ricombinano per tutelarsi e spadroneggiare, dei clan che si formano, mentre si vede una stampa nel complesso sempre più esangue, si ascoltano mille «voci» che dilagano. Anche in quelli che ancora chiamiamo partiti ognuno gioca per sé, al massimo in combutta con qualche sodale. Tutto ciò è il prodotto della fine della politica: della quale è un frutto quella personalizzazione di cui la foto di Berlusconi tra le lenzuola, quando mai comparisse, non sarebbe che un riassunto simbolico. C’è comunque in questa deriva italiana come un ritorno all’antico. Si dilegua la politica, infatti, e sembra di veder riaffiorare un’Italia che credevamo alle nostre spalle: un Paese in mano a pochi, a oligarchie interessate esclusivamente al proprio potere; un Paese marginale, tagliato fuori dal mondo e che ha ormai perso il senso di un destino comune, senza ambizioni e progetti per il futuro; un Paese che non si stima e che non sembra più capace di chiedere nulla a se stesso. Un Paese che nel vuoto della politica lascia vedere qualcosa di molto simile a un vuoto di volontà, a un vuoto morale.

Ernesto Galli della Loggia
25 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Noi italiani senza memoria
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2009, 10:20:33 am
I 150 ANNI DELL’UNITA’ E IL VUOTO DI IDEE


Noi italiani senza memoria


Il modo in cui il Paese si appresta a celebrare nel 2011 il 150˚anniversario della sua Unità indica alla perfezione quale sia l'immagine che la classe politica—tutta, di destra e di sinistra, senza eccezioni (nonché, temo, anche la maggioranza dell'opinione pubblica) — ha ormai dell'Italia in quanto Stato nazionale e della sua storia. Un'immagine a brandelli e di fatto inesistente: dal momento che ormai inesistente sembra essere qualsiasi idea dell'Italia stessa. Leggere per credere. Tutto inizia nel 2007, quando per l'appunto si deve decidere che cosa fare per le celebrazioni del 2011. In altri Paesi si penserebbe, per esempio, ad allestire una mostra memorabile, a mettere in piedi un grande museo della storia nazionale (siamo tra i pochi che non ne hanno uno), a costruire una grande biblioteca (Dio sa se ce ne sarebbe bisogno) o qualcos’altro di simile. Da noi invece no.

Da noi il governo Prodi decide che il modo migliore di celebrare l'Unità d'Italia sia quello che lo Stato finanzi, insieme agli enti locali, undici opere pubbliche in altrettante città della Penisola. Opere pubbliche di ogni tipo, così come viene, senza alcun nesso con il tema dell'unità: da un nuovo Palazzo del Cinema e dei Congressi al Lido di Venezia, al completamento dell’aeroporto a Perugia, dalla realizzazione di un Parco costiero del Ponente ligure ad Imperia, a un Auditorium con relativa delocalizzazione del campo di calcio a Isernia, a un Parco della Musica e della Cultura a Firenze, e così via nel mare magnum dei bisogni effettivi o magari della megalomania dei mille luoghi del Bel Paese. Solo Torino e il Piemonte, non dimentichi della loro storia, mettono a punto in modo autonomo un programma di celebrazioni inerenti realmente all'evento storico di cui si tratta.

Ma, ripeto, in modo autonomo e come iniziativa locale, anche se con lodevole e forte apertura alla storia nazionale. Così come solo il Ministero dell'Istruzione trova il modo di celebrare l'anniversario varando un progetto di portale didattico on line sul Risorgimento. Dopo pochi mesi, comunque, nel febbraio del 2008, al «programma infrastrutturale » iniziale degli undici progetti ora detti il governo Prodi aggiunge altri quattordici «interventi infrastrutturali di completamento». Di nuovo c'è di tutto: restauri di questo o quell'edificio (il teatro D’Annunzio a Pescara, Palazzo D'Accursio a Bologna, la Rocca della cittadella ad Ancona), ma anche numerose incursioni nel bizzarro spinto: per esempio la realizzazione di un Herbariun Mediterraneum, di cui pare che senta un vivissimo bisogno la città di Palermo, o la realizzazione di un Centro Culturale della Mitteleuropa per la maggiore soddisfazione degli abitanti di Udine. E' inclusa perfino la costruzione della nuova sede dell'Istat a Roma.

Ma messe così le cose, pure ai ministri di Prodi esse devono essere sembrate un po' troppo grigie e anonime. Alla retorica nazionale non si poteva negare qualche lustrino, qualche «nome» da esibire. Detto fatto, ecco allora istituito un pomposo Comitato dei Garanti. Cioè tre-quattro decine di persone, presunte incarnazioni di altrettante «personalità», alla cui presidenza viene chiamato il Presidente emerito Ciampi. Ma alle quali, naturalmente nessuno, in tutto questo tempo, si cura di indicare con un minimo di precisione che cosa mai debbano «monitorare» e «verificare», in sostanza che cosa diavolo ci stiano a fare, a che cosa servano. Sono «garanti», tant'è: non gli basta un simile onore? E infatti non risulta che riescano a dire una parola su nulla. Tuttavia, per quanto sembri incredibile, non siamo ancora alla fine. Ulteriori proposte di «interventi infrastrutturali» incalzano, infatti, e anche questi progetti ottengono il loro bravo cofinanziamento statale: sempre in nome, naturalmente, del 150˚anniversario dell'Unità. Questa volta però nelle funzioni di «grande elemosiniere» invece del governo Prodi c'è il governo Berlusconi.

Ecco dunque il Comune di Roma che con 40 milioni promette di sistemare a nuovo il Palazzo degli esami di via Induno; Latina, che riceve 3 milioni di euro per la riconversione dell'ex Caserma dell’82˚fanteria da adibire a campus universitario; il comune di Moasca (Asti), che si accontenta di 500 mila per il completamento del restauro del suo castello; Catania, che con 150 mila euro vuole rendere accessibile l'Orto botanico ai «non vedenti e ipovedenti»; Magenta, che si prende i suoi 22 milioncini per collegare con piste ciclabili «le vie della battaglia di Magenta», e così via molti altri. Ma oltre a fare anche lui, sebbene in tono minore data la crisi economica, la sua distribuzione di soldi in tutto e per tutto analoga a quella realizzata dal governo di sinistra, il governo di destra compie un altro atto memorabile. Ai membri del Comitato dei Garanti designati dal suo predecessore ne aggiunge altri sette-otto: ma anche questi— essendo uno dei prescelti posso dirlo con cognizione di causa — finora non riescono a servire a nulla (anche se almeno non costano nulla).

E di sicuro le cose continueranno così anche se oltre tre mesi fa il presidente Ciampi ha scritto al ministro Bondi per sollecitarlo a elaborare finalmente un «programma di iniziative da attuare per la ricorrenza». Ma con quanto tempo a disposizione oramai? E con quali finanziamenti, dal momento che ne sono già stati impiegati tanti per tutte le cose fin qui dette? La conclusione, al momento attuale, è che per ricordare la propria nascita lo Stato italiano nel 2011 non farà nulla: nulla di pensato appositamente, voglio dire, con un rapporto diretto rispetto all'evento. Si limiterà a qualche discorso . Il punto drammatico sta nella premessa di tutto ciò. Nel fatto evidente che la classe politica sia di destra sia di sinistra, messa di fronte a uno snodo decisivo della storia d'Italia e della sua identità, messa di fronte alla necessità di immaginare un modo per ricordarne il senso e il valore — e dunque dovendosi fare un'idea dell'uno e dell'altro, nonché di assumersi la responsabilità di proporre tale idea al mondo, e quindi ancora di riconoscersi in essa — non sa letteralmente che cosa dire, che partito prendere, che idea pensare.

E non sa farlo, per una ragione altrettanto evidente: perché in realtà essa per prima non sa che cosa significhi, che cosa possa significare, oggi l'Italia, e l'essere italiani. Quella classe politica fa di conseguenza la sola cosa che sa fare e che la società italiana in fondo le chiede: distribuire dei soldi. A pioggia, senza alcun criterio ideale o pratico, in modo da soddisfare le esigenze effettive, i sogni, le ubbie, dei mille localismi, dei mille luoghi e interessi particolari in cui ormai sempre più consiste il Paese. Cioè consistiamo noi. «A te un campus, a te una circonvallazione, a te un palazzo per qualche cosa»: l'unico scopo che ci tiene insieme sembra essere oramai quello di spartirci il bilancio dello Stato, di dividerci una spoglia. M’immagino come se la deve ridere tra sé e sé il vecchio principe di Metternich, osservando lo spettacolo: non l'aveva sempre detto, lui, che l'Italia non è altro che un'espressione geografica?

Ernesto Galli Della Loggia
20 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’Italia dimenticata
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2009, 02:42:51 pm
LE COLPE DELLE CLASSI DIRIGENTI

L’Italia dimenticata


Le nazioni sono un prodotto complesso. Il materiale di base per costruirle lo fornisce perlopiù la storia, ma chi le porta ad esistere e le fa vivere, dandogli forma ideale e statale, non sono i singoli né le masse: sono i gruppi dirigenti. Cioè innanzi tutto le classi politiche (e dunque la politica). Perciò, se lo stato comatoso in cui versano le celebrazioni per il 150˚anniversario dell'unità d'Italia significa qualcosa, esso significa che ai politici di questo Paese, tanto di destra come di sinistra, la suddetta unità, e cioè alla fine l'Italia, appaiono tutto sommato irrilevanti.

Prova ne sia, come è stato giustamente osservato, che nessuno di loro è intervenuto nel dibattito accesosi sul tema in questi giorni. Non voglio dire che i nostri uomini politici non nutrano un legame storico e sentimentale con il loro Paese. Voglio dire che l'Italia come entità nazionale, come organismo collettivo, come idea di una sorte comune dotata di qualche senso, tutto questo non entra più in alcun modo nel loro discorso, non è più un dato politico effettivo produttore di emozioni, di analisi, di programmi. Paradossalmente, l'Italia è un dato politico reale esclusivamente per la Lega: ma lo è solo perché oggetto della sua radicale avversione. E' significativo, peraltro, che perfino alle più ripugnanti proposte leghiste, come quella recentissima di imporre agli insegnanti un esame di cultura e lingua locali, i suoi avversari, lungi dal contrapporre l'idea d'Italia e di unità nazionale, si limitino a invocare, come ha invocato il presidente Fini, il «rispetto della Costituzione ». Quasi che dell'Italia non possa pensarsi altra difesa, ormai, che quella riservata a un bene «giuridicamente protetto».

Oggi, insomma, salvo che per la Lega, l'Italia non esiste più per le nostre culture politiche. Non era così nella prima Repubblica, la quale, pur se nata in un momento in cui la coscienza nazional- statale era stata messa a dura prova dalla catastrofe bellica, vide tuttavia la non infeconda dialettica tra culture politiche ognuna in stretto rapporto con la vicenda nazionale e con una forte idea d'Italia. Si pensi da un lato alla cultura cattolica e a quella comunista — entrambe legate al dato centrale della nostra storia rappresentato dalla lontananza delle masse popolari rispetto alla costruzione dello Stato unitario — e dall'altro alla cultura laico-socialista, viceversa appassionatamente identificata con tale costruzione. Uomini come Terracini e Amendola, Scelba o Moro, Spadolini o Craxi, furono altrettanti personaggi- simbolo di una storia tutta e consapevolmente «italiana». Una storia che Mani Pulite ha inghiottito e dissolto. Da allora dell'Italia, della sua vicenda e dunque della sua unità, tranne la Lega che le ha costituite a suoi bersagli polemici, le culture politiche post-Tangentopoli non sanno che cosa farsene. «Forza Italia» fu solo uno slogan indovinato preso in prestito dagli stadi, riflesso adeguato di una politica ridotta a scontro di tifoserie; nel mentre a sinistra, tra Pds, Diesse e poi Partito democratico, in omaggio a un cosmopolitismo da provinciali scompariva perfino ogni menzione di appartenenza nazionale.

Di recente, sui manifesti ufficiali del partito affissi sui muri di Roma, il Pd è diventato addirittura un grottesco Democratic Party. È stato soprattutto questo vuoto d’Italia prodottosi al vertice del Paese e dei suoi gruppi dirigenti (vanamente contrastato dagli sforzi del presidente Ciampi) che spiega l’indebolimento fortissimo subito negli ultimi quindici anni dall’idea di unità nella sfera pubblica, nelle parole e nelle pratiche ad essa connesse. Lo scempio fatto della Rai e di ogni sua funzione formativa, e insieme le condizioni pietose a cui è stato ridotto il sistema dell’istruzione, sono solo due esempi di questo vuoto tramutatosi in una perversa diseducazione civica dall’alto. I frutti cominciano a vedersi adesso. Nell’assenza al centro di un discorso e di tematiche realmente nazionali, di qualunque prospettiva che riesca a coinvolgere l’intero Paese, il regionalismo sta diventando al Nord sinonimo di un federalismo di fatto, e al Sud arma di ricatto nelle mani di spregiudicati boss politici per assicurarsi, al riparo di sguardi indiscreti, la continuità delle loro clientele e del loro potere.

Ma come ha detto Giuseppe Galasso sul Riformista, pensare che all’indebolimento dell’idea d’Italia nella sfera pubblica corrisponda un eguale e sostanziale suo indebolimento nella mente e nei cuori degli Italiani ce ne corre. La memoria e il buon senso dei popoli sono spesso più tenaci delle omissioni e degli oblii dei politici. La grande maggioranza degli Italiani sa come stanno le cose: sa che nell’ultimo secolo e mezzo non vi è stato altro strumento che abbia contribuito alla sua libertà, al suo progressomateriale, alla formazione della sua coscienza civile, più dello Stato unitario che si chiama Italia. Sa tutto ciò, e solo che qualcuno volesse e sapesse chiederglielo la sua voce non mancherebbe di ricordarlo a tutti.

Ernesto Galli Della Loggia
31 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Caro professor Galli della Loggia, Perché mi vergogno dell’Unità d’Italia
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2009, 11:58:13 am
Scambio di lettere sul Paese tra passato e presente

Io, studente leghista

Perché mi vergogno dell’Unità d’Italia


Caro professor Galli della Loggia,
sono uno studente universita­rio di 24 anni con una certa pas­sione per la storia. Sono un leghista, ab­bastanza convinto. E lo confesso: se fac­cio un bilancio, certamente sommario, dall’Unità nazionale ad oggi, le cose per cui vergognarmi mi sembrano maggiori rispetto a quelle di cui essere fiero.

Penso al Risorgimento, alla massone­ria e al disegno di conquista dei Savoia, rifletto sul fatto che nel Mezzogiorno fu­rono inviate truppe per decenni per seda­re le rivolte e credo che queste cose abbia­no più il sapore della conquista che della liberazione. E penso, ancora, al referen­dum falsato per l’annessione del Veneto e al trasformismo delle elite politiche post-risorgimentali. E poi il fascismo, con la sua artificiosa ricostruzione di una romanità perduta e imposta a un popolo eterogeneo e diviso per 1500 anni che della «romanità classi­ca » conservava ben poco: la costruzione di una «religione politica» forzata al po­sto di una «religione civile» come invece avvenne in Francia con la Rivoluzione, che fu davvero l’evento fondante di un popolo. In Italia l’unica cosa «fondante» potrebbe essere stata la Resistenza: ma anche lì, a guardare bene, c’era una Linea gotica a dividere chi la guerra civile l’ave­va in casa da chi era già in qualche manie­ra libero.

E poi la Prima Repubblica, che si salva in dignità solo per pochi decenni, i pri­mi, e poi sprofonda nei buio degli anni di piombo con terrorismo di sinistra e stra­gi di destra (o di Stato?), nel clientelismo politico più sfrenato, nelle ruberie, nelle grandi abbuffate che ci hanno regalato uno dei debiti pubblici più grandi del mondo.

Quanto alla Seconda Repubblica, l’ab­biamo sotto agli occhi: la tendenza dei partiti a trasformarsi in «pigliatutto» multiformi e dai programmi elettorali quasi identici, con le uniche eccezioni di Di Pietro e della Lega. Il primo però è de­stinato a sparire con Berlusconi, che è la ragione del suo successo: quando svani­rà la causa, svanirà anche l’effetto. Anche la Lega dopo Bossi potrebbe sparire, ma almeno a sorreggerla ci sono un disegno, un’idea, per quanto contestabili.

Guardo allo Stato poi e alla mia vita di tutti i giorni e mi viene la depressione. Penso a mia mamma che lavora da quan­do aveva 14 anni ed è riuscita da sola a crearsi un’attività commerciale rispettabi­le e la vedo impazzire per arrivare a fine mese perché i governi se ne fregano della piccola-media impresa e preferiscono continuare a buttar via soldi nella grande industria. E poi magari arriva anche qual­che genio dell’ultima ora a dire che i com­mercianti son tutti evasori. Vedo i miei dissanguarsi per pagare tutto corretta­mente e poi mi ritrovo infrastrutture e servizi pubblici pietosi. Vedo che viene negata la pensione di invalidità a mia zia di 70 anni che ha avuto 25 operazioni e non cammina quasi più solo perché ha una casetta intestata. E poi leggo che nel Mezzogiorno le pensioni di invalidità so­no il 50% in più che al Nord. Come faccio a sentire vicino, ad amare, a far mio uno Stato che mi tratta come una mucca da mungere e in cambio mi dice di tacere?

Non ho paura degli immigrati, né so­no ostile a chi ha la pelle differente dalla mia. Mi preoccupo però di certe culture. Per esempio mi spaventano i disegni di organizzazioni come i Fratelli musulma­ni, ostili verso l’Occidente, e mi fan pau­ra le loro emanazioni europee. Non vo­glio barricarmi nel mio «piccolo mondo antico», ma ho realismo a sufficienza per pensare di non poter accogliere il mondo intero in Europa. La gente che entra va integrata, ma io credo che la possibilità di integrazione sia inversamente propor­zionale al numero delle persone che en­trano. Eppure, se dico queste cose, mi danno del «razzista». Non mi creano pro­blemi le altre etnie, mi crea problemi e fastidio invece chi le deve a tutti i costi mitizzare, mi irrita oltremodo un multi­culturalismo forzato e falsato. Mi spaven­tano l’esterofilia e la xenomania, secondo le quali tutto ciò che viene da fuori deve essere considerato acriticamente come positivo, «senza se e senza ma». In prati­ca ho paura che l’Italia di domani di italia­no non avrà più nulla e che il timore qua­si ossessivo di non offendere nessuno e di considerare ogni cultura sullo stesso piano, cancelli quel poco di memoria sto­rica che ancora abbiamo. Mi crea profon­do terrore la prospettiva che la nostra ci­viltà possa essere spazzata via come ac­cadde ai Romani: mi sembra quasi di es­sere alle porte di un nuovo Medioevo con tutte le incognite che questo può ce­lare. E ho paura, paura vera. Sono razzi­sta davvero oppure ho qualche ragione?

Matteo Lazzaro
19 agosto 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


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La storia è positiva

Ma protesta e paura oggi sono fondate


No, non è la lettera di un razzista la lettera di questo studente — un bravo studente, si può immagina­re — che il Corriere ha deciso di pubblica­re per contribuire a far conoscere al Paese da quali sentimenti e di quali ragioni si fa forte l’opinione pubblica leghista così dif­fusa al Nord. Ha quasi sempre delle ragio­ni, infatti, anche chi non ha ragione: pure quando tali ragioni, com’è questo il caso, sono costruite su un ordito di vere e pro­prie manipolazioni storiche.

Quanto scrive Matteo Lazzaro dimo­stra innanzi tutto, infatti, il rapporto stret­tissimo che inevitabilmente esiste tra sto­ria e politica; e di conseguenza, ahimè, il disastro educativo prodotto negli ultimi decenni nelle nostre scuole da un lato da una sfilza di manuali di storia redatti al­l’insegna della più superficiale volontà di demistificazione, e dall’altro da una mas­sa d’insegnanti troppo pronti a sintoniz­zarsi sulla stessa lunghezza d’onda. Gli uni e gli altri presumibilmente convinti di contribuire in questo modo alle fortu­ne del progressismo «democratico» anzi­ché, come invece è accaduto, a quelle di un autentico nichilismo storiografico di tutt’altro segno. Ecco infatti il risultato che si è fissato nella mente di molti italia­ni: una storia del nostro Paese inverosimi­le e grottesca, impregnata di negatività, violenza, imbrogli e sopraffazione. Una storia di cui «vergognarsi», come pensa e scrive per l’appunto Lazzaro, e che quindi può solo essere rifiutata in blocco: domi­nata dall’orco massone e da quello sabau­do, dalla strega della partitocrazia, dal bel­zebù del «clientelismo», sfociata in «uno dei debiti pubblici più alti del mondo». Nessuno sembra aver mai spiegato a que­sti nostri più o meno giovani concittadini che il Risorgimento volle anche dire la possibilità di parlare e di scrivere libera­mente, di fare un partito, un comizio e al­tre cosucce simili; o che ad esempio, nel tanto rimpianto Lombardo-Veneto di au­striaca felice memoria, esisteva una cosa come il processo «statario», in base al quale si era mandati a morte nel giro di 48 ore da una corte marziale senza neppu­re uno straccio di avvocato. Nessuno sem­bra avergli mai raccontato come 150 anni di storia italiana abbiano anche visto, ol­tre alle ben note turpitudini, un intero po­polo smettere di morire di fame, non abi­tare più in tuguri, non morire più come mosche e da miserabile che era comincia­re a godere di uno dei più alti redditi del pianeta. Così come nessuna scuola sem­bra aver mai illustrato ai tanti Matteo Laz­zaro quello che in 150 anni gli italiani han­no fatto dipingendo, progettando edifici e città, girando film, scrivendo libri: non conta nulla tutto ciò? E si troverà mai qualcuno infine, mi domando, capace di suggerirgli che la democrazia non piove dal cielo, che tra «uno dei debiti pubblici più alti del mondo» e l’ospedale gratuito sotto casa o l’Università dalle tasse presso­ché inesistenti qualche rapporto forse esi­ste? E che la storia, il potere, la società, sono faccende maledettamente complica­te che non sopportano il moralismo del tutto bianco e tutto nero, del mondo divi­so in buoni e cattivi?

È quando viene all’oggi, invece, che il nostro lettore ha ragione da vendere, e al­le sue ragioni non c’è proprio nulla da ag­giungere. C’è semmai da capirle e inter­pretarle. Il che tira in ballo la responsabili­tà per un verso della classe politico-intel­lettuale di questo Paese, per l’altro quella dei nostri concittadini del Mezzogiorno. Per ciò che riguarda la prima è necessario e urgente che quello strato di colti, di gior­nalisti di rango, di scrittori, di attori della scena pubblica, i quali tutti insieme con­tribuiscono alla costruzione del «discor­so » ufficiale del Paese, la smettano di as­sumere un costante atteggiamento di suf­ficienza, se non di disprezzo, verso ogni pulsione, paura o protesta che attraversa le viscere della società settentrionale (ma non solo! sempre più non solo!) taccian­dola subito come «razzista», «securita­ria », «egoista», «eversiva» o che altro. Pe­ricoli di questo tipo ci saranno pure, ma come questa lettera spiega benissimo si tratta di pulsioni e paure niente affatto pretestuose ma che hanno un senso vero, spesso un profondo buon senso, e dun­que chiedono risposte altrettanto vere, sia culturali che politiche: non anatemi che lasciano il tempo che trovano.

E infine i nostri concittadini del Mezzo­giorno: questi sbaglierebbero davvero se non avvertissero nelle parole del lettore leghista l’eco neppure troppo nascosta di una richiesta ultimativa che in realtà or­mai parte non solo da tutto il Nord ma an­che da tante altre parti del Paese. È la ri­chiesta che la società meridionale la smet­ta di prendere a pretesto il proprio disa­gio economico per scostarsi in ogni ambi­to — dalla legalità, alle prestazioni scola­stiche, a quelle sanitarie, all’urbanistica, alle pensioni — dagli standard di un pae­se civile, tra l’altro con costi sempre cre­scenti che vengono pagati dal resto della nazione. Il resto dell’Italia non è più dispo­sta a tollerarlo, e si aspetta che alla buo­n’ora anche i meridionali facciano lo stes­so

Ernesto Galli della Loggia
19 agosto 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La nazione abbandonata
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 10:48:21 am
IL DIBATTITO SULL’IDEA DI ITALIA

La nazione abbandonata


Vedremo tra po­chi giorni le pro­poste del gover­no volte a rime­diare come possibile al­l’insulso programma edili­zio lasciatogli in eredità dal precedente ministero Prodi per celebrare l’anni­versario dell’unità d’Italia del 2011. Il cuore della questione è stato ben ri­cordato dal presidente Napolitano nella sua lette­ra all’esecutivo di un me­se fa: la nascita di una na­zione non può essere cele­brata solo con un Palazzo del cinema qua e un Par­co della musica là. Ha bi­sogno di un’idea politi­co- culturale forte, che ri­specchi il senso e i valori della sua identità e della sua storia. Il capo dello Stato attende tuttora una risposta, e noi con lui. Intanto, però, la discus­sione accesasi a proposi­to delle celebrazioni, con una vasta partecipazione di non addetti ai lavori, è andata ben oltre il tema specifico, mettendo in lu­ce due aspetti decisivi del­lo spirito pubblico di cui le imminenti proposte del governo dovranno te­ner conto.

Il primo aspetto riguar­da l’immagine distorta, ma sempre più diffusa, della storia del nostro Pa­ese, e in particolare della formazione dello Stato unitario. In contrapposi­zione ad una visione oleo­grafica del Risorgimento (peraltro sostanzialmente messa al bando da mezzo secolo) è venuta forman­dosi, e ormai dilaga, una visione dove classismi pa­leogramsciani, nostalgie neoborboniche e neoau­striacanti, vituperi antiu­nitari e antiliberali di mar­ca cattolico-temporalista, si mischiano e fanno tut­t’uno con un singolare fe­nomeno di reciproca vali­dazione. Ne risulta una storia nazionale dove, co­me ha scritto un giovane studente milanese, le co­se di cui vergognarsi non si contano; dove chi ha co­mandato, da Cavour a Ma­ni Pulite, avrebbe sempre fatto i suoi più sporchi co­modi; dove i cittadini, «la gente», sembra essere passata per 150 anni da una strage a una ruberia, da un’illegalità ad un’al­tra: sempre vittima, sem­pre oppressa dal «pote­re », rappresentato da quel riassunto di ogni ma­le che sarebbe lo Stato.

Ciò che è nuovo di que­sta immagine è, sì, la sua crescente popolarità, ma soprattutto il fatto che es­sa è diffusa più o meno in ugual misura tanto al Nord che al Sud.
È il se­condo dei due aspetti di cui dicevo sopra, ed è quello che sta producen­do il senso di radicale di­stacco, di disaffezione profonda nei confronti dell’idea d’Italia, a cui tan­ti italiani, soprattutto gio­vani, sono soliti ormai da­re voce. È un sentimento vero, autentico? Io penso di no. Ma è il sentimento che inevitabilmente pren­de il sopravvento nelle co­scienze se non arriva loro altro messaggio. Special­mente se la politica non vuole o non riesce più a dare al proprio discorso alcuna prospettiva gene­rale in grado di parlare e di coinvolgere anche emo­tivamente l’intero Paese; se tanto la destra che la si­nistra non sanno più evo­care alcun obiettivo in cui possa riconoscersi il pro­prio elettorato, e che al tempo stesso, però, si sforzi d’interpretare an­che i segni dei tempi e l’interesse della collettivi­tà. In una parola se la poli­tica abbandona la nazio­ne. Non da oggi il presi­dente Napolitano svolge in questo senso una pre­ziosa opera di surroga. Ma la sua opera ha un ov­vio limite costituzionale: oltre quel limite tocca ai partiti politici e alle loro culture agire

Ernesto Galli Della Loggia
23 agosto 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Quelle distanze con la chiesa
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2009, 10:30:20 pm
STRAPPI VISIBILI E MUTAMENTI DI FONDO


Quelle distanze con la chiesa

È certamente un fatto nuovo nel dopo­guerra lo scontro al calor bianco che si registra in queste ore tra una parte delle alte gerar­chie cattoliche e il centrode­stra. Non è certo un dato da sottovalutare, anche se è probabile che nel giro di qualche tempo esso sarà in un certo modo riassorbito, non convenendo una rottu­ra a nessuna delle due parti in causa. E allora emergerà in tutta evidenza un dato so­stanziale: il mutamento del­l’opinione pubblica circa i rapporti tra Chiesa e Stato e tutto ciò che essi significa­no e comprendono. Si trat­ta di un mutamento di fon­do. Questa svolta dell’opi­nione pubblica comincerà a far sentire sempre di più il suo peso.

Il mutamento di cui sto parlando ha un effetto so­prattutto: quello di rendere progressivamente inattuale la vecchia distinzione antago­nistica laici-cattolici. Una lun­ga fase della storia italiana è stata percorsa da questo anta­gonismo. Esso aveva il pro­prio epicentro nella periodi­ca disputa circa la legislazio­ne dello Stato in alcune mate­rie «sensibili» (istruzione, matrimonio, ecc.), ma era per così dire tenuto sotto controllo dall’esistenza nel Paese di un’opinione assolu­tamente maggioritaria circa un punto decisivo: il ricono­scimento dell’imprescindibi­le carattere istituzionale del­la Chiesa cattolica. Cioè che questa, per svolgere la sua missione, ha bisogno di una totale e piena autonomia che in pratica solo la riconosciu­ta sovranità nei propri ambi­ti può assicurarle, nonché di adeguati strumenti (anche fi­nanziari) di presenza e d’in­tervento nella società. È da ta­le opinione diffusa che è di­scesa per tutti i decenni della prima Repubblica la presso­ché unanime accettazione del Concordato come stru­mento regolativo dei rappor­ti tra Stato e Chiesa. Alla cui base, difatti, non c’è una que­stione di oggettiva «libertà» della Chiesa (a tal fine baste­rebbe qualunque Costituzio­ne democratica), ma la que­stione della sua «sovranità»: per cui essa si «sente» libera solo se in qualche modo è an­che «sovrana».

Ciò che sta mutando (e ve­nendo meno) è proprio la pressoché unanime accetta­zione di cui ora ho detto. Sia tra i credenti che tra i non credenti va facendosi strada, infatti, l’idea che la Chiesa non debba possedere un ca­rattere istituzionale di segno forte. I primi lo pensano per il rinnovato sogno di una fe­de capace di vivere e di affer­marsi nel mondo per la sola forza dello Spirito e della Pa­rola; nonché per la sempre rinnovata paura di contami­nare l’altezza dei «principi» con la miseria della «realtà». Tra i secondi, invece, va dif­fondendosi la convinzione — fatta propria in preceden­za da pochi laici doc — che una Chiesa istituzionalizzata e «sovrana», e dunque il Con­cordato che ne è il riconosci­mento, non solo rappresenti­no un attentato all’eguaglian­za dei cittadini e all’esercizio di una sfera dei diritti sem­pre più ampia e orientata soggettivisticamente, ma configurino altresì un’indebi­ta presenza della religione nello spazio pubblico. La di­stinzione si sta appunto spo­stando su questo piano: non più tra «laici» e «cattolici» ma tra chi è favorevole e chi è contrario al riconoscimen­to del carattere istituzionale della Chiesa e di un suo spa­zio sociale. Il che comporta una completa dislocazione dei vecchi schieramenti: sic­ché così come credenti e non credenti possono tran­quillamente trovarsi da una medesima parte contro la Chiesa ufficiale considerata « autoritario- temporalisti­ca », egualmente sul versante opposto può avvenire lo stes­so, considerando comunque la religione, anche i non cre­denti, un contributo prezio­so all’identità collettiva e alla definizione dei valori di fon­do della società.

Ernesto Galli della Loggia
30 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Due o tre cose su premier e stampa
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2009, 10:35:23 am
DOPO GLI ATTACCHI ALL’INFORMAZIONE

Due o tre cose su premier e stampa

di  Ernesto Galli della Loggia


Se c’era bisogno di una prova dell’incapacità del presidente del Consiglio di gestire i conflitti, anche di natura personale, in cui si trova coinvolto egli l’ha data con la querela ai giornali nei giorni scorsi. Gestire i conflitti, intendo, nell’unico modo in cui un uomo politico può e deve farlo: vale a dire politicamente. L'espressione «gestire politicamente» può significare tante cose: dal cercare di venire in qualche modo a patti con l’avversario, al pagare il prezzo che c’è da pagare, al rilanciare su altri piani con una forte iniziativa che imponga all’agenda politica di girare decisamente pagina, fi­no al fare finta di nulla. E invece, di fronte agli attac­chi personali che gli stan­no piovendo addosso da mesi, Berlusconi non ha fatto niente di tutto ciò. Anzi, con la querela alla Repubblica e all ’Unità ha aggiunto benzina al fuoco della polemica.

Perché? Perché egli non capisce l’importanza della suddetta gestione politica e/o non sa met­terla in opera, si può ri­spondere. Ma forse c’è una ragione più semplice (e in certo senso più so­stanziale): perché non è nel suo carattere, e Berlu­sconi sa bene che è pro­prio nel suo carattere, nel suo spontaneo modo di muoversi, di parlare, di re­agire, che sta la ragione principale del suo succes­so come politico outsider. Un temperamento legge­ro e insieme pugnacissi­mo; e poi ottimista, sicu­ro e innamorato di sé co­me pochi e naturalmente disposto all’improntitudi­ne guascona, all’iniziativa audace e fuori del consue­to: questo è l’uomo Berlu­sconi, e questa ne è l’im­magine che ha conquista­to lo straordinario consen­so elettorale che sappia­mo. Perché mai un uomo così dovrebbe preoccupar­si di trovare una soluzio­ne politica ai conflitti che riguardano la sua perso­na? Che poi della sua ag­gressiva indifferenza pos­sano scapitarci le istituzio­ni non è cosa che possa fargli cambiare idea. Se una cosa è certa, infatti, è che il presidente del Con­siglio non è quello che si dice «un uomo delle isti­tuzioni ». È l’opposto, sem­mai: un uomo pubblico a suo modo «totus politi­cus», l’uomo della politi­ca democratica ridotta al suo dato più elementare, quello del risultato delle urne.

Ma c’è un altro aspetto della questione da consi­derare. Ed è che per gesti­re, e possibilmente chiu­dere, politicamente i con­flitti è essenziale una con­dizione: bisogna che il conflitto possa concluder­si alla fine con un compro­messo. Non pare proprio però che sia tale, che sia un conflitto «compromis­sibile», quello in cui è coinvolto da settimane Sil­vio Berlusconi. Un conflit­to che è partito dall’accer­tamento di alcuni aspetti indubbiamente libertini della sua vita privata - a proposito dei quali voglia­mo ricordare che il Corrie­re è stato il primo a dare notizia dell’inchiesta di Bari nonché delle gesta dell’ormai purtroppo fa­mosa Patrizia D’Addario - ma che tuttavia è subi­to diventato motivo per decretare l’incompatibili­tà dello stesso Berlusconi rispetto al suo ruolo di presidente del Consiglio. dubiti che di questo si tratti, ricordi come suonano te­stualmente alcune delle famo­se domande che hanno con­dotto alla querela contro il giornale che le ha pubblicate: «Lei ritiene di poter adempie­re alle funzioni di presidente del Consiglio?», e ancora: «Quali sono le sue condizioni di salute?».

Mi chiedo quale ri­sposta sensata, anche volen­do, si possa dare a domande del genere, le quali, come ognuno capisce, già in sé con­tengono l’unica possibile da parte dell’interessato («lo ri­tengo eccome», «sono sano come un pesce»). E le quali do­mande, dunque, non hanno va­lore se non come puro stru­mento retorico: per affermare in modo indiretto, ma precisis­simo, che Berlusconi, a moti­vo del suo stile di vita, non sa­rebbe adatto a fare il capo del governo. Il che ci porta al punto più delicato: il rapporto tra la stam­pa e il potere, sul quale a pro­posito del caso Avvenire han­no già scritto ottimamente su queste colonne sia Massimo Franco che Sergio Romano. Personalmente sono convinto che la legge debba essere di manica larghissima nel consen­tire alla stampa un’amplissima libertà di critica nei confronti degli uomini politici, anche ai limiti della calunnia, come ac­cade per esempio negli Stati Uniti dove, per non incorrere nei rigori della legge, basta che anche chi scrive il falso non ne sia però espressamente consa­pevole.

Da questo punto di vi­sta, dunque, l’iniziativa del pre­sidente del Consiglio, accom­pagnata per giunta dalla richie­sta di un risarcimento astrono­mico, è sbagliata e riprovevole: essa ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria verso i giornali presi di mira. Con la stessa sicurezza, pe­rò, si può dubitare fortemente che rientri tra i compiti della libera stampa l’organizzazione di interminabili, feroci campa­gne giornalistiche, non già per invocare - come sarebbe sa­crosanto - che i reati even­tualmente commessi dal presi­dente del Consiglio siano per­seguiti (dal momento che nel suo libertinismo di reati non sembra esservi almeno finora traccia), ma per chiedere di fat­to le sue dimissioni, adducen­do che egli sarebbe comun­que, per il suo stile di vita, «inadatto» a ricoprire la carica che ricopre. In una democra­zia, fino a prova contraria, de­cidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, non è compito dei giornali: è compito degli elet­tori e soltanto degli elettori. Anche se la loro decisione può non piacere.


07 settembre 2009
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Due o tre cose su premier e stampa
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2009, 07:10:11 pm
DOPO GLI ATTACCHI ALL’INFORMAZIONE


Due o tre cose su premier e stampa

di  Ernesto Galli della Loggia


Se c’era bisogno di una prova dell’incapacità del presidente del Consiglio di gestire i conflitti, anche di natura personale, in cui si trova coinvolto egli l’ha data con la querela ai giornali nei giorni scorsi. Gestire i conflitti, intendo, nell’unico modo in cui un uomo politico può e deve farlo: vale a dire politicamente. L'espressione «gestire politicamente» può significare tante cose: dal cercare di venire in qualche modo a patti con l’avversario, al pagare il prezzo che c’è da pagare, al rilanciare su altri piani con una forte iniziativa che imponga all’agenda politica di girare decisamente pagina, fi­no al fare finta di nulla. E invece, di fronte agli attac­chi personali che gli stan­no piovendo addosso da mesi, Berlusconi non ha fatto niente di tutto ciò. Anzi, con la querela alla Repubblica e all ’Unità ha aggiunto benzina al fuoco della polemica.

Perché? Perché egli non capisce l’importanza della suddetta gestione politica e/o non sa met­terla in opera, si può ri­spondere. Ma forse c’è una ragione più semplice (e in certo senso più so­stanziale): perché non è nel suo carattere, e Berlu­sconi sa bene che è pro­prio nel suo carattere, nel suo spontaneo modo di muoversi, di parlare, di re­agire, che sta la ragione principale del suo succes­so come politico outsider. Un temperamento legge­ro e insieme pugnacissi­mo; e poi ottimista, sicu­ro e innamorato di sé co­me pochi e naturalmente disposto all’improntitudi­ne guascona, all’iniziativa audace e fuori del consue­to: questo è l’uomo Berlu­sconi, e questa ne è l’im­magine che ha conquista­to lo straordinario consen­so elettorale che sappia­mo. Perché mai un uomo così dovrebbe preoccupar­si di trovare una soluzio­ne politica ai conflitti che riguardano la sua perso­na? Che poi della sua ag­gressiva indifferenza pos­sano scapitarci le istituzio­ni non è cosa che possa fargli cambiare idea. Se una cosa è certa, infatti, è che il presidente del Con­siglio non è quello che si dice «un uomo delle isti­tuzioni ». È l’opposto, sem­mai: un uomo pubblico a suo modo «totus politi­cus», l’uomo della politi­ca democratica ridotta al suo dato più elementare, quello del risultato delle urne.

Ma c’è un altro aspetto della questione da consi­derare. Ed è che per gesti­re, e possibilmente chiu­dere, politicamente i con­flitti è essenziale una con­dizione: bisogna che il conflitto possa concluder­si alla fine con un compro­messo. Non pare proprio però che sia tale, che sia un conflitto «compromis­sibile», quello in cui è coinvolto da settimane Sil­vio Berlusconi. Un conflit­to che è partito dall’accer­tamento di alcuni aspetti indubbiamente libertini della sua vita privata - a proposito dei quali voglia­mo ricordare che il Corrie­re è stato il primo a dare notizia dell’inchiesta di Bari nonché delle gesta dell’ormai purtroppo fa­mosa Patrizia D’Addario - ma che tuttavia è subi­to diventato motivo per decretare l’incompatibili­tà dello stesso Berlusconi rispetto al suo ruolo di presidente del Consiglio. dubiti che di questo si tratti, ricordi come suonano te­stualmente alcune delle famo­se domande che hanno con­dotto alla querela contro il giornale che le ha pubblicate: «Lei ritiene di poter adempie­re alle funzioni di presidente del Consiglio?», e ancora: «Quali sono le sue condizioni di salute?».

Mi chiedo quale ri­sposta sensata, anche volen­do, si possa dare a domande del genere, le quali, come ognuno capisce, già in sé con­tengono l’unica possibile da parte dell’interessato («lo ri­tengo eccome», «sono sano come un pesce»). E le quali do­mande, dunque, non hanno va­lore se non come puro stru­mento retorico: per affermare in modo indiretto, ma precisis­simo, che Berlusconi, a moti­vo del suo stile di vita, non sa­rebbe adatto a fare il capo del governo. Il che ci porta al punto più delicato: il rapporto tra la stam­pa e il potere, sul quale a pro­posito del caso Avvenire han­no già scritto ottimamente su queste colonne sia Massimo Franco che Sergio Romano. Personalmente sono convinto che la legge debba essere di manica larghissima nel consen­tire alla stampa un’amplissima libertà di critica nei confronti degli uomini politici, anche ai limiti della calunnia, come ac­cade per esempio negli Stati Uniti dove, per non incorrere nei rigori della legge, basta che anche chi scrive il falso non ne sia però espressamente consa­pevole.

Da questo punto di vi­sta, dunque, l’iniziativa del pre­sidente del Consiglio, accom­pagnata per giunta dalla richie­sta di un risarcimento astrono­mico, è sbagliata e riprovevole: essa ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria verso i giornali presi di mira. Con la stessa sicurezza, pe­rò, si può dubitare fortemente che rientri tra i compiti della libera stampa l’organizzazione di interminabili, feroci campa­gne giornalistiche, non già per invocare - come sarebbe sa­crosanto - che i reati even­tualmente commessi dal presi­dente del Consiglio siano per­seguiti (dal momento che nel suo libertinismo di reati non sembra esservi almeno finora traccia), ma per chiedere di fat­to le sue dimissioni, adducen­do che egli sarebbe comun­que, per il suo stile di vita, «inadatto» a ricoprire la carica che ricopre. In una democra­zia, fino a prova contraria, de­cidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, non è compito dei giornali: è compito degli elet­tori e soltanto degli elettori. Anche se la loro decisione può non piacere.


07 settembre 2009
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Su quei banchi ci siamo tutti
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2009, 05:35:41 pm
SCUOLA, LA VERA EMERGENZA

Su quei banchi ci siamo tutti


Da anni l’istruzio­ne è il cuore malato dell’Ita­lia inferma. È lo specchio del nostro de­clino. Siamo agli ultimi posti nella classifica dei rendimenti scolastici, il che vuol dire che i giova­ni italiani sanno far di conto, scrivere e capire un testo peggio di quasi tutti i loro colleghi non italiani, mentre i due grandi punti di forza del­la nostra tradizione scola­stica, la scuola elementa­re e il liceo, sono ormai solo la pallida ombra di ciò che furono. Sul ver­sante finale, le nostre mi­gliori università, gestite troppo a lungo dal pote­re arbitrario di chi vi in­segna, e soffocate da pro­blemi di ogni tipo, fanno una ben misera figura ri­spetto alle migliori stra­niere.

È vero: da decenni la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è troppo bassa; ma atten­zione: specie per quel che riguarda l’istruzione primaria e secondaria es­sa non è poi così catastro­ficamente bassa rispetto alla media europea. Guardando le cose nei lo­ro termini più generali, il problema centrale del nostro sistema d’istruzio­ne appare soprattutto un altro. È il fatto che l’ambi­to della scuola e dell’uni­versità è quello dove da circa mezzo secolo si ma­nifestano con particola­re virulenza tre aspetti critici della nostra vita collettiva: il potere sinda­cale, il timore sempre in agguato per l’ordine pub­blico (comune a tutti i partiti e a tutti i governi), e infine la diffusione, nel­la scuola e fuori, di un senso comune cultural­mente ostile alla dimen­sione del merito, del do­vere, della disciplina, del­la selezione. I lettori san­no di cosa parlo. La scuo­la è rimasta un settore dove i sindacati e le loro logiche corporative han­no in buona parte anco­ra oggi un virtuale dirit­to di veto su qualunque decisione non solo di ti­po organizzativo (circa le carriere e le assunzio­ni del personale), ma an­che sui programmi e in generale sulla didattica. Egualmente, basta la più piccola minoranza stu­dentesca che organizzi un corteo o un sit-in per­ché il mondo politico sia attraversato da un brivi­do di speranza o di pau­ra credendo di scorgere all’orizzonte una riedizio­ne del mitico Sessantot­to. E nel complesso, poi, guai a chiunque dica che nell’istruzione il permis­sivismo va messo al ban­do, che ogni apprendi­mento esige anche sacri­ficio, che non tutti alla fi­ne possono risultare ca­paci e meritevoli.

In queste condizioni fare il ministro dell’Istru­zione e dell’Università in Italia equivale a essere una specie di san Seba­stiano: bersagliato da ogni parte, schernito, vi­lipeso e mostrificato alla prima occasione, desti­nato quasi sempre a scontentare tutti. Da Gui alla Moratti, passando per De Mauro e Berlin­guer, è stato in pratica un vero e proprio marti­rologio politico, e anche l’anno scolastico che si apre in questi giorni mi­naccia come al solito tempesta sul capo del san Sebastiano di turno, il ministro Gelmini. Dal momento che scoccare frecce verso chi si trova legato al palo dell’istru­zione è facile, molto faci­le: e infatti nel corso de­gli ultimi decenni nessu­na forza politica si è sot­tratta alla tentazione di farlo ricavandone il mise­ro utile del caso.

Ernesto Galli Della Loggia
13 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La svolta necessaria
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 12:04:48 pm
IL PATTO DA ONORARE CON GLI ELETTORI

La svolta necessaria

Innovando la sua stessa giurisprudenza— e pertanto smentendo la presidenza della Repubblica, la quale al momento della promulgazione del Lodo Alfano si era attenuta per l’appunto alla precedente sentenza della Corte, e non aveva ravvisato nell’uso della legge ordinaria alcuna incostituzionalità— questa volta la Consulta ha invece stabilito che no, che una legge ordinaria in tale materia non basta, che ci vuole una legge costituzionale, e ha dunque decretato, soprattutto per questa ragione sembra di capire, l’illegittimità del Lodo Alfano medesimo. Non resta che prenderne atto, e sarebbe bene che lo facesse anche il presidente del Consiglio senza abbandonarsi a considerazioni temerarie e giudizi offensivi verso altri organi dello Stato. Da lui non ci aspettiamo certo che si trasformi in un istituzionale monsignor Della Casa, ma che ci risparmi lo spettacolo di certe uscite sì. La sentenza di mercoledì è la riprova che in Italia si è instaurato un perverso cortocircuito tra giustizia e politica. Tale cortocircuito, oltre a rappresentare un perenne potenziale d’instabilità, è destinato periodicamente a lacerare il Paese: tra chi pensa che esso sia provocato solo dalla presenza sulla scena politica di Silvio Berlusconi, e chi invece, come il sottoscritto, pensa che questa sia una faccia solamente della verità. Che l’altra faccia è costituita sia dai non infrequenti comportamenti abnormi di alcuni magistrati sia da un certo numero di regole sbagliate del nostro ordinamento giudiziario. Alla fine, però, una sentenza è solo una sentenza. Proprio la tormentata esperienza dell’ultimo quindicennio della nostra storia dovrebbe farci convinti di una cosa (e mi pare che di ciò anche l’opposizione oggi sembri convinta, con la solita esclusione della frangia folle dei dipietristi): e cioè che in una democrazia la legittimazione politica non si conquista e non si perde nelle aule di giustizia. Se si è adatti o inadatti a governare non si decide né nelle redazioni dei giornali né nei tribunali. Berlusconi governa perché ha vinto le elezioni, non per altro: perché la maggioranza legale dei votanti ha approvato il patto politico programmatico da lui proposto. Ma non è che allora il presidente del Consiglio possa dormire sonni tranquilli. Nel suo stesso elettorato sta crescendo l’impressione, infatti, che quel patto debba ancora essere davvero onorato. Partita con slancio, l’azione del governo è andata poi infiacchendosi. Molte, troppe riforme, attendono ancora di essere messe in cantiere. L’abolizione dell’Ici, il provvedimento sul reato di immigrazione clandestina, gli indirizzi in tema di politica dell’istruzione e della pubblica amministrazione, ma soprattutto la politica anticrisi di Tremonti, hanno rappresentato senz’altro dei punti di forza, così come è stata apprezzata la capacità del premier di fronte alle emergenze dell’immondizia a Napoli e del terremoto in Abruzzo. Ma gli elettori si aspettano di più, si aspettano un colpo d’ala, il grande rinnovamento che li aveva convinti diciotto mesi fa a votare per la destra. Questa dovrebbe essere la vera preoccupazione di Berlusconi: è al tribunale della politica, non a quello dei giudici, che alla fine egli dovrà rispondere.

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Se il paese finisce in un vicolo cieco
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2009, 10:34:25 am
IL CORTO CIRCUITO POLITICA-GIUSTIZIA


Se il paese finisce in un vicolo cieco

Tutto lascia credere — e aggiungo: spe­rare — che il prov­vedimento circa il cosiddetto «processo bre­ve » non andrà in porto. Ap­pare assai improbabile, in­fatti, che esso possa supera­re nell'ordine: le divisioni all'interno della stessa mag­gioranza, le presumibili e motivate obiezioni d'inco­stituzionalità da parte del presidente Napolitano o, al­la fine, il giudizio davanti al­la Consulta stessa. Manche­rà dunque il suo obiettivo l'ennesimo tentativo di escogitare qualcosa per consentire a Berlusconi di sfilarsi dal processo davan­ti al tribunale di Milano per corruzione in atti giudizia­ri. In questo caso immagi­nando, però, un legge trop­po smaccatamente ad per­sonam , troppo contraddit­toria, e troppo lesiva dell'at­tesa di giustizia da parte di tante parti lese, per sperare di avere l'approvazione an­che di quella parte dell'opi­nione pubblica non ostile per principio al presidente del Consiglio. Sul contenu­to del lodo Alfano si poteva ragionare, sulla proposta at­tualmente in discussione è impossibile.

Così tutto è destinato a restare come prima. Tutta la vita pubblica italiana è destinata a restare paraliz­zata chissà ancora per quan­to tempo dal corto circuito politica-giustizia. Certo, al­meno in teoria si può im­maginare, e magari anche sperare, che prima o poi Bersani e il suo Pd si muo­vano per cercare di disinne­scarlo, contribuendo a una seria riforma della giusti­zia. Senza dubbio si guada­gnerebbero entrambi un grande merito nei confron­ti del Paese, ma ci si può aspettare un simile corag­gio, al limite della temera­rietà, dal segretario appena eletto di un partito che at­traversa una situazione co­sì malcerta e difficile com'è quella che attraversa il Par­tito democratico odierno? Si può chiedere a Bersani — al Bersani neoeletto di oggi ma presumibilmente anche a quello di domani — di affrontare da un lato la canea che di sicuro gli lancerebbe contro all'istan­te il radicalismo giustiziali­sta di Di Pietro, e insieme, dall'altro, le rampogne, i sussiegosi richiami all'ordi­ne, che immediatamente, c'è da giurarci, gli giunge­rebbero dal Csm, dall'Anm, insomma dalla magistratu­ra? Le battaglie su due fron­ti erano cose che si poteva permettere la macchina da guerra del vecchio Pci, non la rete alquanto smagliata dei club «democratici».

Ho detto della magistra­tura. Essa costituisce obiet­tivamente il quarto lato del quadrilatero politico (gli al­tri tre sono il premier e il suo schieramento, il Pd, il variegato fronte giustiziali­sta) entro il quale si deve trovare la soluzione per di­sinnescare il corto circuito che paralizza l'Italia da quindici anni. Da quando cioè la peculiare vulnerabi­lità giudiziaria, chiamiamo­la così, di Silvio Berlusconi, ha reso la magistratura stes­sa, per l'appunto, un attore politico decisivo. Attenzio­ne: non sto accusando la magistratura di essere «po­liticizzata ». Sto dicendo un' altra cosa: poiché il sempli­ce fatto che il presidente del Consiglio sia raggiunto da un avviso di garanzia, in­quisito o addirittura porta­to in giudizio, poiché que­sto semplice fatto possiede un'indubbia e drammatica valenza politica, e poiché negli ultimi quindici anni è capitato che chi ha il pote­re di porre in essere un tale fatto, cioè la magistratura, lo ha posto in essere in un modo o in un altro oltre un centinaio di volte, è diffici­le negare, di conseguenza, che nell'Italia di oggi essa abbia pieno titolo ad essere considerata alla stregua di un attore politico vero e proprio.

Un attore politico di natura mol­to particolare, però: e qui sta il pro­blema. Si tratta infatti di un attore politico con il quale non è possibi­le fare ciò che invece solitamente si fa in un regime democratico tra gli attori politici normali, «fisiolo­gicamente » radicati nella sfera po­­litica: e cioè accordi e compromes­si. Si dà una cosa in cambio di un’altra. Ma riguardo l'ammasso di questioni che vanno sotto la ru­brica «corto circuito politica-giu­stizia » che cosa può dare o riceve­re la magistratura? E che cosa può mai chiedere? E' difficile perfino immaginarlo, così come per un al­tro verso è difficile immaginare chi mai potrebbe trattare a suo no­me, in quale sede e come.

Siamo qui al fondo del vicolo cie­co in cui si trova il Paese. Un’im­passe politica paralizzante che nes­sun protagonista è in grado di sbloccare senza l'accordo (peraltro impossibile) con tutti gli altri. E tanto meno è in grado di farlo quel­lo che è in un certo senso l'attore principale, la magistratura. La qua­le sconta in tale impossibilità la na­tura del ruolo assolutamente ambi­gua che essa si trova da anni a svol­gere: quello di un attore di fatto po­litico (e come!), che però non può esserlo davvero e fino in fondo.

All'amara conclusione che sem­bra imporsi, di una paralisi che non si sbloccherà, già mi pare di sentire l'obiezione di rito: «Tutto si sistemerebbe se Silvio Berlusco­ni accettasse di mettersi da parte facendosi processare, e accettasse tranquillamente (questo lo aggiun­go io) la condanna che prima o poi sicuramente lo colpirebbe». Obie­zione che ai miei occhi tradisce so­lo una straordinaria ingenuità cir­ca il modo in cui funzionano le co­se nelle società reali: pensare infat­ti che un capo politico di straordi­nario successo possa farsi mettere fuori gioco da un tribunale, senza combinare sfracelli pur sapendo di poter contare sul più che preve­dibile consenso della maggioranza dell'elettorato, pensare una cosa si­mile equivale a null'altro che a rac­contarsi una favola. Ma siccome le favole qui non servono, né servo­no i sermoni e le maledizioni, pre­pariamoci ad aggirarci ancora a lungo nel vicolo cieco in cui siamo finiti.

Ernesto Galli della Loggia

15 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Le sorprese del paese reale
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2009, 02:54:05 pm
DIETRO LE TENSIONI E LE RONDE (FALLITE)

Le sorprese del paese reale


La vicenda delle «ronde» rappre­senta uno di quei segni dei tempi che dicono la verità sull’Ita­lia di oggi più di mille ana­lisi sofisticate. La verità di Paese politicamente nevro­tizzato, dove la politica è sempre più spesso impe­gnata a discutere con fero­cia sul nulla, un Paese che il discorso pubblico dipin­ge troppo spesso quale es­so in realtà è ben lungi dal­l’essere.

Le «ronde», ricordate? Per settimane e settimane la Destra, la Lega in modo particolare, ne hanno recla­mato l’istituzione descri­vendo una popolazione an­siosa di provvedere da sola alla propria sicurezza per­ché in preda alla paura, in­sidiata giorno e notte da delinquenti e immigrati malvagi, ma abbandonata a se stessa da polizia e cara­binieri sopraffatti da una malavita soverchiante. Da qui, appunto, la necessità delle «ronde». Ma armate o disarmate? Con lo sfolla­gente o con lo spray al pe­peroncino? Con i cani o senza? Con divisa e stem­mi o senza? Da qui, anco­ra, discussioni a non fini­re, vertici di governo, com­promessi faticosi subito mandati all’aria, mentre dall’altra parte la Sinistra lanciava grida di allarme sullo squadrismo alle por­te, la fine della legalità, la «manipolazione securita­ria ».

Alla fine, come Dio vuo­le, si arriva alla legge che istituisce le benedette «ronde», sia pure abba­stanza depotenziate rispet­to ai propositi iniziali, e che accade a questo pun­to? Nulla, semplicemente nulla. Ci si accorge cioè che agli italiani, anche a quelli di Destra, di fare i «rondisti» non gliene im­porta nulla. Che anziché passare le serate a perlu­strare il centro di Paderno Dugnano o le vie di Valda­gno preferiscono guardare le televisioni o farsi la soli­ta pizza. Al massimo — ma solo in quelle periferie dove serve, come a Milano — sono pronti a impegnar­si in un civilissimo «con­trollo del vicinato», come si chiama, senza tanti pro­clami e norme inutili. In­somma, trascorsi ormai al­cuni mesi, il numero delle richieste di «ronde» perve­nute al ministero degli In­terni pare che non superi più o meno il numero del­le dita di due mani. Si dice addirittura che in tutto sia­no tre.

La conclusione appare inevitabile: evidentemente il Paese reale non era affat­to quella pentola in ebolli­zione, quel ricettacolo di rabbia e di passioni che a qualcuno piaceva immagi­nare. Non lo era e non lo è, se è vero che con la crisi e la disoccupazione che im­perversano la manifestazio­ne più eclatante di disagio sociale sono stati alcuni operai saliti in cima ad una gru. L’Italia di oggi, in­somma, è una società che per la sua grandissima maggioranza ragiona e sa mantenere la testa a posto. È un Paese capace di giudi­care, che preferisce qual­che proposta concreta ai torrenti di parole. E che dunque non sa che farsene delle cose che invece quoti­dianamente gli propone un mondo politico, il qua­le si sta sempre più abi­tuando a cercare nella ris­sa e nell’insulto il compen­so alla sua mancanza di idee e di programmi. Da tempo, in Italia, lo scontro politico serve puramente o a colpire l’avversario o ad almanaccare nuovi fanta­stici progetti di schiera­mento; e nel frattempo a coprire il nulla. Ed è sem­pre per questo, se è per­messo dirlo, che quello che gli «arrabbiati» di tut­te le parti chiamano con di­sdegno il «terzismo», in Italia non è altro che auten­tica intelligenza delle cose. E quasi sempre, aggiungia­mo pure, carità di patria.

Ernesto Galli Della Loggia

27 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il rinnegato Bersani
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2009, 11:23:07 am
 LE GIUSTE RAGIONI DEL NO ALLA PIAZZA

Il rinnegato Bersani


Ha fatto benissi­mo il segretario del Pd Pier Lui­gi Bersani a te­nere il suo partito, alme­no ufficialmente, lontano dalla manifestazione del «No B-day». Quella che si è conclusa sabato a San Giovanni, infatti, non è stata «la rivoluzione vio­la », «l'ingresso ufficiale della politica nell'era di in­ternet », «un miracolo ita­liano », «un giorno che ha cambiato la storia», «la fi­ne decretata della secon­da repubblica» come si è subito proclamato con l'abituale sobrietà dalle co­lonne di Repubblica . In una democrazia che sia minimamente tale cortei e comizi oceanici non cambiano mai realmente il quadro politico. Un an­no fa, per esempio, Veltro­ni radunò al Circo Massi­mo almeno il doppio dei manifestanti di domeni­ca: e cosa è cambiato? Nul­la. Sei mesi dopo, anzi, do­vette dimettersi. Comizi e raduni sono al più un segnale. Ma nel nostro caso il «No B-day» non indica uno di quei sommovimenti epocali che a partire dal '68 ci ven­gono regolarmente an­nunciati ogni sei mesi, tut­te le volte che qualche fol­la, specie se giovanile, si fa una passeggiata per le vie di Roma e che poi al­trettanto regolarmente non avvengono mai. Se­gnala solo il principale problema politico del Par­tito democratico: quello di riuscire a difendere e affermare una propria au­tonoma identità e dun­que una propria linea. Un problema che il Pd si tira dietro da quando è nato, ma per risolvere il quale — si deve essere giusta­mente detto Bersani — la via migliore non può esse­re certo quella di aderire a una manifestazione che, seppure spontanea, ha però assunto da subito le forme e i contenuti del radicalismo giustizialista dell’Italia dei Valori. Vale a dire di un altro partito, diverso dal Pd e in un senso profondo suo con­corrente.

I termini della questio­ne sono semplicissimi: se vuole vincere le elezioni il Pd deve conquistare alme­no una parte dell'elettora­to di centro; ma poiché è ovvio che questo elettora­to rifiuta in genere ogni massimalismo, ne conse­gue che anche il Pd deve fare altrettanto. Può farlo, però, solo se marca la pro­pria distanza da Di Pietro, se sottolinea la propria de­cisa avversione verso l'an­tiberlusconismo parossi­stico dell'ex pm, verso la sua idea che il codice pe­nale e i tribunali siano l'al­fa e l'omega di ogni oppo­sizione. In tutti gli altri Pa­esi avviene così senza pro­blemi: in Germania, per esempio, l'Spd è aperto av­versario della Linke (ci fa talvolta degli accordi di governo locale, ma è tut­t’altra questione), in Fran­cia i socialisti non aderi­scono certo alle manife­stazioni dei vari partiti della sinistra trotzkista. Perché solo in Italia, inve­ce, sembra che non possa accadere lo stesso?

La risposta è che nell'in­finita transizione apertasi a sinistra con il crollo del comunismo, con la fine del Pci e con le sue succes­sive trasformazioni in Pds, Ds e ora Pd, l'elettora­to di quella parte ha visto progressivamente disgre­garsi qualunque profilo identitario realmente strutturato nel quale rico­noscersi.Oltre la naturale vischiosità del passato e la nostalgia autobiografica gli è rimasto solo un insieme di principi — costretti peraltro a mantenersi sul vago, troppo sul vago, per la loro difficile traducibilità nell’Italia del grande ceto medio, per giunta paralizzata da un debito pubblico e da una pressione fiscale smisurati, nonché alle prese con la globalizzazione —; oltre a questi vaghi principi è rimasto soprattutto quello che può definirsi «l’opposizionismo». Cioè la volontà di essere comunque contro, l’idea che ogni compromesso è un «inciucio», ogni minimo accordo uno sporcarsi le mani, che i «nostri» interessi sono sempre legittimi mentre i «loro» mai perché in sostanza «noi» siamo il bene e «loro» il male. Dall’«opposizionismo» al radicalismo massimalistico il passo è brevissimo, come si vede.

Il punto cruciale è che quando c’era il Partito comunista almeno due fattori impedivano che tale passo fosse compiuto. Il primo consisteva nel fatto che «loro», gli avversari, erano essenzialmente i cattolici, la Democrazia cristiana, e non era proprio tanto facile dipingere gli uni e l’altra come rappresentanti di un male assoluto: non da ultimo perché in tal modo il «dialogo» con loro sarebbe tra l’altro diventato impossibile. Il secondo fattore era la tradizione comunista plasmata dal leninismo. Una tradizione fatta di diffidenza profonda verso ogni massimalismo che si presentasse come più «radicale», più «coerente»: una tradizione capace di avvalersi dell’estremismo, anche di coltivarlo magari, ma ancora più capace di combatterlo ricorrendo anche ai mezzi più spietati per togliergli qualunque spazio di agibilità politica. Venute meno la tradizione comunista e la sua prassi, è sopravvissuto solo l’«opposizionismo» che ha finito in modo naturale per prendere sempre più spesso, e alla fine in modo abituale, le vesti del massimalismo, minacciando di diventare il vero e unico carattere identitario del popolo di sinistra, a cominciare da quello «democratico».

Che l’avversario ora non fosse più la Dc bensì un personaggio come Berlusconi con tutto il carico delle sue gravi, oggettive, «anomalie» è stato certo importante, ma assai di più secondo me ha pesato altro. Da un lato ha contato l’incapacità del Pd di dare una spiegazione vera e plausibile della fine ambigua della Prima Repubblica, nonché delle ragioni, legate intimamente a quella fine, che sole spiegano la comparsa e il successo dello stesso Berlusconi. Dall’altro il vuoto di programmi veri e di proposte politiche precise, di alleanze strategiche convincenti, di lotte sociali vaste, che il nuovo partito non è riuscito a colmare, finendo così per lasciar sussistere solo «l’opposizionismo» massimalista che lo trascina fatalmente nell’abbraccio stritolante di Di Pietro. A mantenere in vita tale «opposizionismo» contribuisce, per finire, lo spregiudicato uso di sponda che ne fa ai vertici del Pd chiunque intenda far capire di non condividere interamente la leadership ufficiale o voglia comunque mostrare di essere qualcosa di diverso, voglia conservare una propria immagine distinta. Il segretario cerca di opporsi al massimalismo? Di costruire un’opposizione più ragionata?

Bersani non va al «No B-day»? Ed ecco allora che Bindi, Franceschini e gli altri oligarchi, perfino Veltroni, si precipitano immediatamente per far vedere che no, perbacco!, loro invece ci vanno, loro sì che sono contro: loro per fortuna esistono e lottano per la nostra democrazia insieme a Marco Travaglio e Antonio Di Pietro.

Ernesto Galli della Loggia

07 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. Due o tre cose di buon senso
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2009, 04:41:36 pm
Due o tre cose di buon senso


Prima di stabilire per il futuro nuove regole del gioco, di varare riforme costituzionali, di inaugurare un clima di generale concordia, si può sperare che — non domani o dopodomani ma oggi, subito— gli attori della scena politica italiana convengano almeno su un paio di cose da evitare con la massima cura? Possiamo sperare in un paio di misure d’emergenza da adottare immediatamente nella discussione pubblica?
Le più urgenti ci sembrano le seguenti.

Primo: evitare che lo scontro si polarizzi ossessivamente intorno alle persone, ai nomi e ai cognomi, alle facce. Non ci si venga a dire che la democrazia ormai è questa, dunque non c’è nulla da fare, e che comunque sono «gli altri» che hanno cominciato. Certo: è consegnato alle cronache che sulla figura del presidente del Consiglio è stata montata nei mesi scorsi una campagna di ostilità politica e di disprezzo antropologico dai toni violentissimi, così come è sotto gli occhi di tutti la penosa incapacità della Rai, a dispetto del suo statuto pubblico, di assicurare un’informazione sobria ed equilibrata, degna di un Paese civile. Ma un discorso come quello dell’onorevole Cicchitto, avventuratosi sulla sempre insidiosissima strada dei «mandanti morali», dei «complici oggettivi» e della lista nominativa dei cattivi da additare alla pubblica riprovazione è forse fatto per spezzare la spirale dell’aggressività, dei pericoli di violenza, o viceversa per alimentarla? Che si possa pensare che «senza Marco Travaglio ci sarebbe molto buio sulla storia italiana che si sta facendo in questi anni» — come è arrivata a scrivere Barbara Spinelli sulle colonne del Fatto — ci sembra solo ridicolo. Ma egualmente ridicolo — oltre che lesivo della libertà di stampa, nel momento in cui lo si attacca dalla tribuna parlamentare — considerare il suddetto Travaglio una sorta di Lucifero della carta stampata capace di chissà quali devastazioni.

La seconda misura d’emergenza: evitare la pigrizia intellettuale. La storia non si ripete mai due volte: sarebbe bene che anche i giornali evitassero di scrivere il medesimo articolo scritto qualche anno o qualche decennio fa. E invece proprio alla tentazione di questa facile pigrizia hanno ceduto molti quotidiani commentando ieri l’attentato alla Bocconi. La «bomba» ha subito scatenato l’attualizzazione degli anni Settanta, la voluttà del già noto e del già detto. Ecco così riaffacciarsi puntualmente da un lato la minaccia del terrorismo rosso, del risveglio sovversivo, il fantasma dell’attacco alle istituzioni, e dall’altro le insinuazioni sulle «strane coincidenze», la «sigla misteriosa», la «rivendicazione ambigua» e chi più ne ha più ne metta. Il tutto naturalmente, in questo caso, per richiamare in vita l’evergreen assoluto del retroscenismo nazionale: l’immortale «strategia della tensione».

Ma prima di fare appello alla «maggioranza silenziosa» o di chiamare alla mobilitazione antifascista, non sarebbe consigliabile fermarsi un attimo e cercare di farsi contagiare da un minimo di ragionevolezza?

Ernesto Galli della Loggia

18 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Parole vuote e un po' ipocrite
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2009, 09:55:49 am
FILM, TRENI, RIFLESSI DI UN PAESE

Parole vuote e un po' ipocrite


E’ uno strano Paese l’Italia: sarà banale dirlo ma è quasi impossibile non farlo. Un Paese per vocazione schizofrenico: dove è la regola fare d’ogni erba un fascio e dove però l’arte cavillosa del distinguo raggiunge vette sublimi; la patria del qui lo dico e qui lo nego (o perlomeno lo smentisco), delle apparenze che ingannano. Un Paese schizofrenico, appunto. E di conseguenza votato all’ipocrisia. Ipocrisia che si manifesta tra tanti altri ambiti anche nell’atteggiamento rispetto alla lingua, all’uso delle parole. E al tempo stesso nel modo di reagire alle parole altrui, al linguaggio che ci tocca ascoltare. Ovvero, di non reagire. Come ad esempio nessuno ha fin qui reagito pubblicamente, salvo un paio di critici cinematografici — all’ondata di doppi sensi osceni e di turpiloquio che in questi giorni si rovescia ad ogni scena sugli spettatori di «Natale a Beverly Hills». Mi domando se esistano altri Paesi in cui, non un filmetto qualsiasi, ma la pellicola che si prevede come la più vista dell’anno, consista in pratica in una serie ininterrotta di volgarità condite di parolacce: una specie di lunga scritta oscena sulla parete del cesso d’una stazione. Ma l’Italia è evidentemente fatta così. Anche questo è il Paese reale, la sua cultura, le sue pulsioni profonde. Ancor più la dice lunga il fatto che un simile film abbia incredibilmente ottenuto dalle competenti autorità ministeriali (come ha raccontato Paolo Mereghetti sul Corriere) la qualifica di film «d’interesse culturale e nazionale», e dunque il diritto ai relativi benefici economici. Alla suddetta cultura nazionale, bisogna credere, il linguaggio crudo non dispiace.

Il parlare diretto, anche a costo di cadere nello scurrile, lo sente congeniale. Non sempre, però. Infatti, se a parlare fuori dai denti è per caso qualcuno che lo fa contro l’opinione in quel momento prevalente, osando rompere la glassa capziosa dell’eloquio ufficiale, allora apriti cielo. Allora, invece, tutti a dire «ma questo come si permette? », «ma che linguaggio è questo?». Come sta per l’appunto capitando in queste ore all’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, l’ingegnere Mauro Moretti. Una persona che s’indovina competente. Che al pari di tanti uomini e donne dell’industria, dell’intraprendere, del fare, conosce ciò di cui parla e non è abituato a indorare la pillola. E quindi, per esempio, non esita a dire al governatore del Piemonte che se vuole fare viaggiare meglio i pendolari farebbe meglio a investire in nuovi vagoni anziché spendere soldi per una nuova sede della Regione; che una bella nevicata non costituisce proprio il clima più adatto per inaugurare una linea ad alta velocità, o che nelle condizioni di forte maltempo le ferrovie italiane dopotutto non se la sono cavata peggio delle altre. Che addirittura si permette di osservare che, se viene meno l’elettricità, i treni inevitabilmente si fermano e restano al gelo, sicché conviene portarsi dietro un bel maglione e qualcosa da mangiare. Lo farà anche per difendersi, forse un po’ aggiustando le cose, non discuto, perché disagi ci sono stati e non indifferenti, ma tra le parolacce da un lato, e dall’altro le parole vuote di tanti personaggi passati e presenti della scena pubblica italiana, il parlare chiaro dell’ingegner Moretti, lasciatemelo dire, mi suona come una melodia.

Ernesto Galli Della Loggia

24 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il candidato forestiero
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2010, 03:58:32 pm
Il candidato forestiero


Al di là di tutte le ovvie differenze sta affiorando in questi giorni un’evidente analogia tra il Partito democratico e il Popolo della libertà. Si tratta della scarsissima sovranità che sia l’uno che l’altro riescono ad esercitare nei confronti delle proprie componenti interne e dei rispettivi alleati (non importa se di lunga data o potenziali), come per l’appunto dimostrano le candidature appena decise o che proprio ora si vanno decidendo per le prossime elezioni regionali.

Cominciamo dal Pdl. Come è noto, la sua roccaforte elettorale è l’Italia settentrionale. Ebbene chi sono qui i suoi candidati? In Piemonte il leghista Cota; in Veneto un altro leghista, Zaia; in Lombardia, infine, Roberto Formigoni, apparentemente pdl ma nella sostanza emanazione diretta di Comunione e Liberazione e da anni, per così dire, solo «in prestito» al Pdl. Discorso in buona parte analogo vale per il Lazio dove la destra ha dovuto candidare Renata Polverini, ottima persona che però più che un’iscritta del Pdl è, di fatto, una seguace personale di Gianfranco Fini il quale, a propria volta, può essere ormai considerato anche lui un alleato esterno di quel partito. In sostanza al Pdl in quanto tale sembrano restate solo le candidature, oltre che dell’ «incerta» Liguria e delle «impossibili» regioni del Centro quelle, di certo non tradizionalmente sue, del Mezzogiorno continentale.

Ancora peggio sembra messo il Partito democratico. Se la farsa pugliese, infatti, ha mostrato la paralisi di guida politica che lo caratterizza, la vicenda della candidatura Bonino nel Lazio ha indicato qualcosa di ancora più grave. E cioè che proprio in un’elezione cruciale il Pd rischia di essere costretto ad accettare come candidato una persona, anch’essa degnissima per carità, ma che gli è stata virtualmente imposta dall’esterno senza neppure uno straccio di accordo preventivo.

Tutte queste anomalie indicano almeno tre cose importanti:
1) Che oggi più che mai i due partiti maggiori esercitano in realtà una ben scarsa egemonia sui rispettivi poli; che la marcia dal bipolarismo al bipartitismo è interrotta da tempo, e che, aggiungo, l’idea che si possano realizzare in queste condizioni delle riforme costituzionali si rivela estremamente ottimistica.

2) Che tutto ciò accade perché tanto a destra che a sinistra i rispettivi, chiamiamoli così, condòmini di polo sono riusciti a costruirsi un’identità assai più forte dei partiti maggiori, venendo a esercitare in tal modo una forte attrazione sull’elettorato comune. Questo processo, che finora riguardava solo la sinistra, comincia adesso a interessare anche la destra, dove la Lega sembra progressivamente acquistare credibilità a scapito del Pdl.

3) Che infine, come causa ed effetto delle cose anzidette, sia Pdl che Pd continuano a soffrire di una forte mancanza di un proprio specifico personale politico. Vale a dire: in un caso, di un personale indipendente dall’esclusivo benvolere di Berlusconi, nell’altro di dirigenti slegati dalle provenienze correntizie attuali o pregresse. Con la conseguenza che, quando ci sono le elezioni, il personale politico del primo caso non ha in genere alle proprie spalle alcun combattivo seguito elettorale; quelli del secondo, invece, ce ne hanno sì uno combattivo, ma pure troppo e che somiglia più che altro ad una fazione schierata contro i propri compagni di partito.


Ernesto Galli della Loggia

10 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Presidenzialismo all’italiana
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2010, 08:32:31 pm
I CONSIGLI REGIONALI SVUOTATI

Presidenzialismo all’italiana

Il 28 e 29 marzo gli italiani andranno a votare per eleggere, insieme ai «governatori» delle 15 regioni interessate, altrettante assemblee la cui utilità è da considerare in pratica eguale a zero: i consigli regionali. I quali, peraltro, come si sa, consistono di parecchie centinaia di persone, tutte lautamente (talvolta favolosamente) retribuite, tutte dotate dei benefici del caso (portaborse, studio, facilitazioni postali e telefoniche, ecc. ecc.), e tutte naturalmente ansiose di accaparrarsi incarichi e prebende, di accrescere la propria influenza politica in vista di futuri traguardi. Le eccezioni non mancano, certo, ma in generale il quadro è questo.

Perché i consigli regionali sono assolutamente inutili? Per la stessa ragione per cui sono inutili i consigli comunali e provinciali. Perché l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (governatore, sindaco o presidente che sia)— la quale, si noti, avviene in perfetta coincidenza cronologica con l’elezione del consiglio (regionale, comunale o provinciale che sia)—grazie al meccanismo del cosiddetto «listino » o altro analogo (per esempio un premio di maggioranza) di fatto produce la costante coincidenza di colore politico tra esecutivo stesso e maggioranza dell’assemblea. È come se negli Stati Uniti il presidente e il Congresso fossero eletti contemporaneamente e il presidente e la maggioranza del Congresso fossero sempre dello stesso orientamento politico.

La conseguenza è, naturalmente, che i Consigli, eletti per una parte significativa al traino del rispettivo esecutivo, non hanno alcuna autonomia rispetto ad esso, non contano nulla, approvano ad occhi chiusi qualunque deliberazione esso gli sottoponga, e quindi possono ambire a farne parte solo sfaccendati o personale politico di terz’ordine in attesa di migliore sistemazione.

Ma in questo modo, contribuendo a dare vita a un sistema del genere e riconoscendovisi, quel mondo politico italiano che pure in maggioranza si dice ostile al presidenzialismo perché afferma di temerne i possibili risvolti autoritari, e l’opinione pubblica che è d’accordo con lui sono riusciti nell’impresa di realizzare in quindici regioni d’Italia il presidenzialismo più autoritario che ci sia perché sottratto a qualsiasi controllo, a qualsiasi sistema di «freni e contrappesi ». Infatti, nel modello presidenzialistico che oggi caratterizza il governo di tutti nostri enti locali, la principale vittima è la divisione dei poteri: proprio quella divisione dei poteri che invece nel presidenzialismo vero (come quello americano, appunto) trova la sua più coerente applicazione.

Grazie invece alla sovrapposizione dei due momenti elettorali e al geniale espediente della «clausola di governabilità », che si esprime per l’appunto nel «listino » o nel premio di maggioranza, noi abbiamo inventato un vero e proprio presidenzialismo blindato. Nel quale è solo l’esecutivo che conta, è solo l’esecutivo che assomma in sé tutti i poteri, mentre il potere legislativo dei Consigli, virtualmente eletti come sue semplici appendici, resta un finto potere privo di qualunque efficacia. E infatti in quindici anni non si ricorda neppure un caso in cui un consiglio regionale, comunale o provinciale, abbia dato il minimo fastidio di qualunque tipo al suo presidente-padrone. Senza che la cosa, peraltro, abbia richiamato l’attenzione e la denuncia di nessuno dei tanti guardiani della «democrazia » e delle «regole» che sono in circolazione.

Ernesto Galli Della Loggia

19 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Oligarchi di periferia (da manipolatore della realtà)
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2010, 09:46:31 am
Oligarchi di periferia


Dopo Marrazzo, Delbono: nel giro di pochi mesi è il secondo importante amministratore locale eletto sotto le bandiere del Pd costretto a lasciare il proprio incarico per questioni in cui sesso e soldi si mischiano confusamente.

E a questo punto è fin troppo ovvio osservare come per la sinistra diventi sempre più difficile sostenere la pretesa di incarnare una sorta di superiorità morale rispetto alla destra, un Paese diverso e migliore, l’«altra» Italia come si diceva qualche tempo fa. Piaccia o meno, infatti, d'Italia ce n'è una sola.

Ed è bene partire dall'assunto che in essa luci ed ombre sono più o meno equamente distribuite tra tutte le varie parti politiche, anche se ciò non c'impedisce di riconoscere che la sinistra, insistendo pure questa volta per le dimissioni immediate del suo esponente, ha mostrato una sensibilità istituzionale e un'attenzione al giudizio dell'opinione pubblica che la destra, invece, quasi mai mostra. Ma Delbono non viene solo dopo Marrazzo. Viene anche immediatamente dopo Vendola, e ci parla dunque pure di altre cose. Per esempio della forte disarticolazione che nella periferia sta colpendo la sinistra, la quale, nelle varie città e regioni della penisola, va progressivamente autonomizzandosi dal centro, in un insieme di processi che stanno conducendo virtualmente alla scomparsa di un vero organismo politico nazionale.

Diluita ogni possibile identità nel confluire di tre o quattro culture politiche diverse, il Partito democratico vede sempre di più il fiorire dappertutto di candidati «improvvisati», accettati obtorto collo, estranei alla sua linea e alla sua più antica storia, ovvero inamovibili per decisione propria, i quali ora diventano molto spesso, nelle periferie cittadine e regionali, i padroni di fatto del partito e del suo elettorato. Nichi Vendola rappresenta la versione pugliese, carismatica, di questo fenomeno. L'altra versione è quella oligarchica bolognese (a metà strada tra le due si collocano le esperienze di Bonino nel Lazio e Bassolino in Campania). Qui, a Bologna, il potere politico-culturale cittadino, fino al '94 articolato in un polo cattolico- liberale e in un altro comunista, in feconda dialettica tra loro, si è riunificato sotto l'insegna del «prodismo», dando luogo ad una vischiosa «palude» notabilare che tutto ingloba e domina, e che può permettersi di designare come sindaco uno scialbo professorino come Delbono.

La cui piccola corruzione, se esiste, è stata per l'appunto, come del resto quella di Marrazzo, la corruzione di un dipendente, beneficato politicamente, colpevole di non aver capito che tra i privilegi che l'oligarchia gli concedeva senza alcun suo merito non c'era quello di usare i soldi pubblici per portarsi la fidanzata in Messico. La fine della Democrazia cristiana e del Partito comunista, e con loro dei partiti politici che dal 1945 hanno tenuto insieme il Paese, sembra così ormai vicina al suo esito ultimo: alla disarticolazione del sistema politico nazionale in tanti sottosistemi periferici.

Disarticolazione che colpisce molto di più la sinistra perché a destra, la leadership di Berlusconi, forte delle sue incomparabili risorse mediatiche e finanziarie, mostra una tenuta centripeta che almeno per ora regge.

Ernesto Galli Della Loggia

26 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA IL RISORGIMENTO SOTTO PROCESSO
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2010, 10:00:49 am
IL RISORGIMENTO SOTTO PROCESSO

L'unità d'Italia e i suoi nemici

Proprio alla vigilia del 150esimo anniversario dell'Unità, il Risorgimento è sotto processo. Non è solo La Padania. Sono decine e decine di pubblicazioni, articoli, libri e libercoli, che ormai da anni (ma con ritmo accelerato negli ultimi tempi) stanno cambiando l'immagine di quel nodo di eventi. «Quella tangente di Mazzini inaugura il malcostume di un'Italia disonesta », «Carlo Alberto sciupafemmine, traditore e indeciso a tutto», «Perché la Liguria non appartiene all'Italia », «L'invenzione delle camicie rosse», «Da capitale estense a provincia sarda», «Complotto massonico- protestante contro la Chiesa», «I Savoia e il massacro del Sud», «Un popolo alla deriva»: è solo un piccolo campionario di titoli (di capitoli, di volumi, di articoli) che però serve a dare un'idea di che cosa stiamo parlando.

Intendiamoci: la critica al Risorgimento ha una lunga tradizione. Cominciò nel momento stesso in cui fu proclamato il Regno d'Italia, nel 1861, per voce di coloro che si erano battuti per un altro esito, diverso da quello rappresentato dalla monarchia cavouriana. Da allora in poi quella critica ha occupato un posto centrale nel discorso pubblico del Paese. Non a caso tutte le culture politiche dell'Italia del Novecento, dal socialismo al nazionalfascismo, al cattolicesimo politico, all'azionismo, al comunismo gramsciano, si sono fondate per l'appunto su una visione a dir poco problematica del modo in cui era nata l'Italia. Basta ricordare i nomi di alcuni loro fondatori: Oriani, Sturzo, Gobetti, Gramsci. Ma attenzione: questa critica, sebbene spesso assai aspra, ha sempre osservato un limite. E cioè si è sempre ben guardata dal divenire una critica all'unità in quanto tale, non ha mai ceduto alla tentazione di mettere in dubbio il carattere positivo dell'esistenza dello Stato nazionale.

E' su questo punto che invece si sta consumando una rottura decisiva. Va costituendosi negli ultimi anni, infatti, un vero e proprio fronte antirisorgimentale e insieme antiunitario che nasce dalla saldatura di tre segmenti: un segmento settentrionale d'ispirazione leghista, un secondo segmento, rappresentato da nazionalisti meridionali innestati su un variegatissimo arco ideologico che va dai tradizionalisti neoborbonici agli ultrà paleomarxisti, e infine un segmento di cattolici che potremmo definire guelfo- temporalisti. Tutti si fanno forti di una ricostruzione del passato che dire approssimativa è dire poco: di volta in volta tagliata con la motosega o persa nei pettegolezzi minuti «dal buco della serratura». Nella quale, comunque, dominano i modelli interpretativi presi a prestito dall'Italia di oggi: quello del giustizialismo più grossolano («Chi c'ha guadagnato», «chi ha rubato », «chi ha pagato») e il complottismo maniacale che vede massoni e «misteri » dappertutto.

L'Unità d'Italia diviene così un racconto a metà tra Mani pulite, la P2, e la strage di Ustica «come non ve l'hanno mai raccontata prima ». Ridicolo, ma per molti convincente, dal momento che quel racconto riempie il vuoto che si è determinato da decenni nel nostro discorso pubblico dopo che esso ha espulso da sé, e ormai perfino dal circuito scolastico, ogni autentica e viva narrazione del Risorgimento.

A riprendere la quale non basterà certo il patetico brancolare nel buio del governo attuale, che sembra considerare l'anniversario dell'Unità più che altro come la classica tegola cadutagli sulla testa.

Ernesto Galli della Loggia

07 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La corruzione e le sue radici
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2010, 09:14:56 am
La corruzione e le sue radici


Si accontenti chi vuole di credere che «il problema è politico» e riguardi quindi la destra e la sinistra. Sì, questa volta a essere presi con le mani nel sacco sono stati esponenti del Pdl, ma in passato la stessa cosa è accaduta con esponenti del Pd: ma anche dando per scontato che le imputazioni a loro carico siano domani convalidate da una sentenza, davvero la corruzione italiana si riduce a quella dei politici? Davvero in questo Paese la sfera della politica è malata e il resto della società è sano? Non è così, con ogni evidenza. Ognuno di noi sa bene che non è così, e non bisogna smettere di dirlo, anche se i soliti moralisti di professione grideranno scandalizzati che in questo modo si finirebbe per occultare «le precise responsabilità politiche». Ma figuriamoci: cosa volete mai che si occulti, con tutta la stampa ormai scatenata dietro Monica e Francesca, dietro Bertolaso, Balducci, e compagnia bella?

Proprio perché non ha alcuna natura propriamente politica ma affonda radici profondissime nel corpo sociale - cosicché nella politica essa si riversa soltanto, essendo uno degli ambiti dove più facile è la sua opera - la corruzione italiana sfugge a ogni facile terapia. Come si è visto quando, convinti per l’appunto del suo carattere politico, abbiamo creduto che almeno per ridurne la portata bastasse mutare il sistema elettorale, o fare le privatizzazioni, o cambiare la legge sugli appalti, o finanziare i partiti in altro modo dal finanziamento diretto; o che l’esempio di «Mani pulite», di cui proprio oggi è paradossalmente il 18mo anniversario, potesse segnare una svolta. Invece è stato tutto inutile. La corruzione italiana appare invincibile. Rinasce di continuo perché in realtà non muore mai, dal momento che a mantenerla viva ci pensa l’enorme serbatoio del Paese. La verità, infatti, è che è l’Italia la causa della corruzione italiana: lo si può dire senza rischiare l’accusa di lesa maestà? Chi si ostina a credere che «il problema è politico», che tutto si riduca a destra e sinistra, lo sa che le tangenti continuano a girare vorticosamente anche nel privato: che dappertutto qui da noi, quando ci sono soldi in ballo, non si dà e non si fa niente per niente?

Lo sa che i concorsi più vari (non solo le gare d’appalto!) sono sempre, in misura maggiore o minore, manipolati? Riservati agli amici e ai protetti quando non direttamente truccati in un modo o nell’altro dai concorrenti con la complicità delle commissioni, e il tutto naturalmente in barba a ogni credo politico? E che colore politico pensa che abbia l’evasione fiscale dilagante? O i tentativi a cui si dedicano incessantemente milioni di italiani di violare i regolamenti urbanistici ed edilizi in tutti i modi possibili e immaginabili (spessissimo riuscendoci grazie all’esborso di mazzette)? E a quale schieramento politico addebitare, mi chiedo, il sistematico taglieggio che da noi viene praticato da quasi tutti coloro che offrono una merce o un servizio al pubblico, come le società autostradali, quelle di assicurazione, le compagnie telefoniche, le compagnie petrolifere, quelle aeree, le banche, le quali tutte possono a loro piacere fissare tariffe esagerate, imporre contratti truffaldini, balzelli supplementari, clausole capestro, sicure dell’impunità? Sì lo so, tecnicamente forse non è corruzione. Ma so pure che in molti altri Paesi comportamenti del genere sono severamente sanzionati anche sul piano penale. Da noi no, sono considerati normali. Perché?

La risposta è nella nostra storia profonda, nei suoi tratti negativi che i grandi ingegni italiani hanno sempre denunciato: poca legalità, assenza di Stato, molto individualismo anarchico, troppa famiglia, e via enumerando. Perciò l'Italia è apparsa tante volte un Paese bellissimo ma a suo modo terribile. E lo appare ancor di più oggi, dopo aver perso anche gli ultimi pezzi delle sue fedi e dei suoi usi antichi. Più terribile e incarognito che mai. Più corrotto. Spesso queste cose le capisce per prima l'arte, e in particolare il cinema, il nostro cinema, a cui tanto deve la conoscenza di ciò che è stata ed è l'Italia vera. Quell'Italia vera che riempie, ad esempio, le immagini dell'ultimo film di Pupi Avati, Il fratello più piccolo, in arrivo proprio in questi giorni nelle sale cinematografiche. Un ritratto spietato di che cosa è diventato questo Paese: una società dove gli unici «buoni» sembra non possano che essere dei disadattati senz’arte né parte; dove, nell'ultima scena, dal volto pur devastato e ormai annichilito di un grandissimo De Sica, ladro e canaglia ridotto all'ozio forzato su un terrazzino di periferia, non cessa tuttavia di balenare il guizzo di un’inestinguibile mascalzonaggine. È di una lucida resa dei conti del genere che abbiamo bisogno; di guardare a fondo dentro di noi e dentro la nostra storia. Non di credere, o di fingere di credere, che cambiare governo serva a cambiare tutto e a diventare onesti.

Ernesto Galli della Loggia

17 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il dibattito sulle radici della corruzione
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2010, 05:43:11 pm
Il dibattito sulle radici della corruzione

L'Italia ipocrita e quelle domande alle quali non si vuole rispondere


Di chi può mai essere la colpa della corruzione italiana se non della politica? Di chi se non dei politici - beninteso di quelli per cui votano gli “altri”? Si mettano dunque l’una e gli altri sul banco degli accusati per la meritata, inevitabile condanna. Così la pensano oggi moltissimi italiani i quali non vogliono sentirsi dire che la corruzione di questo Paese - anche quella pubblica - è invece qualcosa che viene dal profondo, che rimanda alla storia vischiosa, oltre che del nostro Stato, della nostra società; ai suoi meccanismi e vizi inveterati. No, guai a dirlo: si è subito sospettati di voler cancellare le responsabilità individuali, di voler “salvare i ladri”. Che c’entriamo noi con la corruzione? La colpa è solo della politica.

In questo modo sta per ricominciare oggi il circolo perverso avviatosi nel ’92-’93. Infatti, se si mettono così le cose è fatale che agli occhi dell’opinione pubblica l’immagine di tutta la politica e di tutti i politici ne esca complessivamente a pezzi. Con l’ovvia conseguenza, che più ciò accadrà e più solo i mediocri o gli spregiudicati accetteranno di entrare nell’arena pubblica, e che quindi, alla fine, la politica risulterà ancora di più inetta e/o corrotta, accrescendo ulteriormente la sfiducia e la disistima generali. Sta per ricominciare alla grande, insomma, il meccanismo implacabile dell’antipolitica. Il meccanismo che si mise in moto all’epoca di “Mani pulite” e i cui risultati nonostante l’avvicendarsi di governi di destra e di sinistra, sono sotto gli occhi di tutti: allora svergognata e vilipesa la politica non si è rinnovata per nulla, la qualità dei suoi protagonisti è anzi in media peggiorata, ed essa non è stata capace né allora né poi di correggere un bel nulla del sistema che aveva portato a Tangentopoli.

Non è questione di pensare che la corruzione sia “connaturata” alla società italiana. Bensì di convincersi che essa è innanzi tutto della società italiana. Di convincersi cioè che, in Italia, in tanto la politica può ospitare un così alto numero di traffichini e di lestofanti, in tanto può rappresentare un ambito d’elezione per un così gran numero di scambi e guadagni più o meno loschi, in quanto, e solo in quanto, ha come sponda, come interlocutrice permanente, una società moralmente opaca come la nostra. Perché alla fine delle due l’una, insomma: o si nega che quella italiana sia una società di tal fatta (e mi sembra davvero difficile), o si deve sostenere che tra lo standard morale della politica e lo standard morale della società non c’è alcun rapporto necessario (e si dice una palese assurdità). Naturalmente c’è sempre una terza possibilità (che sospetto sia proprio quella fatta ipocritamente propria da molti abitanti della penisola): e cioè credere, o fingere di credere, che in una società di diavoli i politici, non si sa per quale miracolo, possano - anzi debbano – essere degli angeli; e la politica, di conseguenza, una specie di anticamera del paradiso terrestre. Tutti coloro che, come Marco Vitale, rimproverano alla politica in genere, e dunque anche alla sinistra, di non aver preso le misure necessarie per una vasta e radicale opera di moralizzazione pubblica, dovrebbero innanzi tutto chiedersi: ma siamo sicuri che quel partito o quello schieramento che lo avesse fatto avrebbe avuto il consenso degli elettori italiani? O non sarà forse che un’opera del genere - per come è l’Italia, il suo mercato del lavoro, i suoi rapporti patrimoniali, per come sono abituati i suoi pubblici dipendenti, per come sono le sua abitudini diciamo così fiscali - non sarà forse che un’opera del genere avrebbe suscitato molte più opposizioni che consenso? E perché altrimenti nessun partito, nessuno schieramento, ha mai preso questa strada?

Di fronte agli scandali in cui è coinvolta la politica (anche o soprattutto la politica) molti uomini e donne impegnati nelle attività private, nel mondo del fare come oggi si dice, amano invocare rispetto delle regole, meritocrazia, presenza di poteri contrapposti, trasparenza, orgoglio di ruolo. Lo ha fatto l’altro giorno anche Franco Bernabè su queste colonne. Confesso di non aver ben capito a chi fosse rivolto di preciso una tale astratta invocazione - che anche in questo caso come in altri casi, di altri autori, evita di fare nomi e cognomi - ma spero che comunque il presidente della Telecom mi perdonerà se gli rivolgo una domanda impertinente: in che misura a suo giudizio il sistema delle imprese italiane e quello bancario - e la stessa Telecom, aggiungo, toccando davvero il colmo dell’impertinenza - si attengono alle prescrizioni da lui messe nero su bianco? Personalmente penso che lo facciano parecchio meno di quanto dovrebbero e di quanto accada di solito in altri Paesi, a cominciare per esempio dagli Stati Uniti. Basta vedere l’accanimento tenace con il quale tutto quel mondo si è opposto ad un’efficace legislazione sulla “class action”; e se non sbaglio senza che nessun suo esponente alzasse la minima voce contraria. Non è solo la politica, insomma, a non avere le carte in regola.

Se non cominceremo una buona volta con il dirci tutto questo, con il dircelo ad alta voce e dircelo di continuo, potremo pure mandare periodicamente all’ergastolo tutti i “marioli” e i “birbantelli” del caso, potremo pure in un raptus suicida nominare Marco Travaglio ministro della giustizia, ma rimarremo sempre quello che siamo: una società malandrina, spietata e al tempo stesso accomodante, un Paese sostanzialmente senza legge e senza verità.

Ernesto Galli della Loggia

20 febbraio 2010(ultima modifica: 21 febbraio 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il fantasma di un partito
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:34:10 am

LA CRISI D’IDENTITA’ DEL PDL

Il fantasma di un partito

La plastica si sta squagliando? Sembrerebbe. Certo è che coloro che si erano illusi dopo le elezioni del 2008 che il Pdl fosse diventato un partito più o meno vero, qualcosa di più di una lista elettorale, sono costretti ora a ricredersi. Non era qualcosa di più: spesso, troppo spesso, era qualcosa di peggio. Una corte, è stato autorevolmente detto.

Ma a quel che è dato vedere pare piuttosto una somma di rissosi potentati locali riuniti intorno a figuranti di terz’ordine, rimasuglio delle oligarchie e dei quadri dei partiti di governo della prima Repubblica. E tra loro, mischiati alla rinfusa — specie nel Mezzogiorno, che in questo caso comincia dal Lazio e da Roma— gente dai dubbi precedenti, ragazze troppo avvenenti, figli e nipoti, genti d’ogni risma ma di nessuna capacità. E’ per l’appunto tra queste fila che a partire dalla primavera dell’anno scorso si stanno ordendo a ripetizione intrighi, organizzando giochi e delazioni, quando non vere e proprie congiure (e dunque non mi riferisco certo all’azione del Presidente Fini, il quale, invece, si è sempre mosso allo scoperto parlando ad alta voce), allo scopo di trovarsi pronti, con i collegamenti giusti, quando sarà giunto il momento, da molti dei cortigiani giudicato imminente, in cui l’Augusto sarà costretto in un modo o nell’altro a lasciare il potere.

Da quel che si può capire, e soprattutto si mormora, sono mesi, diciamo dalla famigerata notte di Casoria, che le maggiori insidie vengono a Berlusconi e al suo governo non già dall’opposizione ma proprio dalla sua stessa parte, se non addirittura dalle stesse cerchie a lui più vicine. Al di là di ogni giudizio morale tutto ciò non fa che mettere in luce un problema importante: perché mai la destra italiana, durante la bellezza di quindici anni, e pur in condizioni così favorevoli, non è riuscita che a mettere insieme la confusa accozzaglia che vediamo? Perché non è riuscita a dare alla parte del Paese che la segue, e che tra l’altro è quasi sicuramente maggioritaria sul piano quantitativo, niente altro che questa misera rappresentanza? Certo, hanno influito di sicuro la leadership di Berlusconi e la sua personalità.

Il comando berlusconiano, infatti, corazzato di un inaudito potere mediatico- finanziario, non era tale da poter avere rivali di sorta assicurandosi così un dominio incontrastato che almeno pubblicamente ha finora messo sempre tutto e tutti a tacere; la personalità del premier, infine, ha mostrato tutta la sua congenita, insuperabile estraneità all’universo della politica modernamente inteso. E dunque anche alla costruzione di un partito. La politica, infatti, non è vincere le elezioni e poi comandare, come sembra credere il nostro presidente del Consig l i o ; è prima a v e r e un’idea, poi certo vincere le elezioni, ma dopo anche convincere un paese e infine avere il gusto e la capacità di governare: tutte cose a cui Berlusconi, invece, non sembra particolarmente interessato e per le quali, forse, un partito non è inutile.

Ma se è vero che il potere e la personalità del leader sono state un elemento decisivo nell’impedire che la Destra esprimesse niente altro che Forza Italia e il Pdl, è anche vero che né l’uno né l’altra esauriscono il problema. Che rimanda invece a caratteristiche di fondo della società italiana che come tali riguardano tanto la Destra che la Sinistra. In realtà, il verificarsi simultaneo della caduta del Muro di Berlino e di Mani pulite ha significato la fine virtuale di tutte le culture politiche che la modernità italiana era riuscita a mettere in campo nel Novecento (quella fascista avendo già fatto naufragio nel ’45). È quindi rimasto un vuoto che il Paese non è riuscito a colmare. Non si è affacciata sulla scena nessuna visione per l’avvenire, nessuna idea nuova, nessun’indicazione significativa, nessuna nuova energia realmente politica è scesa in campo. Niente.

Il risultato è che in Italia i capi politici più giovani hanno come minimo superato la cinquantina. Ma naturalmente il vuoto è più sensibile a destra, e più sensibili ne sono gli effetti negativi, perché lì la storia dell’Italia repubblicana non ha costruito nulla e dunque non ha potuto lasciare alcun deposito; che invece è rimasto solo nel centro-sinistra, erede di un ininterrotto sessantennio di governo del Paese tanto al centro che alla periferia. Così come nel centro-sinistra sono rimasti quasi tutti i vertici della classe politica che fu cattolica o comunista, portando in dote la propria esperienza e le proprie capacità. Mentre alla Destra è toccato solo il resto: a cui poi, per il sopraggiunto, generale, discredito della politica, non si è certo aggiunto il meglio del Paese.

Ernesto Galli della Loggia

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Per un errore tecnico, la testata on line del Corriere della Sera ha riportato ieri, per alcune ore, questo articolo di Ernesto Galli della Loggia che la direzione aveva deciso, nella tarda serata di lunedì, di rinviare di un giorno per lasciare spazio a un editoriale di Sergio Rizzo sul disegno di legge anticorruzione appena approvato dal governo. Il rinvio era stato concordato con l’autore.
Sempre per lo stesso errore tecnico, è stata inviata a Sky, nella notte di lunedì per la rassegna stampa di ieri, una bozza provvisoria della prima pagina, poi cambiata, che non è mai stata data alle stampe nelle edizioni italiane. Un numero limitato di copie è stato tuttavia stampato nelle tipografie estere. La Direzione, assumendosene la responsabilità, si scusa con i lettori e con l’autore. (f. de b.)


03 marzo 2010
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Comunisti involontari
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 06:43:28 pm
IL FANTASMA DI UN PARTITO / 2

Comunisti involontari


Il Pdl va rassomigliando sempre di più al Partito comunista di un tempo. I suoi tre coordinatori mi perdoneranno, ma proprio questa è stata l’associazione scattatami nella mente leggendo la loro replica al mio editoriale «Il fantasma di un partito » di mercoledì.

Cosa c’entra il Pci? C’entra perché, come spesso capitava con i dirigenti di quel partito, anche Bondi, La Russa e Verdini nella loro replica sono costretti a confutare in pubblico ciò che in privato, invece, un gran numero di loro eminenti compagni di partito (per non parlare d’iscritti ed elettori!) sono prontissimi non solo ad ammettere, ma a denunciare apertamente essi per primi. Per buona educazione non faccio nomi, naturalmente.

Posso garantire però che non si tratta né di amici del Presidente Fini né tanto meno di persone che, come essi scrivono del sottoscritto, passano le loro giornate «in un ambiente praticamente sterile in compagnia unicamente dei loro libri preferiti e delle loro personali elucubrazioni ». E’ proprio questo occultamento dei problemi, insieme alla povertà di elaborazione intellettuale, alla mancanza di trasparenza nelle nomine interne e nelle candidature, all’assenza di una libera discussione e delle stesse sedi istituzionali dove eventualmente farla, tra le cause prime di quella evanescenza rissosa del Pdl in quanto partito, messa clamorosamente in luce dai recenti avvenimenti di Milano e Roma. Sui quali, invece, i miei tre interlocutori preferiscono sorvolare senza dire neppure una parola.

Così come del resto nessuno di quel partito ha sentito bisogno di chiedere scusa agli italiani per il pasticcio creato, per la fibrillazione in cui è stato gettato l’intero dibattito politico, e per aver costretto alla fine il Presidente della Repubblica ad avallare un orribile decreto tappabuchi pur di non privare di qualunque significato politico il prossimo appuntamento elettorale e di non lasciar precipitare nel ridicolo l’immagine del Paese più di quanto già ci sia. Sbaglia chi pensa che queste cose siano dette per partito preso antiberlusconiano. In generale il ruolo importante avuto da Berlusconi nello stabilimento del bipolarismo, nonché in particolare alcuni risultati positivi dell’attuale governo, non sono stati mai nascosti né da questo giornale né da chi scrive. Così come personalmente non ho difficoltà a riconoscere che ministri come Gelmini, Maroni, Tremonti, Sacconi o lo stesso La Russa stanno dando buona prova di sé.

Ciò che nell’ideologia del Pdl e del suo capo è inammissibile è l’idea che il consenso elettorale sia tutto, che esso debba mettere a tacere qualunque obiezione, che solo esso conti in una democrazia. E’ questa la premessa, infatti, di due micidiali conseguenze pratiche. La prima si manifesta all’esterno come senso di onnipotenza, come arroganza nei comportamenti, come altezzosa insofferenza verso qualunque critica. La seconda conseguenza colpisce all’interno lo stesso Pdl, impedendogli di essere un partito degno di questo nome.

Se conta solo la vittoria elettorale, infatti, e il carisma berlusconiano basta a vincere le elezioni, allora è fatale che la qualità degli uomini, il merito, l’onestà, non contino niente. Che tutto si riduca a chi si precipita meglio e per primo a fare i voleri dell’Augusto, a prodursi nell’inchino più profondo e nell’elogio più compiacente. Salvo poi, come capita, ordire dietro le quinte le inevitabili congiure.

Ernesto Galli Della Loggia

07 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Un'Italia anticristiana
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2010, 12:18:51 pm
Un'Italia anticristiana


Sempre più di frequente il discorso pubblico delle società occidentali mostra un atteggiamento sprezzante, quando non apertamente ostile, verso il Cristianesimo. All'indifferenza e alla lontananza che fino a qualche anno fa erano la regola, a una secolarizzazione per così dire silenziosa, vanno progressivamente sostituendosi un'irrisione impaziente, un'aperta aggressività che non è più solo appannaggio di ristrette cerchie di colti, come invece avveniva un tempo. Il bersaglio vero e maggiore è nella sostanza l’idea cristiana nel suo complesso, come dicevo, ma naturalmente, non foss'altro che per ragioni numeriche e di rappresentanza simbolica, sono poi quasi sempre il cattolicesimo e la sua Chiesa a essere presi in special modo di mira. Dappertutto, ma, come è ovvio, in Italia più che altrove.

Il celibato, il maschilismo, la pedofilia, l'autoritarismo gerarchico, la manipolazione della vera figura di Gesù, l'adulterazione dei testi fondativi, la complicità nella persecuzione degli ebrei, le speculazioni finanziarie, il disprezzo verso le donne e la conseguente negazione dei loro «diritti », il sessismo antiomosessuale, il disconoscimento del desiderio di paternità e maternità, il sostegno al fascismo, l'ostilità all'uso dei preservativi e dunque l'appoggio di fatto alla diffusione dell'Aids, la diffidenza verso la scienza, il dogmatismo e perciò l'intolleranza congenita: la lista dei capi d'accusa è pressoché infinita, come si vede, e se ne assommano di vecchi, di nuovi e di nuovissimi. Ma da un po' di tempo vi si aggiunge qualcosa che contribuisce a dare a quelle imputazioni un peso e un senso diversi, un impatto più largo e distruttivo, finendo per unirle tutte nel segno di un attacco solo complessivo. Questo qualcosa è un radicalismo enfatico nutrito d'acrimonia; è, insieme, una contestazione sul terreno dei principi, un chiedere conto dal tono oltraggiato e perentorio che dà tutta l'idea di voler preludere a una storica resa dei conti. Ciò che più colpisce, infatti, della situazione odierna — e non solo immagino chi è credente ma pure, e forse più, chi come il sottoscritto non lo è—è soprattutto l'ovvietà ideologico-culturale della posizione anticristiana, la sua facile diffusione, oramai, anche in ambienti e strati sociali non particolarmente colti ma «medi», anche «popolari». Ai preti, alla Chiesa, alla vicenda cristiana non viene più perdonato da nessuno più nulla. Si direbbe — esagero certo, ma appena un poco — che ormai nelle nostre società, a cominciare dall'Italia, lo stesso senso comune della maggioranza stia diventando di fatto anticristiano. Anche se esso preferisce perlopiù nascondersi dietro la polemica contro le «colpe» o i «ritardi» della Chiesa cattolica.

Tra i tanti e assai complessi motivi che stanno dietro questa grande trasformazione dello spirito pubblico del Paese ne cito tre che mi paiono particolarmente significativi.

Al primo posto l'ingenuità modernista, l'illuminismo divenuto chiacchiera da bar. Ci piace pensarci compiutamente moderni, e modernità sembra voler dire che gli unici limiti legittimi siano quelli che ci poniamo noi stessi.

Le vecchie autorità sono tutte morte e al loro posto ha diritto di sedere solo la Scienza. Siamo capaci di amministrarci finalmente da soli, non c'è bisogno d'alcuna trascendenza che c'insegni dov'è il bene e dov'è il male. Che cosa c'entrano dunque la religione con i suoi comandamenti, i preti con i loro divieti? Accade così che ogni cosa che getta ombra sull' una o sugli altri ci appaia allora come la rassicurante conferma della nostra superiorità: alla fin fine siamo migliori di chi pure vorrebbe farci continuamente la lezione.

E poi — ecco un secondo motivo — la Chiesa e tutto ciò che la riguarda (religione inclusa) ricadono nella condanna liquidatoria del passato, di qualsiasi passato, che in Italia si manifesta con un'ampiezza che non ha eguali. Il che significa non solo che tutto ciò che è antico, che sta in una tradizione, è perciò stesso sempre più sentito come lontano ed estraneo (unica eccezione l'eno-gastronomia: l'ideologia dello slow food è la sola tradizione in cui gli italiani di oggi si riconoscono realmente), ma significa anche, questa messa in mora del passato, che il pensare in termini storici sta ormai diventando una rarità. Sempre più diffusi, invece, l'ignoranza della storia, dei contenuti reali delle questioni, e l'antistoricismo, l'applicazione dei criteri di oggi ai fatti di ieri: da cui la ridicola condanna di tutte le malefatte, le uccisioni e le incomprensioni addebitabili al Cristianesimo, a maggior gloria di un eticismo presuntuoso che pensa di avere l'ultima parola su tutto.

E da ultimo il cinismo della secolare antropologia italiana, e cioè il fondo limaccioso che si agita al di sotto dell'appena sopraggiunta ingenuità modernista. Il cinismo che sa come va il mondo e dunque non se la beve; che appena sente predicare il bene sospetta subito il male; che ha il piacere dello sporco, del proclamarne l'ubiquità e la forza. Quel feroce tratto nazionale che per principio non può credere in alcuna cosa che cerchi la luce, che miri oltre e tenga lo sguardo rivolto in alto, perché ha sempre bisogno di abbassare tutto alla sua bassezza.

Ernesto Galli Della Loggia

21 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Un futuro per Lega al di là del federalismo
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2010, 12:19:44 am
Un futuro per Lega al di là del federalismo


È intorno alla futura evoluzione della Lega che probabilmente si gioca la sorte del sistema politico italiano e dunque, in questo senso, anche dell’Italia. Tutto si riassume in una domanda decisiva: vorrà (e riuscirà) il partito di Bossi a trasformarsi in una forza in grado di elaborare una prospettiva non più solo «padana», ma nazionale? Lo spingerà il successo elettorale appena conseguito a pensare una strategia e un ruolo capaci di farsi carico del Paese intero? E quali?

Tali domande si pongono proprio mentre va sempre più chiarendosi il carattere effettivamente nuovo della Lega. Che può riassumersi in questi termini: la Lega rappresenta la prima cultura politica italiana di segno «basso», che non nasce cioè dall’elaborazione di un’élite. Non già per il suo richiamo al popolo. Infatti tutte le culture politiche dell’Italia moderna, dell’Italia del Novecento, hanno messo al proprio centro il «popolo». Ma lo hanno fatto per così dire « paternalisticamente » : era un’élite colta, per l’appunto, che assegnava alle masse popolari questo o quel compito storico di carattere generale (quasi sempre di riscatto sociale e/o nazionale) che la sua visione del mondo e del Paese le suggeriva. Per socialisti, cattolici, fascisti, comunisti il «popolo», in sostanza, ha sempre rappresentato uno strumento in vista di un fine più vasto e più alto: anche se naturalmente tale fine doveva tornare a beneficio innanzi tutto dello strumento stesso.

Con la Lega questa storia del Novecento politico italiano finisce per sempre. Con la Lega, infatti, abbiamo un gruppo dirigente fatto della stessa identica pasta culturale e antropologica del suo elettorato, un gruppo dirigente che ha gusti, modi di vita, ragiona e parla come il suo «popolo». Il quale non è investito di alcun ruolo storico generale. A qualsivoglia più o meno verosimile prospettiva nazionale (o addirittura mondiale, com’era in fondo per cattolici e comunisti) esso antepone molto banalmente le sue specifiche esigenze di collettività che abita in un certo posto, che vive qui ed ora, che ha determinati problemi economici e non altri.

Ma è tenibile questa impostazione di così basso profilo, diciamo, così territorialmente ancorata e circoscritta, quando si supera un certo livello di espansione elettorale, quando si diventa, come la Lega oggi si appresta forse a diventare, una forza importante in regioni diverse ed eterogenee, dunque almeno in prospettiva in tutta la Penisola? La Lega pensa che la risposta a questa domanda sia il federalismo, che possa essere questo la sua ricetta generale per il Paese.

Ma non tiene conto di due ostacoli. Il primo sta nel fatto che, come ha più volte osservato Luca Ricolfi, il federalismo, fiscalmente inteso, significherebbe una perdita secca e immediata di risorse per almeno la metà della Penisola, diciamo da Roma in giù. Il secondo ostacolo, molto più grave, è nella pessima prova che dall’inizio sta dando l’istituto regionale. Le Regioni sono state una gigantesca, costosissima delusione, questa è la verità. Comprensibilmente la classe politica, tutta quanta, preferisce non parlarne; ma l’opinione pubblica ne è sempre più convinta, e prima o poi il nodo arriverà al pettine.

È proponibile, allora, la ricetta federalista con il sempre più largo discredito di cui godono quelle che ne dovrebbero essere le protagoniste? E con i danni economici che ne deriverebbero per tanti italiani? Dunque è altrove che la Lega dovrebbe guardare per proiettarsi in una dimensione nazionale. Per esempio lungo la via indicata da Maroni che come ministro degli Interni sta conducendo una repressione delle grandi organizzazioni criminali straordinariamente efficace.
C’è di sicuro qualcosa di paradossale nel fatto che spetti oggi proprio ad un ministro leghista il merito di una politica forte volta a ristabilire l’autorità dello Stato italiano e delle sue leggi. Ma forse è un paradosso che contiene un significato profondo. Forse, infatti, è proprio una classe politica così popolarmente empirica e culturalmente antistatalista come quella della Lega che domani potrebbe assegnarsi il compito ambizioso di quella riforma dello Stato, delle sue amministrazioni e delle sue regole, che da decenni è all’ordine del giorno ma che non si è mai vista. Al di là di ogni ubbia federalista, ecco materia per un grande programma politico che tutto il Paese aspetta e di cui domani il partito di Bossi potrebbe farsi credibile banditore.

Ernesto Galli della Loggia

04 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La separazione del delfino
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 09:06:16 am
STRATEGIA ED ERRORI DI UN LEADER DELLA DESTRA

La separazione del delfino


E’da subito dopo la vittoria elettorale della destra nella primavera del 2008 che Gianfranco Fini ha cominciato a differenziarsi da Silvio Berlusconi, a costruire un'immagine di sé diversa da quella del presidente del Consiglio. E’ una strategia che oggi sembra compiere un passo ulteriore con la minaccia del presidente della Camera di dare vita addirittura ad autonomi gruppi parlamentari. Una strategia, peraltro, che ha avuto successo, dal momento che su temi quali i valori e le regole della Costituzione, la politica verso gli immigrati, il riconoscimento dei nuovi «diritti» soggettivi di carattere bioetico o sessuale, Fini è riuscito senz'altro a costruirsi un’immagine nettamente diversa da quella del leader della destra. Soprattutto egli ha mirato a marcare nei suoi confronti una forte differenza stilistica. Aiutato dalla propria carica istituzionale di presidente della Camera, si è mostrato attento, pronto al dialogo, di vedute aperte su qualunque argomento, sempre rispettoso delle forme e delle regole. Da ultimo ha trovato anche modo di darsi un’adeguata veste culturale istituendo un'apposita Fondazione, chiamando intorno a sé un drappello d'intellettuali, nonché, come si conviene, scrivendo perfino un libro dedicato (addirittura) al «futuro della libertà»

Insomma un Fini distante anni luce dall'antico delfino di Almirante e pure dal capo della defunta Alleanza nazionale. In vista di che cosa? ci si è chiesti fin dall'inizio. E si è sempre risposto: in vista della successione a Berlusconi. Ma a parte che quanto accaduto ieri sembra gettare più di un'ombra su questa ipotesi, resta il problema circa la natura della strategia di differenziazione adottata in tutto questo tempo da Fini. Se era davvero quella di diventare l'erede della leadership del Pdl, non sembra proprio che sia stata la strategia più adatta. Principalmente per un motivo: e cioè che si è trattato di una strategia rivolta in modo troppo esclusivo e — sia detto senza cattiveria — in modo talvolta troppo ingenuo, soltanto a mutare di 180 gradi la posizione ideologica del presidente della Camera, senza tuttavia dare a tale mutamento alcuna sostanza politico-programmatica che fosse in qualche misura congrua all’area politica di appartenenza dell’autore. Senza la capacità di colloquiare con tale area, di mantenere un rapporto reale con il suo elettorato.

Insomma: va bene diventare un liberal colto, internazionalista, devoto al patriottismo costituzionale; va bene dirsi sempre per il dialogo e il confronto; va bene auspicare una destra di tal fatta; ma quali soluzioni questa avrebbe dovuto poi adottare in tema di riforma fiscale e del Welfare, di riforme istituzionali, di federalismo, di organizzazione dell'università e della ricerca, di liberalizzazioni, di riforma della giustizia, eccetera eccetera? Fini, sia pure con le ovvie cautele cui lo obbliga la sua carica, non lo ha mai detto. Non ha mai detto qualcosa che fosse specificamente e politicamente soltanto «di destra ». Come ipnotizzato dal personaggio Berlusconi (al pari di quasi tutto il mondo politico italiano, la Lega esclusa), egli ha badato solo a distinguersi puntigliosamente dal suo stile istrionico, dai suoi plateali modi di essere, dal suo linguaggio aggressivo. C'è riuscito. Ma pagando un prezzo che forse non aveva previsto: di ritrovarsi alla fine, come oggi si vede, sulla soglia della casa che fino ad oggi era stata la sua.

Ernesto Galli della Loggia

16 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La separazione del delfino
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2010, 04:38:51 pm
STRATEGIA ED ERRORI DI UN LEADER DELLA DESTRA

La separazione del delfino

E’da subito dopo la vittoria elettorale della destra nella primavera del 2008 che Gianfranco Fini ha cominciato a differenziarsi da Silvio Berlusconi, a costruire un'immagine di sé diversa da quella del presidente del Consiglio. E’ una strategia che oggi sembra compiere un passo ulteriore con la minaccia del presidente della Camera di dare vita addirittura ad autonomi gruppi parlamentari. Una strategia, peraltro, che ha avuto successo, dal momento che su temi quali i valori e le regole della Costituzione, la politica verso gli immigrati, il riconoscimento dei nuovi «diritti» soggettivi di carattere bioetico o sessuale, Fini è riuscito senz'altro a costruirsi un’immagine nettamente diversa da quella del leader della destra. Soprattutto egli ha mirato a marcare nei suoi confronti una forte differenza stilistica. Aiutato dalla propria carica istituzionale di presidente della Camera, si è mostrato attento, pronto al dialogo, di vedute aperte su qualunque argomento, sempre rispettoso delle forme e delle regole. Da ultimo ha trovato anche modo di darsi un’adeguata veste culturale istituendo un'apposita Fondazione, chiamando intorno a sé un drappello d'intellettuali, nonché, come si conviene, scrivendo perfino un libro dedicato (addirittura) al «futuro della libertà»

Insomma un Fini distante anni luce dall'antico delfino di Almirante e pure dal capo della defunta Alleanza nazionale. In vista di che cosa? ci si è chiesti fin dall'inizio. E si è sempre risposto: in vista della successione a Berlusconi. Ma a parte che quanto accaduto ieri sembra gettare più di un'ombra su questa ipotesi, resta il problema circa la natura della strategia di differenziazione adottata in tutto questo tempo da Fini. Se era davvero quella di diventare l'erede della leadership del Pdl, non sembra proprio che sia stata la strategia più adatta. Principalmente per un motivo: e cioè che si è trattato di una strategia rivolta in modo troppo esclusivo e — sia detto senza cattiveria — in modo talvolta troppo ingenuo, soltanto a mutare di 180 gradi la posizione ideologica del presidente della Camera, senza tuttavia dare a tale mutamento alcuna sostanza politico-programmatica che fosse in qualche misura congrua all’area politica di appartenenza dell’autore. Senza la capacità di colloquiare con tale area, di mantenere un rapporto reale con il suo elettorato.

Insomma: va bene diventare un liberal colto, internazionalista, devoto al patriottismo costituzionale; va bene dirsi sempre per il dialogo e il confronto; va bene auspicare una destra di tal fatta; ma quali soluzioni questa avrebbe dovuto poi adottare in tema di riforma fiscale e del Welfare, di riforme istituzionali, di federalismo, di organizzazione dell'università e della ricerca, di liberalizzazioni, di riforma della giustizia, eccetera eccetera? Fini, sia pure con le ovvie cautele cui lo obbliga la sua carica, non lo ha mai detto. Non ha mai detto qualcosa che fosse specificamente e politicamente soltanto «di destra ». Come ipnotizzato dal personaggio Berlusconi (al pari di quasi tutto il mondo politico italiano, la Lega esclusa), egli ha badato solo a distinguersi puntigliosamente dal suo stile istrionico, dai suoi plateali modi di essere, dal suo linguaggio aggressivo. C'è riuscito. Ma pagando un prezzo che forse non aveva previsto: di ritrovarsi alla fine, come oggi si vede, sulla soglia della casa che fino ad oggi era stata la sua.

Ernesto Galli della Loggia

16 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il codice Ratzinger
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2010, 11:31:40 am
LA SVOLTA «LAICA» SULLA PEDOFILIA

Il codice Ratzinger

Ieri l'altro il vescovo di Bruges; giovedì quello di Kildare e Leighlin, ultimo di tre prelati irlandesi; subito prima il vescovo di Augsburg, il vescovo norvegese Muller e monsignor John Magee, ex segretario di vari Papi. In modo impressionante si susseguono a raffica le dimissioni di alti dignitari della Chiesa cattolica, colpevoli più o meno confessi, nella maggioranza dei casi, di abusi sessuali nei confronti di minori.

Insomma, l'opera di pulizia auspicata con parole di fuoco da Benedetto XVI quando era ancora il cardinale Ratzinger (e quando su questi temi — mi sembra importante notarlo— l’opinione pubblica non si faceva sentire) va avanti con decisione senza guardare in faccia a nessuno. Si tratta di un’importante opera di disciplinamento e in certo senso di autoriforma della Chiesa, dietro la quale si intravedono però fenomeni più ampi e significativi che non rendono troppo azzardato parlare di una vera svolta storica.

Per la prima volta, infatti, la Chiesa cattolica si spoglia di sua spontanea volontà di ogni funzione di intermediazione — e per ciò stesso, inevitabilmente, di «protezione» — nei confronti dei propri membri. Si priva di ogni attribuzione e volontà di giudizio nel merito, di decisione sua propria ed autonoma nei loro riguardi. Lo fa, per giunta, non in seguito a provvedimenti giudiziari emanati da una qualche autorità civile di cui le è giocoforza prendere atto, ma per l’appunto in via preliminare. Qualunque membro del clero, non importa il suo grado, abbia avuto comportamenti sessuali illeciti ha l'obbligo, per così dire, dell’autodenuncia e di affrontare quindi le conseguenze dei propri atti davanti alla giustizia laica. Allo stesso modo, sembra di capire, qualunque istanza gerarchica cattolica venga a conoscenza di atti sessuali illeciti commessi da un membro del clero ha l’obbligo d’ora in avanti della denuncia immediata all'autorità civile. In nessun modo, insomma, il peccato fa più da schermo al reato.

Non so quanti precedenti ci siano di un indirizzo del genere: certo pochissimi, forse nessuno. Come si sa, infatti, la Chiesa cattolica si è sempre considerata una societas perfecta, un’organizzazione che non riconosceva per principio alcuna istanza umana a lei sovraordinata, a cominciare dallo Stato. Nella sua ottica essa poteva sì rinunciare, quando fosse il caso, alle più svariate prerogative, competenze, diritti o che altro, ma sempre o per via pattizia (cioè concordataria), o perché costrettavi a forza dallo Stato. Con l’esplodere del problema della pedofilia si ha, invece, nei fatti, un cambiamento di rotta quanto mai significativo: che è la prova indubbia dell’estrema risolutezza con cui il Papa ha deciso di affrontare la questione non indietreggiando di fronte alle conseguenze.

Tale mutamento di rotta a sua volta ne implica, mi sembra, un altro ancora. E cioè che in questa circostanza la Chiesa ha finito per fare rapidamente proprio, senza riserve o scostamenti di sorta, il punto di vista affermatosi (peraltro recentemente e a fatica, ricordiamocelo) nella società laica occidentale. Non voglio certo dire che la Chiesa ha avuto bisogno del giudizio della società laica per considerare l'abuso sessuale sui minori un peccato gravissimo (forse il più grave stando alla lettera del Vangelo). Ma esso era tale anche dieci, venti o trenta anni fa quando tuttavia veniva quasi sempre coperto. Se oggi non è più così, non può più essere così, se oggi da quella gravità la Chiesa ha tratto le nuove e drastiche conseguenze che sono sotto i nostri occhi, con tutta evidenza ciò è accaduto solo perché il giudizio della società sugli abusi pedofili è anch’esso nel frattempo mutato. Cosicché, mentre su ogni altro uso della sessualità o pratiche connesse, essa ha adottato, e tuttora adotta, un suo proprio metro di giudizio, più o meno diverso rispetto a quello comunemente accettato, in questo caso vediamo invece che si conforma al punto di vista della società.

Si tratta beninteso del punto di vista della società occidentale, non molto condiviso, come si sa, da altre società come quelle islamiche o afro-asiatiche. Il che mi sembra indicativo di un ultimo dato di rilievo contenuto in questa vicenda. Vale a dire che il Cristianesimo romano e la sua Chiesa, pur a dispetto di ogni loro eventuale opinione o affermazione contraria (pur volendosi «cattolici» e cioè universali), mantengono comunque, però, un legame ineludibile con l’area di civiltà nel cui ambito geografico hanno messo le loro prime radici, che poi hanno modellato in modo decisivo, ma dalla quale, alla fine, non possono non essere anch’essi modellati. Forse è vero, insomma, che il futuro dell’Occidente si avvia a non essere più un futuro cristiano; ma ciò nonostante, in un modo o nell’altro e chissà ancora per quanto tempo, il Cristianesimo continuerà ad essere essenzialmente occidentale.

Ernesto Galli Della Loggia

26 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La trama nascosta della corruzione
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2010, 12:24:22 pm
MALCOSTUME DELLA POLITICA E DELLA SOCIETA’

La trama nascosta della corruzione

Anche se non bisogna mai dimenticare che un conto sono i sospetti, un’altra cosa la verità, tuttavia le notizie di casi di corruzione politica stanno diventando così numerose da imporre una riflessione di ordine generale. Che però mi sembra giusto far precedere da una considerazione accessoria. E cioè che a ben vedere non si tratta mai soltanto di corruzione politica. Ogni episodio di corruzione politica propriamente detto, infatti, a quel che riferiscono le cronache, è sempre accompagnato da una rete di comportamenti a vario titolo oggettivamente complici: mogli che accettano tenori di vita implausibili, figli ultramaggiorenni che godono senza battere ciglio di favori come cosa dovuta, evasione fiscale generalizzata, amici che si fanno fare lavori e lavoretti da amici degli amici, ecc. ecc.

Insomma, tutta una trama di relazioni fondata su una personalizzazione radicale della vita sociale e insieme una vasta, capillare indifferenza alla correttezza e alla legalità. Ciò che ripropone la domanda invano sempre esorcizzata: ma che razza di società è la società italiana? Un’altra domanda ci riporta alla corruzione politica. La domanda è questa: perché da noi più che altrove la corruzione politica non sembra trovare l’ostacolo di alcuna efficace forza dissuasiva? Perché la paura di essere scoperti e quindi puniti, che dovrebbe naturalmente servire ad arginare la tentazione di cedere al richiamo del denaro facile, in Italia invece non sembra svolgere la sua funzione in misura apprezzabile? Le risposte possibili mi sembrano due, e rimandano ognuna a una profonda anomalia della nostra vita pubblica. La prima riguarda la giustizia.

Il nostro sistema penale- giudiziario, infatti, è ben capace di aprire indagini, ordinare intercettazioni, far scontare arresti preventivi immotivati, divulgare segreti istruttori più o meno compromettenti, e anche alla fine arrivare a rinvii a giudizio. Ma è singolarmente incapace di comminare sentenze esemplari e di farle scontare. I trent’anni di Madoff o gli ergastoli per i responsabili della Enron da noi sono impensabili. Le carceri italiane sono piene quasi soltanto di poveri diavoli, perché se si è un borghese facoltoso, come sono in genere coloro che incappano in un reato di corruzione (e cioè con un buon avvocato e buone relazioni), è rarissimo vedersi condannati in via definitiva a pene che non siano simboliche o quasi. La seconda spiegazione sta nella sciagurata legge elettorale che oggi vige nel nostro Paese. Bisogna ricordare infatti che ciò che giustamente più temono i politici non è il giudizio dei magistrati. È quello degli elettori.

È il non venire rieletti, e così dunque vedere cancellata la propria carriera. Ma con il «porcellum» attuale ciò è in pratica assolutamente improbabile. Il giudizio degli elettori sulla persona da eleggere, sulle sue qualità o magagne, infatti, si dà solo dove esista un qualche rapporto personale tra gli uni e l’altro: come per l’appunto avviene per laddove vige una legge elettorale maggioritaria basata su collegi uninominali (come nella Gran Bretagna). Non può darsi da noi, invece, dove, come si sa, non si votano «persone» ma «liste»: immodificabili e preconfezionate dai vertici dei partiti. In Italia, insomma, se per qualunque motivo il politico corrotto è gradito ai suoi capi può dormire sonni tranquilli: niente galera e la carriera sicura come prima.

Ernesto Galli Della Loggia

15 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_15/la_trama_nascosta_della_corruzione_della_loggia_a3bae088-5fde-11df-b9ba-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA I veri nemici dell’Europa
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2010, 05:26:35 pm
Le proposte di Monti sull'Unione

I veri nemici dell’Europa


Le sagge proposte contenute nel rapporto presentato qualche giorno fa da Mario Monti — miranti da un lato ad accrescere la coesione sociale dei Paesi dell’Unione europea, dall’altro a promuovere il loro sviluppo — sono il massimo che oggi il progetto europeistico può chiedere alle capacità di un intellettuale di valore ed al suo sapere specialistico, il massimo che quel progetto può chiedere all’economia.
Per tutto il resto, ed è il più, dovrebbe essere la politica a farsene carico. Ma è proprio qui, invece, che le classi dirigenti del continente continuano a manifestare la latitanza più completa e rovinosa

È una latitanza ormai congenita. Se ne è avuta la prova più evidente, a mio giudizio, in tutti gli anni scorsi con la disinvolta superficialità che ha fatto sì che in nessun Paese si alzasse una voce — una sola voce politica autorevole e significativa — per gettare l’allarme e avvertire di quanto andava inevitabilmente preparandosi. Che l’euro non avrebbe avuto vita facile, ed anzi prima o poi difficilissima, non ci voleva molto a prevederlo, infatti. Come poteva resistere a lungo sugli oceani tempestosi della globalizzazione finanziaria una moneta priva dello scudo della statualità, affidata unicamente alla gestione tecnica di una banca, ma per il resto in balia delle politiche economiche di un gran numero di governi, preoccupati come è ovvio solo del proprio consenso elettorale? Eppure non c’è stato alcun importante esponente politico di destra o di sinistra, che io ricordi, il quale abbia richiamato l’attenzione delle opinioni pubbliche sul pericolo imminente e per molti versi inevitabile.

L’Italia non ha fatto certo eccezione, anzi semmai è stata un esempio della superficialità di cui dicevo. Qui da noi, infatti, non solo nell’ambiente politico propriamente detto ma più in generale in quello giornalistico, accademico e culturale, è sembrato che si facesse a gara da parte di tutti (o quasi) nel chiudere gli occhi, nell’ostentare un vacuo quanto volenteroso ottimismo, e naturalmente nel bollare sprezzantemente di «euroscettico» quanti esprimevano un punto di vista diverso. Adesso sì che finalmente si vede dove conduceva invece la lungimiranza degli europeisti di professione!

In realtà, nulla come il discorso sull’Europa ha mostrato, in Italia e fuori, la pochezza che caratterizza ormai da almeno due decenni le classi politiche e i governanti del continente. Una pochezza che non solo in questo caso ha preso due forme. Da un lato l’incapacità di andare controcorrente, di affrontare magari una temporanea impopolarità pur di testimoniare un valore di verità politica e ideale. Non credo, infatti, che l’eurottimismo fosse davvero così condiviso e generale come esso sembrava. Generale è stata però la volontà di non rischiare, di non apparire isolati. Come se la routine e il conformismo intellettuale fossero ormai il solo orizzonte possibile. La seconda forma della pochezza delle classi dirigenti europee è apparsa in tutto questo tempo la perdita da parte loro precisamente del significato della politica, del valore della decisione politica nel senso più alto e più pieno del termine. Della sua inevitabile necessità quando le cose sono giunte al punto in cui erano (e sono) giunte nel processo di costruzione europea. Chi oggi ancora non lo capisce, o non ha il coraggio di dirlo, o magari dice che le priorità sono altre, è in realtà il vero nemico dell’Europa.

Ernesto Galli Della Loggia

23 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_23/i-veri-nemici-dell-europa-ernesto-galli-della-loggia_5e1034b4-662a-11df-b272-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Tra illusioni e pregiudizi
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2010, 05:18:31 pm
Tra illusioni e pregiudizi


Appena licenziato in commissione dal Senato, il testo della riforma universitaria dovrebbe andare in aula il prossimo 15 giugno. Ma tra le tensioni interne alla maggioranza e le presumibili barricate dell’opposizione la prognosi non è delle più fauste. Ciò che però fa più temere — e secondo me deve anche dare più da pensare — è la rigidità ideologica che su questo argomento ancora si avverte fortissima nell’opinione pubblica. La politica si limita pigramente a rispecchiarla, rinunciando, in questo come in tanti altri casi, a qualunque funzione di guida.

È ormai da qualche anno, infatti, che a proposito dell’Università il Paese ha avuto modo di farsi un’idea assai più approfondita e realistica di quella fornita a scadenza fissa dalle varie «onde» o «pantere» organizzate dagli studenti. Questa visione più veritiera e più onesta si deve specialmente ad alcuni libri. Voglio ricordare gli autori e i titoli dei tre più importanti di essi — Raffaele Simone («L’università dei tre tradimenti»), Roberto Perotti («L’università truccata») e da ultimo Andrea Graziosi («L’università per tutti. Riforme e crisi del sistema universitario italiano») — perché si tratta di docenti universitari che non possono certo essere accusati di simpatie per la destra.

Che cosa insegnano i loro libri? Soprattutto questo: che dietro una facciata di estrema democraticità costruita negli anni ’60-’70 (libertà per qualunque diplomato di iscriversi a qualsiasi facoltà; tasse d’iscrizione mediamente assai basse; estrema facilità dei corsi; equivalenza formale di tutti gli atenei a causa del valore legale del titolo di studio e finanziamenti eguali per tutte le sedi) è venuta crescendo contemporaneamente una struttura inefficiente e sperperatrice (altissimo numero di fuori corso, smisurata percentuale di impiegati amministrativi rispetto al corpo docente), governata da una corporazione professorale volta quasi sempre ai propri esclusivi interessi (rettori in carica per decenni; moltiplicazione insulsa delle materie, dei corsi di laurea e delle sedi decentrate al solo scopo di moltiplicare i posti per i docenti; scarso impegno didattico e scientifico; privilegio accordato alle carriere interne e ai candidati locali rispetto al reclutamento di forze nuove ope legis accettate con il consenso di tutti).

In aggiunta, naturalmente, alla ben nota gestione dei concorsi perlopiù priva di ogni trasparenza. Come si vede, il quadro fornito dai libri di cui dicevo sopra è ben diverso da quello solitamente fornito dalle cosiddette «lotte studentesche », al quale in tutti questi anni si è avvezzata troppo docilmente molta parte dell’opinione pubblica. L’Università italiana, insomma, non è l’arena dove si scontrano da un lato i buoni—cioè gli studenti e i professori, tutti uniti sotto il sacro manto della Ricerca, della Cultura e del Diritto allo Studio con la lettera maiuscola — e dall’altro il cattivo ministro di turno, per principio affamatore della ricerca e dell’istruzione, incompetente, insensibile e autoritario così come il suo partito. L’Università è piuttosto un luogo dove, in nome della «pace sociale», per decenni è stato permesso a tutti di guadagnare qualcosa grazie allo scambio occulto tra demagogia democraticistica e lauree facili e a poco prezzo per gli studenti, contro pieni e incontrollati poteri al corpo docente. E dove a perdere (e a pagare i costi), al dunque, è stato solo il Paese.

Il quale si ritrova oggi con un sistema ipertrofico e insieme improduttivo (80 e più sedi universitarie: quasi una ogni provincia!), antimeritocratico, agli ultimi posti in tutte le classifiche internazionali, nonché, alla faccia di qualche decennio di «lotte democratiche», ancora sostanzialmente precluso alle classi popolari. Per risanare una situazione così intricata e incancrenita non esiste alcuna bacchetta magica, e certamente non è tale la riforma approntata dal ministro Gelmini. Ma è almeno il tentativo onesto e ragionevole di incidere in cinque direzioni importanti: introdurre criteri di ricambio e di funzionalità negli organi di governo degli atenei; sottoporre gli stessi a giudizi di efficienza e i docenti a giudizi di merito; avviare un riequilibrio quantitativo tra le diverse componenti della docenza; organizzare per gli studenti meritevoli un sistema di finanziamenti da restituire dopo la laurea e infine riformare il sistema dei concorsi in base ad una scelta dei commissari fondata sui loro meriti scientifici e insieme sul sorteggio.

Certamente: come ogni cosa, anche la riforma Gelmini è di sicuro migliorabile (e magari anche molto). A patto, tuttavia, che si voglia farlo. Che voglia farlo l’opposizione, rinunciando in una materia così cruciale per il futuro del Paese ad un contrasto di principio— ma non riesco ad immaginare proprio in base a quale principio— e che voglia farlo soprattutto l’opinione pubblica. In questo ambito, al pari di tanti altri della nostra organizzazione sociale, è arrivato il momento di capire che abbiamo sperperato decenni e montagne di soldi inseguendo illusioni, alimentando pregiudizi, costruendo contrapposizioni puramente ideologiche che non ci hanno portato da nessuna parte. Di capire che la realtà non è più a lungo eludibile. Di convincerci, come diceva il presidente Mao, che se si tratta di prendere il topo, il colore del gatto è indifferente.

Ernesto Galli della Loggia

05 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_05/tra_illusioni_e_pregiudizi_ernesto_galli_della_loggia_6d91086e-7061-11df-aae4-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’opacità del potere
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2010, 08:54:01 am
PRIVILEGI, FAVORI, CORRUZIONE

L’opacità del potere


Negli ultimi tempi è intervenuto un cambiamento importante sia nelle «auto blu» cosiddette «di servizio » — che poi peraltro sono quasi sempre nere — sia, più in generale, nelle auto adoperate dagli italiani che contano (dalle maestose berline di rappresentanza ai Suv c a f o n i s s i m i d a weekend): sempre più spesso queste auto hanno i vetri dei finestrini oscurati. La metafora è inevitabile: il potere nostrano ama l’opacità, accompagnata, anche in questo caso, dal privilegio: poter vedere senza essere visti. Un piccolo e normale privilegio stavolta, alla portata di tutti, ma che comunque allude alla dimensione dell’opacità, consustanziale a quella del potere italiano: la sua mancanza di pubblicità è, infatti, la garanzia maggiore del mantenimento del privilegio. Non è il desiderio di arricchire, non è il basso desiderio di impadronirsi di beni e ricchezze, l’anima vera della corruzione italiana, il suo principale movente. Psicologicamente credo che sia qualcosa di diverso: è il privilegio, l’ambizione innanzitutto di distinguersi, di appartenere al gruppo di coloro per cui non valgono le regole che valgono per tutti. A cominciare da quella regola suprema che è la legge.

Si ruba, si viola il codice penale, convinti che tanto a noi non toccheranno le conseguenze che invece toccherebbero a un comune mortale. Convinti che in un certo senso ciò che si sta commettendo non è neppure più un reato dal momento che siamo noi a commetterlo, e dal momento che noi facciamo parte di un gruppo a parte, il gruppo dei privilegiati, appunto. Dietro l’ormai leggendaria impudenza dell’ex ministro Scajola—leggendaria innanzitutto per la sua goffaggine («devo appurare chi è stato a pagare per l’acquisto della mia casa»)—cosa c’è infatti se non un’idea di privilegio talmente introiettata da essersi mutata in una presunzione d’impunità, pronta a prendere addirittura la forma della distrazione? Antica società di ceti, dominata da una forte rigidità gerarchica, la società italiana si è abituata a considerare il privilegio l’unico contenuto effettivo del rango. Essere qualcuno significa, in Italia, innanzitutto stare al di sopra della massa. E nella Penisola tutti — giornalisti, tassisti, parlamentari, membri di tutti gli ordini professionali, magistrati—tutti vogliono essere al di sopra degli altri, titolari di qualche privilegio: essere esentati da qualche obbligo; avere delle riduzioni; degli sconti o come minimo dei biglietti omaggio; rientrare in un «numero chiuso»; fruire di un’ope legis; godere di un trattamento speciale; magari di una cassa mutua riservata. Ma il massimo del privilegio, la consacrazione del vero privilegiato, sta altrove.

Sta nella possibilità di chiedere «favori», e naturalmente di ottenerli. Ed egualmente lì sta la dimostrazione indiscutibile del rango. Infatti si possono chiedere favori solo se si «conosce » (fornitori, nomi importanti, persone in posti chiave), e naturalmente si «conosce» solo se a propria volta si è «conosciuti », cioè se si è qualcuno. Non si capisce nulla delle ragioni e della profondità inaudita del narcisismo dilagante in Italia, specie tra i giovani, non si capisce la conseguente, universale, spasmodica voglia di apparizioni e di carriere in tv, se non si tiene a mente il privilegio di «conoscenze»—e dunque di favori, di accessi di ogni tipo—che da noi si attribuisce all’essere «conosciuti». Se «si va» in televisione ci si fa «conoscere», e per chi è «conosciuto» nulla è impossibile. Sulla scena italiana, intorno alla grande arena del privilegio, opacità e riservatezza da un lato, e narcisismo ed esibizionismo dall’altro, s’intrecciano contraddittoriamente: nel primo caso per difenderla, nel secondo per entrarvi. Da tempo però la scena è furiosamente animata da un altro protagonista: l’intercettazione telefonica. Questa, e la sua divulgazione,(così come la divulgazione degli stipendi e delle case) sono diventate la grande speranza, l’estrema risorsa della massa dei non privilegiati. Lo sa bene chi ha il potere di usarne— magistratura e stampa—e che proprio per questo ne fa l’uso così ampio che sappiamo.

Grazie all’intercettazione telefonica si rompe finalmente l’opacità del grande privilegio sociale, quello dei politici e dei ricchi innanzitutto, e l’aura di riservatezza di cui esso si nutre. Finalmente i discorsi dei potenti sono squadernati nella loro volgare quotidianità, nei loro desiderata, perlopiù inconfessabili, nei loro intrighi, ed esposti una buona volta al giudizio dei più. Nella sua versione italiana l’intercettazione telefonica diventa così la vendetta della plebe sull’oligarchia, la rivalsa della demagogia sulla democrazia. È lo sputtanamento, come è stato esattissimamente detto: lo sputtanamento demagogico, appunto, opposto alla pubblicità democratica. Una forma di giustizia violenta ed elementare, senza appello e senza garanzia alcuna. Una specie di linciaggio incruento. Ciò che è terribile è che la maggior parte di coloro che vivono in questo Paese pensi che sia questa, oggi, la sola forma di giustizia possibile. Ed ancora più terribile è che, probabilmente, hanno pure ragione.

di Ernesto Galli Della Loggia

12 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_12/opacita_potere_64a21030-75df-11df-9eaf-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Tra Roma e Pontida
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2010, 05:03:17 pm
BIVIO DELLA MATURITA’ PER LA LEGA

Tra Roma e Pontida


Ci sono circostanze in cui il successo può dare alla testa, inducendo a sciocchezze suicide. È il rischio che corre oggi la Lega, nel momento in cui, in seguito alle elezioni della scorsa primavera, si trova impegnata in prima persona, in Veneto e in Piemonte, al governo di grandi realtà territoriali. Dove per l’appunto è assai più difficile mantenere il senso dell’opportunità, e dunque del limite, perché — a differenza di quando si è al governo a Roma—si detiene un potere rilevantissimo ma in condizione di virtuale monopolio, con un’attenzione dei media generalmente benevola (con un controllo attenuato dell’opinione pubblica) e infine con un’opposizione quasi sempre senza nerbo e senza voce, in pratica fuori gioco.

In queste condizioni, specie per i politici locali della Lega, il rischio dell’autogol diviene assai alto. Lo si è visto nei giorni scorsi con gli episodi di antiitalianismo che hanno fatto capolino qua e là (con il tifo di «Radio Padania» per il Paraguay o il rifiuto di suonare l’inno nazionale), e che sarebbe sbagliato giudicare casuali e secondari, perciò politicamente irrilevanti. Non lo sono perché nella Lega l’ostilità e il disprezzo contro lo Stato nazionale non rappresentano un fatto estemporaneo: sono invece la deriva inevitabile a cui va incontro la prospettiva federalista ogniqualvolta questa ha bisogno di mostrare un volto radicale, una posizione di combattimento dura. Ciò che capita puntualmente sia quando il federalismo non riesce a concretizzarsi in un’effettiva realtà istituzionale, come accade in queste settimane, sia quando quella prospettiva viene adottata almeno a parole più o meno da tutti, e allora non serve più da sola a definire l’identità leghista. Agli occhi della Lega, insomma, il ghigno antipatriottico, l’insulto antistatale, rappresentano tanto l’uscita di sicurezza per sottrarsi all’unanimismo federalista, che il modo per tenere unite le proprie fila ribadendo quello che viene sentito come una sorta di «programma massimo».

Ma con l’antiitalianismo la Lega scherza con il fuoco. Per una ragione che non è difficile da capire. Infatti, laddove il federalismo, come si è visto e si vede ogni giorno, spacca il fronte avversario dividendolo tra chi ne fa propria una parte e chi l’altra, l’insulto antinazionale, al contrario, coalizza immediatamente in un sol blocco tutti coloro che non siano la Lega stessa. Cementando, per giunta, tale blocco con quel sentimento forte, potenzialmente aggressivo ed emotivamente trascinante, che è il patriottismo. Mentre con il federalismo, insomma, si possono costruire le alleanze più varie (dalla destra alla sinistra) e ci si può proporre alla guida del Paese, è invece piuttosto difficile immaginare di poter governare l’Italia dichiarandosi contro lo Stato italiano. Il ministro degli Interni, Maroni, ad esempio, non potrebbe mai ottenere gli ottimi risultati che sta ottenendo nella lotta al crimine organizzato, se mostrasse a poliziotti e carabinieri che a lui dell’Italia e del suo Stato gliene importa meno di niente. Con l’antiitalianismo si possono costruire delle Vandee, dei ridotti padani, delle roccaforti verdi, ma oltre non si va. Ci si condanna ad un minoritarismo permanente. Proprio il successo appena avuto, e che può forse preludere ad altri successi, obbliga dunque la Lega, e sempre di più, che se ne renda conto o no, a scegliere: o Pontida o Roma.

Ernesto Galli della Loggia

18 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_18/galli-della-loggia_a8cd1f3c-7a96-11df-aa33-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La necessità di un colpo d’ala
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 04:58:00 pm
La necessità di un colpo d’ala


Parlare di crisi finale di Berlusconi e del berlusconismo è senz’altro azzardato. Niente lascia credere, infatti, che se tra sei mesi ci fossero le elezioni politiche il Cavaliere non riuscirebbe per l’ennesima volta a riportare la vittoria. In un modo quale che sia, ricorrendo alle offerte elettorali più irreali, radunando le forze più diverse, gli uomini (e le donne) più improbabili, ma chi può dire che non ci riuscirebbe?

Se però il futuro appare incerto, il presente invece non lo è per nulla. Dopo due anni alla testa di un’enorme maggioranza parlamentare il governo Berlusconi può vantare, al di là della gestione positiva della crisi economica, un elenco di risultati che dire insoddisfacente è dire poco. Inauguratosi con l’operazione «Napoli pulita» esso si trova oggi davanti ad un’altra capitale del Mezzogiorno, Palermo, coperta di rifiuti, ridotta ad un cumulo d’immondizia, mentre l’uomo del miracolo precedente e dell’emergenza terremoto, Bertolaso, è assediato dalle inchieste giudiziarie.

Il simbolo di un fallimento non potrebbe essere più evidente. Ma c’è ben altro. C’è l’elenco lunghissimo delle promesse non mantenute: elenco che la difficile situazione economica e i grandi successi nella lotta al crimine organizzato non sono certo in grado di compensare. C’è la riforma della giustizia con la separazione delle carriere dei magistrati ancora di là da venire; ci sono le liberalizzazioni (a cominciare da quella degli ordini professionali) di cui non si è vista traccia; c’è il piano casa e delle grandi infrastrutture pubbliche a tutt’oggi sulla carta; la costruzione dei termovalorizzatori, idem.

La promessa semplificazione delle norme e delle procedure amministrative è rimasta in gran parte una promessa; la riforma universitaria ha ancora davanti a sé un iter parlamentare lunghissimo e quanto mai incerto; delle norme sulle intercettazioni meglio non dire; e infine pesa sull’Italia come prima, come sempre, la vergogna della pressione e insieme dell’evasione fiscali più alte del continente.

Una tale inadempienza programmatica è il risultato in buona parte dell’incapacità di leadership da parte del premier. Nel merito dei problemi che non lo riguardano in prima persona Berlusconi, infatti, continua troppo spesso ad apparire incerto, assente, più incline ai colpi di teatro, alle dichiarazioni mirabolanti ma senza seguito, che ad una fattiva operosità d’uomo di governo. In questa situazione lo stesso controllo che egli dovrebbe esercitare sul proprio schieramento è diventato sempre più aleatorio. Benché con modi e scopi diversi Fini, Bossi e Tremonti dimostrano, infatti, di avere ormai guadagnato su di lui una fortissima capacità di condizionamento. Riguardo le cose da fare ne risulta la paralisi o il marasma più contraddittorio.

Anziché governare le decisioni, il presidente del Consiglio sembra galleggiare sul mare senza fine delle diatribe interne al suo schieramento. E nel frattempo dalla cerchia dei fedelissimi, dove pure qualche intelligenza e qualche personalità autonoma esiste, continua a non venire mai alcun discorso d’ordine generale, continua a non venire mai nulla che abbia il tono alto e forte della politica vera. Il silenzio del Pdl che non si riconosce in Fini è impressionante. Ad occupare il proscenio rimangono così, oltre l’eterno conflitto d’interessi del premier, solo i ministri ridicoli (Scajola) o impresentabili (Brancher), il giro degli avidi vegliardi delle Authority, le inutili intolleranze verso gli avversari. Dov’è finita la rivoluzione liberale di cui il Paese ha bisogno?


Ernesto Galli della Loggia

28 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_28/dellaloggia_15c69da0-8273-11df-9406-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Un Paese senza politica
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2010, 05:00:53 pm
Un Paese senza politica

Quale sia davvero lo spirito del Paese dubito che possano dircelo i sondaggi. Meglio ascoltare se stessi e dare retta a quello che si avverte dentro e specialmente intorno a noi. C’è una sensazione che domina su tutte le altre, se non sbaglio: la sensazione che sono finiti i tempi felici. Fino a qualche tempo fa il Paese, pur con tutte le sue contraddizioni, appariva comunque orientato ad una visione positiva del proprio futuro. Aveva dei punti di riferimento sicuri. A cominciare da quelli fuori dei propri confini.

L’Occidente di cui facevamo parte era il luogo della libertà e della ricchezza, e ogni anno avevamo un po’ di più tanto dell’una che dell’altra. In entrambi i casi stando al riparo di una sicurezza collaudata e senza costi. Oggi ci sembra di scorgere quotidianamente i sintomi che non è più così. L’Occidente, l’Europa stessa, stanno pian piano svanendo. E con loro svanisce la sensazione di forza, quasi d’invincibilità, che per tanto tempo essi hanno incarnato. Compaiono al loro posto nuovi giganti mondiali che però avvertiamo lontanissimi da noi. Indifferenti ai modi nostri e alle nostre esigenze. E di nuovo, dopo decenni che non accadeva, soldati italiani muoiono combattendo in remote contrade, di nuovo senza molte speranze di vittoria.

In casa nostra i giorni e la vita dei tempi felici volevano dire una rete antica e tutto sommato affidabile di istituzioni che ne erano i punti fermi: la scuola, una banca, un ufficio postale, il municipio, il sindacato. Tutte cose che esistono ancora, naturalmente, ma senza più il senso, la certezza e l’autorevolezza di una volta. Non sappiamo bene perché, ma sentiamo che è così. La Chiesa e la famiglia stesse—questi due pilastri all’apparenza indistruttibili della soggettività e insieme delle collettività italiane — sono alle prese con forze corrosive che ne stanno alterando il profilo sociale e attutendone la voce. Insieme è finita — drammaticamente finita per sempre, ci dicono—la speranza di un lavoro ragionevolmente sicuro nel tempo.

Una fase decisiva di come l’Italia è diventata moderna, l’industrializzazione, sembra ormai giunta ad un compimento: interi settori produttivi sono scomparsi nell’ultimo ventennio mentre non si contano gli impianti, le fabbriche del Paese passati in mani straniere nel disinteresse generale. Ai fini del Pil forse non conta, ma a quelli dell’immaginario e del sentimento sì. È come se stesse cambiando sotto i nostri occhi la moralità di fondo del Paese e al medesimo tempo il valore del nostro stare insieme. Il moltiplicarsi senza freno dei casi di corruzione pubblica, di malversazione, di sperperi, non fa altro che rafforzare questo senso di un cambiamento che sa piuttosto di disgregazione. E per parlare di cose che sono simbolo di molte altre: da quanto tempo un libro, un film, un’architettura, una rappresentazione, insomma una cosa nuova pensata o fatta in Italia, non fa parlare di sé il mondo? Siamo dunque un Paese in declino? Meglio non dirlo. E forse non è neppure vero se si guarda a certi dati pure fondamentali. Ma senza dubbio siamo un Paese che sente di essere nel mezzo di un passaggio assai difficile della sua storia. E sente di affrontare questo passaggio senza guida, abbandonato agli eventi, al giorno per giorno. Nessuno è in grado di dirgli qualcosa circa il futuro che lo aspetta, che ci aspetta. Nessuno vuole o sa parlare alla sua mente e al suo cuore. Nessuno è capace di indicargli una via e una speranza. Ma che cos’è questo se non il compito della politica? Ecco allora il vero cuore duro della nostra crisi.

Ciò di cui l’Italia è oggi drammaticamente e specialmente priva è la politica. Non riusciamo a farci una ragione del presente e a vedere come affrontare il futuro perché ci manca la politica. La quale nella sua accezione più vera non significa altro che un progetto per la «città», un’idea del suo destino. Il discorso cade irrimediabilmente su chi soprattutto ha rappresentato la politica in tutti questi anni: su Berlusconi. Sarebbe sbagliato prima che ingiusto dire che egli non ha fatto, non ha realizzato nulla. Ma ciò che pure ha fatto, i cambiamenti tutto sommato positivi che egli ha contribuito a introdurre, i tentativi riformatori che pure ha cercato di mettere in opera, hanno mancato tutti su un punto decisivo. Berlusconi non è mai riuscito a iscriverli in un discorso generale rivolto a tutto il Paese, un discorso che fosse capace di parlare al suo animo, di comunicargli quel senso della sfida e quell’esigenza di mobilitazione che i tempi difficili richiedevano e richiedono. Se aveva un’idea d’Italia, di certo non si è mai curato di trasmetterla con qualche efficacia agli italiani. Egli è rimasto fino in fondo l’uomo di una parte, convinto forse che in ciò, alla fin fine, consistesse il suo vero ascendente sul proprio elettorato.

E così, più che espressione della politica in senso alto o dell’«antipolitica», come hanno sempre detto i suoi detrattori, alla fine egli si è ridotto ad essere (o ad apparire, il che è lo stesso) null’altro che l’uomo della non-politica. In numerosa compagnia, ahimè. La sua ormai lunga egemonia sul sistema politico, infatti, ha corrisposto alla — e si spiega con la —crisi perdurante e l’afasia politica di tutti i suoi oppositori. I quali mostrano di sapere solo parlare ossessivamente di lui e contro di lui, ma al di là di qualche banale genericità a base di «bisogna questo » e «bisogna quest’altro» — e naturalmente senza mai spiegare come o a spese di chi — non sanno andare. Sicché ormai il Paese ascolta anche l’opposizione nella più totale indifferenza, con un’alzata di spalle. Neppure da lei gli viene il racconto di qualche verità sgradevole, l’indicazione di una via difficile, una proposta nuova e ardita. Eppure nell’intimo della sua coscienza l’Italia avverte che questo solo sarebbe il modo per sperare di fare i conti con il mondo nuovo e aspro in cui essa è ormai entrata. Per farlo essa sarebbe anche disposta ad accettare medicine amare, se solo qualcuno gliene spiegasse però il senso e la necessità: se qualcuno le sapesse parlare di politica. Invece, come i malati avviati a una sorte rassegnata e infelice, essa si vede prescrivere solo degli zuccherosi placebo a base di nulla.

Ernesto Galli della Loggia

07 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_07/un_paese_senza_politica_ernesto_galli_della_loggia_68598844-8984-11df-9331-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Tra ricchezza e indifferenza
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2010, 11:05:41 pm
CETI ABBIENTI E SENSO DELLO STATO

Tra ricchezza e indifferenza


I dati sono ampiamente noti. Ma voglio ricordarli per l'ennesima volta riprendendoli da un recente articolo pubblicato sul Corriere da Sergio Rizzo. Ogni anno, in Italia, sfuggono completamente al fisco redditi per circa 300 miliardi di euro, con una perdita di entrate per le casse pubbliche pari a un dipresso a 100 miliardi di euro.

Venendo al dettaglio una cifra simile vuol dire che dovremmo credere all'incredibile: ad esempio che nel 2007 (ultime cifre disponibili) gli italiani con un reddito superiore a 200 mila euro sarebbero stati meno di 76 mila. Non solo, ma poiché solamente il 20 per cento di questi erano lavoratori autonomi (l'altro 80 per cento essendo dipendenti o addirittura pensionati), dovremmo pure credere che in tutta la Penisola, dalle Alpi al Lilibeo, non ci fossero allora più di 15 mila lavoratori autonomi che avessero un reddito di almeno 18 mila euro al mese. E dovremmo altresì credere—sempre stando a ciò che risultava al fisco — che in quello stesso anno soltanto 6.253 (dicesi 6.253) «percettori di reddito da imprese» avrebbero guadagnato più di 200 mila euro annui. Così come dovremmo convincerci che proprio in quelli che sono stati i 12 mesi precedenti la crisi ben il 45 per cento, vale a dire circa la metà delle società, avessero davvero, secondo quanto denunciato, un bilancio in perdita. Ma chi può credere a questa realtà di favola? Nessuno. Così come nessuno può credere che le tasse verrebbero pagate se solo fossero più basse (una favola che fa esattamente il paio con quella per cui se tutti pagassero le tasse queste diminuirebbero). Così come d'altra parte nessuno può credere ormai che faccia una differenza se al governo c'è la destra o la sinistra: la quale, anzi, ha dimostrato di non riuscire a dare alcuna concretezza alla sua astratta furia ideologica redistributiva.

E allora non resta che prendere atto di una diversa realtà, quella vera. E cioè che in Italia l'evasione fiscale, per la sua mole, la sua capillarità e la sua continuità nel tempo, è qualcosa di ben altro, e che va ben oltre una pur grave dimensione economica. Essa evoca piuttosto una fondamentale questione nazionale. Vale a dire qualcosa che rimanda immediatamente all'esistenza e alla consistenza stessa delle basi dello Stato nazionale, del nostro stare insieme. Infatti, se in una misura che non ha eguali in alcun altro Paese civilizzato la ricchezza, i ricchi, si sottraggono all'imposta, ciò vuol dire che di fatto, e nei fatti, essi mostrano di non riconoscersi in un' appartenenza comune. Che una parte della popolazione— e proprio quella più produttiva — non intende sottostare a quel vincolo sociale che è tale appunto perché obbliga a comportamenti che non corrispondono al proprio personale e immediato interesse.

Tra questo interesse e quello generale la stragrande maggioranza degli italiani ricchi invece non ha dubbi: sceglie senza esitare il primo e manda al diavolo il secondo. Questa indomabile asocialità dei ricchi ha almeno due gravi conseguenze oltre quelle ovvie di carattere economico. La prima è la grandissima difficoltà che ha incontrato e che incontra da sempre in Italia la formazione di una vera classe dirigente. Infatti quell’asocialità non può che dare luogo anche ad una tendenziale astatualità, cioè ad una sostanziale indifferenza per le sorti dello Stato. Come si vede benissimo nel fondo di grottesco anarchismo protestatario che si annida così spesso nei ricchi italiani, e che fa sì che essi, quindi, possano identificarsi assai difficilmente con gli interessi collettivi del Paese come invece dovrebbe fare una classe dirigente.

La seconda conseguenza è di ordine politico. Come accade normalmente in tutti i Paesi anche da noi, in linea di massima, la ricchezza preferisce, non da oggi, farsi rappresentare politicamente dalla destra. Non c’è niente di male. Se non fosse però che una ricchezza asociale e antistatuale, come quella descritta, ha finito inevitabilmente per trasmettere questi suoi caratteri alla parte politica verso cui perlopiù convoglia il suo voto, condizionandone pesantemente il profilo ideologico e i comportamenti. Per non perdere tale voto, infatti, la destra politica italiana è stata spinta, lo volesse o no, ad assecondare regolarmente le pulsioni antisociali ed antistatali di quella parte così importante del proprio elettorato di riferimento. Ed è questo elemento che insieme ad altri ha impedito e impedisce alla destra italiana di incarnare il senso delle istituzioni e dello Stato così come di dare voce alta e forte alla dimensione degli interessi nazionali, secondo quanto avviene, invece, quasi dovunque altrove.

Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente. Tale problema riguarda principalmente la destra. La quale si è accontentata finora di seguirne pedissequamente i desiderata, senza neppure cercare di dare loro una prospettiva diversa da quella egoistica da essi naturalmente espressa. Con ciò però condannandosi ad una funzione politicamente subalterna e troppo spesso, se è permesso dirlo, eticamente alquanto penosa.

Ernesto Galli Della Loggia

18 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_18/gallidellaloggia_ricchezza_indiferenza_e646f3da-9240-11df-a4a6-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La grande palude
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2010, 03:32:06 pm
La grande palude


Tra le tante anomalie della politica italiana di questi giorni ce n’è una più «anomala» delle altre. Di fronte a una maggioranza parlamentare spaccata, che non si sa neppure se esista ancora come tale, che cosa fa l’opposizione, che cosa chiede la sua stampa più autorevole? Tutto tranne la sola cosa a cui in qualunque sistema parlamentare si penserebbe subito, e cioè il ritorno alle urne. Elezioni anticipate? Per carità, si dice: inutili, pericolose, un’autentica sciagura per il Paese. Piuttosto, invece, al posto della vecchia, una nuova grande maggioranza «chi ci sta ci sta», un governo «tecnico» ma non proprio, comunque «larghe intese», le più larghe possibili, in cui alla fine potrebbero entrare tutti, da Bossi, a Fini, a Tremonti, a Casini, a Rutelli, a Bersani, a Vendola, in teoria anche Di Pietro e Beppe Grillo se volessero. Purché ovviamente ne stia fuori uno solo: Lui, l’Orco.

E’ nota la ragione di questa bizzarria: il principale partito d’opposizione, il Pd, non si sente pronto per una competizione elettorale, anzi la teme. Lo stesso vale più o meno per l’intero schieramento di centrosinistra (esclusa forse l’Italia dei Valori). Ma se questa è l’apparenza, dietro di essa si cela un dato ben più importante. Si cela il vero dato di fondo del quadro politico italiano nel momento in cui esso è costretto a prescindere da Berlusconi, in cui esso si pensa e si proietta oltre Berlusconi. Il dato di fondo è l’evanescenza, la virtuale dissoluzione di tutte le forze che compongono lo schieramento che sta tra Bossi e Di Pietro. Dopo Berlusconi, e senza di lui, in questo grande spazio non rimane più alcuna vera distinzione, alcuna appartenenza legata realmente a un passato, alcuna solida identità politica, alcun vero legame con referenti sociali. Oggi, in Italia, senza Berlusconi non ci sono più partiti, non c’è più nulla. C’è solo una grande palude parlamentare. Ed è perciò che a quel punto il solo governo a cui si riesca a pensare è, come accade oggi, quello dentro il quale ci siano tutti o quasi.

In questo modo la società italiana ritorna a un suo carattere originario dei tempi normali: la propensione a produrre un sistema politico-parlamentare in cui la tendenza a confluire, a convergere, la tendenza all’amalgama, se si vuole al trasformismo, prevale di gran lunga sulla tendenza alla divisione per parti nettamente contrapposte. Le cose sono andate in modo davvero diverso solo quando sul sistema si sono abbattute le conseguenze di grandiosi sconvolgimenti esterni, in particolare le due guerre mondiali. La prima delle quali ha voluto dire la dittatura fascista e dunque la nascita inevitabile nel nostro universo politico della contrapposizione fascismo/ antifascismo; la seconda l’introduzione obbligatoria nel sistema della contrapposizione est-ovest, nella figurazione comunismo/anticomunismo.

Ma vale la pena di notare come anche in queste due condizioni di antagonismo estremo le tendenze inclusivo-amalgamatrici siano sempre rimaste forti. Facendo del fascismo una dittatura largamente aperta all'accesso di forze e personalità d'origine diversa, e nel secondo caso creando con il «cattocomunismo » e il «consociativismo » due contrappesi importanti alla divisione radicale del sistema.

In Italia, insomma, i due totalitarismi del Novecento hanno subìto, non a caso, una particolarissima declinazione «nazionale» che ha fatto dell'uno un totalitarismo «imperfetto », e dell'altro un partito comunista «liberale». Così rimettendo a nuovo, in qualche modo, quel modello che potrebbe dirsi di «giolittismo inclusivo»—prodotto dall’incontro tra notabilato tradizionale e nuove identità cattolica e socialista — che è stato storicamente, ed è, la vera forma originale che ha preso la nostra autoctona modernità politica. È questo il modello che ogni volta tende a riproporsi. E che per l'appunto si stava riproponendo anche all’indomani di «Mani Pulite», nel 1993-94, cioè nel momento in cui venivano finalmente cancellate le conseguenze prodotte nel nostro sistema politico da fascismo e comunismo, e perciò si poteva tornare al consueto. Se solo, però, non ci fosse stato Berlusconi. Cioè, di nuovo, se non ci fosse stato qualcosa di radicalmente estraneo alla dimensione politica nostrana, così estraneo da essere addirittura proclamato sul campo come il simbolo vivente dell'antipolitica.

Solo grazie all’anomalia berlusconiana il sistema politico italiano fu costretto allora a organizzarsi in due schieramenti contrapposti, e così è rimasto per quindici anni. E' la presenza di Berlusconi che ha tracciato la linea dell’«o di qua o di là». E in tal modo ha neutralizzato il «centro». «Centro» che nella nostra tradizione politica può essere luogo di effettiva consistenza politica, di vera, autonoma identità, solo se si contrappone alla sinistra, e cioè inglobando e in un certo senso surrogando la destra. O altrimenti è destinato a divenire il semplice luogo «tecnico» dell'amalgama trasformistico, dove si incontrano le burocrazie dei partiti e le grandi oligarchie della società. E proprio questa, forse, è oggi l'alternativa che sta di fronte al Paese.

Ernesto Galli Della Loggia

05 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_05/la-grande-palude-della-loggia-editoriale_780fa08e-a04f-11df-bc17-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Nostalgia di Cavour
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2010, 02:43:02 pm
L’IDEA DELLA POLITICA CHE MANCA ALL’ITALIA

Nostalgia di Cavour


Sarebbe per primo Cavour—di cui oggi ricorre il duecentesimo anniversario della nascita — a non gradire di essere ricordato con elogi di maniera, con inutili apologie. A suo merito parlano a sufficienza i nudi fatti—naturalmente per chi pensa che sia un bene che esista un’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia—essendo egli per l’appunto stato, di quest’Italia, l’artefice non unico ma certo massimo. Eppure in Italia Cavour non è per nulla popolare. Se è così (e lo testimonia la generale indifferenza che circonda l’odierno anniversario), ecco allora un modo forse appropriato per ricordare il Gran Conte e la sua opera: chiedersene il perché. Farlo fa probabilmente capire anche molte cose di che Paese siamo.

La scarsa popolarità di Cavour è innanzitutto l’esito naturale della scarsa conoscenza- popolarità che da noi ha il Risorgimento, cioè quella parte della nostra storia che riguarda la nascita della nazione. Basti pensare che negli ultimi trent’anni, e fino a pochissimo tempo fa, nei manuali scolastici non gli veniva assegnato nessun rilievo particolare, e che sono almeno altrettanti anni che a nessun regista italiano viene in mente di girare un film serio su quel periodo (del resto su Cavour, che io sappia, non ne è mai stato girato nessuno). Tutto ciò è d’altra parte più che naturale se si pensa che in pratica tutte le culture politiche dell’Italia del Novecento (dal fascismo all’azionismo, dal cattolicesimo al socialismo, al comunismo gramsciano, e fino al leghismo) sono nate da una critica più o meno radicale al Risorgimento, e in particolare proprio alla soluzione cavourriana di esso, sprezzantemente definita «moderata». Perpetuando l’equivoca confusione tra liberalismo e moderatismo che continua a pesare come un macigno sulla nostra vita pubblica. Si aggiunga la dissociazione da ogni dovere collettivo e il disprezzo qualunquistico- anarcoide verso lo Stato in quanto tale che nutre tanta parte del Paese, comprese le sue classi elevate. In misura significativa l’impopolarità di Cavour non è altro che l’impopolarità presso tanti italiani dello Stato italiano.

Ed è poi l’impopolarità della politica. O meglio: la radicale incomprensione — in Italia diffusissima — di che cosa essa sia, non possa non essere, e che l’azione di Cavour incarnò come poche altre. È incomprensione per l’intreccio di elementi nobili e poco nobili, di idealità alte e strumenti bassi, in cui la politica consiste; per la combinazione di dissimulazione e di coerenza, di ambizione personale e di devozione ad una causa, di opportunismo contingente e lungimiranza, che contraddistingue la politica; incomprensione infine per la drammatica serietà che deve esserci in chi si assume il peso di dominare la complessità, sempre difficile e spesso contraddittoria, di questo intreccio. Proprio ciò Cavour seppe fare in modo incomparabile. Ma proprio per questo egli non piace. Perché la sua azione non rientra nelle due categorie con le quali, invece, la più parte dei suoi connazionali è abituata a pensare alla politica: quella del vuoto moralismo da un lato, ovvero quella della scaltrezza da magliari dall’altro. Unite entrambe da un’invincibile propensione alla faziosità. Non basta.

Nell’impopolarità di Cavour c’è anche il peso ininterrotto delle interne divisioni della Penisola. C’è in generale il pregiudizio antinordista di una parte considerevole d’Italia e, in particolare, c’è l’«antipiemontesismo»: l’incomprensione— mischiata ai ricordi di un’unificazione vissuta da più parti come annessione —per certi tratti costitutivi dell’animo e della cultura del Piemonte percepiti come troppo diversi dal carattere nazionale. Il rifiuto della retorica e della presunzione di sé, l’obbedienza alle regole, un radicato senso del dovere, la tenacia, un certo abito pessimistico: tutti questi tratti della mentalità subalpina finiscono paradossalmente per riverberare una luce negativa sul grande primo ministro (che accanto ad alcuni di quei tratti in realtà ne aveva anche altri, assai diversi, a cominciare da una joie de vivre molto libertino-borghese), ratificando il suo destino di straniero in patria. Di italiano da 150 anni in qua eternamente inattuale.

Ma proprio perciò attualissimo. La consapevolezza della nostra storia, il senso della cosa pubblica, un’idea alta ma vera e realistica della politica, la rimessa in vigore di certe virtù civiche: non è forse di queste cose che nell’accavallarsi disordinato delle lotte dei partiti, dello scontro di tutti con tutti, ha bisogno oggi più che mai il Paese? Non ha forse bisogno l’Italia di ritrovare il senso originario della sua esistenza come Stato libero e moderno? Lo so bene: invocare un ritorno a Cavour suona solo patetico, prima ancora che vano. Almeno sia consentito, però, sentirne fino in fondo una disperata nostalgia e ripeterne con gratitudine il nome per trasmetterlo a chi in futuro si dirà ancora italiano.

Ernesto Galli della Loggia

10 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_10/nostalgia-di-cavour-ernesto-galli-della-loggia_ee39cee8-a43b-11df-81a0-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Nord e Sud, un'unità che va ritrovata
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2010, 11:08:51 am
Il commento

Nord e Sud, un'unità che va ritrovata


 Ernesto Galli della Loggia

Una questione domina su tutte le altre della politica italiana e in vario modo le riassume tutte: il problema dell'unità nazionale, ovvero il problema di come tenere ancora insieme il Nord e il Sud del Paese.

È chiaro, per chi sa vedere, che siamo ad uno di quei momenti in cui la politica è chiamata a fare i conti con una vera e propria svolta storica: la fine della prima Repubblica ha significato molto di più di ciò che allora ci è sembrato. Ha significato anche la fine degli equilibri economico-sociali (e della relativa ideologia) che avevano reso possibile e accompagnato la secolare industrializzazione-modernizzazione italiana. Con ciò è giunto ad un suo punto critico anche il secolare patto nazionale la cui forma, risalente al vecchio Statuto Albertino, la Costituzione del '48 aveva, sì, profondamente innovato, ma in un certo senso ripreso e confermato.

Il compito che sta ora davanti al Paese è quello di rifondare questo patto. Di rifondare l'unità italiana rinsaldando l'unione tra le due parti decisive della Penisola, il Sud e il Nord. Chi saprà farlo - è facile prevederlo - s'installerà al centro del sistema politico divenendo la forza egemone per un lungo tempo avvenire. Il partito o lo schieramento che vorrà provarci, che aspirerà al ruolo di partito nazionale, dovrà però guardarsi innanzi tutto da un pericolo mortale: quello di apparire (e/o di essere) un partito «sudista» (è il pericolo di cui invece non sembra accorgersi l'Udc, che così perde ogni credibilità «nazionale» cui pure dice tanto di aspirare, dopo che si è proclamata espressamente Partito della nazione). Incorre in tale pericolo qualunque posizione - come quella del partito di Casini, appunto - la quale, lungi dal capire il fondamento reale del «nordismo» (lo chiamo così per brevità) attribuisce invece a Bossi e alla pura e semplice esistenza della Lega l'origine dei problemi; rifiutandosi cioè di riconoscerne e soprattutto capirne la loro sostanza e portata reali. Quasi che, se non ci fossero né Bossi né la Lega, il Nord non creerebbe più fastidi e tutto andrebbe a posto.

Non è così. La protesta del Nord si fa forte dell'esistenza di problemi reali (inefficienza dell'amministrazione centrale, scarsità d'investimenti infrastrutturali, livello altissimo della fiscalità, a cui si può aggiungere la meridionalizzazione degli apparati statali): problemi che tra l'altro per una parte significativa non sono specifici del Nord, bensì generali dello Stato italiano, anche se al Nord se ne sente di più il peso. E sta proprio qui, direi, la differenza decisiva con il «sudismo», con la protesta che negli ultimi tempi il Mezzogiorno ha a sua volta mostrato di voler mettere in campo come rivalsa antinordista all'insegna del rivendicazionismo risarcitorio per il proprio mancato sviluppo.
Infatti, almeno nella sua vulgata di massa, quella del Sud si presenta come una protesta che non tiene assolutamente conto, non fa menzione neppure, di quello che pure tutti gli osservatori imparziali hanno indicato da decenni come tra i principali, o forse il principale ostacolo di qualunque possibile sviluppo del Mezzogiorno. Vale a dire la paurosa, talvolta miserabile pochezza delle classi dirigenti politiche meridionali, specie locali, protagoniste di malgoverno e di sperperi inauditi, ma che continuano a stare al loro posto perché votate dai propri elettori.

Accade così, che mentre la protesta «nordista» ha corrisposto alla nascita e all'affermazione in loco di una nuova classe politica (quella della Lega), quasi del tutto diversa dal passato e assai polemica verso di esso, comunque la si voglia giudicare; viceversa la protesta «sudista», proprio per questo suo dato di partenza di irrealtà, è disponibile ad ogni uso e già oggi viene inalberata dai più variegati spezzoni e reduci di tutte le formazioni politiche meridionali degli ultimi decenni mentre palesemente si candida a diventare il refugium peccatorum di tutti i trasformismi e gli opportunismi politici che prosperano a sud del Garigliano. In tal modo privando di ogni dignità politica e di ogni futuro le sue pur esistenti ragioni, e condannandosi a rappresentare esclusivamente l'ennesima chiacchiera da comizio.
Un partito che oggi volesse avere una funzione davvero nazionale dovrebbe dunque partire da qui. Dal capire senza esitazione le fondate ragioni del Nord e cercare di combinarle con quelle del Sud. Che ci sono, ma non sono presentabili all'opinione pubblica del Paese con qualche possibilità di successo fintanto che non le si strappa dalle mani di chi finora ha governato il Mezzogiorno, da destra e da sinistra, da Napoli a Palermo, nel modo sciagurato che sappiamo.


29 agosto 2010
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_29/nord-e-sud-unita-che-varitrovata-editoriale-ernesto-galli-della-loggia_05f52236-b33b-11df-ac3b-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La democrazia non è in rete
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2010, 04:10:51 pm
COMUNICAZIONE GLOBALE, STATI IMPOTENTI

La democrazia non è in rete


Oltre le questioni legate al funzionamento dei media già affrontate sul Corriere di ieri da Giulio Giorello, la folle iniziativa anti islamica del reverendo Terry Jones (nominatosi tale da se stesso) solleva un ulteriore problema, forse ancora più importante e generale. Un problema che, come la famosa talpa di marxiana memoria, sta scavando sotto le radici del mondo attuale erodendole sotterraneamente senza che neppure ce ne accorgiamo. È il problema del rapporto tra il regime democratico e l'estensione dello spazio. Quanto spazio si conviene alla democrazia perché essa possa funzionare?

La questione si pose con forza già alla fine del '700, quando Rousseau sostenne che un regime democratico, preso nel suo significato letterale di «governo del popolo», sarebbe impossibile in un Paese di grandi proporzioni. Come può mai accadere, infatti, che qui alcuni milioni di cittadini riescano davvero a riunirsi per discutere e deliberare, per giunta avendo conoscenza delle tante questioni che hanno necessariamente luogo in un grande spazio? Conosciamo tutti la risposta a questa domanda: il governo del popolo è possibile non per via diretta bensì attraverso i suoi rappresentanti. L’unica democrazia possibile è quella rappresentativa. Chi ha provato ad inventarne qualcun'altra ha fatto sempre fallimento.

Sbaglieremmo però a credere che allora la questione è risolta una volta per tutte. Oggi, per esempio, lo spazio e le questioni storiche ad esso riferibili sono all’origine di alcuni dei problemi più difficili che si pongono all’Unione europea se vuole diventare un autentico soggetto politico. Infatti, a causa della sua vasta (troppo vasta?) area geografica, in essa si parlano un gran numero di lingue. Il che pone una drammatica domanda: come può sorgere una democrazia, anche rappresentativa, se i suoi cittadini non sono in grado di capirsi, se si è in grado di capire solo i partiti e i politici della propria lingua? Se l’estensione dello spazio non è almeno in certa misura compensata dalla vicinanza linguistica? Cosa sarebbero oggi gli Stati Uniti se gli abitanti della California parlassero una lingua diversa da quelli della Virginia o del Nevada? Addirittura: esisterebbero mai? Non è tutto. Anche negli antichi Stati nazionali la protesta di tante periferie contro il centro, con le conseguenti richieste di maggiore autonomia, indica quanto le relazioni determinate dallo spazio (più o meno grande) continuino ad essere un problema per la democrazia.

Il caso del cosiddetto reverendo Jones sottolinea però come oggi, nell’ambito spazio/statualità, accanto alla difficoltà chiamiamola classica determinata dall’eccesso di estensione dello spazio, se ne sia aggiunta un’altra, con effetti potenzialmente ancora più gravi.

E cioè la difficoltà legata alla ridotta estensione dello spazio statale, al suo restringimento di fatto, dovuto principalmente alla velocità ormai fantastica di ogni genere di comunicazione, vicina ormai al traguardo dell’istantaneità. Si è già creato, infatti, e si allarga ogni giorno di più, un vasto spazio virtuale, un tecno-spazio planetario dove soprattutto le notizie, i movimenti di denaro e i rapporti interpersonali, sia scritti sia vocali, hanno assunto in pratica il carattere dell’immediatezza. Aprendo così davanti a noi una sorta di epoca della prossimità totale. Che peraltro ha la sua negazione/antitesi nella crescente lontananza che invece, all’interno degli Stati, si è creata in un gran numero di casi tra centro e periferie.

E così, stretto come in una tenaglia dentro una spazialità da un lato dominata dall’immediatezza e dall’altro caratterizzata dalla lontananza, il regime democratico vede oltremodo indebolite le sue antiche possibilità di controllo (e di autonomia). Per entrambi i versi esso vede progressivamente assottigliarsi i margini della sua sovranità: e tanto più in quanto proprio le sue caratteristiche democratiche, la sua tutela dei diritti individuali e collettivi, rendono sempre più problematica la difesa di quella sovranità. La quale, lungi dall’essere «superata» a favore di inesistenti e fantasmatiche sovranità sovra o internazionali — come credono gli ottimisti —viene semplicemente messa in mora da altre minisovranità al suo interno, ovvero dalle leggi senza volto della tecnologia, che operano nell’interesse esclusivo di sé medesime e/o degli incontrollabili interessi economici (per esempio della finanza o della grande informazione commerciale globale) che se ne servono.

Ernesto Galli Della Loggia

13 settembre 2010
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_13/democrazia-non-e-in-rete-galli-della-loggia_0c03e5fc-bef5-11df-8975-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA PD, IL PARTITO CHE MANGIA I SUOI LEADER
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2010, 12:23:09 pm
PD, IL PARTITO CHE MANGIA I SUOI LEADER

La solitudine dei numeri due


C’è un solo, vero vantaggio s t r a t e g i c o che la destra italiana ha sulla sinistra. La destra ha un capo, la sinistra no.
Specie quando si tratta di votare, di scegliere un futuro presidente del Consiglio questo si rivela un vantaggio decisivo. Il candidato della destra è il suo capo effettivo, conosciuto e riconosciuto come tale. Il candidato della sinistra, invece, è uno scelto a fare il candidato dai capi veri. La cui autorità quindi è un’autorità delegata, revocabile in ogni momento.

La scelta di Berlusconi come capo della destra, per varie ed ovvie ragioni (ma anche per una meno ovvia e di solito dimenticata: ed è che la destra italiana quale oggi la conosciamo l’ha inventata lui e solo lui) non ha bisogno di spiegazioni. Da che il Cavaliere ha deciso di scendere in campo il fatto che il capo sia lui è qualcosa d’indiscutibile, sul quale Berlusconi per primo non è disposto a transigere. Nessuno del resto ha mai pensato di prenderne il posto. Fini stesso, dopo anni di acquiescenza, si è limitato a chiedere di essere coinvolto in qualche modo nelle decisioni da prendere e di poter esercitare una sia pure insistente libertà di critica. È bastato questo per vedersi cacciato dal Pdl su due piedi.

Ciò che richiede di esser capito e spiegato, dunque, è perché la sinistra invece non riesca lei ad avere un capo. Mi sembrano tre i motivi principali.

Perché, innanzi tutto, non ci riesce quello che è il suo partito di gran lunga più forte, il Pd. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non aver scelto l’identità socialdemocratica, preferendole quella furbastra dei «democratici », lungi dal dare al part i t o e x c o m u n i s t a un’identità più ampia ed onnicomprensiva (come molti evidentemente speravano), gli ha reso impossibile, all’opposto, avere una qualunque identità. Lo ha condannato ad essere in permanenza un’accozzaglia di gruppi, di storie, di opinioni, ma non un partito. Dunque neppure ad avere una fisiologica e stabile vita interna con un capo riconosciuto. Il «comunismo » italiano, qualunque cosa esso fosse, traeva comunque dal leninismo il divieto ferreo del frazionismo e la conseguente inattaccabilità del segretario generale. Scomparso il «comunismo », non sostituito da niente, sembra svanita l’idea stessa di un capo. Sulla scena sono rimasti una dozzina di leader in lotta tra di loro ed autorizzati dal vuoto d’identità a recitare a turno tutte le parti in commedia.

Il secondo motivo riguarda con ogni evidenza la divisione ideologica della sinistra. Anche la destra è ideologicamente divisa, ma a destra sulle divisioni riesce sempre a prevalere in ultimo la volontà di vincere, e quindi il riconoscimento bene o male di un capo. Sulle passioni, cioè, riesce ad avere la meglio l’interesse politico complessivo.

A sinistra, invece, sembra prevalere su tutto la passione del proprio particolare punto di vista (di Rifondazione, Italia dei valori, Grillini, Verdi, ecc. ecc.). Vincere è importante, sì, ma a patto che ogni particolare punto di vista abbia modo di sopravvivere e di poter dire la sua da pari a pari con gli altri. Dunque senza riconoscere alcun capo: al massimo un leader elettorale. A sinistra il principale interesse politico, insomma, non è la vittoria sulla destra ma il mantenimento in vita delle proprie subidentità. In questo senso l’interesse delle varie minileadership fa corpo con l’aggressiva suscettibilità, alla base, delle varie sfumature del radicalismo ideologico.

C’è infine un terzo motivo, riconducibile in generale alla cultura maggioritaria nel popolo di sinistra. È il forte elemento antigerarchico presente in tale cultura. Cioè l’ostilità all’idea che specie in politica ci sia, debba esserci, uno che comanda e gli altri che obbediscono. E che dunque non contano solo le cosiddette «forze sociali», non solo «le strutture», ma anche (e come!) la personalità individuale: sicché la cosiddetta personalizzazione lungi dall’essere una patologia della politica è viceversa iscritta da sempre nel suo destino. Come se non bastasse, questo atteggiamento costitutivo della mentalità di sinistra è stato infine enormemente rafforzato dall’enfasi spasmodica posta sull’antiberlusconismo. Berlusconi dipinto incessantemente come «duce», «ras», «boss» ha prodotto l’effetto di squalificare ulteriormente ogni idea di comando, di capo. A ciò si è aggiunto l’altrettanto spasmodico e conseguente pregiudizio antipresidenzialista. Consacrato da una Costituzione la quale, si dice, sancirebbe la suprema ridicolaggine politica che un Paese possa essere governato non da un capo ma da un «primus inter pares».

Una sinistra con molti capetti ma senza un capo è costretta così a inventarsene spasmodicamente uno ad ogni stormir di fronde elettorali. Aprendo ogni volta un gioco al buio nel quale rischia di avere maggiori possibilità di successo, paradossalmente, o chi, tipo Beppe Grillo, in realtà non ha mai avuto a che fare con la politica, o chi, come Vendola, affida il suo richiamo sul pubblico allo stesso vuoto populismo del Grande Avversario da battere.

Ernesto Galli Della Loggia

20 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_20/solitudine-dei-numeri-due-editoriale-galli-della-loggia_c96456bc-c473-11df-be0b-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Cosa dirà (forse) il Cavaliere
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2010, 11:36:33 am
L'EDITORIALE

Cosa dirà (forse) il Cavaliere

Una difficile via d'uscita

   

Con le sue divisioni, i suoi personalismi, le sue inettitudini, la maggioranza di destra - tutta quanta, da Bossi a Fini passando per Berlusconi - ha portato il Paese nel più completo marasma politico.

Il guaio è che dopo questo marasma è prevedibile solo un marasma ulteriore: fino al caos. Poniamo infatti che oggi - ma la stessa cosa vale per domani o dopodomani - la Camera dicesse no alla richiesta di fiducia da parte di Berlusconi, e che dunque egli fosse costretto a dimettersi. Che cosa potrebbe fare il Presidente della Repubblica per evitare le elezioni anticipate? I numeri consentono due sole soluzioni possibili: un governo con una risicatissima maggioranza omnibus da Fini a Di Pietro, o, viceversa, un governo di larghissima maggioranza sinistra-destra-centro, magari affidato a un esponente della destra (Tremonti come un Dini reincarnato?). Bene: alzi la mano chi pensa che l'una o l'altra di queste maggioranze possa esprimere un minimo di coerenza programmatica, riesca a varare qualche misura significativa, a durare più di sei mesi. Anche l'idea che in una simile condizione politica si possa approvare una sia pur necessaria, urgente, sacrosanta nuova legge elettorale, sembra una pia illusione. Ce le vedete maggioranze così eterogenee mettersi d'accordo su un progetto di mutua soddisfazione o riuscire a superare l'opposizione e il prevedibile ostruzionismo della parte scontenta?

In ogni caso, dunque, una nuova crisi e questa volta, inevitabilmente, le elezioni anticipate con l'attuale legge elettorale. Chi le vincerebbe? È difficile avere dubbi: alla Camera senz'altro la coalizione Lega-Pdl sotto la guida ancora e sempre di Silvio Berlusconi, che al Senato, invece, quasi sicuramente non avrebbe la maggioranza. Dunque ancora impossibilità di formare un vero governo, un'ancora più grave instabilità: insomma il caos, come dicevo.

È solo questo fatto, è solo l'impossibilità di scorgere alternative realistiche che può portare oggi ad augurarsi che il governo in carica resti al suo posto. In attesa che prima o poi l'opposizione di sinistra riesca in ciò in cui fino ad oggi non è riuscita: costruire un'unità credibile intorno a un leader e a un programma credibili. Cioè, si metta in condizioni di affrontare l'avversario con qualche probabilità di successo.

Fino a quel giorno appare inevitabile, dunque, augurarsi che l'attuale maggioranza regga. Ma essa può farlo, potrà ancora godere di qualche consenso nel Paese, solo se oggi Berlusconi saprà trovare il tono e le parole appropriati. Se saprà dire alcune cose che l'opinione pubblica, in specie quella che non gli è pregiudizievolmente ostile, si attende da lui.

Per prima cosa qualche parola di spiegazione e di autocritica: per la scarsa capacità realizzatrice mostrata finora; per la scelta di circondarsi in troppi casi di persone inadeguate (Scajola, Brancher, Verdini, Cosentino, ecc.); per il clima di scontro esasperato (con la stampa, con la magistratura) che lungi dal sedare egli ha mostrato tanto spesso di alimentare; infine per il clima moralmente un po' troppo disinvolto che è emanato in tutto questo tempo dalle stanze del potere (o più spesso dalle sue camere da letto).

Sappiamo benissimo che non gli sarà facile, che egli non è certo uomo di pentimenti o di mea culpa. Ma è bene si convinca che certe idiosincrasie ce l'hanno pure gli italiani, e che pure i suoi elettori non appaiono più disposti a concedergli a occhi chiusi quell'apertura di credito che gli concessero due anni e mezzo fa. Dopo il tono c'è il merito.

Oggi Berlusconi deve andare dritto al punto. O meglio a pochi punti, in quello che sarebbe bene si presentasse come un vero e proprio programma dei cento giorni. Non servono discorsi vuotamente «alti e nobili». Non serve il mare di chiacchiere delle grandi promesse. Piuttosto, invece, poche cose da fare: di grande impatto pubblico ma non propagandistiche (l'immondizia napoletana docet), con indicazione rigorosa dei tempi, del finanziamento, delle modalità di tipo tecnico e legislativo per attuarle. L'elenco è fin troppo noto, ha solo l'imbarazzo della scelta. Ricordi comunque che il Paese è stanco di un presidente del Consiglio che ama pensare e parlare in grande ma non riesce nelle cose piccole e medie, per esempio in qualche liberalizzazione di licenze o di ordini professionali o nel sistemare qualche decina di chilometri di autostrade. Sarà capace Berlusconi di stare entro queste coordinate? È lecito avere dei dubbi. Ma alla fine tutto dipenderà da lui.

Ernesto Galli della Loggia

29 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_29/della-loggia-berlusconi_d6980830-cb88-11df-a93d-00144f02aabe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La successione a Berlusconi
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2010, 10:07:18 am
La successione a Berlusconi

Dico la verità: mi sarei aspettato che dopo le critiche mosse dal Presidente Berlusconi al suo partito, alle responsabilità che a suo giudizio questo avrebbe nella perdita di popolarità del governo, i tre coordinatori dello stesso Pdl — Bondi, La Russa e Verdini—avrebbero in merito detto qualcosa, mosso qualche obiezione, insomma si sarebbero difesi e avrebbero difeso il loro operato. Come del resto avevano fatto più e più volte in precedenza, rispondendo puntualmente e puntigliosamente a tutte le critiche apparse sui giornali o altrove (ricordo, per esempio, una lunghissima lettera indirizzata a chi scrive pubblicata sul Corriere il 4 marzo scorso). Invece niente, neppure una parola. Evidentemente ci sono interlocutori ai quali è permesso ribattere e altri, invece, con i quali è consigliabile osservare un prudente silenzio.
Ma ancora più stupefacente, in tutti questi mesi, è stato il silenzio da parte di qualcosa che pure aveva nome partito — sempre il Pdl, appunto — di fronte al sistematico prevalere nelle scelte del governo delle esigenze degli alleati leghisti. Silenzio di tomba perfino dopo l’ultimo Consiglio dei ministri, dove — per dirla nella maniera più spiccia — Berlusconi ha tranquillamente venduto alcuni ministri del suo partito (Gelmini, Prestigiacomo, Bondi, Galan e Meloni) al diktat della coppia Tremonti-Bossi.
Quando succedono cose del genere, o quando si ascoltano critiche come quelle di cui sopra mosse da Berlusconi, nei partiti, in quelli veri, non c’è il silenzio dei massimi responsabili (e di tutti gli altri). Scoppia invece la discussione, il confronto, magari il litigio. Il punto dunque è sempre e solo uno: e cioè che il Pdl (così come prima Forza Italia), di plastica o no, comunque non è un partito vero. Nel caso migliore è una coorte di seguaci ciechi e muti scelti inappellabilmente dal capo; nel caso peggiore una corte d’intrattenitori, nani, affaristi, ballerine, di addetti alle più varie intendenze. Certo, il Pdl è anche un partito votato da tanti degnissimi italiani. Ma sappiamo tutti che i voti in realtà non vanno al Pdl, vanno alla persona di Berlusconi.
Ma se le cose stanno così, questo significa che l’operazione storica di sdoganamento della destra compiuta da Berlusconi nei confronti del sistema politico italiano — sì, un’operazione storica: riconoscerlo è un obbligo di obiettività che anche la sinistra sarebbe ora sentisse — questa operazione è tuttavia, per sua stessa colpa, rimasta a metà. Berlusconi, infatti, ha sì sdoganato la destra elettoralmente e sul piano del governo, ma non è riuscito a sdoganarla socialmente e culturalmente. Non c’è riuscito nell’unico modo in cui da sempre ciò avviene, e cioè creando e radicando sul territorio un vero partito, organizzato e strutturato come tale, portatore di esigenze, centro di relazioni con ambienti e personalità diverse, elaboratore di proposte, collettore di idee. E soprattutto, almeno in certa misura, centro effettivo di decisioni vincolanti per tutti, anche per i suoi capi.
Non c’è riuscito perché non ha voluto, naturalmente. E non ha voluto per tre ragioni: per la paura che ciò avrebbe comunque diminuito il suo potere; per un riflesso padronale creatosi in decenni di comando aziendale, in base al quale «se io ci metto i soldi (e per giunta prendo i voti), io comando»; e infine per il difetto, che in lui è abissale, di vera cultura politica.
Lo sdoganamento della destra italiana rischia dunque, così, di finire con Berlusconi. Se le cose continuano nel modo attuale, infatti, quando il presidente del Consiglio si ritirerà dalla scena politica, il Pdl rischia verosimilmente di sfasciarsi nel giro di tre mesi, lasciando i suoi esponenti a galleggiare come turaccioli su quella marea di voti che solo Berlusconi riusciva a suo tempo a prendere, ma che ora saranno allo sbando, nella più totale libera uscita. Quale elettore di destra, infatti, si potrà mai sentire motivato a votare per Verdini, la Brambilla o Scajola? Per persone che come proprio titolo di merito saranno in grado di esibire, a quel punto, solo quello dell’obbedienza perinde ac cadaver?
Ma c’è Fini, si dice: perché non potrebbe essere Fini a portare a termine l’opera iniziata da Berlusconi? Fare profezie è vano, ma mi sembra assai difficile che lo sdoganamento ideologico-politico della destra italiana, la creazione finalmente di un suo vero partito, possano avvenire per opera di chi è stato l’ultimo segretario del partito neofascista, di chi per anni e anni si è nutrito di quegli ideali, lo ha diretto con quei metodi, con quello stile. Neppure agli ex comunisti è riuscita in modo indolore e in tempi brevi un’operazione di sdoganamento e di rifondazione che in fondo presentava da tanti punti di vista ben minori problemi; figuriamoci se può riuscire a un personaggio come Fini, che ancora non moltissimi anni fa sosteneva che Mussolini era «il più grande statista del Novecento».

A me pare che in realtà, Fini—come D’Alema, come Casini, come Rutelli, come Bersani, come Fioroni, come tutta una classe politica— appaia ancora e sempre immerso per intero nel vecchio scenario della morente prima Repubblica, nella sua paralizzata e paralizzante inconcludenza. Da chi come Fini ha come primo obbligo quello di mostrarsi sempre e comunque fedele osservante delle polverose regole della democrazia italiana, dei suoi tic e dei suoi tabù, è difficile attendersi rotture e novità di qualsiasi tipo.

Sembra proprio, dunque, che dobbiamo rassegnarci: il berlusconismo è l’unica benché fangosa novità politica toccata in sorte all’Italia in questi anni. Per il dopo siamo ancora in attesa.

Ernesto Galli Della Loggia

18 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_18/galli-della-loggia-berlusconi_475d7a1c-da77-11df-b6f8-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il Pdl, il governo e la paralisi.
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2010, 05:25:24 pm
IL PDL E LA PARALISI DI GOVERNO

Il Pdl, il governo e la paralisi. Il coraggio della verità


Che cos’altro deve succedere perché il Pdl si ricordi di essere, sia pur allo stato fantasmatico, un’entità che dice di essere un «partito»? Che cos’altro deve succedere perché i suoi deputati e senatori si accorgano che continuando così almeno la metà di loro non rivedrà mai più il Parlamento, e può considerare chiusa la propria carriera politica? Eppure, che la situazione della maggioranza sia sull’orlo del collasso è evidente a tutti, così come è altrettanto evidente che di questo passo rischia di subire un danno irreparabile l’immagine stessa del Paese e quel poco o tanto che resta del suo rango internazionale.

Non si tratta dell’avventurosa vita notturna del presidente del Consiglio, della quale egli mostra troppo spesso di sottovalutare i rischi. Fin dall’inizio ci siamo volenterosamente sforzati di dire che in fondo (e sia pure entro certi limiti) tutto questo riguardava la sua vita privata: convinti tra l’altro, come i fatti hanno finora dimostrato, che non sarebbe stato certo agitando tali argomenti che l’opposizione sarebbe mai riuscita ad avere la meglio. Né si tratta della ben nota disinvoltura istituzionale del premier: disinvoltura che spetterà al magistrato appurare se nell’ultima vicenda della ragazza marocchina abbia superato o no il confine della legge. No, non si tratta di tutto questo, o non solo di questo. E neppure tanto della paralisi dell’azione di governo, che pure è un dato reale. Si tratta del fatto che negli ultimi mesi è venuta meno nell’esecutivo qualunque capacità di direzione e di coordinazione, qualunque consapevolezza della quantità e della gravità dei problemi sul tappeto se non al livello della pura emergenza. Palazzo Chigi ha perduto la pur minima capacità di ascoltare e di rappresentare il Paese. L’Italia è — ed ancor più si sente — una nazione allo sbando. Chi ha la responsabilità di essere stato eletto dal popolo lo capisce? Ha gli occhi per vederlo?

È dunque inconcepibile che in una situazione del genere non si apra nel Pdl una discussione approfondita e senza riguardi per nessuno su quello che sta accadendo. Ripetere, come fanno un po’ tutti i suoi esponenti, che questo sarebbe il momento di «resistere », di «tener duro», di «restare uniti», è un vano esercizio retorico da assedio di Forte Alamo. Nella sostanza è puro nullismo politico. Per giunta all’insegna dell’ipocrisia, dal momento che è noto a tutti come, tra l’altro, proprio i «resistenti» più esagitati siano assai spesso quelli che, nei capannelli e dietro le quinte, vanno poi dicendo le cose peggiori sul conto del presidente del Consiglio, rivelando e stigmatizzando, quasi con sudicio compiacimento, le sue défaillance di ogni genere.

Non è più il tempo dei camerieri zelanti e bugiardi. È giunto il tempo della verità.

Se vuole avere ancora un qualche futuro politico, se non vuole ripetere in un registro grottesco la tragedia del Partito socialista nel 1992-1993, il Pdl deve dimostrare oggi— oggi o mai più — di volere, e di potere — essere un organismo politico reale. Fermandosi a considerare la propria storia e affrontando quei nodi che fin qui non ha mai voluto affrontare. C’è bisogno di ricordarli? Il ruolo, certamente decisivo ma a dir poco ingombrante del suo fondatore e capo, di Berlusconi; il modo di reclutamento e la qualità del suo personale politico, sempre cooptato e quasi sempre improbabile e raccogliticcio, quasi sempre privo di vera esperienza e di legami con l’elettorato (e in più di un caso anche di dubbia o accertata pessima origine); l’assenza patologica al suo interno di discussione e di decisioni collettive; l’ottuso compiacimento plebiscitario, il disprezzo plebeo per la costruzione di qualunque consenso che non sia quello da comizio. E infine il carattere e lo scopo del proprio programma, del proprio ruolo politico generale. Non si può campare in eterno sull’abolizione dell’Ici o sull’opposizione virulenta alla sinistra e alle procure della Repubblica. L’Italia ha bisogno di qualcos’altro. Di molto altro. Per tutto ciò è inevitabile dispiacere al Cavaliere? Certamente. Ma il destino di un’ormai lunga e importante avventura politica oggi si decide su questo e solo su questo: sulla verità e sul coraggio di dirla.

Ernesto Galli della Loggia

01 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_01/della-loggia-editoriale-coraggio-verita_e17361ec-e586-11df-b5c0-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Solitudine di un leader
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2010, 11:01:39 pm
FASE CONCLUSIVA DI UNA STAGIONE POLITICA

Solitudine di un leader


In questo piovoso autunno italiano non sta finendo solo una maggioranza o un governo: si sta concludendo l’avventura di un uomo solo.
È la solitudine di Berlusconi il dato che oggi più colpisce. E se l’uomo ha mischiato e confuso come pochi altri il pubblico e il privato, la sua solitudine pure è un fatto politico e insieme personale, dove non sai quale delle due cose è stata ed è causa dell’altra.

Le serate di Arcore e di Palazzo Grazioli sono l’immagine di una solitudine esistenziale disperata e agghiacciante, anche se nascosta dai fasti di una miliardaria satrapia. Oggi ci è chiaro: era un moderno Macbeth assediato dalla foresta di Birnam sempre più vicina, quello che si rinserrava ogni sera nelle mille stanze dei suoi mille castelli in compagnia di docili comparse. Ma non aveva mai voglia quest’uomo — ci chiediamo noi uomini normali — di scambiare quattro chiacchiere con un amico vero, con una persona normale?

È tuttavia la solitudine politica quella che impressiona maggiormente: la solitudine politica che il premier ha costruito giorno per giorno intorno a sé, imitato da troppi suoi collaboratori. L’avventura berlusconiana, partita all’inizio con un cospicuo capitale di attese e di fiducia (perfino da parte di molti nemici) si è progressivamente chiusa in se stessa, ha tagliato i ponti con tutti i settori significativi della società, ha stupidamente decretato avversione e ostracismo ad un numero sempre crescente di persone: in pratica tutte quelle della cui fedeltà ed obbedienza pronta, cieca e assoluta, non si fosse arcisicuri.

In questo modo, forse senza neppure accorgersene, gli uomini e le donne del premier, la sua classe di governo, il suo milieu, sono diventati ben presto una sorta di esercito accampato in territorio nemico, con la stessa psicologia e la mentalità degli assediati. Si dà il caso però che quel territorio fosse il loro Paese. «O con noi o contro di noi» è divenuta la parola d’ordine suicida sempre più spesso pronunciata, di cui com’era logico, hanno finito per trarre vantaggio solo gli avversari. Consigli arrogantemente respinti, suggerimenti finiti nel nulla, proposte liquidate con un’alzata di spalle sono state sempre di più la regola: allontanando sistematicamente le intelligenze che pure sarebbero state disponibili a rendersi utili. La parabola di un uomo come Giuliano Ferrara parla da sola.

Il berlusconismo avrebbe potuto facilmente — e magari anche abusivamente, se si vuole—intitolare a se stesso tutto ciò che in Italia non era di sinistra. Non solo non ha voluto o saputo farlo. Ha fatto il contrario: ha regalato alla sinistra tutto ciò che sentiva o sapeva non essere intrinsecamente suo. Estraneo fin dalle origini alla socialità politica di gruppo in quanto nato dalla felice intuizione di un uomo solo, di un capo, invece di correggere tale vocazione primigenia alla solitudine e all’obbedienza gerarchica, è andato esasperandola.
Sempre più sono rimasti il capo soltanto e soltanto coloro che gli obbedivano. Certo, è rimasto sempre chi obbediva pur conservando qualche luce d’ingegno e di autonomia personale, ma le file dei puri e semplici profittatori e dei camerieri sono andate crescendo a dismisura, sono diventate un esercito, e dopo non molto tempo tutta la scena ha finito per essere occupata solo da costoro.

Una turba di mezze calzette, di villan rifatti, di incompetenti, di procacciatori: la solitudine sociale del berlusconismo si è andata sempre più incarnando in questa schiera compiacente e zelante, pronta ad ogni servilismo per il proprio personale interesse. Sono stati essi i principali artefici della muraglia invalicabile costruita intorno al potere del capo. Da essi il capo è apparso inspiegabilmente sempre più dipendere. Da essi trarre i consigli che di sconfitta in sconfitta, di fallimento in fallimento, lo stanno portando ineluttabilmente alla fine.

Più che vinto dalle inesistenti vittorie dei suoi nemici, il berlusconismo oggi crolla vittima di una sorta di autoreclusione si direbbe quasi studiata con intenzione, compiaciutamente suicida. E sempre più quello che fu per antonomasia «un uomo solo al comando» ormai appare niente altro che un uomo solo e basta. Che forse neppure si rende conto ancora di esserlo.

Ernesto Galli Della Loggia

14 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_14/galli-della-loggia-solitudine-leader-editoriale_10623552-efc6-11df-aa12-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il potere grigio degli oligarchi
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2010, 04:35:47 pm
POCHI I GIOVANI DALLA POLITICA ALLE BANCHE

Il potere grigio degli oligarchi


I l giovanilismo è di nuovo alla ribalta della scena italiana, chiamato a recitare la parte che da trent'anni è sempre la sua: i «giovani» (o per meglio dire poche decine di migliaia di questi che manifestano con parole d'ordine di sinistra) sarebbero gli araldi del «cambiamento», della «svolta», del «risveglio», l'avanguardia della protesta di tutta la società contro il potere cattivo di turno, preludio alla sua sospirata mandata in soffitta. Naturalmente, si scopre in breve che «i giovani» (sempre e solo studenti: sembra che in Italia, chissà perché, per avere la titolarità anagrafica della gioventù si debba evitare accuratamente qualunque rapporto con il lavoro manuale) non annunciano in realtà nulla di quanto sperato, la protesta si spegne, e tutto torna come prima, mentre il Paese resta in attesa della prossima immancabile «rivolta», con le stesse immancabili foto di cortei, gli stessi immancabili articoli entusiasti dei giornali, le stesse penose interviste ai presunti ribelli.
Ma l'apparenza inganna. La fortuna politico-mediatica del giovanilismo è solo un modo per nascondere la realtà: e cioè che l'Italia della Seconda Repubblica è un Paese sempre più dominato dai vecchi.

Lo è innanzi tutto per un puro fatto biologico-anagrafico: perché la combinazione della scarsa natalità e della diminuita mortalità ha reso gli ultrasessantacinquenni sempre più numerosi. Ma più in generale perché negli ultimi vent'anni, in coincidenza con una fase ormai lunghissima di ristagno economico, il Paese ha perso slancio, fiducia e vitalità, è andato ripiegandosi su se stesso. La società italiana si è progressivamente rinchiusa dietro le antiche difese che la sua storia ha costruito. Dietro la famiglia, ma ancor di più dietro la corporazione e l'oligarchia, quasi sempre saldate insieme in un blocco ferreo.

In nessun altro Paese dell'Europa occidentale come in Italia i vertici degli ambiti lavorativi sia pubblici che privati con un minimo di qualificazione sono protetti da regole di accesso, formali o informali, le quali di fatto sbarrano il passo a chiunque non si trovi già inserito nel personale da decenni o non goda di appoggi potentissimi. La generale, feroce ostilità al merito, unita al culto del principio della «carriera» e al legalismo spietato custodito dal Tar - tre pilastri della burocrazia statale - si rivela un'arma efficacissima per impedire ai funzionari più giovani e intraprendenti di scalare rapidamente gli alti gradi. Dell'università neppure a parlarne. Ma, ripeto, non è solo lo Stato: il sistema bancario, ad esempio, è ormai da decenni nelle mani degli stessi mentre i nuovi ingressi avvengono con il contagocce. In complesso, poi, tutti i consigli d'amministrazione del settore privato vedono la presenza strabordante di persone intorno ai settant'anni.

La politica non dà certo il buon esempio: non solo ritirarsi da essa a una certa età per dedicarsi a qualche altra attività è cosa da noi sconosciuta, non solo perlopiù l'età media dei leader italiani è seconda solo a quella della Corea del Nord, ma ogni volta che essa è chiamata a nominare i vertici di qualcuno dei mille enti alle sue dipendenze, si può essere sicuri che nel novanta per cento dei casi sceglierà un vecchio politico o un vecchio burocrate con una lunga carriera alle spalle nei più svariati incarichi (ognuno dei quali in genere non c'entra nulla con l'altro), messo lì soprattutto come ricompensa o per tutelare chi di dovere. Una persona giovane, un quarantenne dinamico, mai: si può essere sicuri.

Oltre a essere un potere ancora oggi massicciamente maschile, il potere italiano è un potere vecchio e di vecchi: privo di gusto per il nuovo, a corto di idee e di iniziative coraggiose, incapace di rischiare davvero. Ampolloso e ripetitivo, è abituato a muoversi con circospezione pari al suo stanco scetticismo. Un potere rappresentato da volti che abbiamo sotto gli occhi da così tanto tempo che ormai ci sembrano eterni, la sua durata media essendo a un dipresso il mezzo secolo.
In questo modo sulla scena italiana i giovani diventano sempre meno visibili. Tanto è vero che capita ormai frequentemente di trovarsi in situazioni o immersi in pubblici in cui tutti hanno un'età come minimo matura. Mentre, quasi in risposta all'ostilità ambientale e anche in ragione delle differenze di reddito, i giovani - e non necessariamente i soli adolescenti (penso ad esempio alle giovani coppie) - tendono a creare e frequentare circuiti loro propri. All'insegna di valori separati. Adulati e additati alla pubblica ammirazione come gli araldi del nuovo, gli italiani giovani di fatto sono gli ostaggi segregati (e le vittime) di tutto ciò che è vecchio.

Ernesto Galli Della Loggia

06 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_06/potere-grigio-degli-oligarchi-galli-della-loggia_55b4bbbc-00ff-11e0-96e9-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il futuro della destra
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2010, 04:27:29 pm

OLTRE IL VOTO DI MARTEDI'

Il commento

Il futuro della destra

Se martedì prossimo il governo otterrà la fiducia nelle due Camere sarà difficile non riconoscere in ciò un indubbio successo di Berlusconi: un successo della leadership, della determinazione e della coriacea personalità del presidente del Consiglio. Ma anche quel successo non potrà cancellare un dato ormai acquisito: la grande promessa/scommessa berlusconiana è fallita. Berlusconi può durare tutto il tempo che si vuole, anche fino alla fine della legislatura, ma è impossibile non prendere atto che delle grandi novità che la sua discesa in campo sembrò annunciare quindici anni fa, oggi non rimane pressoché nulla.

Al centro di quella promessa/scommessa c'era, infatti, molto di più che il puro e semplice impegno (questo sì senz'altro mantenuto) di sbarrare il passo alla sinistra. C'era l'idea che quello che allora nasceva, nel quadro di un bipolarismo finalmente conquistato, doveva essere, sarebbe stata, una destra liberale adeguata ai tempi (quindi liberista ma con giudizio, per esempio solidarista ma decisamente anticorporativa), pregna degli umori della società civile ma dotata di senso delle istituzioni, capace di esprimere un'adeguata cultura e capacità di governo. Non è andata così, invece. Berlusconi non è stato capace di dare vita a nulla di tutto questo. Così come non è stato capace di farlo quella tradizione politica alimentata nelle file del Msi prima e di An poi, e di cui Gianfranco Fini è stato finora il massimo rappresentante. Tradizione che messa con la vittoria di Alemanno nella condizione unica di reggere le sorti della capitale del Paese, sta dando la prova d'inettitudine e di malgoverno che è sotto gli occhi di tutti.

In questi quindici anni, dunque, la destra plasmata e guidata da Berlusconi ha dimostrato di essere in grado di vincere le elezioni, ma non di radicare nella società una stabile struttura di rappresentanza degli interessi, di darsi le sedi dove elaborare una discussione programmatica, darsi un volto e formare dei quadri propri, insomma di fondare una vera cultura politica e un vero partito. Il che significa che anche le sue possibilità di vittoria elettorale presumibilmente diminuiranno di molto il giorno in cui il Cavaliere abbandonerà la scena. Quando ciò accadrà, quando tramonterà la sua stella, il sistema politico italiano minaccerà di ritornare così a quello squilibrio che, a pensarci bene, dura niente di meno che dai giorni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale. E cioè alla mancanza sulla destra di un moderno e grande partito di orientamento liberal-conservatore fedele alle istituzioni parlamentari, che raccolga i voti della vasta area d'ispirazione moderata, o come altro voglia dirsi, che comunque non si riconosce nella sinistra. In questo vuoto s'infilò e vinse a suo tempo il fascismo. Su questo vuoto, dopo il 1945, stabilì la sua egemonia la Democrazia cristiana costruendovi gran parte delle sue fortune politiche. Con il declino del berlusconismo quel vuoto ora si sta per manifestare nuovamente, e ne è segno inequivocabile l'infittirsi del lavorio centrista intorno al progetto di un «terzo polo» al quale sembra aderire anche Fini.

Progetto che ha come base e premessa necessaria la cancellazione di qualunque maggioritario e l'adozione di un sistema proporzionale che serva, tra l'altro, a sterilizzare la forza della Lega relegando il Carroccio isolato a destra, nello stesso ruolo marginale che nella Prima Repubblica aveva il Movimento sociale.

L'esito ineluttabilmente centrista-proporzionalistico del fallimento di Berlusconi potrebbe essere contrastato, mi pare, solo da un'iniziativa che partisse dall'interno del Pdl. Con l'obiettivo per l'appunto di guardare e di andare oltre Berlusconi. Un'iniziativa capace di immaginare una destra conservatrice su certi temi ma liberale su altri, anticorporativa, non bigotta ma radicata nell'ethos giudaico-cristiano, antigiustizialista ma fermissima nella legalità, plurale, e magari capace di accorpare con spregiudicatezza anche forze e tradizioni politiche come i radicali o spezzoni del mondo ecologista, oggi apparentemente incongrue ma, io credo solo apparentemente (si ricordi la definizione di Pannella data da Montanelli come «uno dei nostri»). Un'iniziativa che almeno oggi come oggi, però, fa a pugni con la quiete cimiteriale che regna nel Pdl, con il sorprendente mutismo che distingue tutti i suoi esponenti. Se le cose continueranno così, l'autocancellazione politica del Popolo della libertà condurrà inevitabilmente, come dicevo sopra, alla vittoria del progetto centrista neo-democristiano sulle rovine del berlusconismo. Una vittoria neo-democristiana: ma questa volta senza neppure quella grande cosa che dopotutto fu la Dc.

Ernesto Galli della Loggia

12 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_12/il-futuro-della-destra-ernesto-galli-della-loggia_ddb25620-05c6-11e0-be41-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'orecchino populista
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2010, 05:18:37 pm

LA SINISTRA E IL FENOMENO VENDOLA

L'orecchino populista


Dopo il segno premonitore rappresentato da Di Pietro oggi Vendola è la conferma che l'elettorato che fu per decenni quello del Partito comunista ormai è un pallido ricordo perché un pallido ricordo sono ormai il suo mondo concreto e ideale, la sua mente e il suo cuore.

L'irruzione vittoriosa di Vendola nelle primarie del Pd segna per la sinistra la fine della «storia» come termine essenziale di riferimento e la sua sostituzione con la «vita». Finisce cioè l'idea secondo la quale sarebbe per l'appunto nella storia la dimensione più vera dell'esistenza degli uomini perché sarebbe essa la chiave vera della loro soggettività, e dunque sempre la storia sarebbe la causa e insieme la soluzione dei loro problemi. Questa idea, che peraltro non era stata solo della sinistra, finisce da noi con la fine dell'impianto ideologico che arriva all'Italia della Prima Repubblica dal cuore della modernità otto-novecentesca. Finisce con il declino dell'industrializzazione e dei suoi attori, con l'impallidimento dei grandi luoghi aggregativi della socializzazione come la famiglia, la Chiesa, i partiti, i sindacati. La sinistra è semplicemente quella che ha risentito di più del contraccolpo di tale fine perché era quella che più aveva puntato sulla storia e sul suo supposto svolgimento progressivo, credendosene interprete autorizzata, protagonista decisiva ed erede universale.

Per la suggestione di «Mani pulite» il grande vuoto così creatosi è stato riempito inizialmente da una sorta di trasfigurazione ideologica della giustizia penale. Il moralismo antico della sinistra dovuto al suo credersi portatrice privilegiata di istanze etiche è divenuto giustizialismo: l'idea cioè che dietro ogni avversario si celi un malfattore, e che quindi il codice penale possa e debba essere l'alfa e l'omega di ogni politica. Per una sua parte il popolo di sinistra in questa idea ancora si riconosce, e sta qui il motivo dell'ipoteca permanente che Di Pietro e il dipietrismo esercitano tuttora sui suoi orientamenti elettorali. Ma ormai, come dicevo all'inizio, un'ipoteca ben maggiore ha preso ad esercitarla un nuovo protagonista: Vendola. Alla sguaiataggine plebea dell'ex pm di Milano subentra lo studiato populismo del governatore pugliese.

Con Vendola si può dire che avvenga il distacco completo dall'antico ormeggio ideologico, che in qualche modo con Di Pietro era ancora quello tradizionale, e si entra in qualche cosa di completamente diverso: nel mare della vita. Vendola - anzi universalmente Nichi, in una misura neppure paragonabile a quella in cui Veltroni è mai riuscito ad essere Walter, o la Bindi Rosy: stigmate indiscutibile di una riuscita assimilazione al modello divistico di tipo rockettaro-televisivo - Vendola, dicevo, innanzi tutto non parla: intesse delle «narrazioni» parola chiave del suo lessico. Narra di «ragazzi» lui non dice mai giovani, termine «freddo» che sa di Censis, lui adopera solo termini «caldi», affettuosi, di notti sulla spiaggia ad ascoltare la «taranta» o vecchi cantastorie, di sua madre e dei suoi amici, di grandi speranze e grandi delusioni. Certo, la politica è sempre presente. Ma nella sua «narrazione» la politica è quasi esclusivamente evocazione di sentimenti, è immagini ed emozioni, fantasiosa capacità di rubricare come «immagini di morte» eguali «la macchia di petrolio del Golfo del Messico e il plastico del garage di Avetrana in uno studio tv».

Ernesto Galli Della Loggia

21 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_21/galli-della-loggia-orecchino-populista_8ad3af36-0cc8-11e0-a1b6-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Un disperato qualunquismo
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2010, 08:52:04 pm
DITE LA VERITA' AL PAESE

Un disperato qualunquismo


Non vanno bene le cose per l'Italia.

Prima che ce lo dicano le statistiche - comunicandoci per esempio un dato lugubre: che nel 2010 il reddito pro capite degli italiani sarà in termini reali inferiore a quello del 2000 - ce lo dice una sensazione che ormai sta dentro ciascuno di noi e ogni giorno si rafforza.


Basta che ci guardiamo intorno per scorgere un panorama sconfortante: abbiamo un sistema d'istruzione dal rendimento assai basso; una burocrazia sia centrale che locale pletorica e inefficientissima; una giustizia tardigrada e approssimativa; una delinquenza organizzata che altrove non ha eguali; le nostre grandi città, con le periferie tra le più brutte del mondo, sono largamente invivibili e quasi sempre prive di trasporti urbani moderni (metropolitane); la rete stradale e autostradale è largamente inadeguata e quella ferroviaria, appena ci si allontana dall'Alta velocità, è da Terzo mondo; la rete degli acquedotti è un colabrodo; il nostro paesaggio è sconvolto da frane e alluvioni rovinose ad ogni pioggia intensa, mentre musei, siti archeologici e biblioteche versano in condizioni semplicemente penose.
Per finire, tutto ciò che è pubblico, dai concorsi agli appalti, è preda di una corruzione capillare e indomabile. C'è poi la nostra condizione economica: abbiamo contemporaneamente le tasse e l'evasione fiscale fra le più alte d'Europa, mentre gli operai italiani ricevono salari ben più bassi della media dell'area-euro; il nostro sistema pensionistico è fra i più costosi d'Europa malgrado le numerose riforme già fatte e siamo strangolati da un debito pubblico il pagamento dei cui interessi c'impedisce d'intraprendere qualunque politica di sviluppo.
Ancora: nessuno dall'estero viene a fare nuovi investimenti in Italia, ma gruppi stranieri mettono gli occhi (e sempre più spesso le mani) su quanto resta di meglio del nostro apparato economico-produttivo; nel frattempo il processo di deindustrializzazione non si arresta e la disoccupazione, specie giovanile, resta assai alta.

Nessuno di questi mali ha un'origine recente, lo sappiamo bene. Non paghiamo cioè per errori di oggi o di ieri: o almeno non solo per quelli. È piuttosto un intero passato, il nostro passato, che ci sta presentando il conto. Oggi cominciamo a capire, infatti, che qualche tempo fa - quando? nel '92-'93? un decennio dopo con l'adozione dell'euro? - si è chiuso un lungo capitolo della nostra storia. Nel quale siamo diventati sì una società moderna (qualunque cosa significhi questa parola), ma pagando prezzi sempre più elevati, accendendo ipoteche sempre più rischiose sul futuro, chiudendo gli occhi davanti ad ogni problema, rinviando ed eludendo. Prezzi, stratagemmi, rinvii, che negli Anni 70-80 hanno cominciato a trasformarsi in quel cappio al collo che oggi sta lentamente strangolando il Paese.

Lo sappiamo che le cose stanno così. Ce ne accorgiamo ogni giorno che l'Italia perde colpi, non ha alcuna idea di sé e del suo futuro.
Ma ci limitiamo a pensarlo tra noi e noi, a confidarcelo nelle conversazioni private. Avvertiamo con chiarezza che avremmo bisogno di bilanci sinceri e impietosi fatti in pubblico, di un grande esame di coscienza, di poterci specchiare finalmente e collettivamente nella verità. Che ci servirebbero terapie radicali. Invece sulla scena italiana continua a non accadere nulla di tutto ciò.

Chi dovrebbe parlare resta in silenzio. Resta in silenzio il discorso pubblico della società italiana su se stessa, consegnato ad una miseria che diviene ogni giorno meno sopportabile. Ma soprattutto resta in silenzio la politica, divisa tra lo sciropposo ottimismo di Berlusconi, il suo patetico «ghe pensi mi» da un lato, e la vacuità dei suoi oppositori dall'altro. Bersani, La Russa, Bossi, Fini, Bondi, Vendola, Verdini, Di Pietro, Casini, e chi più ne ha più ne metta credono di parlare al Paese con le loro dichiarazioni, le loro interviste, i loro attacchi a questo o a quello, i loro progetti di alleanze, di controalleanze e di governi: non sanno che in realtà se ne stanno guadagnando solo un disprezzo crescente, ne stanno solo accrescendo la distanza dal loro traballante palcoscenico. Sempre più, infatti, la loro produzione quotidiana di parole suona eguale a se stessa: ripetitiva, irreale, ridicola. Mai una volta che uno di essi proponga al Paese una soluzione concreta per qualche problema concreto: chessò, come eliminare la spazzatura a Napoli, come attrarre investimenti esteri in Italia, come finire la Salerno-Reggio Calabria prima del 3000, come iniziare a risanare il debito pubblico. Mai: anche se a loro scusante va detto che nel solcare quotidianamente l'oceano del nulla sono aiutati da un sistema dell'informazione anch'esso perlopiù perduto dietro la chiacchiera, il «retroscena», il titolo orribilmente confidenziale su «Tonino» o «Gianfri», il mortifero articolo di «costume».

Nelle pagine e pagine dedicate dai giornali alla politica diventa sempre più difficile distinguere il vero dal falso, scorgere qualche spicchio di realtà tra i fumi dell'aria fritta. È così che alla fine siamo condannati a questo necessario, disperato, qualunquismo.
Agli italiani non sta restando altro. Disperato perché frutto dell'attesa vana che finalmente da dove può e deve, cioè dalla politica, venga una parola di verità sul nostro oggi e sul nostro ieri. Una parola che non ci esorti - e a che cosa poi? A credere in un ennesimo partito, in un'ennesima combinazione governativa? - ma che ci sfidi: ricordandoci gli errori che abbiamo tutti commesso, i sacrifici che sono ora necessari, le speranze che ancora possiamo avere. Per l'Italia è forse iniziata una corsa contro il tempo, ma non è affatto sicuro che ce ne resti ancora molto.

Ernesto Galli della Loggia

30 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_30/un-disperato-qualunquismo-ernesto-galli-della-loggia-editoriale_2120c614-13e4-11e0-96ea-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - Indignarsi non Basta
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2011, 12:07:14 pm
CASO BATTISTI, IMMAGINE ITALIANA

Il commento
Indignarsi non Basta

Storia
Un Paese che vuole contare è innanzi tutto un Paese di cui gli altri conoscono la storia


Per motivi fin troppo ovvii il caso Battisti mette in questione l'immagine dell'Italia, ci obbliga a considerare come il mondo ci vede. Certo, Brasile e Francia non sono il mondo. Sono pur sempre, tuttavia, due grandi Paesi rappresentativi di interi universi culturali. Due Paesi che contano. Ebbene, «Il Brasile - ha scritto a ragione Peppino Caldarola sul Riformista - ha trattato il nostro Paese come un alleato minore cui assestare uno schiaffo con la certezza di non subire conseguenze». Dalla Francia, invece, una fitta schiera di autorevoli intellettuali, oltre a trovare tutte le scuse possibili e impossibili (in verità esclusivamente quest'ultime, direi) per il pluriomicida Battisti, non ha mancato di impartirci la lezione del caso sul terrorismo, sugli «anni di piombo», sulla giustizia, sulle nostre supposte manchevolezze in tutti questi ambiti e in molti altri ancora.

Nel primo caso la diplomazia risponderà come deve. In quanto opinione pubblica, invece, sarebbe sbagliato se la nostra reazione si limitasse a quella degli offesi, se fosse la reazione adontata e dai toni vagamente sciovinisti echeggiati per esempio in certe dichiarazioni governative. Meglio faremmo a renderci conto che quanto accaduto nei giorni scorsi rispecchia piuttosto un dato permanente. E cioè che presso la stragrande maggioranza dei pubblici stranieri l'Italia così com'è è una realtà largamente ignorata. È ignorata la sua storia unitaria, e in modo particolarissimo quella degli ultimi quindici anni. È perlopiù sconosciuto il modo di funzionare dei suoi organi costituzionali (i loro poteri, le loro prerogative) e specialmente della giustizia. Egualmente pressoché sconosciuti sono il tono effettivo della nostra vita pubblica e politica, la variegata qualità delle nostre relazioni sociali, dei nostri costumi e comportamenti collettivi, direi anche la qualità del nostro dibattito intellettuale. Anche per gli stranieri colti, troppo spesso l'immagine attuale dell'Italia è schiacciata sotto il peso di tre stereotipi: Berlusconi (vissuto come un mistero orripilante, premessa di ogni male), l'onnipotenza della mafia e della camorra, il pervadente oscurantismo del Cattolicesimo. Per il resto: approssimazione, inefficienza, arbitrio. Insomma, il solito folklore mediterraneo.

Ma se le cose stanno così la colpa è soprattutto nostra. Per esempio del nostro ministero degli Esteri, che per una pitoccheria suicida lascia da anni nel più completo abbandono la rete dei nostri istituti culturali all'estero (di un numero ridicolmente elevato e quindi anche per questo con scarsissime risorse, scoordinati, privi di un indirizzo unitario); che cura in modo assolutamente inadeguato i corrispondenti della stampa estera in Italia non fornendo loro occasioni significative per conoscere più approfonditamente il Paese; che non si preoccupa di finanziare in misura significativa la traduzione di opere italiane, di mantenere stabili rapporti con i numerosi dipartimenti di studi italiani nelle università straniere, di avere una politica favorevole e larga di occasioni per tutti coloro (e sono ancora molti) che all'estero si occupano in modo serio d'Italia e di cose italiane.

Un'altra parte non indifferente di responsabilità ce l'hanno poi gli ambienti intellettuali di casa nostra. Troppi nostri scrittori, artisti, uomini di cultura, sembrano farsi quasi un punto d'onore nel compiacere senza fiatare le opinioni più raffazzonate e sommarie che capita loro di ascoltare da amici o colleghi stranieri quando si parla dell'Italia. E il loro più o meno tacito assentire ha peso, conta. In essi mostrarsi ostili al governo di destra in carica, così raccogliendo il quasi certo consenso dell'interlocutore, ha in genere la meglio su qualsiasi sforzo volto per esempio a chiarire le ragioni di fondo, i motivi complessi, che spesso spiegano per non piccola parte tanti aspetti negativi della nostra situazione. Per quanto almeno mi è capitato di vedere, quella cosa che si chiama «carità di patria» - e che per l'appunto dovrebbe indurre, non certo a nascondere la propria opinione, ma almeno ad accompagnarla con discorsi più alti e con un certo distacco - non è merce molto diffusa tra gli italiani colti quando si trovano fuori casa. Si aggiunga poi il nostro invincibile provincialismo culturale, il quale tende troppe volte a farci apparire bello ciò che non è italiano. E che per esempio qualche tempo fa ha spinto anche una casa editrice come Laterza ma non è certo la sola! a tradurre un libro come quello di Christopher Duggan, La forza del destino, un libro che offre una versione della storia italiana negli ultimi 150 anni che dire caricaturale è dire poco. Noi stessi contribuendo in tal modo ad accreditare un punto di vista circa il nostro passato che non aiuta certo a capire nulla del nostro presente. È così - è anche, e anzi soprattutto, così - che quando poi capita che l'Italia debba misurare il peso e la qualità della propria immagine nell'arena internazionale, essa si ritrova con il bel risultato che le ha riservato il caso Battisti. Un Paese che vuole contare ed essere preso sul serio dagli altri è innanzi tutto un Paese di cui gli altri conoscono a sufficienza la storia e la realtà attuale, un Paese che, se è l'Italia, non deve, o non dovrebbe, essere scambiato per la Macedonia o per la Colombia con buona pace di entrambe.

Ernesto Galli della Loggia

07 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_07/galli_della_loggia_indignarsi_non_basta_0a510b6e-1a25-11e0-91c1-00144f02aabc.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La fabbrica delle anime
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2011, 05:10:01 pm
L’ALLERGIA AL LEADER DEL PD

La fabbrica delle anime

L’Italia è il Paese in cui alla vigilia di ormai più che probabili elezioni politiche l’opposizione è ancora priva di un leader da contrapporre al leader dello schieramento avversario, cioè a Silvio Berlusconi. Ciò riguarda tanto l’opposizione di sinistra che quella di centro: ma per ragioni solo in parte eguali. Il problema comune è che entrambe le opposizioni hanno una composizione eterogenea, ognuna essendo formata di tre, quattro, o anche più formazioni diverse, le quali devono trovare un accordo su chi le rappresenti nella competizione elettorale: una decisione, come si capisce, tutt’altro che facile.

Ma se questo è il problema comune sia al centro che alla sinistra, la sinistra ne ha uno in più. E cioè che qui è lo stesso partito di gran lunga più importante dello schieramento, il Partito democratico, che non ha un vero leader, non ha un capo. Per capo intendo una persona in grado di prendere decisioni vincolanti per tutti perché titolare di un consenso non da contrattare ogni volta con una continua ricerca di compromessi. Intendo insomma esattamente ciò che il povero Bersani non è. Ma Bersani non ha colpa. Il Pd manca di una simile figura da sempre: ed è questa una tra le non ultime ragioni per cui è un partito zoppo, sempre incerto nelle sue mosse, insicuro e poco affidabile all’esterno in quanto incapace di parlare con una voce sola.

Sono tre i principali motivi di questa specie di destino maligno.

Il primo è che innanzitutto nella cultura, nel modo di sentire del popolo del Pd si avverte una diffidenza profonda per l’idea stessa che un capo sia necessario. L’evoluzione ideologica dell’elettorato di sinistra successiva alla fine del comunismo ha voluto perlopiù dire, infatti, l’approdo a un democraticismo antigerarchico che è portato a vedere in ogni esercizio d’autorità un più o meno larvato sopruso. Dalla reverenza verso il capo indiscusso designato dal Partito con la P maiuscola a decidere di tutto (Togliatti, Berlinguer) si è passati all’idea opposta che di tutto possano e debbano decidere tutti (e chi non è d’accordo ha diritto di fare per conto suo come se nulla fosse). Alla speranza nella storia essendo subentrata con pari forza, dopo «Mani pulite », l’idolatria per i codici, tutto il senso comune della sinistra si è impregnato di regolamentarismo, di astrattezza, di sospetto per qualsiasi contenuto o potere legato alla persona. L’odio per Berlusconi ha fatto il resto, colorando di una luce d’arbitrio ogni realtà di leadership. Il risultato è stato una vera e propria automutilazione che la sinistra si è masochisticamente inferta, disconoscendo la funzione essenziale che nella politica ha sempre avuto l’esistenza di un capo.

Il quale capo, peraltro, non emerge nelle file del Pd anche per un secondo motivo: perché esso manca da tempo di un vero programma, di punti concreti sui quali definire la propria identità, di proposte con cui presentarsi all’elettorato. Sicché di fatto l’unica cosa su cui nel Pd c’è una parvenza di dibattito (per modo di dire: in realtà, infatti, non vi sono sedi effettive di discussione interna; tutto, anche in questo caso, si riduce a interviste e dichiarazioni ai giornali) è solo la tattica da adottare per far fuori Berlusconi e sugli eventuali alleati ai quali ricorrere.

Contenitore di molte prospettive ideali anche assai diverse tra di loro, il Pd non riesce in realtà a discutere di niente per paura di non trovarsi d’accordo su nulla. Ma proprio questa latitanza di concretezza programmatica e insieme di dibattito implica inevitabilmente l’assenza di vera lotta politica all’interno del partito, l’assenza di prese di posizioni che impegnino realmente chi le prende, l’impossibilità, infine, che si formino vere maggioranze intorno a un programma e intorno a una persona. E dunque l’impossibilità che nasca un vero leader. Al suo posto, invece, l’affollarsi di un’oligarchia sganciata da ogni responsabilità, immutabile, dove si entra solo e non si esce mai, dove tutti, a turno, prendono tutte le posizioni o quasi, madre di un sostanziale immobilismo punteggiato da continui compromessi.

Un meccanismo del genere non è certo fatto per consentire di prevalere a chi abbia voglia e capacità. È piuttosto il vivaio inevitabile della mediocrità. Dato questo modello ormai consolidato è comprensibile, infatti, che nessuno che pure eventualmente ne avesse qualche vago desiderio abbia poi voglia di giocarsi ciò che ha già, contrapponendosi al sistema e così rischiando di restare isolato perdendo tutto. In un partito dove non c’è vero dibattito politico, dove non c’è lotta politica su proposte concrete e contrapposte, che non ha alcuna identità programmatica, nessuno, comprensibilmente, se la sente di scommettere sulla bontà delle proprie idee. Nessuno se la sente di puntare sul fatto che il futuro gli darà ragione, e dunque di accettare di restare in minoranza oggi perché domani saranno i fatti a dargli la leadership. Nel Pd, insomma, è la stessa strada che conduce alla nascita di veri capi politici che risulta impraticabile, se non addirittura inesistente.

Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi da anni. Ad una patologica iperpresenza di superleadership a destra, a sinistra corrisponde un’altrettanto patologico vuoto di leadership. Anche di ciò si nutre voracemente l’anomalia italiana: quell’anomalia che ci sta conducendo alla rovina.

Ernesto Galli della Loggia

02 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
corriere.it/editoriali/11_febbraio_02


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una tregua vera o meglio il voto
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2011, 11:56:32 am

LA PARALISI DELLA POLITICA

Una tregua vera o meglio il voto

Può una maggioranza reggersi sulla condiscendenza dell’on. Scilipoti? Può un Paese sapere che le sue sorti dipendono da un gruppetto di deputati transfughi da provenienze così eterogenee da non riuscire a trovare altra definizione per sé stessi che quella vagamente orwelliana de «i responsabili »? Il caso dell’Italia dimostra, ahimè, che è possibile. Ma se la cosa può funzionare sul piano dei numeri, non funziona sul piano politico. Cioè nella realtà.

Su questo piano quel che si è visto e che si continua a vedere è il progressivo sfilacciamento della proposta politica con cui il Pdl si presentò a suo tempo davanti al corpo elettorale, una congenita difficoltà da parte del suo capo di fissare gli obiettivi e di tenere la rotta, infine (ma non in ordine d’importanza) un’irrefrenabile tendenza al conflitto e allo scontro più aspro con gli altri partiti nonché con gli altri organi e poteri dello Stato. Un conflitto e uno scontro che si rinnovano ogni giorno, si ramificano, si moltiplicano, investono i più diversi ambiti delle istituzioni e della società, rimbalzando con sempre rinnovato vigore da uno all’altro. Fino a che il Paese intero, come appare da mesi, si ritrova scosso da una fibrillazione senza tregua, incerto di tutto, lacerato da divisioni sempre più profonde.

A questo punto è divenuto di ben scarso interesse accertare colpe e responsabilità (se ne occuperanno i tribunali), anche se è impossibile nascondere che da un lato l ’ i niziativa sul filo dell’irritualità di una parte della magistratura (qual era la notitia criminis che prima della famosa notte della Questura di Milano ha indotto a mettere sotto controllo la villa di Arcore?), e dall’altro lo stile del presidente del Consiglio, dell’uomo come del leader politico, imprimono continui innalzamenti al livello della tensione. Ma ripeto, tutto ciò ha ormai poca importanza. Oggi quello che conta è il sentimento generale che si respira nel Paese, anche in vasti settori della maggioranza, soprattutto tra coloro che ritengono importante salvare il profilo storico dell’esperienza di governo del centrodestra per molti aspetti certamente positiva. Se non sarà possibile una tregua, più volte invocata su queste colonne e più volte chiesta dal capo dello Stato (e non raccolta da un’opposizione che preferisce purtroppo la piazza al dialogo), il ricorso al voto anticipato appare una soluzione preferibile pur con una legge elettorale disgraziata di cui abbiamo avuto prove inconfutabili.

La politica però tende a non prestare alcun ascolto a questo malessere generale. Da mesi, infatti, nelle parole dei suoi attori, le elezioni anticipate sono solo un diversivo tattico da adoperare a seconda delle convenienze, una parola d’ordine destinata a durare un giorno, uno spauracchio agitato per intimorire l’avversario: niente di più.

Quel Paese che non ne può più e vuole un nuovo inizio —e che oggi rappresenta quasi certamente la maggioranza, comprendendo elettori di tutti gli schieramenti — è dunque privo d’interlocutori politici, salvo il presidente della Repubblica. Ma nessuno può pensare che a un uomo equilibrato e imparziale come il presidente Napolitano possa mai venire in mente di intervenire per determinare un esito o un altro della crisi. È la politica che deve riprendere in mano il suo destino. O è possibile una vera tregua, magari in occasione dei prossimi provvedimenti sull’economia, quanto mai necessari, sui quali un’opposizione responsabile avrebbe il dovere di confrontarsi lealmente senza pregiudizi, oppure è meglio restituire la parola agli elettori. Conviene a tutti.

Ernesto Galli della Loggia

07 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - www.corriere.it/editoriali/11_febbraio_07


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La legge sul fine vita
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2011, 11:08:47 pm
UNA LEGGE SBAGLIATA

I Confini della Volontà

La legge sul fine vita

La Costituzione italiana garantisce, all'articolo 32, che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». Chiunque insomma, nell'ambito della gestione della sua salute, è padrone di disporre come vuole del proprio corpo: di andare o no da un medico, di curarsi o non curarsi, di sottoporsi o no ad un'operazione, al limite anche di cessare di alimentarsi. Ciò vale se egli è in stato di coscienza, se è in grado d'intendere e di volere. Ma che accade se non lo è più? Se il grado avanzato di una malattia che lo ha colpito, o un incidente improvviso, lo rendono per l'appunto incapace d'intendere e di volere? La legge sotto esame in questi giorni alla Camera stabilisce che allora egli perda in sostanza il diritto surricordato e che alla sua volontà, prima così solennemente garantita, si sostituisca invece quella del medico.

Il progetto di legge di cui stiamo parlando decreta questa perdita di diritto nel momento in cui stabilisce che sì, io posso affidare le mie volontà in materia di «attivazione o non attivazione di trattamenti sanitari» a una cosiddetta «dichiarazione anticipata di trattamento» contenente perfino «la rinuncia ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamento sanitario in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale» (dunque solo in questo caso?), e posso, sì, egualmente, nominare un «fiduciario» che mi rappresenti quando non dovessi essere più cosciente. Stabilisce anche, però, che nel primo caso la mia dichiarazione non ha alcun valore vincolante ma solo un valore di «orientamento»; e stabilisce altresì, in un emendamento al testo iniziale, che anche nel secondo caso se sorge un contrasto tra il parere del mio «fiduciario» e quello del medico è il parere di quest'ultimo che ha la meglio. La mia volontà, insomma, è solo un «orientamento», ma di fatto io sono nelle mani di ciò che decide il medico. Si aggiunga infine, per colmare la misura, che la validità già molto aleatoria della mia «dichiarazione» è sospesa se mi trovo in condizioni di urgenza o d'imminente pericolo di vita. Cioè proprio nella circostanza - come ha fatto giustamente osservare il professor Possenti nel suo ottimo articolo di mercoledì sul Corriere - in cui la suddetta «dichiarazione» dovrebbe valere di più.

In verità a ogni persona di buon senso sfugge per quale ragione la legge, da che tutela in modo assoluto la mia volontà finché sono cosciente, non debba poi riconoscerle più alcun valore quando manifesto tale volontà ora per domani, cioè per quando non sarò più in grado di farlo a causa di un sopravvenuto stato d'incoscienza. Perché nel frattempo posso aver cambiato idea, è la risposta. Già, ma ci si rende conto che se questo modo di ragionare fosse fondato, allora non dovrebbe essere riconosciuta valida, per esempio, nessuna disposizione testamentaria che non fosse redatta e sottoscritta un istante prima di morire? Capisco che l'importanza dei beni materiali è ben diversa da quella della vita umana, ma la manifestazione di volontà è sempre la stessa. Se è valida in una materia non può che essere valida sempre. Non solo: ma proprio per una simile eventualità - perché può sempre sopraggiungere un imprevisto qualunque che quando ero cosciente non ero in grado di prevedere nelle mie disposizioni - proprio per questo, dicevo, io posso nominare un «tutore», una persona di mia fiducia che in caso di mia impossibilità decida per me. E invece, come ho già ricordato, anche questo la legge non permette.

Ma anche qui: perché mai ciò che pensa e decide del mio destino un medico sconosciuto deve avere la meglio su ciò che invece pensa e decide una persona alla quale presumibilmente mi legavano rapporti intensi di conoscenza e di affetto (un congiunto, un coniuge, un amico, un compagno), e della quale mi sono comunque fidato al punto di consegnare la mia vita nelle sue mani? Stupisce davvero che proprio una visione del mondo che si vuole cristiana - qual è senz'altro quella di chi ha ispirato e redatto questa legge - abbia deciso di sottrarre la morte alla sua tragica e misteriosa umanità, alla sua natura di drammatica prova e compendio di una vita e dei suoi affetti, per consegnarla invece alla gelida presunta imparzialità dell'apparato sanitario, alla tecnicalità del sapere medico-scientifico. È in questo modo che si spera di contrastare l'arroganza culturale della tecno-scienza? Si dice che simili disposizioni di legge sarebbero state predisposte per evitare il ripetersi di un caso come quello di Eluana Englaro. Ma ciò che in quel caso apparve a molti (compreso il sottoscritto) ripugnante e inammissibile fu la pretesa da parte di un Tribunale, servendosi di indizi fragilissimi e di deduzioni capziose, di ricostruire la supposta volontà di quella povera ragazza e di autorizzarne, in base a ciò, la virtuale soppressione. Proprio perché in una tale materia la volontà personale deve essere considerata sacra, essa non può essere affidata alle illazioni di qualche magistrato. Si dice ancora che la legge in questione servirebbe a evitare il ricorso più o meno sotterraneo a pratiche eutanasiche. È un obiettivo che personalmente condivido in pieno. Ripeto, in pieno; ma non capisco che cosa c'entri: sarebbe come vietare la fabbricazione delle armi per impedire che qualcuno le usi per uccidersi. Comunque, se questo è il problema mi pare che ci sia un mezzo facilissimo per risolverlo: si stabilisca per legge che nelle dichiarazioni della propria volontà in previsione di un sopravvenuto stato d'incoscienza sia permesso di indicare non già i trattamenti che si vorrebbero avere, bensì esclusivamente le pratiche e le cure mediche che non si vogliono avere. Fino a prova contraria è difficile considerare come eutanasia il semplice lasciarsi morire: o deve essere vietato anche questo?

Ernesto Galli della Loggia

25 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Quando una legge decide della vita
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2011, 11:42:12 am
DOMANI LA DISCUSSIONE ALLA CAMERA

Quando una legge decide della vita

Ci sono casi in cui idratazione e alimentazione artificiali divengono una forma di trattamento sproporzionato

Per quanti sforzi facciano non riescono ad essere convincenti, i difensori dell'attuale progetto di legge sul «trattamento di fine vita» approntato dal governo, che domani arriva in Aula alla Camera. Sono principalmente due gli argomenti cui essi ricorrono per non riconoscere un valore vincolante né all'anticipata dichiarazione di volontà circa il trattamento sanitario a cui essere sottoposti quando non si è più in grado d'intendere e di volere (la cosiddetta Dat), né all'opinione di un «fiduciario» (che termine orribile! Non ce n'era un altro?) eventualmente indicato per quella drammatica circostanza; e quindi per lasciare l'ultima parola a un medico o, come dice adesso il testo emendato, a un collegio paramedico.

Il primo argomento suona a un dipresso così: «Chi può davvero stabilire in anticipo, nel momento magari in cui sta ancora bene, quale sarà la sua volontà in un contesto ben diverso, quando per esempio dovesse trovarsi in agonia?». C'è del vero in questa obiezione. Mi chiedo però a mia volta: chi mai, allora, appare più verosimilmente idoneo a decidere in sua vece? Il suo «fiduciario», la persona da lui ben conosciuta, alla quale probabilmente lo legano affetto e amicizia, e alla quale egli si è comunque volontariamente affidato, ovvero un medico sconosciuto e che molto probabilmente nulla sa di lui, della sua personalità, del suo animo? Già, ma in questo modo - ecco il secondo argomento dei difensori del disegno di legge - privandolo di ogni diritto d'intervento autonomo si lede in misura inaccettabile il prestigio e la professionalità del medico. Devo dire la verità? Mi sembra un argomento risibile. Con lo stesso criterio, infatti, si dovrebbe allora proibire, ad esempio, il ritiro del mandato dato a qualunque professionista - avvocato, architetto, o chiunque altro - perché egualmente ciò lederebbe in misura insopportabile la sua professionalità. Andiamo! Il sospetto è che in realtà a «suggerire» al governo di legiferare nel senso ora detto siano state le autorità ecclesiastiche, preoccupate che il libero corso dato all'autodeterminazione dei singoli potesse celare il ricorso a questa o quella pratica eutanasica (preoccupazione perfettamente legittima e sulla quale personalmente concordo: purché però non diventi un'ossessione!), e invece convinte, sulla base dell'esperienza, di riuscire a influenzare con una certa facilità decisioni e comportamenti della classe medica.

In realtà, se davvero la preoccupazione della Chiesa cattolica circa le Dat è quella che ho ora detto, mi pare che ci sia un mezzo assai semplice per tagliare la testa al toro: stabilire per legge che le Dat stesse non possano contenere alcuna disposizione in positivo, e cioè a fare checchessia, ma solo in negativo, a non fare. Se l'eutanasia è «ciò che pone alla vita un termine artificiale, che fa morire una persona prima che la vita sia giunta al suo termine naturale» (Buttiglione), allora mi sembra indiscutibile che lasciare per la propria fine la disposizione di non fare, equivalga per l'appunto a lasciare che la vita «giunga al suo termine naturale». Il che tra l'altro avrebbe anche il vantaggio di non urtare in alcun modo la suscettibilità di alcun medico perché a questi non verrebbe imposta di fatto alcuna scelta terapeutica.

Del tutto diverso appare il problema dell'idratazione e alimentazione artificiali a soggetti non coscienti. In questo caso l'intervento del legislatore, come si sa, si è reso necessario per evitare il ripetersi della pazzesca sentenza sul caso Englaro da parte della Corte di Cassazione, che si arrogò per l'occasione il compito di istanza legiferatrice autorizzando la morte della ragazza.
Il disegno di legge prescrive che l'idratazione e l'alimentazione artificiali siano in ogni caso obbligatori considerandoli non già terapie ma «forme di sostegno vitale», e vietando altresì che la dichiarazione anticipata ne possa in alcun modo disporre. Salvo però aggiungere in un emendamento: «Ad eccezione del caso in cui le medesime (idratazione e alimentazione) risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche del corpo». Ma chi giudica dell'eccezione? E soprattutto - fa notare uno studioso di vaglia di questa materia come il professor Paolo Becchi - in base a quali criteri o esami clinici si può accertare che «idratazione e alimentazione siano ancora efficaci nel fornire al paziente i fattori indispensabili alla sua sopravvivenza? Efficaci sembrerebbero proprio esserlo dal momento che altrimenti il paziente sarebbe già morto!». Non solo: ma il medico che sospendesse idratazione e alimentazione non violerebbe con ciò stesso quel «divieto di qualunque forma di eutanasia» (compresa dunque anche l'eutanasia cosiddetta «passiva») che il disegno di legge solennemente proclama?

Un disegno di legge, in conclusione, da rimeditare da cima a fondo per molti aspetti. Ad esempio ammettendo, come suggerisce sempre Becchi, che in certi casi pure idratazione e alimentazione artificiali possono divenire una forma di trattamento sproporzionato, e dunque configurare un inammissibile accanimento terapeutico. Da interrompere una buona volta, da interrompere anch'essi, dunque, per lasciarci finalmente in pace di fronte alla speranza e al mistero nell'ora della nostra morte.

Ernesto Galli della Loggia

06 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali



Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Un nuovo patriottismo
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2011, 06:40:15 pm
IL RUOLO DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA

Un nuovo patriottismo

L'anniversario dell'Unità ha messo in luce un cambiamento importante dell'Italia di questi anni: il patriottismo è diventato anche di sinistra (mi riferisco, com'è chiaro, a quella sinistra di ascendenza marxista da molto tempo maggioritaria nella sua area; non già all'altra, ultraminoritaria, di ascendenza repubblicana e democratica, che invece patriottica lo è sempre stata).

Naturalmente anche prima di oggi moltissimi italiani appartenenti alla sinistra suddetta hanno nutrito un forte sentimento della patria, e in moltissime occasioni lo hanno manifestato con le parole e coi fatti. Tuttavia mai prima d'ora il patriottismo era entrato nel bagaglio ideologico di tale sinistra, nel suo orizzonte emotivo e culturale. Addirittura per gran parte della Prima Repubblica quella sinistra, lo si ricorderà, di patrie non nascondeva di averne due (l'altra essendo, ahimé, l'Unione sovietica). Oggi, invece, le cose per fortuna appaiono (se non altro appaiono) ben diverse.

I motivi del cambiamento sono molti. Innanzi tutto il fatto che la tradizionale inquilina dello «spazio patriottico», e cioè la destra, intralciata politicamente dalla presenza della Lega, si è fatta stupidamente paralizzare dai suoi veti lasciando libero il campo che un tempo era tipicamente suo. Pur avendo i voti di tanti italiani che un reale e forte sentimento della patria lo hanno, eccome!, essa, tuttavia, non è riuscita a dare a tale sentimento dei suoi elettori alcuna efficace rappresentazione politica. È accaduto invece che, essendo la destra alleata politica di una forza così sguaiatamente «antitaliana» come per l'appunto la Lega, questo solo fatto abbia subito trasformato il patriottismo in un'arma efficace contro il governo e la maggioranza, e perciò assai appetibile da parte della sinistra. La quale così ha trovato anche un modo per riempire almeno in certa misura il vuoto prodotto nel suo bagaglio ideologico dalla fine del comunismo.

Si aggiunga un ultimo fatto decisivo. E cioè che da oltre una decina d'anni il patriottismo, insieme al culto della Costituzione, è ormai diventato l'ideologia ufficiale della presidenza della Repubblica. Ciò è accaduto in coincidenza con un andamento delle cose che ha fatto del presidente della Repubblica il vero dominus virtuale del sistema politico-istituzionale, determinando, di pari passo, anche una forte crescita simbolica della sua immagine. Si è trattato di un processo che, iniziato con Pertini, è divenuto - dopo i settennati molto divisivi di Cossiga e Scalfaro - sempre più pronunciato con la presidenza di Ciampi e di Napolitano. Il progressivo discredito della politica, la sua rissosità inconcludente, la sua perdita di orizzonte ideale, insieme alla pochezza del personale di governo hanno avuto il risultato di esaltare sempre di più, per contrasto, la figura politica sì, ma istituzionalmente super partes e circondata di un apparato cerimoniale intrinsecamente nobilitante, del capo dello Stato. In breve, questi è diventato l'unico protagonista della scena ufficiale capace (perché credibile) di un discorso pubblico «alto», il solo in grado di parlare al Paese del suo passato e del suo futuro. Facendo uso, naturalmente, di toni e contenuti patriottici: gli unici consentiti dalla specificità del pur grande potere presidenziale.

Ma sia Ciampi che Napolitano non venivano dal nulla. Venivano entrambi da un retroterra ideologico di sinistra, sia pure di due sinistre diverse. La loro biografia personale e il prestigio del loro ruolo hanno avuto dunque l'effetto ovvio di accelerare ancora di più la corsa al patriottismo di una sinistra orfana di tanti ismi ormai annientati dalla storia.

Ernesto Galli della Loggia

25 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Lega di lotta, non di governo
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2011, 11:03:06 am
SLOGAN PADANI E PROBLEMI REALI

Lega di lotta, non di governo

La crisi della leadership berlusconiana a stento riesce a mascherare un'altra crisi che sta esplodendo in questi giorni: la crisi della Lega. È la crisi che è raffigurata come meglio non si potrebbe dalla foto di quella rete del campo profughi di Manduria, semiabbattuta e superata d'un balzo da centinaia di tunisini poi dispersisi nei dintorni. Con l'incisività perentoria delle immagini essa mostra l'impotenza di un ministro leghista dell'Interno, Maroni, che, molto bravo ad arrestare mafiosi e camorristi, non sa invece che pesci pigliare proprio sul tema forse più caro alla propaganda e all'ideologia del suo partito: quello dell'immigrazione. Bossi ha un bel dire agli immigrati «fuori dalle palle». Il suo ministro non è capace neppure di trattenerli dietro una rete: non dico neppure, naturalmente, di respingerli in mare lasciandoli al loro destino, così come invece, ascoltando le grida di Bossi, qualche ingenuo e feroce leghista forse si è immaginato che potesse accadere. Ma evidentemente un conto sono i comizi a Pontida, un altro conto fare seguire alle parole i fatti.

La verità è che quanto accade in questi giorni sta mostrando l'impossibilità/incapacità della Lega ad essere un vero partito di governo. Con l'ideologia leghista si può essere ottimi sindaci di Varese e perfino di Verona, ma non si riesce a governare l'Italia. Non si riesce, cioè, a pensare davvero i problemi del Paese in quanto tale (non solo nella sua interezza, ma anche nella complessità dei suoi rapporti internazionali), e tanto meno immaginarne delle soluzioni. Con l'ideologia leghista al massimo si può stare al governo, che però è cosa del tutto diversa dal governare. Si può al massimo, cioè, essere alleati gregari di una forza maggiore e occupare dei posti: ma al solo scopo, in sostanza, di chiedere mance e favori per i propri territori. Il limite della Lega è per l'appunto questo: a chiacchiere essere contro «Roma ladrona», ma poi essere condannata a comportarsi nei fatti come un tipico partito di sottogoverno.

Questa posizione sostanzialmente subalterna della Lega è l'inevitabile conseguenza di quel vero e proprio bluff ideologico che è l'evocazione della Padania (con implicito sottinteso separatista). Non si può governare nulla che riguardi l'Italia, infatti, tanto meno un problema come l'immigrazione, volendo essere solo «padani». Quello della Padania, in realtà, è un bluff che solo la stupida timidezza delle forze politiche «italiane» non ha fin qui avuto il coraggio di «vedere», e che Bossi adopera all'unico scopo di marcare il proprio impegno territoriale e il proprio feudo elettorale. Ma che per il resto è di un'inconsistenza assoluta presso lo stesso elettorato leghista.

Lo dimostrano con il loro comportamento gli stessi amministratori locali della Lega, i quali, molto saggiamente, quando è il momento della verità non se la sentono quasi mai di onorare davvero il bluff «padano». Come si è visto ad esempio - uno solo tra i tanti - quando nei giorni scorsi il governatore Cota, dovendo scegliere tra il partecipare solennemente alle celebrazioni dell'Unità d'Italia e del ruolo in essa avuto dal suo Piemonte, e in alternativa avallare invece le idiozie anti italiane delle «camicie verdi» restandosene a casa, non ha esitato a scegliere. Ben consapevole che, qualora se ne fosse restato a casa, molto probabilmente si sarebbe giocata la rielezione.

Ernesto Galli Della Loggia

04 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_04/


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Generazioni perdute
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2011, 08:38:00 pm
I TANTI TALENTI COSTRETTI A EMIGRARE

Generazioni perdute


La manifestazione dei precari di sabato scorso ha ricordato agli italiani che il loro è un Paese che riserva ai giovani una condizione di estremo sfavore. Ma non solo perché trovare un lavoro stabile è un'impresa disperata. Anche perché (e forse tra i due fenomeni c'e una relazione) ai posti che si dicono di responsabilità - cioè nei posti che contano - si arriva, bene che vada, tra i 50 e i 60 anni, e ci si resta per decenni.

Tutta la classe dirigente italiana è organizzata in un sistema di compatte oligarchie di anziani che per conservare e accrescere i propri privilegi sono decisi a sbarrare l'ingresso a chiunque. A cominciare dal capitalismo industriale-finanziario il quale, almeno in teoria, dovrebbe essere il settore più dinamico e innovativo della società, ma dove invece i Consigli d'amministrazione assomigliano quasi sempre a un club esclusivo di maschi anziani. Anche il sistema politico e i partiti non scherzano. I leader più importanti non solo stanno in politica da almeno tre o quattro decenni, ma in media è da almeno 20-25 anni che occupano posizioni di vertice.

La muraglia invalicabile dietro la quale prospera la gerontocrazia italiana ha un nome preciso: l'ostracismo alla competizione e al merito. In Italia il sapere e il saper fare contano pochissimo. Moltissimo invece contano le amicizie, il tessuto di relazioni, l'onnipresente famiglia, e soprattutto l'assicurazione implicita di non dar fastidio, di aspettare il proprio turno, di rispettare gli equilibri consolidati: vale a dire ciò che fanno o decidono i vecchi.

È così che l'Italia sta mandando letteralmente al macero una generazione dopo l'altra. Ma non tutti si rassegnano a subire la frustrazione di dover passare i migliori anni della propria vita ad arrancare dietro un posto di seconda fila, precario e mal pagato. A partire almeno dagli Anni 90, infatti, decine di migliaia di giovani, donne e uomini, hanno trovato modo di lasciare la Penisola e di ottenere un lavoro fuori dai nostri confini. Non è vero che l'emigrazione italiana è finita. Certo, ora non sono più le «braccia», sono i «cervelli»; ma la sostanza del fenomeno non cambia. Sono giovani di talento che per avere un futuro hanno dovuto andarsene dal Paese. E che nelle università, negli uffici finanziari, nelle case di commercio, nelle banche, nei centri di ricerca, negli ospedali, nelle imprese industriali di mezzo mondo, mostrano come il nostro sistema d'istruzione, pur con i centomila difetti che sappiamo, sia tuttavia ancora capace di produrre una formazione d'eccellenza. Sono giovani di talento che fuori d'Italia hanno avuto modo di farsi apprezzare, di costruirsi carriere e posizioni spesso di rilievo. È un'emigrazione di qualità, insomma. Ma è anche un'emigrazione che non dimentica, non riesce a dimenticare, il proprio Paese. Un'emigrazione che per mille segni mostra quanta voglia avrebbe di poter essere utile all'Italia.

Che senso ha allora, mi chiedo, che un'Italia di vecchi, un Paese disperatamente in declino, non pensi a ricorrere in qualche modo a questa riserva collaudata di energia e di competenze? Stabilizzare centinaia di migliaia di lavoratori precari è un obiettivo sacrosanto ma è certamente un obiettivo non facile. Richiede interventi economici e giuridici complessi. Ci si deve assolutamente provare, ma ciò non toglie che allo stesso tempo non si possano anche studiare procedure di favore e incentivi allo scopo di immettere un certo numero di italiani di talento che si trovano oggi all'estero, per esempio in posizioni medio-alte della Pubblica amministrazione, degli Enti locali, delle Asl.

Nelle Università qualcosa del genere si è tentato ma è naufragato per le inevitabili resistenze corporative. Il che dimostra che ciò che soprattutto servirebbe per muoversi nella direzione ora detta sarebbe un impulso forte e coordinato dal centro. Cioè un'iniziativa politica che desse il segnale che il Paese vuole cambiare rotta, farla finita con abitudini che ci soffocano, prendere con coraggio strade nuove, muoversi finalmente con immaginazione senza lasciarsi frenare dal burocratismo, dalle vecchie oligarchie, dal passato. Conosco l'obiezione: e cioè che per fare tutto questo ci vorrebbe una vera leadership politica, un governo. È proprio così: ci vorrebbe un governo.

Ernesto Galli della Loggia

11 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_11/


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La frattura culturale
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2011, 05:34:41 pm
I NUOVI POPULISMI EUROPEI

La frattura culturale

Per quanto tempo ancora le classi dirigenti europee adagiate nella vulgata europeista reggeranno alla pressione dei cambiamenti sempre più impetuosi che vanno manifestandosi tra le grandi masse dei loro Paesi? È questa la domanda che pongono le elezioni di domenica scorsa in Finlandia. La strepitosa affermazione del partito populista-antieuropeista dei «Veri Finlandesi », balzato al terzo posto con il 20 per cento dei voti, è l’ultimo campanello d’allarme, infatti, dopo quelli già risuonati in Italia, in Olanda, in Danimarca, in Ungheria; mentre a Parigi il Front National di Marine Le Pen già arriva nei sondaggi a insidiare il presidente Sarkozy.

L’Europa è oggi teatro di una grande, progressiva frattura culturale tra i vertici e la base delle sue società. E il nuovo populismo, di cui tanti lamentano i successi, appare né più né meno che come una sorta di nemesi che si abbatte su classi dirigenti che hanno cessato da tempo di essere «popolari», cioè di essere in sintonia con i sentimenti, gli umori, le paure e le speranze delle grandi masse. Da tempo, infatti, tutte le élite europee — in testa gli intellettuali e incluse quelle economiche — agiscono e parlano come pietrificate in una visione immobile del mondo, dominata da un pugno di principi guida: l’internazionalismo, l’espansione illimitata dell’individualismo e dei suoi diritti, l’idolatria del proceduralismo consensualistico, l’idea che l’economia rappresenti il regolatore supremo delle collettività umane.

È una visione del mondo specialmente forte nell’Europa occidentale ma che agli occhi delle popolazioni europee appare ormai sempre più incongrua rispetto ai nuovi scenari interni e internazionali. Le oscure prospettive della crescita economica; il calo demografico e l’invecchiamento con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici; l’immigrazione; l’avvento di universi culturali, come quello elettronico- telematico, inediti e pervadenti, profondamente spaesanti; la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nella massa dei meno istruiti, dei più anziani, dei soggetti deboli—cioè nella maggioranza —, un clima di inquietudine, di timori oscuri, di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti.

È, al fondo, un’indistinta ma fortissima domanda di politica che si leva dalle viscere delle società europee. Una domanda di nuovi traguardi pratici, di nuove mobilitazioni collettive e insieme di nuovi orizzonti ideali: che le élite sembrano però incapaci di intendere e ancor più di soddisfare. Queste non si rendono conto che negli ultimi decenni, sia pure inavvertitamente, hanno privato le masse popolari della sola cultura che insieme al socialismo era valsa ad integrare le masse suddette nell’universo della modernità e nella prospettiva dell’emancipazione: la cultura della nazione. Cioè la cultura che dopo la fine del socialismo/ comunismo era l’unica in cui quelle masse erano abituate storicamente a riconoscersi. Le quali masse, adesso, sono sul punto, addirittura, di vedersi obbligate a rinunciare più o meno anche al Welfare. E dunque di restare davvero come integralmente nude di fronte alla storia.

Non è un caso se è l’Europa l’ambito dove la frattura culturale tra masse ed élite si manifesta più clamorosamente. Tutta la costruzione europea è stata portata avanti, infatti, sulla base di una drammatica sottovalutazione della politica; sulla base della convinzione che l’economia rappresentasse la dimensione decisiva, che l’economia fosse in grado di produrre la politica. Laddove, se qualcosa aveva dimostrato il Novecento, era esattamente il contrario, e cioè che deve essere la politica a comandare. Per la salvezza della stessa economia.

Così come è sempre la costruzione europea l’ambito dove il democratismo economicistico post-nazionale delle élite del vecchio continente ha avuto e ha modo, logicamente, di dispiegarsi con maggiore ampiezza. E dunque è naturale che sia regolarmente l’Unione europea quella chiamata a pagare oggi il prezzo più alto per le scelte delle élite di cui sopra. Perché mai gli elettori finlandesi o quelli di qualunque altro Paese dovrebbero mostrarsi solidali con le disastrate finanze di Grecia o Portogallo? Si può essere solidali davvero solo con coloro a cui ci sentiamo legati da vincoli di comune appartenenza, nei confronti dei quali esiste la convinzione di «stare nella stessa barca» dal momento che condividiamo con essi un’origine e un destino: e cioè, per esempio, perché siamo abitanti di una stessa patria politica. Avere una medesima moneta, invece, è tutt’altra faccenda e di ben minore valore: in nome della quale si può al massimo rinunciare a qualche vantaggio, non già fare sacrifici realmente tali. E se qualcuno si mette in testa d’imporli, come meravigliarsi se allora la terra comincia a tremare sotto i piedi, se dovunque prendono a crescere i partiti dell’atavismo, della chiusura nel comunitarismo, nel caldo della «Heimat», e infine dell’esclusione e dell’odio?

Ernesto Galli Della Loggia

20 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_20/


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Quirinale, la supplenza necessaria
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 11:18:34 am
METAMORFOSI DI UN RUOLO

Quirinale, la supplenza necessaria


Da quando nel 1992 entrò in crisi il sistema politico che aveva tenuto a battesimo la Repubblica nessun potere dell'ordinamento costituzionale italiano ha subito, sotto un'apparenza di immutabilità, modifiche sostanziali così profonde come il potere del presidente della Repubblica. Le sue prerogative - fino a non molti anni fa in prevalenza notarili o di relativamente innocua esternazione - sono divenute fonte sempre di più di decisioni risolutive. Ecco perché da tempo chi esercita quella carica è fatto oggetto, praticamente ogni giorno, di appelli, critiche, polemiche, da parte di tutte le forze politiche. Non è questione della nota scostumatezza costituzionale di Berlusconi o della sua altrettanto nota aggressività verbale; così come, dall'altra parte, non è questione della spregiudicatezza manipolativa di Di Pietro o chi altri. La questione vera è che il presidente della Repubblica è ormai diventato il dominus effettivo della scena politica del Paese. E come potrebbe mai, dunque, in tale condizione apparire sempre super partes nella discussione pubblica?

Le cause di questa trasformazione di fatto sono parecchie, ma due mi sembrano quelle essenziali. La prima consiste nella quantità e nella varietà delle prerogative e dei poteri che la Costituzione conferisce al presidente. Prerogative e poteri numerosi, vari, che spaziano in ambiti molteplici, ma soprattutto - ciò che per la loro evoluzione è stato decisivo - necessariamente indeterminati, suscettibili cioè, per loro natura, di un esercizio esclusivamente formale o viceversa sostanziale, a seconda delle circostanze e della situazione politica. Si pensi solo all'autorizzazione per la presentazione alle Camere dei disegni di legge d'iniziativa del governo, alla promulgazione delle leggi o all'emanazione dei decreti legge, cioè a tutta l'attività legislativa dell'esecutivo: autorizzazione che - lungo una scala da un minimo a un massimo - può essere intesa vuoi come un atto dovuto, puramente estrinseco, o viceversa dare luogo di fatto a un vero e proprio intervento attivo nella formulazione dei provvedimenti legislativi. Si aggiunga, a sanzionare significativamente il rilievo della carica del presidente, e a conferirgli un alto potenziale politico, la sua durata - sette anni, e reiterabili, vale a dire un tempo assai superiore a quello di qualsiasi altra carica dello Stato - peraltro non sottoponibile a nessuna «sfiducia», salvo il caso estremo di messa in stato d'accusa davanti alle Camere.

Alla fine, dunque, tutto dipende ineluttabilmente dalle circostanze. È stato il progressivo indebolimento degli antichi partiti e del loro sistema già negli anni 80 e nei primissimi 90, con Pertini e Cossiga, che ha creato sempre più un vuoto. Molti vuoti. Ed è allora, per riempire questi vuoti di diversa natura, che è iniziata a mutare anche la valenza politico-costituzionale della presidenza della Repubblica, grazie inizialmente all'uso dello strumento, in realtà per nulla secondario, delle «esternazioni». Poi fino ad oggi si è verificata una serie di accelerazioni repentine.

Un bipolarismo approssimativo e senza regole, causa di continui scontri muro contro muro; la presenza per la prima volta nella storia della Repubblica di governi di destra privi però di adeguata rappresentanza nelle élite tradizionali; l'affollarsi di formazioni politiche nuove e spesso aleatorie; coalizioni mutevoli; una classe politica incolta e in molta parte inesperta: tutto ciò ha finito per inasprire il clima generale e per rendere sempre più cruciali temi che prima non lo erano o non lo erano nella stessa misura. A cominciare dallo scioglimento delle Camere, per finire all'esatta definizione dei poteri del presidente del Consiglio, specie in rapporto agli altri organi e poteri dello Stato. E dunque è andata crescendo di pari passo la centralità del presidente della Repubblica, sempre più chiamato a esercitare i suoi poteri di arbitraggio e di decisione, e inevitabilmente sempre più oggetto di consensi e di dissensi.

È difficile negare che Giorgio Napolitano stia svolgendo con avvedutezza ed equanimità la parte che la storia gli ha assegnato. Una parte non facile, condannato per forza, come egli è, a essere considerato troppo neutrale e insieme troppo poco: troppo da una sinistra che per avere egli un tempo militato nelle sue file lo vorrebbe più simile a sé, e troppo poco neutrale da una destra che lo sente troppo diverso da sé. Che il suo tentativo di non stare per principio da nessuna parte stia avendo successo è però testimoniato dalla sua nuova, indubbia popolarità, frutto precisamente del fatto che settori crescenti dell'opinione pubblica, stanchi e sfiduciati, s'identificano per l'appunto con quel suo stare, o sforzarsi di stare, «da nessuna parte». Così come lo testimonia, se non m'inganno, pure il fenomeno anch'esso nuovo del sentimento patriottico diffusosi recentemente in vasti settori del Paese.

Il patriottismo, infatti, ha un forte bisogno di una figura simbolica di riferimento, la quale, come è ovvio, non rappresenti però «una parte» bensì un «tutto»; e quanto più la trova tanto più esso è in grado di svilupparsi. In Giorgio Napolitano, evidentemente, quella figura di riferimento il nuovo patriottismo italiano sente di averla trovata. Così come, dall'altra parte, la presidenza della Repubblica, già con Ciampi e poi adesso ancora di più con Napolitano, ha cominciato a trovare nel patriottismo la sua propria ideologia di riferimento. E anche questa non è certo una novità dappoco.

Ernesto Galli Della Loggia

13 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_13/


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA NON SI GOVERNA SOLO CON TV E PROMESSE
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2011, 10:47:01 pm
NON SI GOVERNA SOLO CON TV E PROMESSE

Alle radici del malessere

Cascano le braccia davanti alla cecità politica che sta dimostrando in queste ore la destra nella campagna per Milano.
Ma davvero si può pensare che dilagare sui telegiornali, promettere ministeri, togliere multe, elargire mance e favori possa rovesciare un risultato che ha cause politiche profonde? Per carità: magari il ballottaggio di domenica assegnerà la vittoria a Letizia Moratti, chi può dirlo?, ma se ciò accadrà sono sicuro che accadrà solo perché, pur di non consegnare la città agli avversari, l’elettorato di destra si ricompatterà e tornerà alle urne che aveva disertato una settimana fa. Non certo perché ammaliato dall’ennesima concione berlusconiana o dal miraggio di qualche improbabile ministero alla Bovisa elargito da Bossi.

La destra dovrebbe convincersi che ciò che soprattutto le sta togliendo il consenso del Paese (Milano inclusa) — oltre qualche intemperanza, chiamiamola così, della vita privata del suo leader: ma in misura che io credo assai poco rilevante— non dipende in realtà dall’economia. Dipende da qualcos’altro che va al di là delle pur non facili condizioni di vita di tanti cittadini. Sostanzialmente dipende dal fatto che molti elettori di destra hanno cominciato a perdere fiducia nella capacità di Berlusconi e dei suoi di capirli e di rappresentarli in generale. Al contrario di ciò che spesso pensa la sinistra, non è per nulla vero, infatti, che a destra ci siano solo interessi, e per giunta quasi sempre bassi e talora inconfessabili.

C’è una visione organica dell’Italia, dello Stato e delle sue amministrazioni, dei valori e dei rapporti sociali (oltre che, va da sé, di quelli economici). È per l’appunto con tutto ciò—proprio del loro elettorato, ma in molti casi non solo — che Berlusconi e i suoi stanno mostrando di non riuscire più a essere in sintonia. Da un’infinità di tempo essi hanno abbandonato le grandi questioni generali, spesso di alto valore simbolico. Si sono spesi solo su due di esse: quelle riguardanti il fine vita e la giustizia. Ma si tratta di due questioni circa le quali era troppo evidente da un lato l’interesse elettoralistico per il voto cattolico, e dall’altro l’interesse personale del leader (senza contare peraltro che in entrambi i casi hanno combinato poco o nulla).

Il fatto è che Berlusconi e i suoi non riescono più a dare voce al proprio retroterra, a esprimerne il punto di vista, circa il modo in cui il Paese dovrebbe essere, circa i contenuti virtuosi che un’Italia di destra potrebbe/vorrebbe avere, e che sarebbe sciocca faziosità pensare che non possano esistere. I governi delle democrazie — che siano di destra o di sinistra — non esercitano il potere solo per spendere o per distribuire risorse. Esistono anche per difendere chi si trova in posizioni di svantaggio, per tutelare gli interessi generali, per aiutare a vivere meglio. È su questo piano soprattutto che il governo della destra italiana non è stato capace di agire e di trasmettere un messaggio in grado di arrivare all’opinione pubblica. Innanzitutto alla «sua» opinione pubblica.

Ernesto Galli Della Loggia

23 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_23/


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - IL CIRCOLO VIZIOSO DEL PDL
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:34:26 pm
IL CIRCOLO VIZIOSO DEL PDL

L'obbedienza che avvelena

È stata l'obbedienza - pronta cieca e assoluta - il veleno che ha ucciso il Pdl. O meglio che, inoculato nel suo corpo fin dall'inizio, fin dall'inizio gli ha impedito di esistere veramente come partito. Bisognava obbedire a Berlusconi, questa la regola: dargli sempre ragione, o perlomeno non azzardarsi mai a criticarlo esplicitamente e con una certa continuità.

Intendiamoci: anche in un partito l'obbedienza è necessaria. Ma in dosi appena eccessive essa diventa micidiale. Abitua chi comanda a credersi infallibile, e chi obbedisce a non avere idee, a ridursi a un ruolo totalmente passivo. Oppure, com'è capitato a Fini, induce cieche ribellioni senza futuro. Ma c'è una cosa ancora più grave, ed è che quando vige il principio dell'obbedienza quel che ne risulta è inevitabilmente una selezione alla rovescia. I primi posti e le maggiori prebende vengono assegnati a coloro che si mostrano più obbedienti: e cioè, in genere, ai più deboli, ai più conformisti. Insomma, prevalgono i più incapaci.

Non voglio dire con ciò che allora i maggiori esponenti del Pdl sono stati fino a oggi tutti degli incapaci. Sto dicendo che fin qui, però, tutti non hanno fatto altro che obbedire in silenzio (le due sole eccezioni di rilievo essendo, a quel che si sa, da un lato Giulio Tremonti, corazzato dal suo rapporto con la Lega e dalla sua inscalfibile arroganza intellettuale, e dall'altro Gianni Letta: l'unico capace, quando il troppo era proprio troppo, di dire a Berlusconi il fatto suo). Hanno obbedito in silenzio anche persone dal curriculum non insignificante, persone dotate di cultura e di autonomia di giudizio.

Ma perché lo hanno fatto? Io credo perché erano convinti e/o consapevoli che i voti, alla fine, li portava solo Berlusconi. Solo lui: con i suoi soldi, le sue televisioni, il suo carisma. Tutto il resto, a cominciare dalla loro personale qualità umana e politica, agli occhi dell'elettorato sarebbe contato insomma poco o nulla, e dunque per i disobbedienti non c'era alcun futuro. Si è così alimentato un circolo vizioso: più essi ubbidivano, più di per sé finivano per non contare nulla; ma più non contavano nulla e più erano costretti fatalmente a ubbidire. Un circolo vizioso di cui la leadership di Berlusconi si è molto avvantaggiata. Ma di cui lo stesso Berlusconi si è alla fine trovato prigioniero, arrivando a pagare un prezzo altissimo, e cioè la disintegrazione del Pdl come strumento politico di qualche utilità. A quello precedente è così subentrato un nuovo circolo vizioso: più il premier perdeva smalto e consenso e più il Pdl e i suoi uomini sul territorio erano inchiodati alla loro pochezza, alla loro piccola statura politica; ma più ciò accadeva e più l'immagine del capo stesso finiva anch'essa per appannarsi ulteriormente.

È questo il meccanismo che si è messo vorticosamente in moto nei primi due turni delle amministrative, e tutto lascia credere che se gli attori e le parti rimarranno quelli visti finora esso sarà difficilmente reversibile. Ma se è così, se Berlusconi da solo non ha più i voti, se non rappresenta più la garanzia che prima rappresentava, allora nel Pdl l'obbedienza, semmai lo è stata, non è più una virtù. Allora per i suoi esponenti di prima come di seconda fila è venuto il momento di alzare la testa, di cominciare a disobbedire, di provare a esistere politicamente. Le primarie possono essere uno strumento. Altri se ne possono trovare. Ma ciò che oggi è decisivo è una cosa soprattutto: che imparino a disobbedire. Anche ad Alfano, se necessario.

Ernesto Galli Della Loggia

03 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_03/obbedienza-che-avvelena_3b6df8da-8da0-11e0-b332-ace1587d6ad6.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA I tre veri pilastri della conservazione
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2011, 05:22:15 pm
PRIVILEGI, CORPORATIVISMO, DEMAGOGIA

I tre veri pilastri della conservazione

Da più di vent'anni le «riforme» sono il grande mito della politica italiana. Invocate da tutti, promesse da tutti, dalla destra, dalla sinistra, quasi mai realizzate da nessuno. Ma regolarmente, imperturbabilmente, promesse sempre di nuovo da tutti. Sono il grande mito perché per giudizio unanime (ultimo quello del governatore Draghi: «L'Italia ha un disperato bisogno di riforme») sono la sola cosa da cui il Paese può sperare la salvezza: e cioè di riguadagnare il terreno che stiamo perdendo in tutti settori, di riacquistare efficienza, di ricominciare a crescere, di tenere insieme le sue varie parti.

Che cos'è che in Italia impedisce di «fare le riforme»? La risposta è semplicissima: la loro impopolarità. Ci troviamo ad essere strangolati da un paradosso micidiale: proprio perché sono così vitalmente necessarie, le «riforme» suscitano un'opposizione fortissima in grado di bloccarle. Enormemente più forte che in altri Paesi, questo è il punto. Ciò accade perché altrove, in genere, una riforma vuol dire un provvedimento impopolare sì, ma che non cambia le regole del gioco, non cambia il principio sul quale la società è costruita. Da noi invece no. Le riforme di cui noi abbiamo più bisogno, infatti, sono quelle che dovrebbero rompere proprio il meccanismo con cui funziona la nostra società, mutarne alla radice lo spirito e la mentalità. Quando in Italia si dice «riforme», bisogna esserne consapevoli, si dice in realtà «rivoluzione». E la più difficile tra le rivoluzioni: quella culturale.

Qualunque sia il provvedimento a cui si pensi per modernizzare il Paese, per rimetterlo in carreggiata, ci si accorge subito, infatti, che esso va immancabilmente a colpire uno dei tre pilastri sui quali si regge gran parte della società italiana: il privilegio, il corporativismo, la demagogia. Certo: bisogna scorgere i concreti, concretissimi interessi particolari, settoriali, che ognuna di queste cose alimenta e tutela. Ma tali interessi, però, non avrebbero mai potuto costituirsi e solidificarsi come hanno fatto, senza una premessa di tipo essenzialmente culturale condivisa dall'intera società italiana. Che qui ha la sua anima, la sua più vera antropologia.

In Italia qualunque individuo così come qualunque istituzione, qualunque impresa capitalistica non sopporta né il merito, né la concorrenza, né controlli indipendenti. Qualunque categoria, qualunque organismo non sogna altro che monopoli, numeri chiusi, carriere assicurate, condoni, esenzioni, ope legis, proroghe, trattamenti speciali, pensioni ad hoc, comunque condizioni di favore. E quasi sempre ottiene quanto desidera. Ricorrendo, come ho detto, all'arma vincente della demagogia. Specie a partire dagli anni Settanta, infatti, corporativismo e privilegi hanno progressivamente soffocato la società italiana costruendo (o avvalendosi di già pronte) costruzioni ideologiche menzognere, le quali avevano regolarmente al proprio centro i «diritti», la «democrazia», la «solidarietà»: parole d'ordine, discorsi, che agitando ogni volta la bandiera del bene e del giusto in realtà sono serviti unicamente a promuovere il più spietato particolarismo o a saccheggiare le casse pubbliche. Spessissimo a tutte e due le cose insieme.

È contro questa autentica muraglia socio-culturale - la quale nella sua essenza non è né di destra né di sinistra, potendo essere indifferentemente entrambe le cose - che da decenni s'infrange, o meglio si spegne appena levatosi, qualsiasi vento riformatore italiano. L'imponenza di quella muraglia, infatti, ha l'effetto di porre in una condizione di eterna minoranza la dimensione del bene comune, dell'interesse collettivo, che in tal modo non riesce ad avere alcun peso politico determinante. È per questo che le riforme non si fanno, e in particolare non si possono fare proprio quelle che ci servirebbero di più.

Il dispositivo corporativistico-demagogico-antimeritocratico è divenuto lo strumento grazie al quale da due decenni il cuore maggioritario della società italiana reale neutralizza la sfera della politica, imponendo in cambio del proprio consenso la sua impotenza. Lo strumento grazie al quale essa neutralizza di fatto tanto la destra che la sinistra all'insegna della loro comune, certificata, impotenza; grazie al quale, infine, ne cancella i profili, ne vanifica identità e programmi. L'iperpoliticismo resta sì, dunque, come un carattere tipico della sfera pubblica italiana. Ma esso non è più il predominio del comando politico sulla società, com'è stato fino alla fine della prima Repubblica. Ora è piuttosto la penetrazione/subordinazione capillare e diffusa, l'uso continuo della politica da parte delle infinite articolazioni corporativo-antimeritocratiche della società. La quale realizza per questa via una sua antica vocazione: servirsi del potere, disprezzandolo.

Ernesto Galli Della Loggia

12 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_12/


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’insicurezza e la fragilità
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2011, 06:39:40 pm
DIETRO LE quinte DEL POTERE

L’insicurezza e la fragilità


Quanti degli interessi colpiti dai provvedimenti finanziari approvati ieri dal governo avrebbero fatto ricorso nei giorni scorsi, per tutelarsi, se solo avessero potuto, ai buoni uffici di Luigi Bisignani? Non lo sapremo mai. Così come non sappiamo se nel frattempo qualche emulo intraprendente magari lo ha sostituito nella sua attività. Perché comunque una cosa è certa: che i ministri della Repubblica passino le loro giornate al telefono con personaggi come Luigi Bisignani e che nella Penisola prosperi da decenni una fauna di faccendieri suoi pari non è un fatto di costume sia pure deplorevole. Tanto meno è un fatto casuale. È qualcosa, invece, che inerisce a una certa natura profonda del potere italiano, ad alcuni suoi meccanismi decisivi. Soprattutto è qualcosa che racconta più e meglio di tante analisi dotte come quel potere è sentito è vissuto da coloro che lo rappresentano: specialmente quando si tratta del potere e dei politici della destra. Non voglio dire che con la sinistra sarebbe tutt’altra musica, ma sicuramente è con la destra che certi tratti oscuri della nostra sfera politica sembrano aver acquistato un r i s a l t o e una tipicità particolari.

Nelle registrazioni telefoniche generosamente elargiteci dall’autorità giudiziaria si svela in pieno il dato decisivo: la gracilità, l’insicurezza, vorrei dire il senso di provvisorietà che abita il potere italiano. Tutto vi appare instabile, privo di vera forza, ogni equilibrio si fa e si disfa di continuo, e naturalmente sempre dietro le quinte: alleanze, rapporti d’interesse, cordate. Ogni giorno dunque è una corsa affannosa ad essere informati dell’ultimo retroscena, dell’ultimo pranzo, a sapere chi sta con chi, chi vuole nominare chi e perché. Si passa il tempo non a fare, a governare, ma a parlare, a «sapere», e poi di nuovo a parlare: dal momento che dovunque può nascondersi un’insidia, un trabocchetto, dovunque può nascere una combinazione nuova da cui non bisogna restare esclusi. Il profluvio demenziale delle dichiarazioni quotidianamente rilasciate dai politici alle agenzie di stampa e il furor maniacale con cui gli stessi compulsano ad ogni istante i cellulari che le riportano, nel terrore di perdersene una, sono lo specchio di una egemonia malata della parola sui fatti.

Anche per questa via nel potere italiano ha preso ormai a dominare la non istituzionalità. In almeno due sensi: innanzi tutto perché ciò che davvero conta, le decisioni davvero importanti, non sembrano mai seguire percorsi definiti, procedure stabilite, dipendendo invece quasi sempre da un magma di relazioni informali; ed è in questo magma, dove il merito delle cose e delle persone conta poco o nulla, che si svolge ogni giorno, fuori di ogni regola, una sotterranea battaglia d’influenze, di ricatti, di piaceri, di do ut des, nella quale esponenti dell’alta burocrazia, dell’industria pubblica e privata, i vertici della magistratura e dei vari corpi dello Stato, competono per incarichi, appalti, promozioni, nomine varie. C’è poi un secondo aspetto, più sottile e in un certo senso più g r a v e d e l l a n o n istituzionalità di cui dicevo sopra.

È il fatto che immersi nel magma dell’informalità gli stessi che sono ufficialmente investiti del governo, i ministri (o almeno la maggior parte di essi), danno l’impressione di smarrire del tutto la consapevolezza del proprio ruolo, della propria funzione di comando, e diciamo pure della dignità connessa al proprio rango, per muoversi e parlare come il più scalcagnato portaborse di Montecitorio. La ministra Prestigiacomo che simile a un povera sprovveduta chiede lumi e informazioni a Bisignani confidandogli i propri disappunti è la raffigurazione — non saprei se più patetica o drammatica— di un potere che non sa neppure di essere tale, che non crede neppure lui in se stesso, e che forse, viene da pensare, inconsapevolmente perfino si disprezza.

Sono l’insicurezza di sé e insieme la non istituzionalità diffusa, pervadente, del potere italiano, che producono come un frutto naturale la figura del mediatore, dell’intermediario, del faccendiere. Bisignani non è la patologia, è la normalità del potere italiano. È colui che sa davvero come stanno le cose, che di qualunque ambiente si tratti è a conoscenza della graduatoria aggiornata di chi conta e di chi non conta, colui che mette in contatto, che tesse gli accordi riservati, che tiene le fila, che dà le indicazioni giuste, che indirizza agli interlocutori appropriati, che segnala per ogni nomina le persone fidate. È una figura che in modi nuovi si collega a una lunga galleria di «tipi» della tradizione italiana: qualcosa a metà tra il cortigiano e l’eminenza grigia, una riedizione del «puparo» e insieme di Arlecchino servo di tutti i padroni. I tipi di un Paese che sembra condannato a incarnare in eterno un’apparenza, una «scena»: un Paese grande e maledetto dove la realtà vera non è mai quella che appare.

Ernesto Galli Della Loggia

01 luglio 2011 08:36© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_01/della-loggia-insicurezza-e-fragilita-editoriale_c70995fa-a3a0-11e0-831c-4f5919d97524.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La clientela del deputato
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2011, 08:28:21 am
QUANDO L'ELETTORE NON C'È

Il commento

La clientela del deputato

Che cosa penseranno in queste ore, leggendo nelle cronache delle belle imprese dell'onorevole Milanese, i suoi elettori? E che cosa avranno pensato ieri o l'altrieri gli elettori dei vari Cosentino, Papa, Brancher, Romano, e di non pochi altri senatori e deputati, a vario titolo indagati, rinviati a giudizio, condannati da un tribunale? La risposta è semplice: non hanno pensato niente. Per una ragione altrettanto semplice: perché quegli elettori in realtà non esistono. Grazie alla legge elettorale in vigore, infatti, si è eletti alla Camera o al Senato per il puro ed esclusivo fatto di occupare un determinato posto nella lista presentata da un partito, non per altro (così come più o meno analogamente la consigliera regionale Minetti non è stata eletta per aver ricevuto dei voti, ma per la semplice volontà espressa dal candidato-presidente Formigoni di averla nel suo «listino»: l'elezione di lui comportando automaticamente quella di lei). In Italia non si eleggono dei rappresentanti, com'è noto: si vota un partito. Ci pensa questo, preliminarmente, a indicare nomi e cognomi.

Ne deriva che se si vuole occupare un posto di parlamentare ciò che conta è una cosa sola: guadagnarsi il favore di chi sceglie i nomi dei candidati da mettere nella lista di partito, e ottenere un buon posto nella medesima. Cioè, in pratica, l'unica cosa che conta è ingraziarsi ad ogni costo chi comanda: vale a dire il capo o i capi del partito. E naturalmente non smettere di farlo neppure a elezione avvenuta, dal momento che molto comprensibilmente ogni eletto vuole sempre essere rieletto. Il risultato è che in specie dove la gerarchia è ferrea - leggi nel Pdl - il semplice deputato o senatore diventa un'entità del tutto priva di ruolo ed eterodiretta: non ha da fare altro che votare come gli viene ordinato, ogni suo contatto con la base è sostanzialmente inutile, non ha radici in niente, non ha alcun elettorato di riferimento, non deve rispondere a nessuno se non a chi lo ha fatto eleggere.

Diviene in tal modo inevitabile - in fondo anche ragionevole - che il semplice deputato o senatore si dedichi allora a quelle attività diciamo così collaterali che possono procurargli direttamente un utile personale, ovvero renderlo «interessante» agli occhi di chi comanda: per esempio frequentare a vario titolo le sue varie stanze, mettere a disposizione appartamenti, persone e servigi di ogni tipo, offrire regali, creare occasioni, e poi intermediare a beneficio proprio incontri, appalti e commesse, agevolare amici e parenti, favorire nomine, e via dicendo. In Italia, il malcostume e la corruzione legati alla politica traggono un alimento continuo e potente innanzi tutto da questo degrado della funzione parlamentare, che da tempo è spogliata di quasi ogni autentico significato.

È dubbio però che il vero rimedio possa essere una diversa legge elettorale. Tuttavia cambiare quella attuale - per esempio ritornando non già a qualche sciagurata riedizione della proporzionale ma al «Mattarellum» - rappresenterebbe perlomeno un segnale. È vero, infatti, che anche con il «Mattarellum» i candidati dei collegi uninominali venivano scelti dai partiti - come del resto era la regola anche con la proporzionale - ma quel che dopotutto fa una certa differenza è per che cosa si viene scelti. Se per prendere più voti possibile in un determinato collegio, ovvero, come accade oggi, se per ricevere un regalo in cambio dell'obbedienza e di nient'altro.

Ernesto Galli Della Loggia

11 luglio 2011 07:24© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_11/la-clientela-del-deputato-ernesto-galli-della-loggia_19888b0e-ab7d-11e0-a665-5070e23b7a33.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Interesse collettivo, quella virtù perduta
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2011, 10:03:41 am
SEGNALI DI DECLINO DEL NOSTRO PAESE

Interesse collettivo, quella virtù perduta

Tra le parcelle dei notai e degli avvocati, e il voto di milioni di elettori...... il ministro Alfano, con il suo silenzio, si è schierato dalla parte delle parcelle

Certe cose non si possono misurare con alcun dato statistico, con nessun grafico. Ma si respirano nell'aria. È così che nell'Italia di oggi si avverte sempre più diffusa l'impressione che il nostro futuro è ormai un futuro di declino. Che stiamo diventando un Paese di serie B.

Non c'entrano (o sono solo sullo sfondo) le nostre pur difficili condizioni economiche, il debito pubblico stratosferico, la «manovra». C'entrano piuttosto il confronto con gli altri Paesi, da tempo sfavorevole all'Italia in tutti i campi, il senso d'inadeguatezza di ogni nostra infrastruttura, le disfunzioni di quasi ogni nostra istituzione; e ancor di più c'entra l'incapacità di chi dirige la cosa pubblica d'immaginare qualche rimedio, di dare l'impressione (almeno l'impressione) di capire che cosa è in gioco; la sua incapacità di avere un sussulto che rappresenti un segno di svolta rispetto al corso fatale degli eventi.

Ciò che in grande misura determina la crisi d'immagine e di consensi della destra nei confronti dell'opinione pubblica - della sua stessa opinione pubblica - è precisamente il distacco incolmabile che aumenta ogni giorno tra gli esponenti del Pdl e i sentimenti di scoramento e di sfiducia di cui ho appena detto. Sentimenti che stanno diventando sempre di più il sentire comune del Paese. È il fatto che gli esponenti della destra, i suoi ministri, non sanno mai dire una parola, mai compiere un gesto, mai trovare un'occasione simbolica che trasmetta un messaggio di serietà e di coerenza, di preoccupazione per l'interesse collettivo, magari anche contro il proprio; un gesto che sia testimonianza di sollecitudine per l'identità della nazione e il suo futuro.

Prendiamo il ministro Alfano, neosegretario politico del Pdl. Ebbene, tre o quattro giorni fa succede che varie decine di avvocati e notai, parlamentari del suo partito, offesi dalla sola idea che il governo possa pensare a modificare i loro rispettivi ordini professionali, scendano sul sentiero di guerra minacciando addirittura di uscire dalla maggioranza se il loro veto non sarà accolto. Sul carattere politicamente miserabile di questi signori ha già detto quello che andava detto Antonio Polito su queste colonne.

Ma che cosa, invece, ha detto o fatto Alfano? Assolutamente nulla. In altre parole: un buon numero di deputati e di senatori di un partito si ammutinano contro il loro stesso governo per difendere i propri interessi personali, e il segretario politico di quel medesimo partito non trova necessario fare la minima osservazione, lanciare loro il minimo avvertimento. Tra le parcelle dei notai e degli avvocati da una parte, e il voto di milioni di elettori dall'altra, Alfano, insomma, si è schierato con il suo silenzio dalla parte delle parcelle. È così, mi domando, che si difende la dignità della politica, l'interesse generale? È così che si dà un esempio di serietà al Paese, che gli si dà un segnale di quel rinnovamento dello spirito pubblico di cui la difficile condizione economica fa avvertire ancora di più a molti il bisogno?

Certo, quello di Alfano è un dettaglio. Ma quasi sempre è proprio nei dettagli che si annida la verità più significativa. Sono un dettaglio, ad esempio, o potrebbero passare per tale, anche i criteri di valutazione per i candidati ai concorsi universitari (in realtà non si tratta più di concorsi, ma per farmi capire continuo a chiamarli così) emanati di recente dalla neo istituita Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). In particolare dove si stabilisce quale peso dare alle pubblicazioni dei candidati. Ebbene, d'ora in poi, ha stabilito l'Anvur, una monografia pubblicata presso quello che viene definito «un editore internazionale» avrà un peso 3, un articolo pubblicato su «una rivista internazionale» 1,5 , mentre una monografia pubblicata presso quello che viene definito «un editore nazionale» avrà solo un peso 1,2, e infine un peso di appena 0,5 un articolo su una rivista italiana (ma l'aggettivo italiano è sempre pudicamente omesso; viene sempre scritto «nazionale»: chissà perché). Dal che sembra inevitabile trarre le seguenti conseguenze: a) che ai fini di un concorso per insegnare in un'università della Repubblica un libro di 500 pagine pubblicato, mettiamo, da Einaudi o dal Mulino vale meno di venti pagine pubblicate su una rivista americana, spagnola o tedesca che sia; b) che per definizione gli editori e le riviste «nazionali», cioè italiane, non possiedono né possono in alcun caso possedere un carattere «internazionale»: questo appartenendo solo a ciò che si pubblica in lingue diverse dalla nostra; c) che tutti gli studiosi nati nella Penisola sono invitati a cessare d'ora in poi dall'usare l'italiano nei loro scritti e dall'avere come referenti culturali iniziative editoriali di qualunque tipo che adoperino la lingua italiana; in sostanza la cosa più ragionevole che possono fare è di diventare inglesi.

Va subito precisato che naturalmente l'Anvur agisce in piena autonomia dal ministero dell'Università e della Ricerca (e la sua delibera la dice lunga su che cosa pensi del proprio Paese e della sua identità una parte degli intellettuali italiani: che lo vedrebbero volentieri diventare una regione del Canada). Ma che il ministro Gelmini non abbia trovato opportuno esprimere al riguardo la propria libera opinione è singolare e significativo (e queste righe sono un invito a farlo). Anche così, mi sembra, la destra segna la propria lontananza dal più vero e drammatico interrogativo che la collettività nazionale ha di fronte (e tanto più vero e drammatico in quanto è preliminare a tutti gli altri ma è il meno dicibile): che ci sta a fare nel mondo l'Italia? Perché, e in vista di che cosa ha un senso che continui ad esserci?

Ernesto Galli della Loggia

17 luglio 2011 11:03© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_17/della-loggia_interesse-collettivo_f11d4016-b044-11e0-b0ea-f35f7bc4068c.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'inquietudine del mondo cattolico
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 12:03:53 pm
UNA DIFFICILE RAPPRESENTANZA POLITICA

L'inquietudine del mondo cattolico

Nel disfacimento politico in atto era inevitabile che acquistasse spazio l'ipotesi della ricostituzione di un polo politico cattolico grande abbastanza (e quindi tendenzialmente unitario?) da svolgere un ruolo di rilievo. Inevitabile perché la storia non è acqua, e se i cattolici - e la Chiesa - non furono certo tra i soci fondatori del Regno d'Italia, invece lo sono stati senz'altro della Repubblica italiana. Insieme ai comunisti, com'è noto. Con la differenza però che la scomparsa dalla scena degli uni e degli altri non ha avuto certo il medesimo senso e la medesima portata. Mentre i comunisti, infatti, sono stati travolti da una smentita storica che li ha privati della legittimità della loro stessa nascita, gli altri hanno semplicemente visto il proprio partito, la Democrazia cristiana, messo in crisi da un logoramento complessivo, da fenomeni di malgoverno, da una serie di disavventure giudiziarie: tutte cose gravi sì, che però assai più che specificamente della Dc, erano comuni ad un intero sistema e ad un'intera cultura (o incultura) civica (tanto è vero che sono tuttora vitalissime).

In prospettiva, di contro, appaiono sempre più chiari a tutti i meriti storici del cattolicesimo politico italiano: la sua forte capacità inclusiva (sociale e ideologica), la conoscenza e comprensione del Paese, la sua costante volontà d'interlocuzione e di dialogo, la moderazione dei gesti e delle parole unita però a un fondo di valori forti. Non avrebbe forse di tutto ciò l'Italia un gran bisogno ancora oggi? Sicuramente sì. Ma l'ipotesi di ricostituzione di un grande polo politico cattolico implica, mi pare, che si chiariscano preliminarmente almeno due problemi decisivi.

Il primo è un problema per così dire posizionale, che sottintende però formidabili questioni di sostanza. Così come dopo il 1989 al Partito comunista non riuscì di diventare un partito socialdemocratico (cioè la sola cosa che poteva diventare), egualmente alla Dc non riuscì dopo il '93 di abbandonare la sua collocazione centrista e di occupare il solo posto libero nello schieramento politico italiano: quello di destra.

Il problema si pone ancora oggi nei medesimi termini, come mostra il fatto che non esiste sistema politico al mondo che veda la presenza di un partito di sinistra democratica (come accade finalmente anche nell'Italia attuale) e in cui il partito cattolico (o cristiano che sia) non abbia la funzione di contrapporsi al suddetto partito: cioè stia a destra. In realtà la collocazione centrista della Dc dipese interamente dalla particolare situazione del dopoguerra italiano, quando il solo termine destra faceva subito pensare al fascismo, e del resto esisteva un partito neofascista che si diceva per l'appunto di destra. Ma in un sistema a suffragio universale contrapporsi alla sinistra - in questo senso stare a «destra» - non implica affatto sostenere politiche antipopolari, reazionarie o classiste. Sostiene forse politiche di tal genere la cancelliera Merkel?

La generica propensione «a sinistra» della vecchia Dc (salvo però che al momento delle elezioni!) era determinata dalla presenza al suo interno di una componente di sinistra. Questa da un lato era convinta che per rappresentare esigenze «sociali» bisognasse per forza avere una qualche intesa con i comunisti, visti, nell'Italia povera di un tempo, come i naturali rappresentanti del «popolo» e delle suddette esigenze: equiparazioni oggi più che mai discutibili. Dall'altro lato, la sinistra cattolica si serviva del suo dialogo con il Pci per spostare a proprio favore gli equilibri interni del partito, con l'accreditare l'idea di essere l'unica ad avere una visione strategica in grado di compensare sul medio-lungo periodo l'inevitabile usura del potere (Aldo Moro fu essenzialmente questo).

È possibile immaginare che tutto ciò sia finito e che il nuovo partito cattolico sia ora disposto ad essere alternativo al Pd? E cioè, per dire la cosa più importante, a mantenere - come ha suggerito del resto proprio ieri dalle colonne di Avvenire la voce autorevole del rettore della Cattolica, Lorenzo Ornaghi - una forma sia pure corretta di legge elettorale maggioritaria? È certo che se così non fosse, se dovesse invece prendere piede un'opzione favorevole alla proporzionale, ciò equivarrebbe a un segnale quanto mai negativo. Il segnale che il nuovo partito cattolico è pronto ad essere un partito lacerato da anime contrapposte, un partito incapace di scegliere, alla fine tenuto insieme solo dal potere di coalizione. Proprio come fu troppo spesso la Democrazia cristiana nella seconda parte della sua vita.

Dopo quello dello schieramento, il secondo problema riguarda il rapporto con il mondo cosiddetto laico di cultura in senso lato liberale. Il problema si pose anche nel dopoguerra e, come è noto, fu risolto da De Gasperi grazie all'alleanza centrista motivata dalla necessità dell'anticomunismo, protrattasi in varie forme per oltre quarant'anni sempre in nome del «fattore K». Il collante dell'anticomunismo non esiste più, ma anche oggi un rapporto-incontro di quel tipo appare pur sempre necessario al fine di costituire una forza non rinchiusa in un recinto confessionale - che oggi tra l'altro sarebbe assai più angusto elettoralmente di quello che poteva essere nel 1948 - e capace quindi di svolgere un ruolo non minoritario. Un rapporto con il mondo laico di cultura liberale non potrebbe che avvenire, naturalmente, sulla base di un incontro sui programmi ma anche sui valori. Cioè su che cosa può e deve essere l'Italia, sulle scelte importanti, talvolta dolorose, che il Paese deve decidersi a fare se vuole uscire dalla crisi in cui si trascina da due decenni. Ma anche sulle risposte da dare alle sfide che l'onnipotenza congiunta della globalizzazione, della tecno-scienza e di un pangiuridicismo sempre più invadente pongono alle società democratiche e all'intera nostra tradizione culturale.

Lo spazio per un simile incontro oggi forse c'è o si sta creando nella società italiana. E tanto maggiore esso potrebbe essere, a mio avviso, se la nuova Dc, chiamiamola così, più che un partito stricto sensu cattolico si sentisse e si concepisse - secondo ciò che del resto diceva il suo nome di un tempo - come un partito cristiano: per dissipare qualunque equivoco sulla dipendenza dalle gerarchie ecclesiastiche, e per ribadire esplicitamente la propria proiezione al di là dell'ambito confessionale. Cristiano, del resto, per dire l'essenziale di ciò che va detto, basta e avanza.

Ernesto Galli della Loggia

25 luglio 2011 08:18© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_25/dellaloggia-inquietudine-cattolici_106bb244-b67c-11e0-b3db-8b396944e2a2.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La pozzanghera del malaffare
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 11:28:43 am
I PARTITI, LA CORRUZIONE, IL PAESE

La pozzanghera del malaffare

Perché insistere a chiedere all'onorevole Bersani risposte sincere ed esaurienti sui gravissimi sospetti di corruzione che da settimane colpiscono il Pd? Perché correre il rischio di sembrare di avercela per partito preso con la sinistra, quasi che così si volesse fare un favore alla destra? Perché attirarsi l'accusa di essere al servizio niente di meno che di una «macchina del fango» rivolta contro l'opposizione?

Una prima risposta a chi si facesse queste domande (e temo che l'onorevole Bersani sia tra questi) la fornisce il Fatto di ieri: un giornale con il quale spesso si è costretti a non essere d'accordo ma al quale va riconosciuta una notevole indipendenza politica. Ebbene, sul Fatto di ieri Ferruccio Sansa - un giornalista che è a sinistra e ha lavorato al Messaggero , a Repubblica , al Secolo XIX - racconta con abbondanza di particolari come per esperienza personale «chi tocca il centrosinistra muore»: e cioè che «i fastidi che (gli) hanno procurato le inchieste sul centrosinistra non hanno eguali» rispetto a quelle sul centrodestra, dove per «fastidi» si devono intendere «le calunnie, gli insulti, le telefonate a direttori ed editori» che le suddette inchieste gli hanno attirato in un ambiente come quello di Genova, pesantemente e capillarmente dominato dalla macchina politico-burocratica del Pd.

Ecco, fuori dai diffusi opportunismi e dai riguardi malriposti questa è l'Italia vera, quella descritta da Sansa: come sa bene chiunque conosca il Paese, le sue città, i suoi ambienti e le pratiche abituali con cui viene governato. Non foss'altro che per questo, un minimo di decenza vuole che i giornali (proprio come ha fatto il Corriere con il ministro Tremonti per la penna di Sergio Romano) non facciano sconti a nessuno; né alla destra né alla sinistra, e che gli stessi giornali si muovano con la medesima incisività: spregiudicata e forse un po' sbrigativa, se si vuole, ma questo è un altro discorso; che se lo si fa, però, allora lo si deve fare innanzi tutto quando riguarda l'avversario, non già se stessi.

Ma c'è una ragione ancora più importante, d'importanza decisiva, per cui la grande stampa d'informazione non può fare alla sinistra gli sconti che abitualmente e da anni non fa alla destra, pur avendo naturalmente l'obbligo di sottolineare tutte le diversità, se eventualmente emergono, tra i due tipi di corruzione.

La ragione è presto detta. Tutto lascia credere che l'inquinamento della nostra vita pubblica abbia ormai raggiunto livelli spaventosi, quasi vicini al punto di non ritorno. L'esperienza dice altresì che anche a sinistra, cadute le antiche barriere protettive, il fenomeno non ha virtualmente più argini significativi. Di fatto, da anni, le inchieste giudiziarie sui legami tra politica e affari sono divenute l'elemento assolutamente centrale della lotta politica italiana, mentre strumento principe di tale lotta sono sempre più i dossier che ognuno cerca di fabbricare illegalmente sul conto di tutti gli altri. Principalmente per questo è cresciuto di pari passo il ruolo virtualmente politico della magistratura, in modi e misura con ogni evidenza abnormi, e magari, lo si può ammettere, contro la volontà degli stessi magistrati anche se certo non di tutti.

Ruolo di fatto politico, che è divenuto anch'esso elemento assolutamente centrale, e patologico, della lotta tra i partiti: oggetto di polemiche continue, di dispute e ritorsioni ossessive che hanno finito per assorbire quasi ogni altra questione sul tappeto. Corruzione politica da un lato, e prassi e regole dell'azione giudiziaria dall'altro: ecco due giganteschi nodi di problemi che se non vengono sciolti sono destinati a strangolare la democrazia italiana. Ma l'esperienza ormai di decenni mostra che da sole né la destra né la sinistra riescono a farlo. Vittime l'una e l'altra dei rispettivi pregiudizi, delle rispettive convenienze, dei rispettivi legami più o meno espliciti: la destra convinta di poter riuscire prima o poi a mettere il morso alla magistratura, la sinistra convinta che alla fine le inchieste giudiziarie l'avvantaggeranno in modo risolutivo.

S'illudono entrambe. Ma mentre nutrono le loro illusioni il Paese è paralizzato, e, se si muove, è per correre alla rovina. La sola possibile soluzione per sciogliere i due nodi di cui sopra è nella fine delle illusioni sia della destra che della sinistra, e nell'affermarsi dell'idea che è necessario uno sforzo comune per trovare un'intesa all'insegna delle reciproche concessioni: un'intesa, come ripete da tempo il presidente Napolitano, che su tali questioni è un obbligo di carità di patria, di solidarietà nazionale, oltre che una necessità per la salvezza della Repubblica. Su questi temi la grande stampa d'informazione non può né deve avere indulgenza per nessuno, oltre che per le ragioni dette sopra, anche per ciò: perché tanto la destra che la sinistra devono convincersi che i due problemi fin qui considerati riguardano entrambe, che anche in questo caso non ha senso chiedersi per chi suona la campana perché la campana suona per tutti. Se la sinistra si ostina a negarlo non fa che allontanare il bene del Paese per ritrovarsi alla fine in un vicolo cieco.

Ernesto Galli della Loggia

31 luglio 2011 09:28© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_31/la-pozzanghera-del-malaffare-ernesto-galli-della-loggia_bc78fa60-bb40-11e0-acae-70d086d49d73.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il vero disavanzo delle democrazie
Inserito da: Admin - Agosto 17, 2011, 04:29:01 pm
SPESA PUBBLICA, SCARSI VALORI

Il vero disavanzo delle democrazie


Con il terremoto della finanza mondiale e con i disordini in Inghilterra l’estate del 2011 sta facendo suonare un campanello d’allarme generale per tutti i regimi democratici. In particolare per quell’aspetto cruciale che è il rapporto dei governi con le risorse disponibili. Tutto ha inizio con il suffragio universale, cuore di quei regimi. Nei quali, come si sa, ogni tot anni chi è al potere deve per l’appunto cercare di avere un voto in più dei rivali, dimostrare che i propri risultati (ovviamente limitati) sono superiori alle promesse (potenzialmente illimitate) degli avversari. La questione decisiva è dunque ogni volta la seguente: come ottenere quel voto in più? Nel corso del tempo le risposte si sono andate riducendo in pratica ad una sola: spendendo, impiegando risorse per soddisfare le esigenze o comunque le richieste dei più vari gruppi sociali in modo da ottenerne così il favore elettorale. Ma spendere significa trovare i soldi per farlo, cioè tassare. Spendere con una mano e tassare con l’altra è divenuta così la regola generale dei regimi democratici. Una regola sempre più vincolante a partire dagli Anni 70 del secolo scorso: allorché alcuni importanti motivi di consenso di tipo politico-ideologico fino ad allora operanti nei regimi democratici (la difesa di certi interessi nazionali ancora largamente sentiti, la necessità di opporsi al comunismo o il ricordo ancora recente del fascismo) hanno perduto di peso o sono svaniti.

Da allora le motivazioni di tipo materiale hanno sempre più rapidamente sostituito quelle immateriali. Tanto più che, sempre a partire dagli stessi Anni 70, la crescita dei redditi, la rivoluzione dei consumi e la comparsa di sempre nuovi beni d’uso quotidiano, hanno cominciato ad occupare sempre di più l’orizzonte delle nostre società, sempre più condizionando le attese degli individui e la formazione della loro stessa soggettività. In questo modo dal dibattito ufficiale delle democrazie è stato rapidamente espulso ogni elemento ideale. Nelle società democratiche, nelle nostre società, non hanno trovato più spazio un qualunque discorso pubblico riguardante il mondo dei valori personali e collettivi, la qualità della vita individuale e della convivenza, le prospettive del futuro. Conseguenza diretta ed esemplare (dappertutto, ma specie in Italia) di questo assottigliamento spirituale—è consentito chiamarlo così? —della cultura democratica, è stata la progressiva perdita di rilevanza e di qualità che ha colpito tanto il sistema dell’istruzione pubblica che l’informazione. Ed è accaduto così che al di là dell’elemento procedurale, l’unica sostanza delle democrazie sia divenuta la pura e semplice tutela, sempre più ampia, di sempre nuovi diritti per i singoli e per i gruppi. La spesa pubblica ha acquistato, in questo modo, un ruolo assolutamente decisivo nella costruzione del consenso democratico. Dovendo tra l’altro fare i conti con un’ulteriore disposizione psicologica tipica delle democrazie: che ciò che è concesso una volta diviene di fatto irrevocabile. Opportunità, elargizioni, benefici e diritti vari, una volta riconosciuti o dispensati possono solo aumentare, mai diminuire.

Ma il meccanismo del consenso attraverso la spesa pubblica, attraverso sempre più spesa pubblica, diventa alla lunga insostenibile, specie se per qualunque ragione il ciclo economico rallenta o si ferma per qualche tempo e il sistema produttivo non genera ricchezza sufficiente da consentire un prelievo fiscale crescente, o tale comunque da soddisfare le richieste che fanno la fila davanti allo sportello della politica (e che tra l’altro aumentano proprio quando le condizioni dell’economia peggiorano). È quello che è capitato alle democrazie occidentali (per prima all’Italia) più o meno negli ultimi trent’anni, allorché, inoltre, il grande consolidamento postbellico dei regimi democratici ha voluto dire un’immissione stabile nella cittadinanza dei più larghi strati sociali, di milioni di persone. L’economia reale, insomma, non ha tenuto dietro al costo della democrazia. È a questo punto che le classi politiche sono state costrette a cercare le risorse necessarie ad ottenere il consenso ricorrendo sempre di più all’indebitamento.

Ed è a questo punto, di conseguenza, che «i mercati», cioè la finanza, hanno cominciato a diventare gli effettivi padroni degli Stati e dei governi; in definitiva della società nel suo complesso. Ma il problema com’è chiaro non è nella finanza o nella speculazione: è nei deficit di bilancio di democrazie che non sanno essere che democrazie della spesa. Come possono fare a non esserlo? A non esserlo, almeno, oltre una certa misura, a non essere solamente tali? C’è un’unica strada mi sembra: oggi difficile perfino a dirsi, ma probabilmente la sola possibile. Trovare alla democrazia nuovi contenuti. Contro l’unidimensionalità economicistica riscoprire la politica; allargarne lo spazio di nuovo, come fu un tempo, ai valori essenziali che ci preme salvaguardare, ai grandi problemi del modello di società che vogliamo. Contro il minimalismo pseudorealista riscoprire la politica e la capacità che essa deve avere di animare un dibattito pubblico con verità, senza chiacchiere utopiche, ma anche con capacità di visione e di mobilitazione ideale. Nei tempi duri, forse durissimi, che ci attendono, la sola speranza della democrazia è nella politica, in una politica siffatta. Solo con questa politica riusciremo, se ne saremo capaci, a fare sì che le nostre società non diventino una docile e invivibile appendice della Borsa.

Ernesto Galli della Loggia

17 agosto 2011 08:26© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_17/galli_loggia_disavanzo_democrazie_ae878f10-c898-11e0-a392-b95dcb34082b.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Governanti del nulla
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2011, 11:48:07 am
LA DEBOLEZZA DELLE LEADERSHIP

Governanti del nulla

Nonostante gli sforzi di Merkel e Sarkozy per apparire due veri statisti, o l'impegno di Obama per apparire un presidente capace di tenere tutto sotto controllo, le opinioni pubbliche occidentali si rendono sempre più conto che in realtà, oggi, nessuno dei propri governanti tiene sotto controllo un bel nulla. E tanto meno riesce a immaginare una qualche via d'uscita da una crisi che ormai sembra avviarsi ad essere di sistema. Proprio nel momento peggiore della sua storia postbellica l'Occidente, insomma, scopre di essere nelle mani di leader privi di temperamento, di coraggio e soprattutto di visione.

Non è un caso. Il deterioramento qualitativo delle classi politiche, infatti, è innanzi tutto un prodotto inevitabile di quella «democrazia della spesa» vigente da tempo nei nostri Paesi, in forza della quale governare significa in pratica solo spendere, e poi ancora spendere, per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (e quindi tassare e indebitarsi: con relative catastrofi finanziarie). Quando le cose stanno così, per governare basta disporre di risorse adeguate, non importa reperite come, o prometterne. L'esercizio del potere si spoglia di qualunque necessità di conoscere, di capire, di progettare, e soprattutto di scegliere e di decidere. Non solo, ma il denaro diviene a tal punto intrinseco alla politica che esso finisce per apparirne il vero e ultimo scopo: a chi l'elargisce come a chi lo chiede o lo riceve. Con la conseguenza, tra l'altro, che dove il denaro è tutto, inevitabilmente la corruzione s'infila dappertutto. La «democrazia della spesa», insomma, è un meccanismo che, oltre a svilire progressivamente la sostanza e l'immagine della politica, contribuisce a selezionare le classi politiche al contrario, non premiando mai i migliori (per esempio quelli che pensano all'interesse generale).

Lo stesso effetto lo ha la personalizzazione mediatica, specie televisiva, ormai centrale per ogni carriera politica in tutta l'area euro-americana. Da che mondo è mondo, la personalità in politica ha sempre contato moltissimo. Giustamente. Ma quando la valutazione di essa è fatta in gran parte attraverso le apparizioni televisive (in Italia per giunta della durata media di 45-90 secondi), allora è ovvio che a contare siano specialmente l'aspetto, la «simpatia», lo scilinguagnolo, l'abilità nello scansare gli argomenti scomodi. Caratteristiche che però, come si capisce, non sono proprio quelle più significative se si vogliono selezionare dei leader capaci di guidare un Paese nei momenti difficili.

Ad aggravare gli effetti di questa personalizzazione mediatica dei capi si aggiunge paradossalmente, quasi a fare da contrappeso apparente, la progressiva spersonalizzazione, invece, delle loro decisioni: specie di quelle davvero cruciali. Cioè la virtuale deresponsabilizzazione degli stessi capi. Dal momento, infatti, che i problemi hanno sempre di più un carattere mondiale o a dir poco regionale, che la globalizzazione impone le sue regole irrevocabili, l'ambito nazionale diventa secondario.

Quelle che davvero contano in modo vincolante sono sempre di più le decisioni prese da qualche vertice o da qualche istituzione internazionale, più o meno lontani e indifferenti rispetto all'arena politica domestica. Decisioni che così finiscono per essere figlie di nessuno e un comodo alibi per tutti. Come possono formarsi in questo modo vere élites politiche? Veri, autorevoli, capi politici?
Per i paesi di medio livello come l'Italia la cosa è clamorosamente evidente. Basti pensare che per ben due volte negli ultimi anni ci siamo trovati addirittura impegnati in operazioni militari di grande rilievo politico - contro la Jugoslavia prima, e adesso contro la Libia - di fatto solo perché altri avevano preso per noi la decisione relativa e noi non potevamo dispiacergli.

Già, la guerra; e dunque la politica estera di cui la guerra un tempo rappresentava l'apice. Non è politicamente corretto ciò che sto per dire, lo so. Ma certo è difficile pensare che la virtuale scomparsa dall'esperienza europea di questi due ambiti decisivi di ciò che fino a qualche decennio fa è stata la politica - i due ambiti cruciali in cui fino a ieri i capi politici potevano essere chiamati a dare prova di sé, ad essere preparati a dare prova di sé - non abbia avuto la sua parte nel rendere sempre più scadente la qualità delle classi politiche del Vecchio continente. È solo un caso, mi chiedo, se i tre principali leader di paesi democratici nell'Europa della post-ricostruzione - De Gaulle, la signora Thatcher e Helmut Kohl - abbiano legato tutti e tre il proprio nome a grandi decisioni di politica estera e/o di tipo bellico (l'Algeria e l'armamento atomico, la guerra delle Falkland, l'unificazione tedesca)? Forse no, direi, non è proprio un caso.

Ernesto Galli della Loggia

21 agosto 2011 09:53© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_21/della-loggia-governanti-del-nulla_ab16e80a-cbc5-11e0-b17c-f32c89c7e751.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Conservatori e immobilisti
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2011, 05:57:58 pm
EGOISMI E PAURE TRASVERSALI

Conservatori e immobilisti


Sì, Berlusconi si sta rivelando un pessimo presidente del Consiglio, non si sa come mandarlo via e di fronte alla crisi economica il governo si è mostrato di una pochezza e una goffaggine uniche. Sì, l'opposizione riesce solo a balbettare ma non è capace di nessuna proposta alternativa seria. Sì, la maggioranza è spaccata e l'opposizione è divisa. E per finire c'è l'abominevole casta che tutti ci sentiamo così bravi e onesti a detestare. È tutto vero, sì, l'Italia è tutto questo.

Ma chi cerca di non fermarsi alla superficie sa che nessuno di quelli ora detti è il problema vero del Paese.

Il problema vero, profondo, strutturale dell'Italia sta altrove. Sta nell'esistenza di un immane blocco sociale conservatore il cui obiettivo è la sopravvivenza e l'immobilità. Nulla deve cambiare. È questo il macigno che ci schiaccia e oscura il nostro futuro. Il blocco conservatore-immobilista italiano è un aggregato variegatissimo. Ne fanno parte ceti professionali vasti e ferreamente organizzati intorno ai rispettivi ordini, gli statali sindacalizzati, gli alti burocrati collegati con la politica, i commercianti evasori, i pensionati nel fiore degli anni, i finti invalidi, gli addetti a un ordine giudiziario intoccabile, i tassisti a numero chiuso, i farmacisti contingentati, i concessionari pubblici a tariffe di favore, il milione circa di precari organizzati, gli impiegati e gli amministratori parassitari delle spa degli enti locali, gli imprenditori in nero, i cooperatori fiscalmente privilegiati, i patiti delle feste nazionali, i nostalgici della contrattazione collettiva sempre e comunque, le schiere di elusori fiscali, gli imprenditori in nero, gli aspiranti a ope legis e a condoni, quelli che non vogliono che nel loro territorio ci sia una discarica, una linea Tav, una centrale termica, nucleare o che altro. E così via per infiniti altri segmenti sociali, per mille altri settori ed ambiti del Paese. In totale, una massa imponente di elettorato.

Un elettorato ormai drogato, abituato a trarre la vita, o a sperare il proprio avvenire, dal piccolo o grande privilegio, dall'eccezione, dalla propria singola, particolare condizione di favore. Avendo scritto un paio di settimane fa che abbiamo bisogno di una politica capace di parlare «con verità», Emanuele Severino - con tipico massimalismo filosofico, me lo lasci dire - mi ha chiesto polemicamente «che cosa significhi verità». Ecco, caro Severino, significa per esempio una politica capace di dire le cose banali ma vere di cui sopra, di dire questa verità, che la società italiana è questa qui. Invece tra la politica e il blocco conservatore-immobilista si è da tempo stabilito un rapporto di assoluta complicità.

Forte della debolezza della politica, delle sue pessime prove, sempre più spesso la società italiana sembra non voler riconoscere più alcun potere di direzione alla politica stessa, ma di cercarne solo l'appoggio necessario per la sua sopravvivenza spicciola. E domani capiti quel che può capitare. Essa si muove in questa ricerca con consumata spregiudicatezza, tanto a destra come a sinistra, utilizzando per i propri interessi tutto l'arco della rappresentanza parlamentare.
Ogni gruppo sociale appena importante, ogni interesse e segmento professionale sa di poter contare sui suoi deputati e senatori di riferimento (particolarmente rilevante il caso dei magistrati e degli avvocati che hanno a disposizione un vero e proprio partito ombra), i quali intervengono puntualmente a difendere i propri tutelati contro la destra, contro la sinistra, contro tutti. Come si è visto drammaticamente proprio in queste settimane: quando il governo, la maggioranza, e in modo solo meno diretto anche l'opposizione, si sono mostrati incapaci di esprimere indirizzi rapidi, incisivi e coerenti, di sostenere scelte dure, perché di fatto totalmente in balia del blocco conservatore-immobilista, perché ricattati e minacciati dai milioni e milioni di cittadini impegnati allo spasimo perché tutto resti com'è.

In Italia non sembra più ormai possibile fare nulla, cambiare nulla, perché c'è sempre qualcuno dotato di un potere d'interdizione che dice di no. Anche per questo siamo un Paese che dà sempre di più l'impressione soffocante di un Paese vecchio, immobile, paralizzato. Dove perfino i discorsi, i pensieri, le conversazioni si susseguono sempre eguali. Un Paese prigioniero del suo passato, nel quale troppi hanno costruito la propria esistenza sfruttando rendite di posizione, contingenze favorevoli irrepetibili, trincerandosi in ben muniti fortini corporativi. Un Paese che fino a ieri poteva forse credere di essere una sicura Fortezza Bastiani, ma che oggi, quando il tempo dei barbari è forse arrivato, assomiglia sempre di più a un disperato Forte Alamo.

Ernesto Galli della Loggia

10 settembre 2011 10:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_10/conservatori-e-immobilisti_8cf35bf0-db6b-11e0-b2c4-3586dc7a9584.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una commedia italiana
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2011, 10:39:57 am
IL PDL TRA PUBBLICO E PRIVATO

Una commedia italiana


È difficile che Berlusconi non lo sappia. Ma se questo fosse il caso, allora è opportuno che qualcuno glielo dica. Gli dica che in pratica non c'è uno, uno solo, dei deputati e dei senatori della sua maggioranza (nonché dei suoi ministri) che in privato non si mostri convinto che il presidente del Consiglio ha fatto il suo tempo, e che la cosa migliore per tutti è che lasci al più presto il proprio incarico.
È bene che il Cavaliere lo sappia: il deputato che incrociandolo a Montecitorio gli stringe rispettosamente la mano, la sottosegretaria che gli sorride al banco del governo, il fidato collaboratore, tutti, appena lui si allontana, confidano a chiunque che così non si può andare avanti, che il premier deve lasciare. Tutti, indistintamente: ma sempre alle sue spalle. Da settimane sul palcoscenico italiano la destra mette in scena un triste spettacolo di doppiezza.

L'onorevole Alfano ha detto pochi giorni fa che gli avversari del Pdl vogliono non solo cacciare Berlusconi dal governo, ma cancellare in realtà l'intera storia politica di coloro che in lui si sono riconosciuti. Forse. Quel che è certo è che se c'è però un modo di evitarlo è quello di fare politica, come egli appunto cerca di fare in queste ore, non già invece quello che troppo spesso è sembrato prevalere di recente tra gli esponenti del Pdl: in pubblico mettere la testa sotto la sabbia, e in privato abbandonarsi alla confidenza ironica, al qui lo dico e qui lo nego.

Coloro che si comportano così non sembrano rendersi conto che l'Italia vive oggi il momento forse più critico della sua storia postbellica. Il terrorismo e le vicende di «Mani pulite», infatti, non rappresentarono mai un pericolo capace di minacciare ciò che minaccia di fare la crisi economica attuale. E cioè scompaginare le basi sociali stesse della democrazia italiana riducendo drammaticamente le risorse a sua disposizione. E dunque cancellare intere parti della realtà non solo economica ma anche civile e umana del Paese. Egualmente non sembrano rendersi conto che ormai per il Popolo della libertà è questione di vita o di morte: o il Pdl, infatti, riesce a svincolarsi da Berlusconi, e quindi a mantenere in vita un'esperienza dimostratasi cruciale per l'esistenza di un polo politico-elettorale di destra, o per lo stesso Pdl molto verosimilmente è finita. E per la gran massa dei suoi esponenti - privi quasi sempre di un qualunque retroterra di consenso personale - ci sarà forse, a suo tempo, un vitalizio delle Camere, ma di sicuro non c'è più alcun avvenire politico.

Ciò che sta venendo al pettine in questo fosco tramonto del berlusconismo è il nodo del partito, non solo e non tanto personale come è stato tante volte definito, quanto padronale, a cui Berlusconi stesso ha dato vita diciassette anni fa. Un singolare partito, formalmente politico, ai cui esponenti però è stato finora vietato l'accesso a quello che da che mondo è mondo è il momento cruciale della politica stessa: il momento della decisione, delle scelte. Finora, invece, riservato solo al capo e ai suoi fidi. Ma la storia ha voluto prendersi la vendetta di questa bizzarra anomalia. Ora il momento di decidere è inappellabilmente venuto, per ognuno e per tutti. E a tutti è fin troppo ovvio ricordare che in realtà non decidere è già un decidere. E di sicuro, oggi, è la decisione sbagliata.

Ernesto Galli Della Loggia

25 settembre 2011 10:35© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_25/Una-commedia-italiana_cf21ac62-e745-11e0-a00f-4bc86d594420.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA COSTITUZIONE E VOTO SU CSM E CONSULTA
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2011, 04:52:13 pm
COSTITUZIONE E VOTO SU CSM E CONSULTA

Trattata male (e in silenzio)

Ci sono molti modi per tradire la Costituzione, per violarne lo spirito e di fatto, quindi, mettersela sotto i piedi. Uno è il modo diciamo così alla Bossi: sguaiataggini secessioniste, apprezzamenti ingiuriosi per questo o quell'organo dello Stato, per questa o quella prescrizione della Carta. Ma ce n'è anche un altro, più sottile ma non meno grave: per esempio quello costituito dal modo in cui ormai abitualmente vengono eletti dal Parlamento quei membri della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura la cui elezione la Costituzione riserva appunto alle Camere con modalità stabilite da apposite leggi costituzionali. È il modo, per intenderci, con cui sono stati appena eletti un membro del Csm, Ettore Albertoni, e un giudice della Corte costituzionale, Sergio Mattarella (le cui qualità personali non sono naturalmente qui in alcun modo in discussione).

Stupisce però che questi due modi di tradire/violare la Costituzione o il suo spirito non suscitino affatto la stessa reazione. Nel primo caso (il modo bossiano), infatti, sdegno e riprovazione universali si sprecano. Nel secondo, invece (quello messo in opera dal Parlamento), silenzio di tomba, rotto talvolta solo dalla inascoltata voce dei deputati radicali.

Spiego in che cosa consista a mio giudizio la violazione delle leggi di attuazione costituzionale da parte del Parlamento, della quale sto parlando. È stabilito da tali leggi, tanto per l'elezione dei membri «laici» del Csm che della Corte costituzionale da parte delle Camere riunite, il raggiungimento di un quorum.

Non basta cioè la semplice maggioranza sia pure assoluta: è necessario un consenso più vasto (nel caso dei giudici della Corte i due terzi e dopo i primi tre scrutini a vuoto almeno i tre quinti dei componenti dell'Assemblea; i tre quinti servono anche per i membri del Csm). E per giunta il voto deve essere a scrutinio segreto.

È evidente il senso di queste disposizioni: evitare l'elezione a cariche così importanti di figure di parte, di figure inserite in strette logiche di schieramento. Fare sì, viceversa, che i partiti presenti in Parlamento - i quali sono di fatto i veri titolari del diritto di nomina - trovino l'accordo su personalità di valore e quanto più possibile super partes, in grado quindi di raccogliere la stima e il consenso più ampi.

Ma questa saggissima indicazione è da anni vanificata. Da tempo infatti i partiti hanno rinunciato a qualsiasi concertazione, a qualunque discussione sulle qualità di questo o quel candidato. Hanno preferito tutti adottare, invece, il metodo brutale della spartizione: «Questa volta si vota per il candidato che hai scelto tu, qualunque esso sia; la prossima volta si voterà per quello che ho scelto io». Accade così paradossalmente che non solo non si realizza il fine voluto dalla legge costituzionale, ma che si realizzi esattamente l'opposto. Non solo non c'è la concertazione, il comune convenire sull'eccellenza del candidato, non si sceglie cioè quello che ai più appare «il migliore». Ma capita che - salvo il limite imprecisabile costituito dalla decenza - ogni partito di regola scelga chi gli pare. E dunque, presumibilmente, la persona che dà più affidamento al partito stesso: non è difficile immaginare, nella maggioranza dei casi, per quali ragioni. Così come non è difficile immaginare quale indiscutibile autorità, quale dignità pubblica, possono alla lunga conservare - e rivendicare - organi pur di suprema garanzia ma che i cittadini sanno eletti a questo modo.

Ernesto Galli Della Loggia

07 ottobre 2011 09:01© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_07/dellaloggia-costituzione-voto-csm_a1d3b23c-f0a5-11e0-a040-589a4a257983.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una bandiera primitiva
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2011, 10:14:07 am
Una bandiera primitiva

L'indignazione è all'ordine del giorno. È di gran moda, anzi, visto che parti significative delle classi dirigenti europee e americane che fino a ieri sembravano del tutto a loro agio nel «sistema», adesso arrivano a dirsi, se non «indignate» anch'esse, perlomeno solidali con chi lo è.

«L'indignazione» all'ordine del giorno è l'ennesima manifestazione dell'antipolitica che cresce, della progressiva cancellazione dall'esperienza di masse crescenti di cittadini di che cosa voglia dire la politica e di che cosa sia il mondo. Infatti, chi cerca di capire come funziona la società, e insieme ha qualche rudimento di economia, e dunque qualche idea di che cosa siano la polis e il suo governo, di che cosa sia e di come sia organizzato il potere, non si indigna. Propone qualcosa, sciopera, fa la rivoluzione, vota per l'opposizione o ne crea una: ma non si indigna. Soprattutto non sta lì a «proclamarsi indignato». Marx non si indignava. E neppure Turati, per dire qualcuno di tutt'altra pasta. Robespierre lui sì, amava dirsi indignato, ma forse è passato alla storia per aver fatto anche qualcos'altro.

L'indignazione in politica, quando è autentica, è una reazione immediata ed elementare. Se diviene permanente, se diviene una bandiera, allora testimonia di una concezione delle cose più che semplificata: primitiva. È la concezione per cui il mondo dovrebbe essere buono e potrebbe esserlo se non fosse per qualche sciagurato che viola le regole senza che nessuno pensi a impedirglielo rimettendo le cose a posto. Non basta l'ingiustizia, infatti, per suscitare l'indignazione: è necessaria l'impunità dei colpevoli veri o presunti. L'indignazione - lo si vede e lo si sente bene nelle agitazioni odierne - è sempre una denuncia della protervia degli impuniti. Essa è animata da questo tratto elementare come testimonia del resto il carattere altrettanto elementare del rimedio che la piazza «indignata» propone per gli attuali problemi del mondo: il debito, i debiti? Non li si paghi! Un occhio per occhio finanziario, insomma: come non averci pensato prima.

Proprio per il suo tratto radicalmente (ed elementarmente) etico, l'indignazione ha successo innanzitutto fra i giovani ma più in generale in tutta una società come la nostra dove, come ho detto, sta scomparendo la politica con la sua noiosa complessità e dove tutte le spiegazioni del mondo fornite dalle ideologie di un tempo non hanno più corso.

Guai però, terribili guai, a sottovalutare la portata dei sentimenti elementari. Specie se scelgono come nemico un nemico già di per sé - per sua natura, a prescindere da ogni malefatta - impopolare come la finanza e le banche. È, questa, l'impopolarità tipica di ciò che risulta astratto, immateriale, lontano, per giunta transnazionale senza patria, incomprensibile (nessun gergo come quello finanziario è interamente dominato dall'inglese); come apparentemente incomprensibile è la magica capacità del denaro di crescere su se stesso. La finanza è il volto cattivo del capitalismo industriale che, almeno lui, si tocca con mano e più o meno si capisce cosa fa e come funziona.

Nulla come la finanza si presta a meraviglia a divenire il simbolo negativo dell'intero capitalismo, dell'intera dimensione economica quando questa non riesce più a darci le cose necessarie alla vita (innanzitutto il lavoro). Ma anzi, come sta accadendo in questi anni minaccia con le sue dure leggi di occupare ogni territorio sociale, di sterilizzare e cancellare ogni ideale collettivo, ogni progetto, ogni speranza. Quando accade cioè, come ora, che l'economia si trasformi in un economicismo asfissiante: vale a dire che essa diviene l'alfa e l'omega di tutto, il vincolo assoluto di ogni decisione.

C'è una sola barriera capace di tenere separata l'economia dall'economicismo. C'è una sola arma per impedire che le nostre società diventino altrettante succursali delle banche (magari della Bank of China): ma non è quella di indignarci e tanto meno di non pagare i debiti. È la politica. A tutti i costi, discutendo e dividendoci, ma questo solo ci può tirare fuori dai guai: tornare a una grande politica.

Ernesto Galli Della Loggia
19 ottobre 2011 08:26© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_19/una-bandiera-primitiva-ernesto-galli-della-loggia_9faad4e8-fa11-11e0-81c3-3aee3ebb3883.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - I PERICOLI DELL’ASSE BERLINO-PARIGI
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2011, 11:29:29 am
I PERICOLI DELL’ASSE BERLINO-PARIGI

I vasi di coccio dell'Unione

In maniera sempre più evidente la crisi economico-finanziaria, proprio perché è innanzi tutto crisi nostra, italiana—e ha fatto bene Mario Monti a ricordarlo domenica scorsa sul Corriere— ci ha messo negli ultimi mesi in un rapporto nuovo e per certi versi drammatico con l’Unione europea. Facendocene apprezzare l’aiuto vitale e necessario, ma anche facendoci toccare con mano il modo sicuramente problematico in cui la costruzione europea si sta sempre più definendo.

L’Europa di oggi non è certo quella del 1958, di cui fummo tra i fondatori, pensata e nata su un piede di assoluta parità tra i suoi membri. Gli sviluppi successivi, infatti, i vari allargamenti succedutisi (in modo particolare quello sciaguratissimo da 15 a 27 Paesi), nonché la crisi economica recente, hanno fatto emergere, di fatto, al suo interno un direttorio franco-tedesco. Direttorio che, benché possa essere considerato allo stato delle cose inevitabile, pone certamente in modo nuovo la questione della cessione di sovranità insita nel trattato dell’Unione.

La domanda cruciale che oggi dobbiamo porci (e forse non solo noi) è: quando obbediamo alle sempre più numerose e vincolanti direttive della Ue, a chi stiamo cedendo sovranità? All’Europa, o piuttosto alla Francia e alla Germania? Domanda tanto più fondata in quanto non c’è nessuna persona di buon senso che possa dubitare del fatto che i governi di Parigi e di Berlino, anche quando trattano affari europei e decidono in quella sede, in realtà si preoccupino innanzi tutto dei propri interessi politici e nazionali. Ma noi? Siamo davvero sicuri, noi, che invece il nostro interesse nazionale e l’interesse politico della maggioranza elettorale che si esprime nel nostro governo, siano sempre e comunque coincidenti con quelli «europei» presi nel modo che ho detto?

A questo proposito a me personalmente appare esemplare quanto ha più volte sentenziato la Corte costituzionale tedesca. E cioè che a norma della costituzione federale, in determinate materie il parlamento della Germania mantiene piena e assoluta sovranità, a dispetto di qualunque decisione possa prendere un qualunque organismo europeo. Qualcosa del genere, mi pare, dovrebbe valere anche per noi, essendo una conseguenza evidente del principio democratico secondo il quale per una moderna comunità politica certe decisioni cruciali sono legittime solo se prese da organi elettivi. Mentre, come è noto, nessun organo realmente decisionale dell’Unione europea lo è. Il che, allora, pur volendo prescindere da ogni questione di forma (ammesso che in questo caso si tratti solo di forma), dovrebbe però obbligare comunque a porsi una domanda non da poco: è accettabile che il nostro interesse nazionale sia di fatto condizionato o addirittura deciso in modo vincolante da governi stranieri?

La verità è che l’Unione europea si trova oggi stretta in una tenaglia. Da un lato le decisioni sempre più importanti a cui soprattutto l’esistenza dell’euro la spingono non le consentono più di seguire la regola, seguita fino ad oggi, per la quale ogni Paese, anche il più piccolo, può esercitare un insindacabile diritto di veto.

Dall’altro lato, però, non le è neppure possibile (per l’inesistenza di un «popolo europeo» e dunque di un medium linguistico comune, e pertanto per l’impossibilità di una vera esistenza politica comune) di adottare la sola procedura alternativa effettivamente democratica: affidare le decisioni medesime a un parlamento eletto da tutti i cittadini dell’Unione. Che vorrebbe dire, poi, il primo passo verso una vera unione federale.

La via d’uscita escogitata per sfuggire a questa tenaglia è una falsa via d’uscita. Mi riferisco al progetto di «pesare» ogni singolo Stato sulla base del numero dei suoi abitanti e di adottare quindi solo le decisioni prese da un numero di Stati la cui popolazione sia almeno pari al 65 per cento dell’intera popolazione dell’Ue.

È una falsa via d’uscita perché in realtà lascia tutto ancora nelle mani dei governi, cioè degli Stati, e dunque affida tutto ai rapporti di forza tra di essi. Che cosa mai impedirebbe, per esempio, all’attuale direttorio franco-tedesco, ricorrendo ai più diversi mezzi di pressione, di convincere del proprio punto di vista un numero di Paesi sufficiente a raggiungere la quota di popolazione prescritta? Non è forse lo stesso direttorio in grado già oggi di costruire l’unanimità intorno ai propri voleri?

C’è poco da fare. Fino a che la parola non passerà ai cittadini-elettori (chissà quando), la volontà dell’Europa sarà sempre la volontà — sia pure la migliore immaginabile: ma il punto non è questo— solo di alcuni Stati, cioè di alcuni governi, cioè in definitiva di alcuni interessi politico-nazionali. Tra questi oggi non c’è di certo l’Italia. Ma siccome il problema non è solo nostro, forse proprio l’Italia potrebbe almeno farsi iniziatrice di un grande dibattito pubblico nella cerchia dell’opinione più qualificata del continente, allo scopo di porre all’attenzione di tutti una questione che alla fine riguarda il futuro di tutti. Senza alcuna iattanza, naturalmente. Ma anche, piacerebbe sperare, senza nessuna timidezza.

Ernesto Galli Della Loggia

01 novembre 2011 09:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_01/della-loggia-i-vasi-di-coccio-unione_6beaeade-0458-11e1-89f9-a7d4dc298cd1.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'immagine che non c'è
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2011, 03:12:42 pm
LE DIFFICOLTÀ DEL NUOVO ESECUTIVO

L'immagine che non c'è

I governi tecnici non esistono. E dunque anche il governo Monti è, come tutti i governi, un governo politico. Ma a giudicare da questi primi giorni sembra che il primo a doversene convincere sia, paradossalmente, il governo stesso. Il quale, se crede nel senso della propria esistenza, deve al più presto, invece, porsi un obiettivo: acquisire - visto che un'identità politica di partenza gli manca - un'immagine politica. Per due ragioni importanti. Innanzi tutto perché solo così esso cesserà di apparire una diretta emanazione della volontà del presidente della Repubblica, si emanciperà dalla sua tutela. E poi perché solo acquisendo una propria immagine politica esso può sperare di resistere al più che probabile assedio dei partiti. I quali per il momento lo appoggiano, è vero, ma intenzionati presumibilmente a consentirgli di sparare al massimo un colpo o due, per poi disfarsene o comunque neutralizzarlo. Ciò che però non sarebbe certo un vantaggio per il Paese. È vero infatti che in una democrazia parlamentare un governo nato al di fuori del circuito politico-partitico costituisce un'evidente anomalia. Ma visto che ormai c'è, conviene lasciargli il tempo e la possibilità di fare ciò che esso è chiamato, e riesce, a fare.

Per il governo Monti acquisire un'immagine politica significa riuscire innanzi tutto a stabilire una comunicazione efficace con gli italiani. Al consenso in certo modo solo formale strappato ai partiti esso deve aggiungere un consenso d'opinione: che allo stato potenziale esiste di certo in notevole misura, ma che ha bisogno di essere motivato e strutturato adeguatamente. La crisi economica è stata decisiva per accreditare la necessità di un cambio alla guida del Paese. Ma ora che questo è avvenuto, il governo deve mostrarsi capace di parlare all'opinione pubblica, di convincerla della necessità dei sacrifici che l'aspettano. E deve farlo nel modo in cui la politica richiede che tali cose vadano fatte. Cioè in modo non notarile, in modo non «tecnico». Sia pure alla loro maniera, con il loro stile, il governo, il presidente del Consiglio, i ministri devono incominciare a parlare al Paese la lingua, tutta politica, dei sacrifici, sì, ma anche degli alti propositi, della speranza, delle emozioni: a un Paese che oggi sembra più che disposto a prestare ascolto a un discorso pubblico fondato sui valori della coesione e dell'equità sociali, della sobrietà dei comportamenti, della buona amministrazione, cioè sui contenuti che Monti si è proposto di dare alla sua azione di governo.

C'è poi un ambito specifico che sembra fatto apposta per la costruzione di un'immagine politica del governo. È quello della politica europea. L'Ue quale l'abbiamo conosciuta negli ultimi quindici anni è ormai virtualmente morta. L'unica cosa rimasta sulle sue rovine è il tentativo di direttorio franco-tedesco. Ciò che però non solo è del tutto contrario al nostro interesse nazionale, ma è quasi certamente destinato a suscitare l'opposizione anche di un certo numero di altri Paesi. Ebbene, perché l'Italia non potrebbe cercare di essere un punto di coagulo di tale opposizione, facendosi iniziatrice di una revisione profonda della costruzione europea? Perché non potrebbe assumersi il compito di avanzare una serie di proposte volte a sostituire ai mandarini di Bruxelles e alla Duma di Strasburgo un'Europa finalmente politica, dotata di effettivi poteri, sanzionati democraticamente dai popoli del continente?
Oggi più che mai, insomma, l'Italia e con lei l'Occidente hanno bisogno di idee, di valori, di progetti: hanno bisogno di politica.

Ernesto Galli della Loggia

25 novembre 2011 | 12:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_25/governo-monti-tecnico_0960dec6-172e-11e1-8448-ba9de42f6fce.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una discussione a Carta aperta
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2011, 11:36:03 am
POTERI ISTITUZIONALI E COSTITUZIONE

Una discussione a Carta aperta


Qual è il grado di salute della seconda parte della nostra Costituzione, riguardante l'organizzazione dei poteri pubblici? Sono ancora le sue regole capaci di soddisfare esigenze minime di buon governo assicurando efficacia e trasparenza? E in quale misura tali regole sono realmente applicate? Quanto accade da anni sotto i nostri occhi impone di porci queste domande. Un Paese serio discute dei propri problemi senza falsi pudori o ritegni di sorta. E naturalmente - anche se è noto quanto in Italia sia difficile affrontare certi argomenti senza venire immediatamente sospettati di chissà quali secondi fini - dei problemi seri come questi discute seriamente, sottraendoli all'eventuale strumentalizzazione politica.

È più che evidente che in generale tutta l'impalcatura dei poteri disegnata dalla Carta del 1948, tutto l'insieme del regime parlamentare puro lì immaginato (che, lo ricordo, non ha corrispettivo in nessun altro grande Paese dell'Europa occidentale), appare bisognoso di una decisa revisione. Non fosse altro perché, in specie a causa della presenza dei partiti, il ruolo delle Camere e dei parlamentari come centro e motore unico della formazione dei governi e della decisione politica ha subito nei fatti un radicale ridimensionamento.

Ma è in particolare sul ruolo e sui poteri del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio che mi sembra divenuto ormai improcrastinabile avviare una riflessione: non essendoci bisogno di sottolineare come è specialmente su queste due figure che si è andato sempre più focalizzando il cuore istituzionale del processo politico. Ed essendo altresì indiscutibile - al di là di ogni personale simpatia e del vario giudizio che si può dare su coloro che negli anni hanno ricoperto questi ruoli - che è a proposito di ciò che riguarda le prerogative e il modo del loro esercizio da parte delle figure di cui sopra, che si è verificato lo scostamento forse più significativo rispetto al quadro delineato dalla Costituzione. O forse, ancora di più, rispetto alle intenzioni dei suoi autori.

In linea generale, infatti, si può dire che mentre è andato crescendo di molto, e in una direzione schiettamente politica, il ruolo del presidente della Repubblica, viceversa si sono palesati in misura altrettanto forte i gravi limiti oggettivi (a cominciare per esempio dal suo potere nei confronti dei singoli ministri) che incontra l'azione del presidente del Consiglio, pur se è ad esso che nel nostro ordinamento spetta di «dirigere la politica generale del governo e ne è responsabile». Specie nel caso del presidente della Repubblica, poi, i fatti hanno dimostrato, a me sembra in modo chiarissimo, quanto il numero e la sostanziale indeterminatezza di molti dei suoi poteri possano dar luogo a una troppo larga varietà di interpretazioni circa il suo ruolo. Da un'interpretazione minimalista e per così dire notarile, a una invece assai penetrante e per così dire interventista, dotata di una fortissima capacità d'impatto e di condizionamento sull'orientamento politico del Paese. Con l'ovvia conseguenza di uno stato di tensione tra le due cariche, reso più acuto dalla diversa origine prima della loro legittimazione.

Certo, si può ben a ragione osservare che inevitabilmente la concreta esistenza delle costituzioni produce degli scostamenti di fatto dalle loro norme scritte; e che in certa misura è anche opportuno che ciò avvenga, non essendo possibile racchiudere la vita reale delle persone e delle istituzioni nella cadaverica rigidità di un testo. Ci sono però scostamenti e scostamenti dalla lettera della norma: si tratta di misurarne quantità e qualità. Se gli scostamenti sono numerosi, ripetuti e significativi - come io credo che siano nel caso nostro - allora bisogna scegliere. O fare come se nulla fosse, chiudere gli occhi e lasciare che la prassi si svincoli a suo piacere dalle regole (con tutti i pericoli che ciò comporta: a cominciare dal fatto che in questo modo «non si sa dove si può andare a finire»), o invece riflettere sui mutamenti intervenuti e decidere di cambiare le regole.

L'opinione pubblica italiana - pur di fronte a un problema di tale importanza per la nostra vita pubblica - non sembra aver scelto, viceversa, né una strada né l'altra. Bensì quella per lei tristemente abituale del dividersi secondo le linee dell'appartenenza politica e basta. Da un lato, cioè, quelli che non vogliono vedere il problema e dietro ogni accenno ad esso, dietro ogni invito a meditare sulle eventuali inadeguatezze della nostra Costituzione, immaginano chissà quali imminenti attentati ad essa; e dall'altro lato quelli che invece vedono già all'opera da tempo violazioni della Costituzione scientemente perseguite a loro danno da chi pure ne dovrebbe essere il custode. Fuor di metafora: da un lato i simpatizzanti del centro-sinistra, dall'altro quelli della destra. Sperare che finalmente si ponga fine al clima da stadio, e ci si metta a ragionare dando inizio a una discussione vera, degna di questo nome, è allo stato attuale una di quelle speranze che è obbligatorio avere. Anche se in questo Paese sono proprio queste speranze che a forza di essere deluse conducono spesso alla disperazione.

Ernesto Galli della Loggia

30 novembre 2011 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_30/una-discussione-a-carta-aperta-ernesto-galli-della-loggia_6daf71cc-1b1a-11e1-915f-d227e00dc4bd.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Stato d'eccezione, ma non se ne parla
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2011, 06:14:45 pm
L'EMERGENZA E IL DIRITTO COSTITUZIONALE

Stato d'eccezione, ma non se ne parla

All'ordine del giorno nelle vicende della Repubblica è oggi uno dei temi chiave della grande riflessione politologica del Novecento: lo «stato d'eccezione». Cioè quella condizione di straordinarietà nella vita di una Costituzione in cui, per la necessità di fronteggiare una situazione di emergenza, le sue regole sono sospese, a cominciare da quelle riguardanti la formazione del governo e l'ambito dei suoi poteri. La sospensione può avvenire in via di fatto o di diritto, anche se per ovvie ragioni sono ben poche (almeno a mia conoscenza) le costituzioni democratiche che prevedono, al di fuori del caso di una guerra, le procedure per dichiarare lo stato d'eccezione e i modi di questo.

Che con il varo del governo Monti l'Italia si sia trovata virtualmente in una condizione del genere lo ha ricordato in un editoriale di Avvenire (4 dicembre scorso) Marco Olivetti parlando di «una vera e propria crisi di sistema» che ha colpito il Paese, e di «ruolo eccezionale» svolto dal presidente della Repubblica. Aggiungendo subito dopo: «Quando la macchina dell'ordinario funzionamento delle istituzioni si inceppa, il presidente (come il re negli ordinamenti monarchici da cui la nostra presidenza deriva) è una sorta di "motore di riserva" che entra in funzione, fino al punto di diventare una sorta di reggitore sussidiario del sistema (corsivo mio, ndr ), al fine di consentire che esso riprenda a funzionare. Dalla fine di ottobre ad oggi Napolitano ha svolto eccellentemente questo ruolo». È senz'altro questo ciò che è accaduto, e l'Italia deve essere certamente grata al suo presidente per l'avveduta prontezza con cui egli è intervenuto come «motore di riserva».

Ciò nondimeno sono sicuro che con la sua cultura democratica Napolitano per primo si renda conto degli interrogativi non irrilevanti che l'azione a cui è stato costretto suscita. Che sono principalmente due. Primo: quali sono le condizioni - non previste in alcun luogo della Costituzione, è bene ricordarlo - che rendono necessario, per usare la metafora di Avvenire , un «motore di riserva»? E secondo: chi è che decide quando esse si verificano? Ad esempio, la decisione dei primi del 1994 del presidente Scalfaro di sciogliere le Camere contro la volontà della maggioranza dei parlamentari, o, per dirne un'altra, la lettera assolutamente irrituale con cui pochi mesi dopo lo stesso Scalfaro mise di fatto sotto tutela il neonato primo governo Berlusconi, con il farsi personalmente garante della sua conformità democratica, rientrano o no nella fattispecie del «motore di riserva»?

Che sull'insieme di tali questioni ci sia urgente, anzi urgentissimo, bisogno di una discussione approfondita lo testimoniano alcune interpretazioni della nostra Costituzione che sulla scia degli ultimi avvenimenti stanno vedendo la luce, e che a me sembrano del tutto prive di fondamento e nella sostanza assai pericolose. Ne cito una per tutte, considerata l'indubbia autorevolezza dell'autore e la sua influenza sull'opinione pubblica: quella avanzata da Eugenio Scalfari su La Repubblica (4 dicembre scorso).

Auspicando che il governo Monti - il quale a suo dire «realizza in pieno il ritorno alla Costituzione» - rappresenti l'annuncio di un'auspicabile «Terza Repubblica» (data tuttavia per «già cominciata» nell'ultima riga dell'articolo), e dopo aver sottolineato che non è affatto detto che quando esso «avrà compiuto la sua opera e realizzato i suoi obiettivi tutto debba tornare come prima», Scalfari scrive di augurarsi che d'ora in poi «i futuri governi siano sempre governi istituzionali che riflettano gli indirizzi della maggioranza parlamentare ma la cui composizione sia decisa dal capo dello Stato come la Costituzione prescrive con estrema chiarezza » (corsivo mio, ndr ). E ribadisce poco dopo che la scelta dei ministri «spetta al capo dello Stato» e non ai partiti, essendo questa secondo lui «una distinzione fondamentale che preserva l'essenza del governo-istituzione». Come possa un presidente della Repubblica con un tale ruolo, un presidente della Repubblica che decide la composizione dei governi, che ne sceglie i ministri, rappresentare «l'unità nazionale» è argomento su cui il nostro autore non si diffonde. Così come non si ferma a chiarire in quale modo il presidente del Consiglio possa «avere maggiori poteri rispetto ai suoi ministri» - come pure egli vorrebbe - una volta che tali suoi ministri, anziché scelti dal premier stesso, fossero stati designati, invece, niente di meno che dal capo dello Stato.

Come si vede, insomma, sta nascendo nel Paese, sull'onda degli ultimi rivolgimenti, una grande voglia di novità. Che investono anche, come io personalmente credo sia giusto e ormai improrogabile, anche parti decisive dell'assetto costituzionale dei poteri pubblici. Ma questa voglia di novità deve manifestarsi all'insegna della chiarezza, attraverso una grande discussione pubblica che veda in prima fila, innanzitutto, gli studiosi di diritto costituzionale (perlopiù finora, invece, singolarmente timidi e abbottonati, pur di fronte a cose di grande rilievo e nonostante il loro frequente atteggiarsi a «guardiani della Costituzione»). In un Paese democratico non può esserci posto per modifiche della Carta costituzionale attraverso vie surrettiziamente interpretative e forzando a piacere il testo della medesima.

Ernesto Galli della Loggia

12 dicembre 2011 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La debolezza dei partiti
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2012, 06:33:40 pm
CRISI E DEMOCRAZIA PARLAMENTARE

La debolezza dei partiti


Ha ragione il presidente Napolitano: in Italia non c'è alcuna «democrazia sospesa». Chi lo dice non sa ciò di cui parla.
Ma c'è, eccome!, una crisi gravissima della democrazia parlamentare: cioè di quella specifica forma di democrazia adottata sessanta anni fa dalla nostra Costituzione - sia pure con alcune modifiche non decisive (principale delle quali l'esistenza di una Corte costituzionale) - e che si sostanzia per l'appunto nell'assoluta centralità del Parlamento.

La realtà e il motivo primo di tale crisi sono presto detti. Stanno nel fatto che il Parlamento - il quale, è bene ricordarlo, resta pur sempre il solo organo del potere legittimato in via diretta dalla sovranità popolare - non solo non è più al centro del processo politico reale, ma non è più al centro di nulla: neppure del processo di formazione delle leggi, essendo perlopiù divenuto, ormai, solo una sede passiva di convalida e ratifica di decisioni prese comunque altrove.

Questo è quanto è più o meno accaduto, beninteso, in quasi tutte le democrazie. Ma con un'importante differenza. Mentre altrove, infatti, lo storico declino del Parlamento è andato sì di pari passo con un aumento del potere di fatto dei partiti, ma si è comunque accompagnato anche a un aumento delle prerogative del governo e/o del suo capo (dal dominio sull'agenda dei lavori parlamentari alla preminenza assoluta del premier nei confronti degli altri ministri, fino al potere di sciogliere le Camere o di essere sfiduciato ma solo previa indicazione da parte del Parlamento del suo successore) solo in Italia, invece, il suddetto declino parlamentare si è accompagnato a una crescita esclusivamente del ruolo e del potere dei partiti. Sarà pure da ricordare che proprio la crisi storica della centralità del Parlamento ha motivato altrove, in un gran numero di casi, l'adozione di sistemi di democrazia presidenziale o semipresidenziale. Solo in Italia, invece, come dicevo, siamo sempre rimasti formalmente in una condizione di classica democrazia parlamentare, ma con l'intero potere politico nelle mani dei partiti, di fatto padroni assoluti del Parlamento. E con esso del governo, alla completa mercé delle maggioranze partitiche.

È stata questa, per l'appunto, la stagione del lungo dopoguerra, della partitocrazia dominatrice della Prima Repubblica. Ma con la fine di quest'ultima, dopo il crollo del muro di Berlino e dopo le inchieste di Mani pulite, è accaduto che la forza e il prestigio dei partiti siano andati rapidamente declinando fino a diventare l'ombra di ciò che erano. È a questo punto - si tratta della fase nella quale siamo immersi da anni - che si è creato un vuoto gigantesco: con un Parlamento espropriato da sempre, con i partiti ridotti allo stato evanescente, con un presidente del Consiglio e un governo tradizionalmente privi di poteri propri significativi. Ed è a questo punto, e per queste ragioni, che ha cominciato a diventare sempre più centrale e incisivo il ruolo del presidente della Repubblica.

Fino a diventare assolutamente determinante nell'ultima crisi di governo allorché, mentre era ancora formalmente in carica il ministero Berlusconi che aveva preannunciato le proprie dimissioni, Napolitano, nominando senatore a vita il professor Monti - prima ancora che avesse inizio qualunque consultazione con i gruppi parlamentari, per il momento ancora detentori formali del potere di convalida - ha reso evidentissime le proprie intenzioni e la propria designazione. Ma mettendo così i partiti, ridotti ormai allo stato larvale, di fronte al fatto compiuto, nell'impossibilità politica di rifiutare il proprio sostegno a un governo destinato ad assommare in sé, in modo singolarissimo, la duplice natura di «governo dei tecnici» e insieme di «governo di unità nazionale» (cioè del governo più politico che ci sia, quello per esempio tipico dei periodi di guerra).

In una materia così delicata è bene essere chiari, anzi chiarissimi. Il presidente della Repubblica non ha certo commesso alcun atto contro la Costituzione, men che meno ha «sospeso la democrazia». Con ogni probabilità, la sua azione - dai tratti così oggettivamente «estremi» - è valsa a riacchiappare per i capelli una situazione del Paese che forse era a un passo dall'andare fuori controllo. E che proprio perciò ha reso inevitabile il ricorso a procedure così insolite. Ma ciò non muta la sostanza: e cioè che l'equazione reale dei poteri pubblici italiani, il quadro dei loro rapporti effettivi, sono ormai lontani dallo schema disegnato nella nostra Carta costituzionale. Solo un cieco potrebbe negarlo. Nell'ambito che stiamo qui discutendo, la Costituzione «materiale» ormai vigente, le sue regole che ormai cominciano ad avere valore di «precedente», hanno, per così dire, un rapporto sempre più problematico con la Costituzione scritta del lontano 1948. Secondo il mio umile parere sarebbe una degna conclusione del settennato del presidente Napolitano se, con un solenne messaggio alle Camere, proprio lui - che di quella Costituzione ha sondato come nessun altro tutta l'elasticità interpretativa, ma sempre servendone con lealtà lo spirito - proprio lui, dicevo, indicasse agli Italiani la necessità di apportarvi le necessarie e ormai improcrastinabili modifiche.

Ernesto Galli Della Loggia

28 dicembre 2011 | 7:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_28/debolezza-dei-partiti-della-loggia_6303313e-311b-11e1-b43c-7e9ccdb19a32.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Svolta necessaria nostalgie inutili
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2012, 05:47:12 pm
MODI DI GOVERNO E RUOLO DEI PARTITI

Svolta necessaria nostalgie inutili

È una sensazione diffusa che nella politica italiana dopo Monti — sempre che il suo governo concluda con successo il compito che si è assegnato — nulla sarà più come prima. Ma per quale ragione? E che cosa più precisamente potrebbe cambiare? E quale significato dunque potrebbe avere la novità da lui rappresentata nella vicenda italiana?

Il punto è che per rappresentare effettivamente tale novità, e insieme per avere successo, il premier deve adottare un modo nuovo di governare. È questa, mi pare, la condizione cruciale, di cui forse egli e i suoi ministri ancora faticano a rendersi conto. Un modo nuovo di governare significa evitare le snervanti trattative, le infinite mediazioni, le mezze misure. Significa mostrare capacità di decisione, prontezza, non lasciare marcire i problemi, scegliere donne e uomini nuovi (non gli eterni pur ottimi consiglieri di Stato, non gli eterni pur ottimi alti burocrati, «gabinettisti» in servizio permanente effettivo). Significa insomma prender sul serio «l’emergenza » — cioè la vera ragion d’essere e la vera legittimazione di questo governo — per farne uno strumento di rinnovamento dell’azione e quindi dell’immagine dell’esecutivo.

Se Monti riuscisse in tutto ciò, egli segnerebbe un punto di non ritorno. La maggioranza dell’opinione pubblica italiana, infatti, non sarebbe più disposta a ripiombare nel passato, a essere governata come è stata governata fino al novembre dell’anno scorso. Non sarebbe più disposta, in particolare, a sopportare governi di coalizione: governi fisiologicamente divisi sulle cose da fare, lottizzati in feudi partitici, intimiditi dai sindacati e dalle lobby di ogni genere, vittime sempre di veti incrociati. Come per l’appunto sono stati più o meno tutti i governi della seconda Repubblica (ma anche la prima non scherzava). Non sarebbe più disposta, infine, a essere governata da un personale politico da decenni inamovibile, logorato, popolato di mezze calzette.

I partiti italiani si trovano di fatto presi in una tenaglia: non possono decentemente augurarsi che il governo Monti fallisca, ma d’altro canto il suo successo segna l’inevitabile tramonto della loro forma attuale. È dunque incominciata per essi una corsa contro il tempo. Sono chiamati a cambiare il proprio modo d’essere, i criteri di scelta dei propri esponenti e dei propri rappresentanti nelle assemblee politiche. Ma soprattutto sono chiamati a cambiare il modo di governo del Paese: più precisamente le regole che presiedono alla sua formazione e al suo funzionamento. In altre parole, la legge elettorale da un lato e dall’altro le prerogative dell’esecutivo e del suo capo, cioè gli articoli della Costituzione che regolano tale materia.

Con Mario Monti gli italiani hanno già in qualche modo iniziato a prendere confidenza con una leadership di tipo nuovo, democratica ma forte, che mira diritto allo scopo. Un’analoga indicazione, verso lo stesso tipo di leadership, viene da tempo dall’azione innovativa e dalla figura popolarissima del presidente Napolitano. Si tratta ora di dare a tale nuovo modo di governo forma stabile e regole conformi. Da qui alla primavera dell’anno prossimo questo deve essere il compito dei partiti. Tutto il resto equivale solo a una perdita di tempo e ad aria fritta e il Paese, c’è da giurarci, questa volta non sarebbe un giudice clemente.

Ernesto Galli Della Loggia

9 gennaio 2012 | 15:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_09/galli-della-loggia-svolta-necessaria_8066358a-3a87-11e1-8a43-34573d1838c1.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una invisibile supercasta
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2012, 10:55:57 pm
L’OLIGARCHIA DEGLI ALTI BUROCRATI

Una invisibile supercasta

Non è vero che il contrario della democrazia sia necessariamente la dittatura. C’è almeno un altro regime: l’oligarchia. E tra i due regimi possono esserci poi varie forme intermedie. Una di queste è quella esistente da qualche tempo in Italia. Dove ci sono da un lato un Parlamento e un governo democratici, i quali formalmente legiferano e dirigono, ma dall’altro un ceto di oligarchi i quali, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere: essendo tentati spesso e volentieri di abusarne a fini personali. I frequenti casi scoperti negli ultimi anni e nelle ultime settimane hanno aperto squarci inquietanti su tale realtà.

Non si tratta solo dell’alta burocrazia dei ministeri, cioè dei direttori generali. A questi si è andata aggiungendo negli anni una pletora formata da consiglieri di Stato, alti funzionari della presidenza del Consiglio, giudici delle varie magistrature (comprese quelle contabili), dirigenti e membri delle sempre più numerose Authority, e altri consimili, i quali, insieme ai suddetti direttori generali e annidati perlopiù nei gabinetti dei ministri, costituiscono ormai una sorta di vero e proprio governo ombra. Sempre pronti peraltro, come dimostra proprio il caso del governo attuale, a cercare di fare il salto in quello vero.

È un’oligarchia che non è passata attraverso nessuna selezione specifica né alcuna speciale scuola di formazione (giacché noi non abbiamo un’istituzione analoga all’Ena francese). Designati dalla politica con un g r a d o a l t i s s i m o d i arbitrarietà, devono in misura decisiva il proprio incarico a qualche forma di contiguità con il loro designatore, alla disponibilità dimostrata verso le sue esigenze, e infine, o soprattutto, alla condiscendenza, all’intrinsichezza — chiamatela come volete — verso gli ambienti e/o gli interessi implicati nel settore che sono chiamati a gestire. Ma una volta in carriera, l’oligarchia — come si è visto dalle biografie rese note dai giornali — si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire rapidamente un potere personale. Grazie al quale ottiene prima di tutto la propria sostanziale inamovibilità.

Sempre gli stessi nomi passano vorticosamente da un posto all’altro, da un gabinetto a un ente, da un tribunale a un ministero, da un incarico extragiudiziale a quello successivo, costruendo così reti di relazioni che possono diventare autentiche reti di complicità, sommando spessissimo incarichi che incarnano casi clamorosi di conflitto d’interessi. E che attraverso doppi e tripli stipendi e prebende varie servono a realizzare redditi più che cospicui, a fruire di benefit e di occasioni, ad avere case, privilegi, vacanze, stili di vita da piccoli nababbi.

Se i politici sono la casta, insomma, l’oligarchia burocratico- funzionariale italiana è molto spesso la super casta. La quale prospera obbedendo scrupolosamente alla prima (tranne il caso eccezionale della Banca d’Italia non si ricorda un alto funzionario che si sia mai opposto ai voleri di un ministro), ma facendo soprattutto gli affari propri. Il governo Monti ha un’agenda fittissima, si sa. Ma se tra le tante cose da fare riuscisse anche a scrivere un rigoroso codice etico per la super casta, sono sicuro che qualche decina di milioni di italiani gliene sarebbe grata.

Ernesto Galli Della Loggia

20 gennaio 2012 | 12:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_20/supercasta-galli-della-loggia_022dd928-4330-11e1-8047-0b06b4bf3f34.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La rimozione dell'Italia
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2012, 11:38:12 pm
IL FUTURO DEI PARTITI / 1

La rimozione dell'Italia

I partiti italiani ce la faranno a uscire dalla condizione di irrilevanza - vorrei dire d'inutilità - in cui li sta precipitando la presenza del governo Monti?



I partiti italiani ce la faranno a uscire dalla condizione di irrilevanza - vorrei dire d'inutilità - in cui li sta precipitando la presenza del governo Monti? Questa è la domanda cruciale da qui alla prossima scadenza elettorale, qualunque essa sia.
Rispondere è impossibile essendo troppe le variabili in gioco. Ma di una cosa però mi sentirei sicuro. Che essi non potranno mai riacquistare un senso e un ruolo se nella loro identità politica non tornerà ad avere posto un elemento da troppo tempo assente: e cioè il discorso sull'Italia. Intendo dire la consapevolezza di che cosa è stato ed è il nostro Paese e di quali sono i suoi grandi e sempre attuali problemi: l'antica tensione tra pluralità dei luoghi e dissolvimento localistico, l'abisso multiforme tra Nord e Sud, la perenne e generale scarsa educazione alla legalità e alle virtù civiche, la forza degli interessi, delle corporazioni e delle camarille, sempre pronti a diventare dietro le quinte gli attori concreti di ogni realtà sociale e pubblica. Infine l'egoismo di chi ha e la triste condizione dei troppi che non hanno.

Questa è l'Italia vera con la quale i partiti e le loro culture e i loro programmi dovrebbero sentirsi chiamati a fare i conti. E con la quale per la verità ci fu un tempo in cui cercarono di farli. Accadde all'incirca fin verso gli anni 70-80 del secolo scorso quando ancora tenevano il campo le culture politiche del nostro Novecento: tutte nate, per l'appunto, da un'analisi approfondita della vicenda del Paese, da una radiografia dei suoi problemi, dei suoi vizi e delle sue virtù. Da qui non solo programmi, ma soprattutto un'idea dell'interesse generale della collettività nazionale e di conseguenza una loro ispirazione autentica, e quindi la voglia e la capacità di darle voce venendo presi sul serio.

Ma con la fine della cosiddetta Prima Repubblica le culture politiche del nostro Novecento si sono disintegrate. Qualunque discorso sull'Italia è scomparso dalla vita pubblica italiana. Si è diffusa una sorta di stanchezza per il pensare in generale e magari in grande. Abbiamo provato come una noia, quasi un disgusto, per noi stessi e per una nostra storia che sembrava averci portato solo a Tangentopoli e al grigiore un po' torbido e inconcludente della stagione successiva. È accaduto così che ci siamo buttati a corpo morto sull'Europa. Per quindici anni e più il solo avvenire che è apparso lecito augurare al nostro Paese è stato quello di «entrare» in Europa, o, per restarci, di «avere i conti in ordine», di adottare le sue direttive, di «fare i compiti» a vario titolo assegnatici. Giustissimo, per carità, ma troppo ci è sembrato che a tutto dovesse (e potesse!) pensare l'«Europa»; che nel frattempo, peraltro, stava diventando sempre più evanescente. Troppo ci è sembrato che per essere europei fosse necessario buttarsi dietro le spalle l'Italia e il fardello della sua storia.

Superficialmente persuasi che ormai essa avesse fatto il suo tempo abbiamo guardato con sufficienza alla dimensione statal-nazionale. Non si decideva, tanto, tutto «in Europa»?

L'europeismo è diventato l'ideologia radio-televisiva del potere italiano, il pennacchio di ogni chiacchiera pubblica, il prezzemolo di tutte le minestrine dei Convegni Ambrosetti. Oggi ci accorgiamo che le cose stavano - e soprattutto stanno - un po' diversamente. La crisi paurosa del debito pubblico, e insieme la manifestazione di tutte le nostre innumerevoli inadeguatezza che essa ha causato, ci hanno ricordato, infatti, che esiste una cosa chiamata Italia, e che, ci piaccia o meno, tanta parte della nostra vita individuale e collettiva dipende da essa (e forse è servito a questo ricordo anche il concomitante anniversario della nascita del nostro Stato).

Ora è giunto il momento che se ne accorgano e se ne ricordino pure i partiti. L'origine della loro afasia degli ultimi anni, della loro perdita di senso e dunque di ascolto presso l'opinione pubblica, nasce per tanta parte dall'aver escluso dal loro orizzonte l'Italia e la sua vicenda, la sua realtà più intima. Nasce dall'aver cancellato ogni riflessione, ogni proposta di vasto respiro, ma credibile, capace di tener conto di quella vicenda parlando al cuore, alla mente, ma soprattutto alle speranze degli italiani. Siamo pieni di discorsi su ciò che è fuori dei nostri confini, su dove va il mondo, ma non abbiamo un'idea di dove vada o voglia andare l'Italia. Di che cosa essa debba volere. Nessuno ci dice, non sappiamo, a che cosa essa possa ancora servire. Sono i partiti che devono ricominciare a dircelo. Non ricordo più dove Antonio Gramsci ha scritto che si può essere realmente cosmopoliti solo a patto di avere una patria. Bene: è tempo che la politica, facendo sentire di nuovo la propria voce, torni a parlarci della nostra.

Ernesto Galli della Loggia

31 gennaio 2012 | 9:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_31/la-rimozione-dell-italia-eresto-galli-della-loggia_3fc5e248-4bd3-11e1-8f5b-8c8dfe2e8330.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Un club esclusivo di una certa età
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2012, 05:40:01 pm
LA CLASSE DIRIGENTE ITALIANA

Un club esclusivo di una certa età

Ciò che più colpisce nell'elenco dei grandi manager pubblici percettori di alti redditi, reso noto nei giorni scorsi, è sì l'ammontare di denaro che ognuno di essi intasca ma insieme, e forse soprattutto, è il loro sesso e la loro età. Non ce n'è uno che abbia meno di cinquant'anni (a dir poco: la media è senz'altro assai più alta) e, tranne un paio di eccezioni che confermano la regola, sono tutti invariabilmente maschi. È una situazione che non riguarda solo il settore pubblico. In generale, infatti, è tutta la classe dirigente italiana che corrisponde a questa caratteristica: un gruppo di maschi maturi, o più che maturi, con retribuzioni enormemente superiori alla media, ognuno titolare di una quantità straordinaria di incarichi. Non si tratta dunque solo dei politici che anzi, secondo me, possono essere annoverati da molti punti di vista tra i meno privilegiati. In misura assai più pronunciata presentano i caratteri di un'oligarchia di anziani colmi di benefici vari (non sempre monetari) pure i vertici delle aziende e delle amministrazioni pubbliche, dell'università, della magistratura e al tempo stesso anche quelli del settore privato: dalla finanza (dove qualche tempo fa, non a caso, un novantenne si sentì vittima di una colossale ingiustizia perché invitato a lasciare il suo posto) all'industria, fino al giornalismo, dove spesso i direttori, i commentatori e i titolari di rubriche costituiscono un vero e proprio club esclusivo dei soliti noti.

Intendiamoci: parole d'ordine come «largo ai giovani» o «rottamiamo i vecchi» di per sé non hanno mai portato da nessuna parte, ma ciò non toglie che una società com'è per l'appunto quella italiana attuale, ai cui posti di comando non c'è neppure un quarantenne, sia inevitabilmente una società poco dinamica, incapace di rischiare, di misurarsi con il futuro. Cioè una società destinata alla decadenza oltre a essere una società profondamente ingiusta. Infatti - poiché è difficile pensare che l'eccellenza, guarda caso, corrisponda sempre e comunque all'età - nulla come un così diffuso dominio dei vecchi indica fino a che punto in Italia il merito non sia tenuto quasi in alcun conto come criterio decisivo per l'assegnazione di un qualunque incarico. Dappertutto sempre uomini di una certa età, accumulatori spesso a dismisura di cariche e incarichi sottratti ai più giovani: anche in questo modo il nostro Paese si è venuto privando di quella grande risorsa che in mille occasioni passate ha rappresentato il suo capitale umano.

Quanto detto riguarda anche i partiti. Stretti nella tenaglia del discredito pubblico che li colpisce dal basso e del commissariamento del governo Monti che li insidia dall'alto, non riusciranno a sopravvivere se non cambieranno profondamente. Innanzi tutto evitando di presentarsi con le stesse voci e gli stessi volti di sempre. In nessun Paese sono oggi al potere persone che già negli anni 70-80 occupavano posti di rilievo sulla scena pubblica. E di conseguenza in nessun Paese capita di sentire oggi sulla bocca dei politici affermazioni, proposte, enunciazioni programmatiche, che sono l'esatto contrario, o comunque diversissime, da quelle che i medesimi, con la medesima sicurezza, dicevano ieri. Uno ieri che in più di un caso era soltanto pochi mesi fa.

Ernesto Galli Della Loggia

27 febbraio 2012 | 13:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_27/club-esclusivo-di-una-certa-eta-della-loggia_13c57f70-610c-11e1-8325-a685c67602ce.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il contenitore indispensabile
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2012, 05:19:41 pm
LA DEMOCRAZIA E GLI STATI NAZIONALI

Il contenitore indispensabile


La crisi economica sta mandando all'aria molti luoghi comuni di cui negli ultimi due o tre decenni si è nutrito il discorso pubblico di tutto l'Occidente, e in particolare dell'Italia. Forse il più significativo è quello che decretava la presunta fine dello Stato nazionale. Fine non solo presunta ma auspicata, in quanto ritenuta un progresso certo verso un futuro migliore. Da ciò, per esempio, gli inni sempre e comunque all'«Europa», a ciò che in qualunque modo avesse a che fare con la sua «costruzione», l'approvazione a tutto quanto sapesse di limitazione della sovranità statal-nazionale.

Limitazione, peraltro, sempre presentata lessicalmente come un «superamento» (e quindi come qualcosa di positivo).
Ci si è aggiunto, per buona misura, l'orientamento culturale diffuso, volto a dipingere ogni identità collettiva (purché beninteso non fosse quella «politicamente corretta» rivendicata da neri, donne o omosessuali) come l'anticamera del pregiudizio, del razzismo, della guerra: insomma, della violenza. Anche per questa via, quindi, nuovo pollice verso a quei potenti blocchi d'identità storico-culturale rappresentati dagli Stati nazionali.

La realtà sta però dimostrando che - pure ammesso (e niente affatto concesso) che lo Stato nazionale costituisca qualcosa di ormai intrinsecamente negativo, e pure ammesso (e di nuovo non concesso) che perciò è una fortuna se la globalizzazione e l'«Europa» si apprestano a liberarcene - pure ammesso tutto, dicevo, rimane però un problema non da poco con cui fare i conti. E cioè che lo Stato nazionale è pur sempre l'unico contenitore possibile entro il quale possa esercitarsi l'autogoverno di una collettività. In una parola, la democrazia. È accaduto così storicamente. E oggi pure è così: democrazia e Stato nazionale stanno insieme; se viene meno l'uno, appare destinata a venire meno anche l'altra.

Lo insegna quanto accade oggi. Appena una qualunque decisione, specie economica, esce dal singolo ambito statale ed è avocata dalla sede sovranazionale europea, essa esce dal circuito della discussione e del confronto interno alla collettività degli elettori di quello Stato. I suoi contenuti non sono più definiti dall'opinione della maggioranza esistente in quel Paese o dall'orientamento del suo governo (tutte cose che sopravvivono ma non hanno valore dirimente). E prendono invece la forma ultimativa, calata dall'esterno, del «prendere o lasciare».

Né è facile sostenere che tale cessione di sovranità è tuttavia accettabile perché - come prescritto anche dalla nostra Costituzione - essa avverrebbe su un piede di parità. Almeno per quanto riguarda l'Unione Europea tale parità appare ormai del tutto fittizia. Solo formalmente, infatti, la cessione di cui sopra avviene a favore di un'entità sovranazionale nella quale tutti i membri hanno eguale voce in capitolo. In realtà, essa avviene a favore di un organismo dove d'abitudine prevale costantemente la volontà di uno o più Stati nazionali (per esempio la Germania, o la Germania e la Francia). Cioè, guarda caso, del loro particolare interesse come Stati nazionali. E tale volontà prevale, com'è regola antichissima, perché è la volontà del più forte. La quale volontà si può sempre sperare, naturalmente, che finisca per accettare qualche sacrificio: ma se lo fa, lo farà certamente solo con la speranza di un vantaggio futuro in termini di potere.

Ernesto Galli Della Loggia

7 marzo 2012 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_07/della-loggia-contenitore-indispensabile_de6ee90c-681c-11e1-864f-609f02e90fa8.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Ma la nazione siamo tutti noi
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2012, 04:27:06 pm
DEMOCRAZIA E SOVRANITÀ STATALE

Ma la nazione siamo tutti noi

Non è solo l'economia. Come ho detto in un precedente articolo ( Corriere del 7 marzo), il fattore che in specie nei Paesi del nostro continente sta mettendo nell'angolo la politica, rendendola in molti casi irrilevante, ancor più dell'economia è la perdita (consapevolmente quanto incautamente accettata) di sovranità da parte dello Stato nazionale. Perdita particolarmente sensibile in questa parte del mondo, dove essa avviene, come si sa, sotto la regia incalzante, e a favore, dell'Unione Europea.

Ma c'è di più: perché, alla lunga, l'assottigliamento della sovranità nazionale rischia di privare della sua ragion d'essere la stessa democrazia, la stessa sovranità popolare: dal momento che questa non è pensabile che nel quadro dello Stato sovrano. Perché esista la sovranità della nazione, infatti, e dunque l'idea dell'autogoverno, e quindi il meccanismo della rappresentanza, è necessario che esista preliminarmente uno Stato dotato degli attributi della piena autonomia e del comando. Alla fin fine - come ha spiegato bene uno studioso francese, Pierre Manent - il volere delle maggioranze non potrebbe nulla senza il potere dello Stato sovrano. Sia logicamente che storicamente la sovranità popolare presuppone quella statale, e si costituisce facendosene l'erede. Non basta: per capire quale intreccio vi sia tra democrazia e statualità si pensi solo al fatto che è proprio in relazione alla forza minacciosa dello Stato sovrano che si è affermata la necessità «difensiva» costituita vuoi dalla divisione dei poteri dello stesso Stato, vuoi dalla garanzia dei diritti individuali di libertà.

È sempre l'idea di nazione, infine, è sempre l'esercizio della sovranità popolare direttamente derivata da quella dello Stato, che ha rappresentato il presupposto storico che prima o poi è valso a porre all'ordine del giorno in tutti gli Stati nazionali il grande tema dell'eguaglianza delle condizioni tra tutti i cittadini. Come traguardo magari irraggiungibile, ma non per questo meno necessario, di ogni democrazia. Da sempre la domanda posta dalla «nazione sovrana» è: si può far parte su un piede di parità di un medesimo corpo politico senza godere al tempo stesso di condizioni eguali? E può la sovranità della nazione sottrarsi al dovere di creare tali condizioni?

Democrazia e Stato nazionale sono cose per più aspetti sovrapposte. La spinta all'autogoverno non può nascere tra individui sparpagliati, che semplicemente «si conoscono». Può sorgere solo all'interno di una comunità data, di un demos per l'appunto, che si riconosca preliminarmente come tale. Cioè come un insieme di persone le quali - consapevoli di condividere un territorio, una storia, dei costumi, dei valori, e del legame che tale condivisione crea - decidono di volersi rendere padroni del proprio destino. Essendo poi in grado di mettere concretamente in pratica un tale autogoverno disponendo dello strumento indispensabile, cioè di un medium comunicativo adeguato, rappresentato da un comune linguaggio. Nazione significa precisamente tutte queste premesse dell'autogoverno democratico: un «noi» che ci fa cosa diversa dagli «altri». Allora qualcosa che esclude? Sì, in un certo senso. Ma né più né meno come esclude ogni legame sociale tra gli esseri umani: una coppia, una famiglia, un vicinato. Vogliamo forse mettere al bando anche queste cose perché non in regola con il «politicamente corretto»?

Ernesto Galli Della Loggia

12 marzo 2012 | 8:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_12/ma-la-nazione-siamo-tutti-noi-ernesto-galli-della-loggia_f4ad7fb4-6c0c-11e1-bd93-2c78bee53b56.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - ELITE, SOLDI E SENSO DELLA MISURA
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2012, 04:33:21 pm
ELITE, SOLDI E SENSO DELLA MISURA

Le ostriche del potere

C'è qualcosa di eccessivo, di sottilmente smodato, nel rapporto tra la classe dirigente italiana e la dimensione del denaro e del lusso che il denaro consente. È una sorta di incontinenza e di esibizionismo senza freno; di compulsività acquisitiva. Sembra che in questo Paese per banchieri e imprenditori, per alti burocrati, professionisti di grido e parlamentari, per chi insomma conta qualcosa, ogni retribuzione non sia mai abbastanza elevata, ogni privilegio e ogni prelibatezza non siano mai troppo esclusivi, ogni manifestazione di ricchezza mai troppo smaccata.

La classe politica fornisce gli esempi se non più clamorosi senz'altro più noti. Intercettazioni, cronache giornalistiche, atti giudiziari restituiscono l'immagine di un gruppo di persone spesso proprietarie di ville su remote spiagge oceaniche o di case con viste strepitose sui più bei centri storici della penisola, intente appena possono a trascorrere vacanze in costosissimi resort esotici, a consumare pranzi e cene in locali da nababbi. Al senatore Lusi capitava di ordinare al ristorante piatti di spaghetti con non so che cosa, del costo di appena 180 euro. Viene da chiedersi: «Era sempre solo? E ai suoi ospiti sembrava ovvio andare in un posto del genere?». Evidentemente sì. Certamente appariva ovvio al sindaco di Bari Emiliano (e nel capoluogo pugliese non solo a lui, a quel che sembra) ricevere come regalo un intero acquario commestibile. Ogni anno, con le scuse più inverosimili, decine di delegazioni di consiglieri comunali e regionali (quelli della Sicilia in testa, di regola) si regalano a spese dei contribuenti viaggi in prima classe nelle mete più lontane e negli alberghi più costosi.

Ma non sono certo solo i politici. Don Verzé e i suoi collaboratori trascorrevano piacevoli (e frequenti) periodi di relax in alberghi e località di gran classe messi naturalmente a carico dei bilanci di enti nati per tutt'altri scopi ma che si ritrovavano non si sa perché ad averne la proprietà. Di espedienti più o meno analoghi si servono migliaia di italiani ricchi per i quali lo yacht o l'aereo privato sembrano ormai diventati necessari come l'aria. Per qualunque medio industriale scendere in un hotel come minimo (come minimo) a 5 stelle è ormai un'abitudine irrinunciabile. Così come in hotel come minimo a 5 stelle, o in favolose ville su qualche lago, o a Capri, o a Santa Margherita, si svolgono i loro convegni. Mai, chessò, in una bella sala dell'«Umanitaria» o alle «Stelline», no. E se proprio deve essere un postaccio come Milano, almeno il «Four Seasons».

È tutta l'élite italiana che ha perduto il gusto aristocratico della sprezzatura che è il contrario dell'affettazione, il piacere e il senso dell'eleganza fondata sulla sobrietà. La famosa mela che il presidente Einaudi chiese durante una cena se qualcuno voleva dividere con lui, forse neppure compare più nei menu del Quirinale. Così come non ha trovato molti imitatori il supremo snobismo, vagamente venato di tirchieria, che portava il suo altrettanto famoso figlio editore a scovare sperdute osterie dal cibo squisito (a suo dire) ma economicissime.
La moda è lo specchio di questo tracollo. I giovani della haute lombarda di una volta, vestiti d'inverno con i loden e le alte scarpe di Vibram; i vecchi tweed inglesi, che un tempo indossavano con nonchalance i signori della buona borghesia napoletana, hanno fatto posto alla tetra eleganza acchittata degli attuali trenta-quarantenni in carriera, abbigliati rigorosamente in nero come bodyguard o necrofori.

Queste odierne esibizioni e possibilità, così vaste, di lusso ostentato, di superfluo, questa mancanza di misura, dicono molte cose dell'élite italiana. Ci dicono per esempio di un gran numero di redditi occulti, di guadagni privati protetti da leggi compiacenti, e naturalmente di evasione e più ancora di elusione fiscale su grande scala, che la caratterizzano. Ci dicono, ancora, di una sua complessiva, forte diversità rispetto agli altri grandi Paesi europei con cui amiamo confrontarci. Nei quali, tanto per dire, almeno un buon numero di parlamentari italiani sarebbe stata già da tempo, per una ragione o per l'altra, costretta a furor di popolo a dimettersi; dove difficilmente sarebbero tollerati i cumuli di incarichi e di prebende con cui in Italia alti magistrati e grand commis si permettono tenori di vita elevatissimi; dove i rapporti incestuosi tra molti di loro e il mondo degli affari privati (conditi spesso e volentieri di cene, viaggi e vacanze insieme) sarebbero oggetto di censure e di provvedimenti severi.

Ma il rapporto della classe dirigente italiana con il denaro e con il lusso forse parla di qualcosa di più profondo. La sfrontata pervicacia con cui troppe volte essa esibisce entrambi sembra rispondere più che altro, infatti, al bisogno di occultare un intimo senso d'insicurezza. Quasi che sentendosi inadeguata al proprio ruolo, ai contenuti reali e impegnativi di questo, l'élite italiana pensasse di mostrarsi superiore nel modo più facile che le è possibile: con i soldi. Ma così agi e guadagni, invece di rappresentare in qualche modo una conferma della sua superiorità, alla fine sono solo la riconferma della sua inadeguatezza. Della sua lontananza dal Paese reale, della sua inettitudine a capire il bisogno che oggi esso esprime di essenzialità e di misura.

Ernesto Galli della Loggia

19 marzo 2012 | 8:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_19/le-ostriche-del-potere-ernesto-galli-della-loggia_6093a4c4-718a-11e1-b597-5e4ce0cb380b.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Le verità nascoste
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2012, 05:20:06 pm
IL LAVORO FRA REALTÀ E IDEOLOGIA

Le verità nascoste

La disoccupazione italiana, specie quella giovanile (dai 15 ai 24 anni) e femminile - e nel Mezzogiorno in modo particolare - ha raggiunto le cifre drammatiche di cui tutti i giornali ieri parlavano: in pratica un giovane italiano su tre e circa la metà delle giovani donne meridionali sono senza lavoro.

Molto meno si parla, invece, di altri dati, altre cifre, altre questioni, che riguardano il mercato del lavoro e che forse non sono così irrilevanti. Mi riferisco alle cose scritte negli ultimi tre giorni sulle colonne del Corriere dal senatore Pietro Ichino. A cominciare dal fatto, per esempio, che dal Lazio in giù (Lazio compreso) nessuna delle Regioni italiane, nonostante queste abbiano la totale competenza legislativa in materia di servizi al mercato del lavoro, nessuna Regione dal Lazio in giù, dicevo, si è messa in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio o qualunque altro dato indispensabile per conoscere, e quindi cercare di indirizzare, il mercato del lavoro. (Lo sanno, mi chiedo, i giovani meridionali che è questo il modo in cui i vari Vendola, Caldoro, Scopelliti, Lombardo si preoccupano del loro futuro?). Egualmente significativo, mi sembra, il dato della scarsa utilizzazione in Italia delle agenzie private di outplacement : le quali, dietro compenso, sembra invece che conseguano ottimi risultati nella ricerca di lavoro per chi non lo ha o lo ha perduto; ma, di nuovo, senza che in generale le Regioni si degnino di prestare il minimo aiuto finanziario a chi intenda ricorrervi.

Ma mi sembra che la questione centrale che viene fuori dall'analisi di Ichino, il vero punctum dolens di carattere strutturale del mercato del lavoro italiano - dunque verosimilmente non riassorbibile con un eventuale miglioramento della congiuntura economica - sia la questione dell'assunzione a tempo determinato, che ormai riguarda oltre i quattro quinti dei nuovi contratti di lavoro. Questione centralissima, perché è essa soprattutto che getta un'ombra cupa di precarietà e d'insicurezza sulla vita di milioni di nostri concittadini, che impedisce loro qualunque progetto per l'avvenire. E che quindi impedisce al Paese intero di credere nel suo futuro. Questione - cui si deve tra l'altro se l'Italia è drammaticamente fuori dagli investimenti stranieri - la quale con ogni evidenza dipende in particolar modo da una causa. Da «una legislazione del lavoro ipertrofica e bizantina», come scrive Ichino, che rende oltremodo problematico il licenziamento (e aleatorio il suo costo) «quando l'aggiustamento degli organici si rende necessario». E che perciò scoraggia moltissimo dall'assumere se non a tempo determinato: presumibilmente anche se domani la situazione economica migliorerà.

Questo è il nostro problema: un tessuto produttivo nel quale chi è stabilmente dentro, difficilmente esce, ma in cui quasi mai chi è fuori riesce stabilmente a entrare. Dove la sola speranza dei disoccupati è al massimo quella di diventare precari. Mi chiedo se dopo settimane di estenuanti trattative sull'articolo 18 la Cgil si renda conto che è precisamente su questo punto, cioè sul diritto dei non occupati ad essere assunti stabilmente, che si gioca il vero futuro del nostro mercato del lavoro e in non piccola parte anche dell'Italia. Se si renda conto che blindare il diritto dei già occupati a conservare per sempre il proprio posto ha un solo inevitabile effetto: farne diminuire sempre più il numero, e basta.

Ernesto Galli della Loggia

4 aprile 2012 | 8:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_04/verita-nascoste-ernesto-galli-della-loggia_3cf48f4e-7e17-11e1-b61a-22df94744509.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il profondo Nord, illusione perduta
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2012, 11:04:55 am
RAGIONI ED ERRORI DI UNA STAGIONE

Il profondo Nord, illusione perduta

La crisi della Lega (e del berlusconismo) dimostra che serve un progetto nazionale non solo basati su interessi di parte


Dopo Berlusconi, Bossi; dopo la crisi del Pdl, quella della Lega: con gli avvenimenti di questi giorni si sta forse consumando definitivamente nella politica italiana quel ruolo centrale del Nord - lo definirei il Nord «ideologico», quello animato da un antico desiderio di rivincita e di primato, di cui per esempio il Piemonte non ha mai fatto parte - che, tra gli anni Ottanta e i Novanta del secolo scorso, mise alle corde la Prima Repubblica e poi cercò di ereditarne le sorti. È un ruolo che si chiude in modo fallimentare. In venti anni, infatti, quella che si presentava e per molti aspetti era un'iniziativa ambiziosa dal segno fortemente settentrionale - Lega/Forza Italia - non è riuscita ad aprire alcuna fase realmente nuova nella vita del Paese (tanto meno dal punto di vista economico), né a riformarne in meglio le istituzioni (il naufragio del cosiddetto federalismo è ormai sotto gli occhi di tutti) né a dar vita a una nuova età politica.

In un senso profondo, insomma, il Nord, quel Nord, non è riuscito a governare l'Italia. Non c'è riuscito soprattutto perché non è riuscito a unificarla politicamente. Non è stato capace, cioè, di imitare l'esempio della Democrazia cristiana, alla quale per un quarantennio, invece, riuscì di tenere insieme le roccaforti del cattolicesimo lombardo-veneto con il voto popolar-conservatore del Mezzogiorno. In circostanze storiche forse irripetibili, questo è vero. Ma è anche vero che il blocco partitico settentrionale non sembra aver mai compreso davvero che un Paese come il nostro, al proprio interno così vario e contraddittorio, non può essere guidato facendo leva esclusivamente su una sua parte. A meno che questa non s'impegni con successo in un'opera decisa di amalgama e di integrazione. Non ha compreso che da un secolo e mezzo, piaccia o non piaccia, in Italia è come se di continuo ogni governo dovesse ripercorrere l'impresa dell'Unità, dovesse ogni volta, per un certo verso, ricominciare dal 1860-61.

Un'impresa che però, per andare a buon fine, ha bisogno, come si capisce, di un elemento egemonico decisivo: di poggiare su un progetto politico nazionale, di essere animata da un'ispirazione forte e autentica. Il partito settentrionale ha invece creduto che per avere dalla propria il resto del Paese bastasse una pura sommatoria elettorale con la vecchia tradizione missino-corporativa (alleanza, peraltro, entrata quasi subito in fibrillazione) da un lato e dall'altro con nuclei più o meno consistenti di notabilato e/o di politicantismo centro-meridionali. Ma così ancora una volta il Nord, quel Nord che ho definito sopra «ideologico», ha dimostrato la sua antica, direi storica, difficoltà a fare politica, la sua incapacità a rappresentare un soggetto politico all'altezza dei suoi propositi.

Difficoltà e incapacità che hanno una sola origine: l'idea, condivisa tanto dalla Lega che dal berlusconismo, che al dunque la politica possa essere, e di fatto sia, solo rappresentanza di interessi (inclusi quelli di coloro che la fanno...), e nulla più. Non già, come invece è, visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori, e su queste basi, poi, ma solo poi, anche mediazione creativa tra esigenze diverse. Le conseguenze? Nessuna o poca idea di nazione e di Stato, scarsa etica pubblica, noncuranza per le regole; e, come non bastasse, una leadership sempre incerta tra virulenza da capataz e un molto casalingo tirare a campare. I risultati li abbiamo visti.

Ernesto Galli della Loggia

8 aprile 2012 | 9:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_08/profondo-nord-illusione-perduta-ernesto-galli-della-loggia_8e3b83c6-8141-11e1-9393-421c9ec39659.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Foto di gruppo con centurioni
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2012, 11:13:54 pm
LUOGHI, SIMBOLI E POTERE

Foto di gruppo con centurioni

Un Paese senza regole, abbandonato a se stesso. Un Paese che si sfilaccia nella vitalità dei propri antichi vizi, avviandosi a una sciatta decadenza. Oggi è questa l'immagine dell'Italia che rimanda la sua capitale. Che rimanda la Roma dei finti centurioni con orologio e calzini (mentre non risulta che si aggirino finti gauchos per le vie di Buenos Aires, o finti sanculotti intorno a Place de la Bastille: sarà un caso?).

Lo sfilacciamento italo-romano comincia dentro e intorno ai Palazzi del potere, come mostra una piccola esperienza personale. Da settimane frequento la biblioteca del Senato. Un'importante biblioteca che dispone anche di fondi molto rari: per certe materie tra le primissime d'Italia. Come dovunque tutte le istituzioni di questo tipo, essa è riservata agli studiosi. Il che vuol dire che non può essere adibita a una sala di studio qualsiasi, ad esempio per studenti universitari i quali vengano a prepararci gli esami portandosi i propri libri e blocchi d'appunti (e se no le biblioteche d'ateneo che ci stanno a fare?). E infatti all'ingresso della biblioteca del Senato fa bella mostra di sé un cartello che vieta l'accesso a questo tipo di frequentatori. Risultato? Nessuno: perfino all'interno di una delle massime istituzioni della Repubblica le regole ci sono sì, ma non per essere rispettate. E così la sala di consultazione di cui dicevo è abitualmente affollata da ventenni con la loro brava bottiglietta di minerale appoggiata sul tavolo.

Ma forse, si potrebbe pensare, è la manifestazione di un lodevole spirito democratico delle istituzioni rappresentative. E già, peccato però che un tale spirito i medesimi presidenti del Senato e della Camera non lo dimostrino per nulla - ne mostrino anzi uno opposto: appropriativo e castale - accaparrandosi d'imperio, da anni, parti sempre maggiori dello spazio pubblico che circonda le loro auguste sedi (esse pure, peraltro, in costante, vorace e costosissima espansione): anche qui solo in forza dei propri comodi e dell'arbitrio. E così, intorno a Montecitorio e a Palazzo Madama, vie e spazi d'ogni tipo un tempo a disposizione dei cittadini come chi scrive (che a Roma è nato e ci vive da sempre), sono oggi sbarrate, riservate, chiuse, confiscate a uso dei privilegiati che solo loro possono passare e, chissà perché, devono per forza poter arrivare dappertutto con le loro automobili. Perfino a piazza Colonna, dove si trova l'ingresso di Palazzo Chigi, i sopracciò della Repubblica si sentono autorizzati, come se nulla fosse, a parcheggiare le loro grosse cilindrate intorno alla colonna Antonina (intorno alla colonna Antonina!) riversandole addosso i relativi scarichi di ossido di carbonio.

La parabola della Lega insegna. Ogni potere italiano che si installa a Roma vi trova lo specchio e la conferma di una propria intima e permanente vocazione: la vocazione all'assenza di regole e al rispetto solo di chi è più forte. Nella capitale dell'Italia delle corporazioni e delle lobby, per esempio, ogni negozio è libero di far caricare e scaricare le merci a qualsiasi ora del giorno, così come alla stazione Termini e a Fiumicino i turisti stranieri vengono regolarmente offerti in olocausto alla potentissima divinità dei tassisti abusivi.

Egualmente, il suolo pubblico è ormai di chi se lo prende: qualunque commerciante è libero di mettere sulla strada i tavolini, le sedie, le fioriere e gli ombrelloni che crede, per fare i propri comodi e i propri affari. Sicché in tutte le vie del centro - trasformate in un seguito ininterrotto di pizzerie e gelaterie di terz'ordine - si cammina solo in stretti corridoi strusciando da una parte e dall'altra piatti sgocciolanti di spaghetti al sugo e di tiramisù.

È qui anche, è sui Sette Colli sempre fatali (anche se nel frattempo il fato è cambiato), che l'Italia dei condoni e dello «scudo», dell'abusivismo e insieme del perdonismo universali, si mostra con il suo volto più compiuto. Qui, dove è virtualmente assente qualsiasi controllo su qualsiasi cosa (sui rifiuti, sul parcheggio in doppia fila, sulle assordanti movide notturne), dove sì e no un passeggero su venti paga il biglietto dell'autobus, dove i permessi taroccati o comprati per entrare nella Ztl sono migliaia; qui, dove il corpo dei vigili urbani - incaricato in teoria di controllare tutto ciò che si è ora detto - gode di una fama che solo la carità di patria e le leggi sulla diffamazione impediscono di indicare con il nome che merita.

E dove altro più che a Roma (forse solo a Gemonio), la Penisola assiste alle imprese del familismo antimeritocratico e delle consorterie di partito, che dal Pirellone al Palazzo dei Normanni la stanno portando alla rovina? È a Roma, infatti, che un'amministrazione disinvolta della cosa pubblica ha pensato bene di affidare tutte le principali aziende cittadine a personaggi improbabili che potevano vantare l'unico merito di essere amici a tutta prova del sindaco Alemanno. Forse, non a caso, finiti poi quasi tutti licenziati o indagati. È questo alla fine che non hanno capito i poveracci travestiti da centurioni: che per continuare a sguainare i loro gladi di latta gli serviva come minimo una tessera del partito dell'imperatore.

Ernesto Galli della Loggia

20 aprile 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_20/foto-di-gruppo-con-centurioni-ernesto-galli-della-loggia_2479a542-8aa8-11e1-9df7-98e3d52d16a5.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Nuovi scenari antichi riflessi
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2012, 10:39:04 am
ISTITUZIONI, PARTITI, PERSONE

Nuovi scenari antichi riflessi

Forzando un po' le cose, ma solo un poco, la scena politica italiana si presenta grosso modo così: i vecchi partiti boccheggiano e i nuovi, sebbene annunciati, non si sa ancora se, quando e come vedranno mai la luce; alla ribalta sembrano così rimanere sempre più solamente le persone. Le persone-partito da un lato, le persone-istituzioni dall'altro. Da una parte, cioè, Vendola, Di Pietro, Pannella (in questo senso un vero antesignano), Grillo e Bossi (sia pure molto malconcio): tutti e cinque padri-padroni e mattatori di formazioni tutte all'opposizione che senza di loro molto probabilmente non esisterebbero, ma che oggi raccolgono, comunque, almeno un quarto dell'elettorato. E dall'altra parte - ad essi virtualmente contrapposti non per loro volontà, ma per il solo fatto di essere le ultime trincee del sistema politico - Mario Monti in rappresentanza dell'istituzione governo, e insieme a lui Giorgio Napolitano, titolare dell'istituzione presidenza della Repubblica.

I vecchi partiti, invece, se ne stanno più o meno tutti nascosti al coperto dietro Monti e Napolitano. Sentono che il futuro non è tanto nelle proprie mani, non dipende tanto dai loro tentativi più o meno credibili di «cambiare» (quasi sempre fuori tempo massimo), quanto piuttosto da ciò che succederà in tre ambiti cruciali, ormai, però, pressoché fuori dalla portata di ogni loro eventuale intervento modificatore: la dimensione dell'astensionismo, la misura del successo delle formazioni dell'antipolitica, infine ciò che deciderà Monti circa il proprio destino politico.

La realtà ultima del nostro sistema politico è questa. Con una precisa chiave di lettura che si impone su ogni altra: la forte tendenza alla personalizzazione leaderistica. Tendenza che percorre come un filo rosso l'intera crisi della Repubblica in corso da vent'anni; che si afferma irresistibilmente tanto nella politica che nelle istituzioni; che è conforme ai tempi e all'esempio delle altre maggiori democrazie; che è assecondata dal consenso di quote ormai maggioritarie dell'opinione pubblica. Ma che invece fa a pugni con i più radicati pregiudizi sia della nostra cultura partitica tradizionale, tutta imbevuta di un finto parlamentarismo, sia di quella della maggior parte dei costituzionalisti i quali, ideologizzati non poco e attratti dal miraggio di un sempre possibile ingresso alla Consulta, si sono sempre mantenuti su posizioni di rigido conservatorismo.

Accade così che mentre una larga maggioranza di italiani esprime la propria fiducia nell'orientamento decisionista a forte caratura personale rappresentato dalla coppia Monti-Napolitano; mentre la massima parte della protesta contro le degenerazioni del sistema politico si aggrega anch'essa intorno a figure individuali di leader; mentre tutto questo avviene, i vecchi partiti, invece, si mostrino assolutamente sordi alla voce dell'opinione pubblica. La nuova legge elettorale a cui stanno pensando in maggioranza i partiti, infatti, ripercorre con qualche correzione le vie del vecchio proporzionalismo, lasciando quello italiano tra i pochissimi elettorati europei destinati a non sapere, la sera delle elezioni, chi li governerà a partire dall'indomani. Anche se poi, per confondere le acque, qualche leader lascia trapelare che per il dopo elezioni potrebbe magari, chissà, pensare a un nuovo governo Monti sorretto da una maggioranza di unità nazionale. Come dire: intanto ripigliamo in mano il gioco alle nostre condizioni, poi eventualmente penseremo a convincere l'ostaggio necessario a tenere buono il popolo.

Ernesto Galli Della Loggia

27 aprile 2012 | 8:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_27/Nuovi-scenari-antichi-riflessi_17084204-9027-11e1-803b-373c4ae603d3.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA IL CASO COMUNIONE E LIBERAZIONE
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 10:37:04 am
IL CASO COMUNIONE E LIBERAZIONE

Il maso chiuso dei cattolici

C'è nella parabola di Comunione e Liberazione, nella crisi d'immagine e di senso in cui è precipitata, qualcosa in cui si rispecchia un nodo storico cruciale dell'intero cattolicesimo italiano.
Germogliata dal tronco inesausto della fede cristiana, alimentata e cresciuta per la speranza che questa ancora e sempre continua a recare con sé, Cl si è trovata a un tratto a dover fare i conti con la politica. Checché se ne dica e se ne pensi da parte delle anime belle che immaginano il mondo secondo quanto è prescritto dai principi, il destino della politica, la sua vocazione, sono iscritte nel Dna stesso del cristianesimo. Non si combatte impunemente per due, tre secoli l'impero romano; non si decide di uscire dalla dimensione della setta e dell'etnicità per diventare un'istituzione universale; non si decide di stare nella storia e di cimentarsi con il secolo ad ogni istante, sotto ogni cielo e in ogni ambito, senza fare i conti con la politica. Senza essere obbligati a entrare nella sua dimensione.


La scommessa cristiana, in modo specialissimo quella cattolica, è stata però quella di entrarvi senza perdervisi. Fare politica sì, ma salvando l'anima. Una scommessa quanto mai rischiosa, come si capisce.
Alla quale, poi, qui da noi se n'è aggiunta un'altra, non meno impegnativa: divenire parte politica, e addirittura governare lo Stato, l'Italia appunto, alla cui nascita si era stati tuttavia avversi, e alla cui stessa vita e modi d'essere si era sempre guardato senza troppa simpatia. È così che nella formazione del cattolicesimo politico italiano più che in quello di altri Paesi si sono iscritti due tratti tipici: l'orgoglio di un'identità diversa, e un intimo desiderio di rivalsa. Due tratti tipici che la vicinanza della Santa Sede non poteva che rafforzare, e che erano destinati a divenire due tentazioni permanenti: la tentazione della separatezza e quella dell'egemonismo. Apparentemente contrastanti. In realtà l'una la faccia dell'altra: come ha mostrato a suo tempo, in modo paradigmatico la parabola, per esempio, di certa sinistra cattolica, ma non solo. E trattandosi tra l'altro di tentazioni inevitabili per qualunque movimento a sfondo religioso costretto a muoversi in una società ultra secolarizzata, sentita perciò come totalmente ostile.


Comunione e Liberazione ha comunque incarnato entrambe le tentazioni in modo esemplare: la separatezza e l'egemonismo. Animatrice di mille iniziative e proposte lodevoli ma sempre più autoreferenziale, essa ha finito per rappresentare una sorta di «maso chiuso» cattolico piantato nel bel mezzo della società italiana (oltre che forse della stessa Chiesa). Con la quale società italiana essa ha avuto rapporti, naturalmente: rapporti assai vari e anche intensi, ma sempre più percependosi e mirando ad essere una potenza autosufficiente, mossa da una continua volontà di espansione. Ha un bel dire oggi don Carrón, il suo capo spirituale, che a peccare - cioè a commettere i gravi reati a sfondo finanziario per cui alcuni noti esponenti ciellini sono attualmente indagati in Lombardia - sono stati sempre e solo i singoli. È vero, ovviamente. Ma è solo una parte della verità.
L'altra parte è che quei peccati in tanto sono stati resi possibili in quanto i loro sospetti autori appartenevano a Cl, e come tali erano universalmente noti; che come appartenenti a Cl essi erano inseriti nell'ampia rete di relazioni facenti capo ad essa; e che da venti anni, infine - fattore assolutamente decisivo per chiunque non voglia mentire a se stesso - Comunione e Liberazione è parte di fatto ma a pieno titolo della maggioranza di governo della Regione Lombardia, e come tale notoriamente padrona assoluta del settore della sanità. Nella sanità lombarda da vent'anni non si muove foglia che Cl non voglia.


Tutto questo (sempre che non riguardi il codice penale) si chiama per l'appunto egemonismo e bisogno spasmodico di far valere la propria identità. È, come l'ho chiamata, la sindrome del «maso chiuso», che ben lungi dal riguardare solo Cl riguarda però, più o meno, l'intero cattolicesimo politico italiano. Ed è tale sindrome che a mio avviso costituisce oggi il principale ostacolo a che il cattolicesimo politico stesso riacquisti nella Penisola un ruolo effettivo di primo piano. Il voto propriamente cattolico, infatti, riguarda attualmente non più di un dieci per cento circa dell'elettorato. Il che vuol dire che qualunque iniziativa di quel campo che voglia mirare in alto ha la vitale necessità di coinvolgere forze diverse. Deve superare ogni egemonismo, spogliarsi di ogni abito di autosufficienza culturale, bensì avviare un dialogo alla pari con identità differenti dalla propria, insieme alle quali cercare significativi punti di convergenza. Ha bisogno in sostanza di riconoscersi in una autentica prospettiva federativa offerta in modo non strumentale a forze politiche d'ispirazione non cattolica (che siano di destra o di sinistra non cambia la natura del problema). Ha bisogno, sia pure in condizioni oggi diversissime, del realismo e del coraggio di cui seppe dare prova De Gasperi nel 1947-48, allorché mise insieme una coalizione di forze diverse, e la mantenne pure dopo la vittoria del 18 aprile, a dispetto dei fremiti egemonici e delle rivendicazioni identitarie di molti dei suoi. L'alternativa è il ghetto di un'autosufficienza magniloquente, ma in realtà sempre più insignificante e sempre più esposta a ogni degenerazione.

Ernesto Galli della Loggia

5 maggio 2012 | 7:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_05/maso-chiuso-cattolici-dellaloggia_a7056a92-9673-11e1-a8a2-11f8cf758d5e.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'austerità vuota dell'Europa tedesca
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2012, 05:53:42 pm
L'austerità vuota dell'Europa tedesca

Il voto «antieuropeo», domenica scorsa, di quote importanti (in un caso la maggioranza) dell'elettorato francese, greco e italiano ripropone con forza un problema con il quale il nostro continente è alle prese da un secolo e più: il ruolo della Germania e la natura della sua supremazia.

Un ruolo di potenza-guida costruito su una straordinaria forza economica, che negli ultimi venti anni si è manifestato in una germanizzazione di fatto della costruzione europea. Germanizzazione culminata nell'adozione dell'euro, che non a caso è servita a sancire definitivamente quel ruolo.

È stata la Germania con la sua classe dirigente, infatti, che sempre più ha fornito all'Unione la sua politica economica di fondo, il suo impianto ideologico, i suoi paradigmi sociali e culturali, anche il suo insopportabile «europeisticamente corretto». In specie, a partire dal 2002 (anno di introduzione dell'euro) la macchina di Bruxelles è sostanzialmente una macchina tedesca: al più con le istruzioni per l'uso in francese.

Per l'appunto contro una tale macchina e la sua leadership - di cui la cancelliera Merkel è evidentemente nulla più che un simbolo - si sono espresse in modo massiccio le popolazioni chiamate alle urne da Parigi, ad Atene, a Palermo. Dopo che negli ultimi tempi, peraltro, segnali analoghi non erano mancati anche altrove, e sempre più andavano affiorando perplessità e dubbi sulla guida tedesca anche nelle classi politiche dei Paesi dell'Unione.

In tutto ciò si esprime, a me pare, un fatto di enorme importanza storica. Riassumibile in questi termini: la Germania, pur destinata da oltre un secolo ad un ruolo virtualmente egemonico in Europa, sembra avere, tuttavia, una grandissima e intrinseca difficoltà ad esercitare tale ruolo poggiandolo sulla costruzione di un adeguato consenso. Le risulta assai difficile, cioè, trasformare la propria potenza economica in una dimensione di effettiva e moderna egemonia politica: in altre parole dare vita a una sfera di opinioni e di sentimenti favorevoli alla sua supremazia, e capaci quindi di prendere la forma di un consenso democratico-elettorale. E forse proprio per questa ragione, non a caso, nel corso della sua storia unitaria essa ha ceduto ben due volte alla tentazione di esercitare la propria supremazia imponendola con altri mezzi.

Non penso affatto, sia chiaro, che allora dobbiamo temere che possa esserci una terza volta. Il carattere assolutamente pacifico della Germania odierna non può essere messo in dubbio. Ma dobbiamo prendere atto del problema vero che da tempo sta di fronte all'Europa: la Germania non riesce a fare con il continente ciò che invece riuscì agli Stati Uniti dopo il 1945 con l'intero Occidente: federare e dominare, ma insieme convincere e sedurre. Perché sono diversissime le condizioni storiche, naturalmente. Ma non solo. Molto di più perché mancano alla Germania quelle caratteristiche storico-culturali che hanno reso - e per tanti versi rendono ancora oggi - possibile l'egemonia americana.

Troppo simile a noi, Paesi e culture del resto d'Europa, le manca la capacità di incarnare una way of life libera e accattivante; di produrre universi mitico-simbolici capaci di tenere insieme in modo straordinario la prospettiva del sogno, dell'eterna illusione, e però anche quella del realismo, delle cose dell'esistenza quotidiana; di alimentare l'idea di una ricchezza a disposizione dell'intraprendenza di chiunque; di inventare oggetti, specie beni di consumo (dalla gomma da masticare, alla Coca Cola, ai jeans) che alludono irresistibilmente a forme di vita easy , ariose, disinvolte, aperte all'imprevedibilità delle occasioni. Tutto ciò che viene da lì, insomma, sembra andare - perlomeno nella dimensione dell'immaginario (ma non solo: le istituzioni giuridiche e politiche americane sono una realtà) verso l'individuo e la sua libertà. Cioè verso i due massimi valori dei tempi moderni. Nulla a che fare, come si capisce, con l'intrinseco antiindividualismo, con l'idea e l'immagine «pesanti» di organizzazione e di autorità che emanano, viceversa, dall'immagine della Germania; nulla a che fare con i dilemmi metafisici tanto spesso radicalmente eversivi, con la spiritualità austera e profonda della sua tradizione culturale. Senza contare il rapporto non certo semplice, e tanto meno limpido con la libertà e i suoi istituti che storicamente ha avuto la Germania.

Che cosa c'è di tedesco, insomma, al di là delle opportunità del mercato del lavoro e dello smagliante panorama urbano di Berlino, che possa conquistare l'immaginario di un giovane europeo del tempo presente? Che possa attrarre la fantasia delle masse europee, accenderne le speranze e i sogni? Ma senza queste cose nulla può nascere in politica. Senza queste cose tutto diventa soltanto burocrazia, convegni, «vertici» e tenuta in ordine dei conti. Tutto diventa, per l'appunto, l'Europa attuale, l'Europa tedesca, vuota e ripiegata su se stessa. Che quando la sera si addormenta, l'unico pensiero che può permettersi è quello sullo spread che l'attende l'indomani.

Ernesto Galli della Loggia

13 maggio 2012 | 10:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_13/l-austerita-vuota-dell-europa-tedesca-ernesto-galli-della-loggia_0c74d968-9cc2-11e1-9e47-40ef175b0d3f.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una dannosa concorrenza
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2012, 04:34:25 pm
CASO BRINDISI E PROCURE DIVISE
 
Una dannosa concorrenza
 
«Strage semplice» o «strage a scopo terroristico»? Procura della Repubblica di Brindisi o Direzione distrettuale antimafia (e antiterrorismo) di Lecce? E dunque a dirigere le indagini quale dei due magistrati responsabili dei due organismi, Marco Dinapoli o Cataldo Motta? Per 48 ore le cronache sull'attentato di cui è rimasta vittima la povera Melissa Bassi hanno ruotato intorno a questa disputa tra le suddette sedi giudiziarie pugliesi, risoltasi alla fine solo per l'intervento deciso del ministro Severino. Una disputa che ha reso evidente a tutto il Paese alcuni dei mali gravi di cui soffre l'apparato giudiziario italiano.
 
Innanzi tutto un'estrema, talora parossistica, tendenza alla personalizzazione, che prende la forma della corsa dei singoli magistrati ad accaparrarsi l'inchiesta che «conta». La quale, poi, è sempre e soltanto una: e cioè quella che più colpisce l'opinione pubblica, vale a dire che riguarda clamorosi fatti di sangue o personaggi importanti, e/o ha addentellati con la politica; e di cui perciò si occupano con il massimo risalto giornali e tv. La grande maggioranza dei magistrati italiani, ma come è ovvio in modo specialissimo quelli delle procure, non sembrano quasi mai capaci di resistere alla tentazione della «visibilità», ne sono avidi, la cercano in ogni modo. Più di una volta, ahimè, subordinando ad essa i propri atti istruttori, a cominciare dai provvedimenti di custodia cautelare, vale a dire l'ordine di arresto e di detenzione in carcere a carico dei cittadini.
 
La visibilità significa principalmente visibilità per la propria inchiesta: da alimentare per esempio anche con l'accorta somministrazione alla stampa di verbali di intercettazioni telefoniche. Somministrazione che sarebbe vietata dalla legge, naturalmente, in quanto quei verbali, come si sa, sono coperti dal segreto istruttorio, ma della quale mai, in anni e anni, a mia conoscenza alcuna procura della Repubblica si è preoccupata di individuare e tanto meno di punire i responsabili.
 
La visibilità peraltro non serve solo a soddisfare una più o meno ingenua vanità personale. Per chi viene a goderne, essa, infatti, ha conseguenze ben più importanti e concrete. Serve molto, infatti, al proprio futuro professionale e no. È utile, ad esempio, per costruirsi una posizione di forza in occasione delle assegnazioni di sedi e di incarichi da parte del Consiglio superiore della magistratura. Per essere appoggiato in tali richieste dai propri colleghi di «corrente»; per mettere il Csm stesso nella condizione di «non poter dire di no» alla richiesta del «celebre» procuratore, del noto castigamatti del potere, del famoso inquirente che ha dimostrato di non guardare in faccia a nessuno. Ma non solo. La visibilità è utilissima per fare il salto, da molti ambito, fuori dalla carriera: per essere corteggiati dai giornali e dagli editori, per essere invitati ai talk show , a festival e convegni d'ogni tipo. E va da sé per entrare in politica.
 
La quale politica può essere quella vera e propria che si fa in Parlamento o alla testa di un Comune, ovvero quella diversa ma egualmente importante che si fa negli innumerevoli gabinetti ministeriali, in enti e organismi dalle denominazioni più impensate, ricoprendo incarichi per solito assai ben remunerati (tutti posti assegnati per l'appunto dalla politica): in cambio di nulla? Infine essendo eletti dai propri colleghi nel Csm di cui sopra.
 
Curiosamente, infatti, nessuna corporazione come quella dei magistrati a parole rifiuta con tenacia ogni rapporto con la politica, proclama a ogni piè sospinto la necessaria lontananza, che dico estraneità, da essa, ma al tempo stesso quasi nessun'altra come quella annovera tanti membri ansiosi, ansiosissimi, di avervi a che fare in un modo o nell'altro. Le polemiche tra i magistrati pugliesi di questi giorni - comprese le conseguenze negative che esse potrebbero avere avuto sulle indagini (vedi la divulgazione delle immagini televisive del supposto colpevole) sono solo l'ultimo capitolo di questa patologia personalistica del sistema giudiziario italiano. Nei cui confronti la classe politica e di governo nasconde la testa sotto la sabbia e non fa niente, nell'evidente paura di dispiacere alle toghe: in parte nella speranza che i propri avversari incappino prima o poi in qualche inchiesta della magistratura; in altra terrorizzata dall'idea che i suoi molti scheletri nell'armadio vengano prima o poi tirati fuori da qualche procura. Mentre ai comuni cittadini - che non hanno né avversari né scheletri nascosti - si continua ancora a chiedere, come se nulla fosse, di votare comunque per coloro che da decenni, anche in questo campo, lasciano andare le cose come vanno.
 
Ernesto Galli della Loggia

27 maggio 2012 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_27/una-dannosa-concorrenza-ernesto-galli-della-loggia_78d172da-a7c4-11e1-988e-2cac10a9ea60.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Molti sussurri e poche grida
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2012, 04:48:04 pm
IL PDL TRA CONTENUTI E CONTENITORE

Molti sussurri e poche grida


Dopo aver goduto per tanto tempo i vantaggi del «partito personale», da qualche mese i deputati e i senatori del Pdl ne stanno, invece, avvertendo pesantemente il prezzo. Ma attenzione: partito personale può voler dire cose assai diverse. Può significare il partito stretto intorno al suo capo, il quale per l'appunto con la sua persona riesce a rappresentarne simbolicamente i valori, lo stile e i programmi, costruendo intorno a sé, legati alla sua figura carismatica e da essa ispirata, un seguito di massa e insieme un gruppo dirigente, entrambi fedeli a tutta prova. Oppure può significare semplicemente un partito che esiste solo in virtù delle risorse pratiche e simboliche di un singolo individuo, il quale, grazie all'uso di tali risorse unicamente a lui imputabili, e da lui solo gestite, riesce a conquistare il consenso elettorale e l'appoggio di un gruppo più o meno ristretto intorno a lui. Caso in cui, però, più che di «partito personale» è giusto parlare di «partito padronale».

Il Pdl è stato da sempre, per l'appunto, un partito del genere. E continua a esserlo nella sua crisi attuale: anzi, lo è tanto più da quando è stato costretto ad abbandonare il governo. In qualunque altro partito, infatti, pure il più carismatico immaginabile, dopo un insuccesso così clamoroso come quello che è occorso al governo Berlusconi, si sarebbe aperta comunque una discussione sui motivi, e naturalmente sulle responsabilità; su ciò che non si era capito e non si era fatto e sul perché; sugli errori o le insufficienze di questo e di quello. Magari arrivando perfino a discutere l'azione del leader. Nel Pdl invece niente. Sorprendentemente, nessuno o quasi, specie tra gli esponenti di qualche rilievo, sembra avere niente da dire. Nessuno sembra cercare o chiedere una spiegazione. Nessuno sembra porsi il problema di quanto è accaduto.

Eppure di queste cose, in realtà, nel Pdl si parla e come. Ma se ne parla dietro le quinte, di nascosto dal pubblico. E cioè in modo che quanto si pensa e si dice finisce per non avere alcun significato politico. La ragione è chiara: tutti sanno che il partito è letteralmente cosa di Berlusconi, che solo da lui dipende la sua politica, e che solo lui, pertanto, ha vero e unico titolo a parlare. Chiunque si azzardasse a farlo al posto suo - specialmente se con un discorso critico circa il passato (quando a decidere, di nuovo, era sempre e soltanto Berlusconi) - lo farebbe a proprio rischio e pericolo. Rischio e pericolo che però ben pochi hanno intenzione di correre.

Il silenzio attuale, insomma, è la riprova che i cosiddetti dirigenti del Pdl in realtà non hanno mai diretto nulla. In senso proprio essi non sono mai esistiti politicamente, non hanno mai avuto vera statura politica personale come conseguenza di una qualche forza o merito propri. In alcuni casi forza e merito ci sono pure stati, beninteso, ma il fatto è che nel Pdl non hanno mai contato nulla senza il favore del Supremo, senza l'assenso di Berlusconi. E così anche oggi come ieri è solo il gesto del Principe che conta. Dunque, acqua in bocca: in attesa che sia lui ad aprirla per primo.

E dire che invece proprio l'odierna situazione di crisi rende, o dovrebbe rendere, in realtà più facile ai rappresentanti del Pdl di parlare, di dire quello che pensano. Dal momento che se finora il silenzio poteva essere giustificato con il fatto che «i voti ce li ha solo Berlusconi», ora, viceversa, proprio ciò appare sempre meno vero. Come si è visto alle amministrative, gli elettori sembrano aver capito, infatti, che è proprio Berlusconi a non aver funzionato come leader, è lui per primo che ha fallito, e gli stanno negando i propri voti in dosi massicce che promettono di esserlo sempre di più. Ma non solo. Ai deputati e ai senatori del Pdl dovrebbe apparire preziosa l'occasione odierna di poter parlare, di aprire una vera discussione critica, anche per provare ad acquistare finalmente quella statura politica che finora non sono mai riusciti ad avere. Un'occasione che tra l'altro potrebbe rivelarsi anche l'ultima.

Invece ancora e sempre nulla. Sorprendentemente nel Pdl continua a non sentirsi alcuno dotato di qualche autorevolezza capace di parlare con la voce della verità. Ancora e sempre tutti aspettano, allineati e coperti, gli ordini di Berlusconi. E così tutti prendono sul serio, almeno all'apparenza, l'idea patetica che il problema sia quello del contenitore, quella di inventarsi un nome nuovo, o di mettere dei «giovani» al posto dei «vecchi»; tutti fingono di credere che sia ancora possibile, a tempo quasi scaduto, tirare fuori dal cappello il coniglio del presidenzialismo o l'idea pazza che l'Italia si metta a stampare euro in proprio. Tutti fingono volenterosamente che bastino espedienti simili per far tornare l'età dell'oro. La quale invece è finita per sempre, messa in fuga dagli errori di un anziano demiurgo che ormai ha smarrito i suoi poteri.

Ernesto Galli della Loggia

2 giugno 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_02/molti-sussurri-e-poche-grida_3bf7e42c-ac72-11e1-9fc1-b5e83ca3680b.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La politica senza leader
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2012, 04:47:32 pm
NOI, L'EUROPA E LA CRISI DEI PARTITI

La politica senza leader


Dalla fine del Novecento l'Europa dei partiti non sembra più capace di produrre autentici capi politici, leader degni del nome (ne sa qualcosa la Grecia, che in queste ore sta decidendo del suo destino; e non solo del suo). È ormai solo un ricordo, infatti, l'epoca dei Mitterrand, dei Kohl, dei Gonzalez: uomini dotati di chiarezza di visione e di fiducia in se stessi, di capacità di comando e di convinzione. E così, proprio quando l'equilibrio europeo e l'intera costruzione dell'Unione si trovano ad affrontare la loro maggiore crisi, essi si trovano a doverlo fare senza guida.

L'assenza di figure di capi politici è tra i sintomi più evidenti dell'affievolimento-crisi della sfera politica europea come effetto della perdita di sovranità da parte degli Stati. Quando, infatti, una parte sempre maggiore delle cose che più contano, e che prima erano nelle mani della politica e perciò degli elettori, vengono invece a essere determinate ora dalla globalizzazione o dai mercati finanziari, ovvero decise dalle burocrazie «unioniste» di Bruxelles, o comunque sottoposte al placet di istanze collettive («vertici» vari, G8, G20 o quello che siano) - e sempre più o meno supinamente accettate dai governi - allora è inevitabile che la politica nazionale perda insieme al senso di sé anche ogni capacità di affermarsi per ciò che da sempre essa è: vale a dire l'ambito elettivo del comando pubblico e di coloro che lo esercitano. E dove c'è ben poco da decidere, è difficile che vi sia qualcuno realmente capace di comandare.

La crisi dello strumento partito non appare altro, al dunque, che un effetto di questa crisi della politica come decisione e comando. E non meraviglia che specialmente in Italia i partiti appaiano alle corde e la politica screditata: proprio perché da noi come in pochi altri posti la politica e lo strumento partito hanno svolto un ruolo di comando altrettanto centrale e pervasivo. La portata della loro sfortuna attuale è pari solo alla loro fortuna precedente.

Ma i guai dell'Italia, sebbene in forma accentuata, sono i medesimi delle democrazie europee. Le quali come tutte le società di questo tipo, proprio a causa dell'articolata ampiezza e autonomia dei centri di decisione che è loro caratteristica, necessitano vitalmente un luogo ultimo di coordinamento, di impulso e di comando. Cioè di leader, di un leader: a dispetto delle chiacchiere deprecatorie sulla «personalizzazione» che, soprattutto in Italia, abbiamo tanto sentito ripetere negli ultimi tempi. Tempi nei quali la suddetta personalizzazione - che c'è sempre stata - è apparsa quanto mai deprecabile: ma solo perché riguardava leader che in realtà erano delle mezze cartucce. Mentre quando essa riguarda leader veri, allora, invece, nessuno quasi la nota e tanto meno la depreca: se è vero come è vero che a nessuno verrebbe e - che io sappia - è venuto mai in mente, per esempio, di deprecare il ruolo (a suo modo anch'esso personale e leaderistico) di un Roosevelt o di un De Gasperi (e neppure di un Berlinguer, sia detto tra parentesi).

Ernesto Galli della Loggia

17 giugno 2012 | 9:38© RIPRODUZIONE RISERVATA


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'irrilevanza dei cattolici
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2012, 10:20:40 am
IL VUOTO TRA SOCIETÀ E POLITICA

L'irrilevanza dei cattolici

Da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_24/editoriale_d03b394c-bdc3-11e1-a8f4-59710be8ebe6.shtml

Non si avverte davvero bisogno di qualche nuovo partito cattolico (a proposito: ma l'Udc lo è o no? E se sì, come si spiega la sua latitanza dalla discussione che dura da circa un anno? Possibile che essa non si senta in qualche modo chiamata in causa?). Tanto meno, dunque, sembra aver senso stare a interrogarsi sul o sugli eventuali possibili leader del suddetto partito.

Ma se il sistema politico non ha bisogno di un partito cattolico, viceversa di una voce cristiana, e dunque anche cattolica, di un'iniziativa politica alta che rechi il segno di quell'ispirazione, l'Italia ha sicuramente bisogno. Oggi, infatti, davanti alla Repubblica sta una difficile via modellata su un abito nuovo di serietà e di sobrietà: una via fatta anche di rinunce a traguardi che sembravano ormai acquisiti per sempre, di spirito di sacrificio. Lo è già ora, ma ancor più nei tempi che si annunciano sarà questo il vero patriottismo. E sarebbe davvero singolare che l ' ethos cristiano - ma vorrei dire religioso in genere - che a dispetto di ogni secolarizzazione permea ancora di sé vaste masse di italiani, restasse estraneo proprio rispetto a questa sfida. Che alla fine è una sfida innanzi tutto culturale e ideale.

Non si tratta di politica, ma di altro. Si tratta di contribuire alla costruzione di una cultura civica, di rafforzare un insieme di valori pubblici, di costruire disposizioni d'animo collettivo orientate al bene comune. Ma insieme di ricercare le possibili vie d'uscita dalle strettoie in cui si trova immobilizzata da anni la società italiana. Ricordo solo quelle che mi sembrano le più gravi: un sistema d'istruzione dispersivo e programmaticamente indulgente, vittima di ridicoli conati aziendalistici; un'università che non conosce il merito e nella quale l'internazionalizzazione sta decretando la brutale retrocessione di tutto il sapere d'impianto umanistico; lo sperpero immane di risorse (con relativa corruzione dilagante) da parte di tutte le strutture pubbliche: per cui tutto, in Italia, costa tre o quattro volte più del dovuto, e per essere fatto ci mette tre o quattro volte il tempo realmente necessario, e dove lavorano inutilmente migliaia di persone; infine un'organizzazione della giustizia (dai codici alla deontologia dei magistrati, allo scandalo permanente delle carceri) che troppo spesso è organizzazione di vera ingiustizia. E come se già tutto questo non bastasse si tratta poi di capire come ricostruire su nuove basi la cittadinanza sociale e il sistema della rappresentanza parlamentare, rimettendo in riga le corporazioni e l'alta burocrazia «gabinettista» ormai governante in proprio.

Certo, alla fine tutto è politica. Ma prima c'è un grande spazio - vitalmente necessario, di mobilitazione, di ricerca, di analisi, di proposte - che è fuori della politica. Ed è qui proprio che però il silenzio cattolico è più alto. Non quello di singoli credenti, naturalmente, ma il silenzio di quella che si chiama la presenza cattolica nel Paese, del cattolicesimo organizzato (dalle Acli all'Azione Cattolica, ai tanti movimenti; e ci metterei pure la Cisl e l'Udc, sempre che essi accettino di avere qualche cosa a che fare con il cattolicesimo organizzato e sempre che si prescinda dalla loro quotidiana routine istituzionale).

È in questo ambito che si misura davvero in pieno l'irrilevanza dei cattolici nella vita pubblica. Non è un'irrilevanza politico-partitica, è un'irrilevanza prima di tutto d'opinione, di idee. Cioè assenza - sulle questioni che richiamavo prima, e su mille altre riguardanti la svolta profonda di cui ha bisogno il Paese - di approfondimenti significativi, di punti di vista forti, di effettive volontà di mobilitazione. È come se ormai da anni il combinato disposto della riduzione a ideologia di massa dei principi del Vaticano II da un lato, e della fine traumatica della Democrazia cristiana dall'altro, avessero spinto il cattolicesimo italiano non solo a disinteressarsi della «grande» politica (che è poi la sola, vera politica) ma anche a disinteressarsi dell'Italia. Dell'Italia come problema storico; come luogo di un passato che forse merita un futuro; come patria di una comunità che s'interroga sul proprio destino (se mai gliene aspetti uno...). La sola voce cattolica che oggi si fa sentire nello spazio pubblico sembra essere quella che si concentra sul tema (significativo, chi ne dubita?, ma certo non proprio generale) della «difesa della vita». Per il resto l'impressione è che nel campo cattolico tutto tenda a ridursi tra i fedeli a un certo astratto moralismo, e al vacuo, sempre prevedibile, precettismo delle relazioncine somministrate mensilmente nelle riunioni della Cei. La conclusione non può che essere una: con la fine della Dc il cattolicesimo italiano sembra aver cessato di essere matrice di una possibile cultura politica.

Quale mai novità dovrebbe o potrebbe dunque rappresentare in queste condizioni un partito di cattolici? E perché un tal partito dovrebbe essere capace di dire al Paese qualcosa di più e di diverso da quello che riescono - o meglio non riescono - a dirgli i non pochi cattolici che si trovano nel Pdl, nell'Udc o nel Pd? Come del resto - è fin troppo ovvio rilevarlo - non ci riesce neppure nessuna voce «laica». E proprio in questo consiste il dramma dell'Italia: per tornare a muoverci avremmo bisogno di respirare aria nuova, di ascoltare idee coraggiose, di scorgere nuovi orizzonti. E invece tutto appare immobilizzato in qualcosa che assomiglia sempre più al resto di niente. Mentre da lontano, ma già distintamente, echeggia il grido barbarico delle turbe di Grillo.

Ernesto Galli della Loggia

24 giugno 2012 | 8:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da -


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La percezione del premier
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2012, 11:03:27 am
I TECNICI, LA DESTRA E LA SINISTRA

La percezione del premier

Nessuna persona ragionevole può pensare che Mario Monti sia «di sinistra». Così come nessuna persona ragionevole può pensare che la politica del suo governo sia una politica «di sinistra», qualunque cosa oggi questa espressione in un caso e nell'altro possa ancora significare. Quella di Monti è più semplicemente una politica che si sforza di fare del principio di realtà (qui ed ora: dunque con i relativi vincoli anche di natura sociale che nessun mandato popolare lo ha autorizzato a mutare) il suo asse; e degli strumenti tecnici la sua principale risorsa. Può definirla «di destra» solo chi dei vincoli della realtà ha deciso programmaticamente di infischiarsene (almeno a chiacchiere), o è convinto che è meglio farsi governare dall'utopia e dall'immaginazione anziché dalla competenza.

«Di destra» - arieggiante qualcosa che può essere definito «di destra», o forse bisognerebbe dire assai meglio «borghese» - è semmai un tratto intimamente personale della figura del presidente del Consiglio e di alcuni suoi ministri. Un certo tono sommesso ma insieme perentorio, una confidenza anche lessicale e sintattica con le buone maniere, una certa esibita sprezzatura verso tutto ciò che sa troppo di «popolare» e dunque, inevitabilmente, di demagogia. Sa tutto ciò di «destra»? Equivale tutto ciò ad essere «di destra»? Sia pure. Ma, per parlare il linguaggio della nostra storia, sa soprattutto di quella destra che fu la «destra storica». Cioè di qualcosa che la sinistra ragionevole italiana, da Turati in poi, consapevole di vivere in un Paese troppo facile preda di pulsioni plebee e di distruttivi radicalismi, si è sempre guardata dal disprezzare.

E infatti, non a caso, questa tradizione si sta ripetendo oggi. Da settimane assistiamo infatti ai più vari tentativi - ultimo quello di D'Alema, anche se lui naturalmente smentisce - di coinvolgere Monti in una prospettiva di centrosinistra che guardi alle prossime scadenze elettorali e postelettorali. Non si tratta di tatticismi o di strumentalizzazioni. Ci sarà anche questo, certo. Ma c'è soprattutto la riprova dell'antica capacità/propensione della sinistra italiana a colloquiare, a stringere rapporti, a stabilire intese più o meno esplicite, anche con uomini e forze da essa lontane, anche con quelle che possono essere definite «di destra».

Ciò che è strabiliante e tipico dell'Italia è il fatto che invece proprio la destra politica vera, il Pdl, in Monti e nella sua politica non sappia riconoscere nulla che la riguardi, che parli alla sua cultura o al suo cuore. Nulla. E che anzi lo consideri grottescamente come una specie di suo nemico naturale, di subdolo e pericoloso avversario di cui sbarazzarsi al più presto. È qui che si manifesta in pieno la profonda anomalia della destra italiana e dell'itinerario che l'ha portata al punto in cui si trova. Forse per Berlusconi no; forse per qualche cameriere o qualche oca giuliva che gli stanno intorno, lo stesso; ma per tutti gli altri, per la gran massa dei deputati e dei senatori del Pdl, è verosimile che il cosiddetto populismo, lungi dall'essere una vocazione, sia semplicemente una deriva inconsapevole. Non essendogli riuscito di essere i protagonisti di alcuna «rivoluzione liberale», non immaginando neppure cosa sia la durezza austera dei conservatori, non gli è rimasto che essere dei populisti, o per meglio dire un'imitazione del populismo. E così, capeggiati da una delle massime concentrazioni di ricchezza del Paese, tutti o quasi con un reddito abbondantemente sopra quello medio degli italiani, la loro parola d'ordine preferita è diventata «dagli ai poteri forti»!

Ernesto Galli della Loggia

4 luglio 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_04/editoriale-percezione-premiere-galli-della-loggia_81a0eb16-c597-11e1-9f5e-4e0a5c042ce0.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una perfetta impudenza
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2012, 06:28:46 pm
L'ITALIA DEL «TUTTI INNOCENTI»

Una perfetta impudenza


Sosteneva Schopenhauer - un bilioso connazionale della signora Merkel vissuto circa un paio di secoli fa, al quale evidentemente non eravamo troppo simpatici - che tra tutti i popoli d'Europa gli Italiani rappresentavano l'esempio di «una perfetta impudenza». Esagerava, certamente.
Ma resta il fatto che da un po' di tempo chi vive in questo Paese non può fare a meno di chiedersi dove mai erano negli ultimi trent'anni gli attuali protagonisti della scena pubblica italiana, che cosa allora essi dicevano e facevano, addirittura se abbiano mai detto o fatto qualcosa. O forse, invece, erano ancora in troppo tenera età? O magari tutti all'estero e si occupavano d'altro?

Oggi, infatti, nessuno sembra essere stato responsabile di nulla. Una «perfetta impudenza», appunto. Debito pubblico cresciuto a livelli vertiginosi? Spesa pubblica oggetto di sprechi di ogni tipo e misura? Un'amministrazione di inefficienza conclamata? Le professioni preda del più turgido spirito corporativo? La lottizzazione partitica dominante dappertutto? Un welfare costruito a tutela dei più forti? Reti e servizi organizzati in forma oligo-monopolistica e sempre in danno del consumatore? Banche inefficienti e abituate ad angariare la clientela? Un'industria privata spesso variamente foraggiata a fondo perduto dallo Stato? Una giustizia di cui i cittadini diffidano? Carceri in condizioni orripilanti?

Sì, questo è il panorama vero e angoscioso dell'Italia di oggi. Ma è un panorama orfano di padri: per la parte che ciascuno vi ha avuto nel generarlo nessuno se ne vuole fare carico. Tutti innocenti. A cominciare dai partiti che fino a novembre dell'anno scorso hanno governato in ambito locale e nazionale. Quei partiti, quegli uomini e quelle donne, che per decenni hanno preso tutte le decisioni che oggi sappiamo sbagliate, quasi sempre senza preoccuparsi del domani ma solo del consenso dell'oggi; che hanno deliberato spese sconsiderate e hanno approvato leggi sempre più rivelatesi mal pensate e peggio ancora applicate. Per non dire dei sindacati, propugnatori abituali di vincoli rivelatisi soffocanti e, specialmente nel pubblico impiego, sostenitori di ope legis rovinosi, di mansionari e organici fuori dalla realtà, portatori di abiti ideologici implacabilmente ostili al merito, alla gerarchia, all'efficienza. Quei sindacati che per bocca di Susanna Camusso ancora oggi rivendicano come un merito indiscusso la prassi della concertazione «tra le parti», senza neppure un dubbio sulle evidenti conseguenze che una tale prassi ha avuto per decenni ai danni dell'interesse, non «delle parti», ma di quello generale, di cui deve pur essere garante il governo.

Mettiamoci pure, come è giusto, il sistema dell'informazione. Sì, troppo a lungo l'informazione indipendente si è mostrata eccessivamente indulgente verso il potere politico ed economico e i suoi rappresentanti. Non solo: troppo rispetto a priori anche verso i tabù culturalmente consacrati, verso l'autorità delle grandi corporazioni, verso tante discutibili pretese dei corpi dello Stato. Esattamente come la medesima indulgenza, il medesimo conformismo, però, ha avuto l'informazione ideologicamente orientata, ogni qual volta si è trattato di coprire le contraddizioni, le inadeguatezze o le vere e proprie magagne della propria parte.

C'eravamo, ci siamo stati tutti, insomma, nell'Italia degli ultimi trent'anni, se non sbaglio. E ognuno con la sua piccola o meno piccola parte di colpa; anche se oggi in molti fingono di esserselo dimenticato. Soprattutto c'erano, ci sono stati, gli Italiani (ha fatto bene Giuseppe Bedeschi ieri a ricordarlo). Gli Italiani: nella loro maggioranza implicati in mille modi - contro una minoranza di veri poveri e di senza diritti - nei meccanismi perversi che ci hanno portato alla drammatica condizione attuale: come elettori, come evasori fiscali, come finti invalidi o finti intestatari di quote latte, come viaggiatori a sbafo, come fruitori della spesa pubblica, di condoni edilizi, di pensioni d'anzianità, come membri di qualche piccola o grande corporazione di privilegiati. Più o meno i medesimi, c'è da giurarci, intenti a recitare oggi la parte dei superindignati contro la «casta».

È questo il massimo ostacolo che paralizza il Paese e gli impedisce di riprendere qualsiasi cammino, è la sua cattiva coscienza: l'oblio generalizzato e autoassolutorio della società nazionale in genere, e la mancanza della benché minima autocritica dei partiti maggiori, che di conseguenza li rende tutti non credibili nei loro propositi per il futuro, destinati quindi a suonare fastidiosamente patetici. L'Italia non potrà avere alcun futuro finché non riuscirà a disporre di una narrazione del passato che la renda consapevole degli sbagli trascorsi, delle loro cause e dei loro responsabili. Così come dopo la catastrofe della guerra potemmo risollevarci solo dopo esserci sforzati di capire gli aspetti oscuri della nostra storia che si riassumevano nell'errore del fascismo, allo stesso modo oggi andremo avanti solo se faremo i conti con la vicenda grigia e piena di difetti della nostra democrazia.

ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

13 luglio 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_13/perfetta-impudenza-galli-della-loggia_c7a2572c-cca8-11e1-a3bf-e53ef061f69e.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - EUROPA TEDESCA E MEDITERRANEA
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2012, 05:05:32 pm
EUROPA TEDESCA E MEDITERRANEA

Un’antica diversità

Almeno un merito alla crisi economica che oggi squassa l’Unione Europea va riconosciuto: quello di obbligare a ripensare dalle fondamenta il modo in cui essa è nata e cresciuta. Solo così sarà possibile trovare una via d’uscita. Ma è un compito che tocca alle opinioni pubbliche, agli studiosi e agli osservatori indipendenti, dal momento che le leadership politiche europee lo evitano accuratamente, impegnate come sono ad impiegare il proprio tempo unicamente nel rimbalzare da un vertice all’altro, indicato ogni volta come risolutivo e ogni volta, però, destinato a non risolvere nulla.

Ripensare la costruzione europea, dunque. Oggi è chiaro, ad esempio, che alla sua origine vi fu un atto di temeraria cecità geopolitica. La conclusione della II Guerra mondiale e il sequestro da parte dell’Unione Sovietica dell’intera parte orientale del continente furono l’elemento decisivo che portò a considerare Italia, Francia, Germania e Benelux come realtà omogeneamente «europee ». In verità esse lo erano solo per un motivo: perché tutte erano allora gravitanti nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, non per altro. Solo la riconosciuta egemonia americana da parte delle loro classi dirigenti dell’epoca conferiva insomma a quell’organismo un carattere «occidentale ».

La concezione dell’Europa alla base dei Trattati di Roma cancellava di fatto almeno due aspetti decisivi: l’esistenza da un lato di un’«Europa mediterranea » (allora soltanto l’Italia, ma che con Spagna, Grecia, Portogallo, Malta e Cipro sarebbe poi divenuta una realtà di rilievo), e dall’altro di un’«Europa tedesca » incentrata sulla Germania ma in realtà estesa dalla Scandinavia all’Olanda, all’Austria, alla Slovenia. Quella concezione cancellava l’esistenza di due Europe con storie, società, tradizioni assai diverse. Due Europe da secoli unite sì da valori comuni, ma quasi quanto divise da conflitti: con la differenza, però, che i primi erano patrimonio quasi esclusivo di ristrette élite, mentre i secondi, invece, avevano radici vastissime e profonde. Due Europe, la cui esistenza effettiva la Comunità prima (la Cee) e la Unione dopo (la Ue) sono riuscite ad occultare, per anni e anni, servendosi sia di un fragile mantello ideologico — l’«Occidente» — sia di una apparentemente più solida prospettiva generale, l’economia: tutta l’area comunitaria s’identificava infatti con il capitalismo, era interessata al suo sviluppo, si riconosceva nelle sue regole.

Ma sia il mantello ideologico che la prospettiva generale appaiono oggi in frantumi: finito lo scontro Usa-Urss, l’«Occidente» è divenuto una categoria sempre più evanescente; mentre l’economia, sottoposta alle tensioni della globalizzazione, si sta rivelando un fattore assai più di scollamento che di unificazione. E così oggi riprendono il sopravvento la geografia, la politica e con esse la storia. Sulla finta capitale Bruxelles riprendono il sopravvento le capitali vere del continente: Berlino, Parigi, Madrid, Roma. E torna a prevalere una diversità antica. Oggi, infatti, riappare in tutta la sua drammatica evidenza la diversità tra l’«Europa tedesca » e l’«Europa mediterranea » (con la Francia a metà tra le due); a complicare ulteriormente le cose ci si aggiunge pure, grazie al dissennato allargamento a Est, la radicale diversità dell’«Europa balcanica».

Qui da noi, nell’«Europa mediterranea », la modernità democratica è nata assai di recente dovendo fare i conti non solo con passati fascistico-autoritari — dalla Grecia alla Spagna, all’Italia appunto—ma con società dai caratteri per più versi ostili ovvero estranei ai suoi valori, nelle quali dominavano antiche e diffuse povertà, una debole cultura civica, legami personali soverchianti e insieme l’individualismo più restio, particolarismi tenaci, una tradizione di governo lontana dallo Stato di diritto. Tutti questi elementi hanno consentito, sì, che i meccanismi consensualistico- democratici si affermassero, ma al prezzo di un ruolo crescente e pervadente dell’intermediazione politica. A Sud delle Alpi e dei Pirenei, per ottenere successo, la democrazia è stata spinta a diventare fin dall’inizio, e sempre di più, una democrazia dei benefici, delle elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi: a diventare una democrazia della spesa (e quindi, alla lunga, del debito) alimentando uno spirito pubblico conseguente.

Così come le sue classi politiche sono state progressivamente spinte a occupare spazi collettivi di ogni tipo (spesso addirittura a crearli) facendosi forti per l’appunto delle risorse di cui avevano la disponibilità. La bancarotta della Grecia, la drammatica crisi finanziaria esplosa contemporaneamente in molte, importanti autonomie locali di Italia e Spagna, unitamente all’immane debito pubblico e privato di entrambi i Paesi, sono di certo un fatto di malcostume e di leggerezza dei loro governanti. Ma non solo. Rappresentano anche la realtà di una condizione storica: della condizione storica in cui si è affermata la democrazia in questa parte del continente.

È ovvio che i «mercati» non se ne curino più di tanto. È invece sbagliato che noi, cittadini dell’Europa mediterranea, a cominciare da noi italiani, non facciamo nulla per spiegare queste cose ai nostri amici europei, ai nostri amici tedeschi: che per esempio non impegniamo in questo senso la nostra diplomazia con un’appropriata azione culturale. Sia chiaro: non per invocare impossibili indulgenze (con la mafia e la corruzione, per esempio, dobbiamo solo impegnarci più che mai a farla finita), ma per ricordare che in Europa la democrazia non è una pianta autoctona. Per radicarla c’è stato bisogno qualche volta di un deficit di duemila miliardi, altrove il prezzo è stato Auschwitz, quasi dappertutto è stato necessario il vento d’oltreoceano. I conti dell’Europa con la democrazia non cominciano con la Cee o con la Ue. Vanno fatti su archi cronologici un po’ più ampi, perché vanno fatti con la storia. E allora forse si vedrebbe che ad averli davvero in ordine quei conti siamo in pochissimi.

Ernesto Galli della Loggia

25 luglio 2012 | 7:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_25/galli-della-loggia-un-antica-diversita_7d5634fe-d617-11e1-bdd2-f78a37bd7a67.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La moneta dei più forti
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2012, 07:42:06 pm
EURO, SOVRANITÀ E COSTITUZIONE

La moneta dei più forti

L'Italia è di fronte a una scelta decisiva: continuare a sopportare lo spread assai alto che sappiamo (e che domani potrebbe essere ancora più alto), ovvero chiedere l'intervento del fondo salva Stati. La conseguenza nel primo caso sarebbe un declino economico certo. Ma ancora più grave sarebbe la conseguenza nel secondo caso, e cioè - in forza delle condizioni che accompagneranno l'aiuto della Bce, volute dalla Germania e da altri Paesi forti dell'eurozona - un vero e proprio commissariamento del governo italiano attuale e di quelli successivi. Che dunque sarebbero obbligati per anni ad attenersi a una serie di direttive dettate dall'esterno. Insomma, una radicale perdita di sovranità da parte della Repubblica.

È la conferma di un dato drammatico che la crisi dell'euro sta sempre più mettendo in luce: vale a dire che a distanza di circa sessant'anni dalla sua origine, e al di là di ogni apparenza formale, nell'ambito dell'Unione Europea non esiste alcun organo realmente sopranazionale, neppure la Banca centrale europea. Non esiste cioè alcun organo che in materie rilevanti possa - ispirandosi a un interesse collettivo o comunque a suo insindacabile giudizio ritenuto tale - decidere indipendentemente dalla volontà dei governi dei singoli Stati. Per esempio, stabilendo di distribuire con una certa equanimità fra tutti i membri i costi e i benefici delle sue decisioni. In queste condizioni l'euro è solo formalmente una moneta «europea», adottata su base paritaria e concordata: come i suoi padri s'illudevano che fosse. In realtà, essendo una moneta «unica» che alle spalle non ha però alcuna unità (nessuna unità vera, cioè politico-statale: la sola che conta per le classi politiche chiamate a rispondere a degli elettorati nazionali), esso è destinato inevitabilmente, alle prime difficoltà, a divenire qualcos'altro. E cioè il semplice paravento dietro il quale si manifestano, insopprimibili, i tradizionali contrasti e rivalità tra gli Stati.

Peggio: l'euro diviene un arma insidiosissima nelle mani dei Paesi economicamente più forti contro quelli più deboli. Infatti, nei tempi di tempesta la coesistenza da un lato di autonome individualità statali, e dall'altro della moneta unica, rischia di sortire il virtuale effetto, prendendo a motivo i vincoli «unitari» che questa comporta, di spezzare il nerbo degli Stati di serie B. Trasformandoli di fatto in autentici Stati vassalli. L'autonomia del «politico» si prende in tal modo la più beffarda vendetta a spese dell'immaginario primato dell'economia sul quale tutta la costruzione europea è stata edificata.
Ma ciò detto, va aggiunto subito dopo che quanto sta accadendo pone all'Italia, mi pare, tra le tante, anche una delicatissima questione di costituzionalità (e a mio giudizio sarebbe stato bene che non si fosse posta oggi per la prima volta: sennonché la nostra Corte Costituzionale, per ragioni che ignoro, non ha mai ritenuto di dovere imboccare quella via di rigida salvaguardia della sovranità nazionale nei confronti della costruzione europea che invece ha imboccato a suo tempo la Corte Costituzionale tedesca; dalle cui decisioni, così, anche noi finiamo oggi grottescamente per dipendere).

Nella nostra Carta, infatti, esiste un articolo 11 secondo il quale l'Italia può consentire alle limitazioni di sovranità ma «in condizioni di parità con gli altri Stati», ed evidentemente solo a queste condizioni. Non sembra allora inappropriata la domanda: quali mai «condizioni di parità» sarebbero garantite nell'eventuale cessione di sovranità alla quale ci vedessimo costretti in base alla richiesta di aiuto alla Banca centrale europea? Qui si tratta evidentemente di condizioni decise di volta in volta per diretto impulso dei governi, con contenuti ogni volta mutevoli. E dunque mi chiedo: che certezza può mai esservi che il trattamento oggi riservato all'Italia lo sarebbe domani, mettiamo, anche alla Germania? Cioè che siano effettivamente rispettate le «condizioni di parità» volute dalla Costituzione? Senza contare - altra considerazione all'apparenza non irrilevante - che sempre la nostra Costituzione stabilisce nel medesimo articolo che le limitazioni di sovranità di cui si sta dicendo possono essere fatte solo se «necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni». E allora ecco una nuova domanda: di quale «giustizia» è questione negli obblighi che dovremmo eventualmente prendere per salvarci dallo spread ? La giustizia del «guai ai vinti» o quale?

Ernesto Galli Della Loggia

5 agosto 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_05/la-moneta-dei-piu-forti-ernesto-galli-della-loggia_f86747ce-dec2-11e1-9e96-0d6483763225.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Monti e le polemiche tedesche
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2012, 04:45:42 pm
Monti e le polemiche tedesche

Non è solo una questione di soldi

Ormai dovremmo saperlo, ma giova ripeterlo. Abbiamo vissuto per anni indebitandoci allegramente. Per anni l'Italia ha rappresentato un esempio da manuale di colpevole democrazia della spesa non coperta da entrate adeguate; cioè di una classe politica irresponsabile (la stessa, peraltro, che tra poco più di sei mesi ci chiederà il voto), la quale pensava sempre solo al suo consenso e mai al futuro del Paese.

E anche un esempio, per favore non dimentichiamolo, di cittadini sempre avidi, ogni volta che ne avevano la forza, di chiedere soldi pubblici e privilegi a carico dell'erario.


Di questi fondatissimi dati di fatto si fa forte Stefano Micossi sul Corriere di ieri, e con lui altri cortesi critici del mio editoriale di domenica scorsa, per sottolineare che è vano «stupirsi - come io avrei fatto - se il condominio dell'euro non si fida di noi e ci mette sotto tutela», imponendoci condizioni lesive della nostra sovranità. Insomma, «chi è causa del suo mal» con quel che segue.


Sennonché le cose - a me sembra - sono un po' più complicate. Cerco di spiegarmi aiutandomi con un paragone. Quello con il Fondo monetario internazionale, il quale, come si sa, presta aiuto finanziario ai Paesi in difficoltà a patto che questi seguano le indicazioni di politica economica che esso di volta in volta suggerisce loro. Anche qui, dunque, è implicata una cessione di sovranità, ma di essa nessuno si è mai meravigliato. Da che mondo è mondo, infatti, la dura condizione d'inferiorità del debitore obbliga questi a stare ai desiderata del creditore. O fa come vuole lui, o niente.


È a tutti evidente, però, la differenza tra questo caso e il nostro attuale. Per due ragioni. La prima - fondamentalissima - è che il fondo monetario non è uno Stato. La seconda sta nel fatto che dal canto suo la Germania (parlo solo della Germania non per spirito antitedesco, ma per comodità discorsiva, in quanto rappresentativa dell'intera area economicamente forte e virtuosa dell'eurozona) non ha né può avere con l'Italia, che le piaccia o meno, un rapporto come quello, a suo modo assai semplice nella sua limpida brutalità, tra chi ha bisogno di soldi e chi ne dispone.

La Germania non è il rappresentante autorizzato né dei sottoscrittori stranieri del nostro debito pubblico né del fondo salva Stati (e tra l'altro in questa fase si sta avvantaggiando rispetto agli altri Paesi finanziandosi a tassi negativi). È un Paese che ha con il nostro (e non solo, naturalmente) un assai antico e complesso rapporto di solidarietà politica a tutto campo qual è da decenni quello definito dalla costruzione europea e da una connessa, amplissima, condivisione istituzionale.

Entrambe queste ragioni hanno una conseguenza decisiva. Squarciano l'involucro economico del discorso e ne fanno emergere con forza il contenuto politico che alla fine è l'unico che conta, dal momento che - qualunque cosa dicano i vari trattati, anche quelli di natura più tecnica - il senso e la ragione ultima dell'Unione Europea sono per l'appunto un senso e una ragione di natura intrinsecamente politica (anche se questa non è mai riuscita a concretizzarsi in istituzioni adeguate).

Ma proprio da un tale punto di vista, proprio se tutto ciò è vero, come si fa allora a non vedere l'immane incidenza politica che nell'ambito di un insieme unitario e paritario di Stati, come finora ha detto di essere la Ue, avrebbe la perdita di sovranità da parte di uno (o più) di essi? Come si fa a non mettere al centro del problema il fatto che alla perdita di sovranità, e dunque di ruolo e di peso politico da parte di uno Stato, corrisponderebbe necessariamente e immediatamente l'accrescimento di ruolo e di peso di un altro (quello della Germania)? E come si fa, infine, a considerare trascurabile l'effetto profondo ma inevitabile che questo spostamento di pesi politici avrebbe sulla natura politica, ma prima di tutto storica, della costruzione europea? Trasformandola definitivamente in un'Unione euro-carolingia a dominazione tedesca, mille miglia lontana da qualunque cosa l'europeismo di qualunque colore abbia mai pensato. È davvero questo che si vuole all'Aia, a Helsinki, e pure a Berlino? Altro che debitori e creditori, «è colpa vostra», «è merito nostro», e chiacchiere simili.

Tutte cose vere, per carità, verissime. Ma che non colgono il punto. Il punto vero è che oggi sullo spread e sull'impiego del Fondo salva Stati a favore dei Paesi dell'Europa mediterranea non si gioca un braccio di ferro finanziario: si decide in realtà la questione, integralmente politica, di che cosa sarà in futuro l'Unione Europea e di che cosa saranno i regimi politici di una parte di essa.

P.S.: Cedendo all'antica tentazione nazionale di apparire sempre, di qualunque cosa si tratti, come i primi della classe, molti politici e commentatori tedeschi si sono trasformati nelle ultime ore in accigliati maestrini di democrazia ai danni del nostro presidente del Consiglio. Accusato - nientedimeno! - di aver manifestato in una intervista a Der Spiegel disprezzo verso il controllo parlamentare sui governi, fondamento di ogni regime rappresentativo. Ma è un gioco che mostra la corda. Estrapolando cinque parole si può far dire qualunque cosa a chiunque.

Altro discorso però è darlo a credere davvero a chi conosce bene la personalità di Mario Monti. Come la conosce, per l'appunto, la stragrande maggioranza degli italiani: salvo ahimè i pochi politicanti da quattro soldi prestatisi anche questa volta, come spesso capita, a fare da cassa di risonanza alle maldicenze d'Oltralpe.

Ernesto Galli della Loggia

7 agosto 2012 | 10:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_07/non-questione-di-soldi_b669d286-e04f-11e1-8d28-fa97424fa7f2.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il paesaggio preso a schiaffi
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2012, 05:18:52 pm
IMMAGINI E COSTI DELL'INCURIA

Il paesaggio preso a schiaffi

Trascorrere qualche giorno in Calabria - dico la Calabria solo come un caso esemplare (e pur sapendo di dispiacere agli amici che vi conto), dal momento che quanto è successo lì è più o meno successo in mille altre contrade della Penisola - significa essere posti di fronte ad uno spettacolo a suo modo apocalittico. Ed essere costretti ad interrogarsi su tutta la recente storia del Paese.

Lo spettacolo apocalittico è quello della condizione dei luoghi. Sono cose note ma non bisogna stancarsi di ripeterle. Centinaia di chilometri di costa calabrese appaiono distrutti da ogni genere di abusivismo: visione di una bruttezza assoluta quanto è assoluto il contrasto con l'originaria amenità del paesaggio. Dal canto loro i centri urbani, di un'essenzialità scabra in mirabile consonanza con l'ambiente, sebbene qua e là impreziositi da autentici gioielli storico-artistici, sono oggi stravolti da una crescita cancerosa: chiusi entro mura di lamiere d'auto, per metà non finiti, luridi di polvere, di rifiuti abbandonati, di un arredo urbano in disfacimento. L'inaccessibile (per fortuna!) Aspromonte incombente sulle marine figura quasi come il simbolo di una natura ormai sul punto di sparire; mentre le serre silane sono già in buona parte solo un ricordo di ciò che furono. Luoghi bellissimi sono rovinati per sempre. Non esistono più. Ma nel resto d'Italia non è troppo diverso: dalla Valle d'Aosta, alle riviere liguri, a quelle abruzzesi-molisane, al golfo di Cagliari, ai tanti centri medi e piccoli dell'Italia peninsulare interna (delle città è inutile dire), raramente riusciti a scampare a una modernizzazione devastatrice. Paradossalmente proprio la Repubblica, nella sua Costituzione proclamatasi tutrice del paesaggio, ha assistito al suo massimo strazio.

Ma oggi forse noi italiani cominciamo finalmente a renderci conto che distruggendo il nostro Paese tra gli anni 60 e 80 abbiamo perduto anche una gigantesca occasione economica. L'occasione di utilizzare il patrimonio artistico-culturale da un lato e il paesaggio dall'altro - questi due caratteri unici e universalmente ammirati dell'identità italiana - per cercare di costruire un modello di sviluppo, se non potenzialmente alternativo a quello industrialista adottato, almeno fortemente complementare. Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere fondato sul turismo, sulla vacanza di massa e insieme sull'intrattenimento di qualità, sulla fruizione del passato storico-artistico (siti archeologici, musei, centri storici), arricchita da una serie di manifestazioni dal vasto richiamo (mostre, festival, itinerari tematici, ecc.); un modello capace altresì di mettere a frutto una varietà di scenari senza confronti, un clima propizio e - perché no? - una tradizione gastronomica strepitosa. È davvero assurdo immaginare che avrebbe potuto essere un modello di successo, geograficamente diffuso, con un alto impiego di lavoro ma investimenti non eccessivi, e probabilmente in grado di reggere assai meglio di quello industrialista all'irrompere della globalizzazione, dal momento che nessuna Cina avrebbe mai potuto inventare un prodotto analogo a un prezzo minore?

Capire perché tutto ciò non è accaduto significa anche capire perché ancora oggi, da noi, ogni discorso sull'importanza della cultura, sulla necessità di custodire il passato e i suoi beni, di salvare ciò che rimane del paesaggio, rischia di essere fin dall'inizio perdente.

Il punto chiave è stato ed è l'indebolimento del potere centrale: del governo nazionale con i suoi strumenti d'intervento e di controllo. In realtà, infatti, in quasi tutti gli ambiti sopra evocati è perlopiù decisiva la competenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione), tanto più dopo l'infausta modifica «federalista» del titolo V della Costituzione. Lo scempio del paesaggio italiano e di tanti centri urbani, l'abbandono in cui versano numerose istituzioni culturali, l'impossibilità di un ampio e coordinato sviluppo turistico di pregio e di alti numeri, sono il frutto innanzi tutto della pessima qualità delle classi politiche locali, della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale (non per nulla in tutta questa rovina il primato è del Mezzogiorno). Questa è la verità: negli anni della Repubblica il territorio del Paese è sempre di più divenuto merce di scambio con cui sindaci, presidenti di Regione e assessori d'ogni colore si sono assicurati la propria carriera politica (per ottenere non solo voti, ma anche soldi: vedi il permesso alle società elettriche d'installare pale eoliche dovunque).

D'altra parte, si sa, sono molte le cose più popolari della cultura: elargire denari a pioggia a bocciofile, circoli sportivi, corali, sagre, feste patronali e compagnia bella, rende in termini di consenso assai più che il restauro di una chiesa. I politici calabresi sanno benissimo che la condizione in cui si trovano i Bronzi di Riace - fino ad oggi nascosti da qualche parte a Reggio, in attesa da anni di un museo che li ospiti - se è un vero e proprio scandalo nazionale, tuttavia non diminuisce di un briciolo la loro popolarità a Crotone o a Vibo Valentia.

Solo un intervento risoluto del governo centrale e dello Stato nazionale può a questo punto avviare, se è ancora possibile, un'inversione di tendenza; che però deve essere necessariamente anche di tipo legislativo. Ma per superare i formidabili ostacoli che un'iniziativa siffatta si troverebbe di sicuro davanti, deve farsi sentire alta e forte la voce dell'opinione pubblica, per l'appunto nazionale, se ancora n'esiste una. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell'Italia, al fallimento di un suo possibile sviluppo diverso, per paura di disturbare il sottogoverno del «federalismo» nostrano all'opera dovunque.

Ernesto Galli della Loggia

27 agosto 2012 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_27/il-paesaggio-preso-a-schiaffi_d6ab4d26-f004-11e1-924c-1cb4b85f5a80.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una federazione di popoli diversi
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2012, 11:52:20 am
LE CORRENTI DELLA CHIESA

Una federazione di popoli diversi

Luigi Giussani, Carlo Maria Martini: nel giro di pochi anni il Duomo di Milano assiste ai funerali di due figure tra le più importanti del cattolicesimo italiano della seconda metà del Novecento. Due personalità assai differenti, ma ognuna rappresentativa di due diverse anime di quel Cattolicesimo.

Tutto fuoco Giussani, agitato da un entusiasmo a suo modo ascetico e insieme informale; invece controllato e «loico» Martini, uomo di parola scritta assai più che parlata. Fautore Giussani di un cattolicesimo pugnace, innamorato della realtà creaturale di Cristo ma appagato nel suo pieno autoriconoscimento con la Chiesa; invece Martini impegnato a cercare di piantare la croce sulla tormentata frontiera della modernità, alla ricerca di una perigliosa transazione con essa, con le eresie e gli eretici che la abitano. E poi un semplice prete da un lato, un principe della Chiesa dall’altro: anche nel loro rango — così contraddittorio rispetto alle loro personali ispirazioni—si è rispecchiata la straordinaria molteplicità d’idee, di moti dell’animo e di capacità creative che da sempre caratterizza l’Istituzione romana facendone la sua altrettanto straordinaria vitalità.

Da molto tempo, tuttavia, per questo Cattolicesimo è sempre più difficile tenere insieme le proprie varie anime: come emerge da mille particolari anche nella circostanza di questa morte di Martini che—salvo un messaggio insolitamente lungo del Papa—Roma e le sue gerarchie sembrano registrare con ostentata freddezza. È il dramma di una Chiesa che grazie al Concilio ha creduto di potersi riappacificare con la modernità, di risanare le contraddizioni e le divisioni che questa le aveva procurato. Ma che, proprio intorno al Concilio e al suo significato, ha visto riaccendersi come non mai le dispute, e prodursi nuove lacerazioni. Sicché, ormai, il popolo di Dio appare sempre di più come una federazione di popoli diversi: quelli arciconvinti che la Chiesa abbia tradito il Concilio; quelli, all’opposto, che sia stato il Concilio a tradire, esso, il «depositum fidei» ricevuto, gettandolo alle ortiche; e quelli, infine, che, rinserrati tra le mura di qualche movimento, sono persuasi dell’autosufficienza del patchwork religioso a cui si sono affiliati. Il resto dei credenti, che pure è la maggioranza, è come se invece non esistesse, e comunque non riesce a trovare il modo di avere voce.

Martini abbandona la scena nel momento in cui a questa divisione alla base—che egli stesso ha rappresentato con fiero animo di parte — si sta aggiungendo però anche una clamorosa divisione al vertice, testimoniata dagli indizi sempre più numerosi di aspre lotte che agitano la stessa Santa Sede e che appaiono tutt’altro che un episodio passeggero. La Chiesa che egli lascia, insomma, è una Chiesa che, sottoposta a troppe scosse nelle sue fondamenta, comincia a veder scricchiolare anche la compattezza della propria struttura istituzionale, minata da regole che non rispondono più al loro scopo e anzi si stanno rivelando distruttive. Una conseguenza da lui certo non prevista: e per la quale nei suoi tanti scritti si cercherebbe invano un possibile rimedio.

Ernesto Galli Della Loggia

2 settembre 2012 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_02/federazione-popoli-diversi-galli-della-loggia_119305b8-f4c5-11e1-9f30-3ee01883d8dd.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Un partito allo specchio
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2012, 03:49:04 pm
LA CRISI D'IDENTITÀ DEL PDL

Un partito allo specchio

Il Pdl rischia di diventare un caso unico nella storia. Ancora oggi è il partito che alle Camere ha più seggi, avendo conseguito quattro anni fa (sia pure insieme a Gianfranco Fini e ai suoi fidi) una clamorosa vittoria elettorale. Ha espresso per vent'anni decine di ministri e sottosegretari. Governa varie Regioni e migliaia di Comuni, nonché una miriade di enti pubblici, e infine il suo capo è da sempre quasi il simbolo della svolta politica rappresentata dalla cosiddetta seconda Repubblica.

Ma proprio questo partito - e proprio in un momento critico per il Paese - è di fatto sparito dalla scena. Essendosi il suo capo ritiratosi da mesi sotto la tenda, anche il Pdl si è dileguato. Sicché sulla nostra scena politica non c'è più la destra, quasi a conferma di una patologica anomalia della vicenda politica italiana nell'età della Repubblica. Del Pdl si stanno perdendo le tracce. Sia sul passato che sul futuro ogni dibattito al suo interno è inesistente. A quale motivo, per esempio, esso attribuisce la fine così ingloriosa della sua esperienza di governo? E che cosa pensa e propone circa il cruciale rapporto dell'Italia con l'Europa? Quale giudizio dà a proposito di un'eventuale prosecuzione post elettorale della linea di rigore incarnata dal governo Monti? E considera più probabile e/o più auspicabile un'intesa (di governo ma non solo) con Casini o con la Lega? Nessuno lo sa.

Intendiamoci. Su questi temi anche il Pd evita di pronunciarsi in via definitiva, stretto com'è tra due opposte necessità: da un lato quella di non sconfessare il rigore del governo che appoggia, e dall'altro il timore che candidarsi a proseguirne l'azione gli faccia perdere voti. Ma almeno a sinistra si discute, ci si divide, si agitano le questioni vitali del futuro, sicché alla fine gli elettori sono più o meno in grado di farsi un'idea, di capire chi, in quel campo, vuole che cosa. Nel Pdl invece niente. Qui tutti appaiono come dei burattini inanimati in attesa che arrivi il Grande Burattinaio a muovere i fili.

Eppure nel Pdl non mancano politici di lungo corso i quali di sicuro hanno opinioni, idee, e magari anche la voglia di provare a metterle in pratica. Politici che verosimilmente pensano che con Berlusconi non si va più da nessuna parte perché con lui non solo vincere le elezioni è ormai impossibile, ma è anche quasi impossibile stabilire un'intesa con chiunque altro. Cioè che con lui è ormai impossibile fare politica, e che dunque per il Pdl è giunto il momento di battere altre strade. Forse simili pensieri li agita dentro di sé anche il mite Alfano, chissà! Ma nessuno parla.

Questa incredibile paralisi che ha colto gli uomini e le donne del Pdl si spiega solo con la paura. Oggi per il Pdl, e nel Pdl, infatti, fare politica davvero non può che significare innanzi tutto prescindere da Berlusconi, andare oltre Berlusconi. Ma proprio qui sta il problema: dal momento che con lui alla testa il Pdl può sempre sperare domani in un 18-20 per cento di voti, il che vuol dire la certezza per tutto il suo stato maggiore allargato di essere rieletto. Invece senza Berlusconi (e le sue risorse di ogni tipo) perfino il 10 per cento è problematico: e dunque per tanti la non rielezione è assicurata. E poi è facile a dirsi «andare oltre Berlusconi»: ma se poi quello decide di ricominciare come se nulla fosse, quale fine possono immaginare di fare i «superatori»? Nei partiti di plastica, si sa, la prudenza non è mai troppa: tra un seggio parlamentare e il cestino della carta straccia non c'è che un passo (falso).

Ernesto Galli della Loggia

12 settembre 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_12/un-partito-allo-specchio-galli-della-loggia_8c411cc4-fc9e-11e1-8750-e7d636bddd26.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il partito galleggiante
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2012, 04:38:12 pm
 
Il partito galleggiante

Ci si poteva aspettare che la paralisi che da mesi ha colpito il Pdl— una paralisi che in periferia sembra preludere ad autentiche catastrofi elettorali: vedi a Roma e nel Lazio (grazie al malgoverno di Alemanno e all’evanescenza della Polverini) o in Lombardia (per effetto dei traffici dei faccendieri vicini a Formigoni e a Comunione e Liberazione)—ci si poteva aspettare, dicevo, che la crisi della destra berlusconiana aprisse la strada a una ripresa in grande stile di quell’area cattolica e liberale di spirito moderato ma riformatore, che finora aveva avuto come suo sia pur parziale punto di riferimento l’Udc di Pier Ferdinando Casini. E invece no. Sia nei sondaggi che nell’aria che si respira in giro la crisi del Pdl (e della Lega, bisogna aggiungere) non sembra premiare affatto l’Udc. Io credo principalmente per due ragioni. La prima è l’inconsistenza della sua offerta politica. Nel mezzo della più grave crisi conosciuta dal Paese in questo dopoguerra — una crisi in cui vengono al pettine nodi di mezzo secolo di storia repubblicana; una crisi che obbliga a ripensare tutta questa storia — non si possono offrire ricette per il futuro a base di formule vuote tipo «Monti dopo Monti» o simili. Lo so che per le abitudini dei politici nostrani si tratta di qualcosa d’inconcepibile, ma in circostanze del genere è assolutamente necessario impegnare il proprio nome e la propria faccia su non più di quattro, cinque proposte concrete, sufficientemente dettagliate, e su quelle chiedere il consenso degli elettori. Così fanno dappertutto i partiti che vogliono essere presi sul serio. Non già stare lì a perdersi in spossanti surplace sul proprio posizionamento, sulle alleanze, sulle leggi elettorali, sulle preferenze e altri arabeschi del genere, in un interminabile chiacchiericcio tra addetti ai lavori. Se Casini vuole capeggiare qualcosa che non sia solo l’Udc, dovrebbe riuscire a parlare finalmente il linguaggio delle cose da fare. Si tratta di cose, tra l’altro, che a parere di chi scrive richiedono oggi una peculiare commistione di elementi conservatori e riformatori, e dunque si presterebbero bene a divenire oggetto di proposte da parte di una formazione come la sua. Penso per esempio al rapporto con l’Europa e alla profonda riflessione che esso richiede sulla nostra sovranità e sui nostri autentici interessi nazionali; al Paese Italia che rischia nella sua stessa fisicità di sparire distrutto dal cemento, dalla rinuncia all’agricoltura, da inesistenti politiche del turismo; penso a chi lo amministra, con un federalismo antistatale maneggiato da classi politiche locali perlopiù o inette o rapaci, spesso entrambe le cose insieme; ancora: penso all’ambito cruciale dell’istruzione e della ricerca, il quale è da decenni nel più totale marasma, preda di demagogie e di egualitarismi insulsi (l’autonomia dei singoli istituti e però tutti gli insegnanti pagati nella stessa misura), di programmi sbagliati e di pannicelli caldi tecnologici (ci mancava il tablet!). Ebbene, che cosa pensa concretamente di fare in ognuno di questi punti critici e in tanti altri immaginabili Pier Ferdinando Casini? Nessuno lo sa.

Il sospetto che viene è che l’oscurità su questo punto chiave, oltre a indicare limiti intrinseci, serva però a uno scopo preciso: a lasciare nell’ombra il problema irrisolto della collocazione centrista finora tenuta dall’Udc. Con chi fare, insomma, le cose che si pensa eventualmente di fare (e di cui peraltro ma forse non a caso nulla è dato di sapere)? Con la destra? Con la sinistra? La risposta tipica del centrismo è: «Con chi ci sta». Cioè è una non risposta. Che tuttavia appare l’unica possibile se, come l’Udc oggi sembra intenzionata a fare, si vuole mantenere il gioco nell’arena della schermaglia politicista della proporzionale e dei governicchi di coalizione; e se non si ha l’animo, viceversa, di rivolgersi al Paese, di chiamare a scelte importanti le grandi masse elettorali, magari sfidando l’egemonia di Berlusconi sulla destra (quella di Bersani sulla sinistra sembra più difficile...). Ancora una volta, insomma, il silenzio è il paravento per l’irrisolutezza e la mancanza di visione. Il problema di Casini naturalmente sta anche nel suo partito. Sembra di capire che per accrescere l’attrazione elettorale dell’Udc, egli la vorrebbe trasformare in una formazione di rassemblement, in un partito di raccolta per un’intera area. Ma è dubbio che per questo obiettivo basti l’immissione di logori e scoloriti professionisti della politica come Fini o Bonanni, ovvero di personaggi come Passera e Marcegaglia, privi di qualunque vera immagine pubblica che non sia quella di sedicenti «tecnici», mentre in realtà si tratta di titolari di cospicui redditi d’impresa che li destina più che altro ad essere soggetti di un rilevante conflitto d’interessi. Anche qui, insomma, il problema dell’Udc e del suo segretario appare la sproporzione tra le ambizioni nutrite e la effettiva capacità di rischiare in proprio per realizzarle. Affermare di voler costruire qualcosa che vada oltre, molto oltre, il piccolo partito attuale, ma poi non saper rinunciare al comodo riparo del cespuglietto cattolico-minidiccì con annesse «personalità » da due di briscola. Sognare di diventare domani se non proprio una portaerei almeno un incrociatore pesante, continuando però ad essere oggi la zattera galleggiante che si accontenta di galleggiare.

Ernesto Galli della Loggia

16 settembre 2012 | 10:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_16/il-partito-galleggiante_23d63d52-ffc5-11e1-8b0a-fcb4af5c52c7.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Chi ha paura di Gianburrasca
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 09:36:18 am
LA SFIDA DI RENZI ALLE PRIMARIE

Chi ha paura di Gianburrasca

Non è necessario avere una simpatia per Renzi, per stupirsi della piega che stanno prendendo le «primarie» nel Pd


Non è necessario avere una particolare simpatia per Matteo Renzi, condividerne la sommarietà del programma o il piglio da Gianburrasca, per stupirsi della piega che stanno prendendo le «primarie» dentro il Partito democratico. Una piega che si riassume non solo nel tentativo di boicottare in tutti i modi la candidatura del sindaco di Firenze, ma nel tipo di reazioni che questa sta scatenando in una parte del gruppo dirigente della sinistra.

In qualsiasi elezione, e dunque anche nelle «primarie», opporsi politicamente a un candidato è più che legittimo. Boicottarne la candidatura invece no. Equivale precisamente a un boicottaggio, per esempio, il predisporre un sistema di regole fatte apposta per ostacolare la vittoria di un determinato candidato. È quanto, per l’appunto, ciò che starebbe avvenendo in queste ore nelle segrete stanze del Pd.

Si comincia con la decisione bizzarra di ammettere al voto per le «primarie» sedicenni e immigrati. Ma che senso ha, visto che le «primarie » stesse servono a scegliere chi dovrà capeggiare la coalizione alle elezioni politiche, che costui sia scelto anche da chi a quelle elezioni non potrà poi partecipare? È inevitabile il sospetto che ci sia dietro qualche intenzione poco chiara. Si prosegue poi con la regola del doppio turno: una regola, mai prima adottata, che evidentemente è fatta su misura per consentire al candidato sulla carta favorito, cioè Bersani, di poter avere maggiori speranze di vittoria grazie al restringersi finale del confronto a un virtuale ballottaggio (una regola che diventerebbe ancora più capestro, poi, se al secondo turno, come pare che si proponga, fossero ammessi solo i votanti al primo). Ancora: si parla di un albo pubblico nel quale i votanti dovrebbero vedere iscritto il proprio nome. Una regola nuova pure questa, destinata sempre a cercare di restringere in tutti i modi l’area degli elettori di Renzi.

Ma ad aggravare l’impressione del boicottaggio c’è qualcosa di più. Ci sono le dichiarazioni dell’establishment della coalizione di sinistra (ma non del segretario Bersani: e di ciò gli va dato onestamente atto). Mentre Renzi ha più volte assicurato che se sconfitto egli è pronto ad accettare il verdetto e ad appoggiare il vincitore, chiunque esso sia, invece i vari D’Alema, Bindi, Vendola, non hanno perso occasione per dipingere l’eventuale vittoria di Renzi come la calata dei barbari, una catastrofe politica, la fine del centrosinistra, e chi più ne ha più ne metta. Hanno cioè usato contro il candidato a loro sgradito l’arma che la sinistra italiana è da sempre irresistibilmente tentata di usare contro l’avversario: la delegittimazione. Ci manca poco che uno di questi giorni Renzi si veda affibbiato l’epiteto di «fascista». Un tipo di reazione tanto più singolare (e inaccettabile) in quanto in molte passate occasioni— da Genova, a Napoli, a Palermo, a Milano nelle quali personalità o partiti a sinistra del Pd, infischiandosene di qualunque risultato delle «primarie», ne rovesciavano disinvoltamente il verdetto per presentare/imporre un proprio candidato —, sia D’Alema che la Bindi si sono ben guardati dall’adoperare espressioni paragonabili a quelle adoperate oggi contro Renzi. Il quale forse, peraltro, dalla rabbia partigiana dei «vecchi leoni» dell’oligarchia ha assai più da guadagnare che da perdere.

Ernesto Galli della Loggia

30 settembre 2012 | 10:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_30/chi-ha-paura-di-gianburrasca-ernesto-galli-della-loggia_8bffb09a-0ac7-11e2-a8fc-5291cd90e2f2.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una spenta idea del nostro Paese
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 05:17:47 pm
LA VISTA CORTA DELLA POLITICA




Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla

Una gabbia d'acciaio intorno a un corpo piagato, che con la scusa di sorreggerlo in realtà lo tiene prigioniero aggravandone le piaghe: questo oggi è il rapporto in Italia tra la politica e i partiti da un lato, e la compagine sociale dall'altra. Non ci sono cattivi da una parte e buoni dall'altra, no: semplicemente un morto che tiene un vivo che vuole vivere. Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, destinato dalla loro immobilità ad un «presentismo», come lo ha chiamato Roberto Esposito, nel quale ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla. Mai nulla di sostanziale. Consumata nel 1991-93 la frattura con le culture storiche del nostro Novecento (il socialismo, il fascismo, il cattolicesimo politico, il comunismo gramsciano), da allora la politica della Seconda Repubblica è immersa in un torpido presente senza vita. Da vent'anni non è più in grado di immaginare alcun futuro per il Paese, di offrirgli una visione.

Il motivo più vero e profondo è principalmente uno: perché la politica ha smarrito il senso del passato; perché nei suoi attori e nei suoi istituti - come del resto in tanta parte del Paese - si è spenta ogni idea d'Italia e della sua storia; di che cosa sia l'Italia. Distruggere un paesaggio o deturpare una piazza; lasciare che biblioteche, archivi, musei, siti archeologici si sperdano e di fatto muoiano o cadano in rovina; accettare che nomi e luoghi antichi del lavoro e dell'industriosità italiana siano acquisiti dall'estero; consentire che il sistema d'istruzione escluda sempre più dai suoi programmi interi segmenti della cultura nazionale (a cominciare dalla lingua); è questo il vuoto che abbiamo creato, presi troppo spesso dalla fregola insulsa che ciò volesse dire essere «moderni». Senza capire che sul vuoto, però, è impossibile costruire; e che poi, a riempirlo, non bastano le mitologie d'accatto.

Dobbiamo ricominciare dall'Italia, ritornare a guardare ad essa. Sì, l'Europa naturalmente, ma è qui, entro di noi, nella nostra storia, che qualcosa si è inceppato, ed è da qui che dobbiamo ricominciare: dalla necessità di ricostruire un filo e un legame con il passato, di tornare a pensare a ciò che siamo stati. L'unica speranza che il Paese stia in piedi e reagisca, oggi risiede nella sua consapevolezza della propria identità. Non per accrescere il Pil o la produttività, infatti; non per fare i compiti richiesti da qualche lontano maestro; ma solo in nome di un'idea di sé e del proprio destino una comunità può essere chiamata a fare i sacrifici più duri e trovare la forza di rialzarsi. Dobbiamo ricordare quanto ci è costato arrivare fin qui: la nostra originaria miseria, le lotte per vincerla, i morti disseminati lungo tutte le sanguinose vie del Novecento; ma pure le idee, le immagini, i libri, le musiche che sono usciti da questi luoghi. Così come dobbiamo ricordare che la politica non è sempre stata ladrocini, corruzione o ideologie dissennate, ma ha pure voluto dire speranze di libertà e movimenti di emancipazione, intelligenza del mondo, mobilitazione di passioni e di solidarietà, capacità di darsi ad una causa.

Se vuole avere un futuro, l'Italia ha bisogno di tornare a credere in se stessa, e per far ciò ha bisogno di ritrovare quel senso e quel ricordo di sé che ha smarrito. È su questo tavolo che al di là di ogni cosa si giocherà la vera partita del prossimo confronto elettorale. L'alternativa è una sottile disperazione, e il rassegnato governo del declino.

Ernesto Galli Della Loggia

16 ottobre 2012 | 8:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_16/una-spenta-idea-del-nostro-paese-ernesto-galli-della-loggia_9c95300a-174d-11e2-834a-587475fb3e23.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - IL NOTABILE A DISPOSIZIONE
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2012, 12:04:28 pm
IL CENTRO, I TECNICI, LA POLITICA

IL NOTABILE A DISPOSIZIONE

Ogni giorno di più il centro della scena italiana si affolla di un nuovo personaggio: il «notabile a disposizione». Per centro intendo proprio il Centro dello schieramento politico, quello gravitante dalle parti dell'Udc. È qui soprattutto, infatti, che il «notabile a disposizione» sembra trovare il suo habitat più confacente, la sua destinazione naturale.

Non è inutile fare nomi: Corrado Passera, Andrea Riccardi, Luca di Montezemolo, Lorenzo Ornaghi, Ernesto Auci, Raffaele Bonanni.
Come si vede c'è di tutto: ex banchieri, sindacalisti, professori universitari, ex manager. E c'è di tutto dal momento che ciò che realmente conta non è ciò che si è fatto o che si potrebbe saper fare; ciò che conta è altro: è per l'appunto essere un «notabile». Essere cioè una persona «in vista», circondata di «rispetto», intervistato quanto si conviene dai giornali, moralmente con le carte più o meno in regola, insomma «autorevole». Meglio se con qualche carica significativa già alle spalle.

Naturalmente il «notabile a disposizione» è a disposizione della politica. Pronto a rispondere a una sua eventuale chiamata. Il che significa che fino a quel momento il suo rapporto con la politica c'è e non c'è, è fatto essenzialmente di contiguità . Da questo punto di vista è facile capire come l'attuale dimensione del governo tecnico si stia rivelando la dimensione ideale per evocare il ruolo di tale figura. Che cos'altro è perlopiù un tale governo, infatti, se non per l'appunto un governo di notabili? Contiguità significa soprattutto due cose: non aver mai avuto a che fare con la vita interna di un partito, non averne di recente occupato cariche o ruoli, ma al tempo stesso - ciò è fondamentale - essere in grado di garantire al mondo dei partiti tradizionali di non rappresentare per essi alcun pericolo sostanziale, grazie a un vincolo di fondo derivante dalla comune condivisione di interessi, di codici espressivi, di complicità sostanziali e meno sostanziali. Un amalgama di modi di pensare, di coinvolgimenti e di comportamenti - quello richiesto al «notabile a disposizione» - che ha il suo massimo modello, direi il suo archetipo, in una figura come quella di Giuliano Amato.

Tipico dei «notabili a disposizione» presenti sulla scena italiana è il loro silenzio. Silenzio, beninteso, sulla sostanza delle cose: ché anzi tutti i sopra nominati sono invece sempre pronti a prodursi dovunque in alati discorsi sui massimi sistemi, sull'Europa, sui compiti del futuro, sulle necessità dell'ora, sull'impegno del Paese. Ma non ce n'è uno, mi sembra, che si sia fin qui avventurato, invece, a dirci come secondo lui dovrebbe essere affrontato e risolto un problema specifico, uno soltanto dei tanti problemi con cui ci troviamo alle prese. Non uno di questi illustri personaggi che abbia avuto l'ardire di scoprirsi con una proposta, di compromettersi con una cifra, di informarci come lui vede, chessò, la questione della divisione delle carriere dei magistrati o delle unioni omosessuali. Nulla: anche se ormai si annuncia imminente, imminentissima, la loro conclamata discesa nell'arena. Ma a pensarci bene non c'è da stupirsi. La mentalità del notabile - odierna caricatura italiana della società civile - è precisamente questa, infatti: «Voi mi dovete eleggere non per ciò che io penso o propongo (quasi sempre nulla), ma per ciò che io sono. Per il mio "rango". Che non deve essere certo riconosciuto da voialtri, insignificante plebe elettorale. Basta che lo facciano i miei pari: a voi, al massimo, non resta che sottoscrivere».

Ernesto Galli Della Loggia

3 novembre 2012 | 8:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_03/il-notabile-a-disposizione-ernesto-galli-della-loggia_1e96ed22-257d-11e2-a01c-141eb51207fd.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Un silenzio assai rumoroso
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2012, 05:00:27 pm
I PARTITI E GLI ERRORI DEL PASSATO

Un silenzio assai rumoroso

Adesso che in pratica sta iniziando la campagna elettorale è il momento di fare un bilancio di come i partiti hanno impiegato l'anno di tregua offerto loro dalla presenza del governo Monti. Anche perché è stata una presenza che da sola ha significato un continuo memento ai partiti stessi sia della loro inadeguatezza in un momento decisivo (vedi fuga generale nel novembre scorso di fronte al baratro in cui stava per precipitare il Paese), sia della loro condotta dissennata degli ultimi trent'anni. Insomma: gli argomenti su cui riflettere e discutere, e magari fare qualche autocritica per presentarsi agli elettori con un volto nuovo, non sono mancati di certo.

Invece niente. Dilettantismo e incapacità della leadership berlusconiana e dei suoi «colonnelli»; un Partito democratico e una sinistra da anni alle prese con il problema irrisolto di che cosa essere e con chi; concezioni errate della democrazia, del merito e dei diritti, immesse a piene mani per decenni nella società e nell'amministrazione pubblica con il consenso generale; un federalismo demenziale avallato da tutti; un welfare costruito in modi e misure incompatibili con le risorse: su tutte queste cose non si è sentito nulla se non un grande silenzio. Di bilanci del passato neppure l'ombra. Così come neppure la minima spiegazione del perché si è arrivati al baratro di cui sopra: gli elettori di destra, immagino, convinti che sia stata tutta colpa di Fini e della Merkel, quelli di sinistra invece, che la colpa sia stata naturalmente tutta di Berlusconi.

Ma l'esempio più clamoroso dell'afasia intellettuale e politica che attanaglia i partiti italiani mi sembra il fatto che pur arrivati al punto dove siamo arrivati a nessuno di essi (come del resto, intendiamoci, a nessuno dei nuovi «poli» e «poletti» del notabilato centrista) venga in mente di mettere all'ordine del giorno il problema della Costituzione. Ma come? In pratica negli ultimi anni intere parti di essa sono state virtualmente disattese o clamorosamente distorte, alcune sue nuove parti sono considerate da tutti un'autentica sciagura (vedi il famigerato Titolo V), il sistema del bicameralismo perfetto da essa istituito è con tutta evidenza una cosa che non regge, alcuni organi da essa previsti come il Cnel non servono assolutamente a nulla, ma pur con tutto ciò nessuno ha qualcosa da dire, da suggerire, da proporre. Quasi che ormai sia prevalsa l'idea che tanto le regole non servono a nulla; e che dunque la Costituzione italiana non sia altro che un puro totem ideologico. Il totem per l'appunto che tra qualche settimana Roberto Benigni - a dispetto che egli della Costituzione e di tutto ciò che le sta dietro non sa giustamente niente di niente - tuttavia chiamerà le folle televisive ad adorare, avendo deciso lui, dall'alto della sua sapienza, che la nostra è la Costituzione «più bella» (questo precisamente il titolo annunciato della trasmissione-rito).
E così è semplicemente ovvio che alla fine, non avendo ripensato nulla del passato, non avendo meditato affatto sugli errori gravissimi commessi da loro e dal Paese, oggi i partiti della Seconda repubblica non riescano a dire nulla neppure del futuro dell'Italia.

Dalla bocca dei loro leader escono solo propositi vaghi, insignificanti: mai l'impegno di fare una cosa precisa, con l'indicazione dei tempi e dei mezzi necessari. Mentre la formula «Monti dopo Monti o Monti bis», ripetuta all'infinito come una giaculatoria perché evidentemente ritenuta carica di significati forti, suona in realtà sempre di più come la formula della massima deresponsabilizzazione («È lui, mica noi, che dovrà decidere come togliere le castagne dal fuoco»). Tanto, quello che importa - sembra essere la lezione dell'ultimo anno - non è governare: è prendere i voti per sedere in Parlamento.

Ernesto galli della Loggia

19 novembre 2012 | 7:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_19/un-silenzio-assai-rumoroso-galli-della-loggia_eef16d9c-320e-11e2-942f-a1cc3910a89d.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il complesso della destra
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2012, 10:22:12 pm
L'EDITORIAle

Il complesso della destra

Ciò che resta del Pdl


In Italia Destra e Sinistra sono entrambe in una condizione di incompletezza anche se in modo opposto. Mentre la Sinistra, infatti, gode di un forte e stabile insediamento socio-culturale, che però riesce molto difficilmente ad allargare fino a conseguire una propria maggioranza elettorale, la Destra, invece (considero Destra tutto ciò che non è Sinistra, e parzialmente dunque anche la vecchia Democrazia cristiana, pur con le specificità di cui appresso) la Destra, dicevo, può invece contare fisiologicamente su una maggioranza di voti, che però non riesce a trasformare in un autentico insediamento nel tessuto socio-culturale del Paese. L'Italia, insomma, è un Paese che per sua natura è intimamente conservatore e vota perlopiù a destra o per il centrodestra, ma ha una prevalente cultura politica organizzata e diffusa che è di sinistra. Nelle urne vince per solito la Destra (o il Centro che raccoglie gran parte di voti di destra, com'era la Dc, che aveva di certo anche un suo radicamento - cattolico per un verso e di sottogoverno per l'altro - ma non seppe aggiungerne alcuno specificamente suo e diverso), ma nella società civile quella che di gran lunga si fa più sentire è la voce della Sinistra.

Proprio quanto ho appena detto spiega due tratti specifici della vita politica repubblicana. Da un lato, il fatto che a cominciare da Togliatti la Sinistra, consapevole del carattere organicamente minoritario del proprio consenso elettorale, ha quasi sempre perseguito un accordo con una parte della non-Sinistra (in questo, a conti fatti, sono consistiti il «dialogo con i cattolici» e l'invenzione della «sinistra indipendente»); e dall'altro, invece, che la Destra, anche se elettoralmente fortissima, sembra esistere in un certo senso solo nelle urne, essendo in tal modo esposta al rischio di collassi politici e d'immagine improvvisi, capaci di portare in pratica alla sua dissoluzione. È precisamente ciò che in qualche modo assai complesso accadde alla Dc nel 1993-94, e che ora sta capitando in modo diretto e catastrofico al Pdl.

Il quale paga il prezzo del fatto che, nato come un partito di plastica, in tutto e per tutto artificiale, e poi inebriato dal successo elettorale, non si è mai curato di diventare qualcosa d'altro: qualcosa per l'appunto che avesse un retroterra effettivo di idee e di valori nella società italiana. Non se ne è mai curato, vuoi a causa dello strabordante, narcisistico senso di onnipotenza del suo capo, personalità certo fuori dal comune, ma in sostanza di scarsissima intelligenza delle cose politiche e di ancor più scarsa capacità di leadership (consistente ai suoi occhi in nulla più che nel principio: comando perché pago, o perché ho il potere di farlo). E vuoi per la prona accondiscendenza di tutti coloro che egli ha chiamato intorno a sé: chiamati, e rimastigli intorno, proprio perché capaci di accondiscendere sempre, e in forza di ciò, solo di ciò, di avere un ruolo importante.

Così il Pdl è stato in grado, sì, tesaurizzando il sentimento antisinistra del Paese, di vincere due o tre elezioni. Ma nel momento in cui limiti e pochezze di Berlusconi sono emersi in pieno (già tre anni fa), e lo stesso Berlusconi si è trovato rapidamente messo all'angolo, allora sotto i piedi del vertice, ostinatosi fino all'ultimo a non vedere o a far finta di nulla, alla fine si è aperto il baratro. E tutti i nodi sono venuti al pettine tutti insieme. Il vertice del Pdl oggi paga per le mille cose promesse, annunciate e non fatte, per il malgoverno e per il sottogoverno; paga per una politica estera priva di qualunque autorevolezza, biliosa e inconcludente; paga per lo straordinario numero di gaglioffi di ogni calibro che in questi anni hanno scelto il Pdl come proprio rifugio e che non poche volte lo stesso vertice ha accolto al suo interno senza che nessuno protestasse; paga per gruppi parlamentari scialbissimi, gonfi di signore, di avvocati di varia risma e di manager pescati dagli addetti di Publitalia non si sa come; e non si finirebbe più.

Ma paga soprattutto perché si è mostrato incapace (proprio il partito del Grande Comunicatore!) di parlare al Paese. Infatti, presentatosi originariamente come espressione massima della società civile, il Pdl è diventato in breve quanto di più «politicistico» e autoreferenziale potesse immaginarsi, presente e attivo quasi esclusivamente negli spazi istituzionali. Ma altrove del tutto assente, a dispetto di tanti suoi elettori in buona fede che oggi non meritano certo lo spettacolo a cui sono costretti ad assistere. In tal modo il Pdl non ha fatto altro che confermare l'antica difficoltà della Destra italiana postfascista ad agitare nel Paese temi e valori propri, a rappresentarli e a diffonderli con la propria azione politica, sì da costruirsi grazie ad essi - in positivo, non più solo per semplice contrapposizione alla Sinistra - un proprio effettivo retroterra socio-culturale. Quei valori che per l'appunto avrebbero dovuto essere i suoi - il merito, la competizione, la rottura delle barriere corporative, il senso e l'autorità dello Stato, la sana amministrazione delle finanze e dei conti pubblici, la difesa della legalità, la cura per l'identità e per il passato nazionali, per la serietà degli studi - ma che invece essa ha finito per disperdere al vento o per regalare quasi tutti alla sinistra. Così da trovarsi oggi, tra una rissa interna e l'altra, ormai avviata verso una meritata irrilevanza nel più scettico disinteresse degli italiani.

Ps: per anni, ogni qualvolta mi è capitato di muovere una qualunque critica al Pdl mi è arrivata puntuale una sesquipedale e sdegnata messa a punto-smentita da parte dei coordinatori del partito, Bondi, La Russa e Verdini. Immagino che questa volta, però, decidano di risparmiarcela: a me e ai lettori del Corriere .

Ernesto Galli della Loggia

25 novembre 2012 | 9:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_25/il-complesso-della-destra-ernesto-galli-della-loggia_55ec763c-36cd-11e2-8dd3-0837590598e8.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il riflesso condizionato
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:54:29 pm
L CAVALIERE E I SUOI CRITICI

Il riflesso condizionato

La rimonta elettorale a cui si appresta Silvio Berlusconi è un'impresa forse disperata che egli affronterà adoperando tutti gli strumenti, si può essere sicuri. Ma forse dentro di sé l'ex premier conta soprattutto su qualcosa che non dipende da lui.
Conta sull'aiuto dei suoi avversari: aiuto che ogni volta gli è puntualmente arrivato e che anche stavolta sembra sul punto di non mancare.


L'aiuto che consiste nel fare di Berlusconi stesso, della sua persona, il centro ossessivo della campagna elettorale, nel prendere ogni pretesto per metterlo sotto accusa, nel trasformare le elezioni in un giudizio di Dio sul Cavaliere. Magari con l'involontario fiancheggiamento di qualche Procura della Repubblica. Già in passato questo si è rivelato il modo migliore per galvanizzare l'uomo e quell'Italia che ne apprezza la ruvida personalità; fatta perlopiù di gente non sofisticata che di Ruby e delle «olgettine» se ne infischia pensando che l'Imu è ben più importante.

Quell'Italia digiuna di Montesquieu che per esperienza secolare è portata ad avere della giustizia un'idea alquanto diversa da quella del professor Zagrebelsky, e alla quale non sembra poi tanto assurdo e riprovevole associare alle aule dei tribunali un sentimento come minimo di diffidenza.

Si tratta di un'Italia per nulla stupida che è giusto presumere abbia capito benissimo la misura del fallimento del governo Berlusconi di fronte alla crisi economica. Ma spesso è pure quella che sta pagando il prezzo più alto alle dure difficoltà in cui ci troviamo: e perciò è tentata di dare ascolto anche alle più sballate promesse che da qui a febbraio il Cavaliere saprà escogitare. Bene: il miglior favore che gli avversari possono fare a quest'ultimo è di opporre alle sue promesse, invece di un proprio autonomo e ragionato «no», la litania dell'Europa e del suo «non si può», il cipiglio di Barroso, i «mercati», lo «spread», quello che dice Bruxelles, quello che pensa Berlino.

Sarebbe un errore marchiano (lo stesso in cui è caduto ripetutamente il governo Monti): il no alle promesse strampalate non deve apparire dettato dall'obbedienza a cose o persone fuori dai nostri confini. Dev'essere un no tutto pensato e ragionato in casa nostra. Guai, insomma, se si lasciasse a Berlusconi la possibilità di sfruttare il sentimento nazionale, che non solo è ancora forte nelle grandi masse (è permesso rallegrarsene?), ma è in grado come nient'altro di mettere pericolosamente insieme motivi di destra e di sinistra. Al qual proposito, perché mai la Sinistra, così ricca di ottime amicizie fuori d'Italia, non trova modo di avvertire il Financial Times , l 'Economist , le Monde , il presidente Schultz, e quant'altri, che a questo punto ogni loro ulteriore bordata contro Berlusconi, lungi dal danneggiarlo ulteriormente, rischia invece di servire solo a farlo apparire come il coraggioso paladino in guerra contro l'arroganza straniera?

C'è un ultimo enorme favore elettorale che si può fare a Berlusconi: quello di concedergli l'esclusiva della contrapposizione alla Sinistra (che per lui vuol dire giocare la carta dell'anticomunismo). Una contrapposizione, come si sa, che ha tuttora buoni motivi, ma che in Italia ha soprattutto una grande storia alle spalle e anche perciò un grande richiamo. Non fare questo favore a Berlusconi è affare del Centro, evidentemente. E dovrebbe essere un affare ovvio, mi pare: se il Centro non è contro la Sinistra oltre che contro la Destra, infatti, che razza di Centro è mai?

Ernesto Galli Della Loggia

12 dicembre 2012 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_12/riflesso-condizionato_4b4b2eb6-4425-11e2-a26e-c89e7517e938.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Un sentiero assai stretto
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2012, 11:41:04 pm
TECNICHE DI UNA CANDIDATURA

Un sentiero assai stretto

Viene dato da molti per probabile, anche se il principale interessato continua a non pronunciarsi, che alle prossime elezioni intorno al nome di Mario Monti e ad un programma da lui delineato si costituisca una confederazione di varie liste, le quali saranno diciamo così autonome ma avranno in lui il proprio punto di riferimento, insomma il proprio capo politico. Un capo però alquanto sui generis. Monti, infatti, sarà - potrà essere - solo un capo simbolico. Un capo per procura. E questo perché, essendo già senatore a vita, gli sarà consentito, sì, di far comparire il proprio nome sulla scheda elettorale delle varie liste partecipanti alla coalizione, ma non potrà mettere in gioco la propria persona nella competizione elettorale né per la Camera né per il Senato. Se dunque per ipotesi ottenesse la maggioranza parlamentare e ritornasse alla guida del Paese, si verificherebbe la singolare circostanza per cui egli sarebbe l'unico capo di governo dell'Unione europea non solo privo di un suo partito, ma neppure uscito direttamente consacrato dal risultato delle urne.

È difficile non vedere in tutto ciò un ennesimo scostamento rispetto al modello disegnato dalla nostra Carta costituzionale, del resto ormai già divenuta per merito del servizio pubblico (!) televisivo l'oggetto delle divagazioni di un comico - anche questo, credo, un caso unico in Europa. Si tratta peraltro di uno scostamento destinato a sua volta a produrre tutta una serie ulteriore di anomalie e di ambiguità.

È probabile, ad esempio, che la scelta delle candidature nelle varie liste - in queste elezioni una scelta carica di significato politico come poche altre volte - non possa avvenire, diciamo così, che per interposta persona, attraverso intermediari incaricati di riferire e attuare le indicazioni del premier in pectore . Un sistema tutt'altro che trasparente ed esposto, come si capisce, a mille equivoci, a fraintendimenti e pressioni di ogni tipo. Per non parlare della campagna elettorale. Sarà possibile a Monti quel dialogo continuo con i cittadini che ne costituisce un momento essenziale? E in quale veste egli comparirà nei dibattiti televisivi con gli altri capipartito candidati a un posto di parlamentare, lui che non è candidato a nulla ma in realtà lo è alla massima carica politica (carica che peraltro nel nostro ordinamento non può essere conferita dal voto popolare ma solo da una maggioranza parlamentare su designazione del capo dello Stato)?

E se poi, mettiamo, la coalizione guidata dall'attuale premier dovesse risultare sconfitta alle elezioni, e domani si formasse un governo Bersani di centrosinistra in tutto e per tutto autosufficiente, saremo forse chiamati ad assistere allo spettacolo - diciamo pure singolarissimo - di un'opposizione parlamentare rappresentata tra gli altri da un senatore a vita, cioè per l'appunto da Monti? Con un senatore a vita che ogni volta che può, come è giusto che faccia un leader dell'opposizione, attacca pubblicamente il presidente del Consiglio? Oppure - sempre nel caso di una mancata vittoria - Monti abbandonerà il campo per chiudersi in un austero riserbo istituzionale? Ma che cosa dovranno pensare allora coloro che gli hanno dato il voto? Che hanno votato per un fantasma?

Sono queste alcune delle perplessità che suscita la discesa sul terreno elettorale del presidente del Consiglio. La cui misura di stile, di prudenza e di onestà, che gli è congeniale appare destinata ad essere sottoposta di sicuro - se mai egli decidesse di partecipare indirettamente alle elezioni - ad una prova non indifferente.

Ernesto Galli Della Loggia

19 dicembre 2012 | 7:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_19/un-sentiero-assai-stretto-gallidellaloggia_fa7f5910-49a3-11e2-8f39-57d26b118e07.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - Problemi concreti, domande scomode
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2013, 06:35:26 pm
PAR CONDICIO SENZA MINUETTI

Problemi concreti, domande scomode

Nella prossima settimana inizia per la radio e la televisione la par condicio. Inizia cioè quel periodo di stretta regolamentazione circa i tempi e i modi della presenza dei politici previsto dalla legge per le campagne elettorali. I candidati saranno ospiti delle tribune politiche della radio e della tv per dibattere tra di loro, ma soprattutto per rispondere alle domande dei giornalisti. Così come del resto stanno facendo con particolare intensità già da qualche settimana con decine di interviste sui giornali (e, ahimè, anche via twitter. Perfino il presidente Monti, il quale a mio modesto avviso avrebbe tutto da guadagnare invece se ne facesse a meno).

L’occasione è buona, allora, per osservare che nel degrado così evidente che ha colpito la politica italiana negli ultimi vent’anni qualche colpa, forse, ce l’hanno pure l’informazione e chi ci lavora. Una soprattutto: quella di aver troppo tollerato la vacuità della chiacchiera politica. Cioè di aver troppe volte permesso ai politici di «parlare d’altro», di non dire nulla, di sottrarsi a ogni confronto con i fatti ricorrendo alle parole. Di aver troppe volte concesso ai propri interlocutori di indulgere al vizio, molto italiano, di intendere la politica non come cose da fare ma come discorso di puro posizionamento: «Se lei, egregio onorevole A, si sposta troppo a destra non teme che allora B occupi più spazio al centro?»; «Ma se il PP vuole perseguire una linea di destra come fa a tenere agganciato il DD che invece vuole da destra spostarsi al centro?», e così via interrogando e interrogandosi su tutti gli arabeschi geometrico-politici immaginabili.

Ora, non intendo dare consigli o fare lezioni a nessuno ma esprimere solo un augurio, che forse è condiviso da qualche lettore. Mi piacerebbe che nei prossimi quarantacinque giorni si prendesse l’abitudine di sottoporre ai candidati al Parlamento questioni e problemi veri. Non solo, ma—cosa alla fin fine non così inaudita —anche pretendere da loro risposte altrettanto vere.
Mi prendo la briga di fare degli esempi.

a) Che cosa non ha funzionato nell’adozione dell’euro? E che cosa dovrà ottenere l’Italia dagli altri partner della moneta unica?

b) La priorità è la crescita. Per aiutare la ripresa economica può indicare una misura a favore delle imprese e una a favore del lavoro?

c) Il welfare in Italia ha bisogno di modifiche: le politiche di austerity e la riforma delle pensioni hanno dato i primi frutti, ma che cosa andrebbe fatto ora per le fasce più deboli? Come intervenire per sostenere l’occupazione dei giovani e delle donne?

d) La pressione fiscale raggiunge ormai il 45%. C’è qualche tassa-imposta che abolirebbe o ridurrebbe? E con quali proventi sostituirebbe il mancato introito? Ritiene possibile la riduzione delle imposte sui redditi da lavoro?

e) Quali misure concrete propone per ridurre la spesa pubblica? Può indicarne almeno una?

f) Dei moltissimi contributi a fondo perduto che lo Stato eroga alle più varie attività produttive pensa che ne andrebbe abolito qualcuno?

g) La semplificazione della macchina burocratica non è andata mai al di là degli annunci. Quale sarà il primo provvedimento in questa direzione?

h) Una delle fragilità del sistema Italia è il calo dei consumi. L’aumento dell’Iva potrà essere cancellato? Come incentivare gli acquisti?

i) Quale riforma per il sistema giudiziario: è favorevole alla separazione delle carriere tra giudice e pm e all’abolizione dell’appello in caso di assoluzione?

l) Che cosa propone per risolvere il problema delle carceri: è favorevole all’amnistia e alle depenalizzazioni o servono nuovi istituti penitenziari?

m) Che cosa pensa: della concessione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori non italiani; di matrimoni e adozioni per le persone omosessuali?

n) Vanno sostenute la diffusione di termovalorizzatori per lo smaltimento dei rifiuti e grandi opere come la Tav? Sono troppe domande, forse. Forse sì, diciamo comunque che a un italiano medio basterebbe ascoltare la risposta a solo tre o quattro di esse per farsi un’idea di chi ha davanti. E per scegliere mi pare che basti e avanzi.

Ernesto Galli della Loggia

6 gennaio 2013 | 8:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_06/dellaloggia-problemi-concreti_f6ad7ba2-57cf-11e2-9a31-1eca72c52858.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Gli equivoci dell'antipolitica
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2013, 05:54:27 pm
I PARTITI E LA SOCIETÀ CIVILE

Gli equivoci dell'antipolitica

Tutto cominciò con «Mani Pulite». Poi Berlusconi terminò l'opera. Fu nel 1992-93, infatti, che in Italia, sull'onda della protesta contro la corruzione dei partiti, iniziò a diffondersi fino a dilagare un sentimento di disprezzo per la classe politica in quanto tale, un sentimento di avversione profonda per la politica come professione, direi per la dimensione stessa della politica e per la sua naturale (e aggiungo sacrosanta) pretesa di rappresentare la guida di una società. Giunto il momento di tirare le fila alle elezioni del '94, l'uomo di Arcore cavalcò l'onda da par suo. Mise insieme tutti gli ingredienti appena detti; li miscelò con il confuso antistatalismo ideologico prodotto dalla globalizzazione; e si presentò come il profeta di quella società civile che nel biennio precedente era stata osannata da tutti (in Italia qualunque idiozia, purché di moda, può contare quasi sempre su adesioni unanimi: il federalismo è un altro caso), osannata come la matrice per antonomasia del «nuovo» e dell'«onestà».

Da allora tutto il fronte antiberlusconiano non si stanca di denunciare l'«antipolitica» che rappresenterebbe l'anima del «populismo» del Cavaliere, di denunciarne ad ogni occasione i pericoli. Ma ciò nonostante proprio da allora, e forse non per caso, esso sembra spinto irresistibilmente a imitarlo. Da allora anche gli avversari di Berlusconi sono diventati sempre più inclini a vellicare i luoghi comuni dell'antipolitica. Come si vede bene oggi, tanto al centro che a sinistra, con l'inizio di questa campagna elettorale.
Dietro un omaggio di facciata (per carità, non sia mai detto «scendere», bensì «salire», in politica), in realtà l'intera piattaforma centrista di Monti si fa un vanto esplicito, ripetuto, insistito, della propria (reale?) estraneità alla politica: estraneità che neppure si sforza di nascondere la sua effettiva ostilità alla politica. Ne è espressione eloquente il bando comminato a chiunque abbia seduto alla Camera o al Senato per più di un certo numero di anni.

Monti e i suoi collaboratori hanno aderito all'idea - questa sì tipica di ogni populismo - che la politica non ha bisogno di persone esperte dei suoi meccanismi, persone pratiche del funzionamento delle amministrazioni, conoscitrici dei regolamenti delle assemblee parlamentari. No. Il nostro presidente del Consiglio - parlano per lui le procedure con cui ha voluto formare le liste dei candidati - sembra aver fatto proprio, invece, il pregiudizio volgare secondo cui il professionismo politico sarebbe il peggiore dei mali. Mentre un industriale, un economista, un professore universitario - loro sì, espressione della celebrata «società civile» - sarebbero invece per ciò stesso non solo onesti e disinteressati, e capaci di scelte giuste nonché di farle attuare presto e bene, ma anche in grado di soddisfare quella condizione non proprio tanto secondaria che è il consenso.

Pure per questa via, insomma, affiora nell'insieme del montismo, se così posso chiamarlo, quell'opzione irresistibilmente tecnocratica che, se ne sia consapevoli o no, rappresenta essa pure un esito classico dell'«antipolitica».
La quale antipolitica poi, a ben vedere, alla fine non è altro che politica con altri mezzi. Lo dimostra quanto sta accadendo sempre in queste settimane stavolta a sinistra, nel Pd. Qui pure tutta l'operazione della designazione «dal basso» delle candidature elettorali è stata condotta - in maniera perlopiù non detta, ma comunque chiarissima - facendo leva sull'ostilità verso il professionismo politico, verso chi occupava da troppo tempo la fatidica poltrona. Come appare ormai evidente, si è trattato di una versione per così dire dolce della renziana «rottamazione», guidata però dall'abile regia della segreteria Bersani. La quale, facendosi forte del mito della «società civile» e del «rinnovamento» - reso in questo caso più perentorio dal comandamento del «largo ai giovani e alle donne» - se ne è servito per fare fuori buona parte della vecchia rappresentanza, a lei estranea, e sostituirla con «giovani turchi» e dirigenti interni vicini al nuovo corso. E quindi per rafforzarsi.

Ma naturalmente poche cose sono così sicure come il fatto che, al centro come a sinistra, coloro che risulteranno eletti con il crisma salvifico della società civile, anche loro, alla fine, si adegueranno disciplinatamente ai vincoli e agli obblighi della politica. Anche loro obbediranno a quella regola suprema della politica che chi ha più forza, più potere, comanda: e poiché la gran parte dei cosiddetti esponenti della società civile di forza propria ne hanno poca o nulla, proprio essi - c'è da scommetterci - risulteranno in definitiva i più obbedienti.

Ernesto Galli Della Loggia

14 gennaio 2013 | 9:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_14/equivoci-antipolitica_c3595e66-5e13-11e2-8040-f298aabecc61.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Le relazioni miracolose
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2013, 05:57:11 pm
VERE ÉLITE E CIRCOLI DEL POTERE

Le relazioni miracolose

Che cosa indica nell'Italia di oggi la parola notabile? Non è forse solo un modo volutamente - ma immotivatamente - spregiativo di definire l'élite, cioè quel vertice che esiste e adempie a un ruolo decisivo in ogni società? Non credo. Notabili ed élite sono cose diverse e proprio l'Italia ne è una prova: tra l'altro - come dirò - con l'uso tanto diffuso quanto ambiguo dell'espressione «società civile».

L'élite propriamente detta è composta di figure (spesso con un adeguato sfondo familiare) dotate di competenza in ruoli specifici nel campo delle attività private o dell'amministrazione, nonché di riconosciuto valore, integrità e successo.

Il notabile italiano, invece, è un'altra cosa. È innanzitutto (ma in misura minore) chi, a partire da una base di eccellenza personale, arriva alla politica per cooptazione ma vi rimane poi di fatto vita natural durante (sempre eludendo però il meccanismo della ricerca del consenso elettorale grazie al seggio parlamentare o altro ruolo pubblico assegnato «dall'alto»). Sono, per antonomasia, quegli «intellettuali» e «tecnici» beneficiati in particolare dalla Sinistra, salvo quelli - in genere i migliori tra loro - che dopo una legislatura capiscono come stanno le cose e tagliano la corda. Vi è poi un secondo tipo di notabile, quello diciamo così più autentico, il notabile doc. È colui al quale, forte di opportune relazioni personali quasi sempre politiche (di rado un'eccellenza professionale), non viene già offerto di svolgere uno specifico incarico pubblico in relazione alle sue competenze, bensì - sia pure talora a partire da queste - viene cooptato in un circuito di potere diffuso, al cui centro c'è sempre e comunque la politica. Per rimanervi anch'egli vita natural durante. È il jolly del potere italiano. È il notabile che può essere e fare di tutto: guidare un gabinetto o un ufficio legislativo, un'Authority, un governo tecnico, l'Aspen, un'enciclopedia, un ente pubblico, una fondazione bancaria, il Touring Club, la Federazione Giuoco Calcio, il Cnel, una società aeroportuale, la Cassa depositi e prestiti, Cinecittà, la Rai, un Consiglio superiore di qualunque ministero, le Poste, insomma tutto. Oltre che, beninteso, sedere in centinaia dei più vari consigli di amministrazione; e naturalmente tutto ciò per decenni, passando da un posto all'altro senza alcuna particolare competenza, e magari sommando contemporaneamente le prebende e gli incarichi più eterogenei (inclusi quelli parlamentari).

Come si vede, in Italia è la politica il brodo di coltura essenziale di questa categoria di persone. Non solo perché è la politica, con il suo storico statalismo, che assicura l'enorme estensione delle posizioni, dei posti disponibili per i notabili, ma perché essa costituisce l'amalgama omogeneizzante (ormai transpartitico) che rende possibile la compenetrazione/sovrapposizione di tutto e di tutti: e dunque la moltiplicazione diffusiva del potere di ognuno. È così che per esempio qualunque notabile può assicurare un posto al proprio coniuge o al proprio figlio in pratica dappertutto. È per l'appunto sempre questa esigenza della compenetrazione, in vista dell'accrescimento della capacità d'influenza, che spiega la tenace propensione del notabilato italiano di origine politica ad autonomizzarsi. In particolare dando vita e riconoscendosi in reti di legami alternativi a quelli ufficiali di tipo politico-partitico: da quello di parentela (più frequente di quanto si pensi) al legame di tipo massonico, oggi più in voga che mai, a quello delle «cricche» e consorterie consimili.

Cresciuto enormemente in potenza con la seconda Repubblica, il notabilato è divenuto in tal modo, e sempre più spesso, il serbatoio e insieme il traguardo, la «sistemazione», del ceto politico, una volta lasciato l'impegno parlamentare.

Se così stanno le cose si capisce perché è tanto difficile per l'Italia avere una classe dirigente. Questa è possibile, infatti, quando l'élite come l'ho definita sopra (figure con competenza in ruoli specifici, di riconosciuto valore, integrità e successo), quando i membri di tale élite, dicevo, sono in grado di accedere ai luoghi del comando pubblico (statale e non). Proprio ciò in Italia però non avviene, non può avvenire, dal momento che tali luoghi sono pressoché interamente monopolizzati dal notabilato d'origine politica. Il quale vi impone le sue regole: prima di ogni altra la regola della inamovibilità. Il massimo a cui un membro dell'élite può aspirare in Italia è un inutile posto di senatore o deputato, nel quale si accorgerà presto chi è che comanda davvero. In quest'ottica emerge in pieno il carattere sostanzialmente di alibi che finisce per avere la nozione di «società civile»: una nozione, guarda caso, che solo qui da noi ha la diffusione che sappiamo. Ma che in realtà serve al ceto politico per evitare un confronto vero con le eccellenze sociali, con l'élite vera e propria, e di conseguenza per evitare il problema di dar vita ad un sistema di potere complessivamente diverso dall'attuale. Viceversa l'evocazione rituale della «società civile» serve piuttosto per fingere di rinnovarsi, di «andare verso il popolo», approvvigionandosi (tuttavia solo in occasione delle elezioni) di persone, perlopiù sconosciute o di secondo rango, e però pomposamente esibite come provenienti per l'appunto dalla «società civile». Destinate regolarmente, come è ovvio, a non contare niente e a poter fare ancor meno.

ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

5 febbraio 2013 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_05/relazioni-miracolose-galli-loggia_62e0dad8-6f5b-11e2-b08e-f198d7ad0aac.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il seme fertile di una rinuncia
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2013, 05:27:27 pm
UNA DIVERSA VISIONE DEL SACRO

Il seme fertile di una rinuncia

Con il passare delle ore appare sempre più evidente che il gesto con cui Benedetto XVI ha posto fine al suo pontificato, lungi dall'essere un gesto di «rinuncia», è stato in realtà l'opposto: un gesto di governo di grande portata e insieme un atto di alto magistero spirituale. Un gesto che ha qualcosa di quella risolutezza del pensiero, pronta a divenire decisione concreta nella prassi, di cui negli ultimi due secoli hanno dato tante prove le vicende della Germania di cui Ratzinger è un figlio.

Le dimissioni papali vogliono dire con la forza delle cose un'oggettiva desacralizzazione della sua carica. Il contenuto teologico di questa (l'essere cioè egli il vicario di Cristo) rimarrà pure inalterato, ma sono i suoi modi di designazione e il suo esercizio, la sua «aura», che vengono riportati a una dimensione assolutamente comune. Se infatti è possibile che il Papa si dimetta - rovesciando così una prassi secolare del vertice supremo - allora anche altre novità sono possibili. Anche altre prassi secolari possono egualmente essere rovesciate ai livelli inferiori. Con il gesto di Benedetto XVI è dunque il modo d'essere della struttura centrale del governo della Chiesa che viene in realtà messo in discussione: sottoposto al riscontro dei fatti, alla dura prova del tempo e della pochezza umana. E i fatti di quella struttura, come si sa, hanno offerto ultimamente uno spettacolo penoso di cattivi costumi, di calunnie, di giochi di potere, di ambizioni senza freno, di latrocini. Colpa delle regole fin qui in vigore nella Curia e non solo lì: ma quelle regole possono e devono cambiare, dice il gesto del Papa. Come per l'appunto egli ha fatto con una regola (e quale regola!) che lo riguardava. Può ancora, per esempio, la sua stessa elezione essere riservata a un pugno di anziani oligarchi maschi per entrare nel cui novero non si bada a nulla? Può ancora il potere delle Congregazioni essere tutto concentrato nelle loro mani? È ammissibile che esista tuttora un bubbone come lo Ior, la banca vaticana?

Le dimissioni di Benedetto XVI interrogano esplicitamente la Chiesa su queste e molte altre questioni di fondo. Con un sottinteso non detto che però non è difficile intuire: o voi o io. In questo senso esse rappresentano un gesto di governo di assoluta risolutezza: l'unico probabilmente che gli consentiva il suo isolamento politico e la fragilità del consenso interno. Un gesto estremo, il più clamoroso, compiuto senza esitare.

Tuttavia, si dice, le dimissioni sono pur sempre un tirarsi indietro, una rinuncia. Certamente. Ma una rinuncia che in questo caso suona come un invito a ridefinire la gerarchia delle cose, a stabilire priorità più autentiche, a distinguere ciò che conta da ciò che non conta. E dunque a cambiare rispetto a ciò che siamo. Un invito che va ben oltre i confini della cattolicità. Di fronte al travolgente mutamento dell'epoca che incalza da ogni dove, il capo della più antica e veneranda istituzione dell'Occidente, dà una lezione spirituale di segno fortissimo mutando esso per primo attraverso la rinuncia. Le nostre società, noi stessi - esso sembra dirci - non possiamo essere più ciò che fino ad oggi siamo stati. I segni dei tempi ci impongono di trovare altre regole, di immaginare altri scopi, altri ideali per il nostro stare insieme. Dal tratto più intimo, più sobrio, più vero. È di un tale rinnovamento che abbiamo bisogno. Ma la premessa necessaria non è proprio, secondo l'esempio del Papa, dichiarare consapevolmente il proprio tempo finito?

Ernesto Galli della Loggia

13 febbraio 2013 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_13/il-seme-fertile-di-una-rinuncia-ernesto-galli-della-loggia_3901ba56-75a6-11e2-a850-942bec559402.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA VINCOLO ESTERNO E VIZI ITALICI
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 05:48:17 pm
VINCOLO ESTERNO E VIZI ITALICI

Il sentimento di una Nazione

Le elezioni di domenica rappresenteranno la prova del fuoco per quella tendenza di fondo - la tendenza a governare in nome del «vincolo esterno» - con la quale negli ultimi trent'anni le classi dirigenti italiane hanno pensato di risolvere i problemi del Paese. Un Paese fin dall'Unità sentito (non a torto!) come assolutamente restìo a cambiare abitudini e pregiudizi inveterati, legato ai suoi vizi, ai suoi mille interessi contrapposti, leciti e meno leciti, ai suoi tenaci corporativismi d'ogni tipo; un Paese quindi sempre riottoso alle direttive dall'alto, alle norme, abituato a usare lo Stato e a piegarlo al proprio utile, ma mai o quasi mai a piegarsi all'utile di quello. Insomma politicamente indomabile.
Che tale fosse l'Italia che la Repubblica aveva ereditato dal passato le classi dirigenti hanno dovuto prenderne atto specialmente a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Allorché fu chiaro che il carnevale della spesa pubblica facile, iniziato quindici anni prima, stava creando una situazione finanziariamente insostenibile, e che però togliere a un tale Paese le rendite, i privilegi, gli abusi, o semplicemente ridimensionare i benefici, a cui esso si era ormai abituato, era impossibile. Impossibile riorganizzare l'amministrazione pubblica all'insegna del merito e dell'efficienza; impossibile rivedere il catastrofico ordinamento regionale; impossibile rivedere le leggi dappertutto eccessivamente permissive appena approvate; impossibile rifare la scuola sempre più sfasciata, e così via per molte, troppe voci. Impossibile beninteso stante il suffragio universale: dal momento che chiunque ci avesse provato avrebbe pagato di sicuro un prezzo elettorale catastrofico.
Si cominciò allora a toccare con mano quanto fosse ormai impossibile cambiare dall'interno il rapporto politica/società. Si cominciò allora ad ascoltare sempre più spesso il ritornello «Sì, è questo ciò che ci vorrebbe, ma non si può fare!», «Sì, le cose stanno così, questa è la verità, ma non la si può dire!». Lo sussurravano non pochi politici intelligenti e informati: ma regolarmente e inevitabilmente rassegnati. Intimidita, la politica si trovò ormai messa nell'angolo da un Paese che di prendere atto del modo in cui stessero le cose non voleva assolutamente saperne.
È a questo punto, in questa distretta sempre più soffocante, che - per convincere la società italiana di ciò di cui essa da sola non poteva convincersi, per farle accettare ciò che da sola non avrebbe mai accettato - la parte più avvertita della classe dirigente si decise a imboccare con decisione la strada del vincolo esterno. Sull'esempio - ormai si può dire - di quello che in fondo era stato lo stesso atto fondativo del regime repubblicano: quando dopo il 1943 fu per l'appunto un fattore esterno, la sconfitta militare e la vittoria alleata, a stabilire la democrazia in Italia.
Questa volta il vincolo esterno fu rappresentato dall'Unione Europea. Sarebbero state le direttive e le politiche comunitarie a mettere le briglie al Paese. Sarebbe stato l'euro a imporre il ravvedimento finanziario agli italiani dissipatori e riottosi. A partire dagli anni Novanta l'Unione Europea si trasformò nel salvagente al quale si aggrappò una parte maggioritaria della classe politica, via via che da un lato diveniva evidente la non riformabilità dall'interno della società italiana, e dall'altro, insieme, l'incapacità della politica nazionale di guadagnare con i propri mezzi il consenso necessario ad un mutamento di rotta.
Come in nessun altro luogo del continente l'adesione incondizionata all'europeismo e alla sua ideologia divennero così la nuova carta di legittimazione del sistema: obbligatoria per chiunque volesse non solo accedere al governo, ma perfino essere ammesso ad una piena rispettabilità politica. È inutile sottolineare quanto l'ultima fase della politica italiana si sia identificata con la prospettiva ora indicata. Che domenica si trova ad affrontare la prova del fuoco elettorale nella situazione più difficile principalmente, a me pare, per una ragione. La ragione è che il vincolo esterno, per risultare accettabile e non ferire il legittimo (insisto: legittimo, sacrosanto) sentimento di autostima di un Paese, deve essere assolutamente trasformato da chi se ne fa forte in un fatto nazionale. E cioè innanzi tutto produrre anche un immediato beneficio: altrimenti esso finisce per apparire inevitabilmente un'imposizione esterna fatta nell'interesse precipuo della parte esterna. Ora, disgraziatamente, in 14 mesi il vincolo esterno europeo è stato ben lungi dal soddisfare questa condizione dell'immediato beneficio. La situazione generale del Paese invece di migliorare è peggiorata. E dire, come si sente dire, «poteva andare molto peggio», non può avere altro effetto, sui molti che versano in condizioni di disagio, se non quasi di una presa in giro. Così come l'affermazione - anche questa molto ripetuta - «non c'era altro da fare» è un'affermazione che ha lo svantaggio di non poter essere suffragata da nessuna prova davvero convincente agli occhi degli elettori.
C'era un altro modo ancora, però, e a prescindere dagli effetti economici, in cui il vincolo esterno avrebbe potuto essere depurato della sua origine e trasformato in un dato dall'impatto fortemente nazionale: e non lo è stato. Se esso fosse diventato il pretesto per un invito appassionato - rivolto non già alle forze politiche, ma alla società italiana nel suo complesso - perché nell'occasione essa affrontasse uno spietato esame di coscienza, perché ripensasse una buona volta la propria storia iniziando a capire il peso, ormai insopportabile, delle sue troppe pigrizie, delle sue troppe incapacità, delle sue troppe indulgenze. Vi sono circostanze critiche in cui il governo democratico di un Paese deve essere capace anche di questo: di una pedagogia civile ispirata dalla verità e sorretta dalla cultura. In caso contrario il prezzo da pagare - non solo elettorale, e non solo per chi ha governato - può rivelarsi molto alto.

Ernesto Galli della Loggia

22 febbraio 2013 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_22/galli-della-loggia-sentimento-di-una-nazione_2136a438-7cc0-11e2-a4ef-4daf51aa103c.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Atlante populista italiano
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2013, 11:52:02 pm
Atlante populista italiano

È populista chiedersi quali «sacrifici» hanno compiuto l'on. Rosy Bindi, faccio per dire, o chessò il senatore Latorre, in questi ultimi quindici mesi, mentre alcune centinaia di migliaia di italiani perdevano il loro posto di lavoro? È populista chiedersi quali effetti del «rigore» governativo abbiano subito l'on. Bondi o l'on. Cesa, sempre tanto per dire, nello stesso periodo, mentre ottocentomila famiglie italiane chiedevano la rateizzazione delle bollette della luce e del gas che non riuscivano a pagare, o decine di piccole aziende e di negozi erano costretti ogni giorno a chiudere? È populista? Forse sì, chissà. Ma allora, per passare dalle stalle alle stelle, erano populisti anche i sovrani inglesi quando decidevano durante la Seconda guerra mondiale di restare a Buckingham Palace nel cuore della Londra colpita ogni notte dai bombardieri della Luftwaffe; o forse erano populisti - e va da sé della peggior specie - anche i membri dello Stato Maggiore tedesco che nell'autunno del '42 decidevano di consumare alla mensa di Berlino lo stesso misero rancio che a qualche migliaia di chilometri di distanza consumavano i loro commilitoni assediati senza speranza a Stalingrado.

Eh sì, orribili populisti, ci assicurerebbero i sapientissimi nostri intellettuali che sermoneggiano in ogni sede su che cosa è la vera democrazia. Sì, tutti populisti: come Beppe Grillo, naturalmente, e chi lo ha votato.

Si dà il caso tuttavia che le classi dirigenti vere, i veri governanti, facciano proprio questo, guarda un po': specie nei momenti critici, cioè, cercano di mettersi allo stesso livello della gente comune, di condividerne pericoli e disagi, e in questo modo di meritarne la fiducia. Non vanno ogni sera in tv da Bruno Vespa o da Floris, o da Santoro (in trasmissioni che, sia detto tra parentesi, mostrandone la vuotaggine parolaia hanno contribuito come poche cose a disintegrarne l'immagine). Una classe politica che ha il senso del proprio onore e delle proprie funzioni deve essere capace di sentire quando è il momento di stare dalla parte dei suoi concittadini. Se non lo sente, ecco che allora sorge inevitabilmente a ricordarglielo il cosiddetto «populismo».

Certo, il populismo si limita perlopiù a invocare comportamenti diversi, denuncia ingiustizie e latrocini, insiste sulla moralità e sulla qualità delle persone. Non è «propositivo», come si dice; non indica vasti programmi di misure strutturali. Fa come ha fatto Grillo, appunto. Ma sarà pure lecito chiedere: c'è per caso qualcuno tra coloro che stanno leggendo queste righe che ricorda invece una vera proposta, per così dire strutturale, avanzata in questa campagna elettorale da Casini o da Bersani? E c'è qualcuno che ha ascoltato Vendola illustrare come immaginava di finanziare l'Eden che nei suoi programmi si compiaceva di dipingere per il futuro? Stranamente però non sono in molti a dare del populista a Vendola.

Volendo però entrare nel cuore della presunta assenza di proposte e di veri obiettivi politici da parte del cosiddetto populismo grillino, la domanda decisiva da farsi mi sembra questa: a conti fatti, voler mandare a casa un'intera classe politica costituisce o no un obiettivo politico (e non da poco, direi)? Costituisce o no un programma, anzi un ambizioso programma elettorale? E se la risposta è positiva, allora sopraggiunge di rincalzo un'altra domanda ancora: nelle condizioni date, qui, oggi, in questo Paese, quale altra via esisteva, per cercare, non dico di realizzare ma di affermare con forza quell'obiettivo, se non il voto per la lista di Beppe Grillo? Quale altra via esisteva per esprimere il proprio rifiuto nei confronti di una classe politica che in venticinque anni non ha saputo mettere in prima fila una sola faccia nuova? Che ancora oggi vede da un lato un vecchio leader 76enne, circondato da uno stuolo di camerieri, e dall'altro un partito, il Pd, che alla candidatura di Matteo Renzi ha saputo opporre solo la rabbia antiriformista dei vecchi oligarchi tardoberlingueriani alleati con i giovani turchi dell'apparato, entrambi oggi pronti, magari, a sostenere disinvoltamente che pure Grillo «è una costola della sinistra»? Quale altra via per protestare davvero contro una classe politica (ma non solo: né Monti né alcuno dei suoi ministri «tecnici» ha mai osato proporre alcunché, e tanto meno minacciare di dimettersi), una classe politica (ma non solo), dicevo, che travolta da scandali di ogni tipo e misura non è stata capace di inventarsi nulla, assolutamente nulla, per riguadagnare la fiducia dei cittadini?

E però non bisognava votare Grillo - si dice - per non dispiacere ai mercati e all'Europa, per non farci massacrare dallo spread. Evidentemente però molti hanno pensato che forse la qualità dei governanti è un prius rispetto a qualunque altra urgenza. Che forse una classe politica screditata e corrotta non solo alla fine non dà alcuna vera garanzia alla stessa Unione europea, ma soprattutto (ed è cosa non da poco) non garantisce un rappresentanza e una difesa adeguate degli interessi nazionali.

Questo è il punto: una classe politica chiusa nella supponenza delle sue chiacchiere e nell'impotenza del suo finto potere, la quale non ha voluto prendere atto che c'è un'Italia sempre più numerosa che non ne può più: né di lei né dei suoi partiti. Un'Italia che quindi ha fatto la sola cosa che poteva fare: se n'è inventato un altro, di partito. Praticamente dal nulla e con il nulla: affidandosi a una sorta di fool , di «matto», di buffone shakespeariano, l'unico capace, nella sua follia, di dire ciò che gli altri non potevano. Con l'augurio - che a questo punto, immagino, è di tutti gli italiani - che alla fine, però, possa esserci del metodo in quella sua follia.

Ernesto Galli della Loggia

27 febbraio 2013 | 11:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_27/Atlante-populista-italiano-della-loggia_39c34d86-80bb-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Risultato elettorale e protesta
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2013, 12:06:14 am
Risultato elettorale e protesta

M5S, il voto e quell'Italia insoddisfatta che da quarant'anni cerca di cambiare

Votare per M5S non significa necessariamente aderire al programma politico del movimento

di  ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA


Nell'interpretazione che viene data del massiccio consenso elettorale ottenuto dal Movimento 5 Stelle si nota spesso un fraintendimento: cioè l'assunto che votare per M5S abbia significato aderire al programma del movimento stesso o, ancora di più, confidare nelle capacità di leadership politica di Beppe Grillo. Sicché ci si chiede scandalizzati come sia stata possibile questa apertura di credito da parte di tanti pur dotati di qualche giudizio.

Non sapendo darsi una risposta, allora, secondo un antico costume nazionale, si avanza immediatamente il sospetto di opportunismo, trasformismo, «voltagabbanismo», e quant'altro.

A mio giudizio chi vede le cose a questo modo si condanna a capire poco o nulla della storia recente e meno recente d'Italia. A non capire un dato di fondo: che c'è una generazione d'Italiani, c'è una parte del Paese, la quale già a partire dalla fine degli anni Settanta si accorse di quattro fatti che solo ora, dopo decenni, stanno entrando nella consapevolezza di tutti. Questi: a) che il sistema di governo sancito dalla seconda parte della Costituzione, nonché la legge elettorale proporzionale, erano ormai del tutto inadeguati ai bisogni del Paese; b) che esisteva un fenomeno come la partitocrazia, responsabile non solo di aver distorto profondamente il funzionamento del sistema suddetto ma anche di un malcostume e di un malgoverno sempre più vasti e opprimenti, c) che la Democrazia cristiana stava esaurendo la sua originaria spinta propulsiva e la sua funzione di salvaguardia democratica; d) che la presenza egemone a sinistra del Partito comunista equivaleva alla perenne subalternità della sinistra italiana, e cioè che con il Pci questa sinistra non avrebbe mai vinto un'elezione, non sarebbe mai andata al governo. Quella parte del Paese, insomma, vedeva con molto anticipo che un'intera fase storica - la fase del dopoguerra - andava ormai terminando, pur potendo continuare a contare sull'immane forza di una vischiosa continuità. E che dunque era necessario imboccare strade nuove.

Da allora - dapprima esigua, poi negli anni sempre più numerosa - quell'Italia del cambiamento è alla disperata ricerca del modo in cui riuscire finalmente a mutare lo stato delle cose: di uno strumento, di un'idea, di un varco. Ed è così che da allora quella parte del Paese, e con lei una fascia generazionale d'Italiani, di volta in volta ha guardato con simpatia al Partito radicale, ha sperato in Craxi, si è schierata con le iniziative referendarie di Mario Segni, ha cercato di capire le ragioni della Lega, ha puntato inizialmente su Berlusconi. Così come adesso fa un'apertura di credito a Grillo. Ma vogliamo dirlo? Non identificandosi mai, realmente, con le scelte di volta in volta compiute. Vedendone benissimo limiti e contraddizioni, ma sperando sempre, se si vuole illudendosi di servirsene strumentalmente: come una sorta di grimaldello.

Ingenuità? Certo, ingenuità. È facile dirlo (dirlo ieri e dirlo oggi), ma l'alternativa quale era? Una sola, evidentemente: stare dall'altra parte. Dalla parte, cioè, che fino ad oggi ha resistito o si è opposta ogni volta al cambiamento, o vi si è adattata solo perché non poteva altrimenti; di chi ha dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per decidere di non dirsi più comunista; dalla parte che ha preferito vedere la Dc disintegrarsi piuttosto che fare qualcosa prima; che fino a ieri giurava sull'intangibilità della Costituzione; dalla parte di chi a suo tempo (per quanto tempo!) giudicava una bestemmia qualunquistica parlare di partitocrazia; di chi per decenni non ha mai fatto nulla di concreto, mai nulla, per arginare corruzione e sperperi di misura inaudita. Ma che naturalmente - proprio come sta facendo anche oggi - ogni volta non mancava di arricciare il naso atteggiandosi a custode del bon ton politico, esibiva la propria educata compostezza di Padre Fondatore di fronte alla sgarbata impertinenza dei nuovi venuti, impartiva a destra e a manca lezioni di coerenza. L'Italia del cambiamento, così, si è dovuta (e si deve) sentire dare dell'opportunista e del voltagabbana da chi in quarant'anni è passato tranquillamente dal Pci di Togliatti e Longo al Pd di Bersani ma è convinto che però lui no, per carità, lui non ha mai cambiato idea! Solo gli altri fanno queste cosacce.

Un'Italia del cambiamento, irrequieta, sempre divisa, destinata regolarmente a vedere le sue speranze deluse per mille motivi, tra cui non da ultimo l'inadeguatezza dei partiti e degli uomini cui è stata fin qui costretta ad affidarsi. E molto probabilmente sarà così anche stavolta, con gli sprovvedutissimi parlamentari del M5S e con il loro capo. «Ma non era ogni volta prevedibile?» - mi sembra già di sentire chiedere dall'immancabile censore. Sì, forse sì: era prevedibile (e anche previsto, aggiungo). Ma almeno un dubbio, una sia pur tenue possibilità ogni volta c'era. Mentre dall'altra parte che cosa c'era ancora alla vigilia delle ultime elezioni? Il tetragono immobilismo di chi in dodici mesi non aveva trovato il modo di cancellare una legge elettorale nefanda o di avviare la minima riforma istituzionale, l'insensibilità di chi in un anno intero non aveva mosso un dito per tagliare davvero costi e privilegi della politica, neppure per abolire una manciata di province. E come sola alternativa accreditata la presunzione che per governare bastino i conti in ordine.
Prigioniera di un lungo passato, tramutatosi in un eterno e soffocante presente, l'Italia del rinnovamento ha preferito chiudere gli occhi.
E fare un salto nel buio.

8 marzo 2013 | 8:06

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_08/movimento-5-stelle_946d0c88-87bc-11e2-ab53-591d55218f48.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La non politica e i suoi calcoli
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2013, 11:33:15 am
LE ELEZIONI APPAIONO PIÙ VICINE

La non politica e i suoi calcoli

Con l'elezione alla presidenza delle Camere di Pietro Grasso e di Laura Boldrini, grazie ai voti della coalizione di sinistra animata dal Partito democratico, che li aveva eletti - si consuma definitivamente quella lunga storia della Sinistra italiana che per settant'anni ha avuto al suo centro l'esperienza comunista, e della quale quel partito è stato fino a oggi in qualche modo la prosecuzione.

Una lunga storia, dicevo: che nei decenni passati ha visto già sedere sul più alto scranno di Montecitorio quattro suoi eminenti rappresentanti: Pietro Ingrao, Nilde Iotti, Giorgio Napolitano e Luciano Violante. Basta per l'appunto ricordare quei nomi per misurare l'ampiezza senza misura della frattura che oggi si consuma a sinistra. Non si tratta delle idee. È ovvio che i valori e le visioni del mondo delle persone che oggi sono investite delle due massime cariche parlamentari siano molto diversi da quelli dei loro predecessori ricordati sopra. Ma ciò che innanzitutto colpisce è quanto siano sideralmente distanti le rispettive biografie. In sostanza, infatti, nelle biografie degli attuali presidenti del Senato e della Camera non ha il minimo posto la politica; che invece è stata la vita e la passione inesausta degli altri.

Intendo la politica come scontro di idee, esperienza di conflitti sociali, come elaborazione di strategie di lotta, come partecipazione ad assemblee elettive e pratica nell'attività deliberativa e legislativa: nulla di tutto questo c'è nel passato di Grasso o di Boldrini. Non si tratta di stabilire se ciò sia un bene o un male. Quel che importa notare è che qui c'è un punto di diversità assoluta rispetto a quella che per decenni, viceversa, è stata la vita concreta (e aggiungo l'ideale di impegno civile) degli uomini e delle donne che si sono riconosciuti nella Sinistra. Alla quale peraltro non risulta che fino a ieri né l'uno né l'altra abbiano mai detto di appartenere. Si può allora forse dire che l'elezione di Grasso e di Boldrini segni non tanto una vittoria dell'antipolitica quanto piuttosto, in senso proprio, della non politica.

È come se quella Sinistra che viene da lontano (e la parte cattolica che da tempo le si è aggiunta) si fosse convinta di non poter più trovare al proprio interno, nella propria storia, né volti, né voci, né biografie capaci di rappresentarla veramente. Come se essa giudicasse ormai irrimediabilmente inutilizzabile la propria vicenda politica, vicina e meno vicina: in un certo senso le proprie stesse radici. Rifiutatasi dopo essere stata comunista di divenire socialdemocratica, e sempre in preda all'antica paura di dispiacere a sinistra, la cultura politica del Partito democratico sembra aver smarrito il filo di qualunque identità che si colleghi al suo passato. Sicché oggi le è apparso naturale designare ai vertici della rappresentanza del Paese da un lato un importante membro della magistratura inquirente, dall'altro una apprezzata funzionaria internazionale, impegnata nella difesa dei diritti umani.

Certo, dietro tale designazione c'era evidentemente anche un calcolo politico. Quello che, presentando candidature ben viste a sinistra, il Pd riuscisse finalmente ad agganciare i grillini, nella speranza di portarli domani ad appoggiare il tentativo di un governo Bersani. A tale obiettivo è stato consapevolmente sacrificato vuoi ogni residuo rapporto con il Centro di Monti, vuoi ogni eventuale avvio di negoziati armistiziali con il Pdl e con la Lega. È quanto mai dubbio, però, che una manciata di voti grillini per il presidente Grasso annunci davvero una conversione del Movimento 5 Stelle e l'alba di un nuovo ministero. Assai più probabile, dopo questa giornata, è che sull'orizzonte italiano si allunghi, invece, solo l'ombra di elezioni anticipate.

Ernesto Galli Della Loggia

17 marzo 2013 | 9:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_17/la-non-politica-e-i-suoi-calcoli-ernesto-galli-della-loggia_b200c10e-8ec4-11e2-95d7-5288341dcc81.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Ciò che il centro non ha capito
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2013, 05:08:44 pm
LE ÉLITE ITALIANE E LA POLITICA

Ciò che il centro non ha capito

Il fallimento del Centro registrato alle recenti elezioni - e dunque, per logica conseguenza, il fallimento del personale di governo alla guida del Paese per oltre un anno - dice molte cose sulle caratteristiche delle élite italiane. Proprio perché per la sua parte più significativa è da queste élite che proveniva un tale personale di governo.

L'aspetto che più colpisce è la scarsa conoscenza da esso dimostrata dei meccanismi della politica e quindi la sua scarsa capacità di leadership. Non vorrei apparire ingeneroso verso Mario Monti e i suoi ministri, impegnatisi in un compito certo non facile. Sta di fatto però che per oltre un anno tutti hanno potuto vedere come essi non siano riusciti in alcun modo ad accompagnare all'adozione di provvedimenti tecnici indispensabili, tecnicamente obbligati, l'idea che tali provvedimenti dovessero poi anche essere «venduti» politicamente ai cittadini (e perciò, ad esempio, comprendere forti indicazioni di equità sociale). Invece la democrazia - cioè il regime del suffragio universale e dell'«uomo della strada» - è precisamente questo: e lo è tanto più quando i tempi sono difficili e ai cittadini si chiedono sacrifici non indifferenti.

Allora più che mai coloro che governano hanno l'obbligo non già solamente di spiegare, di enumerare cifre, vincoli, e rimedi: tutte cose sacrosante, intendiamoci, ma che tuttavia devono essere accompagnate da altro. Dalla capacità di parlare ai cuori più che alle menti, di invogliare al riscatto, di muovere alla tenacia, all'orgoglio, alla speranza. Tutte cose che appartengono alla politica, e di cui i veri capi politici devono essere capaci. Per le quali però bisogna essere convinti della propria autorevolezza, avere una dimestichezza con il comando sociale e con l'esposizione pubblica, essere animati da un pathos di condivisione nazionale, da un capacità di comunicare e di mettersi personalmente in gioco, che le classi dirigenti italiane, chiuse nel loro autoreferenziale esclusivismo professionale e proprietario, evidentemente possiedono in scarsissima misura. E tutte cose, aggiungo, alle quali il lungo e feroce dominio degli apparati dei partiti sulla cosa pubblica le ha da tempo disabituate. Staccandole nel profondo dalla politica.

Lo si è visto al momento di organizzarsi in vista delle elezioni. Il Centro ha mostrato di aver capito poco o nulla dell'ansia di grande cambiamento che agitava l'Italia. A un Paese percorso dalle performance di Grillo, ha pensato di potersi presentare da un lato con figure della più esausta nomenclatura partitica (Udc, Fli), dall'altro con il pallido volto di un notabilato catto-confindustriale insaporito da qualche prezzemolino sportivo-accademico. In complesso la raffigurazione di una compiaciuta oligarchia italiana all'insegna del «lei non sa chi sono io e quanto sono importante». Nessuno invece che fosse capace di un parlare vivo e autentico, di una proposta suggestiva, che desse voce a una qualche novità culturale, che incarnasse una figura sociale inedita.

Un'oligarchia, quella del Centro, che ha dato la misura della sua mancanza di sintonia rispetto alla condizione politica reale del Paese quando ha deciso, segnando così la propria sconfitta, di contrapporsi frontalmente e sprezzantemente all'elettorato che fino ad allora era stato della Destra. Come si è visto allorché Monti si è rifiutato di prestare il benché minimo ascolto all'invito di essere il «federatore dei moderati» rivoltogli da Berlusconi: nonostante fosse ovvio che l'elettorato della Destra costituiva l'unico elettorato dove il Centro avrebbe potuto ottenere il consenso di cui andava in cerca.

Perché questo errore? Forse per l'influenza dell'onorevole Casini e del cattolicesimo politico più sprovveduto, mai rassegnatosi al bipolarismo e invece sempre vagheggiante un'illusoria collocazione al di là della Destra e della Sinistra? No, non credo per questo; anche se certamente tutto questo ha contato. Sono invece convinto che nel paralizzare qualunque interlocuzione con il popolo della Destra da parte di Monti e dei suoi, nel far loro escludere qualunque approccio meno che ostile in quella direzione, ha contato molto di più quella sorta di generico interdetto sociale che da sempre la Sinistra si mostra capace di esercitare nei confronti della Destra stessa: in modo specialissimo da quando a destra c'è Berlusconi.

È l'interdetto che si nutre dell'idea che la Destra costituisca la parte impresentabile del Paese, il lato negativo della sua storia. L'Italia imbrogliona, priva di senso civico, che evade le tasse, che non fa la fila e urla al telefonino; l'Italia incolta dei cinepanettoni, che non sa le lingue e non è iscritta al Fai, che non gliene importa nulla dell' Economist e non è di casa né alla Biennale né alla Columbia. E che di conseguenza non può che essere naturalmente clericale, conformista, sessista, solo e sempre reazionaria. In una parola quell'Italia che non è possibile ricevere in società e con la quale non conviene avere alcun rapporto se si vuole essere annoverati tra le persone per bene.

La borghesia che conta, il grande notabilato di ogni genere, l'alto clero in carriera, insomma l' élite italiana, ha profondamente introiettato questo stereotipo (che come tutti gli stereotipi ha naturalmente anche qualcosa di vero). Uno stereotipo tanto più potente perché in sostanza pre-politico, attinente al bon ton civil-culturale. Con la Destra dunque l' élite italiana non vuole avere nulla a che fare: per paura di contaminarsi ma soprattutto per paura di entrare nel mirino dell'interdizione della Sinistra. Cioè di farsi la fama di nemica del progresso, di non essere più invitata nei salotti televisivi de La7, a Cernobbio o al Ninfeo di Valle Giulia; di diventare «impresentabile» (oltre che, assai più prosaicamente, per paura degli scheletri negli armadi, che non le mancano...).

Il Centro - così affollato di avveduta «gente per bene» - è rimasto vittima di questo interdetto, del timore di farsi etichettare di destra dalla Sinistra (e magari per giunta dal Club Europeo). In questo modo esso ha mantenuto sì la propria rispettabilità, ma al prezzo non proprio insignificante di diventare un attore politico di terz'ordine.

Ernesto Galli della Loggia

24 marzo 2013 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_24/galli-della-loggia-il-centro-non-ha-capito_9a6bcae2-9451-11e2-bd1c-50cadb6c1382.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una periferica appartenenza
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2013, 11:17:40 am
LA CHIESA E L'IMMAGINE DEL PAESE

Una periferica appartenenza

Troppo antico e profondo è il legame storico tra la Penisola e il cattolicesimo perché possa passare inosservato il fatto che con l'elezione di Papa Francesco ormai è da circa mezzo secolo che a Roma non siede più un Papa italiano. Se per la Chiesa universale ciò sia un male o un bene non saprei (anche se propendo per questa seconda ipotesi); quello che però mi pare indubbio è che si tratta di uno dei tanti sintomi del declino italiano. Se non altro perché nel corso dei secoli la Chiesa cattolica ha rappresentato la sola istituzione internazionale, o meglio sovranazionale (e che istituzione!), nella quale l'elemento italiano ha avuto un'evidente e ininterrotta centralità. A cominciare dalla centralità della nostra lingua: che, come ha fatto notare di recente Diego Marani proprio sul Corriere , rappresenta da sempre una specie di «inglese dei preti».

Se le cose stanno ormai così è perché evidentemente negli ultimi decenni agli occhi dell'universo cattolico la Chiesa italiana è andata perdendo la rappresentatività positiva che una volta essa bene o male possedeva, e invece ha assunto un'immagine sempre più grigia, addirittura dei tratti negativi. Decisiva, in questo senso, è stata la sua perdurante intrinsichezza con la Curia romana (ancora oggi è italiana la metà dei capi dei dicasteri vaticani: 14 su 28): una Curia, va ricordato, che negli ultimi tempi non ha certo brillato per immagine di irreprensibilità e che, resa più indipendente proprio per la presenza di pontefici non italiani, ha mostrato la tendenza a procedere quasi per conto proprio, fino ad apparire - in non molti casi, ma significativi - pressoché interamente fuori controllo.

Dietro la perdita di prestigio della Chiesa italiana c'è tuttavia anche dell'altro. C'è un problema di qualità del personale ecclesiastico, in specie del suo vertice. Il sommarsi della forte secolarizzazione della società con il mantenimento però, da parte dell'alto clero, di un forte potere istituzionale e di influenza, ha prodotto nella gerarchia cattolica molti aspetti di quella stessa degenerazione «castale» che ha colpito tanta parte dell' élite italiana. Autoreferenzialità, gerontocrazia, carrierismo con relativi accordi di «cordata», prevalere di una comunicazione pubblica sempre più vuota e formale, criteri di cooptazione in base soprattutto alla docilità e all'obbedienza: questi caratteri tipici della classe dirigente della Penisola si ritrovano, più o meno tali e quali, anche tra coloro che occupano i posti di comando nella Chiesa italiana. Si aggiunga a tutto ciò - esattamente come per la classe politica, e verosimilmente con effetti negativi non dissimili - il finanziamento pubblico ingentissimo dell'8 per mille.

La Chiesa italiana riflette dunque quello che sembra il destino del Paese. Vede scemare il proprio ruolo rispetto al resto del mondo. Non esprime più, perlomeno nei suoi luoghi «alti» e ufficiali, momenti importanti di dibattito e di elaborazione culturali. E oltre alle idee stenta anche a dar vita a personalità significative capaci di riscuotere attenzione e consenso oltre i propri confini. Pure alle gerarchie cattoliche, insomma, come a tutti gli italiani, oggi servono meno convegni pomposi quanto inutili, meno chiacchiere vuote, e invece più consapevolezza delle proprie insufficienze, più coraggio nel farla finita con consuetudini e pigrizie antiche, più prontezza ad abbandonare linguaggi che ormai non dicono più nulla.

Ernesto Galli Della Loggia

8 aprile 2013 | 8:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_08/una-periferica-appartenenza-galli-della-loggia_2028966a-a00a-11e2-b85a-0540f7c490c5.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Tregua angosciosa
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2013, 07:10:05 pm
Tregua angosciosa

Diranno i prossimi giorni quale esito avrà l'estremo tentativo del capo dello Stato di dare un governo al Paese attraverso la complessa e irrituale procedura da lui illustrata ieri. La cui riuscita dipenderà necessariamente anch'essa, peraltro, dalla possibilità di costituire quella maggioranza trasversale che finora non si è riusciti a costituire. E che nulla lascia credere potrà mai essere messa in piedi tra una settimana.

In realtà sulle spalle e sulle decisioni del presidente Napolitano si stanno scaricando in modo sempre più pesante le contraddizioni senza uscita in cui il recente risultato elettorale ha posto i partiti tradizionali. Un risultato che ha accentuato in modo parossistico non solo e non tanto i loro reciproci e già assai aspri conflitti, ma che - mostrando la sostanziale fragilità di tutte le formazioni politiche - ha ridotto al massimo le possibilità di manovra per ciascuna di loro. Le ha legate in un viluppo inestricabile di timori per il proprio futuro, di pregiudiziali, di scelte ritenute obbligate, di veti reciproci. E così, pur in una situazione in cui nessuna di esse aveva la maggioranza, e quindi per formarne una il compromesso avrebbe dovuto apparire inevitabile, in realtà proprio ogni spazio di compromesso è venuto a mancare. A parte, rinchiuso in un isolamento più che splendido insolente, il Movimento 5 Stelle, convinto che tale isolamento fosse pegno di chissà quali successi futuri e non già, come invece è di giorno in giorno più probabile, il preannuncio di un memorabile flop politico.

In questo scenario tormentatissimo il presidente Napolitano per giorni e giorni ha esercitato con equilibrio ammirevole un ruolo di moderazione, di consiglio, anche di ammonimento. Inutilmente. In specie contro l'inerzia autoreferenziale e a tratti inspiegabilmente autocompiaciuta dell'apparato del Partito democratico, ogni sforzo si è infranto. Per non offendere la suscettibilità del suo segretario ha accettato perfino di non esigerne la formale rinuncia all'incarico, dopo che per ben una settimana egli aveva inutilmente cercato una maggioranza che non c'era. E così, di consultazione in consultazione, di colloquio in colloquio, la crisi si è trascinata senza sbocchi fino ad oggi: sotto gli occhi sempre più perplessi dell'opinione pubblica internazionale e dei mercati, mentre la tenuta economica del Paese dava segni continui di cedimento, la discesa dei redditi si aggravava, l'inquietudine circa il futuro si stava trasformando in un'incipiente disperazione.

Verremmo meno a un dovere di sincerità verso i lettori e verso un uomo dell'onesta intellettuale di Giorgio Napolitano se dicessimo che la decisione presa ieri dal presidente della Repubblica ci lascia pienamente convinti. Ci sono troppe cose che non ci appaiono chiare circa i lavori e lo scopo delle due commissioni di saggi istituite. A cominciare da chi dovrà utilizzarne i risultati, e come e quando; e se dovrà trattarsi di una maggioranza parlamentare e di un governo futuri. A proposito dei quali, però, l'orizzonte appare oscuro oggi come lo era ieri. A che pro dunque quell'areopago di valentuomini?

Una cosa invece sentiamo chiarissima: l'Italia comincia ad avere paura, sì paura. Nel marasma generale essa avverte tuttavia che la Presidenza della Repubblica è rimasta ormai la sola sede possibile di identificazione della compagine nazionale, la sola fonte autorevole di decisioni libere e disinteressate per quanto possono esserlo decisioni umane. Tutto ciò si deve a Giorgio Napolitano. Possiamo allora chiedere sottovoce: perché rinunciare a un simile presidente?

Ernesto Galli Della Loggia

31 marzo 2013 | 15:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_31/tregua-angosciosa-galli-della-loggia_9b434d62-99bc-11e2-81ce-7be9fc1a292e.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - SE OGNI ACCORDO È UN INCIUCIO
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 04:41:23 pm
SE OGNI ACCORDO È UN INCIUCIO

Il sospetto universale

«L'inciucio!». Molti italiani si stanno ormai abituando a giudicare la politica nell'ottica di quest'unica categoria demonizzante, e quindi a vedere le cose e gli uomini della scena pubblica del loro Paese in una sola luce: quella del sospetto universale.

La prima caratteristica della categoria dell' inciucio , quella che la rende così facilmente utilizzabile, è la sua indeterminatezza. L' inciucio , infatti, come insegnano i suoi denunciatori di professione, si annida dovunque. Potenzialmente esso riguarda tutto e tutti. Può consistere nella sentenza di un tribunale, in un articolo di giornale, nella decisione di qualunque autorità, in una trasmissione televisiva, in tutto. Ma soprattutto è inciucio la trattativa, l'accordo, il compromesso espliciti, così come pure - anzi in special modo! - l'intesa tacita che su una determinata questione si stabilisce per così dire spontaneamente tra gli attori politici di parti diverse. Tanto più che perché di inciucio si possa accusare qualcuno non c'è bisogno di alcuna prova. Per definizione, infatti, l' inciucio si svolge nell'ombra, al riparo da occhi indiscreti. E dunque, paradossalmente, proprio la circostanza che di esso non si abbiano tracce visibili diviene la massima prova della sua esistenza. In questo senso la categoria d' inciucio , nella sua indeterminatezza e nella sua indimostrabilità, costituisce una sorta di versione in tono minore di un'altra ben nota categoria, da decenni ai vertici dei gusti del grande pubblico: la categoria dei «misteri d'Italia» con la connessa tematica del «grande complotto». Ogni vero inciucio , infatti, contiene inevitabilmente un elemento di «mistero», e d'altra parte ogni «mistero» non implica forse chissà quanti inciuci ?

Un ulteriore vantaggio che offre poi l' inciucio in termini polemico-propagandistici è che esso, di nuovo, può sottintendere tutto, il fare ma anche il non fare. Agli occhi dei suoi teorici esso è anzi soprattutto questo: è il non fare, il disertare, l'abbandono della posizione di fronte al nemico. Un aspetto, questo, che indica assai bene quale sia l'idea della democrazia che hanno i denunciatori di professione dell' anti inciucio . È un'idea per così dire bellica della democrazia, radicalmente fondata sul concetto di ostilità. Per non essere l'anticamera dell' inciucio (sempre in agguato!), la democrazia deve essere scontro permanente, continua denuncia dell'avversario e dei suoi disegni, illustrazione delle sue indegnità morali, smascheramento; ogni discorso deve sbugiardare, denudare, indicare al pubblico ludibrio.

La massima virtù civica non è la probità, è l'indignazione. Chi non si adegua, chi invece guarda alla democrazia come a quel sistema che si fonda, sì, sulle «parti» e sulla loro contrapposizione, ma anche, specialmente nei tempi difficili, sulla ricerca dell'accordo, sulla tessitura di compromessi, sulla moderazione di toni, sul riconoscimento dell'opinabilità di tutti i punti di vista (compreso il proprio, naturalmente) e della buona fede altrui, ebbene costui è già un potenziale «inciucista», un «traditore», un «venduto», degno di essere consegnato ai dileggi parasquadristici di cui per esempio sono stati vittime gli onorevoli Franceschini e Fassina nei giorni scorsi. Poiché in una tale ottica la mediazione non è il momento inevitabile di ogni prassi democratica; al contrario: ne diviene la più indegna negazione. Naturalmente ordita con i più torbidi scopi.

Inutile dire quanto abbia aiutato a radicare l'idea e la categoria d' inciucio la scoperta della spartizione, concordata per anni dietro le quinte, a opera dell'intera classe politica, di privilegi e benefici di ogni tipo e misura. Cioè la scoperta della «casta». Una realtà verissima e certo scandalosa: se si può muovere un rimprovero all'uso pubblico della quale, però, è di non avere sottolineato abbastanza che l'intera società borghese italiana è in verità una società di caste. Che la radice del male, dunque, non sta tanto nella politica quanto nella cultura, nella mentalità profonda delle classi dirigenti (e non solo) del Paese. Per cui in Italia tendono a essere una «casta» i giornalisti, i giudici, gli avvocati, gli alti burocrati, i professori, i manager, i funzionari dei gabinetti ministeriali, e così via: in vario modo tutti impegnati accanitamente a sistemare i propri figli possibilmente nello stesso mestiere, a impedire l'accesso ai nuovi venuti, ad accumulare privilegi, retribuzioni, eccezioni di varia natura, auto blu, simboli di status, diarie, cumuli pensionistici, trattamenti speciali, ope legis , e chi più ne ha più ne metta. Viceversa, declinata unilateralmente la categoria di «casta» porta a conseguenze strabilianti. Per esempio a quella di proclamare «un uomo al di fuori della politica» (Beppe Grillo) una persona certo degnissima come Stefano Rodotà, ma che comunque nei suoi ottant'anni è stato deputato dal 1976 al 1994, deputato europeo per un altro periodo, presidente del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, vicepresidente della Camera, ministro nel governo ombra Occhetto, presidente del Pds, e infine presidente di un'Authority, carica notoriamente di strettissima nomina politica. Qual è insomma, viene da chiedersi, il criterio d'inclusione nella «casta»? Forse non essere nelle grazie degli «anticasta»?

Ma il punto decisivo - lo sappiamo benissimo, senza che ce lo ricordino i professionisti dell' anti inciucio - è che nella politica italiana c'è Berlusconi. Vale a dire il bersaglio di un'indignazione obbligatoria - del quale, a dire di costoro, bisogna a ogni occasione chiedere l'ineleggibilità, la revoca dell'immunità, l'incriminazione, e quant'altro - mentre il solo evitare di farlo, non parliamo dell'avere un qualsivoglia rapporto con lui o con la sua parte, significherebbe, sempre e comunque, l' inciucio più vergognoso. Quando si discute di Berlusconi o con Berlusconi, infatti, se non si vuole passare per collusi il sistema è semplice: ogni sede pubblica deve divenire l'anticamera di una Corte d'assise. Il fatto che da vent'anni egli abbia un seguito di parecchi milioni di elettori (spesso la maggioranza) appare ai custodi della democrazia eticista un dettaglio irrilevante. Non già l'espressione di un problema della storia italiana, di suoi nodi antichi che solo l'iniziativa, le risorse e le capacità della politica, se ci sono, possono sciogliere. No: solo un problema di codice penale o poco più. E in ogni caso, male che vada, un'occasione d'oro per lucrare un po' di consenso mettendo sotto accusa chi si trovasse a pensare che le cose, come spesso capita, sono invece un po' più complicate.

Ernesto Galli della Loggia

24 aprile 2013 | 8:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_24/sospetto-universale-galli-della-loggia_b518f840-ac9a-11e2-9acc-55424bfd851f.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - QUANDO IL PAESE SAPEVA REAGIRE
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2013, 11:03:53 pm
QUANDO IL PAESE SAPEVA REAGIRE

Cartoline dall'Italia

Anche un vecchio numero di giornale è storia. Perché al pari della storia può farci capire - raccontandoci com'eravamo, magari negli aspetti all'apparenza minori - quanto siamo cambiati. A me, è capitato leggendo un numero del Corriere che porta la data remota del 31 marzo 1960.

Quel giorno, in una pagina interna, Giovanni Russo, allora giovane ma già brillante inviato del giornale, scrisse di una piccola-grande operazione culturale messa in atto nelle settimane precedenti dalla Rai. La riassumo servendomi anche delle sue parole. In dieci paesi del Salento dove nessun abitante aveva un solo apparecchio radio (riescono a immaginare una cosa del genere i giovani italiani di oggi? I giovani pugliesi hanno mai saputo dalla scuola che così era il loro Paese?), la Rai aveva distribuito in quelle settimane mille apparecchi radio. Non in regalo, solo in prova: ma chi avesse voluto avrebbe poi potuto acquistarli con un forte sconto dai rivenditori della zona, con i quali l'azienda aveva stipulato un apposito accordo (lo fecero oltre la metà delle famiglie). La stessa azienda, poi, aveva trasferito a Maglie ben 50 tecnici, con il compito di installare gli apparecchi e di provvedere alle eventuali riparazioni.

Non basta: nei vari paesi fu inviata una «radiosquadra», dotata di un pullman, una stazione trasmittente e un presentatore, il cui compito era quello di dimostrare agli abitanti del luogo, grazie al radiocronista Mario Ortensi, «come attraverso la radio la vita quotidiana di questi centri poteva essere rappresentata e descritta». Così «per la prima volta gli abitanti di Salve - scriveva Russo - ebbero per esempio notizia del porto di Bari e quelli di Andrano sentirono parlare del loro castello secentesco (...). Un mondo nuovo si è aperto per gente che viveva chiusa nel suo isolamento (...). Nello stesso tempo si è constatato che sono aumentate le vendite di giornali e riviste, mentre sono sorte piccole officine per la manutenzione e la riparazione degli apparecchi». Si leggeva infine che non casualmente l'operazione era stata condotta in novembre-dicembre, dopo la vendemmia, «quando gli stagionali tornavano nei paesi da dove erano emigrati e circolava un po' di denaro».

Poche righe raccontano come queste ciò che da troppo tempo l'Italia politica e civile non riesce più ad essere. Esse ci parlano di quello che abbiamo perduto, del Paese che eravamo, che dopo tutto siamo stati fino a non molti anni fa. Un Paese impegnato con tutto se stesso nello sforzo di progredire non solo materialmente ma culturalmente. Ansioso di emanciparsi dal suo passato di miseria, di sottomissioni sociali, d'ignoranza. Convinto delle proprie qualità. Fecondo d'iniziative, capace di fantasia, in grado di approntare con intelligenza i mezzi e l'organizzazione adeguati. Ci parlano anche, quelle righe, di classi dirigenti (quella della Rai in questo caso) comprese della necessità di assolvere a degli obblighi nei confronti della collettività: consapevoli, mi viene da dire, della propria funzione nazionale e popolare insieme.

È a quell'Italia che oggi dovremmo ispirarci. Non fu certo il periodo migliore per le forme della nostra vita democratica. Ma allora la politica seppe rappresentare realmente il collettore e l'organizzatore delle energie di cui il Paese traboccava; e i suoi esponenti seppero essere, anche moralmente, all'altezza del loro compito. Le energie ci sono anche oggi. Sta al presidente Letta di saperle mobilitare non solo con la chiarezza e l'onestà dei propositi, ma anche con la forza decisiva delle parole e dell'esempio.

Ernesto Galli Della Loggia

6 maggio 2013 | 7:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_06/galli-della-loggia-cartoline-dall-italia_523a5f6a-b60a-11e2-9456-8f00d48981dc.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una libertà minacciata
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2013, 04:46:53 pm
L'INTOLLERANZA VERSO LA RELIGIONE

Una libertà minacciata

Una grande rivoluzione sta silenziosamente giungendo al suo epilogo in Europa. Una rivoluzione della mentalità e del costume collettivi che segna una gigantesca frattura rispetto al passato: la rivoluzione antireligiosa. Una rivoluzione che colpisce indistintamente il fatto religioso in sé, da qualunque confessione rappresentato, ma che per ragioni storiche, e dal momento che è dell'Europa che si parla, si presenta come una rivoluzione essenzialmente anticristiana.

Ormai, non solo le Chiese cristiane sono state progressivamente espulse quasi dappertutto da ogni ambito pubblico appena rilevante, non solo all'insieme della loro fede non viene più assegnato nella maggior parte del continente alcun ruolo realmente significativo nel determinare gli orientamenti delle politiche pubbliche - non solo cioè si è affermata prepotentemente la tendenza a ridurre il cristianesimo e la religione in genere a puro fatto privato - ma contro il cristianesimo stesso, a differenza di tutte le altre religioni, appare oggi lecito rivolgere le offese più aspre, le più sanguinose contumelie.

Ecco alcuni esempi, tra gli innumerevoli che potrebbero farsi, di quanto sto dicendo (tratti in parte da una dettagliata denuncia pubblicata su un recente numero di Avvenire ). In Irlanda le chiese sono obbligate ad affittare le sale per le cerimonie di loro proprietà anche per ricevimenti di nozze tra omosessuali; a Roma, nel corso del concerto del Primo Maggio un cantante ha mimato il gesto rituale della consacrazione dell'ostia durante l'eucarestia avendo però tra le mani un preservativo al posto dell'ostia; in Danimarca il Parlamento ha approvato una legge che obbliga la Chiesa evangelica luterana a celebrare matrimoni omosessuali nonostante un terzo dei ministri di questa si siano detti contrari; in Scozia due ostetriche cattoliche sono state obbligate da una sentenza a prendere parte a un aborto effettuato dalle loro colleghe, mentre dal canto suo l'Ordine dei medici inglese ha stabilito che i medici stessi «devono» essere preparati a mettere da parte il proprio credo personale riguardo alcune aree controverse.

Ancora: in un recente video di David Bowie, in cui la celebre rockstar è abbigliato in modo che ricorda Gesù, la scena mostra un prete che dopo aver percosso un mendicante entra in un bordello e qui seduce una suora sulle cui mani subito dopo si manifestano le stigmate; in Inghilterra, a un'infermiera è stato proibito di portare una croce al collo durante l'orario di lavoro, mentre una piccola tipografia è stata costretta ad affrontare le vie legali per essersi rifiutata di stampare materiale esplicitamente sessuale commissionatole da una rivista gay; in Francia, in base alla legislazione vigente, è di fatto impossibile per i cristiani sostenere pubblicamente che le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso costituiscono secondo la loro religione un peccato. E così via in un profluvio impressionante di casi (per informarsi dei quali non c'è che andare sul sito wwww.intoleranceagainstchristians.eu ).

Senza contare che ormai in quasi tutti i Paesi europei, al fine proclamato di impedire qualunque pratica discriminatoria, è stata cancellata l'erogazione di fondi alle istituzioni cristiane, così come è stata cancellata la clausola a protezione della libertà di coscienza nelle professioni mediche e paramediche. Non si contano infine in tutte le sedi più o meno ufficiali, a cominciare da quelle scolastiche, i casi di cancellazione, a proposito delle relative festività, della parola Natale, sostituito dal neutrale «vacanze invernali» o simili.

Ce n'è abbastanza da suscitare la preoccupazione di qualunque coscienza liberale. Qui infatti non si tratta tanto di cristianesimo, di Chiesa, o di religione, bensì di qualcosa di ben più importante: si tratta di libertà. E di storia. Di consapevolezza cioè che in Europa la libertà religiosa ha rappresentato storicamente l'origine (e la condizione) di tutte le libertà civili e politiche. Essere assolutamente liberi di adorare il proprio Dio, di propagarne la fede, di osservarne i comandamenti, di aderire alla visione del mondo e al senso dell'esistere che questi definiscono, di praticarne pubblicamente il culto; ma anche naturalmente essere libero di non avere alcun Dio e alcun culto: da qui è partito il cammino della libertà europea. E c'è bisogno di ricordare che si è trattato del Dio cristiano?

La libertà religiosa vuol dire alla fine null'altro che la libertà della coscienza, cioè il non essere obbligati per nessuna ragione ad abbracciare idee o comportamenti contrari ai dettami accettati nel proprio foro interiore. Che è appunto la libertà di autodeterminarsi: e pertanto anche di parlare, di scrivere, di discutere a sostegno delle proprie convinzioni, così come di ascoltare quelle altrui e magari farsene convincere.
Insomma, libertà religiosa da un lato e dall'altro libertà di opinione e di parola - che sono i due pilastri della libertà politica - vanno all'unisono. È innanzi tutto da questo punto di vista, dunque, che è quanto mai preoccupante il fatto che oggi, in Europa, in molti luoghi e per molti versi, la libertà dei cristiani appaia oggettivamente messa in pericolo. E non importa che ciò avvenga per il proposito di proteggere da supposte discriminazioni questa o quella minoranza. È anzi semplicemente paradossale, dal momento che nell'attuale panorama del continente sono i cristiani in quanto tali che appaiono una minoranza. Lo sono di certo - e massimamente i cristiani cattolici e la loro Chiesa - rispetto al mainstream dell'opinione e del costume dominanti e culturalmente accreditati.

Basta vedere come nelle materie più scottanti alcuna voce autorevole, riconosciuta generalmente come tale, si alzi quasi mai a sostegno del loro punto di vista; come ogni accusa nei confronti loro e del loro clero raccolga sempre larghissimo favore; come ogni attribuzione di responsabilità storica per qualunque cosa negativa del passato, anche la più fantasiosa, sia invece sempre di primo acchito giudicata fondatissima.
È forse ora che l'Europa che si dice e si vuole «Europa dei diritti» - ma che finisce troppo spesso per essere solo l'Europa del pensiero unico politicamente corretto - ricordi il celebre ammaestramento di una grande figlia dell'ebraismo rivoluzionario, Rosa Luxemburg. La quale si può presumere che come ebrea e rivoluzionaria sapesse bene ciò di cui parlava: «La libertà è sempre e solo la libertà di chi la pensa diversamente».

Ernesto Galli della Loggia

2 giugno 2013 | 8:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_02/una-liberta-minacciata-ernesto-galli-della-loggia_fdbecc20-cb3d-11e2-8266-15b8d315b976.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. LIMITI E CRISI DEL MOVIMENTO 5 STELLE
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 05:46:46 pm
LIMITI E CRISI DEL MOVIMENTO 5 STELLE

Se il carisma non basta

Ci sono alcune cose interessanti in comune tra la nascita del Movimento 5 Stelle e la nascita della Lega Nord (a parte l’assai maggiore velocità con cui si sta consumando la parabola del primo). Così come è interessante un aspetto della situazione italiana che le loro comuni difficoltà ci dicono.

M5S e Lega nascono entrambi per impulso di due figure carismatiche, Beppe Grillo e Umberto Bossi, prive di qualunque background o curriculum di tipo politico. Sono loro due che s’inventano tutto, si creano un seguito personale e trascinano al successo la loro creatura. E lo fanno tutti e due attraverso una campagna di agitazione nelle piazze in cui mettono in campo un fortissimo e accattivante (a suo modo) elemento di fisicità personale: troppo forte per essere contenuto in qualsiasi schermo televisivo o per sopportare un qualunque «dibattito» (e infatti entrambi sostanzialmente disertano l’uno e l’altro). L’assenza nella loro immagine e nel loro discorso di qualunque tratto politico tradizionale li avvantaggia enormemente (così come all’inizio avvantaggia Renzi che però, obbligato a interloquire sempre di più con un organismo super politico come il Pd, riuscirà con sempre maggiore fatica a mantenere questo tratto e a non perdersi nella chiacchiera e nelle ritualità «politichesi »). È così infatti che essi riescono a intercettare la sacrosanta protesta dal basso—confusa, umorale, spesso violenta e volgare— di un’opinione pubblica stanca principalmente proprio delle forze politiche tradizionali e della loro enorme inadeguatezza. Nell’interpretare questa protesta li unisce ancora un elemento comune. Entrambi le danno uno sfondo utopico: Bossi il separatismo del Nord-nazione, Grillo il miraggio della Rete e della democrazia diretta all’insegna della trasparenza universale. Qui però iniziano per tutti e due i problemi: l’utopia, infatti, va bene per mobilitare, per spingere ad andare oltre l’oggi; ma se poi hai successo, è all’oggi, alla politica attuale, che in qualche modo devi inevitabilmente tornare.

Un ritorno per il quale la Lega è comunque in un certo senso attrezzata. L’elemento territoriale della sua utopia di partenza le ha consentito in modo abbastanza naturale, infatti, di trasformarsi in un partito degli interessi locali, in un partito di sindaci e assessori, accettando a livello nazionale un ruolo puramente gregario: importante ma pur sempre gregario. È sul Movimento 5 Stelle, invece, che le contraddizioni mordono con maggiore furia.

Quella certamente più evidente è la contraddizione tra carisma e leadership. Agitare una folla ed emozionare nei comizi è una cosa, guidare un gruppo di eletti al Parlamento in base a qualche strategia un’altra. Grillo ha mostrato di avere il carisma, ma sta mostrando di non sapere come trasformarlo in una leadership. Cioè in qualcosa che ha bisogno di almeno tre elementi: un’idea di fondo sufficientemente realistica delle cose da fare, riuscire a inventarsi una struttura organizzativa, e infine la capacità non già di farsi obbedire ma di convincere. Il passo dal carisma alla leadership non gli riesce probabilmente per un’insicurezza personale di fondo. Infatti, mentre egli ha assoluta padronanza del primo, per quanto riguarda la seconda, invece, è consapevole di non sapere neppure da dove si comincia.

Nella difficoltà - oggi per il Movimento 5 Stelle e il suo capo, ieri per la Lega di Bossi - di trasformare un successo elettorale in una leadership in grado di animare una vera presenza politica capace di ulteriori sviluppi si scorge in realtà un dato rilevante della situazione italiana. E cioè che da decenni ciò che nasce dal basso come genuino movimento di protesta e di rinnovamento della politica non riesce in alcun modo a liberarsi del connotato intellettualmente elementare e ingenuamente protestatario, antropologicamente plebeo-piccolo borghese, con cui vede ogni volta la luce. Non a caso elegge rappresentanti (vedi i parlamentari grillini attuali o tanti della Lega) i quali brillano quasi tutti per pochezza concettuale mista a insulsa prosopopea, sicché alla fine ciò che nasce dal basso come qualcosa di «nuovo» e «contro», e magari ha un iniziale successo, è però fatalmente condannato a un tramonto più o meno rapido nelle mani di un padre-padrone carismatico desideroso di restare tale per sempre, anche se ormai inutile.

Si sconta così il fatto che da questo «nuovo» le élites socio-culturali della Penisola sono ogni volta assenti. Ma non già solo perché tenute lontano dalla volontà del padre-padrone di cui sopra o dai meccanismi di consenso che egli produce. Sono assenti anche perché le élites italiane, pur se critiche, criticissime, delle condizioni del Paese e della qualità della sua classe politica accreditata - come da esse si ascolta sempre quando si sentono libere di esprimersi - tuttavia preferiscono l'immobilità. Hanno ereditato una sorta di timore atavico a schierarsi davvero all'opposizione del «sistema» nel suo complesso, a diventare fautrici di un vero rinnovamento. Hanno sempre timore di «esporsi», di mettersi in gioco senza paracadute, senza avere qualche forma di garanzia, come minimo un posto assicurato in Parlamento. Anche per questo in Italia è sempre così difficile mettere termine a ciò che non ha più ragione d'essere, spalancare le finestre, tentare strade diverse, inventare procedure inedite, chiamare gente nuova. Perché le élites del Paese, pure se a parole lo negano, in realtà sono come ostriche attaccate al passato, e le uniche novità che gradiscono sono quelle che vengono dall'alto: che però, come si sa, almeno qui da noi troppo spesso sono quelle famose novità che non cambiano nulla. Mentre ciò che ha in sé qualcosa davvero di nuovo finisce per avvizzire nella sua solitaria autoreferenzialità.

Ernesto Galli della Loggia

10 giugno 2013 | 11:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_10/se-il-carisma-non-basta-editoriale-galli-della-loggia_29eae01a-d18b-11e2-810b-ca5258e522ba.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una malsana immobilità
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2013, 05:12:02 pm
GLI EFFETTI DELLA SENTENZA DI MILANO

Una malsana immobilità


La sentenza di condanna nei confronti di Berlusconi, emessa dal tribunale di Milano, consegna ancora per chissà quanti anni i due maggiori protagonisti della politica italiana - e quindi, necessariamente, l'intera politica italiana in quanto tale - a una virtuale condizione di ostaggio. Oggi più che mai, infatti, sia il Pdl che il Pd sono soggetti su cui «si possono esercitare ritorsioni - così recita la definizione di «ostaggio» sullo Zingarelli - nell'eventualità che certe richieste non siano accolte».

Oggi come non mai il Pdl è ostaggio - verrebbe da dire di più: prigioniero politico - di Silvio Berlusconi. Che questi decida di liberarlo dalla sua presenza, di favorirne in qualche modo l'emancipazione, è, dopo Milano, assolutamente impensabile. Il Cavaliere ha bisogno del «suo» partito per restare un soggetto politico (e di quale stazza!, egli è tuttora il vincitore in pectore di ogni eventuale competizione elettorale), e in tal modo, grazie al proprio ruolo pubblico, oscurare e annullare le condotte della sua figura privata. Naturalmente, insieme al Pdl è tutta la Destra italiana ad essere ostaggio del Cavaliere, anche se si tratta di un ostaggio preda da un ventennio dalla «sindrome di Stoccolma». E cioè grata al suo padrone per i benefici insperati di cui egli l'ha gratificata evocandola dal nulla in cui era stata relegata dalla Prima Repubblica. Lo stesso nulla di personalità e di idee in cui a questo punto, però, la Destra appare destinata a tornare nel momento in cui Berlusconi cessasse (e prima o poi cesserà!) di essere il suo padrone. Riconsegnando così il Paese a quell'identico squilibrio organico tra Destra e Sinistra che lo ha afflitto fino al 1994.

Il Pd, dal canto suo, solo a prima vista sta meglio. Che se ne renda conto o meno, la sentenza milanese, infatti, lo consegna ancora più che per il passato in mano al sistema giudiziario e al suo establishment castale. A sinistra non sono molti, temo, coloro abituati a leggere sul Fatto Quotidiano le puntuali, documentate analisi critiche di un valente giurista e magistrato come Bruno Tinti circa la deriva politico-correntizia in cui è da tempo immerso il Consiglio Superiore della Magistratura e il tono malsano che esso così finisce per dare a tutto l'ordine giudiziario. Sono molti di più, invece, coloro che da anni vedono nella magistratura una preziosa alleata di fatto, capace tra l'altro di risultati politici molto più risolutivi di quelli ottenuti da un'azione e da una leadership di partito sempre, viceversa, ondivaghe e incerte. La clamorosa condanna di Berlusconi non può che suonare come una conferma di tutto ciò. E quindi dare ancora più spazio, se mai ce ne fosse bisogno, a quell'area giustizial-movimentista alla sinistra del Partito democratico che da sempre, con varie denominazioni, gli sta piantata come una freccia nel fianco. Proprio quell'area politico-culturale, va aggiunto, che finora ha impedito al Pd di essere davvero un partito «a vocazione maggioritaria», padrone del proprio operato, in grado di dare al Paese un governo di sinistra riformatrice sottratto ai ricatti di coloro che a sinistra detestano ogni riformismo.

Sia chiaro: nessuno pensa che la magistratura debba farsi condizionare dalle eventuali conseguenze politiche del suo operato. Ma da quando è accaduto che vent'anni fa tale operato è valso a disintegrare una maggioranza parlamentare, nonché il sistema dei partiti del Paese, sarà pur consentito, spero, di valutare quell'operato anche per i suoi effetti politici. Che nel caso di questa sentenza sono pessimi: suonando come una ratifica della paralizzante immobilità della scena italiana.

Ernesto Galli Della Loggia

26 giugno 2013 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_26/malsana-immobilita_496243d0-de1e-11e2-9903-199918134868.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La bulimia del candidato
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2013, 12:01:35 am
LE MOSSE SBAGLIATE DI RENZI

La bulimia del candidato

Sei mesi fa l'Italia era completamente innamorata di Matteo Renzi: con lui il Pd avrebbe di sicuro vinto le elezioni alla grande. Ma pure oggi, e anche domani, egli rappresenterebbe un candidato di certo fortissimo in qualunque nuova elezione.

Le cause della popolarità del sindaco di Firenze sono notissime. All'Italia vecchia e immobile del sempre eguale, all'Italia dell'insipida chiacchiera politica per addetti ai lavori, dell'arabesco concettuale avvitato su se stesso, egli contrappone con la sua figura un Paese giovane, voglioso di muoversi e di mettere nuovamente alla prova le proprie energie, di tentare vie nuove. Che parla senza usare mezze parole.

Certo: egli è anche uno portato ad andare a volte oltre il segno, a mostrare un po' troppa disinvoltura e ambizione, a strafare e magari anche un po' a straparlare. Ma al quale tutto si può perdonare grazie a quanto di positivo e di nuovo rappresenta. Perché alla fine, per la maggioranza degli italiani Renzi è questo: la promessa di un cambio di passo, di una rottura, di una reale diversità; una ventata di aria fresca. Per un Paese in crisi non è davvero poco.

Proprio da questo punto di vista appare sostanzialmente incomprensibile quanto egli sta facendo da tre mesi, accettando - e anzi, si direbbe, addirittura sollecitando - di essere coinvolto nelle manovre di un partito, il Pd, che è sì il suo partito, ma che per tantissimi versi è il suo contrario. Un partito vecchio, conteso da anziani oligarchi e quarantenni ribelli ma dell'ultima ora, laddove Renzi è, come che sia, simbolo di una gioventù vera che non ha avuto paura di uscire allo scoperto; un partito campione di conformismo e di omologazione culturale laddove Renzi si fa forte (pure troppo!) della propria spregiudicatezza; il partito di quelli per antonomasia «politicamente corretti» mentre Renzi proprio da costoro è detestato.

È singolare che oggi egli si faccia tentare dall'idea di diventare il segretario di un partito del genere. E dunque s'infili in una trafila quotidiana di trattative e di manovre, di interviste e di dichiarazioni, che hanno il solo effetto di consumarne terribilmente l'immagine. Pur nell'ipotesi che riuscisse a fare il segretario e si andasse entro breve tempo - diciamo un anno - alle elezioni, Renzi, tra l'altro, si troverebbe davanti a un'alternativa comunque scomodissima: o fare la campagna elettorale alla testa di un partito ancora pieno di Rosy Bindi, di Finocchiaro, di Cuperlo e compagnia bella, e magari con un D'Alema passato inopinatamente dal ruolo di Grande Rottamato a quello di Lord Protettore, dunque un partito che sarebbe la smentita vivente di ciò che invece è il suo segretario; ovvero alla testa di un partito da lui appena epurato e rovesciato come un calzino, ma proprio per questo in una difficile fase di riassestamento, ancora né carne né pesce e presumibilmente pieno di rancori più o meno sotterranei. Certo uno strumento inadatto a uno scontro elettorale.

Ma se le cose stanno così non sarebbe assai più conveniente per il sindaco di Firenze stare ad aspettare sotto la tenda? Dopotutto il Pd sa bene che se vuole davvero vincere un'elezione politica altri candidati oltre lui non ci sono (essendo francamente incredibile che a Largo del Nazareno ci sia qualcuno che pensa di convincere gli italiani a farsi governare da Fassina o da Civati). È solo a Renzi che il Pd può ricorrere. E a quel punto egli sarebbe in grado di imporre agevolmente le sue condizioni: sia per il programma che per la composizione delle liste. Quelle condizioni di rottura e di novità che di fronte al deserto e al vecchiume della Destra egli ha saputo rappresentare e in cui il Paese non vuole cessare di sperare.

Ernesto Galli Della Loggia

1 luglio 2013 | 9:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_01/la-bulimia-del-candidato_50201fba-e20d-11e2-b962-140e725dd45c.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA QUANDO PREVALE IL POTERE DI VETO
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2013, 04:48:26 pm
QUANDO PREVALE IL POTERE DI VETO

La paralisi del formalismo

I giudici della Consulta i quali l'altro giorno hanno decretato che in pratica le Province possono essere abolite solo previa modifica della Costituzione, e non con un decreto legge del governo, quei giudici forse non lo sanno: ma essi hanno dato un contributo decisivo perché gli italiani si confermino ulteriormente in un giudizio ormai divenuto senso comune: «In Italia non è possibile cambiare nulla, non si può fare nulla. Siamo condannati alla paralisi».

Un giudizio che si ascolta sempre più spesso anche da chi fino a ieri non si stancava di sperare nella buona volontà e capacità dei ministri, del Parlamento, di qualcuno insomma, di riformare, di semplificare, abolire, qualcosa; di avviare il Paese su strade nuove. E invece no, in Italia non si può. Perché di fatto in Italia un vero potere di decisione non esiste. O meglio: sulla carta si può decidere qualunque cosa, dare vita a qualunque novità. Ma sulla carta: perché poi ogni decisione immancabilmente si arena, ogni novità si blocca, in attesa di un regolamento, di un parere, di una tabella tecnica, della riunione di un comitato, ma sopra ogni cosa in attesa del fatidico « esito del ricorso », suprema spada di Damocle perennemente agitata e perennemente sospesa su ogni atto della Repubblica.

In Italia il potere di chi governa sembra così risolversi, alla fine, quasi soltanto in un semplice potere di proposta. La quale diventa un comando effettivo ma solo se ottiene il placet successivo da parte del combinato disposto di alta burocrazia, codici, Costituzione e magistrature varie. Un insieme di forche caudine disposte ovviamente con le migliori intenzioni che però sortiscono pressoché regolarmente un solo risultato: in un modo o nell'altro quello di svuotare, attenuare, cancellare, il provvedimento di cui si tratta.

Conosco l'obiezione: «C'è poco da fare, è lo Stato di diritto. Nulla si può contro la legge. E se la legge prevede procedure, eccezioni, ricorsi, bisogna rassegnarsi». Certo. Ma è legittimo porsi almeno due domande: perché nessuno pensa - o, se ci pensa, riesce mai - a cambiare davvero le leggi e ancora oggi sembra che cambiare alcune parti della Costituzione equivalga alla fine del mondo? E ancora: perché nell'interpretazione di quelle esistenti sembra prevalere in così tanti casi il cavillo, la capziosità da leguleio, e quasi mai invece la sostanza delle cose e l'interesse collettivo? Il sospetto è facile ma inevitabile: perché è precisamente in questo modo che non solo possono sperare di avere la meglio tutti gli interessi particolari (lobby, corporazioni, potentati economici) abitualmente difesi da agguerritissimi studi legali o da influenti reti di relazioni, ma perché così difendono il loro ruolo e il loro decisivo potere d'interdizione coloro che occupano i gangli dell'alta burocrazia nonché della struttura giudiziaria (troppo spesso collegati anche per via di parentela o di assunzioni di familiari con gli interessi particolari di cui sopra).

La nostra democrazia è in una crisi profonda anche per questo: perché da troppo tempo al potere legittimo espresso dal Parlamento e dal governo - cui solo spetta di decidere in quanto espressione della volontà dei cittadini - si è sovrapposto di fatto un potere di veto, oligarchico e autoreferenziale, di natura castale. L'immobilismo di cui sta morendo l'Italia è il frutto avvelenato della scarsa funzionalità del potere democratico di decidere , cioè del potere della politica, e, viceversa, dell'eccessivo potere di veto delle oligarchie giuridico-amministrative.

Ernesto Galli della Loggia

7 luglio 2013 | 8:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_07/la-paralisi-del-formalismo-ernesto-galli-della-loggia_a6dd9188-e6be-11e2-a870-69831ea32195.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Venti anni di dissipazione
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 11:41:32 am
LA SCENA CHE NON RIESCE A CAMBIARE

Venti anni di dissipazione

Già a distanza di tre giorni è chiaro che porre termine all'era Berlusconi non è per nulla facile, a dispetto di chi ci aveva assicurato del contrario appena conosciuta la decisione della Cassazione che ha condannato in via definiva il Cavaliere. Non è facile, non solo perché il diretto interessato non sembra troppo disposto a farsi da parte; non solo perché né il Pd né il Pdl sembrano effettivamente intenzionati a muovere il primo passo verso la caduta del governo Letta e lo scioglimento delle Camere (così sfidando, tra l'altro, l'orientamento del presidente della Repubblica, presumibilmente per nulla entusiasta di una simile prospettiva), ma non è facile per un'altra e forse più sostanziale ragione. E cioè che politicamente dopo la fine dell'era Berlusconi non è dato vedere ancora nulla. Politicamente c'è il vuoto.
Sono anni, ormai, che il Paese aspetta un nuovo che non c'è. Da anni siamo un Paese che nell'ambito delle idee sulla società e sull'economia, così come sul piano delle proposte politiche e delle relative leadership, nella lotta contro i suoi mali storici, non riesce più a pensare e a produrre nulla di nuovo. Scelta civica e il Movimento 5 Stelle sono stati gli ultimi tentativi abortiti di una ormai lunga serie: così Monti ha cessato da tempo di essere una riserva della Repubblica, Beppe Grillo è rimasto un attempato comico televisivo, mentre Matteo Renzi, dal canto suo, è già sul punto di apparire l'uomo di una stagione ormai trascorsa.

Ci mancano energie, idee, donne e uomini nuovi. Non per nulla, nell'assenza di qualunque soluzione audacemente imprevedibile, di una qualsivoglia inedita, valida, vocazione collettiva e personale, e stante l'incapacità sempre più clamorosa dei partiti di essere qualcosa di diverso dal passato, non ci è restato altro, per far comunque qualcosa di fronte all'emergenza, che ricorrere all' union sacrée di tutto il vecchio. A una versione aggiornata delle «convergenze parallele».

La verità è che siamo un Paese politicamente stanco, sfibrato, il quale troppo a lungo invece di guardare avanti si è perso nei reciproci risentimenti e nella recriminazione universale. I venti anni alle nostre spalle - i venti anni dell'era dominata sì da Berlusconi, ma in cui sulla scena c'erano pure tutti gli altri, pure tutti i suoi avversari - sono stati gli anni perduti della nostra storia repubblicana, i più inconcludenti e i più grigi. Gli anni della nostra dissipazione. Più che quelli dell'era Berlusconi essi, a considerarli retrospettivamente oggi, appaiono soprattutto come l'ultimo ventennio del Dopoguerra italiano. Quello in cui abbiamo creduto che fosse ancora possibile continuare a mantenere in vita il vecchio modello precedente, al massimo con qualche aggiustamento ma conservando la sostanza di molte, di troppe cose.

Quello in cui abbiamo creduto che anche nel sistema politico bastasse rimaneggiare le identità dei partiti, cambiare qualche persona, una regola elettorale; che bastasse ciò e non già che, invece, fosse necessario ben altro: ad esempio prendere di petto il potere delle corporazioni, tagliare le unghie all'alta burocrazia, disboscare selvaggiamente i codici, riportare la scuola a una regola antica di severità e di merito personale, impedire la finanza allegra di mille enti vampiri del denaro pubblico. Soprattutto esercitarci tutti in una spietata autocritica dei nostri peccati, delle azioni e delle omissioni di cui eravamo stati responsabili. Questo e molto altro sarebbe stato necessario: e ancora lo è. Urgentemente, drammaticamente.

Ma invece della verità, la politica sembra apprestarsi oggi a dare all'Italia al massimo le elezioni. Siamo davvero ansiosi di sapere che cosa mai ci prometteranno nell'occasione i duellanti di sempre. Sì, vogliamo proprio sentirlo il Pdl promettere per la decima volta la riforma di questo e di quello, dopo che non è stato capace per anni di farne nessuna. Sì, siamo davvero ansiosi di ascoltare finalmente dal Pd - visto che a smacchiare il giaguaro ci ha pensato qualcun altro - quali mirabolanti progetti ha per il Paese, soprattutto dove troverà i soldi per finanziarli e magari anche se intende chiamare a parteciparvi, chessò, il senatore Crimi (M5S) o l'onorevole Migliore (Sel). Ascolteremo, dunque. Comunque parteciperemo. Ancora una volta voteremo. Ma possiamo dirlo? Di questo vuoto, di questo nulla riempito solo di parole, non ne possiamo davvero più.

4 agosto 2013 | 8:31
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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_04/venti-anni-di-dissipazione_e82cd552-fccd-11e2-ac1e-dbc1aeb5a273.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'inevitabile successione
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2013, 04:48:20 pm
UN LEADER PER IL CENTRODESTRA

L'inevitabile successione


È molto difficile chiudere l'era Berlusconi, ma è certo che in una prospettiva non troppo lontana la sentenza della Cassazione ha posto fine alla sua leadership politica. In un Paese civile le sentenze delle Corti, infatti, fossero anche le più infondate e discutibili, vanno eseguite.
Su questo non possono e non devono esserci dubbi.

Fine della leadership di Berlusconi, dunque. Certo, il Cavaliere potrebbe sempre in qualche modo dirigere il Pdl da casa sua, mandare cassette registrate da trasmettere alla televisione, rilasciare un'intervista al giorno, collegarsi dovunque in teleconferenza. Ma il fatto di non poter essere eletto e far ascoltare mai la sua voce in Parlamento, di non poter farsi vedere in un comizio, di non potersi recare in alcuna riunione all'estero, tutto ciò rende di fatto impossibile qualunque suo reale ruolo di comando. È vero che egli non è uomo da rassegnarsi facilmente, e che l'Italia ha ormai abituato il mondo alle proprie numerose anomalie, ma si può immaginare un Paese o un partito guidati a questo modo? Cioè nel modo in cui si troverà Berlusconi tra poche settimane? Dunque prima o poi egli dovrà passare la mano in qualche modo. L'ora della sua successione è arrivata.

Anche se come si sa, egli non si è mai curato di prepararla. Non è un caso che finora, a quel che sembra, l'unica forma di successione che gli è venuta in mente non è all'interno del suo partito di plastica, bensì è quella personal-familiare nella persona della figlia Marina (che peraltro ha detto proprio ieri di non pensarci nemmeno): un'incredibile e, più che incredibile contraddittoria, trasposizione nella dimensione dinastica della vicenda più orgogliosamente self made man e più sfrenatamente egotista che abbia mai visto la politica italiana.

La verità è che finché si rimane nell'ambito del partito berlusconiano il problema di trovare una futura leadership è per la Destra un problema insolubile. All'interno del Pdl non esiste alcuna personalità in grado di essere realmente accettata da tutti gli altri come capo, e al tempo stesso di risultare credibile agli occhi dell'elettorato.

Per rappresentare nelle urne gli elettori italiani di destra è necessario perciò che oggi si avvii la nascita di qualcosa di nuovo e di diverso, che può essere il frutto solo di un grande rimaneggiamento di sigle, di famiglie, di gruppi e di storie politiche. Al quale - questo sembra essere il punto decisivo - deve partecipare attivamente anche quell'area moderata, non di sinistra, che finora si è detta di centro: si è detta tale, a me pare, per un solo motivo, in sostanza: per la comprensibile paura di essere confusa con la Destra esistente, vale a dire con Berlusconi, con il suo stile e le sue pratiche. Ormai, però, si è aperta una prospettiva in cui tale paura non ha più motivo di essere.

Le donne e gli uomini del Centro, gli ambienti che li esprimono, devono solo convincersi che in un Paese normalmente bipolare - e l'Italia ormai lo è definitivamente - essere di destra vuol dire semplicemente avere opinioni, valori e adottare politiche diverse da quelle della Sinistra. E che dunque se, come è il loro caso, non si hanno le opinioni e i valori della Sinistra, ciò significa inevitabilmente che si è di Destra, e che in ciò non c'è nulla di male. In una democrazia Destra e Sinistra, infatti, non sono l'una il male e l'altra il bene, o viceversa. Sono semplicemente due diversi luoghi dello schieramento politico, e in parte (ma solo in parte) anche due modi di pensare il mondo: entrambi legittimi perché a sostegno di entrambi possono essere addotte ottime ragioni. Se migliori in un caso o nell'altro, dipende solo dalle circostanze.

Se non si è di sinistra, dunque, è all'elettorato di destra che bisogna rivolgersi. Ma senza retropensieri e infingimenti. Senza fare, ad esempio, ciò che invece ha fatto rovinosamente il Centro nell'ultima campagna elettorale: e cioè di dare chiaramente a intendere che, se del caso, esso non escludeva dopo le elezioni di potersi alleare con la Sinistra. Oggi come oggi, infine, una ricostruzione politica della Destra a partire dal Centro dovrebbe anche avere chiaro che per interloquire con l'elettorato che per anni si è riconosciuto nel Pdl non si devono, no, tacere le ombre pesanti che via via si sono venute addensando su Berlusconi, ma al tempo stesso si deve non solo riconoscergli la parte imprescindibile e positiva che egli ha avuto a suo tempo nella trasformazione del sistema politico italiano, ma anche fare proprie alcune battaglie (perdute) che hanno caratterizzato la sua vicenda. A cominciare da quella altamente simbolica, ma assolutamente sacrosanta, per una riforma del sistema giudiziario.

È vero che in Italia per adottare la linea che ho sommariamente indicato bisogna superare un potentissimo interdetto socio-culturale: quello costruito per anni e anni dalla Sinistra, la quale ha sempre cercato di far credere che essere di destra voglia dire essere contro la democrazia (dimenticando, tra l'altro, che su questo piano essa stessa non aveva certo tutte le carte in regola...).
Ed è pure altrettanto vero che nel nostro Paese, a partire almeno dagli anni 70 del secolo scorso, la borghesia corporativa e della rendita e il capitalismo senza capitali - pieni com'erano e come sono di scheletri negli armadi, e perciò oltremodo bisognosi di un protettore politico - hanno sempre trovato comodo cercarlo a sinistra: cioè nella parte che gli appariva di volta in volta più forte, più cattiva, o più alla moda. Ma tutto questo, se non m'inganno, il vorticoso incalzare dei tempi e l'urgenza dell'agenda politica se lo stanno ormai portando via. La crisi del Paese vuol dire la fine, tra tante altre cose, pure di questi antichi riflessi condizionati. Anche a destra è venuto il momento di voltare pagina.

11 agosto 2013 | 8:32
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Ernesto Galli della Loggia

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_11/inevitabile-successione_811468d4-024b-11e3-8e0b-f7765a3f55a3.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Lo stato di salute della nuova Chiesa
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2013, 09:29:56 am
LE RIFORME DEL PAPA, L'INFLUSSO ITALIANO

Lo stato di salute della nuova Chiesa

Ernesto Galli Della Loggia

Le riforme della Curia e dello Ior in cui il Papa appare impegnato fino in fondo ripropongono la peculiarità di quel complesso organismo che vede intrecciate, ancorché si tratti di due entità in linea di principio distintissime, Santa Sede e Stato della Città del Vaticano. Un organismo il quale, come si sa, nacque nel 1929 in seguito al Trattato del Laterano che pose termine alla «questione romana» apertasi nel 1870 con la conquista di Roma da parte del neonato Stato italiano che portò alla fine del potere temporale dei papi.

A proposito di questi avvenimenti ancora recentemente, in occasione del 150° anniversario dell'Unità, a testimoniare come spesso la storia produca sentimenti e risentimenti assai duri a morire, alcuni storici cattolici d'ispirazione diciamo così tradizionalistica hanno descritto il Risorgimento come un disegno volto soprattutto alla decattolicizzazione/ scristianizzazione dell'Italia, da conseguire attraverso una sistematica persecuzione della Chiesa di Roma.
Che le cose però non siano andate proprio in tal senso basterebbe a indicarlo il fatto che qualche decennio dopo la presunta devastazione anticattolica operata dal Risorgimento arrivò al potere (chissà come), e destinato a restarvi a lungo, proprio un partito di cattolici.

Ma c'è di più. E cioè che sia per il Papa che per la Santa Sede, l'esistenza dello Stato italiano nato 150 anni fa si è rivelato alla fine assai più di vantaggio che di danno. Lo si vede particolarmente oggi. Il processo di pulizia e di rinnovamento della Curia intrapreso da papa Francesco, infatti, è nato certamente da indiscrezioni e rapporti riservati in circolazione da tempo all'interno delle mura leonine. Ma altrettanto certamente quel processo è stato reso improrogabile dall'emergere di illeciti certi e acclarati. Ebbene, mi chiedo, a chi o a che cosa si deve tale inoppugnabile consapevolezza?

Di sicuro, se per scoprire tanti retroscena oscuri si fossero dovute aspettare le indagini dei giudici vaticani sulle malefatte del cameriere di Benedetto XVI, o le risultanze del processo all'acqua di rose intentatogli, staremmo ancora ad aspettare, credo. A contare è stato altro: l'iniziativa della Banca d'Italia e quella della Procura della Repubblica di Roma. Esse sono valse dapprima a suscitare la reazione scandalizzata dell'opinione pubblica e di una parte maggioritaria della stessa gerarchia spingendo quest'ultima a eleggere Papa una personalità come quella di Bergoglio; e poi a convincere il nuovo Papa a nominare in tempi rapidissimi le varie commissioni di studio e d'indagine oggi all'opera. Non è forse stata decisiva l'azione della Banca d'Italia, insomma, per accendere un faro sulle attività illecite dello Ior? E non è stata forse altrettanto decisiva l'azione della Procura di Roma per cominciare a smascherare la rete di mariuoleria responsabile di questi e di altri illeciti? Che ne sarebbe stata, mi chiedo, dell'immagine di quel galantuomo di Ettore Gotti Tedeschi, il presidente dello Ior licenziato a bella posta dalle gerarchie infedeli per farne un comodo capro espiatorio, se non avesse provveduto la suddetta Procura a chiarirne la totale innocenza e a restituirgli l'onore?

La conclusione non è certamente quella di dire che allora è bene che la Chiesa sia sottomessa a una sorta di controllo dello Stato italiano. Ma solo quanto sia importante per la stessa Chiesa che gli organi di questo Stato facciano con diligenza e senza guardare in faccia a nessuno il proprio dovere.

22 luglio 2013 | 7:37
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_22/stato-di-salute-nuova-chiesa_f9c0cd96-f287-11e2-8506-64ec07f27631.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La solitudine dei moderati
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2013, 11:32:58 pm
IL FUTURO DEL CENTRODESTRA

La solitudine dei moderati

Se le cose continueranno a essere come sono oggi (ed è molto probabile), Berlusconi ha verosimilmente una sola via possibile per restare davvero al centro della vita politica italiana.
Ma è una via che ha le tinte cupe dell'Apocalisse: andare ai «domiciliari», far saltare il governo, puntare al più presto alle elezioni anticipate con l'attuale legge elettorale, vincerle. Una via non solo carica d'incognite per lui temibilissime (a cominciare dalle reazioni del presidente della Repubblica per finire con le ripercussioni sull'immagine e sulla tenuta economica del Paese), ma interamente all'insegna del «tutto o niente». E il «tutto o niente», se può sedurre la psicologia del giocatore, può anche condurre lo stesso alla rovina totale.

Esclusa l'Apocalisse non resta che il Tramonto: a oltre 75 anni di età (ma anche a 45 forse non farebbe differenza) non si può fare il leader effettivo di un partito e di un Paese nelle condizioni in cui si troverebbe Berlusconi stando ai «domiciliari». Dunque il Tramonto. E con esso la domanda inevitabile: che effetto avrebbe la scomparsa del Sole sulle sorti del Pdl? È ragionevole pensare che l'effetto sarebbe la sua virtuale dissoluzione. Un partito personale ben difficilmente riesce a fare a meno del fondatore-padrone, e Berlusconi lascia dietro di sé il vuoto, a cominciare dall'assenza di qualunque meccanismo collaudato in grado di prendere decisioni minimamente vincolanti per tutti. Esito più probabile, pertanto, una rissa inconcludente e feroce di cacicchi e cacicche minacciati di disoccupazione, di tutti contro tutti, con implosione finale del Pdl.

Ma che ne sarà a questo punto della vasta area elettorale che per un ventennio si è riconosciuta nel Pdl? Oggi come oggi è difficile immaginare che essa possa essere riorganizzata e integrata da un'iniziativa che parta dal Centro. Che sia questa la sola ipotesi ragionevole non vuol dire che sia anche quella che si realizzerà. In realtà, infatti, se Berlusconi è al tramonto, sul Centro si direbbe che la luce del giorno non sia mai neppure spuntata. Dalla batosta elettorale in poi da lì non è venuto assolutamente niente; da quel giorno Casini, Monti e i loro parlamentari avvizziscono, tristemente appollaiati su un inutile dieci per cento, peraltro ormai ridottosi nei sondaggi a poco più della metà.

Il tramonto berlusconiano, insomma, rischia di corrispondere per milioni di elettori, per l'area dello schieramento politico non di sinistra che vede insieme la Destra e il Centro, e che si è soliti chiamare «moderata», a una profonda crisi di rappresentanza politica. È una crisi che viene da lontano, che caratterizza in un certo senso l'intera storia della Repubblica, anche se per mezzo secolo essa è stata tenuta celata dalla presenza surrogatoria del partito cattolico, della Democrazia cristiana. Ma se ci si pensa con attenzione - Dc a parte, che aveva natura e origine diverse, e a parte le formazioni monarco-fasciste ereditate dal passato precedente - una tale area in settant'anni non ha espresso che due formazioni significative: l'Uomo Qualunque (che visse una brevissima stagione dal 1944 al 1947) e Forza Italia. Diverse per consistenza e durata ma entrambe con un fondo comune: fatto di un'insuperabile gracilità organizzativa, della inconsistenza e della contraddittorietà della piattaforma politica, del loro carattere personalistico, di una più o meno strisciante tentazione populista. E al dunque sempre dando l'impressione di un che d'improvvisato e di provvisorio, di una certa labilità, di mancanza di radici; e sempre con una classe politica raccogliticcia e mediocre. Politicamente è questo tutto ciò che sono stati capaci di esprimere i moderati italiani.

Verrebbe quasi da concludere che dietro tali forze politiche non sia mai esistito e non esista ancora oggi alcun retroterra sociale. Ciò che però non è vero, naturalmente. Una società italiana moderata, un'Italia di centrodestra, esiste eccome. Ma il fatto si è che sia per abitudine che per vizio essa si tiene lontana dalla politica: non da ultimo per lo sciocco pregiudizio che se ne possa fare a meno, che la politica debba, e possa, ridursi alla buona amministrazione. La cultura e lo stile di vita di questa Italia moderata la spingono sì, poi, al coinvolgimento sociale, ma solo nella dimensione dell'associazionismo specifico (professionale e di scopo): assai meno la spingono a spendersi in quell'impegno generale nella società - tipicamente preliminare alla politica - per il quale essa non ha vocazione e non prova in genere alcun gusto. Infine, non prefiggendosi poi di cambiare il mondo, non credendolo né utile né possibile, e ricavando per giunta una certa soddisfazione dalla propria attività quotidiana, essa è perlopiù scettica verso tutte le «grandi cause» e le relative mobilitazioni. Salvo casi eccezionali non si sente a proprio agio con assemblee, comizi, ordini del giorno: tutte cose, invece, che fanno la delizia dell'Italia progressista.

Per una tale metà del Paese, così pervasivamente, antropologicamente, antipolitica, il rischio è quello di identificarsi solo nella contrapposizione alla sinistra, di essere sensibile solo a questa parola d'ordine: e di trovare leader esclusivamente capaci di vellicare questa contrapposizione. Laddove, viceversa, alla debole strutturazione politica attuale dell'Italia moderata si dovrebbe, e forse si potrebbe rimediare (cominciare a rimediare), cercando di darle un fondamento in strati culturali i quali, sia pure nascosti, probabilmente esistono al fondo di gran parte di essa. Se non altro come fantasmi di un passato lontano. Un certo senso dello Stato e dell'interesse pubblico, l'idea della Nazione come vincolo di solidarietà e scudo necessario nell'arena internazionale, e poi l'orizzonte della compostezza, del saper leggere e scrivere, del giocare pulito, e sopra e prima di tutto la necessità di essere liberi in modo non distruttivo. Illusioni? Anticaglie? E perché, le idee dei modernissimi intelligentoni di Scelta civica erano per caso più interessanti o più convincenti (alzi la mano chi ne ricorda qualcuna)? E forse sono oggi più profonde e lasciano meglio sperare quelle dell'onorevole Gennaro Migliore o dell'onorevole Pippo Civati?

26 agosto 2013 | 7:26
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Ernesto Galli della Loggia

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_26/la-solitudine-dei-moderati-ernesto-galli-della-loggia_4789f710-0e0c-11e3-94c3-5ad04b7d12ed.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L'improbabile espulsione
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 05:15:24 pm
LA GUERRA NELLA STORIA DELL'OCCIDENTE

L'improbabile espulsione


Quale persona ragionevole può preferire la guerra alla pace? Non stupiscono dunque i vasti consensi che alla luce di un possibile intervento militare americano in Siria ha ricevuto l'appello del Papa contro la guerra. Appello che, si badi, non evoca affatto l'argomento che in questo specifico caso la guerra sarebbe ingiustificata (cioè «non giusta»), ma esprime semplicemente un reciso e totale no alla guerra. Proprio questo carattere generale e programmatico dell'appello papale alla pace - oggi in palese sintonia con un orientamento profondo proprio dello spirito pubblico dell'intera Europa continentale - solleva però almeno tre grandi ordini di problemi, che sarebbe ipocrita tacere.

l) L'ostilità di principio alla guerra (fatto salvo, immagino, il caso di una guerra di pura difesa, tuttavia non facilmente definibile: la guerra dichiarata dalla Gran Bretagna e dalla Francia alla Germania nel 1939, per esempio, era di difesa o no?) cancella virtualmente dalla storia la categoria stessa di «nemico» (e quella connessa di «pericolo»). Cioè di un qualche potere che è ragionevole credere intento a volere in vari modi il nostro male; e contro il quale quindi è altrettanto ragionevole cercare di premunirsi (per esempio mantenendo un esercito). Chi oggi dice no alla guerra è davvero convinto che l'Europa e in genere l'Occidente non abbiano più nemici? E se pensa che invece per entrambi di nemici ve ne siano, che cosa suggerisce di fare oltre a essere «contro la guerra»?

2) In genere, poi, chi si pronuncia in tal senso è tuttavia favorevole all'esistenza di un'Europa unita quale vero soggetto politico. Un'Europa perciò che abbia una politica estera. La questione che si pone allora è come sia possibile avere una tale politica rinunciando ad avere insieme una politica militare, un esercito e degli armamenti (e quindi anche delle fabbriche d'armi). È immaginabile un qualunque ruolo internazionale di un minimo rilievo non avendo alcuna capacità di sanzione? Altri Stati senza dubbio tale capacità l'avranno: si deve allora lasciare campo libero ad essi? Ma con quale guadagno per la pace?

3) C'è infine un argomento molto usato per dirsi in generale contro la guerra: «La guerra non ha mai risolto alcun problema». Nella sua perentorietà l'argomento è però palesemente falso. Dipende infatti dalla natura dei problemi: non pochi problemi la guerra li ha risolti eccome (penso a tante guerre per l'indipendenza nazionale, ad esempio); per gli altri bisogna intendersi su che cosa significa «risolvere» (tenendo presente che nella storia è rarissimo che per qualunque genere di questioni vi sia una soluzione definitiva, «per sempre»). Se si parla di un pericolo politico, una «soluzione» può benissimo essere rappresentata dal suo semplice ridimensionamento, dall'allontanamento nel tempo, dalla sostituzione di un nemico più forte con uno meno forte. Tutti obiettivi che un'azione militare è di certo in grado di conseguire.
Insomma: essere in generale a favore della pace è sacrosanto; proporsi invece di espellere la guerra dalla storia è, come si capisce, tutt'un altro discorso.

8 settembre 2013 | 8:16
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Ernesto Galli Della Loggia

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Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il labirinto prossimo venturo
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2013, 04:40:00 pm
I DEMOCRATICI, LE ALLEANZE E IL VOTO

Il labirinto prossimo venturo


La gravità della crisi italiana non sta nell'inadeguatezza sia pur grave di questo o quel partito. Sta nella condizione di evidente provvisorietà che caratterizza l'intero sistema politico a causa della natura aleatoria e instabile di tutti i principali partiti. I cui retroterra culturali, alleanze, leadership e programmi, appaiono, potenzialmente in continua quasi incontrollabile evoluzione. Lo si vede bene oggi quando con ogni probabilità ci stiamo avvicinando a una svolta della legislatura, dovuta al fatto che l'attuale «strana maggioranza» - sottoposta com'è alle tensioni prodotte da un lato dalla procedura di espulsione di Berlusconi dal Senato, e dall'altro dall'aggravamento dei conti pubblici, che rende sempre più insostenibile la contemporanea cancellazione dell'Imu e il mantenimento al 21 per cento dell'Iva - non sembra in grado di resistere ancora a lungo.


Ma se la crisi del governo Letta getterà il Pdl/Forza Italia nella più totale incertezza, in balia dell'altalena di ire e di resipiscenze di Berlusconi, dei suoi cambiamenti di umori e di progetti, anche il destino del Pd non lascia presagire prospettive molto rassicuranti. Se Letta venisse costretto alle dimissioni in seguito al ritiro dei ministri della Destra, il cammino che si aprirà davanti ai Democratici sarà infatti tutto in salita. Esclusa l'ipotesi di elezioni anticipate, che Napolitano non vuole, o si aprirà la crisi ovvero il presidente del Consiglio tornerà alle Camere per cercare una nuova maggioranza. In entrambi i casi - essendo fuori gioco una riedizione delle «larghe intese», così come, auspicabilmente, di qualche pasticcio a base di «volenterosi» e transfughi di varia provenienza - il Pd dovrà rivolgersi a Sel e ai 5 Stelle. Come sei mesi fa: solo che questa volta è probabile che ci sia una spinta a concludere positivamente che allora invece fu assai minore o mancò del tutto, perché forse (sia pure molto forse) stavolta i grillini almeno un appoggio esterno finiranno per darlo.


Si aprirà però a questo punto, per il Pd, uno scenario tra i più scomodi: essere il cuore di una coalizione di governo tutta orientata a sinistra, prevedibilmente alle prese con continui fremiti movimentistici, esposta a sollecitazioni di tono e segno estremistico. Che non sarà davvero facile governare senza consumarsi in polemiche, ultimatum, scontri e armistizi, che verosimilmente renderanno la vita della coalizione stessa quanto mai precaria, povera di risultati apprezzabili (se non peggio: è facile immaginare quello che ne penseranno a Bruxelles o a Berlino), e destinata concludersi con nuove elezioni anticipate (diciamo entro la primavera del 2015).


Una competizione elettorale con la Destra e con il Centro che vedrebbe comunque i Democratici in una situazione scomodissima. E oltremodo contraddittoria. Nessuno, è vero, è oggi in grado di leggere nella sfera di cristallo delle vicende congressuali e delle relative lotte interne del Pd, ma che ne resterebbe del «partito a vocazione maggioritaria» dopo dieci mesi - un anno di governo Pd-Sel-5 Stelle? E che ne sarebbe a quel punto dell'immagine politica di Matteo Renzi, della sua credibilità e del suo appeal su settori elettorali non di sinistra, alla guida di un partito siffatto? In conclusione un semplice dubbio: già alla fine del 2011 il Partito democratico sbagliò clamorosamente a non chiedere le elezioni anticipate dopo la fine ingloriosa del governo Berlusconi; non capiterà che tra poche settimane sia destinato a ripetere il medesimo errore?

21 settembre 2013 | 7:37
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Ernesto Galli Della Loggia

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_21/20130921NAZ01_44_ba906052-227d-11e3-b502-24e91794bc4d.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - Moderati alternativi alla sinistra
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2013, 07:38:51 pm
L’EDITORIALE

La costruzione di un’identità
Moderati alternativi alla sinistra

È impossibile dire in queste ore che cosa nascerà dalla vasta dissidenza che si è manifestata nel Pdl contro la direzione berlusconiana. In particolare è difficile dire se da tale dissidenza nascerà quella Destra «europea», «costituzionale», «moderata», «liberale» - in grado di rappresentare una reale alternativa alla Sinistra - che da molte parti si auspica. Vedremo. Ciò che per il momento possiamo fare è chiederci per quale ragione, però, essa finora non è mai nata, e perché invece la sola Destra competitiva che in Italia ha visto la luce è stata quella di Berlusconi.
Al cuore del problema c’è una questione di credibilità rispetto al proprio elettorato di riferimento, la cui principale caratteristica è rappresentata ovviamente dall’ostilità verso la Sinistra (ho scritto ovviamente perché la stessa cosa vale per l’altra parte. Anche l’elettorato di sinistra, infatti, è mosso principalmente dall’ostilità verso la Destra: lo si è visto bene nella rivolta dentro il Pd contro Renzi, giudicato da molti dei suoi troppo incerto su questo fronte). Come si capisce, tale credibilità non può che essere data dalla leadership . Affinché esista una Destra alternativa e competitiva, cioè, è necessario che vi siano dei capi i quali non lascino dubbi sulla propria volontà di contrapporsi alla Sinistra, di essere una cosa assolutamente diversa. Che lo sappiano fare con le parole, con i gesti e con i fatti, con la propria vicenda individuale, vorrei dire perfino con la propria persona. Precisamente e innanzi tutto da questo punto di vista Berlusconi - chi ne può dubitare? - è stato assolutamente imbattibile. Ogni cosa in lui ha testimoniato di una radicale estraneità all’universo antropologico della Sinistra: dalla sua attività ai suoi interessi economico-aziendali, ai suoi modi, al suo linguaggio. Senza contare un ulteriore elemento di portata decisiva: la sua estraneità - biografica e ideologica - alla politica in quanto tale (al «teatrino della politica», nel linguaggio berlusconiano).
Un’estraneità fatta apposta per solleticare il sentimento di diffidenza verso la dimensione della politica e il suo carattere invasivo che in ogni Paese del mondo, ma soprattutto in Italia, è un marchio caratterizzante di qualunque elettorato di destra.
Da ciò che ora ho detto ci si può fare un’idea di quanto sia complicato in Italia rappresentare l’elettorato di destra in modo che allo stesso risulti davvero credibile e che susciti un reale sentimento di identificazione: bisogna sì fare politica, ma dando a vedere che i propri valori e il senso della propria vita stanno altrove (fu questo, a suo tempo, un indubbio elemento distintivo e di forza dei politici cattolici nei confronti del «moderatismo» nazionale).
Questa «antipoliticità» di fondo richiesta a ogni leadership di destra che voglia risultare credibile di fronte al proprio elettorato copre però ben altri ambiti, e implica da parte di quella leadership , in Italia, una cosa ancora più difficile. Vale a dire la capacità di sottrarsi all’egemonia che sul senso comune accreditato e sul discorso pubblico ufficiale esercita (arrivo a pensare quasi senza neppure accorgersene) la Sinistra: una capacità, anche questa, che Berlusconi ha avuto come pochi ma che non è per nulla facile avere.

In Italia infatti - per ragioni storiche che risalgono al fascismo e al fatto che la sua catastrofe ha voluto dire la delegittimazione di tutto quanto recasse un’impronta «di destra» - in Italia, dicevo, da decenni le istituzioni, i grandi corpi dello Stato, gli alti funzionari, le «autorità», i grandi giornali, la cultura riconosciuta, tutto quanto, lasciato libero di esprimersi, parla in maniera naturale un linguaggio «di sinistra». Con gli stilemi, i luoghi comuni, i principi che in un modo o in un altro rimandano, oggi almeno, all’universo politico di questa: l’«Europa», la «Costituzione», il «sindacato», i «diritti», la «pace», la «laicità», il «multiculturalismo», la «legalità», e via di seguito. Non da ultimo in ragione della straordinaria capacità della Sinistra stessa di fare propri e di inglobare anche valori che in realtà hanno origine e storia lontane dalle sue.
Quale sia il monopolio di fatto di cui gode tale universo politico-culturale e quindi la sua naturale forza di attrazione si è visto con Gianfranco Fini. Il quale, provenendo dal mondo neofascista (dico neofascista!) e volendo dar vita pure lui a una Destra «moderna» ed «europea», si è però ridotto in breve a scimmiottare in tutto e per tutto il discorso della Sinistra. Per effetto, tra l’altro, di un ulteriore condizionamento che una leadership di destra desiderosa di qualificarsi come «diversa» deve mettere in conto. Il fatto cioè che questa sua diversità - qualora sia schierata polemicamente contro altri settori della Destra (come è stato per l’appunto nel caso di Fini) - diviene tuttavia subito oggetto delle più diverse e continue forme di approvazione, adulazione e compiacimento, da parte della Sinistra, la quale ha l’ovvio interesse di strumentalizzarla. In tal modo però snaturandola e privandola di ogni vigore politico.
Mantenere dunque un tratto non immediatamente politico; essere capaci di rappresentare sempre una posizione realmente anche se non pregiudizialmente alternativa; avere il coraggio, l’intelligenza e la capacità di costruire e opporre un proprio discorso pubblico a quello della Sinistra, di resistere alla sua captatio benevolentiae non trasformandosi però in una Destra «trogloditica» e/o sovversiveggiante: per la leadership di una Destra «moderna» ed «europea» la navigazione è costellata di questi scogli: se Alfano e i suoi avranno il coraggio di mettersi in mare, sanno quello che li aspetta.

06 ottobre 2013
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Ernesto Galli Della Loggia
http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_06/della-loggia-editoriale-costruzione-un-identita-f4768682-2e73-11e3-9d21-b46496cc2a61.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il fallimento di una classe dirigente
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2013, 11:12:03 pm
L’EDITORIALE

Il potere vuoto di un Paese fermo

Il fallimento di una classe dirigente

L’Italia non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi. Parole forti: ma quali altre si possono usare per intendere come realmente stanno le cose? E soprattutto che la routine in cui sembriamo adagiati ci sta uccidendo?

Sopraggiunta dopo anni e anni di paralisi, la crisi è lo specchio di tutti i nostri errori passati così come delle nostre debolezze e incapacità presenti. Siamo abituati a pensare che essa sia essenzialmente una crisi economica, ma non è così. L’economia è l’aspetto più evidente ma solo perché è quello più facilmente misurabile. In realtà si tratta di qualcosa di più vasto e profondo. Dalla giustizia all’istruzione, alla burocrazia, sono principalmente tutte le nostre istituzioni che appaiono arcaiche, organizzate per favorire soprattutto chi ci lavora e non i cittadini, estranee al criterio del merito: dominate da lobby sindacali o da cricche interne, dall’anzianità, dal formalismo, dalla tortuosità demenziale delle procedure, dalla demagogia che in realtà copre l’interesse personale.

Del sistema politico è inutile dire perché ormai è stato già detto tutto mille volte. I risultati complessivi si vedono. Tutte le reti del Paese (autostrade, porti, aeroporti, telecomunicazioni, acquedotti) sono logorate e insufficienti quando non cadono a pezzi. Come cade a pezzi tutto il nostro sistema culturale: dalle biblioteche ai musei ai siti archeologici. Siamo ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee: della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa. E naturalmente ormai rassegnati all’idea che le cose non possano che andare così, visto che nessuno ormai più neppure ci prova a farle andare diversamente. Anche il tessuto unitario del Paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese.

Mai come oggi il Nord e il Sud appaiono come due Nazioniimmensamente lontane. Entrambe abitate perlopiù da anziani: parti separate di un’Italia dove in pratica sta cessando di esistere anche qualunque mobilità sociale; dove circa un terzo dei nati dopo gli anni ‘80 ha visto peggiorare la propria condizione lavorativa rispetto a quella del proprio padre. Quale futuro può esserci per un Paese così? Popolato da moltissimi anziani e da pochi giovani incolti senza prospettive?
Certo, in tutto questo c’entra la politica, i politici, eccome. Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di che cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano. Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere? La risposta sta nel numero delle fabbriche comprate dagli stranieri, dei settori produttivi dai quali siamo stati virtualmente espulsi a opera della concorrenza internazionale, nel numero delle aziende pubbliche che i suddetti hanno acquistato dallo Stato, perlopiù a prezzo di saldo, e che sotto la loro illuminata guida hanno condotto al disastro. Naturalmente senza mai rimetterci un soldo del proprio. Né meglio si può dire delle banche: organismi che invece di essere un volano per l’economia nazionale si rivelano ogni giorno di più una palla al piede: troppo spesso territorio di caccia per dirigenti vegliardi, professionalmente incapaci, mai sazi di emolumenti vertiginosi, troppo spesso collusi con il sottobosco politico e pronti a dare quattrini solo agli amici degli amici .

Questa è l’Italia di oggi. Un Paese la cui cosiddetta società civile è immersa nella modernità di facciata dei suoi 161 telefoni cellulari ogni cento abitanti, ma che naturalmente non legge un libro neppure a spararle (neanche un italiano su due ne legge uno all’anno), e detiene il record europeo delle ore passate ogni giorno davanti alla televisione (poco meno di 4 a testa, assicurano le statistiche). Di tutte queste cose insieme è fatta la nostra crisi. E di tutte queste cose si nutre lo scoraggiamento generale che guadagna sempre più terreno, il sentimento di sfiducia che oggi risuona in innumerevoli conversazioni di ogni tipo, nei più minuti commenti quotidiani e tra gli interlocutori più diversi. Mentre comincia a serpeggiare sempre più insistente l’idea che per l’Italia non ci sia più speranza. Mentre sempre più si diffonde una singolare sensazione: che ormai siamo arrivati al termine di una corsa cominciata tanto tempo fa tra mille speranze, ma che adesso sta finendo nel nulla: quasi la conferma - per i più pessimisti (o i più consapevoli) - di una nostra segreta incapacità di reggere sulla distanza alle prove della storia. E in un certo senso è proprio così.

L’Italia è davvero a una prova storica. Lo è dal 1991-1994, quando cominciò la paralisi che doveva preludere al nostro declino. Essa è ancora bloccata a quel triennio fatale: allorché finì non già la Prima Repubblica ma la nazione del Novecento: con i suoi partiti, le sue culture politiche originali e la Costituzione che ne era il riassunto, allorché finì la nazione della modernizzazione/industrializzazione da ultimi arrivati, la nazione del pervadente statalismo. Ma da allora nessuno è riuscito a immaginare quale altra potesse prenderne il posto.
Ecco a che cosa dovrebbe servire quella classe dirigente che tanto drammaticamente ci manca: a immaginare una simile realtà. A ripensare l’Italia, dal momento che la nostra crisi è nella sua essenza una crisi d’identità. Da vent’anni non riusciamo a trovare una formula politica, non siamo capaci d’azione e di decisione, perché in un senso profondo non sappiamo più chi siamo, che cosa sia l’Italia. Non sappiamo come il nostro passato si leghi al presente e come esso possa legarsi positivamente ad un futuro.

Non sappiamo se l’Italia serva ancora a qualcosa, oltre a dare il nome a una nazionale di calcio e a pagare gli interessi del debito pubblico. Abbiamo dunque bisogno di una classe dirigente che - messa da parte la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni è perlopiù servito solo a riempire il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti - si compenetri della necessità di un nuovo inizio. Ripensi un ruolo per questo Paese fissando obiettivi, stabilendo priorità e regole nuove: diverse, assai diverse dal passato. Mai come oggi, infatti, abbiamo bisogno di segni coraggiosi di discontinuità, di scommesse audaci sul cambiamento, di gesti di mutamento radicale.

Mai come oggi, cioè, abbiamo bisogno proprio di quei segni e di quelle scommesse che però, - al di là della personale intelligenza o inclinazione stilistica di questo o quel suo esponente - dai governi delle «larghe intese» non siamo riusciti ad avere. Governi simili funzionano solo in due casi, infatti: o quando c’è un obiettivo supremo su cui non si discute, in attesa di raggiungere il quale lo scontro politico è sospeso: come quando si tratta di combattere e vincere una guerra; ovvero quando tutte le parti, nessuna delle quali ha prevalso alle elezioni, giudicano più conveniente, anziché andare nuovamente alle urne, accordarsi sulla base di un accurato elenco di reciproche concessioni per sospendere le ostilità e governare insieme. Ma nessuno di questi due casi è quello dell’Italia: dove sia il conflitto interno al Pd e al Pdl che quello tra entrambi è ancora e sempre indomabile, e costituisce il tratto politico assolutamente dominante. La ragione delle «larghe intese» ha così finito per divenire, qui da noi, unicamente quella puramente estrinseca che si governa insieme perché nessuno ha vinto le elezioni, e per varie ragioni non se ne vogliono fare di nuove a breve scadenza.
Certo, due anni fa, quando tutto ebbe inizio con il governo Monti, le intenzioni del presidente della Repubblica miravano, e tuttora mirano, a ben altro. Ma dopo due anni di esperimento è giocoforza ammettere che quelle intenzioni, sebbene abbiano conseguito risultati importanti sul piano del contenimento dei danni, appaiono ben lontane dal divenire quella realtà di cui l’Italia ha bisogno.

Con le «larghe intese», sfortunatamente, non si diminuisce il debito, non si raddoppia la Salerno-Reggio Calabria, non si diminuiscono né le tasse né la spesa pubblica, non si elimina la camorra dal traffico dei rifiuti, non si fanno pagare le tasse universitarie ai figli dei ricchi, non si fa ripartire l’economia, non si separano le carriere dei magistrati, non si costruiscono le carceri, non si aboliscono le Province, non si introduce la meritocrazia nei mille luoghi dove è necessario, non si disbosca la foresta delle leggi, non si cancellano le incrostazioni oligarchiche in tutto l’apparato statale e parastatale; e, come è sotto gli occhi di tutti, anche con le «larghe intese» chissà quando si riuscirà a varare una nuova legge elettorale, seppure ci si riuscirà mai. Si tira a campare, con le «larghe intese», questo sì: ma a forza di tirare a campare alla fine si può anche morire .

20 ottobre 2013
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Ernesto Galli della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_20/potere-vuoto-un-paese-fermo-1e477e6a-394d-11e3-893b-774bbdeb5039.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il potere vuoto di un Paese fermo
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 09:59:09 am
L’EDITORIALE

Il potere vuoto di un Paese fermo

L’Italia non sta precipitando nell’abisso. Più semplicemente si sta perdendo, sta lentamente disfacendosi. Parole forti: ma quali altre si possono usare per intendere come realmente stanno le cose? E soprattutto che la routine in cui sembriamo adagiati ci sta uccidendo?

Sopraggiunta dopo anni e anni di paralisi, la crisi è lo specchio di tutti i nostri errori passati così come delle nostre debolezze e incapacità presenti. Siamo abituati a pensare che essa sia essenzialmente una crisi economica, ma non è così. L’economia è l’aspetto più evidente ma solo perché è quello più facilmente misurabile. In realtà si tratta di qualcosa di più vasto e profondo. Dalla giustizia all’istruzione, alla burocrazia, sono principalmente tutte le nostre istituzioni che appaiono arcaiche, organizzate per favorire soprattutto chi ci lavora e non i cittadini, estranee al criterio del merito: dominate da lobby sindacali o da cricche interne, dall’anzianità, dal formalismo, dalla tortuosità demenziale delle procedure, dalla demagogia che in realtà copre l’interesse personale.

Del sistema politico è inutile dire perché ormai è stato già detto tutto mille volte. I risultati complessivi si vedono. Tutte le reti del Paese (autostrade, porti, aeroporti, telecomunicazioni, acquedotti) sono logorate e insufficienti quando non cadono a pezzi. Come cade a pezzi tutto il nostro sistema culturale: dalle biblioteche ai musei ai siti archeologici. Siamo ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee: della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa. E naturalmente ormai rassegnati all’idea che le cose non possano che andare così, visto che nessuno ormai più neppure ci prova a farle andare diversamente. Anche il tessuto unitario del Paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese.

Mai come oggi il Nord e il Sud appaiono come due Nazioni immensamente lontane. Entrambe abitate perlopiù da anziani: parti separate di un’Italia dove in pratica sta cessando di esistere anche qualunque mobilità sociale; dove circa un terzo dei nati dopo gli anni ‘80 ha visto peggiorare la propria condizione lavorativa rispetto a quella del proprio padre. Quale futuro può esserci per un Paese così? Popolato da moltissimi anziani e da pochi giovani incolti senza prospettive?
Certo, in tutto questo c’entra la politica, i politici, eccome. Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di che cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano. Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere? La risposta sta nel numero delle fabbriche comprate dagli stranieri, dei settori produttivi dai quali siamo stati virtualmente espulsi a opera della concorrenza internazionale, nel numero delle aziende pubbliche che i suddetti hanno acquistato dallo Stato, perlopiù a prezzo di saldo, e che sotto la loro illuminata guida hanno condotto al disastro. Naturalmente senza mai rimetterci un soldo del proprio. Né meglio si può dire delle banche: organismi che invece di essere un volano per l’economia nazionale si rivelano ogni giorno di più una palla al piede: troppo spesso territorio di caccia per dirigenti vegliardi, professionalmente incapaci, mai sazi di emolumenti vertiginosi, troppo spesso collusi con il sottobosco politico e pronti a dare quattrini solo agli amici degli amici .

Questa è l’Italia di oggi. Un Paese la cui cosiddetta società civile è immersa nella modernità di facciata dei suoi 161 telefoni cellulari ogni cento abitanti, ma che naturalmente non legge un libro neppure a spararle (neanche un italiano su due ne legge uno all’anno), e detiene il record europeo delle ore passate ogni giorno davanti alla televisione (poco meno di 4 a testa, assicurano le statistiche). Di tutte queste cose insieme è fatta la nostra crisi. E di tutte queste cose si nutre lo scoraggiamento generale che guadagna sempre più terreno, il sentimento di sfiducia che oggi risuona in innumerevoli conversazioni di ogni tipo, nei più minuti commenti quotidiani e tra gli interlocutori più diversi. Mentre comincia a serpeggiare sempre più insistente l’idea che per l’Italia non ci sia più speranza. Mentre sempre più si diffonde una singolare sensazione: che ormai siamo arrivati al termine di una corsa cominciata tanto tempo fa tra mille speranze, ma che adesso sta finendo nel nulla: quasi la conferma - per i più pessimisti (o i più consapevoli) - di una nostra segreta incapacità di reggere sulla distanza alle prove della storia. E in un certo senso è proprio così.

L’Italia è davvero a una prova storica. Lo è dal 1991-1994, quando cominciò la paralisi che doveva preludere al nostro declino. Essa è ancora bloccata a quel triennio fatale: allorché finì non già la Prima Repubblica ma la nazione del Novecento: con i suoi partiti, le sue culture politiche originali e la Costituzione che ne era il riassunto, allorché finì la nazione della modernizzazione/industrializzazione da ultimi arrivati, la nazione del pervadente statalismo. Ma da allora nessuno è riuscito a immaginare quale altra potesse prenderne il posto.
Ecco a che cosa dovrebbe servire quella classe dirigente che tanto drammaticamente ci manca: a immaginare una simile realtà. A ripensare l’Italia, dal momento che la nostra crisi è nella sua essenza una crisi d’identità. Da vent’anni non riusciamo a trovare una formula politica, non siamo capaci d’azione e di decisione, perché in un senso profondo non sappiamo più chi siamo, che cosa sia l’Italia. Non sappiamo come il nostro passato si leghi al presente e come esso possa legarsi positivamente ad un futuro.

Non sappiamo se l’Italia serva ancora a qualcosa, oltre a dare il nome a una nazionale di calcio e a pagare gli interessi del debito pubblico. Abbiamo dunque bisogno di una classe dirigente che - messa da parte la favola bella della fine degli Stati nazionali e l’alibi europeista, che negli ultimi vent’anni è perlopiù servito solo a riempire il vuoto ideale e l’inettitudine politica di tanti - si compenetri della necessità di un nuovo inizio. Ripensi un ruolo per questo Paese fissando obiettivi, stabilendo priorità e regole nuove: diverse, assai diverse dal passato. Mai come oggi, infatti, abbiamo bisogno di segni coraggiosi di discontinuità, di scommesse audaci sul cambiamento, di gesti di mutamento radicale.

Mai come oggi, cioè, abbiamo bisogno proprio di quei segni e di quelle scommesse che però, - al di là della personale intelligenza o inclinazione stilistica di questo o quel suo esponente - dai governi delle «larghe intese» non siamo riusciti ad avere. Governi simili funzionano solo in due casi, infatti: o quando c’è un obiettivo supremo su cui non si discute, in attesa di raggiungere il quale lo scontro politico è sospeso: come quando si tratta di combattere e vincere una guerra; ovvero quando tutte le parti, nessuna delle quali ha prevalso alle elezioni, giudicano più conveniente, anziché andare nuovamente alle urne, accordarsi sulla base di un accurato elenco di reciproche concessioni per sospendere le ostilità e governare insieme. Ma nessuno di questi due casi è quello dell’Italia: dove sia il conflitto interno al Pd e al Pdl che quello tra entrambi è ancora e sempre indomabile, e costituisce il tratto politico assolutamente dominante. La ragione delle «larghe intese» ha così finito per divenire, qui da noi, unicamente quella puramente estrinseca che si governa insieme perché nessuno ha vinto le elezioni, e per varie ragioni non se ne vogliono fare di nuove a breve scadenza.
Certo, due anni fa, quando tutto ebbe inizio con il governo Monti, le intenzioni del presidente della Repubblica miravano, e tuttora mirano, a ben altro. Ma dopo due anni di esperimento è giocoforza ammettere che quelle intenzioni, sebbene abbiano conseguito risultati importanti sul piano del contenimento dei danni, appaiono ben lontane dal divenire quella realtà di cui l’Italia ha bisogno.

Con le «larghe intese», sfortunatamente, non si diminuisce il debito, non si raddoppia la Salerno-Reggio Calabria, non si diminuiscono né le tasse né la spesa pubblica, non si elimina la camorra dal traffico dei rifiuti, non si fanno pagare le tasse universitarie ai figli dei ricchi, non si fa ripartire l’economia, non si separano le carriere dei magistrati, non si costruiscono le carceri, non si aboliscono le Province, non si introduce la meritocrazia nei mille luoghi dove è necessario, non si disbosca la foresta delle leggi, non si cancellano le incrostazioni oligarchiche in tutto l’apparato statale e parastatale; e, come è sotto gli occhi di tutti, anche con le «larghe intese» chissà quando si riuscirà a varare una nuova legge elettorale, seppure ci si riuscirà mai. Si tira a campare, con le «larghe intese», questo sì: ma a forza di tirare a campare alla fine si può anche morire.

23 ottobre 2013 (modifica il 23 ottobre 2013)
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Ernesto Galli della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_20/potere-vuoto-un-paese-fermo-1e477e6a-394d-11e3-893b-774bbdeb5039.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La metamorfosi (e i rischi) del Pd ...
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2013, 05:16:54 pm
La metamorfosi (e i rischi) del Pd
Democristiani loro malgrado

La decisione del presidente Napolitano circa la necessità di una verifica parlamentare per il governo Letta è difficilmente confutabile. Infatti con lo sfaldamento del Pdl, e l’uscita di Forza Italia dalla coalizione, l’esecutivo conserva la maggioranza, ma la sua natura politica è radicalmente mutata. Da un governo Destra-Sinistra - cioè Pd-Pdl (numericamente autosufficienti) più altri - si è trasformato in un governo di Sinistra-Centro. Nel quale è il Partito democratico, per l’appunto, a rappresentare in entrambe le Camere il nucleo forte, mentre il Centro, costituito da Scelta Civica-Udc più il Nuovo centrodestra (Ncd) di Alfano, svolge la parte di comprimario.

Coincide con questo spostamento dell’asse politico del governo - e in certo senso lo ha reso possibile e insieme ne è un frutto - un secondo e più importante mutamento: la democristianizzazione del Pd. Vale a dire il progressivo ma ormai compiuto assorbimento-imitazione da parte del Partito democratico non solo della funzione sistemica, ma pure dei caratteri interni propri di quella che fu la Democrazia cristiana. Una tale democristianizzazione del Pd si è prodotta non casualmente via via che il sistema politico della cosiddetta Seconda Repubblica andava perdendo il suo parziale carattere bipolare per indirizzarsi verso una riedizione della frantumazione parlamentarista della Prima Repubblica, frutto a suo tempo della proporzionale. Alla quale - di nuovo non a caso - anche la Seconda sembra ora ineluttabilmente condannata a tornare. Un parlamentarismo proporzionalistico che, se non vuole naufragare nel nulla, deve però necessariamente organizzarsi intorno a un partito cardine. Che ieri era la Dc, e oggi è per l’appunto il Pd.

Il Partito democratico si candida a essere un tale partito innanzitutto a causa della neoacquisita posizione di centralità nella topografia parlamentare: dal momento che oggi esso si trova di fatto ad essere la componente principale di un governo che alla Camera deve fronteggiare allo stesso tempo una consistente opposizione di sinistra (all’incirca 130 deputati) e una poco minore opposizione di destra. Ricorda questo qualcosa a qualcuno? Non fu forse precisamente questa, per 40 anni, la situazione della Dc?

La centralità «democristiana» del Pd gli viene anche dal fatto di essere oggi il solo e vero «partito delle istituzioni». In realtà esso lo è fin dagli Anni 90, a causa del fallimento che la Destra ha fatto registrare pure su questo terreno. Non riuscendo a distinguersi neppure in minima parte dalla figura di Berlusconi, dalla sua immagine «corsara», erratica e improvvisatrice, la Destra politica, infatti, non è mai riuscita a liberarsi di qualcosa di casuale e provvisorio, di incompatibile con la stabilità nel tempo, con il senso del passato storico, con l’affidabilità e con gli aspetti legalistico-formali che sono propri della dimensione istituzionale. Verso la quale, invece, la sinistra di origine comunista ha sempre mostrato tradizionalmente una grande attenzione. Il risultato è che da molto tempo la gran parte dell’establishment italiano, nello Stato e nella società, si riconosce nel Pd.

Ma naturalmente essere «come la Dc», cominciare ad occupare una posizione centrale analoga alla sua nella costellazione del potere, ha un prezzo: quello di finire per occuparsi, appunto, solo del potere. E dunque trasformarsi in un ceto burocratico-politico senza idee e senza progetti, diviso in correnti ferocemente in lotta, la cui principale attività, al centro come in periferia, diviene di fatto la spartizione dei posti e delle risorse: proprio quello che oggi il Pd rischia sempre più di diventare.

30 novembre 2013
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Ernesto Galli della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_30/democristiani-loro-malgrado-b1c46e30-5989-11e3-9117-a8a2b0420a9e.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Puntare tutto su una persona
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2013, 12:04:25 pm
IL RAPPORTO FRA IL PAESE E LA POLITICA

Puntare tutto su una persona

La crisi economica sta spingendo la politica italiana in una direzione molto precisa: verso un’oggettiva accelerazione del processo di personalizzazione. Soprattutto per due ragioni: perché fino ad ora tale processo - checché se ne sia detto a proposito del berlusconismo - non era ancora andato molto innanzi, ma soprattutto perché da noi più che altrove (eccezion fatta per la Grecia) la crisi economica sta prendendo il carattere di un’aspra crisi sociale. Cioè di una radicale messa in discussione dello status di milioni di persone: percepita in modo tanto più doloroso quanto più elevato era il livello precedente di garanzie e di benefici.

In una situazione del genere è naturale che si diffondano sentimenti individuali e collettivi di incertezza e di timore. Non si è più sicuri di ciò che si è e di ciò che si ha, di ciò che può riservare il futuro. Appaiono in pericolo i progetti di vita e i mezzi necessari a realizzarli (la piccola rendita finanziaria, il mutuo per la casa, l’avere un figlio, la pensione). Domina una sensazione angosciosa d’instabilità.

Sono queste le condizioni psicologiche ideali perché cresca la domanda di una guida, di un orientamento autorevole, di qualcuno che indichi la via per uscire dal tunnel. Non inganni il mare di discorsi sulla presunta ondata di antipolitica. È vero l’opposto: nei momenti di crisi come quello che attraversiamo cresce sì, e diviene fortissima, la critica alla politica, ma a quella passata (che le oligarchie intellettuali vicine al potere scambiano appunto per antipolitica tout court ), mentre invece diviene ancora più forte la richiesta di una politica nuova e diversa. Sotto la forma, per l’appunto, di una leadership all’altezza della situazione. Di qualcuno che sappia indicare soluzioni concrete ma soprattutto sia capace di suscitare un’ispirazione nuova, di infondere speranza e coraggio, di alimentare - non spaventiamoci della parola - anche una tensione morale più alta: quella che serve a restituirci l’immagine positiva di noi stessi che la crisi spesso distrugge.

La leadership in questione però - ecco il punto - può essere incarnata solo da una persona, da un individuo, non da una maggioranza parlamentare o da un’anonima organizzazione di partito: due dimensioni che in Italia si segnalano da decenni solo per la loro irrisolutezza e la loro sconfortante modestia. La personalità, invece, è sempre stata, e sempre sarà, pur nella sua inevitabile ambiguità, la risorsa ultima e maggiore della politica: proprio perché nei momenti critici, delle decisioni ultimative, è unicamente una persona, sono le sue parole e i suoi gesti, il suo volto, che hanno il potere di dare sicurezza, slancio e speranza. Nei momenti in cui molto o tutto dipende da una scelta allora solo la persona conta.

L’opinione pubblica italiana si trova oggi precisamente in questa situazione psicologica: è alla ricerca di qualcuno a cui affidare la guida del Paese, di qualcuno che mostri la volontà di assumersi questo compito, di avere la capacità e il senso del comando, l’autorevolezza necessaria. È una ricerca, un’attesa, così acute, nate da un sentimento di frustrazione e di esasperazione ormai così vasto e profondo, da rendere quasi secondarie le tradizionali differenze tra destra e sinistra, essendo chiaro che a questo punto ne va della salvezza del Paese, cioè di tutti. Dietro l’ascesa di Matteo Renzi, e a spiegare l’atmosfera elettrica che sembra accompagnarlo ovunque, c’è un tale sentimento. Così forte tuttavia - e questo è il massimo pericolo che egli corre - che alla più piccola smentita da parte dei fatti esso rischia tramutarsi in un attimo nella più grande delusione e nel più totale rigetto.

17 dicembre 2013
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Ernesto Galli Della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_17/puntare-tutto-una-persona-5e2f22dc-66e1-11e3-b0a6-61a50f6cb301.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il blocco burocratico-corporativo ...
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2014, 02:41:02 pm
Il blocco burocratico-corporativo
Qual è il vero potere forte

L’elevato astensionismo, la crescita del voto di protesta, la più banale osservazione quotidiana mostrano quanto ormai sia diffusa tra gli elettori la convinzione che in sostanza Destra e Sinistra si equivalgano, siano «la stessa cosa». Naturalmente si possono fare molte obiezioni a questa idea. Ma essa coglie un dato reale. E cioè che nel Paese esistono ruoli, gruppi sociali e interessi assolutamente decisivi, i quali però da tempo, pur di conservare un accesso privilegiato alla decisione politica, e così mantenere e accrescere il proprio rango e il proprio potere, si muovono usando indifferentemente la Destra e la Sinistra, al di là di qualunque loro ipotetica contrapposizione. Ruoli, gruppi sociali e interessi che nessun attore politico, né di destra né di sinistra, ha il coraggio di colpire, e che con il tempo hanno costituito quello che nella vicenda della Repubblica si presenta ormai come un vero e proprio blocco storico. Vale a dire un insieme coeso di elementi con forti legami interni anche di natura personale, in grado di svolgere un ruolo di governo di fatto di aspetti decisivi della vita nazionale.

È il blocco burocratico-corporativo, a sua volta collegato stabilmente a quei settori, economici e non, strettamente dipendenti da una qualche rendita di posizione (dai taxi alle autostrade, agli ordini professionali, alle grandi imprese appaltatrici, alle telecomunicazioni, all’energia). Consiglio di Stato, Tar, Corte dei conti, Authority, alta burocrazia (direttori generali, capigabinetto, capi degli uffici legislativi), altissimi funzionari delle segreterie degli organi costituzionali (Presidenza della Repubblica, della Camera e del Senato), vertici di gran parte delle fondazioni bancarie, i membri dei Cda delle oltre ventimila Spa a partecipazione pubblica al centro e alla periferia: sono questi il nucleo del blocco burocratico-corporativo. Il quale, come ho già detto, si trova a muoversi assai spesso in collegamento con l’attività dei grandi interessi protetti.

È un blocco formidabile, accentrato nel cuore dello Stato e della macchina pubblica, il cui potere consiste principalmente nella possibilità di condizionare, ostacolare o manipolare il processo legislativo e in genere il comando politico. Non poche volte anche usandolo o piegandolo a fini impropri o personali.
Bisogna pensare, infatti, che specialmente di fronte alla componente giudiziario-burocratica del blocco in questione il ceto politico-parlamentare, quello che apparentemente ha il potere di decidere e di fare le leggi, si trova, invece, virtualmente in una situazione di sostanziale subordinazione, dal momento che nel novanta per cento dei casi fare una legge conta poco o nulla se essa non è corredata da un apposito regolamento attuativo che la renda effettivamente operante. Ebbene, la redazione di tali regolamenti è sempre tutta nelle mani dell’alta burocrazia ministeriale, nonché - senza che vi sia alcuna legge che lo preveda, ma solo per un’antica consuetudine - essa è sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Un processo al cui interno è facile immaginare quali e quante possibilità si creino di far valere interessi e punti di vista che forzano, o addirittura contraddicono, la decisione - la sola realmente legittima - della rappresentanza politica. Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art. 1, c1, DCB Milano In linea generale e da un punto di vista, diciamo così, sistemico il principale obiettivo del blocco burocratico-corporativo - a parte la protezione degli specifici interessi dei propri membri - è quello di autoalimentarsi, e quindi di frenare ogni cambiamento che alteri il quadro normativo, le prassi di gestione e le strutture relazionali all’interno del blocco stesso: insomma tutto ciò che gli assicura la condizione di potere di cui oggi gode. Potere che riveste due aspetti essenziali: quello dell’indirizzo, del suggerimento, del condizionamento, perlopiù sotto la veste del consiglio tecnico-legale; e quello - ancora più importante - d’interdizione. Il potere cioè di non fare, di ritardare, di mettere da parte o addirittura di cancellare anche per via giudiziaria qualunque provvedimento non gradito.

Sul piano generale il risultato inevitabile di una simile azione finisce così per essere nella maggior parte dei casi quello di impedire tutte le misure volte a introdurre meccanismi e norme di tipo meritocratico, intese a liberalizzare, a semplificare, a rompere le barriere di accesso, le protezioni giuridiche e sindacali indebite. Spesso per il proprio interesse, ma il più delle volte per la sua stessa natura inerziale, il blocco burocratico-corporativo, infatti, tende a lasciare sempre tutto com’è: sotto il controllo di chi è dentro, dei poteri esistenti e dei loro vertici di comando. Non importa se per far ciò bisogna arrivare a vanificare pure il ruolo di imparzialità e di terzietà che dovrebbe essere proprio dello Stato: se per esempio le Authority di garanzia e di controllo piuttosto che esercitare con incisività il proprio mandato e rivendicare con altrettanta incisività un potere di sanzione, preferiscono - come accade di regola - voltare la testa dall’altra parte e lasciar fare i grandi interessi su cui in teoria dovrebbero vegliare.

Intendiamoci, fenomeni più o meno analoghi a quelli fin qui accennati caratterizzano tutti i regimi democratici. Ma tra i grandi Paesi dell’Europa un processo così forte ed esteso di autonomizzazione degli apparati burocratico-giudiziari e di crescita dei loro collegamenti con gli interessi economici mi pare si sia avuto solo in Italia. Solo in Italia quegli apparati e gli interessi, economici e non, ad essi collegati, si sono appropriati di spazi di potere così vasti. E di conseguenza - complice il discredito generale della politica - solo in Italia il comando politico e i suoi rappresentanti sono stati così intimiditi, messi così nell’angolo, sono stati resi così subalterni alla sfera amministrativa. E non a caso, forse, ciò ha corrisposto a una crisi generale del Paese, a una sua stasi progressiva in tutti i campi, alla sua crescente incapacità di cercare e di trovare strade e strumenti nuovi per il proprio sviluppo. La gabbia di ferro del blocco burocratico-corporativo e degli interessi protetti ha soffocato la politica. C’è solo da sperare che questa, nella nuova stagione che sembra annunciarsi, torni a respirare liberamente per assolvere i compiti cruciali che sono esclusivamente i suoi.

24 gennaio 2014
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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_24/qual-vero-potere-forte-0da05182-84c4-11e3-a075-38de66619eb5.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA: DISPREZZO DELLE FORME NEL PAESE IN DECLINO.
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 04:45:28 pm
DISPREZZO DELLE FORME NEL PAESE IN DECLINO
Il linguaggio dell’inciviltà

Abito a Roma nei pressi di una scuola (medie e liceo), e all’inizio e alla fine delle lezioni la mia via si riempie di ragazzi. Mi capita così di ascoltare assai spesso le loro chiacchiere, gli scambi di battute. Ebbene, quello che mi arriva alle orecchie è una continua raffica di parolacce e di bestemmie, un oceano di turpiloquio. Praticamente, qualunque sia l’argomento, in una sorta di coazione irrefrenabile dalle loro bocche viene fuori ogni tre parole un’oscenità o una parola blasfema. Le ragazze - parlo anche di quattordicenni, di quindicenni - appaiono le più corrive e quasi le più compiaciute nel praticare un linguaggio scurrile e violento che un tempo sarebbe stato di casa solo nelle caserme o nelle bettole più malfamate.

A dispetto dunque di quanto vorrebbero far credere molti dei suoi scandalizzati censori, il lessico indecente e la volgarità aggressiva mostrati da Grillo e dai suoi parlamentari nei giorni scorsi non sono affatto un’eccezione nell’Italia di oggi. Sono più o meno la regola. Sostanzialmente, in tutti gli ambienti il linguaggio colloquiale è ormai infarcito di parolacce e di volgarità, come testimoniano quei brandelli di parlato spontaneo che si ascoltano ogni tanto in qualche fuori onda televisivo o tra i concorrenti del Grande Fratello. Siamo, a mia conoscenza, l’unico Paese in cui i quotidiani non esitano, all’occasione, a usare termini osceni nei propri titoli.

Non dico tutto questo come un’attenuante, tanto meno come una giustificazione. Lo dico solo come richiamo a un dato di fatto. È l’ennesimo sintomo dell’abbandono delle forme, della trasandatezza espressiva, della durezza nelle relazioni personali e tra i sessi, di un certo clima spicciativo fino alla brutalità che sempre più caratterizzano il nostro tessuto sociale. In una parola di un sottile ma progressivo imbarbarimento.

Il declino italiano è anche questo. Il degrado dei comportamenti, dei modi e del linguaggio ha molte origini, ma un suo fulcro è di certo il grave indebolimento che da noi hanno conosciuto tutte quelle istituzioni come la famiglia, la scuola, la Chiesa, i partiti, i sindacati, a cui fino a due-tre decenni fa erano affidati la strutturazione culturale e al tempo stesso il disciplinamento sociale degli individui. Era in quegli ambiti, infatti, che non solo si sviluppava e insieme si misurava con la realtà esterna e le sue asperità il carattere, ma veniva altresì modellata la disposizione a stare nella sfera pubblica e il come starci. Tutto ciò che per l’appunto è stato battuto in breccia in nome di ciò che è «spontaneo», «autentico», «disinibito», secondo una concezione della modernità declinata troppo spesso nelle forme del più sgangherato individualismo.

La modernità italiana ha voluto dire anche questo generale e cieco rifiuto del passato. Rifiuto di consolidate regole pubbliche e private, di un sentire civico antico, di giusti riguardi e cautele espressive, di paesaggi culturali e naturali tramandati. Di molte cose che da un certo punto in poi la Repubblica ha rinunciato ad alimentare e a trasmettere. Un filo rosso lega la rovina del sistema scolastico da un lato e dall’altro il turpiloquio sessista dei parlamentari grillini di oggi e dei guitti di sinistra di ieri contro le rispettive avversarie politiche, la dissennata edificazione del territorio da un lato e i tricolori sugli edifici pubblici ridotti a luridi stracci dall’altro, le condizioni della Reggia di Caserta e il nostro primato nelle frodi comunitarie. Ma quel filo rosso non ci piace vederlo: ed è così che la società civile italiana (a cominciare dai suoi deputati) è diventata per tanta parte un coacervo d’inciviltà.

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03 febbraio 2014
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Ernesto Galli Della Loggia

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_03/linguaggio-dell-incivilta-0ec4559c-8c9c-11e3-b3eb-24c163fe5e21.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Giochi pericolosi
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:26:31 pm
Giochi pericolosi

Nell’Europa «normale» si diventa capi del governo dopo aver vinto le elezioni, in Italia no. Da noi basta vincere (sia pure alla grande) le primarie del Pd. Infatti, salvo colpi di scena dell’ultima ora sempre possibili, Matteo Renzi sarà chiamato tra pochissimo alla carica di presidente del Consiglio: non solo senza aver mai partecipato a una competizione politica nazionale, e tanto meno aver in essa vinto alla testa di un partito, ma senza neppure sedere in una delle due Camere elettive, dal momento che, come si sa, egli non è né deputato né senatore. Una delle tante anomalie della vita pubblica nella patria della Costituzione «più bella del mondo».

Le anomalie però talvolta costano care. E ad accorgersene potrebbe essere proprio Renzi. Sostanzialmente inviso a una parte notevole del suo partito, la vera forza del sindaco di Firenze è stata fino a oggi nella simpatia e nel consenso che egli sapeva ottenere presso l’opinione pubblica. Ma quando siederà a Palazzo Chigi - non portatovi però dal successo elettorale che quel consenso prometteva, bensì da una decisione tutta interna al Pd - sarà principalmente se non solo con il suo partito che egli dovrà vedersela. Da presidente del Consiglio - arrivatovi tuttavia nel modo che proprio lui aveva tante volte condannato: per designazione di una nomenclatura di partito - non potrà fare appello ad alcuna volontà popolare, ad alcun patto politico con gli elettori. Sarà solo. Solo, alle prese con quegli intrighi, quelle giravolte, quelle vendette, abituali nel campo dei Democratici, che oggi amareggiano il triste commiato di Enrico Letta, e che domani - come dubitarne? - cominceranno subito, implacabilmente, a lavorare ai fianchi anche lui.

Renzi dunque dovrà governare senza l’appoggio manifesto di alcun «Paese reale». Per giunta dovrà farlo dovendo vedersela con due potenziali contraddizioni destinate con molta probabilità ad agitare in permanenza la sua maggioranza. La prima è l’eterogeneità di questa stessa maggioranza. Il suo, infatti, per il programma e per l’ambizione rinnovatrice, non potrà che presentarsi come un governo di centro-sinistra organico, come si dice: perché solo così egli potrà dare un segnale di svolta rispetto alle «larghe intese». E però sarà l’unico governo di centrosinistra al mondo in cui siederanno ministri di un partito che si chiama Nuovo centrodestra. Un Ncd, tra l’altro, che difficilmente, c’è da immaginare, potrà sottoscrivere alcuni punti caratterizzanti del programma «rinnovatore» del presidente del Consiglio (unioni civili et similia). Che cosa farà allora Matteo Renzi?

E come farà, per dire della seconda delle due contraddizioni di cui sopra, a condurre in porto le riforme istituzionali, sulle quali pure egli si gioca tanta parte della propria fortuna politica? Come farà cioè - poiché i numeri sono quelli e non c’è nulla da fare, dei voti di Berlusconi egli ha bisogno - a convincere Forza Italia, principale forza d’opposizione, a votare però insieme a lui le suddette riforme? Sarà mai possibile far procedere il programma di governo con una maggioranza e quello delle riforme istituzionali con un’altra, nonostante che ci sia la stessa persona a rappresentare entrambi? Come si vede la decisione che Renzi deve prendere in queste ore è quanto mai difficile. In sostanza è una scommessa sulle proprie capacità poliedriche, di essere in grado di giocare sulla scena della politica e della vita parti diverse tenendole insieme, o passando da una all’altra senza rompersi l’osso del collo. Fino a oggi la parte di Giamburrasca del Pd, domani quella di Mandrake di Palazzo Chigi.

13 febbraio 2014
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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_13/giochi-pericolosi-editoriale-409db7a6-9477-11e3-af50-9dc536a34228.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Gli alleati riluttanti
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 08:07:14 am
LA NUOVA STRANA MAGGIORANZA
Gli alleati riluttanti

Potranno mai Matteo Renzi e Angelino Alfano essere buoni alleati di governo collaborando lealmente per realizzarne il programma? La cruda realtà della politica, per sua natura così legata alla logica degli interessi e ai rapporti di forza, induce a rispondere con un caritatevole forse che tende ad avere però il suono di un no reciso. Oggi i due non possono che procedere insieme, ma da domani tutto o quasi comincerà molto probabilmente a spingerli su strade opposte.

Un Renzi al governo da solo, infatti - ipotetico vincitore di elezioni che gli avessero dato la maggioranza assoluta, grazie anche a voti non provenienti dal suo schieramento - un tale Renzi avrebbe sì potuto dimenticarsi del Partito democratico e fare, dove necessario, una politica anche niente affatto di sinistra. Privo invece di una vittoria elettorale alle spalle, egli è condannato ad essere, bene o male, solo il capo del Pd. Paradossalmente ma non troppo, proprio l’alleanza con il centrodestra gli toglie spazio su questo versante, e lo obbliga a stare a sinistra, a occupare uno spazio che tenga conto di quella che attualmente è la sua sola base di consenso. Una base peraltro - intendo il Pd - che ha mostrato di non amarlo troppo, e che di certo è pronta a prenderne le distanze non appena la sua azione non dovesse essere pari alle attese. Come credere infatti che il trattamento subito da Letta non abbia ormai il valore di un precedente?

Inversamente analoga appare la situazione di Alfano. Con l’aggravante che mentre bene o male il Pd esiste, e Renzi ci deve sì fare i conti, ma ci può anche in qualche modo contare, Alfano, invece, ha dietro di sé solo il vuoto. Nessun consenso elettorale, nessuna apprezzabile filiera di poteri forti, nessun partito: il suo è l’arduo tentativo da parte di un segmento moderato-cattolico di trovare spazio fuori dalla Destra, in un Centro che da vent’anni però non esiste più. Proprio a causa di questa scarsa consistenza politica Alfano, dunque, ha innanzi tutto una necessità: non apparire un inutile satellite del Pd. Per riuscirci, più che l’essere tentato dal fare, è probabile che egli s’impegni nell’impedire che si faccia. E cioè che Renzi vada a sinistra più di tanto, che s’intesti troppe iniziative con una leadership troppo personale, che si atteggi troppo a eroe dei tempi nuovi. Anche questo, come si vede, non è un buon viatico per il governo nascituro.

Il fatto è che la virtuale scomparsa/destrutturazione del Centro verificatasi nel 1994 nel sistema politico italiano ha reso in realtà impossibile qualunque effettiva alleanza governativa di centrodestra come di centrosinistra. Le «larghe intese» varate alla fine del 2011 ne sono state solo un surrogato emergenziale. Il quale poteva funzionare ma esclusivamente a patto di prendere pochi provvedimenti economici in quel momento urgentissimi e di varare un paio di riforme decisive: e infatti per altre cose quella maggioranza ha fatto poco con Monti, e altrettanto poco con Letta, mancando di fare, tra l’altro, proprio la più importante delle riforme di cui sopra, vale a dire una nuova legge elettorale.

Da domani una base parlamentare similmente eterogenea, ma in certo senso più debole perché più debole e insicura di sé sarà la componente di destra alfaniana, sosterrà il nuovo governo. La domanda cruciale è se basterà la personalità di Matteo Renzi, l’unica cosa che essa ha in più rispetto al passato (con la speranza che basti), a fare la differenza.

20 febbraio 2014
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Ernesto Galli della Loggia

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_febbraio_20/gli-alleati-riluttanti-5c936a36-99f5-11e3-b054-e71649f9da68.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA ÉLITE, BUROCRAZIA E MERITO PERDUTO
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2014, 06:04:48 pm
ÉLITE, BUROCRAZIA E MERITO PERDUTO
I propri interessi come ideologia

Un Paese ha bisogno di élite e al tempo stesso di una burocrazia. E come esistono élite ed élite , così esistono burocrazie innovative e burocrazie arteriosclerotizzate: ha fatto bene Giuliano Amato a sottolinearlo nella sua intervista di lunedì al Corriere . Solo un micidiale semplificatore come Lenin o forse un addicted al blog di Beppe Grillo possono pensare che per amministrare uno Stato possa bastare l’esperienza di una cuoca (anche se alla cuoca il primo era pronto ad affiancare il plotone d’esecuzione, mentre il secondo forse è disposto, più mitemente, ad accontentarsi di Internet).

Il problema dunque non è burocrazia sì o no. Nel caso dell’Italia il problema è innanzitutto un problema di formazione e di reclutamento.

Le burocrazie che danno buona prova di sé sono dappertutto quelle reclutate su base rigidamente meritocratica: cioè attraverso corsi di studi seri ed esami severi. L’esempio classico continua a essere (pur con qualche smagliatura) la burocrazia francese con le diverse Alte Scuole alle sue spalle. La prima defaillance del nostro sistema sta proprio qui. Da noi, infatti, non solo a cominciare dal curriculum scolastico e universitario il criterio del merito è virtualmente scomparso, ma veri esami d’ingresso degni di questo nome si fanno ormai esclusivamente in pochissime amministrazioni. Ancora resiste bravamente, ad esempio, la Banca d’Italia, ma già gli Affari esteri e la Magistratura - dove una volta entrare costituiva una prova non indifferente, e dove la carriera e la progressione retributiva non conoscevano l’anzianità - si sono arrese ai tempi nuovi.

In questo vuoto di meritocrazia il fattore decisivo da cui sempre più dipendono ingresso e carriera nell’alta burocrazia è diventato il mix formato da origine sociale, relazioni familiari e politica. Si tratta di un mix micidiale. Per due ragioni. Da un lato perché di fatto così si sancisce l’esclusione dall’élite del Paese di coloro che provengono dalle classi meno abbienti e comunque meno favorite, realizzando una selezione di tipo classista non in base alle capacità, che è l’opposto di quanto dovrebbe avvenire in una democrazia (e di quanto, tra l’altro, avveniva e in non piccola misura nel Regno d’Italia. Alberto Beneduce, grand commis degli anni Trenta, ad esempio, che ebbe nelle sue mani metà dell’economia italiana e la cui grande opera Amato giustamente ricorda, era figlio di un tipografo napoletano).

La seconda ragione sta nel fatto che con una burocrazia la quale, essendo di scarsa qualità e potendo vantare pochi meriti propri, dipende dalla politica per il proprio reclutamento, per la sua ascesa ai vertici nonché - nel caso dei luoghi di comando ministeriale, dei gabinetti, degli uffici legali, ecc. - per il restarvi un numero illimitato di anni, con un simile stato di cose va ovviamente a farsi benedire la necessaria distinzione tra politica e amministrazione. La seconda, che deve tutto alla prima, non avrà mai il coraggio di prenderla di petto e di opporsi con forza alle sue ragioni in nome dell’interesse generale - come invece sarebbe necessario. Ne diventerà invece serva, anche se naturalmente una serva padrona. Cioè l’alta burocrazia si abituerà - dietro l’ossequio formale ai politici - a fare in realtà soprattutto il proprio comodo e il proprio interesse, a tessere le proprie relazioni, favorire i propri amici, in ultimo accrescere il potere dei suoi membri. Dando vita per l’appunto a quella oligarchia di cui oggi soffre l’Italia.

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26 febbraio 2014
Ernesto Galli Della Loggia

DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_26/i-propri-interessi-come-ideologia-c20fd460-9eb1-11e3-a5c9-783ac0edee3c.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - L’EDITORIALE / a chi non piace la svolta renziana
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2014, 11:52:25 pm
L’EDITORIALE / a chi non piace la svolta renziana
Il conflitto sotterraneo

Di Ernesto Galli della Loggia

Non è affatto vero che Matteo Renzi riscuota il consenso vasto e generale che spesso gli si accredita. È piuttosto vero il contrario, e cioè che la sua figura divide il Paese in due parti contrapposte, anche se lo fa in modo nuovo rispetto a divisioni analoghe avutesi in passato. Quella indotta da Renzi, infatti, a differenza per esempio di quella prodotta da Berlusconi, è una divisione non gridata né per il momento troppo esibita, dai toni anzi volutamente sommessi; inoltre, lungi dal passare lungo linee politiche tradizionali (Destra e Sinistra per intenderci) essa tende con tutta evidenza ad attraversarle e confonderle.

L’Italia renziana è l’Italia indifferenziata dell’opinione pubblica largamente intesa. Che legge poco i giornali ma assai di più vede la televisione; che non ha troppa dimestichezza con la politica e ne ragiona in termini semplici; che è incline a credere più nelle persone che nelle idee. È, per dirla in breve, l’Italia che «non ne può più» e in generale desidera comunque un cambiamento. Un Paese in molti sensi «medio», nel quale però è dato di trovare anche parti consistenti di un Paese socialmente e culturalmente ben più sofisticato.

Ma accanto a questa c’è una non trascurabile Italia antirenziana. Un’Italia nella quale spiccano soprattutto vasti settori dell’establishment, che pure, come si sa, è ormai da molto tempo orientato verso il centrosinistra. Dunque pezzi significativi, forse maggioritari, della Confindustria, dell’alta burocrazia e dell’economia pubblica, del sottomondo politico in particolare romano, della Rai, molti importanti commentatori e giornalisti; ma insieme anche quella parte del «popolo di sinistra» più antica o più ideologicamente coinvolta, numerosi quadri medio-alti dello stesso partito di Renzi e della Cgil. È, quella antirenziana, un’Italia la quale si guarda bene dall’esprimere un’avversione esplicita. Più che dire, lascia capire. Con i toni sommessi, le mezze parole, spesso i silenzi, lascia capire che il presidente del Consiglio non le piace per nulla: a causa del suo modo di essere e di fare, della scorciatoia alquanto brutale presa per defenestrare il suo predecessore, a causa di quello che viene giudicato l’avventurismo del suo programma e delle sue promesse.

Questo almeno è quanto essa dice. Ma in realtà l’Italia antirenziana è sconcertata e inquieta specialmente perché non capisce dove andrà a infrangersi, e soprattutto chi e che cosa sommergerà, quali equilibri, l’ondata di novità che il presidente del Consiglio ha annunciato. Proprio ciò che conquista una parte del Paese ne preoccupa l’altra, insomma.

Il fatto è che la comparsa sulla scena di Renzi minaccia di squarciare il velo di menzogna che negli ultimi trent’anni la politica ha provveduto a stendere sulla nostra realtà sociale. Per tutto questo tempo la politica ci ha detto che c’erano una Destra e una Sinistra, divise da fondamentali differenze di valori e di programmi. Forse ciò era vero per i valori; certamente assai meno per i programmi e in specie per la volontà di realizzarli. Dietro la divisione proclamata e rappresentata dalla politica, infatti, è andata crescendo e solidificandosi una realtà ben altrimenti compatta del potere sociale italiano. All’insegna della protezione degli interessi costituiti; della moltiplicazione dei «contributi» finanziari al pubblico come al privato; della creazione continua di privilegi piccoli e grandi; della disseminazione di leggine e commi ad hoc ; della nascita di enti, agenzie, authority, società di ogni tipo; all’insegna comunque e per mille canali dell’uso disinvolto e massiccio della spesa pubblica. In tal modo favorendo non solo lo sviluppo di uno strato di decine di migliaia di occupanti - quasi sempre gli stessi, a rotazione - di tutti i gabinetti, gli uffici legislativi, gli uffici studi, di tutte le presidenze e di tutti i consigli d’amministrazione possibili e immaginabili, ma altresì il sorgere di un soffocante intreccio di relazioni, di amicizie, di legami personali. Un potere sociale solidificato, includente a pieno titolo anche il sistema bancario e l’impresa privata, che ha usato e usa disinvoltamente la politica - di cui aveva e ha un assoluto bisogno - schierandosi indifferentemente a seconda delle circostanze con la Sinistra, cercando però di non dispiacere alla Destra, e viceversa. E che sia la Destra che la Sinistra si sono sempre ben guardate dallo scalfire.

Finora tuttavia la radicale divergenza d’interessi tra questa Italia «protetta» e l’Italia «non protetta», questo reale, autentico conflitto di fondo, non è mai riuscito ad avere alcuna vera rappresentazione politica, a dar vita a un reale e vasto conflitto tra le parti politiche ufficiali. Renzi invece minaccia esattamente di rovesciare questa tendenza: di restituire realtà sociale vera alla politica, aprendo importanti terreni di scontro tra le due Italia.

Per il momento, è vero, lo ha fatto solo simbolicamente, allusivamente. Con la sua figura, grazie al suo stile personale e al suo linguaggio, identificandosi in particolare in un solo messaggio: la necessità di rompere confini e contenuti dell’universo politico finora vigente. Ma tanto è bastato perché se da un lato ricevesse immediatamente un consenso assai vasto e trasversale da parte del Paese che socialmente conta di meno, dall’altro lato, però, vedesse nascere contro di sé la diffidenza ironica, lo scetticismo, un’ostilità venata di paternalistico compatimento, da parte del Paese che conta di più e ne teme il dinamismo e i propositi, avendo capito che sarebbe esso il primo a farne le spese. «Non sarai tu, povero untorello, che spianterai le mura di Milano» sembra dirgli l’Italia antirenziana, forte della sua collaudata capacità di sopravvivenza.

21 marzo 2014 | 08:01
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_marzo_21/conflitto-sotterraneo-f5515f36-b0bf-11e3-b958-9d24e5cd588c.shtml


Titolo: GALLI DELLA LOGGIA Il pd e gli intellettuali contro. I sacerdoti del non si può.
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2014, 10:14:34 pm
Il pd e gli intellettuali contro
I sacerdoti del non si può


di Ernesto Galli della Loggia

Ancora una volta il Partito democratico è chiamato a scegliere. D’altra parte, se ci si pensa, è proprio questo il significato più generale dell’arrivo sulla scena di una figura come quella di Matteo Renzi: mettere il Pd con le spalle al muro, obbligare la cultura postcomunista a fare apertamente e fino in fondo una scelta a favore di una politica realmente riformatrice. Politica riformatrice progressista, naturalmente, considerando la natura e la storia dei democratici. Ma che in Italia - a causa della latitanza storica di una vera destra liberale: vedasi il fallimento di Berlusconi e di tutti quelli per vent’anni intorno a lui - non può non avere, necessariamente, anche caratteri e contenuti diciamo così non specificamente progressisti, non specificamente di sinistra, bensì dettati dalla necessità di dare spazio a efficienza, merito, razionalità, economicità: dunque, in un senso molto lato, anche caratteri e contenuti liberali. Insomma, così come nella prima Repubblica la Democrazia cristiana svolse un ruolo di supplenza verso la destra, accogliendone molte istanze e punti di vista, e così costruì la propria egemonia, la stessa occasione e lo stesso compito sembrerebbero oggi toccare al Pd.

Ma per ragioni ben note la storia ha dato al Pd un interlocutore particolare che la Dc non aveva: il ceto degli intellettuali. I quali, inclini in genere a un certo radicalismo, non impazziscono certo per la categoria delle riforme in quanto tale, specie poi quando queste non sono in armonia con il loro punto di vista o ancor di più quando contrastano con i loro feticci ideologici. Ed ecco infatti un nutrito e autorevolissimo gruppo di essi (da Gustavo Zagrebelsky a Stefano Rodotà, da Roberta De Monticelli a Salvatore Settis) scendere in campo venerdì scorso con un vibrante appello pubblicato sul Fatto Quotidiano contro le riforme costituzionali proposte dal Pd di Renzi. Altro che riforme: si tratterebbe nei fatti, scrivono i nostri, di «un progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato (...) per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali». Con il monocameralismo, ma in realtà «grazie all’attuazione del piano che era di Berlusconi», nascerebbe «l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi», «una democrazia plebiscitaria (...) che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare». Questo il tono e questi gli argomenti.

Che per la loro qualità non meritano commenti ma solo un’osservazione: che razza di Paese è quello in cui le migliori energie intellettuali non esitano a tradurre la loro legittima passione politica in pura faziosità, ignorando decenni (decenni!) di studi, di discussioni, di lavori di commissioni parlamentari, che hanno messo a fuoco in maniera approfonditissima i limiti del nostro impianto costituzionale di governo? E dunque la necessità di modificarlo spesso proprio nel senso che oggi si discute? È ammissibile che tuttora si possa sostenere che avere anche in Italia un capo dell’esecutivo dotato dei poteri che hanno tanti suoi omologhi in Europa, o una sola Camera rappresenti l’anticamera del fascismo? In verità la scelta a cui l’appello degli intellettuali radicali chiama il Partito democratico è una scelta cruciale per la sua identità di partito riformista, ma fin qui sempre rimandata: e cioè tracciare sulla propria sinistra una netta linea di confine e di deciso contrasto ideologico-culturale. Per decenni il Partito comunista unì a una pratica in larga misura socialdemocratica una benevola tolleranza nei confronti del più multiforme estremismo teorico, verso rivoluzionarismi di varia foggia e conio, verso le critiche radicaleggianti di ogni tipo all’ordine borghese. Si poteva essere iscritti al Pci e insieme essere luxemburghiani, filomaoisti, marcusiani, stalinisti. Fino a un certo punto si poté perfino guardare con qualche simpatia alla lotta armata: fino a quando cioè il Partito comunista stesso - resosi conto del pericolo mortale che ne veniva a lui e alla Repubblica - decise di reagire con brutale fermezza. Ma fu l’unica volta. Per il resto questa benevola tolleranza non solo appariva politicamente innocua (tanto a governare erano sempre gli altri) dando per giunta l’idea di un partito aperto che sapeva rendersi amici gli strati intellettuali ma, cosa più importante, consentiva pure di fare regolarmente il pieno dei voti a sinistra.

Il Partito democratico dovrebbe capire che per lui però le cose stanno in modo affatto diverso. Oggi specialmente, quando è al governo in una situazione di crisi grave del Paese e con una responsabilità mai così preponderante e diretta. È questa una responsabilità che dovrebbe implicare alcune ovvie incompatibilità. Tra le quali, per l’appunto, l’incompatibilità tra una linea riformatrice di governo e il sinistrismo radicaleggiante caro a non pochi intellettuali, sempre pronto, peraltro, all’agitazione piazzaiola o a divenire carburante per qualche formazione goscista. Un sinistrismo che dovrebbe obbligare il Pd, se non vuole alla fine restarne vittima, come altre volte gli è capitato, a fare muro esplicitamente, a uscire allo scoperto senza mezzi termini, e magari a contrattaccare; non già a tacere. Come invece tace singolarmente, ad esempio, l’Unità di ieri, la quale, invece che spendersi in qualche difesa delle riforme costituzionali del governo preferisce occuparsi di riservare una gelida accoglienza alle ragionevolissime critiche mosse dal governatore Visco ai vari corporativismi italiani (inclusi quelli dei sindacati), lasciandone il commento ai sarcasmi caricaturali di Staino.

Ma non è così, non è con questa mancanza di chiarezza, mi pare, che ci si può inoltrare in quel cammino sul quale tanta parte dell’opinione pubblica oggi aspetta di vedere avanzare il partito di maggioranza.

30 marzo 2014 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_marzo_30/i-sacerdoti-non-si-puo-465f63b6-b7d0-11e3-9fea-b6850cd5b15f.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA. - Disagio sociale e consenso della sinistra
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2014, 05:30:00 pm
Disagio sociale e consenso della sinistra
La sindrome della nostalgia

Di Ernesto Galli Della Loggia
Cultura

Una contraddizione percorre l’Europa: la crisi economica ha diffuso dappertutto, specie nell’Europa mediterranea, un fortissimo disagio sociale, eppure la Sinistra non sembra saperne approfittare sul piano elettorale. Lungi dall’essere all’attacco essa appare piuttosto sulla difensiva se non addirittura, come si è visto in Francia, alle prese con una grave crisi di consensi.

I dati sul disagio sociale nell’Unione parlano da soli: almeno 25 milioni di senza lavoro su una forza lavoro potenziale di circa 245 milioni; inoltre, secondo le statistiche ufficiali, metà dei nuovi posti di lavoro sono precari, mentre non si contano, specie in Italia e Spagna, i lavoratori che pur conservando il loro posto tuttavia non vengono pagati da un mese o più. Eppure, ripeto, la Sinistra non riesce a trarre da tutto ciò alcun particolare vantaggio sul piano dei consensi elettorali (se l’Italia fa eccezione è solo per una ragione assolutamente fuori dal comune: e cioè che da noi il lungo dominio di Berlusconi da un lato e l’inconsistenza politica del senatore Monti dall’altro hanno letteralmente disintegrato sia la Destra che il Centro; in queste circostanze non si vede proprio come potrebbe riuscire il Pd a non vincere!).

Sono soprattutto tre le ragioni che aiutano a spiegare le difficoltà della Sinistra a tradurre la crisi economica in consenso.

Innanzitutto, la Sinistra è tuttora vittima della sindrome della nostalgia. Nostalgia di quella vera e propria età dell’oro che fu il lungo dopoguerra del «consenso socialdemocratico» (1945-1990), caratterizzato dalla crescita economica e dalle politiche keynesiane: pieno impiego, welfare, sindacalizzazione diffusa. Sono stati quelli i suoi «giorni alcionii», ed essa non se ne sa distaccare: si veda per un esempio italiano l’autentico struggimento con cui il suo popolo ha accolto il film di Veltroni su Enrico Berlinguer. Prigioniera del passato, la Sinistra non è riuscita a mantenersi in sintonia con i tempi nuovi, a comprenderli e a trovare rispetto ad essi un ruolo insieme compatibile ma diverso da quello dei suoi rivali.

In secondo luogo, questo attaccamento al passato impedisce ovviamente alla Sinistra stessa di accorgersi che parti centrali della sua tradizionale narrazione del mondo non corrispondono più alla realtà. Una in particolare: cioè l’idea che il suo avversario, la Destra, rappresenterebbe sempre e comunque gli interessi delle classi dominanti mentre solo lei, invece, rappresenterebbe realmente i bisogni ideali e pratici delle classi popolari. È proprio ciò, tuttavia, che è sempre meno vero, nel momento in cui in molte situazioni sociali europee (vedi la Francia, ma non solo) è piuttosto la Destra, al contrario, che si mostra capace, con le sue tematiche nazional-populiste, di «insinuarsi nell’esperienza della gente e di contribuire a darle un senso nuovo», di «captare l’immaginario collettivo» specie delle classi popolari. Non sta scritto da nessuna parte, insomma, che i «poveri» debbano per forza pensare e fare cose «di sinistra».

Il terzo e ultimo elemento che danneggia elettoralmente la Sinistra è il fatto che oggi i suoi esponenti vengono percepiti - giustamente - come una parte significativa dell’élite delle società europee, in molti casi ai vertici del potere. Si pensi ad esempio a come la Sinistra domini il sistema dei media e come sia lei in generale a plasmare l’opinione «rispettabile», i valori accreditati proposti obbligatoriamente al resto della società. Nell’ambito dell’Ue e delle sue politiche, poi, la Sinistra appare poco o nulla distinguibile dai suoi avversari, prona da tempo alla medesima vuota ideologia dell’«europeismo» a prescindere. Si aggiunga infine l’ormai sopravvenuta mancanza in Italia come altrove di qualunque tratto «popolare» nell’antropologia dei suoi dirigenti, nel loro abbigliamento, nei modi, negli svaghi, nel linguaggio, nel loro laicismo di maniera; insomma, la loro omologazione - sia degli uomini che delle donne - al modello di agio borghese simboleggiato dal tailleurino Armani e dalla casa in campagna con relativa vigna. È precisamente rispetto a questo panorama che acquista rilievo - forse non solo italiano - la novità che per la Sinistra rappresenta la leadership di Matteo Renzi. Una novità riassumibile in tre punti che sembrano quasi altrettante risposte alle difficoltà illustrate sopra.

Innanzitutto nella prospettiva dell’attuale presidente del Consiglio non esiste più alcuna centralità - e quindi tanto meno nostalgia - né per la classe operaia né per il sindacato, pilastri dell’ormai tramontato «consenso socialdemocratico». Il loro posto appare preso piuttosto (cristianamente? Forse. Del resto non si è stati boyscout per nulla...) dai «poveri», da coloro che non sanno come tirare avanti, da coloro che in genere «non hanno avuto».

In secondo luogo è abbastanza chiaro che, avendo ben poco in comune con il tradizionale sfondo ideologico della Sinistra (e delle sue molte presunzioni), da Renzi è difficile aspettarsi scomuniche altezzose nei confronti di temi, punti di vista, anche insofferenze, di segno «populista» o fatte comunque proprie dagli strati popolari. Al contrario, ad ogni eventuale furore «populista» di destra egli appare perfettamente pronto ad opporre, per la sua formazione e il suo temperamento, un ben più convincente buon senso «populista» di sinistra.

Da ultimo, vuoi per la giovane età, vuoi per il percorso tipicamente da outsider, il nuovo segretario del Pd è ben poco identificabile con la Sinistra dell’élite stancamente imborghesita, da tempo allocatasi nel potere sociale diffuso, da tempo padrona dei canali di formazione e diffusione dell’ideologia dominante. Verso la quale élite anzi, come si sa, egli non ha mai nascosto i suoi propositi di «rottamazione».

Ma se sono visibilmente queste le novità che Matteo Renzi rappresenta, e che spiegano il suo successo, rimane ancora impregiudicato il punto decisivo: se esse, dando luogo a un’efficace azione di governo, riusciranno a oltrepassare la dimensione della leadership personale e a coagularsi in forme collettive. Per esempio nella formazione di nuovi gruppi dirigenti o nella costituzione di una prospettiva egemonica, nelle sole cose cioè che permetteranno di parlare di una vera svolta nella cultura generale della Sinistra: al di là dell’ondata di conversioni opportunistiche - «tutti renziani!» - che già si sta sollevando e che al primo successo, c’è da giurarci, sommergerà l’Italia.

13 aprile 2014 | 08:57
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_13/sindrome-nostalgia-daa5acb2-c2d2-11e3-a3de-4531ca6bc782.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Perché gli elettori di destra voteranno Renzi
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2014, 06:21:45 pm
Perché gli elettori di destra voteranno Renzi
La diaspora della destra

Di Ernesto Galli della Loggia

Penso che a cominciare da Silvio Berlusconi molti, a destra, si vadano chiedendo in queste settimane: «Ma perché non le abbiamo fatte noi le cose che sta facendo il governo Renzi?».

Una domanda quanto mai a proposito, anche se i dubbi sull’efficacia degli annunci di Renzi sono legittimi. Non si è mai vista, infatti, una maggioranza così ampia come quella che ha avuto la Destra, e tuttavia con risultati così miseri. L’eterogeneità di quella Destra, i problemi giudiziari e i conflitti d’interesse dello stesso Berlusconi, o il sordo contrasto dei «poteri forti» hanno certamente contato, ma non sono stati decisivi. Possono costituire un alibi, non una spiegazione.

Questa dunque va cercata altrove. Innanzitutto, io credo, in un ambito per così dire socio-antropologico: il fallimento della Destra al governo ha rispecchiato nella sostanza un limite della società italiana di destra. Un limite dei ceti che ad essa fanno tradizionalmente riferimento, vale a dire una certa borghesia piccola e media culturalmente antiprogressista, una certa classe tecnica e imprenditoriale, le quali non producono autentica vocazione alla politica, non producono personalità politiche. Troppo legata alle proprie occupazioni e professioni, troppo immersa nelle sue attività economiche e commerciali, troppo presa dal proprio privato, la società di destra non dà al Paese uomini o donne che uniscano in sé le due qualità necessarie al politico di rango: da un lato l’ambizione unita a un ideale pubblico e dall’altro, al fine di soddisfare tale ambizione, la capacità/volontà di affrontare i rischi e i fastidi innumerevoli della lotta politica.

Pesa non poco in tutto questo la minorità politica a cui la Destra è stata condannata nella storia repubblicana. Ma insieme pesa anche un forte limite culturale di questo insieme di gruppi sociali. I quali ancora oggi si tengono lontano dalla politica perché troppo spesso non riescono a comprenderne né il senso né il valore. Né quindi sono disposti a pagarne il prezzo per accedervi, a cominciare da quello di sottoporsi al giudizio degli elettori. Il solo vero modo che nel suo intimo il popolo di destra concepisce per impegnarsi con la politica è, nel caso migliore, la cooptazione: essere invitati da chi può, a sedere in Parlamento o ad assumere questo o quell’incarico. Insomma, la politica come riconoscimento di tipo sostanzialmente notabilare, come onorificenza sociale. Con l’ovvio risultato, naturalmente, che così poi non si conta nulla, e anche per ciò non si riesce a combinare nulla. Questo nel caso migliore, come dicevo. In quello peggiore invece la politica è vista solo alla stregua di un’utilità come tante altre: da usare e di cui approfittare per fini personali.

Tutto ciò si è visto bene prima con Forza Italia, poi con le sue reincarnazioni; e si vede tuttora anche con le formazioni di centro. Quasi sempre si direbbe che proprio il personale successo nel loro campo dei vari Monti, Brunetta, Montezemolo, Bombassei, Terzi, Dini, Tremonti, Martino, Urbani e tanti altri professori, manager o imprenditori tratti dalla società civile di destra, li abbia condannati sostanzialmente, sia pure dopo qualche sprazzo di luce, a un ruolo di comprimari o di volenterosi esecutori di disegni altrui. Restano così al centro della scena gli individui spinti da nessuna motivazione che non sia quella del puro interesse personale e, insieme a questi, i mediocri privi di vero coraggio e di iniziativa politica, senz’alcuna esperienza di leadership, senza idee e senza autentica visione (la falange delle varie Santelli, Comi, Biancofiore, e quindi i La Russa, i Capezzone, gli Schifani, i Toti, e via seguitando).

E poi naturalmente al centro della scena Berlusconi. Berlusconi ha rappresentato fino al parossismo il limite personal-professionale che caratterizza il popolo di destra nel suo rapporto con la politica e nel pensare la politica. Convinto che la cosa essenziale fosse solo agitare il pericolo di un nemico, e grazie a ciò vendere comunque un programma elettorale, Berlusconi non si è curato d’altro. Per lui il governare si è esaurito nel vincere. Ha mostrato di non aver alcun obiettivo vero e concreto per il Paese nel suo complesso, tanto meno la capacità di conseguirlo, considerando tra l’altro irrilevante, nella scelta dei propri collaboratori, la competenza, la capacità realizzatrice, l’onesta: insomma, qualunque cosa non fosse la fedeltà canina alla sua persona. Come capo del governo gli è mancata, negli affari del Paese, la tenacia, la passione del fare, che invece era stato capace di mettere negli affari propri.

È così che oggi capita che molti elettori di destra si accingano a votare per Renzi. E si chiedano un po’ sorpresi come mai.

24 aprile 2014 | 06:45
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_24/diaspora-destra-f75b104a-cb6a-11e3-b768-8b37958dddda.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Piccole patrie Europa fiacca
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2014, 12:03:27 am
Piccole patrie Europa fiacca
Non cambia l’atteggiamento dell’Italia nei confronti delle elezioni europee, tra indifferenza e talk show

Di Ernesto Galli Della Loggia

Si poteva sperare che dopo tutto quello che è accaduto le cose cambiassero. Invece no: ancora una volta qui in Italia la campagna per le elezioni europee si sta svolgendo in una generale indifferenza per la vera sostanza dei problemi in gioco. Su che cosa fare in Europa, infatti, tutti i partiti sono in sostanza d’accordo: alzare la voce, battere i pugni sul tavolo, accapigliarsi con la cancelliera Merkel. È circa il che cosa fare dell ‘Europa, invece, che il silenzio è assoluto. Dei molti candidati a un seggio nel Parlamento europeo quest’ultima cosa non sembra in verità interessare a nessuno.

Nei talk show televisivi tutti parlano a ruota libera di un’Europa «dei cittadini», di un’Europa «più democratica» e così via. Così com’è tutto un coro stucchevole di berci contro l’euro (perlopiù da gente che, si capisce a prima vista, non sa neppure di cosa parla). Ma tutto comincia e finisce qui. Non c’è mai nessuno, infatti, che ponga (e risponda) alla questione politica decisiva, che - proprio perché sempre elusa dalle inette élite fin qui padrone dei vertici di Bruxelles - ha portato alla crisi attuale. E cioè: se è vero che è necessario rafforzare la base schiettamente politica dell’architettura dell’Unione, finora troppo sbilanciata in senso economico, quale carattere deve avere tale base? Verso quale Europa politica, insomma? Una federazione? Una confederazione? Un’Unione come quella odierna ma con poteri più forti? E in questo caso quali? E come?
Nessuno lo sa. A queste domande nessun partito sembra interessato a rispondere. E naturalmente viene da pensare che è perché nessuno ne ha la minima idea o forse neppure ci ha mai pensato. Eppure questa, non altra, è ormai la massima questione all’ordine del giorno, non più rinviabile.

Anche perché nel frattempo le cose, nel nostro Continente, stanno sempre più prendendo una piega inquietante, destinata, se dovesse proseguire, a mandare tutta la costruzione europea a carte quarantotto. Una piega, peraltro, a me pare, della quale è in larga parte responsabile, paradossalmente, proprio quella che è la principale premessa e l’argomento principe della propaganda ideologica europeista: e cioè l’ostilità di principio, la continua delegittimazione di fatto, dello Stato nazionale. Con il bel risultato che proprio l’europeismo, nato per unire degli Stati, sembra per ora dare una mano alla loro disintegrazione dall’interno. Valga il vero: dalla Catalogna alla Scozia, dalla Bretagna alla Galizia, dal Veneto alle Fiandre, è ormai tutta un’esplosione di movimenti i quali, partiti con richieste autonomistiche, stanno approdando - o sono già da tempo approdati - al separatismo puro e semplice.

Pura coincidenza la contemporaneità di questa crescita del separatismo con la diffusione della vulgata europeista? Difficile crederlo. In realtà, a forza di apprendere fin dai banchi di scuola che la nazione è una pericolosa invenzione intellettuale pregna di umori sessisti e potenzialmente razzisti, di atavismi irrazionali, a forza di ascoltare da tutti i pulpiti ufficiali come lo Stato nazionale sia stato la fonte di tutti i mali anziché forse di qualche bene, quanto esso sia ormai «superato», inservibile, molti ne sono restati convinti. Ma - straordinaria eterogenesi dei fini - invece di trasformarsi, allora, tutti quanti in ferventi europeisti, come supponevano gli apprendisti stregoni dell’ideologicamente corretto (o presunto tale), quei molti hanno preferito ridiventare catalani, sardi, bretoni, gallesi, veneti o che altro. Di fronte a un europeismo impotente a dar vita a una imprecisata Europa sovranazionale, a immaginare per essa strutture politiche vere e fondate sul consenso, ma esclusivamente capace di trincerarsi nell’algida costruzione oligarchico-burocratico di Bruxelles e dietro i suoi precetti snazionalizzatori, di fronte a tutto ciò, insomma, parti crescenti di opinione pubblica sono state spinte a identificarsi sempre più nella propria piccola patria, in quel «noi» dove ci si conosce tutti e si conta pur sempre qualcosa, nella rassicurante protezione del linguaggio, dei volti e degli usi di casa. È così potuto accadere che, tenuto a suo tempo a battesimo dall’alta ispirazione politica dei vari De Gasperi e Schumann, lo spirito sovranazionale dell’Europa si stia rovesciando in un’acrimonia anti statual-nazionale separatista, abilmente sfruttata dalle ambizioni di cacicchi locali, o peggio, pretesto per i propositi violenti di gruppetti di scervellati sul modello dei «Serenissimi» nostrani.

4 maggio 2014 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_04/piccole-patrie-europa-fiacca-1c6c65e8-d352-11e3-a38d-e8752493b296.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’aiuto europeo: «Arrangiatevi»
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2014, 10:34:16 am
La sordità interessata sugli immigrati
L’aiuto europeo: «Arrangiatevi»

Di Ernesto Galli Della Loggia

Ci sono solide ragioni (si badi: solide ragioni non vuol dire affatto buone ragioni) per cui l’Unione Europea, nonostante tutte le promesse, continui a fare orecchie da mercante alle ripetute, sempre più pressanti, richieste avanzate da vari Paesi mediterranei suoi membri, e innanzi tutto dall’Italia, perché di fronte all’imponenza del fenomeno dell’immigrazione sia finalmente adottata una politica comune. Una politica comune fatta ad esempio di un aiuto in mare ad opera di navi di tutte le marine europee, di distribuzione concertata degli immigrati nell’intero territorio dell’Unione, e soprattutto di effettiva condivisione delle spese sempre più ingenti richieste dal meccanismo dell’accoglienza. Niente da fare. La sollecitudine per i diritti dell’uomo, che risuona con toni così alti quando viene proclamata a Bruxelles o a Strasburgo, sulle spiagge e tra i flutti del Mediterraneo diventa un sussurro impercettibile. Italia, Grecia, Spagna si arrangino: se decine di migliaia di immigrati si accalcano sulle coste africane e asiatiche per entrare in quei Paesi, non sono cose che riguardano l’Ue.

Ci sono solide ragioni, ripeto, per questo comportamento dell’Europa. Le quali, tra l’altro, ci fanno capire che cos’è che nell’Unione non funziona. La verità è che mai come in queste settimane, nell’imminenza delle consultazione elettorali, le classi politiche di governo del continente - specie della sua parte centro-settentrionale - stanno toccando con mano quanto siano diffusi nei loro elettorati i timori legati alla sempre più ampia presenza di immigrati. Dalla Danimarca alla Francia, ai Paesi Bassi, la propaganda spregiudicata di vecchie e nuove formazioni politiche - di destra ma non solo: più spesso capaci di mettere insieme temi di destra e di sinistra - sta conquistando ascolto e consensi soprattutto negli elettorati popolari e operai dei centri urbani. Sono specialmente questi, infatti, che oltre a soffrire il disagio economico e i tagli del Welfare causati dalla crisi, oggi, di fronte al mutamento etno-demografico sembrano avvertire sempre di più la questione lacerante della propria moderna identità socioculturale. Che per essi è generalmente legata in misura decisiva alla dimensione locale-nazionale, a differenza delle élite borghesi, della cultura e del denaro, ormai progressivamente avviate a un superficiale cosmopolitismo anglofono.

In queste condizioni potete immaginare che voglia abbiano i governi europei di preoccuparsi di aiutare l’Italia e gli altri Paesi mediterranei facendosi carico di un problema che già li mette così in difficoltà a casa loro. E che voglia abbiano quelle opinioni pubbliche - realmente, non a chiacchiere - di occuparsi dei barconi che colano a picco tra la Libia e Lampedusa. Tutto ciò accade, come dicevo, a causa di un limite paralizzante di cui soffre la costruzione europea. E cioè che in sessant’anni non è nato nulla che assomigli in qualche modo a uno spazio politico europeo comune.

14 maggio 2014 | 07:53
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_14/aiuto-europeo-arrangiatevi-c9f08746-db25-11e3-998e-bb303caaf6c1.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La corsa parallela di Renzi e Grillo
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 11:58:49 am
La corsa parallela di Renzi e Grillo
Le origini di una svolta

Di Ernesto Galli della Loggia

Se oggi l’Italia è l’unico fra i maggiori Paesi europei che vede contemporaneamente un forte successo della sinistra e insieme del governo di cui essa è parte preponderante, ciò si deve a una successione di fatti assolutamente peculiari nel panorama continentale avvenuti negli ultimi 36 mesi, i quali hanno determinato una svolta del nostro sistema politico.

Il motore di questa svolta non è stato Renzi, bensì il combinato disposto Renzi-Grillo, il combinato disposto - benché del tutto involontario - del loro operato. È più che giusto oggi irridere all’errore clamoroso commesso nella campagna elettorale dal comico genovese, ebbro di un narcisismo parossistico e aggressivo; ma resta il fatto che senza Grillo molto probabilmente non ci sarebbe stato neppure Renzi.

Tutto comincia nel 2012. Mario Monti, dopo le prime settimane di governo in cui vara alcuni provvedimenti necessari per salvare il Paese dalla bancarotta, comincia a mostrare tutta la sua inconsistenza politica. L’uomo si segnala poi per una sua albagia che ne fa in breve una sorta di caricatura di quelle élite che ormai si avviano a divenire il bersaglio di una protesta che dilaga in tutta Europa. E che in Italia si incarna nel movimento di Grillo. Ma a differenza di ciò che accade dovunque in Europa, la protesta anti-sistema grillina - per una serie di ragioni riguardanti la storia d’Italia, troppo lunghe a spiegarsi in questa sede - non si àncora a destra, bensì a sinistra. Potrà dispiacere a chi ama vedere il fascismo dappertutto, potrà disturbare chi è convinto che a sinistra possano albergare solo l’urbanità dei modi, la profondità dei ragionamenti e l’eleganza dell’eloquio, ma è così. Ed è qualcosa di molto peculiare: per i suoi contenuti e i suoi accenti la retorica dei 5 Stelle ha un marchio inconfondibilmente di sinistra. Tanto è vero che sarà destinata a far presa moltissimo proprio su quell’elettorato oltre che su quello di diversa natura.

Intanto però è avvenuto un secondo fatto decisivo, anch’esso senza riscontro in Europa. Molto coraggiosamente un giovane esponente periferico del Pd, del tutto isolato, ha lanciato la sfida all’establishment del suo partito, che non ha saputo fare niente di meglio che adagiarsi nel tran tran ectoplasmatico del governo Monti. Ma, giunti alle primarie, la macchina del partito in mano al segretario Bersani lo schiaccia: così, nell’ottobre del 2012, per Matteo Renzi tutti i giochi sembrano rimandati a chissà quando. E invece essi si riaprono del tutto inaspettatamente dopo solo pochissimi mesi. Accade infatti che il Pd bersaniano «non vince», cioè perde clamorosamente, le elezioni politiche. E le perde - terzo fatto importantissimo - proprio perché una parte dei suoi elettori reali o potenziali, in fuga da altre formazioni, si fa attrarre dal Movimento 5 Stelle. Perlopiù questi elettori non hanno nulla di eversivo e di fascista, sono semplicemente degli «arrabbiati», dalle idee molto confuse e approssimative, ma orientati a sinistra: non a caso l’ormai azzoppato Bersani cercherà, anche se inutilmente, di convincerli ad appoggiare il suo tentativo di governo.

È proprio il successo di Grillo nei confronti del Pd, comunque, il fatto cruciale che rimette in gioco Renzi. Il quale solo a quel successo, non ad altro, deve se nel giro di pochissimo diventa l’unica speranza della stragrande maggioranza del popolo progressista (e non solo) che servirà a condurlo dapprima al successo nelle seconde primarie del dicembre 2013, contro l’apparato compassatamente incartapecorito del Pd, e poi alla vittoria odierna. Quella che si è avuta in Italia nel 2012-2013, insomma, è stata una specie di manovra a tenaglia condotta separatamente da Renzi e Grillo - dal primo sul versante della più spregiudicata cultura riformista, e dunque diciamo così da destra; dal secondo sul versante del populismo radicale e moraleggiante, e dunque diciamo così da sinistra - che insieme hanno avuto l’effetto di far saltare, disarticolare e ricomporre secondo linee nuove, l’ambigua e pietrificata compattezza ideologica calata da un ventennio e più sull’elettorato pds, ds e infine pd. Accrescendone altresì, in tal modo, le possibilità espansive.

Da tutto ciò è possibile trarre almeno una considerazione, mi pare. E cioè che l’Italia di sinistra ha nel suo complesso, rispetto all’Italia di destra, un’assai maggiore capacità di reazione, di intelligenza delle cose, di invenzione, e di automobilitazione politica. Impulsi di rottura dal basso (sottolineo: dal basso), sfide coraggiose, la comparsa di volti e di proposte nuove, è più facile che si verifichino nella prima che nella seconda. Basta per l’appunto vedere quanto è accaduto negli ultimi tre anni sui due versanti opposti dello schieramento politico. Come questi hanno reagito alle altrettanto gravi crisi di leadership e di orientamento che li hanno colpiti al momento della crisi storica del berlusconismo.

Sul versante della destra-centro si è reagito con inutili scomposizioni e ricomposizioni di vertice (dal Pdl a Forza Italia e poi Ncd, Fratelli d’Italia, Scelta Civica, e compagnia bella), all’insegna della più rigorosa continuità oligarchica e dei soliti noti. Assenti comunque qualunque idea o proposta politica percepibile come nuova o dotata di una minima capacità dirompente, così come un volto nuovo che fosse uno (l’ottimo Toti, infatti, non è un volto, è una decalcomania). A sinistra, invece, è innegabile che si sia avuto l’emergere di figure e idee nuove (qui non interessa se più o meno discutibili), e perciò di discorsi e accenti almeno in parte in forte sintonia con il mutare dei tempi. Il risultato elettorale di domenica rappresenta in buona parte la pura e semplice presa d’atto di questa fondamentale diversità tra le due Italie politiche.

28 maggio 2014 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_28/origini-una-svolta-31aa5302-e626-11e3-b776-3f9b9706b923.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA IL PREMIER E L’EREDITÀ DEMOCRISTIANA ...
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2014, 12:28:17 pm
IL PREMIER E L’EREDITÀ DEMOCRISTIANA
Il cattolicesimo di un boy scout

di Ernesto Galli della Loggia

Certamente Matteo Renzi non è un democristiano; altrettanto certamente però è cattolico. Lo è in modo pubblico e noto (nei pochissimi mesi da che è presidente del Consiglio non si contano le foto che lo ritraggono all’uscita dalla messa domenicale, da solo o con la famiglia), lo è presumibilmente gran parte del suo retroterra ideale, così come sono cattolici molti dei suoi più importanti giovani collaboratori.
La cosa, tuttavia, non sembra aver suscitato fin qui l’interesse di nessuno. Il che è davvero strano, se si considera la sua condizione di leader di un partito di sinistra come il Partito democratico. Cioè di un partito che nella sua storia ha vinto solo questa volta correndo da solo (vale a dire non coalizzato con altri e sotto la guida di un suo iscritto), così come solo questa volta ha ottenuto una così alta percentuale di voti: e guarda caso entrambe le circostanze si sono realizzate quando alla sua testa c’era un cattolico come Renzi.

In realtà è abbastanza ovvio pensare che nel successo ora detto l’appartenenza cattolica di Renzi abbia contato non poco. Specie nel farlo percepire da quella parte dell’opinione pubblica tradizionalmente lontana dalla sinistra in una luce rassicurante, come una personalità capace di apertura alle ragioni altrui, poco propensa al pregiudizio ideologico, incline alla moderazione. Caratteristiche che naturalmente anche chi non è cattolico può benissimo possedere (e possiede), ma che nella storia del cattolicesimo politico sembrano trovare un fondamento e una compiutezza in certo senso più naturali e più convincenti.

Ma dietro quelle caratteristiche c’è poi una cosa come la fede. C’è il cattolicesimo. Nel nostro caso un particolare tipo di cattolicesimo. Non quello che improntava di sé tanta parte della vecchia Democrazia cristiana con le sue radici nel primo Novecento. Vale a dire quell’impasto peculiare fatto di religiosità sociale lombardo-veneta da un lato - risonante ancora di echi controriformistici e di ideali organicistici, proprio di molte élites urbane anche nobiliari dell’Italia padana - e dall’altro dell’autonomismo sturziano intriso di fermenti liberali. Bensì un cattolicesimo diverso di un’Italia diversa: di quell’Italia media che dal Po arriva agli Appennini, che dalle aule dell’Università Cattolica giunge, passando per i portici di Bologna, fino alla pieve di Barbiana. È il cattolicesimo dei Dossetti, dei La Pira, dei don Milani. Intriso d’inquietudini riformatrici, sospeso tra un ribellismo austero e spregiudicato che ricorda Savonarola e la consapevolezza tormentata della sfida portata alla fede dai tempi nuovi. Percorso da una moderna vena intellettualistica e insieme da una devozione antica, popolaresco quanto l’altro era popolare, assuefatto al confronto con chi non ha i suoi ideali e a misurarsi con esso.

È questo, nel fondo, io credo, il cattolicesimo di Renzi e dei suoi amici, quello che essi hanno respirato. Ma che oggi essi stessi declinano in una versione particolare, la quale ne addolcisce i tratti e ne stempera assai le ambizioni e l’asprezza originaria dei contenuti. È fuori luogo - ricordando la formazione dell’attuale presidente del Consiglio e di altri che stanno intorno a lui - definirla senz’alcun intento spregiativo una versione da boy scout? Cioè una versione di cattolicesimo certamente debole rispetto all’originale; una versione che più che ad una qualche teologia radicale sembra rimandare all’immediatezza di un sentimento: quello che molto semplicemente vede il mondo diviso tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra deboli e forti, tra ricchi e poveri. E che di fronte a ciò non sa che farsene di qualunque intellettualismo più o meno palingenetico, di qualunque sogno di «società cristiana», per prendere piuttosto la strada della concretezza, del cambiare ciò che è possibile ma provandoci davvero. Una versione dominata dalla dimensione del giovanilismo, abituata più che al partito al piccolo gruppo, mossa da un agonismo irrequieto mirato alla vittoria, fiducioso nelle proprie forze e pronto a misurarsi con l’azione; pienamente a suo agio con gli strumenti e i ritmi della modernità.

Una versione da boy scout, quella del cattolicesimo di Renzi, che trova una spia quanto mai significativa non solo nell’uso continuo che il presidente del Consiglio fa del «tu» e del termine «ragazzi» - che si tratti dei giornalisti o dei suoi collaboratori - ma soprattutto nell’assai percepibile dimensione del capobranco, dell’Akela, che egli incarna rispetto a coloro che gli sono più vicini, ai fedelissimi dell’inner circle. Ma altresì, viene da pensare, una versione di cattolicesimo efficiente e compassionevole, «simpatico» e «semplice», che oggi, nell’epoca di papa Francesco, è forse il solo cattolicesimo politicamente declinabile e spendibile.

Il Pd deve la propria inaspettata affermazione a un leader singolare come Renzi - singolare rispetto a tutto il passato di tale partito -. Un leader che qualunque sia la sua parabola futura ha però già ottenuto un risultato con ogni probabilità non passeggero per quel che riguarda il nostro sistema politico. Finora, infatti, una decisiva debolezza del bipolarismo italiano stava nella circostanza che esso aveva visto una volta almeno un grande successo della Destra, ma mai però qualcosa di analogo da parte della Sinistra storicamente tale. Da qui, su questo versante dello schieramento politico, dubbi e riserve più o meno taciti a proposito del bipolarismo medesimo. Dubbi e riserve che da oggi in poi però, dopo la vittoria del 25 maggio, difficilmente avranno più ragione di essere. Renzi, infatti, ha dimostrato che anche il Pd, il partito della Sinistra, può avere la meglio da solo in una competizione elettorale. Che proprio il bipolarismo, cioè, può come nessun altro sistema aprirgli la strada del potere. Già questo non è un risultato da poco.

3 giugno 2014 | 07:53
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_03/cattolicesimo-un-boy-scout-b2a211a6-eadc-11e3-9008-a2f40d753542.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Proposta al premier su partiti e corruzione
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2014, 07:03:13 pm
Proposta al premier su partiti e corruzione
L’efficacia delle sanzioni

di Ernesto Galli Della Loggia

Con la sua solita prontezza Matteo Renzi non ha faticato molto a convincersi, dopo un’iniziale incertezza, che in tema di corruzione le regole servono eccome. Ma quale tipo di regole? A quel che oggi è dato di capire, si tratterà dei provvedimenti solitamente adottati in Italia in casi del genere: cioè più controlli (magari meglio strutturati), più fattispecie di reati, e almeno sulla carta pene più dure (laddove sarebbe assai più importante che fossero invece più certe). Dunque inevitabilmente, almeno in parte, maggiori vincoli e forse tempi più lunghi. Probabilmente anche più burocrazia e più spese, dal momento che se, come si dice, il tutto sarà affidato al giudice Cantone e al suo ufficio, allora bisognerà pur dargli più locali, più personale, più soldi.

Perché invece non provare a battere un’altra via, diversa - benché di certo non sostitutiva - da quella del controllo istituzionale e delle sanzioni? Ad esempio quella - che definirei la via dei pesi e contrappesi propria del costituzionalismo liberale - consistente nel cercare di creare tra il potenziale corrotto/corruttore e l’ambiente in cui egli si muove un contrasto permanente d’interessi, il quale rappresenti un ostacolo importante allo svolgimento delle sue attività illegali. Mi spiego, tenendo presente che naturalmente il discorso deve essere diverso per il momento della corruzione che vede protagonisti la pubblica amministrazione e gli organi giurisdizionali (uffici ministeriali e assimilati, gabinetti, Corte dei conti, ecc.), e per il momento della corruzione che invece è collegato alla decisione di organi politici elettivi (sindaci, assessori, ministri, ecc.). Anche se poi, inevitabilmente, i due momenti confluiscono sempre in un’unica impresa illegale.

Orbene, per ciò che riguarda le pubbliche amministrazioni sarebbe io credo utilissimo introdurre la norma, in vigore negli Usa, secondo la quale qualunque addetto a un pubblico ufficio denuncia un caso di corruzione di cui viene a conoscenza o di cui sospetta, nell’ambito del suo lavoro, riceve per ciò stesso, se la denuncia si dimostra fondata, uno scatto di stipendio o una promozione (e viceversa una diminuzione e un arretramento nel caso si accerti l’infondatezza del fatto e/o l’intento calunnioso del denunciante). È facile immaginare che con una simile norma il funzionario o il giudice corrotto vedrebbero accresciute enormemente le difficoltà di operare, si muoverebbero in un clima di continua insicurezza, e ciò avrebbe di sicuro un effetto dissuasivo di vasta portata.

Altro è il caso del politico corrotto. Chi è qui che sia vicino a lui e possa avere interesse a impedire che egli esca dai binari della legalità? L’eventuale sanzione politica da parte dell’elettorato costituisce infatti una remora troppo lontana e aleatoria per poter ottenere un reale effetto di prevenzione. Se invece, però, la legge prevedesse, in seguito alla condanna penale del politico corrotto, anche, automaticamente, una forte sanzione pecuniaria (penso a qualcosa tra i centomila euro e il milione) per la lista in cui egli è stato candidato (a meno che tale lista medesima non abbia provveduto a denunciare lei l’operato del suo eletto), allora molto probabilmente le cose cambierebbero. Sarebbe il suo stesso partito a esercitare uno stretto controllo sull’operato di colui che ha mandato al potere.
Il punto è sempre lo stesso: per prevenire non c’è nulla di meglio che dar vita o spazio a chi abbia un interesse concreto a far sì che non accada ciò che si teme. Ci pensi il presidente del Consiglio.

11 giugno 2014 | 08:39
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_11/efficacia-sanzioni-2a201d24-f12a-11e3-affc-25db802dc057.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA I limiti dell’operazione «Mare nostrum»
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2014, 12:25:34 am
I limiti dell’operazione «Mare nostrum»
Accogliere sì ma ragionare


Di Ernesto Galli Della Loggia

Salvare dalla morte in mare è un conto, accogliere stabilmente nel proprio Paese un altro. Il primo è un obbligo assoluto per ogni collettività civile, la seconda è una scelta politica. L’operazione «Mare nostrum» implica invece la contraddittoria sovrapposizione/identità delle due cose. In tal modo infatti viene percepita dall’opinione pubblica, e proprio perciò essa rischia alla lunga di divenire insostenibile.

Finora le autorità italiane hanno cercato di eludere la contraddizione ora detta ricorrendo a un escamotage. In pratica, salviamo dal naufragio gli immigrati ma, contravvenendo alle disposizioni europee, spesso evitiamo di identificarli nel solo modo possibile, cioè prendendo le loro impronte digitali e depositando queste in una banca dati europea. In tal modo è loro possibile cercare di andare (e restare) in qualche altro Paese dell’Unione Europea perché da esso, anche se scoperti, non potranno mai essere rinviati nel Paese di prima accoglienza che li ha identificati - come prescrivono sempre le norme europee - semplicemente perché un tale Paese non è mai esistito.

È in questo modo che l’Italia, alla quale sotto questo riguardo fa buona compagnia tutta l’Europa, evita di affrontare la questione cruciale: quanti immigrati possiamo (può l’Unione) assorbire? Nessuno lo sa e/o lo dice: dieci milioni, venti milioni? I numeri che premono dall’Africa e dall’Asia sono di quest’ordine, ma nessuno se ne cura. Sembra che neppure sia lecito porsi la domanda.

Che tuttavia resta la domanda. Anche se preferiamo aggirarla definendo «operazione umanitaria» di salvataggio qualcosa che è senz’altro questo, sì, ma che, per le ragioni dette sopra, è pure una decisione politica di accoglienza. Una decisione che appartiene peraltro a quel genere di decisioni che hanno due caratteristiche che dovrebbero far tremare le vene ai polsi di qualunque politico si appresti a prenderle, dal momento che: a) una volta adottata è terribilmente difficile revocarla, e, b), una volta adottata, il ruolo di chi la adotta non può che essere di totale passività.

E infatti è questo il nostro caso. L’Italia e il suo governo, una volta deciso di affrontare l’immigrazione trans marina con l’operazione «Mare nostrum», di fatto non sono più in grado di esprimere alcun punto di vista o di sostenere alcun interesse proprii con una minima possibilità di far valere concretamente l’uno o l’altro. Anche perché privi di reali interlocutori. Essi svolgono più o meno il ruolo che svolge un centralino dei Vigili del fuoco nel rispondere alle chiamate di soccorso. Punto e basta.

Ma anche se non riceve risposta, la domanda decisiva resta in tutta la sua crucialità: quanti immigrati può accogliere l’Italia? Quanti l’Europa? Un numero illimitato? Può essere, ma allora sarebbe bene dirlo. Invece le classi politiche italiane ed europee hanno preferito finora far finta di nulla, e nei fatti conformarsi ai due comandamenti etici e/o ideologici che sembrano prevalere presso le loro opinioni pubbliche. Quello del cosmopolitismo multiculturale da un lato, e quello della sollecitudine cristiana per i derelitti dall’altro. Entrambi ottimi principi i quali, però, non solo non servono a governare il fenomeno migratorio, ma contribuiscono non poco a dare l’impressione - pregna ahimè di contenuti politici - di un Paese e di un continente che di fronte all’immigrazione non sanno fare altro che tenere la porta aperta e lasciare entrare chiunque voglia. Alimentando così il richiamo che esercitano sull’elettorato europeo (non sempre di destra!) i partiti che si ispirano a un radicalismo identitario fortemente xenofobo; i quali sono ben lieti di approfittare della politica dello struzzo adottata da troppe forze democratiche, della loro troppo frequente rinuncia suicida a dare voce alle ragioni dell’interesse e dell’identità nazionali.

Pensare che dal bene non possa che nascere il bene è da ingenui o da sprovveduti. Soprattutto nelle democrazie è spesso dal bene che può nascere il male: e in genere quando ci se n’accorge è regolarmente troppo tardi.

18 giugno 2014 | 09:09
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_18/accogliere-si-ma-ragionare-9908c782-f6a6-11e3-a606-b69b7fae23a1.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Ciò che Renzi ancora non ha
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 07:05:06 pm
IL PROFILO CULTURALE DI UNA STAGIONE

Ciò che Renzi ancora non ha

Di Ernesto Galli della Loggia

Non una battaglia contro agguerriti schieramenti politici ma lo scontro con pezzi importanti di società autonomamente in campo: ecco che cosa annuncia l’avvenire a Matteo Renzi. La sua azione di governo, infatti, se appare destinata in caso di successo a conquistare sempre più quote significative di elettorato moderato di tradizione anticomunista e al tempo stesso di elettori della sinistra radicale e di 5 Stelle - e dunque a garantirgli una relativa tranquillità nell’ambito del Parlamento e dei partiti - invece incontrerà presumibilmente un’opposizione sempre più forte a livello della società. Qui, infatti, tutto ciò che si sente minacciato di «rottamazione» - dalla burocrazia alle magistrature, dalle corporazioni professionali e sindacali alle vecchie oligarchie bancario-imprenditoriali, dai vari interessi protetti alle «cricche» che da decenni paralizzano e dissanguano il Paese - tutti questi pezzi di società costituiranno il vero, futuro nemico di Renzi.

La sua sarà più o meno la stessa situazione, sia pure con contenuti diversissimi, in cui venne a trovarsi vent’anni fa Silvio Berlusconi. Non a caso: dal momento che tanto quella di Berlusconi che quella di Renzi sono state nella sostanza due grandi operazioni di ridefinizione profonda della geografia politica del Paese, potenzialmente ostili verso i poteri tradizionali e in vista di una radicale frattura rispetto al passato. Entrambe capaci di ottenere un immediato consenso elettorale, ma entrambe bisognose, per mettere radici e dare i loro frutti, di tradurre tale consenso - con ciò che di caduco ha sempre il consenso elettorale - in qualcosa di più solido e più ampio: cioè in un consenso ideologico-culturale, in un’idea-forza: la sola cosa capace d’indurre una società a cambiare davvero. Da sola capace di avere ragione degli interessi ostili.

Berlusconi non ha mai neppure intuito una tale necessità. Ha sempre pensato che per governare a lungo un Paese, addirittura per cambiarlo (come forse in qualche suo trasalimento iniziale pure si proponeva), bastasse vincere le elezioni. Si è visto il risultato.

Come invece in questo campo si muoverà il nuovo presidente del Consiglio nessuno può dirlo. Ciò che si può dire è che ancor più di quando dopo il terremoto di Tangentopoli la destra arrivò per la prima volta al potere, oggi l’Italia, proprio l’Italia che si è riconosciuta in Renzi, sente il bisogno di una svolta profonda, di cambiare regole e mentalità. Essa sente soprattutto il bisogno di ritrovarsi. Sfibrata dalla crisi economica e avvilita dai continui scandali, nel suo intimo anela a un soffio potente di aria nuova. Ma per far ciò questa Italia ha bisogno di riacquistare fiducia nel suo genio, di ricostruire un’idea del proprio significato e del proprio ruolo nel mondo, di alimentare la propria volontà e il proprio spirito cominciando con il riacquistare un rapporto con il proprio passato, e con ciò la consapevolezza delle proprie potenzialità. Anche per questo - sia detto incidentalmente - ha bisogno di più scuola, di diventare più istruita. C’è una relazione profonda, infatti, tra il nostro declino degli ultimi venti anni e la circostanza che sì e no un italiano su due legga nell’arco di dodici mesi almeno un libro (un solo libro!), o che nella Penisola si registri ancora oggi un tasso elevatissimo di abbandono scolastico.

Ma la politica lo capirà? Capirà che perché muti il futuro deve mutare il passato? Che ad esempio ciò che oggi serve per cambiare la coscienza del Paese è innanzitutto una nuova narrazione dell’Italia? E capirà che essa non può sottrarsi al compito di impegnarsi in un’opera di direzione culturale in tal senso?

Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori - sì, i valori - cui legare direttamente il proprio impegno politico - oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza - e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.

L’esecutivo dispone - direttamente o indirettamente, attraverso il finanziamento - di un imponente apparato di strumenti nel campo dell’azione culturale: dall’istruzione alla comunicazione, dall’editoria allo spettacolo. Strumenti che languono ingabbiati da leggi paralizzanti, oppressi da pratiche consociative e spartitorie ad uso di chi ci lavora o li usa per il proprio tornaconto, in mano spesso a cricche sindacali o a reti di veri e propri manutengoli. Gestiti il più delle volte da personale demotivato, affidati alla guida di esponenti politici o personalità intellettuali e professionali di serie B.

Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.

Questo insieme d’organismi, tutti all’incirca alimentati in un modo o nell’altro dalla sfera pubblica e ad essa collegati, oggi vive solo per sopravvivere. Esso opera in maniera totalmente scoordinata, non obbedisce ad alcuna idea ispiratrice, non ha alcun progetto, non trasmette alcuna visione generale. Politicamente non serve a nulla. Si badi: politicamente non significa il governo in carica, significa la polis, la comunità dei cittadini. Significa che tutto questo insieme di organismi non serve al Paese, non lo aiuta a riprendere in mano il filo della propria storia, a ritrovarne il senso, e tanto meno a tracciarne le possibili proiezioni nell’oggi e nel domani. Le cose stanno così perché la democrazia è convinta che intervenire nel campo della cultura non possa che equivalere a un intervento comunque condizionante se non coercitivo. Pensa che se s’inoltra sul sentiero della cultura essa è condannata a seguire le orme dei totalitarismi. Ma ha dimenticato che nella sua stessa storia, nella storia della democrazia - per non dire di quanto fu capace l’Italia liberale nei primi decenni dopo l’Unità - c’è anche l’America di Roosevelt, con il suo straordinario fervore d’iniziative culturali pensate e volute da Washington, che furono tra i segni più significativi della rinascita degli Stati Uniti.

Pure in politica nulla si costruisce e nulla dura senza le idee, senza un’idea-forza. E le idee nascono dall’impulso a conoscere, a studiare, a pensare. Matteo Renzi è giovane d’anni ma appare un politico già sagace abbastanza per non capirlo.

29 giugno 2014 | 08:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_29/cio-che-renzi-ancora-non-ha-ddf93550-ff54-11e3-ae4d-7c1f18234268.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Egoismi, corporazioni, ambiguità Dirsi in faccia ...
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2014, 08:53:42 am
Egoismi, corporazioni, ambiguità
Dirsi in faccia un po’ di verità

Di Ernesto Galli Della Loggia

Sono molte, forse anche troppe, le cose che il governo attuale si è impegnato a fare. Ma mano a mano che qualcuna di queste viene sia pur faticosamente compiendosi, ci si accorge che esse non bastano a far ripartire il Paese.

La parola d’ordine della «rottamazione» con la quale Matteo Renzi ha costruito il suo successo quando era un outsider serve poco a Matteo Renzi presidente del Consiglio. Oggi, quel messaggio di rottura chiede non solo di essere riempito di contenuti specifici. Chiede soprattutto una visione più alta, una voce più matura e più convincente, capace di mobilitare le menti e i cuori: e in questo modo di spingerli al rinnovamento e all’azione. Voglio fare un esempio solo apparentemente minore: quello del rilancio del servizio civile messo in cantiere dal governo pochi giorni fa.

Ebbene, invece di farne un’occasione per una sorta di grande chiamata all’impegno civico per l’Italia, rivolta a una gioventù oggi sfiduciata e abbandonata a se stessa; invece di immaginare obiettivi concreti per un tale impegno (chessò, pulire le coste e le rive dei corsi d’acqua, tenere lezione d’italiano e di cultura elementare per gli immigrati, presidiare di notte le periferie urbane garantendone la sicurezza); invece di cercare di colpire l’immaginazione come avrebbe fatto un Roosevelt, evocando una Giovane Italia che riprende in mano le sorti del suo Paese, invece di qualcosa del genere ci si è limitati alle solite trattative con la solita burocrazia della solidarietà, con le decine e decine di associazioni, cooperative, Ong (in genere accuratamente lottizzate), che non si capisce bene che cosa faranno ma si capisce solo che avranno un po’ di soldi pubblici in più.

È in questo modo che il carisma che certamente Renzi possiede rischia - ripercorrendo le orme fatali di Craxi e di Berlusconi - di restare un carisma vuoto. Vuoto di quella capacità essenziale per un uomo di governo che è la capacità di leadership (cioè di guidare e di fare, convincendo e creando consenso). Non a caso, se non mi sbaglio, già comincia a serpeggiare tra molti uno scetticismo larvato, un senso di disillusione.

Non inganni il premier la pletora di quelli che mossi dalla speranza di conservare le proprie posizioni ora vogliono salire sul suo carro di vincitore. Sono proprio questi che ogni giorno di più appesantiscono e impacciano i suoi movimenti, alla lunga rendono imbolsita la sua immagine e, lungi dal costituire un seguito, semmai gli impediscono di consolidarne uno. Il vero seguito, infatti, quello che gli serve per riuscire, Renzi deve cercarlo nell’opinione pubblica, e a me pare che egli debba ancora costruirselo. La vittoria elettorale nelle elezioni europee (i cui risultati, lo ricordi, si sono spesso dimostrati quanto mai volatili) è soprattutto un preannuncio di consenso, ma guai a considerarlo equivalente a un consenso già acquisito e consolidato.

L’Italia, non bisogna stancarsi di dirlo, è sull’orlo di un vero e proprio declino storico. Arretriamo in tutto. In tutto stiamo uscendo dal gruppo di testa nelle classifiche mondiali; sempre più perdiamo la proprietà di pezzi importanti del nostro apparato produttivo; peggiorano le nostre condizioni materiali di vita; si accrescono le differenze sociali; aumenta la distanza tra le diverse parti della Penisola; i giovani, presenti in numero sempre minore, ci abbandonano in misura sempre maggiore. Dove sia il punto di non ritorno non lo sappiamo. Ma sentiamo che esso, ormai, non è forse troppo lontano. Che senza un mutamento rapido e radicale, qui ed ora, siamo destinati a vedere cominciare a sgretolarsi l’edificio di conquiste storiche costruito pur tra alti e bassi lungo un secolo e mezzo. Perché è questo e non altro ciò che oggi è in gioco.

Matteo Renzi se ne rende conto? A tanti è sembrato di sì. E che proprio perciò egli fosse la persona giusta per guidare il Paese. Molti hanno sperato che forte della sua giovane età e del suo temperamento egli potesse essere il protagonista del mutamento radicale che serve all’Italia. Renzi lo sa. Finora, però, non ha compiuto il passo davvero decisivo per avviare la svolta che il Paese attende: il passo senza il quale tutto il resto è impossibile. E cioè dire a questo stesso Paese la verità.

Per risalire la china abbiamo bisogno innanzi tutto di verità. Che si dica come stanno le cose, che si parli dei molti errori che abbiamo commesso e delle vie senza uscita in cui ci siamo cacciati. Che si smascherino le bugie di vario genere che le mille corporazioni italiane, dai magistrati ai giornalisti, ai tassisti, raccontano e si raccontano per mantenere i propri privilegi ai danni dell’interesse generale.

Dobbiamo sapere che da troppo tempo crediamo di poter vivere al di sopra dei nostri mezzi. Bisogna che l’Italia ascolti raccontare per filo e per segno degli sprechi pazzeschi e delle disfunzioni (dal numero degli addetti alle spese vere e proprie) che quasi sempre con la complicità dei sindacati sono divenute la regola nelle amministrazioni pubbliche. Che si dica a voce alta che fare le Regioni come le abbiamo fatte, con i poteri che abbiamo loro dato, è stato una scempiaggine assoluta. Che dalle elementari all’università abbiamo scaricato sul nostro sistema d’istruzione tutto lo sciocchezzaio ideologico e tutte le fumisterie parademocratiche che ci hanno attraversato la mente negli Anni 60-70, in tal modo mandandolo in pezzi. Che le privatizzazioni sono state un’autentica truffa ai danni della collettività. Che troppo spesso il livello professionale del management alla guida del nostro apparato produttivo e bancario è infimo mentre la sua sete di soldi è enorme. Che da noi il merito è messo al bando dovunque ma specie dalla classe dirigente, continuamente a caccia di posti tramite raccomandazione a pro di mogli, mariti, figli e amanti vari.

Che le cose stanno così (e quelle ora elencate costituiscono solo un modesto campionario) lo sanno, lo sappiamo tutti. Ma sarebbe una vera rivoluzione se a dirlo fosse il Potere, per bocca del presidente del Consiglio: perché solo a quel punto la verità da tutti conosciuta diverrebbe innegabile. Sarebbe un macigno ineludibile nel nostro discorso pubblico con cui tutti dovremmo fare i conti. Mettendo così a rischio i nostri vizi più inveterati: a cominciare per esempio dalle bugie pietose delle corporazioni di cui dicevo sopra, come quella dei magistrati, con i loro motivi di aria fritta accampati per conservare il privilegio di restare in servizio fino a 75 anni.

Certo, dire la verità è quasi sempre scomodo e difficile. Ma se vuol mantenere fede alle speranze da lui stesso suscitate, se vuole cambiare verso al Paese, Matteo Renzi è atteso a questa prova di lucidità e di coraggio. Per cui serve una cultura politica, una conoscenza della società italiana e della sua storia, un’ispirazione anche morale (sì, quando la politica va oltre la routine, essa s’incontra inevitabilmente con l’etica), che non so se egli abbia. Ma qui è Rodi, e qui egli deve saltare. Senza una grande operazione di verità, di tutta la verità, sul proprio passato e sul proprio presente, l’Italia non potrà mai cambiare strada. E quindi non potrà mai salvarsi.

14 luglio 2014 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_14/dirsi-faccia-po-verita-ce395f0c-0b14-11e4-9c81-35b5f1c1d8ab.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’assenza di verità nelle corporazioni ...
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2014, 06:09:48 pm
L’assenza di verità nelle corporazioni
L’autocritica che non c’è


Di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

L’invito alla verità, a dire finalmente a se stessi e al Paese come stanno realmente le cose, rischia di trasformarsi fatalmente a causa dei troppi consensi nella retorica della verità. E dunque in niente. Quando tutti si dicono subito d’accordo - «verità! sì, come no, verità, verità!» - allora è certo che la menzogna ha ancora un lungo avvenire davanti a sé.

In realtà c’è un solo modo per essere davvero dalla parte della verità, specialmente in politica: essere disposti a praticare l’autocritica. Che invece in Italia, come si sa, è una pratica molto rara. Nella nostra vita sociale, e in particolare in quella politica, nessuno, anche a distanza di anni, riconosce mai pubblicamente di aver commesso un errore, di non aver capito, di aver omesso di far qualcosa, di aver pensato o detto delle sciocchezze. E, sia detto tra parentesi, sta proprio qui, nell’impermeabilità all’autocritica la ragione forse principale di una delle più tipiche caratteristiche delle carriere pubbliche italiane: la loro durata potenzialmente illimitata. Perché mai ritirarsi o essere messo da parte anche a 70 o 80 anni compiuti, infatti, se uno non ha mai sbagliato un colpo?

In tema di mancanza di autocritica c’è solo l’imbarazzo della scelta. Si può cominciare dalle grandi corporazioni come quella dei magistrati, i quali, poco curandosi delle necessità del Paese, non ammetteranno mai di esercitare da sempre un paralizzante potere d’interdizione e di ricatto nei confronti di qualunque tentativo di modifica dell’ordinamento della giustizia. Che essi vogliono solo conforme al mantenimento delle loro prerogative e dei loro privilegi, abusivamente spacciati come sinonimo dell’interesse generale.

Dopo i magistrati si può poi proseguire con le migliaia di rappresentanti della classe politica locale, per esempio di quella delle Regioni. Mai nessuno di questi che in mezzo secolo abbia detto una parola sola di rincrescimento e di autocritica per il malfunzionamento, gli sprechi e i costi smisurati di quei carrozzoni che appena istituite sono diventate le suddette Regioni. Quanto avrebbe fatto piacere agli Italiani ascoltare almeno una volta un consigliere regionale, dico per dire, della Calabria o della Sicilia, ammettere che le loro amministrazioni hanno rappresentato e rappresentano un’autentica vergogna nazionale, o che per esempio l’autonomia siciliana è diventata ormai un’autentica truffa, utile solo ad arricchire a spese di tutti poche migliaia di fortunati. E magari sentire dire anche a qualcuno di loro che l’interesse dei calabresi e dei siciliani onesti sarebbe molto meglio tutelato da qualunque prefetto nominato da Roma, anziché dai miserabili politicanti di Reggio, di Cosenza o di Palermo. E per dare la sua parte anche al Nord, ma sempre restando in tema, perché nessun consigliere della Provincia di Trento ha mai colto l’occasione per ammettere che il fiume di soldi che l’Italia regala a quel territorio non ha di fatto alcun motivo di essere se non un garbuglio da legulei messo in piedi per fingere che esista un solo ente regionale chiamato Trentino-Alto Adige? Il fatto è che in Italia la verità sembra che siano sempre e solo gli altri a doverla dire, e che anche gli errori e i privilegi siano sempre e solo quelli degli altri.

Così si spiega anche perché, ad esempio, dei tanti imprenditori succedutisi alla presidenza della Confindustria, con i loro mille stucchevoli discorsi invariabilmente volti nei decenni ad ammonire, a intimare, a dare voti (e spesso a chiedere soldi), neppure uno, terminato il proprio mandato, abbia avuto il coraggio di spendere una parola di critica verso i propri colleghi: di solito così restii a reinvestire e a mettere soldi nelle loro aziende, così pronti a fare cassa vendendo e rifugiandosi nelle rendite, nelle concessioni o nei monopoli, sempre così defilati da ogni impegno civico. E come mai in tutti questi anni dalla Confindustria non è mai venuta una parola chiara e forte sulla larghissima pratica della manipolazione degli appalti, dove se da un lato i politici chiedono, dall’altra però sono sempre gli imprenditori che danno e non è certo un comportamento irreprensibile?

La memorialistica politica (che in pratica è l’unica esistente: in Italia infatti non accade quasi mai che un industriale di successo, un artista celebre, un grande manager, scriva le proprie memorie) è forse lo specchio più significativo di questa incapacità generale a guardare dentro di sé con uno sguardo di verità, e dunque all’occasione anche inevitabilmente critico. Si tratta di una memorialistica soprattutto di sinistra (non so perché), ex comunista e in particolare di quei politici del vecchio Pci appartenenti all’ala migliorista. Ebbene, anche qui è quanto mai raro trovare la franca ammissione degli errori commessi. Primo e più macroscopico, ad esempio, quello di essere rimasti nel loro partito, prigionieri per anni del ricatto della «disciplina» e dell’appartenenza. Non sarà stato anche in parte significativa colpa loro, dei loro timori e delle loro cautele, se in Italia non è mai nato un grande partito socialdemocratico e per avere un’alternanza al governo abbiamo dovuto aspettare tanto tempo?

Se vuol essere una cosa seria, insomma, l’omaggio generale alla verità non può che accompagnarsi all’autocritica di alcuni. Magari, visti gli errori commessi e le responsabilità accumulate, accompagnata alla decisione di farsi da parte.

20 luglio 2014 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_20/autocritica-che-non-c-e-91cc5422-0fd6-11e4-85b4-48e325e86ce9.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’indifferenza che uccide
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2014, 11:07:33 pm
L’indifferenza che uccide

Di Ernesto Galli della Loggia

Diciamo la verità: a quanti qui in Europa e in Occidente importerà davvero qualcosa dell’ennesima uccisione di cristiani, saltati in aria ieri, a Kano, in Nigeria, per lo scoppio di una bomba in una chiesa? E del resto a quanti glien’è importato davvero qualcosa dei cristiani obbligati la settimana scorsa ad abbandonare Mosul nel giro di 24 ore, pena la vita o la conversione forzata all’Islam? A nessuno. Così come nessuno ha mai alzato un dito per tutti i cristiani fuggiti a centinaia di migliaia in tutti questi anni dall’Iraq, dalla Siria, da tutto il mondo arabo. Quante risoluzioni i Paesi occidentali hanno presentato all’Onu riguardanti la loro sorte? Quanti milioni di dollari hanno chiesto alle agenzie delle Nazioni Unite di stanziare a loro favore? Sono ormai anni che la strage continua, quasi quotidiana: a decine e decine i cristiani vengono bruciati vivi o ammazzati nelle chiese dell’India, del Pakistan, dell’Egitto, della Nigeria. E sempre nel silenzio o comunque nell’inazione generali: che cosa, ad esempio, si è fatto realmente di concreto per le 276 ragazze cristiane rapite qualche settimana fa, sempre in Nigeria, dalla banda jihadista di Boko Haram perché colpevoli - niente di meno! - di voler andare a scuola, e quindi avviate a un destino che è facile immaginare?


I due principali motivi di questa vasta indifferenza sono ovvi. Il primo è che sempre di più stentiamo a sentirci, e ancor di più a dirci, cristiani. Non si tratta solo della semplice perdita della fede, che pure naturalmente conta. È questione di quanto ci sta dietro. Un paio di secoli di pensiero critico laico, soprattutto la sua gigantesca volgarizzazione/banalizzazione resa possibile dallo sviluppo dei mass media, hanno sottratto al Cristianesimo, agli occhi dei più, la dignità socio-culturale di una volta. Da tempo essere e dirsi cristiani non solo non è più intellettualmente apprezzato, ma in molti ambienti è quasi giudicato non più accettabile.
Il Cristianesimo non è per nulla «elegante», e spesso comporta a danno di chi lo pratica una sorta di tacita ma sostanziale messa al bando. L’atmosfera culturale dominante nelle società occidentali giudica come qualcosa di primitivo, al massimo un «placebo» per spiriti deboli, come qualcosa intimamente predisposto all’intolleranza e alla violenza, la religione in genere. In special modo le religioni monoteistiche. In teoria tutte, ma poi, in pratica, nel discorso pubblico diffuso, quasi soltanto il Cristianesimo e massimamente il Cattolicesimo, ad esclusione cioè del Giudaismo e dell’Islam: il primo per ovvie ragioni storico-morali legate (ma ancora per quanto tempo?) alla Shoah, il secondo semplicemente per paura.
Sì, bisogna dirlo: per paura.

L’Europa ha paura, ed è questo il secondo motivo dell’indifferenza di cui dicevo prima. Ha paura dell’Islam arabo, del suo potere di ricatto economico non più legato soltanto al petrolio ma ormai anche ad una straordinaria liquidità finanziaria. Al tempo stesso, e soprattutto, ha paura del terrorismo spietato, delle tante guerriglie che all’Islam dicono di ispirarsi, della loro feroce barbarie, così come dei movimenti di rivolta che periodicamente agitano nel profondo le masse di quel mondo, sempre pervase di una suscettibilità facilissima ad accendersi e a trascendere in un’accanita xenofobia. Ma non solo. L’Islam ci fa paura anche perché la sua sola presenza - come del resto quella di altre grandi entità non benevole che popolano oggi il pianeta, come la Cina - indirettamente ci obbliga a fare i conti con una grande mutazione in corso nella nostra cultura e dunque nella nostra civiltà: l’impossibilità psicologica di avere un «nemico», di sostenere una situazione di conflittualità non componibile. Un’impossibilità che unita al rifiuto/rimozione della morte - morte che il tramonto della religione rende ormai impossibile accettare e dunque in qualche modo esorcizzare - sta a sua volta producendo in Occidente una gigantesca svolta storica: la virtuale impossibilità per noi di pensare e di fare la guerra. Almeno quella guerra non combattuta da macchine impersonali e sofisticate, ma la guerra vera, quella in cui si muore.

Ma che ne sanno di tutto questo i cristiani delle antichissime comunità di Mosul o di Aleppo, tutti gli altri sparsi dall’Africa all’India? Che cosa possono saperne? A questo punto, immagino, essi hanno solo capito la verità che per loro conta: e cioè di avere ben poche speranze se sperano in un aiuto che venga da qui. Dei cristiani e della loro religione all’Europa attuale importa sempre di meno. Si può essere certi che ogni intervento a loro favore sarebbe subito giudicato inammissibile, indebitamente discriminatorio, colpevolmente lesivo di qualche diritto all’eguaglianza di tutti rispetto a tutto. E sia. Ma Dio non voglia che questo non sia che un inizio: l’inizio di qualcosa di cui proprio in questi giorni non mancano i segni premonitori. In un’Europa pervasa dalla secolarizzazione, in un’Europa le cui fonti spirituali si vanno rapidamente inaridendo per il disprezzo dovunque decretato a ogni umanesimo, non può che stabilirsi un rapporto fatalmente necessario, infatti, tra l’indifferenza verso il Cristianesimo e l’antisemitismo. È la medesima indifferenza per ciò che non può essere espresso dai numeri, per ciò che viene dalla profondità dei tempi e dei cuori e che si agita nel buio delle anime: osando guardare in alto, più in alto di dove arriva lo sguardo umano.


28 luglio 2014 | 07:59
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_28/indifferenza-che-uccide-75e4cd0a-1613-11e4-a64f-72b5237763b1.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA LA GRANDE GUERRA e l’Europa di oggi
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2014, 04:55:18 pm
LA GRANDE GUERRA e l’Europa di oggi
La memoria cancellata
Cos’altro pensiamo tutti che sia stata la Prima guerra mondiale al dunque se non un’«inutile strage»?

Di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Alla fine ha avuto la meglio Benedetto XV. Come non accorgersi infatti che è stata la sua interpretazione di quanto cominciò ad accadere esattamente cento anni fa - il 4 agosto 1914, il giorno in cui la guerra europea divenne realmente mondiale per effetto della dichiarazione di guerra dell’Inghilterra alla Germania, seguita dopo pochi giorni dall’intervento del Giappone e dell’Impero turco - è stata proprio la sua interpretazione di quell’evento, dicevo, che oggi l’intera opinione pubblica europea sembra avere ormai definitivamente adottato? Cos’altro pensiamo tutti che sia stata la Prima guerra mondiale al dunque se non una «inutile strage», come per l’appunto la definì fin dall’inizio il Papa del tempo? Non a caso le altre due grandi interpretazioni di quell’evento che in contemporanea ad esso videro la luce - quella del presidente americano Wilson che considerava la guerra come l’ultimo scontro tra la libertà dei popoli da un lato e la tirannide della Realpolitik dall’altro, e quella di Lenin che vi vedeva invece una semplice lotta intestina al capitalismo imperialista, anticamera della rivoluzione mondiale - entrambe quelle due visioni sono ormai solo roba d’archivio. Sì, dappertutto ha vinto l’«inutile strage».

Per averne conferma basta pensare al tono e ai contenuti delle commemorazioni centenarie che ormai s’infittiscono anche in Italia. È tutto un ricordo delle cecità dei politici di quegli anni, delle bugie della propaganda, degli orrori delle trincee, della crudeltà degli ordini, dei disagi disumani della vita quotidiana, della carneficina degli assalti, delle mutilazioni. E insieme, naturalmente, è tutta un’analisi critica della retorica, dei miti, delle lugubri cerimonie del lutto che allora e dipoi fiorirono, dei cimiteri di guerra, dei monumenti ai militi ignoti e non, sparsi dappertutto. Tutto un ripescaggio di diari strazianti. Solo questo insomma sembrerebbe che fu quel conflitto per gli europei di oggi. Solo ciò appare meritevole di essere ricordato.

La Grande Guerra viene così spogliata di qualunque significato storico-politico suo proprio. Lo scontro terribile che l’animò per quattro anni viene di fatto interamente decontestualizzato, cancellato nelle sue specificità e nelle sue ragioni, ridotto a una sorta di impazzimento collettivo o di sinistro complotto di un manipolo di burattinai malvagi. Cancellate sono le diversità degli schieramenti, delle posizioni, delle ideologie in gioco. Che non contano più nulla. L’«inutile strage» è una gigantesca notte in cui tutte le vacche sono grigie: non erano forse eguali in tutto e per tutto su ogni fronte le trincee, le sofferenze, le morti? E dunque? Che differenza potrà mai esserci tra un mutilato turco e uno francese, tra una bugia propagandistica di un Paese e quella di un altro?

In questo modo siamo indotti a vedere nella guerra che oggi ricordiamo null’altro che un puro e semplice insieme di negatività che cancellano tutto il resto. Cancellano, tanto per dirne qualcuna, l’acquisita indipendenza di tre o quattro nazioni europee, il definitivo tramonto di ceti sociali, come l’aristocrazia, abituati a un secolare dominio, un senso nuovo di cittadinanza e di mobilitazione politica diffusa tra milioni di soldati provenienti dalle classi popolari, la nascita di nuovi formidabili fermenti di autonomia tra i popoli e le élite dall’Anatolia al Golfo Persico, al Nilo. Perché è vero, tutte le guerre sono un’«inutile strage»: ma si dà il caso che esse abbiano quasi sempre il notevole effetto di cambiare il mondo. Ed è per questo che meritano di essere ricordate e studiate da quella cosa che si chiama storia.

Ma studiate storicamente, appunto. Non già nel modo in cui noi stiamo ricordando la Grande Guerra, nel quale si riflette quasi esclusivamente la nostra temperie culturale di oggi. E oggi la dimensione della potenza come cuore e strumento della politica ci appare una bestemmia. Oggi non ci curiamo più di Stati, di popoli e di nazioni e dei loro eventuali diritti, dal momento che i soli diritti che c’interessano sono quelli dell’individuo: cosicché, imbevuti di essi, ogni costrizione e ogni disciplina ci appaiono insensate e disumane, comunque sempre inutili. Così come sempre inutile e disumana ci appare oggi in particolare la morte, a cominciare da quella «naturale», e dunque figuriamoci ogni altra. Sempre per effetto di tutto questo, la guerra è anche completamente uscita dal nostro orizzonte pratico ed emotivo se non come male assoluto. Siamo pronti a credere che perciò essa debba essere semplicemente messa al bando e giudicata un crimine; del pari accarezziamo l’idea - provi ognuno a decidere dentro di sé quanto realistica - che possa esistere un mondo senza conflitti, ovvero che tutti i conflitti potrebbero essere risolti pacificamente se solo ci fossero un po’ di buona volontà ed un adeguato arbitrato internazionale.

Questa è l’ideologia che attualmente ci domina: intrisa di individualismo e di umanitarismo, molto cosmopolita e razionalista, molto politicamente corretta. Ma se è vero che ad ogni fatto del passato non possiamo che guardare con i nostri valori, è pur vero che tale prospettiva dovrebbe però trovare il suo limite nella capacità di calarci nel passato stesso, di storicizzare, come si dice. Cioè di non giudicare meccanicamente le cose di ieri con il metro di oggi. Ai milioni di morti della Grande Guerra e al loro sacrificio almeno questo lo dovremmo.

4 agosto 2014 | 07:21
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_04/editoriale-grande-guerra-memoria-cancellata-galli-della-loggia-43b9af84-1b96-11e4-91c9-c777f3f2edee.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA NEMICI VERI E FALSI DEL PREMIER Élite avvelenate, ...
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2014, 06:38:29 pm
NEMICI VERI E FALSI DEL PREMIER
Élite avvelenate, gufi e rosiconi


di Ernesto Galli della Loggia

Si può riformare l’Italia con il concorso delle élite? Si possono con il loro consenso cambiare le regole che ci stanno strangolando? È questo l’interrogativo che oggi il Paese si trova di fronte, e in particolare che si trova di fronte il presidente del Consiglio, stando anche a quello che si legge nel colloquio di ieri con La Stampa.

Le élite italiane non amano Matteo Renzi. Lo hanno guardato con crescente simpatia nella sua fase per così dire «retorica», quando combatteva per conquistare la leadership e si è subito segnalato per la novità del suo linguaggio, delle cose che diceva (alcune delle quali fino a poco tempo prima a sinistra inconcepibili) e per come le diceva. Ma quando dalle parole si è cominciato a passare ai fatti le cose sono mutate. Allora hanno preso a fioccare via via prima i distinguo («È giovane e simpatico ma ha troppa fretta e troppa ambizione»), poi le obiezioni («Non ha una squadra all’altezza», «Vuol mettere troppa carne al fuoco», «Conta eccessivamente sul potere delle parole»; tra parentesi: tutte cose in cui c’è del vero), infine le critiche vere e proprie.

Tra le quali bisogna distinguere. Da un lato ci sono le critiche di natura più spiccatamente politico-ideologica, il più delle volte assurdamente eccessive come quella di autoritarismo. Queste critiche come è ovvio vengono quasi esclusivamente dalle élite di sinistra, egemoni in settori importanti come la cultura, la comunicazione, lo spettacolo - che incarnano peraltro una peculiarità italiana: la forte simpatia-importanza-presenza che per ragioni storiche e/o di puro opportunismo opinioni e abiti mentali di sinistra, a volte anche radicaleggiante, hanno in tutti i piani alti della società -. Di Renzi tali élite di sinistra mettono ferocemente sotto accusa soprattutto un aspetto: la sua intesa con la Destra berlusconiana. Intesa certo anomala, ma che a pensarci bene può essere vista come la risposta a quella altrettanto anomala, tipica dell’Italia, tra la suddetta élite intellettuale di sinistra e il potere socio-economico tradizionale. In realtà soprattutto l’élite intellettuale si sente specialmente colpita, io credo, da altri aspetti del «renzismo»: per esempio dalla palese indifferenza del presidente del Consiglio per i «venerati maestri», dal suo mancato omaggio alla loro persona, nonché dalla sua evidente avversione per le pratiche di cogestione-lottizzazione-influenza tipiche di tale élite specie in istituzioni pubbliche come la Rai, l’Università e tante altre.

Ma accanto a queste ci sono le critiche provenienti dalle élite dell’economia, delle professioni, dell’amministrazione pubblica. Qui la forte ambizione riformatrice di Renzi e il suo piglio valgono a mettere il dito su una evidente contraddizione che da anni è al fondo del modo di pensare di questi gruppi sociali, ma che aveva potuto finora rimanere comodamente nascosta.

In gran parte essi nutrono propositi di cambiamento anche radicali, ripetono più o meno da sempre che «così non si può andare avanti», sono a ogni momento pronti a mettere sotto accusa la politica per i suoi ritardi e incapacità. Ma della politica essi hanno vitalmente bisogno. Storicamente, infatti, lo status e i relativi privilegi grandi e piccoli di medici, avvocati, magistrati, alti dirigenti pubblici, professori universitari, giornalisti si sono costruiti in buona parte grazie per l’appunto alla protezione loro offerta dalla politica. Non parliamo dell’industria, della banca, del commercio. Qui sostegno statale diretto, legislazioni favorevoli, limitazioni alla concorrenza, regimi di volta in volta ad hoc nelle concessioni, negli appalti e nelle licenze - tutto dipendente dalla politica - hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo decisivo.

Come meravigliarsi se questo poderoso complesso d’interessi - i cui vari settori per giunta sono generalmente dominati da gruppi di comando di età avanzata - sebbene possa talvolta esprimere opinioni e desideri di cambiamento, ne tema al tempo stesso moltissimo ogni reale ed effettiva avvisaglia? Come meravigliarsi se esso cerchi di esorcizzarla celando il proprio malumore dietro le critiche mascherate da una delusione di maniera?

In realtà la sessantennale vicenda della democrazia italiana ci ha lasciato un’eredità avvelenata: vale a dire una compagine sociale per la quale è oggi difficile immaginare una qualunque riforma, o quasi, che non colpisca in modo significativo interessi forti e ramificati. Capaci di agitare lo spauracchio, in termini di consenso, che è stato sempre fatto valere contro ogni governo riformatore: il prezzo delle riforme lo si paga subito, mentre i vantaggi si vedono solo dopo.

Manca in questa rassegna un ultimo protagonista: la stampa. I giornali amano Renzi? Ovviamente a seconda dei giornali, risponderei io. Per il presidente del Consiglio e i suoi seguaci - specie quelli della 24esima ora - ho l’impressione che invece la risposta sarebbe: no, per nulla; o comunque mai abbastanza. Ma il potere, qualunque potere, pensa sempre così a proposito dei giornali e di chi ci scrive. Questi però, sebbene facciano parte anch’essi di un élite privilegiata, cercano, per lo più, in realtà, di fare solo il loro mestiere, che per sua natura è - giustamente! - un mestiere daltonico: abituato cioè a vedere più il nero che il bianco, e a scorgere sempre anche nel bianco qualche traccia di grigio. Renzi perciò se ne convinca: «i gufi e i rosiconi» veri, quelli che contano, usano strumenti diversi dalla carta dei giornali.

11 agosto 2014 | 08:08
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_11/elite-avvelenate-gufi-rosiconi-82c2ead2-2119-11e4-b6e4-ef62a8b70320.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Domande cruciali su Guerra, religione e civiltà
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2014, 06:15:33 pm
Domande cruciali su Guerra, religione e civiltà
Noi in fuga dalla realtà

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Domanda numero uno: come si può riuscire a fare la guerra a un aggressore che invoca continuamente Dio e l’appartenenza religiosa senza dare alla propria risposta militare alcun carattere anch’esso a propria volta inevitabilmente religioso? Detto altrimenti: è davvero necessario perché si possa parlare di guerra di religione che entrambi gli avversari la proclamino tale, o non basta invece che lo faccia uno solo? Se uno mi ammazza perché io sono sciita, cristiano, o ebreo, o «infedele», e io cerco di difendermi colpendo a mia volta, cos’è questo se non un conflitto religioso?

Domanda numero due: se una persona di diversa religione e origine culturale si trova fin dall’infanzia a vivere per anni ed anni con la propria famiglia in un Paese occidentale, ne apprende perfettamente la lingua, ne frequenta le scuole, vi si fa presumibilmente degli amici, ne assorbe le abitudini quotidiane, ma a un certo punto decide che tutto quanto è stato così intimamente e così a lungo intorno a lui gli è in realtà insopportabile e repellente fino al punto da meritare il più crudele annientamento, che cosa indica ciò? Che nome merita? E un fenomeno del genere ripetuto per centinaia di casi, è un fatto casuale, un puro accidente oppure no?

Sono queste le due domande cruciali che gli eventi drammatici che accadono in Medio Oriente pongono a questa parte del pianeta dove noi abitiamo. Domande alle quali, però, il nostro discorso ufficiale cerca di sfuggire. Spesso ne nega addirittura il senso o preferisce dare risposte di comodo che non sono una risposta: l’ennesimo esempio della vera e propria voragine che si sta spalancando tra la realtà e la politica, tra la massa e le élite.

Non riusciamo a trovare risposte perché le domande in questione evocano tre ambiti - la religione, la guerra e la civiltà - che da un certo momento in poi la nostra cultura e il suo mainstream intellettuale - quello europeo assai più di quello americano - hanno bandito, proclamandone la scostumatezza ideologica e di conseguenza espellendo per decreto tutte e tre dal discorso politicamente corretto.

Alle religioni monoteiste sono stati sottratti i loro propri specifici caratteri storici, quelli che le hanno fatte diverse e spesso rivali; cosicché esse sono divenute tutte assimilabili ne «la religione», cioè nella dimensione di un’astratta spiritualità di sapore teista (adoriamo tutti uno stesso Dio!: come se il califfo Al Baghdadi invece fosse ateo), ovviamente destinata a non poter avere alcuna relazione possibile con nessun aspetto concreto e vivo della società, e tanto meno con i conflitti umani (una guerra per motivi religiosi? Oibò! Quale selvaggia bizzarria! Com’è mai pensabile una simile cosa che nella storia sarà accaduta solo qualche migliaia di volte?).

Quanto alla guerra e alla violenza sono state entrambe oggetto di una tabuizzazione così radicale da sfiorare il pensiero magico: poiché le aborriamo e non vogliamo che esistano, non esistono. E comunque non possiamo neppure pensare di averci qualcosa a che fare. Perlomeno non possiamo usare le parole per dirlo. Noi cittadini dell’Unione europea dunque non facciamo la guerra, ce lo proibisce la nostra moralità superiore (noi italiani ci siamo addirittura inventati che ce lo proibisce la Costituzione). Noi facciamo solo operazioni di peace keeping , e per non assumerci alcuna responsabilità morale e politica, anche quelle solo dietro invito (Nato, Onu). Manteniamo la pace: sparando e uccidendo quando è inevitabile, ma non per vincere; sicché quando ci accorgiamo che così la pace in genere non arriva, allora ci ritiriamo in buon ordine e - vedi il caso dell’Iraq e tra poco dell’Afghanistan - chi s’è visto s’è visto.

Anche il termine e il concetto di civiltà sono ormai fuori dell’uso pubblico consentito. Al gusto democratico corrente sanno entrambi, non si capisce perché, di esclusione, di radici, di «fardello dell’uomo bianco», al limite di razzismo; ed evocano la categoria, mai abbastanza deprecata, di «guerra di civiltà». Parlare di civiltà si può al massimo sui manuali di storia antica (civiltà greca, egizia, ecc.) , ma non al tempo presente. Oggi, infatti, esistono solo le «culture»: tutte naturalmente sul medesimo piede di parità, e tutte naturalmente tra loro compatibili all’insegna dell’universalismo umano. Contrariamente a quel che pure si potrebbe sospettare, insomma, l’islamico di cittadinanza britannica che l’altro giorno ha decapitato un giornalista americano in nome e per conto dell’Isis, non ce l’aveva, no, con la civiltà occidentale: con ogni probabilità si era semplicemente trovato male con la cultura inglese. Avesse vissuto in Alto Adige o nel Lussemburgo sarebbe stata tutta un’altra cosa.

Una radicale riconciliazione con il principio di realtà: ecco che cosa ci manca nel nostro modo di guardare al mondo. Certo, le idee sono una guida necessaria a muoversi in esso. Ma che cosa il mondo sia e come funzioni, non l’hanno quasi mai stabilito le idee.

22 agosto 2014 | 07:31
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_22/noi-fuga-realta-70d16668-29bc-11e4-83e9-8707f264e6d8.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - I VALORI E IL SOGNO MULTICULTURALE
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:05:24 pm
I VALORI E IL SOGNO MULTICULTURALE
La debolezza delle regole

Di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Con la presenza nelle proprie file di un numero rilevante di persone provenienti da Europa e Usa la sfida che il cosiddetto Stato Islamico e il terrorismo jihadista lanciano all’Occidente non è più solo, e tanto, una sfida di carattere militare. È una sfida diretta a quello che forse è stato negli ultimi decenni il principale luogo comune culturale che ha dominato le élite e quindi le opinioni pubbliche di questa parte del mondo.

È una sfida al multiculturalismo. All’idea cioè che debbano (e quindi possano) esistere società con una molteplicità di culture anche diversissime: basta che vi siano regole capaci di assicurarne la pacifica convivenza. Dando così per scontati due assunti che invece non lo sono per nulla: a) che le regole (per esempio la parità dei sessi o l’habeas corpus ) siano in qualche modo neutrali, universalmente accettate e accettabili, e non siano invece, come sono, il prodotto di valori storici propri di certe culture ma non di altre; e b) che le società siano tenute insieme principalmente dalle regole, dai codici e dalle Costituzioni, piuttosto che da legami identitari profondi, dalla condivisone innanzi tutto psicologica ed emotiva dei valori storici di cui sopra. Per capirci: se ogni cittadino di questa parte del mondo ha un soprassalto di repulsa nel vedere un crocifisso fatto a pezzi o una sinagoga data alle fiamme, non è perché ci sia una legge che vieti queste cose, ma per ragioni che con ciò non hanno nulla a che fare, e che semmai sono la premessa necessaria di una tale legge. Le regole, le leggi, funzionano, per l’appunto, solamente se premesse del genere esistono.

Le società occidentali attuali, viceversa, sembrano essersi fatte un punto d’onore nel progressivo indebolimento dei loro valori identitari, del legame con la tradizione culturale, dunque con la storia, sostituiti da una vera e propria fissazione, all’opposto, sulle regole e su chi e come le amministra (dai giudici ai tribunali). Da tempo, in tal modo, esse appaiono sempre più avviate sulla strada dell’astrattezza e del formalismo, in una parola dell’irrealtà. Non a caso: per ambire a qualche consistenza, infatti, il sogno multiculturale ha bisogno di una società senza valori e senza storia, bensì costituita e retta solo da regole universali assurte esse, in quanto tali, al rango di valori supremi. Con le conseguenze sulla dimensione stessa del «politico», nonché sulla consistenza della cultura politica e la capacità di decidere delle loro leadership, che sono sotto gli occhi di tutti.

L’intera politica dell’immigrazione e dell’accoglienza praticate dai Paesi dell’Europa occidentale - un’immigrazione proveniente in prevalenza dalla grande area della cultura islamica - si è ispirata al sogno multiculturale di cui sto dicendo. Un sogno che comporta come primo risultato la convinzione che nulla bisogna fare affinché chi giunge nei nostri Paesi sia indotto a integrarsi assimilandone i tratti culturali, cioè gli unici che possono produrre anche il rispetto delle loro regole (sì da ottenere in tal modo - ma solo in tal modo - anche la piena cittadinanza in un tempo ragionevole). Il caso limite che indica dove possa portare una prassi del genere è quello della Gran Bretagna, dove alle comunità islamiche è stata riconosciuta senza troppi problemi la cittadinanza, ma insieme, paradossalmente, anche la facoltà di auto amministrarsi dando loro la possibilità di applicare al proprio interno addirittura le regole della sharia.
Con la conseguenza, per esempio, di cui si è saputo di recente, di autorità di polizia spinte a chiudere gli occhi su una catena di crimini gravissimi (pedofilia, stupri, avviamento alla prostituzione, traffico di esseri umani), verificatisi all’interno di una di queste comunità, per il timore che perseguirli avrebbe significato tirarsi addosso l’accusa di etnocentrismo, di pregiudizio culturale, magari di islamofobia o chissà cos’altro. Come meravigliarsi allora se proprio dalla Gran Bretagna proviene il maggior numero di persone con passaporto europeo - non necessariamente di origine islamica, ci sono anche dei convertiti - accorse ad arruolarsi nelle schiere del Califfato di Al Baghdadi? Ma la Gran Bretagna è solo la parte di un tutto.

La Gran Bretagna siamo noi con le nostre società. Società che ormai credono illegittimo in qualunque ambito non dico imporre, ma neppure suggerire, criteri di comportamento sulla base di ciò che è bene e ciò che è male, e al massimo affidano questo compito solo al codice penale (seppure...); che svalutano sistematicamente qualunque cosa sia considerata parte di una tradizione (dalla fede religiosa all’eredità culturale); che sembrano sempre più convinte che neppure più la natura costituisca un limite per checchessia. Ebbene, i combattenti europei sotto le bandiere dello Stato Islamico, in specie quelli che arrivano dalle nostre società, ci mandano a dire che, declinati a questo modo, i valori di libertà e di tolleranza che noi ci ostiniamo a credere così attraenti e desiderabili da tutti - anche da chi approda tra noi provenendo dai più lontani altrove - a una parte del mondo e alle sue culture, invece, non piacciono per nulla. Anzi, non pochi di coloro che ne fanno parte li considerano quanto di più ostile possa esistere al loro più intimo modo di essere, quanto di più contrario al modo in cui essi concepiscono una collettività umana: fino al punto di impugnare un coltello per sgozzare chi in qualche modo rappresenta quei valori che sono i nostri.

Non è allora venuto il momento di chiederci in quanti altri casi la nostra libertà produca in realtà solo odio e disprezzo? Di domandarci una buona volta perché ciò accade, se per avventura non ci sia qualcosa nel progetto multiculturale che non funziona? Non è per nulla detto, infatti, che le culture siano nate per intendersi. Forse, anzi, è tragicamente vero il contrario; così come sicuramente è vero che a cambiare le cose non bastano né i sogni né tanto meno i buoni sentimenti.

7 settembre 2014 | 09:21
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_07/debolezza-regole-9dafbc08-3659-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA E ora Renzi faccia i nomi
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2014, 05:51:12 pm
E ora Renzi faccia i nomi

Di Ernesto Galli Della Loggia

È giunta l’ora, mi sembra, che Matteo Renzi compia un gesto che in Italia è sempre rivoluzionario: e cioè faccia nomi e cognomi. Solo una tale novità, infatti, può rappresentare quel salto di qualità nella comunicazione del premier con il Paese che la gravità della crisi e l’urgenza dei suoi possibili rimedi richiedono.

Non è più possibile e non ha più senso continuare a indicare gli avversari del governo e delle sempre annunciate riforme evocando genericamente «gufi e rosiconi». «Gufi e rosiconi» - ce lo consenta il presidente del Consiglio - insieme ai «selfie», al «cinque», ai «Twitter», agli hashtag , hanno fatto parte di un ambito comunicativo ormai oggettivamente superato: quello in cui egli si è impegnato a «farsi un’immagine» e costruire consenso intorno alla sua persona. Sono serviti a sottolinearne l’informalità, la giovinezza, la simpatia, la carica di rottura rispetto al passato. E l’hanno fatto egregiamente: il risultato si è visto sul piano elettorale così come si continua a vedere nei sondaggi. Sta bene; ora però serve un consenso diverso.

Ora a Renzi serve un consenso non più sulla sua persona (che già ha), ma sulla sua politica. Politica che, lo sappiamo, può essere solo quella delle tanto attese e sempre rimandate riforme. Per citare alla rinfusa le principali: l’ammontare esorbitante della spesa pubblica, i costi e gli eccessivi poteri delle Regioni, l’eccessivo prelievo fiscale sul lavoro nelle sue varie forme e le norme sui contratti di lavoro, l’ordinamento giudiziario, la chiusura corporativa degli ordini professionali, lo strapotere paralizzante dell’alta burocrazia, la scarsa efficienza di tutte le pubbliche amministrazioni con la farraginosità spesso assurda delle procedure. È un elenco da far tremare le vene ai polsi: per la complessità di ognuna delle materie indicate, ma soprattutto per la forza e la determinazione delle categorie, degli interessi, dei gruppi di pressione, che - è fin troppo facile prevederlo - sentendosi ogni volta minacciati dal minimo cambiamento saranno pronti, come hanno già fatto mille volte, a scendere sul sentiero di guerra contro il governo servendosi di tutti i mezzi.

È nell’aspra lotta contro questi avversari che si deciderà il futuro dell’Italia e, insieme, il destino del presidente del Consiglio: ed è dunque in vista di questa lotta che egli deve trovare d’ora in avanti il consenso senza il quale sarà sicuramente sconfitto. Ma un tale consenso - non superficiale, strutturato - egli riuscirà a trovarlo solo se cambierà il suo modo di comunicare con il Paese, solo se il suo rapporto con esso farà uno scatto in avanti decisivo. Non più fondato sulla «simpatia», su un gesto più o meno accattivante, su un sorriso o una battuta indovinata, bensì sulla capacità di creare nell’opinione pubblica un diffuso e ben radicato convincimento della necessità di fare le cose che vanno fatte. Proprio in vista di ciò d’ora in poi il presidente del Consiglio deve smettere d’intrattenere il Paese, deve parlargli: che è cosa diversa.

L’Italia, se vuole cambiare, ha bisogno innanzi tutto di verità e di serietà. Di entrambe Renzi deve farsi carico: con interventi non estemporanei e con un discorso alto, e magari drammatico, come il momento richiede e come i leader democratici degni del nome hanno l’obbligo di saper fare. Egli deve spiegare bene ai cittadini le riforme che intende varare, illustrandone con accuratezza i modi e i vantaggi sperati, ma non nascondendone anche gli eventuali prezzi da pagare. Promettendo peraltro che tali prezzi saranno equamente ripartiti e facendo vedere che mantiene le promesse. Deve anche indicare con chiarezza, però, chi sono coloro che si oppongono a quei provvedimenti, e per quale motivo.

Ripeto, facendo con coraggio i nomi e i cognomi: non già per darsi un’inutile aria da Rodomonte, ma perché in un momento difficile e nella prospettiva di pesanti sacrifici, in un momento in cui sono necessarie riforme radicali e spesso dolorose, le maggioranze parlamentari non bastano. È necessario che la volontà riformatrice dall’alto sia sostenuta dall’appoggio massiccio e convinto dell’opinione pubblica, in una battaglia in cui però risulti chiaro chi è l’avversario e quali i suoi interessi. È perciò che la posta e i giocatori devono essere ben evidenti: dal momento che proprio la pubblicità è la nemica mortale di tutte le lobby e di tutti i gruppi d’interesse particolari, abituati per loro natura ad agire per linee interne contro l’interesse generale. L’obiettivo di Renzi, invece, deve essere per l’appunto quello di far capire dove sia l’interesse generale spiegando e convincendo giorno per giorno e mobilitando intorno all’interesse generale l’opinione pubblica.

A questo unico fine egli d’ora in poi dovrebbe ispirare il suo rapporto con il Paese e modellare la propria immagine. Altrimenti prima o poi gli si aprirà davanti la stessa via percorsa da Berlusconi: che era tanto simpatico, tanto accattivante, vinceva le elezioni, ma alla fine non ha combinato nulla che meriti di essere ricordato.

15 settembre 2014 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_15/ora-renzi-faccia-nomi-5f3ae19c-3c98-11e4-95e1-a222c06f54b6.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’Europa e i nostri interessi Alla Germania va ...
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:49:10 pm
L’Europa e i nostri interessi
Alla Germania va detto questo

Di Ernesto Galli della Loggia

Da tempo tra i protagonisti a ogni effetto della politica interna italiana ce ne sono almeno due che italiani non sono: l’Unione Europea e, principalmente per suo tramite, la Germania. E la loro presenza dietro le quinte serve spesso ad alimentare qui da noi progetti di natura ambigua, voci incontrollate. Il fatto è che la crisi sta portando a termine il radicale mutamento del profilo dell’Ue, che si sostanzia in una cruciale novità: l’ormai evidente, definitiva egemonia al suo interno della Germania. Da questo punto di vista Renzi è stato certo ingenuo a pensare che bastasse il suo 40 per cento elettorale a cancellare un dato di fatto così decisivo.

La Germania possiede tre formidabili punti di forza: 1) è la potenza economica dominante del continente; 2) ha dalla sua l’appoggio in pratica permanente di una cintura di Stati suoi satelliti di fatto (Repubblica Ceca, Austria, Belgio, Lussemburgo, un po’ meno Finlandia e Olanda, ma insomma stiamo lì); 3) può infine contare sugli uffici di Bruxelles dell’Unione, i quali, seppure non composti in maggioranza di cittadini tedeschi, della Germania hanno però assorbito la mentalità e i punti di vista circa ciò che l’Unione deve essere e come essa deve funzionare. La Germania insomma dispone di ben tre registri per la sua politica: la voce di Berlino, il pacchetto di Stati che essa ispira, le decisioni e le raccomandazioni di Bruxelles. L’Italia - come altri membri dell’Unione - è da anni presa in questa tenaglia. E alla fine, se vuole mantenere in piedi l’Ue e l’euro, non può che chinare la testa.

A meno che... a meno che l’Italia stessa non decida di porre con forza il grave problema, non solo politico ma di formidabile rilievo storico, rappresentato da questa evoluzione della costruzione europea, rappresentato dalla virtuale egemonia della Germania. Un’evoluzione non voluta né prevista da nessuno dei padri fondatori e da nessuna delle forze ideali dell’europeismo. E che pone una domanda: è proprio sicuro che una simile Europa corrisponda ai nostri interessi nazionali? Comunque, accettare una situazione nuova come questa con regole vecchie non può portare a nulla di buono. E contribuisce ancora di più ad alienare il consenso dell’opinione pubblica.

L’Europa dunque ha assoluto bisogno di un nuovo inizio. Il presidente del Consiglio può fare una cosa assai utile per sé e per tutti se invece di cercare di strappare qualche concessione economica su questo o su quello, come hanno fatto fin qui i suoi predecessori, porrà con forza questa esigenza nelle sedi opportune. Parlando alto e forte, con il linguaggio della dignità e della verità. E magari, come è buona regola da che mondo è mondo, facendo accompagnare discretamente le sue parole, nel caso trovassero scarso ascolto, con qualche credibile minaccia di ritorsione.

29 settembre 2014 | 07:11
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_29/alla-germania-va-detto-questo-caf8de94-4796-11e4-85be-0ddddac1a56f.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La Chiesa e il segno dei tempi Le domande senza...
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2014, 05:59:47 pm
La Chiesa e il segno dei tempi
Le domande senza risposte

Di Ernesto Galli della Loggia

È lecito supporre che con il suo discorso a conclusione della prima fase del Sinodo papa Francesco abbia mirato a due obiettivi. Cercare innanzi tutto di dare un’immagine del suo magistero più mediatrice e per così dire «centrista» rispetto a quella che finora era apparsa a molti; e insieme abbia ritenuto urgente richiamare la Chiesa al superamento di quelle divisioni apparse così evidenti proprio durante i lavori del Sinodo. Ma più al fondo esso può e deve forse essere letto soprattutto come il tentativo assai forte da parte di un Pontefice «venuto dalla fine del mondo» di chiamarsi fuori da divisioni e dispute che hanno il loro teatro di elezione negli episcopati delle Chiese dell’ultrasecolarizzato Occidente euro-americano,ma che negli altri luoghi del pianeta dove vive e opera il cattolicesimo finiscono per significare poco o nulla.

Non si sbaglia, credo, dicendo che è a queste contrade che guarda per il presente e per il futuro della Chiesa Bergoglio. Egli guarda all’America latina, con la sua disperata religiosità descamisada e «sovversiva», con la sua liturgia disordinata, all’Africa tradizionalista con le sue mille ibridazioni culturali, immersa in una povertà apparentemente senza futuro. Qui sì, in queste parti del mondo, dominate in tanta misura da realtà semplici e spesso brutali, qui sì che il richiamo papale, costante, quasi ossessivo, all’«accoglienza», alla «misericordia», alla «carità» acquista per il cattolicesimo un valore strategico cruciale. Qui sì che quelle virtù hanno il valore di parole d’ordine e alludono a linee di azione capaci di allargare in modo decisivo i confini della fede cattolica.

Ma le stesse parole, si sa, possono voler dire cose diverse in contesti diversi. Accade così che di termini come «accoglienza», «carità», «misericordia» siano corsi a impadronirsi i «progressisti» che allignano negli esausti episcopati delle Chiese d’Occidente per usarli contro i «conservatori» presenti nelle medesime Chiese; i quali a propria volta si sono sentiti in obbligo di denunciare l’inevitabile ambiguità di quegli stessi termini. Sia i primi che i secondi incapaci di superare le ormai stantie dispute postconciliari che vedono da oltre mezzo secolo i «progressisti» impegnati a mettere sotto accusa la Chiesa «del potere», e i «conservatori» a vedere dappertutto pericoli di «protestantizzazione»; i «progressisti» pronti ogni volta a farsi eco puntuale del politicamente corretto secolarizzato, i «conservatori» pronti a sospettare la subdola intenzione degli altri di abbandonare il depositum fidei . Entrambi gli schieramenti episcopali, per finire, goffamente supportati dai rispettivi omologhi laici nella politica e nei giornali.

Durante il Sinodo sulla famiglia è andato in scena ancora una volta questo scontro in realtà tutto interno alle Chiese dell’Occidente. Nel quale il Papa e le sue posizioni si sono trovate come prese in mezzo rischiando, di fatto, una continua strumentalizzazione. Da qui probabilmente il deciso intervento finale di Bergoglio.


In realtà l’adozione pienamente accettata e a stento dissimulata di categorie proprie della politica nel dibattito del mondo ecclesiastico e in generale cattolico nei Paesi occidentali, dà l’impressione di essere null’altro che un surrogato delle molte domande di fondo che di quel dibattito dovrebbero essere la premessa obbligata, ma che invece in sostanza ci si è sempre guardati bene dal porsi.

Lo si è visto chiaramente a proposito di quei grandi temi come i comportamenti sessuali, la procreazione, il matrimonio, che hanno prodotto le maggiori divisioni all’interno del Sinodo. Si tratta con tutta evidenza di questioni riguardanti da un lato l’idea complessiva dell’essere umano e del suo destino entro il disegno della creazione, e dall’altro il rapporto che con tale prospettiva generale deve avere la sua quotidianità morale. Questioni, come si capisce, che possono difficilmente essere risolte all’insegna della «semplice» libertà di coscienza o della «misericordia», come ha invece cercato di fare nei giorni scorsi lo schieramento «progressista» nell’aula del Sinodo col mettersi sulla stessa lunghezza d’onda lessicale del Papa. È evidente, infatti, che così si rischia davvero di non cogliere per nulla la reale portata di quanto è autenticamente in gioco. Che in questo caso, se non sbaglio, è il cuore stesso di ciò che una religione monoteista è e che alla fine non può non essere.

Ma se è così, è allora difficile non stupirsi del fatto, come dicevo, che quando gli episcopati occidentali decidono oggi di discutere di tali argomenti, specie se è per cercare adeguamenti dottrinali a quelle che vengono chiamate le «mutate esigenze dei tempi», non avvertano, e quasi neppure percepiscano si direbbe - né i novatori né i loro avversari con la solitaria e luminosa eccezione di Ratzinger - che prima di un tale compito tutti loro avrebbero da gran tempo dovuto porsi forse una domanda: come è accaduto che negli ultimi decenni un ampio numero di fedeli, forse addirittura la maggioranza, non seguissero più gli indirizzi della Chiesa? Che nella propria vita quotidiana essi si discostassero non già da aspetti secondari bensì basilari del suo insegnamento? Che non accettassero più la sua concezione dell’essere umano, del rapporto tra i sessi, della trasmissione della vita? Come è accaduto che questa gigantesca impalcatura culturale che aveva tenuto il campo per secoli stia oggi di fatto sul punto di sbriciolarsi? Che proprio in questa parte del mondo storicamente cristiano, forze e tendenze estranee se non ostili al retaggio cristiano si mostrino capaci in tanti campi di prevalere, di dettare stili di vita e di pensiero? E per proseguire con le domande di fondo scritte nelle cose: è possibile che tutto quanto è accaduto e sta accadendo non implichi responsabilità di ordine, non già solo pastorale, ma principalmente intellettuale, da parte non solo della Chiesa d’Occidente e delle sue gerarchie ma del mondo cattolico nella più vasta accezione, a cominciare dai suoi esponenti intellettuali?

Per chi guarda a queste cose con uno sguardo dall’esterno, ma consapevole del tesoro di pensiero e di azione racchiuso nella tradizione «romana», è difficile convincersi che «carità» e «misericordia» possano colmare davvero questo vuoto di riflessione, rappresentando delle risposte adeguate ai drammatici interrogativi sopra detti. È difficile liberarsi dall’idea che forse quegli interrogativi alludono a un grandioso «segno dei tempi» che si annunciano all’Occidente. Un «segno dei tempi» che andrebbero adeguatamente decifrati. E magari fatti oggetto di un nuovo annuncio.

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20 ottobre 2014 | 07:43

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_20/domande-senza-risposte-1baf6ee2-5814-11e4-9d12-161d65536dad.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Partiti nature morte? Il vuoto intorno al leader
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2014, 07:57:41 am
Partiti nature morte?
Il vuoto intorno al leader

Di Ernesto Galli della Loggia

Come unico erede nonché unico sopravvissuto sia pure di secondo grado tra tutti i fondatori della Repubblica, era giusto che solo dal Pd potesse venire la parola fine all’intero universo ideologico del Novecento italiano e delle sue culture politiche. Cosa che sta per l’appunto avvenendo con Matteo Renzi. Ma che certo non poteva avvenire, per esempio, ad opera di Silvio Berlusconi: la fine della Prima Repubblica, del suo intero sistema politico e culturale, non poteva certo venire da uno che non aveva mai sentito neppure nominare «papà Cervi» (il padre dei sette fratelli fucilati nel 1943 dai fascisti). Proprio perché non sapeva praticamente niente del vecchio, delle sue radici, della sua narrazione, delle sue mitologie, Berlusconi non è stato in grado di dare inizio a nulla di nuovo, neppure per davvero alla Seconda Repubblica. Eterno dilettante «impolitico» della scena pubblica italiana, in vent’anni non è riuscito ad essere altro che l’uomo del «prendi i voti e scappa».

La fine, invece, poteva venire solo da chi, seppure giovane d’età, sapeva bene (o abbastanza bene), però, che cosa sono stati Alcide Cervi, Gramsci, il Pci, la cultura cattolica, che cosa è stata la vicenda politica del Paese, la sua saga più o meno autentica, i suoi tabù e i suoi non detti. E naturalmente poteva venire solo da chi fosse in grado di abbattere la fortezza della Sinistra: perché era dietro queste mura che si era da tempo rifugiato tutto l’establishment repubblicano; perché, scomparsa la Democrazia cristiana e tutti gli altri, solo i lontani eredi dell’antico Partito comunista hanno custodito fino a oggi l’ultima fiammella dell’esarchia ciellenistica, origine del sistema. Infine perché se si vuole davvero cambiare l’Italia, la prima cosa è una rivoluzione culturale contro un insieme di stereotipi del passato che hanno il loro habitat elettivo proprio a sinistra.

Questa rivoluzione dall’alto (l’ennesima «rivoluzione passiva» della nostra storia) è quella a cui si è dedicato Matteo Renzi smantellando virtualmente il Pd (hanno ragione i suoi avversari interni): gettandone via pezzi della storia, distruggendone i luoghi comuni della tradizione, le idee ricevute del suo «popolo». Lo fa quasi sempre con poco garbo, è vero, spargendo sulle ferite aceto anziché miele, ma si spiega: se in tanto tempo i padri, i vari D’Alema e Bersani - che avevano tutto il garbo necessario - non sono stati capaci di cambiare nulla, cercando invece di far sopravvivere tutto con la speranza che funzionasse ancora, allora è inevitabile che i figli procedano senza guardare troppo in faccia a nessuno.

Ma proprio per le cose appena dette, smantellando il Pd, cioè smantellando la Sinistra esistente, Renzi manda all’aria tutto, perché era su quella Sinistra che storicamente ormai tutto si reggeva. Inevitabilmente, cioè, egli smantella anche la Destra. Mostrando l’obsolescenza dell’una mostra l’inconsistenza pure dell’altra, che in Italia è stata sempre priva di una vita propria.




Accade così che per circostanze riguardanti in buona misura la vicenda italiana, e dunque indipendenti dalla sua volontà, Renzi abbia ben poche speranze di essere un ricostruttore. Per cercare di rimettere in moto la storia del Paese egli ha dovuto per forza sbarazzarsi del Pd: ma facendolo vede farsi il vuoto intorno a sé.

Oggi infatti, vuoi nel sistema dei partiti, vuoi sul tavolo delle proposte politiche, vuoi in lizza per eventuali leadership alternative, oltre il Pd di Renzi - cioè oltre Renzi - non c’è più nulla: solo una tabula rasa. Non a caso al presidente del Consiglio arride un consenso plebiscitario che non conosce confini di Destra e Sinistra, avendoli egli cancellati virtualmente tutti ed essendo rimasto di fatto l’unico in campo. Il suo successo si accompagna dunque alla solitudine. È la solitudine di un giovane vincitore, certo. Ma proprio in quella solitudine, bisogna dirlo, c’è qualcosa che inquieta: l’ombra di un rischio, il sentore di un eccesso.

25 ottobre 2014 | 07:59
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_25/vuoto-intorno-leader-0e5d1c3c-5c09-11e4-a063-152f34c0ded7.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La trappola del consenso Obama, il destino amaro di..
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 06:13:16 pm
La trappola del consenso
Obama, il destino amaro di un presidente

Di Ernesto Galli della Loggia

Quale deve essere in una democrazia il rapporto diciamo così di «dipendenza» tra un uomo politico e la maggioranza che lo ha eletto? Fino a che punto è giusto ed opportuno che questa lo condizioni e che egli se ne faccia condizionare? E ancora: l’obbligo per la politica della trasparenza e della legalità, può obbligatoriamente estendersi a tutti gli ambiti decisionali? Oggi, questi interrogativi, vecchi come la storia della democrazia, sono riproposti con forza dal destino politico sospeso sul capo del presidente degli Stati Uniti. Un destino non proprio smagliante visto che tutti gli osservatori sono d’accordo nel prevedere una forte avanzata dei repubblicani alle elezioni di mezzo termine che si terranno domani, e addirittura una probabile loro maggioranza al Congresso.

Contro un solo obiettivo importante centrato in politica interna (la riforma della Sanità) e un discreto successo nel rimettere in sesto l’economia del Paese, è soprattutto il bilancio della politica estera quello che appare più critico per Obama, quello sul quale gli elettori sembrano più intenzionati a sanzionare il presidente. E in effetti è difficile chiudere gli occhi di fronte a quanto è accaduto negli ultimi anni: il virtuale abbandono da parte degli Stati Uniti del loro ruolo di protagonisti assoluti della scena planetaria, la perdita di una parte notevole della loro capacità d’influenza e di leadership negli scenari regionali più critici, la difficoltà evidentissima da parte dell’amministrazione di costruire una qualunque visione complessiva, una strategia di medio-lungo termine, capace di rilanciare un rinnovato impegno globale di quella che ancora all’inizio del secolo sembrava l’unica, incontrastata, superpotenza.

Bene: è forse il caso di osservare, però, che questa ritirata, chiamiamola così, degli Usa dal mondo è stata compiuta da Obama in stretta obbedienza al mandato affidatogli dalla maggioranza dei suoi concittadini. Egli è stato eletto a suo tempo proprio con l’impegno di ridurre il coinvolgimento americano negli affari del pianeta (attribuito ad un errore di Bush): a cominciare dall’abbandono dell’Iraq, con tutte le conseguenze vicine e lontane (anche di immagine) che ha comportato. Era questo ciò che la maggioranza degli elettori voleva, ed è questo ciò che essa ha puntualmente avuto, anche se ora sembra essersi ricreduta. Il che dimostra, per tornare alla questione iniziale, che un uomo politico non deve essere agli ordini dei suoi elettori ed eseguirne pedissequamente i desiderata. Il mandato elettorale risulta efficace, davvero produttivo di scelte politiche sensate, solo se è un mandato libero, senza vincoli. Per almeno due ottime ragioni: innanzi tutto perché sui singoli problemi concreti la grande maggioranza degli elettori si orienta perlopiù in base a stati d’animo aleatori, frutto molto spesso di impressioni e di emozioni più che di convincimenti o di conoscenze accurate; e altrettanto spesso senza essere in grado di valutare realmente gli effetti derivanti dall’una o dall’altra scelta. La seconda ragione è che altrimenti non potrebbe esservi alcuno spazio vero per la politica e per chi l’esercita in modo proprio: cioè con la capacità di combinare creativamente (cioè autonomamente) i dati della realtà, di vedere ciò che gli altri non vedono, di assumersi il rischio anche di contrastare l’opinione della maggioranza prendendo decisioni impopolari. Cioè di fare tutte le cose che da sempre caratterizzano la personalità politica di valore.

Dunque Obama si è comportato da politico autentico quando, per esempio, smentendo la volontà di legalità e di trasparenza dei suoi elettori e le sue stesse promesse, non ha chiuso il carcere di Guantanámo. Ma ha sbagliato quando, invece, non se l’è sentita di smentire la spinta isolazionistica di quei medesimi elettori, rifiutandosi di capire che forse quella spinta non andava assecondata.

3 novembre 2014 | 08:07
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_03/obama-destino-amaro-un-presidente-d91e77cc-6320-11e4-bb4b-8f3ba36eaccf.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA I segni di un degrado civile Argini infranti di una..
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2014, 04:19:52 pm
I segni di un degrado civile
Argini infranti di una comunità

Di Ernesto Galli della Loggia

L’Italia innanzitutto cade a pezzi. Il Paese fisico, il suo territorio, è perennemente sotto una spada di Damocle dall’Alpi alla Sicilia. In qualunque parte della Penisola bastano in pratica 24 ore di pioggia intensa per allagare interi quartieri di città, far chiudere le scuole, far franare tutto ciò che può franare, per interrompere ogni genere di comunicazioni. E regolarmente dopo che da anni ed anni tutti i rischi erano a tutti ben noti; e sempre, o quasi, dopo che i fondi per i lavori necessari erano stati stanziati, e sempre, o quasi, perfino dopo l’esecuzione dei lavori stessi. Ma non c’è niente da fare. Piove, e regolarmente i muraglioni costruiti si sbriciolano, gli argini alzati non tengono, i sistemi fognari saltano, i ponti crollano: il nostro destino è l’esondazione.

L’Italia poi è di chi se la vuol prendere. Chiunque, su un autobus o un treno di pendolari, solo che lo voglia (e lo vogliono in tanti) può non pagare il biglietto, può lordare, rompere, imbrattare con lo spray, intasare i gabinetti, minacciare i passeggeri, aggredire il personale. Per strada può fare dei cassonetti dell’immondizia e di qualunque altro arredo urbano ciò che più gli garba. In ogni caso l’impunità è garantita. E tanto più se si tratta dell’Italia dove vive la parte più debole della popolazione, quella che non prende l’Alta Velocità, che la notte non può permettersi un taxi: se si tratta cioè dell’Italia del Sud e delle periferie. Qui, poi, abitare una casa popolare - come questo giornale ha fatto sapere a tutti - può voler dire spesso essere costretti a stare perennemente barricati perché c’è sempre un prepotente pronto a impadronirsi con la violenza di ciò che non è suo, a intimidire, a minacciare. E quasi sempre senza che a contrastare la violenza ci sia l’intervento risoluto di chi pure avrebbe il dovere di farlo.

L’Italia infine non è più un solo Paese. Sgretolando lo Stato centrale e accaparrandosi le sue funzioni, un demenziale indirizzo politico federalista, al quale hanno aderito tutti i partiti, ha di fatto liquidato l’eguaglianza dei cittadini proclamata dalla Costituzione. Oggi ogni italiano paga tasse diverse, viene curato in modo diverso, gode di servizi pubblici, di mezzi di trasporto, di quantità e qualità diversa, studia in edifici scolastici degni o fatiscenti, a seconda che abiti a Sondrio o a Trapani, che sia un italiano del Sud o del Nord. I modi e i contenuti reali del suo rapporto concreto con la sfera pubblica dipendono in misura pressoché esclusiva solo da dove si è trovato a nascere e a vivere. Mentre di fatto le cricche politiche locali fanno ciò che vogliono, usando a loro piacere le enormi risorse a disposizione: salvo l’intervento necessariamente casuale di questa o quella Procura.

Questo (e molte altre cose, eguali o peggiori) è il Paese reale.

Ed è a partire da esso che va ripensata la crisi italiana. Il cui carattere più intimo e vero non sta nell’economia, che in certo senso ne è solo l’involucro. Sta nel fatto che una parte sempre maggiore di italiani - in modo specialissimo quelli che abitano il Paese reale, per l’appunto - non riesce più a credere di far parte di una comunità retta da regole certe fatte rispettare da un’autorità vera. Non riesce più a credere, cioè, che esista uno Stato.

Le condizioni dell’economia sono certo un fatto grave e importante. Ma molto più grave e importante è che troppi italiani si stanno convincendo dell’immodificabilità di tali condizioni perché le vedono saldarsi ai mille segni di un degrado, di uno sfilacciamento più generali al cui centro c’è un dato nuovo e inquietante: la latitanza dello Stato. Troppi italiani si stanno facendo l’idea che ormai quindi non possono più contare che su se stessi (che nessuno più cercherà il modo di far trovare loro un lavoro, penserà a dar loro una pensione, ad assicurargli con la sicurezza quotidiana, la certezza delle leggi e la sovranità politica). Che nessuno controlla e dirige realmente più niente, che nessuno è davvero al timone del Paese con in mente una rotta, e avendo non solo la visione e la determinazione, ma soprattutto gli strumenti e l’autorità necessari a farsi seguire.

È la sensazione di questo vuoto ciò che oggi nell’Italia delle periferie urbane e della piccola gente, del Mezzogiorno mortificato e incarognito, dei tanti microimprenditori che stentano la vita, nell’Italia del Paese reale, più contribuisce ad esasperare ogni egoismo ma anche a incrinare ogni fiducia. E quindi ad aggravare ulteriormente la stessa crisi economica.

È facile attribuire anche quanto ora ho detto all’universale «crisi della politica» di cui si parla tanto. In realtà c’è qualcosa di più, e di specificamente italiano. Se oggi il Paese reale sente come sente, se avverte sopra di sé una latitanza della sfera pubblica, un vuoto di leggi, di controllo, di Stato, non è perché abbia le traveggole. Ma forse perché esso percepisce che, a partire dagli anni Ottanta, vi è stata in effetti una progressiva secessione dall’Italia delle classi dirigenti un tempo italiane, e di conseguenza il relativo abbandono da parte loro del presidio della statualità. Un virtuale svuotamento di questa.

Vi è stata in quelle élites, una progressiva perdita di identificazione emotiva e culturale, rispetto a quella che fino ad allora era stata la loro patria. Con la conseguente, inevitabile rinuncia a guidarla e a portarne la responsabilità. È stato come un pervasivo moto di abdicazione dal proprio ruolo, le cui cause almeno a me appaiono oscure (percezione di una crescente insicurezza del contesto internazionale? Avidità di guadagni delocalizzando tutto all’estero?), ma del quale restano comunque ben impressi alcuni segnali altamente simbolici: l’europeismo elevato al rango di ideologia ufficiale obbligatoria, la fuga della Fiat dalla Penisola nell’indifferenza generale, l’abbandono a se stesso del sistema dell’istruzione e della comunicazione radio-televisiva.




È questo lo stato di cose di fronte a cui si trova oggi Matteo Renzi: dal quale anche chi non l’ha votato si aspetta comunque fatti e parole nuovi. Ma mi domando se il presidente del Consiglio sappia vedere quel Paese reale che si è detto sopra e se lo sappia vedere nei termini indicati. Se sappia vedere lo sfascio dei suoi territori e delle sue città, capire la sua sensazione di abbandono, la sua percezione di vuoto istituzionale, la sua richiesta di controlli, di autorità, di guida. Dubito che basti dare 80 euro ad una parte di quel Paese per ricostituire l’idea che esista un governo, che esista qualcosa che assomigli a una classe dirigente. Se vuole davvero essere l’uomo della rottura rispetto al passato che ha promesso di essere, Renzi deve andare in mezzo a quel Paese reale, casomai mettendosi le calosce o fermandosi ad aspettare alla fermata di un autobus. Deve parlare ai suoi abitanti faccia a faccia, non da qualche studio televisivo. Magari immaginando anche i gesti concreti con i quali accompagnare le parole.

Egli ha dimostrato finora di sapere interloquire molto bene con l’Italia dei piani alti, e di sapersene accattivare le simpatie. È un’ottima cosa. Non abbiamo certo bisogno di populismi d’accatto che magari si prefiggano di «far piangere i ricchi». Ma un’autentica comunità politico-statale si ricostruisce sempre dal basso, e nell’Italia attuale c’è bisogno precisamente di questo: di ricostruire una tale comunità. Di ridarle un senso di sé e uno scopo che vadano oltre l’oggi, di ridarle il coraggio che sta scemando, di garantirle che ancora esistono una legge e un’autorità. Di dire a noi tutti: «Siamo qui, e anche a costo di sacrifici vogliamo restarci, e restare in piedi!». Di dire le parole - e compiere i gesti - che nei grandi momenti di crisi decidono del futuro di una nazione.
11 novembre 2014 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_11/argini-infranti-una-comunita-553b5256-6968-11e4-96be-d4ee9121ff4d.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una democrazia da rifondare Tante speranze (quasi)...
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2014, 05:31:05 pm
Una democrazia da rifondare
Tante speranze (quasi) tradite


Di Ernesto Galli della Loggia

Jobs act, legge di Stabilità, Italicum, illazioni sul Quirinale, e poi tutto il resto che ogni giorno ammannisce la politica italiana, fatta di progetti di legge discussi per anni, di sentenze del Tar, di pronunce del Csm, di dibattiti tra i partiti più o meno sempre eguali. Ma non è solo la politica italiana. È questa in genere la politica democratica: fatta di riti un po’ stucchevoli, di discussioni pompose che preludono di regola a compromessi al ribasso realizzati da figure perlopiù mediocri. E infatti finora è stata più o meno quasi sempre questa la politica anche negli altri Paesi d’Europa: in quell’Europa dove, non a caso, siede oggi alla testa dell’Unione un grigio politicante lussemburghese come Jean-Claude Juncker, abile a restare per decenni al potere tra servizi segreti ed evasori fiscali.

Ma almeno nel nostro continente, e qui da noi in modo particolare, tutto l’universo storico in cui questa politica delle democrazie - grigia e costosa, ma per molto tempo efficace - è stata iscritta, scricchiola. Il mito della continua crescita economica non è più che un mito; il lavoro sta cessando di avere un valore coesivo tra individui e strati sociali: aumenta sempre più il divario tra chi ha e chi non ha, così come la differenza tra i destini dei singoli o tra ciò che significa vivere in un luogo o in un altro, mentre la secolarizzazione aggredisce alla radice l’intero mondo valoriale e simbolico dei tradizionali rapporti tra gli individui (dalla parentela alla genitorialità). In tutta Europa, insomma, si profila una crisi profonda dai contorni ancora imprecisi ma di sicuro inquietanti. Improvvisamente la democrazia si è trovata davanti un ospite inatteso: la povertà in crescita. Mentre masse sempre più ampie appaiono ideologicamente allo sbando, mentre si afferma dovunque e ad ogni occasione un rabbioso sentimento di rivolta contro le élites .

L’Italia vede tutti questi fenomeni aggravati dalla congenita inconsistenza, non solo organizzativa, del nostro Stato - mangiato dal partitismo, dalle corporazioni, dall’ordinamento regionale e dalla malavita, spesso uniti in un unico intreccio - corroso dalla sostanziale latitanza della legge. La disintegrazione ormai fisica della Penisola a cui assistiamo in queste ore appare quasi il segno di una metafora e insieme di un presagio. Naturalmente di fronte a tutto ciò c’è chi pensa che ogni cosa finirà comunque per aggiustarsi (anche se non si sa come). Ma forse è più ragionevole chiedersi se l’Europa che abbiamo conosciuto non sia ormai entrata nella prospettiva di una vera e propria nuova fase storica, segnata tra l’altro dai terremoti che dal Medio Oriente all’Europa sud orientale, all’Africa subsahariana, stanno sconvolgendo tutti gli scenari nelle nostre vicinanze. Una nuova fase storica che per la democrazia ha il valore di una sfida.







Se non vorrà essere travolta, infatti, essa dovrà trovare la forza e la capacità di rinnovarsi profondamente. Di uscire dalla normale amministrazione, dalle pratiche e dalle procedure collaudate, da molte delle sue idee consuete; dovrà probabilmente mettere in discussione i preconcetti dei quali si è fin qui nutrita e sottrarsi alla deriva esasperatamente «discutidora» che l’insidia in permanenza; dovrà andare oltre l’orizzonte cautamente «mediano» che finora è stato perlopiù il suo. Sarà obbligata, in altre parole, a fare la cosa forse per lei più difficile: e cioè passare dalla «politica» al «politico». Vale a dire mettere da parte una prassi orientata alla «via di mezzo», al «c’è sempre qualcosa per tutti», e viceversa provare a pensare la realtà in modo inedito e radicale (che vada alla radice delle cose), organizzando in tal senso anche il meccanismo delle decisioni: senza vietarsi ad esempio di immaginare pure regole e istituti nuovi.

Alla fine, riscoprire il «politico» dovrebbe voler dire per la democrazia innanzi tutto questo: riscoprire e riformulare il concetto di sovranità, e con esso la necessità creativa imposta periodicamente dalla vicenda storica. La sfida che essa dovrà affrontare in futuro consisterà probabilmente nel restare se stessa, con i suoi principi costitutivi - il consenso, le libertà individuali e il «governo per il popolo» - ma avere il coraggio di osare, di uscire dalle forme del suo stesso passato, di trovarsi vesti nuove, un nuovo soffio ispiratore.

I leader democratici, quando sono veri leader, servono per l’appunto a una tale opera di rifondazione. E io credo che proprio in quest’ottica molti italiani, con maggiore o minore consapevolezza, hanno guardato a Matteo Renzi. L’impressione, però, è che il presidente del Consiglio non sia riuscito finora a compiere lo scatto necessario per andare nella direzione auspicata. Che egli, ad esempio, fatichi molto a mettersi al di sopra della baruffa quotidiana dei tweet, delle dichiarazioni, delle schermaglie; che neppure per un giorno riesca a sottrarsi all’attrazione fatale del triangolo romano delle Bermuda (Parlamento - Palazzo Chigi - largo del Nazareno) e al gorgo del chiacchiericcio politicistico che vi staziona. La sua eloquenza - scoppiettante quando si trattava di mettere nell’angolo gli avversari da «rottamare» - non si è mostrata finora capace di trovare i toni di drammatica verità e di serietà che sarebbero necessari a indicare davvero un nuovo cammino al Paese; e quindi di trasmettergli quella scossa anche emotiva senza la quale esso non potrà mai rimettersi in piedi. L’ispirazione che anima Renzi è volata finora troppo bassa, ha avuto una voce troppo tenue, per dare vita ad una visione del destino della nazione e della società italiana che preluda davvero alla loro rinascita entro una rinnovata forma democratica. Almeno finora è andata così. Intanto però il tempo passa. Pian piano le grandi speranze si consumano. E tra poco, inevitabilmente, esse si sentiranno tradite: per un uomo politico non c’è quasi nulla di peggio.

20 novembre 2014 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_20/tante-speranze-quasi-tradite-67d98026-707b-11e4-8a20-485d75d3144d.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Chi ostacola le riforme E ora Renzi faccia i nomi
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2014, 05:44:38 pm
Chi ostacola le riforme
E ora Renzi faccia i nomi

Di Ernesto Galli Della Loggia

È giunta l’ora, mi sembra, che Matteo Renzi compia un gesto che in Italia è sempre rivoluzionario: e cioè faccia nomi e cognomi. Solo una tale novità, infatti, può rappresentare quel salto di qualità nella comunicazione del premier con il Paese che la gravità della crisi e l’urgenza dei suoi possibili rimedi richiedono.

Non è più possibile e non ha più senso continuare a indicare gli avversari del governo e delle sempre annunciate riforme evocando genericamente «gufi e rosiconi». «Gufi e rosiconi» - ce lo consenta il presidente del Consiglio - insieme ai «selfie», al «cinque», ai «Twitter», agli hashtag , hanno fatto parte di un ambito comunicativo ormai oggettivamente superato: quello in cui egli si è impegnato a «farsi un’immagine» e costruire consenso intorno alla sua persona. Sono serviti a sottolinearne l’informalità, la giovinezza, la simpatia, la carica di rottura rispetto al passato. E l’hanno fatto egregiamente: il risultato si è visto sul piano elettorale così come si continua a vedere nei sondaggi. Sta bene; ora però serve un consenso diverso.

Ora a Renzi serve un consenso non più sulla sua persona (che già ha), ma sulla sua politica. Politica che, lo sappiamo, può essere solo quella delle tanto attese e sempre rimandate riforme. Per citare alla rinfusa le principali: l’ammontare esorbitante della spesa pubblica, i costi e gli eccessivi poteri delle Regioni, l’eccessivo prelievo fiscale sul lavoro nelle sue varie forme e le norme sui contratti di lavoro, l’ordinamento giudiziario, la chiusura corporativa degli ordini professionali, lo strapotere paralizzante dell’alta burocrazia, la scarsa efficienza di tutte le pubbliche amministrazioni con la farraginosità spesso assurda delle procedure. È un elenco da far tremare le vene ai polsi: per la complessità di ognuna delle materie indicate, ma soprattutto per la forza e la determinazione delle categorie, degli interessi, dei gruppi di pressione, che - è fin troppo facile prevederlo - sentendosi ogni volta minacciati dal minimo cambiamento saranno pronti, come hanno già fatto mille volte, a scendere sul sentiero di guerra contro il governo servendosi di tutti i mezzi.

È nell’aspra lotta contro questi avversari che si deciderà il futuro dell’Italia e, insieme, il destino del presidente del Consiglio: ed è dunque in vista di questa lotta che egli deve trovare d’ora in avanti il consenso senza il quale sarà sicuramente sconfitto. Ma un tale consenso - non superficiale, strutturato - egli riuscirà a trovarlo solo se cambierà il suo modo di comunicare con il Paese, solo se il suo rapporto con esso farà uno scatto in avanti decisivo. Non più fondato sulla «simpatia», su un gesto più o meno accattivante, su un sorriso o una battuta indovinata, bensì sulla capacità di creare nell’opinione pubblica un diffuso e ben radicato convincimento della necessità di fare le cose che vanno fatte. Proprio in vista di ciò d’ora in poi il presidente del Consiglio deve smettere d’intrattenere il Paese, deve parlargli: che è cosa diversa.

L’Italia, se vuole cambiare, ha bisogno innanzi tutto di verità e di serietà. Di entrambe Renzi deve farsi carico: con interventi non estemporanei e con un discorso alto, e magari drammatico, come il momento richiede e come i leader democratici degni del nome hanno l’obbligo di saper fare. Egli deve spiegare bene ai cittadini le riforme che intende varare, illustrandone con accuratezza i modi e i vantaggi sperati, ma non nascondendone anche gli eventuali prezzi da pagare. Promettendo peraltro che tali prezzi saranno equamente ripartiti e facendo vedere che mantiene le promesse. Deve anche indicare con chiarezza, però, chi sono coloro che si oppongono a quei provvedimenti, e per quale motivo.

Ripeto, facendo con coraggio i nomi e i cognomi: non già per darsi un’inutile aria da Rodomonte, ma perché in un momento difficile e nella prospettiva di pesanti sacrifici, in un momento in cui sono necessarie riforme radicali e spesso dolorose, le maggioranze parlamentari non bastano. È necessario che la volontà riformatrice dall’alto sia sostenuta dall’appoggio massiccio e convinto dell’opinione pubblica, in una battaglia in cui però risulti chiaro chi è l’avversario e quali i suoi interessi. È perciò che la posta e i giocatori devono essere ben evidenti: dal momento che proprio la pubblicità è la nemica mortale di tutte le lobby e di tutti i gruppi d’interesse particolari, abituati per loro natura ad agire per linee interne contro l’interesse generale. L’obiettivo di Renzi, invece, deve essere per l’appunto quello di far capire dove sia l’interesse generale spiegando e convincendo giorno per giorno e mobilitando intorno all’interesse generale l’opinione pubblica.

A questo unico fine egli d’ora in poi dovrebbe ispirare il suo rapporto con il Paese e modellare la propria immagine. Altrimenti prima o poi gli si aprirà davanti la stessa via percorsa da Berlusconi: che era tanto simpatico, tanto accattivante, vinceva le elezioni, ma alla fine non ha combinato nulla che meriti di essere ricordato.

15 settembre 2014 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_15/ora-renzi-faccia-nomi-5f3ae19c-3c98-11e4-95e1-a222c06f54b6.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Bindi, Fassina, Civati e Bersani sono contro Renzi
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2014, 03:32:24 pm
Bindi, Fassina, Civati e Bersani sono contro Renzi
La vocazione minoritaria di certo Pd
La propensione a dire sempre no è nella tradizione della sinistra italiana

Di Ernesto Galli della Loggia

I deputati pd che martedì sono usciti dall’Aula per non votare il Jobs act si candidano a essere i nuovi protagonisti di uno degli spettacoli più antichi del repertorio della sinistra italiana: il nullismo politico. Cioè la propensione a dire sempre no, a fare l’opposizione e basta. Bindi, Fassina, Civati, Bersani e compagni sono contro Renzi perché lo giudicano un pericoloso thatcheriano travestito, e sta bene. Dunque si sono schierati contro quasi tutto quello che ha fatto - contro il patto del Nazareno, contro gli 80 euro, contro la riforma del Senato, contro la revisione dell’articolo 18 -, e sta ancora bene. Ma avanzando quali proposte nuove e alternative? In nome di quale nuovo progetto? Che cosa farebbero, insomma, se fossero loro a governare? Nessuno lo sa: sospetto perché non lo sanno neppure loro.

Ma in questo modo quello della sinistra pd finisce per essere niente altro che l’esatto rovescio di ciò che essa rimprovera a Renzi: l’antipersonalismo come risposta al personalismo. Così come, sempre in questo modo la sinistra pd mostra una singolare mancanza di sintonia con lo spirito del Paese. Non sembra proprio, infatti, che oggi gli italiani sentano il bisogno di «discorsi», quanto piuttosto di soluzioni tangibili, di proposte e progetti concreti. Magari anche elementari e brutali, come quelli leghisti di Salvini (e però, guarda caso, di grande successo), certo meno che mai delle astratte scomuniche ideologiche di Gianni Cuperlo. Non hanno bisogno di sentirsi dire che il presidente del Consiglio è un chiacchierone che non combina nulla, bensì di sapere che cosa combinerebbe chi gli muove tali accuse.

Nella situazione drammatica in cui si trova, il Paese ha bisogno di una cosa più di ogni altra: di un’idea capace di unirlo e di portarlo in salvo. Pur con tutte le critiche possibili e sia pure molto a tentoni, la proposta renziana del «partito della nazione» interpreta questa necessità e si muove in questa direzione. Rappresenta qualcosa che alla Sinistra finora non è mai riuscito, ed è la ragione che fin qui le ha impedito di sedere da sola al governo. S’illudono infatti gli antirenziani del Pd se credono che l’Italia possa essere governata sulla base delle ragioni dei disoccupati, dei metalmeccanici e dei pensionati. Bisogna avere un progetto che contemperi le ragioni di molti, molti altri; e più che vellicare il passato di una parte occorre disegnare un futuro plausibile per tutti. Altrimenti si conferma solo la propria antica, maledetta vocazione al minoritarismo permanente.

27 novembre 2014 | 08:39
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_27/vocazione-minoritaria-certo-pd-36c2b962-7607-11e4-8593-6ac58034c3d7.shtml


Titolo: E. GALLI DELLA LOGGIA La nostra memoria corta, all’origine dell’antipolitica...
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 05:16:59 pm
La nostra memoria, assai corta
All’origine dell’antipolitica


Di Ernesto Galli della Loggia

Si levano anche nelle sedi più autorevoli del Paese le condanne dell’antipolitica: termine con cui bisogna intendere la critica aprioristica - e proprio per questo distruttiva, eversiva - oltre che del sistema politico in quanto tale, anche dell’intera vita pubblica, vista come interamente e irrimediabilmente inquinata.

Ho scritto aprioristica in corsivo perché evidentemente sta tutto lì il problema. Infatti, se la critica di cui sopra non appare affatto aprioristica ma ha una qualche giustificazione nei fatti, se essa è condivisa da più o meno larghe parti dell’opinione pubblica, allora è difficile in un regime democratico negarle il diritto di cittadinanza. Si potrà beninteso fare questione di toni, di stile, di capacità minore o maggiore da parte dei critici di proporre alternative credibili o accettabili, ma la sua natura eversiva, cioè antidemocratica, non sembra facilmente sostenibile. In una democrazia, infatti, non basta che i nostri avversari si comportino in modo volutamente oltraggioso e usino un linguaggio sommario e violento per farne dei candidati alla messa fuori legge. E d’altra parte non ci si può nascondere che è comunque difficile rispondere alla domanda chiave: in base a quale criterio, al di là di una soglia ovvia, si decide quando una critica è aprioristica e quando non lo è? Non si tratta in sostanza di un giudizio sempre politico, e dunque dipendente alla fine solo dalle nostre personali opinioni?

In realtà, se da vent’anni l’assetto politico italiano non trova pace, sentendosi periodicamente insidiato dall’antipolitica, dal populismo, dal giustizialismo - con i vari schieramenti politici che di volta in volta incarnano uno dei tre - una ragione di fondo c’è. Ed è che tutte e tre quelle patologie sono nel Dna stesso della Seconda Repubblica: costituiscono una sorta di suo peccato originale. Tra il 1992 e il 1994 - non bisogna mai dimenticarlo - la Seconda Repubblica è nata infatti fuori e contro la politica. Violando in molti modi l’insieme di regole e di prassi che fino allora la democrazia italiana aveva più o meno sempre rispettato, e al tempo stesso, però, non essendo capace di darsi regole davvero nuove. Proprio per questo essa è restata in certo senso prigioniera delle modalità della sua nascita: condannata a ripercorrerle periodicamente. Dunque a doversela vedere periodicamente con l’antipolitica, con il populismo, con il giustizialismo.

Ci sono fatti di quella lontana origine degli anni 90 di cui ci siamo dimenticati con troppa facilità. Ma che invece pesano come macigni, e ci ricordano da dove veniamo.

Era il 2 settembre 1992, per esempio, quando il deputato socialista Sergio Moroni, destinatario di due avvisi di garanzia nel quadro delle inchieste di Mani Pulite, si uccise nella sua casa di Brescia lasciando una lettera che oggi è difficile rileggere senza sentirne lo straordinario valore di premonizione. In essa Moroni, dopo aver rivendicato di non «aver mai personalmente approfittato di una lira», invocava «la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale», dolendosi di essere «accomunato nella definizione di ladro oggi così diffusa». Terminava denunciando «un clima da pogrom nei confronti della classe politica», clima caratterizzato da «un processo sommario e violento». Ma le sue parole caddero nel vuoto. Benché dirette alla Presidenza della Camera, allora tenuta da Giorgio Napolitano, non furono ritenute degne della benché minima discussione parlamentare.

Ancora un altro ricordo. Era il 5 marzo 1993, nel pieno di Tangentopoli, quando in risposta all’annuncio di un decreto del Guardasigilli del governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione (con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti, accadde un fatto probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione dei poteri. I magistrati del pool di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo legale del Paese. Decreto legge che a quel punto - caso anche questo fino ad allora unico nella storia della Repubblica - il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si rifiutò di firmare. E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire.

Mi chiedo: è possibile non riconoscere in questi episodi e in tanti altri che accaddero allora alcuni elementi caratterizzanti di quella che è stata poi la vicenda italiana? Non appare forse della medesima natura di quella che oggi siamo portati ad attribuire all’antipolitica - se non addirittura identica - la tendenza all’esasperazione verbale, alla generalizzazione indiscriminata nei confronti dell’avversario, alla sollecitazione spregiudicata delle reazioni più elementari dell’opinione pubblica? Non appare più o meno la medesima pure la timidezza imbarazzata, talvolta impaurita, del potere? E non suona forse sempre eguale anche il richiamo alla volontà della «gente» o del «popolo» che sia - che allora era quello «dei fax», poi è stato quello degli «indignati», e oggi è quello della «Rete»? Da queste parti, come si vede, anche il populismo ha una storia lunga e molto varia: allo stesso modo, peraltro, dei suoi fratelli gemelli, il giustizialismo e l’antipolitica.

La classe dirigente che si ritrova ad essere oggi alla testa della Seconda Repubblica non dovrebbe scordarselo. È proprio in quei terreni che oggi essa disdegna che affondano, infatti, le radici profonde della sua stessa legittimazione.

14 dicembre 2014 | 09:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_14/all-origine-dell-antipolitica-72f084ae-8369-11e4-a2cc-02f7f9acc66f.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA - Libertà religiosa e identità storica
Inserito da: Admin - Dicembre 26, 2014, 11:30:25 am
Libertà religiosa e identità storica
Natale, elogio di quello vero

Di Ernesto Galli della Loggia

Fino a quando le società europee oseranno ancora chiamare Natale il Natale, e non lo trasformeranno in qualcosa come « Season’s holiday » (Vacanza di stagione), sul modello ormai invalso nei politicamente correttissimi Stati Uniti, dove per l’appunto non si mandano più auguri di Buon Natale ma « Season’s greetings »?
Anche da noi, infatti, sta succedendo precisamente questo: sta ormai prevalendo - o ormai è già prevalsa - un’interpretazione nuova della libertà religiosa. Secondo la quale questa non consisterebbe più solo in una libertà - quella per l’appunto riconosciuta a chiunque di osservare la religione che preferisce, nei modi che preferisce, cercando altresì di divulgarla o di rinnegarla come preferisce - bensì, altrettanto essenzialmente, anche in un divieto. Essa comporterebbe cioè anche la proibizione per qualunque religione di trovare posto in qualsivoglia ambito pubblico, per paura che ciò possa offendere chi non fosse un suo seguace. Fede e culto, insomma, sono ammissibili ma solo a un patto: di restare un fatto privato. La società, lo spazio sociale, invece, devono restare nel modo più rigoroso liberi da ogni presenza o richiamo di tipo religioso. E proprio per questo - come è accaduto - un crocefisso in un’aula, o un presepe in una scuola, possono divenire oggetto di un esplicito divieto.

Tutto bene se non ci fosse un trascurabile particolare. E cioè che la religione - e poiché parliamo dell’Europa diciamo pure il Cristianesimo - ha occupato un posto enorme in quel decisivo ambito pubblico che fino a prova contraria è rappresentato dalla storia del continente. La storia: vale a dire tutto il vastissimo insieme dai profondissimi echi emotivi e psicologici, rappresentato dal folklore, dalle tradizioni, dalle feste, dalle abitudini quotidiane di ogni tipo di questa come di ogni altra parte del mondo. Vorrà pure dire qualcosa o no - tanto per fare un esempio - che almeno alcune decine di migliaia di località italiane e la maggior parte degli italiani portano il nome di un santo? E non vale, mi sembra, obiettare che ormai non sono in molti a dirsi esplicitamente cristiani. È vero. Ma con le sue mille propaggini l’universo storico-religioso resta ancora oggi un cruciale deposito d’identità collettiva profondamente introiettata, che si è trasfusa in una miriade d’identità individuali.

È per l’appunto in relazione a questo universo storico-identitario - di cui il fatto religioso costituisce un sostrato decisivo - che nelle società europee si sta delineando l’ennesima spaccatura tra masse ed élite. Tra una maggioranza della popolazione che, seppure in gran parte non condivida più lo sfondo trascendente di quell’universo, tuttavia ancora sente con esso un rapporto tenace, ancora lo percepisce come vitalmente proprio, e dall’altra parte la maggioranza delle élite. Le quali, viceversa, sono rispetto ad esso indifferenti quando non insofferenti. Si tratta di una frattura che riguarda tutto l’universo identitario nel suo complesso (e dunque anche i temi decisivi della nazione, della sovranità nazionale e insieme della lingua). Cioè il vasto insieme del passato che, aggredito oggi capillarmente dalla globalizzazione, vede i «felici pochi» benevolmente disposti a prenderne le distanze, a lasciarne andare via interi pezzi, mentre gli « have not » non ci stanno e fanno resistenza. Sicché in tal modo le élite - come da tempo si nota specialmente nei Paesi deboli come il nostro - divengono tendenzialmente «progressiste», spregiudicatamente «moderne», mentre le masse sempre di più tendono oggettivamente ad apparire «reazionarie». Quelle masse che però quando festeggiano il Natale chiamandolo ancora Natale, festeggiano in qualche modo, pure se non lo sanno, una storia che finora era di tutti.

24 dicembre 2014 | 08:55
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_24/natale-elogio-quello-vero-ec6be4f8-8b3a-11e4-9698-e98982c0cb34.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il rischio di naufragio L’audacia che manca ...
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2015, 04:55:34 pm
Il rischio di naufragio
L’audacia che manca all’Europa

Di Ernesto Galli della Loggia

È tale l’estraneità dell’Unione Europea a qualunque dimensione politico-statale che di quanto avviene ai suoi confini - per esempio di chi e come e quando li vìola - sembra che non gliene importi sostanzialmente nulla: nei fatti Bruxelles preferisce sempre girare lo sguardo dall’altra parte.

Si veda quanto è successo negli ultimissimi giorni lungo la frontiera marittima meridionale dell’Unione, quella più toccata dal problema dell’immigrazione clandestina. Problema per il quale l’Ue ha cercato anche di immaginare regole e controlli, di stabilire strategie di contenimento comuni, attribuendone la gestione almeno in teoria a un’apposita agenzia dell’Unione, Frontex.

Bene. Poi però c’è un Paese, la Grecia, nei cui porti, ormai è chiaro, le autorità chiudono gli occhi, non controllano nulla, e grazie a varie complicità fanno salire sulle navi in partenza quanti clandestini lo vogliano, allo scopo, è molto probabile, di liberarsene mandandoli da qualche altra parte. Proprio questo, infatti, è ciò che verosimilmente è successo al Norman Atlantic. Nelle cui stive si addensavano decine di passeggeri non registrati destinati alla misera fine che sappiamo, e alcuni dei quali non sono forse estranei alla causa dell’incendio all’origine del naufragio. Ancora: appena dopo due giorni, le stesse autorità greche hanno lasciato tranquillamente transitare davanti alle loro coste il cargo Blue Sky M, carico di un migliaio di clandestini. Tutto ciò nonostante le medesime autorità avessero ricevuto un Sos ma si fossero poi dette rassicurate da una sedicente ispezione a bordo che non aveva trovato nulla di anomalo. Sì, proprio nulla: tanto è vero che trascorse poche ore il cargo si dirigeva senza guida, con il timone e il motore bloccati, diritto filato a fracassarsi sulle coste pugliesi se non fosse intervenuta la Guardia costiera italiana. Così come solo il massiccio intervento della medesima Guardia costiera nonché della nostra Marina e della nostra Aviazione sono state necessarie per evitare che il disastro del Norman Atlantic assumesse dimensioni ancora maggiori.

La domanda che questo insieme di fatti suscita è fin troppo ovvia: è ammissibile che un Paese dell’Unione Europea si comporti così nei confronti di un altro? Con una simile disinvoltura che rasenta la menefregaggine? Scaricando sulle sue spalle gli scomodi problemi che si trova a dover affrontare? Ma d’altra parte proprio in questo campo l’Italia non ha certo le carte in regola per protestare. L’Italia per prima, infatti, spesso evita di registrare gli immigrati clandestini che arrivano sul suo territorio, e che a norma degli accordi europei dovrebbe trattenere presso di sé, ma cerca invece di favorirne il passaggio verso altri Paesi: i quali, figurando così come prima destinazione, sono tenuti loro all’obbligo a cui noi fraudolentemente ci sottraiamo.

Quando insomma si arriva al dunque degli interessi e/o degli egoismi nazionali - e li si può far valere senza pagare pegno - la realtà dell’Europa è questa. Non certo quella rappresentata dalla solidarietà, dal sentirsi realmente uniti, parte di una stessa comunità. Altrimenti, del resto, non si spiegherebbe come sia possibile, tanto per fare un esempio, che da anni un terzo della popolazione proprio della Grecia sia costretta a vivere in una condizione di vera e propria indigenza, priva in molti casi di assistenza sanitaria, con migliaia e migliaia di bambini sottonutriti, senza che l’opulenta Europa lussemburghese, renana o scandinava abbia mai pensato di muovere un dito per prestarle il minimo soccorso.

Sta qui il vero nodo della mancata crescita politica dell’Unione. In questo inesistente o debolissimo senso di appartenenza a cui è pressoché impossibile porre rimedio fintanto che resteranno in piedi le attuali regole che presiedono al funzionamento dell’Unione, in specie dei suoi organi di vertice, fondate sulla lottizzazione e sull’assenza di responsabilità politica collettiva. Questa è la questione realmente cruciale, quella che viene prima di ogni altra e da cui ogni altra dipende: la riforma in senso forte della governance della costruzione europea. Facendola designare direttamente dal Parlamento, attribuendole poteri di governo diretti ed esclusivi in un certo numero di materie, per esempio nell’immigrazione e in certi ambiti della fiscalità generale: magari con la garanzia del diritto di veto attribuito a certe condizioni ai governi nazionali.

Se vuole sopravvivere, se vuole cercare di diventare un vero corpo politico, cioè un’entità coesa, tenuta insieme da un legame autentico, e perciò capace di un’azione efficace, l’Europa ha una sola strada davanti: quella di una stagione costituente radicale, audace. In mancanza di ciò, su troppe cose che contano continueremo ad andare in ordine sparso, magari a raccontarci la favola che tanto a «fare l’Europa» ci pensa il programma Erasmus, aspettando che inevitabilmente qualcuno prima o poi però, con le buone o con le cattive, decida di uscire dall’Unione e di chiederne il fallimento.

3 gennaio 2015 | 08:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_03/audacia-che-manca-all-europa-11b40348-9311-11e4-8973-ae280e1dba84.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Islam, la vera questione L’undici settembre europeo
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2015, 04:55:44 pm
Islam, la vera questione
L’undici settembre europeo

Di Ernesto Galli della Loggia

Stabilire a quale gruppo della galassia del terrorismo islamista appartengano gli assassini che hanno compiuto la strage nella redazione di Charlie Hebdo, decifrare in quale strategia s’iscriva il loro delitto, sarà compito della polizia e degli analisti.
In questo momento nelle nostre orecchie risuona solo ciò che secondo testimonianze attendibili essi gridavano mentre compivano la loro missione di morte: «Allah è grande», «Abbiamo vendicato il profeta Maometto». Oggi per l’opinione pubblica del mondo civile conta solo che essi abbiano detto queste parole, che nell’uccidere abbiano fatto appello all’Islam. Per esorcizzare un simile dato inquietante e mille altri dello stesso tenore di questi anni, la parte più colta e politicamente corretta dell’opinione pubblica di cui sopra ha adottato da tempo, in Europa, il termine islamofobia. E pensando così di risolvere il problema. Invece il problema c’è. Esso resta come un macigno a dispetto di ogni buona volontà e di ogni discorso edificante. Ed è precisamente il problema dell’Islam.

Cioè di un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani, dove nel complesso (nel complesso, perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e - questo è il punto decisivo - perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le altre parti del mondo. Dove le donne non hanno gli stessi diritti e doveri degli uomini e per le prime può essere considerato un reato perfino guidare un’automobile; dove la distinzione sociale tra sfera religiosa e sfera civile è labile se non assente; dove aprire una chiesa cristiana è perlopiù vietato; dove i regimi politici hanno quasi sempre carattere dispotico e di rado riconoscono le libertà, a cominciare dalla libertà di stampa, che altrove sono invece considerate ovvie; dove - come hanno imparato con il loro sangue le vittime di ieri - la satira contro il potere è sconosciuta e quella contro la religione considerata inconcepibile.

Non basta: un insieme di religione, cultura e storia dove pressoché ognuna di queste cose è largamente suscettibile di essere percepita o interpretata come blasfemia, come una bestemmia contro l’Onnipotente da pagare con la morte.

Se l’Islam è questo, allora noi vogliamo avere la possibilità di criticarlo come ci pare e piace: come abbiamo imparato a criticare il Cristianesimo, il Buddismo e mille altre cose. Possibilmente avendo diritto a non rischiare con ciò la vita: diritto che tra l’altro ci piacerebbe vederci anche riconosciuto da più di qualche voce autorevole di quel mondo.

8 gennaio 2015 | 07:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_08/undici-settembre-europeo-7385d430-96fd-11e4-b51b-464ae47f8535.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Assassini il coraggio di dirlo
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 09:58:41 pm
Il commento
Assassini il coraggio di dirlo
Una scomoda denuncia dell’album di famiglia

Di Ernesto Galli della Loggia

All’Islam non servono ritrattazioni, dissociazioni, condanne. E diciamo la verità: chiedere ai suoi esponenti qualcuna di queste cose ha sempre un sapore sgradevolmente intimidatorio, specie se, come accade spesso, chi avanza simili richieste non sta a Bagdad o a al Cairo ma vive ben rimpannucciato in qualche metropoli europea o americana. Oggi all’Islam serve altro: serve una Rossana Rossanda islamica (e spero che in questo caso l’evocazione di una donna non scandalizzi nessuno).

Qualcuno ricorda? Era il lontano 28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro. Tutto lo schieramento politico «democratico e di sinistra», come allora si diceva (cioè dalla Dc al Pci), s’interrogava sull’accaduto. S i chiedeva quale misterioso progetto ideologico e quali reconditi burattinai stessero dietro le elucubrazioni delle Brigate rosse. In tutto questo, Rossana Rossanda - un’antica esponente comunista poi espulsa dal partito perché tra gli iniziatori dell’esperienza politica e giornalistica del Manifesto - ebbe il coraggio di dire ciò che era sotto gli occhi di tutti ma che fino ad allora nessuno a sinistra aveva osato quasi neppure pensare. E cioè che per capire il linguaggio e l’ideologia delle Br non c’era da andare molto lontano: l’una e l’altra erano infatti quelli del comunismo degli Anni 50, ben scolpiti nella memoria di tutti. Le Br, insomma, non venivano dal nulla, non erano delle schegge impazzite chissà come di chissà che cosa. Erano all’opposto, una pagina dell’«album di famiglia» della Sinistra italiana: una pagina obsoleta quanto si vuole, fuori tempo, ferma ad analisi ormai superate, insostenibili quanto si vuole, ma che un tempo erano state condivise da moltissimi perché facevano parte di un patrimonio comune a moltissimi. Anche se questi ora preferivano dimenticarlo. L’articolo della Rossanda s’intitolava appunto «L’album di famiglia». E naturalmente fece non poco scandalo.

Oggi l’Islam ha forse bisogno di uno scandalo analogo. Di qualcuno nelle sue file che abbia la lucidità intellettuale e il coraggio di dire che se nel mondo si aggirano degli assassini - non uno, non dieci, ma migliaia e migliaia di assassini feroci - i quali sgozzano, violentano donne, brutalizzano bambini, predicano la guerra santa, e fanno questo sempre invocando Allah e il suo Profeta, sempre annunciando di compiere le loro gesta in nome e per la maggior gloria dell’Islam, ebbene se ciò accade non può essere una pura casualità. Non può essere attribuito a una sorta di follia collettiva. Il mondo non è pazzo: qualche ragione deve esserci. Deve esserci qualche legame - distorto, frainteso grossolanamente, erroneamente interpretato quanto si vuole - ma un legame effettivo con qualcosa che riguarda l’Islam reale.

Che cosa? Non mi azzardo a dirlo. Non solo per paura delle conseguenze (esiste anche questa: e come potrebbe non esserci?), ma soprattutto perché chi scrive, così come del resto molti altri occidentali, siamo consapevoli di avere a che fare con un mondo che non è il nostro e che alla fine conosciamo ben poco. E che in questo mondo, perciò, ogni nostra affermazione, ogni nostra inevitabile semplificazione può offendere sensibilità, creare equivoci, suscitare sdegni pure legittimi.
Ma soprattutto perché un discorso sull’«album di famiglia», come si capisce, non può che venire dall’interno della famiglia stessa. In questo caso dall’interno dell’Islam, dalla sua intelligenza del momento storico e dei pericoli che si stanno addensando per tutti. Solo così conta qualcosa e può produrre qualche effetto.

11 gennaio 2015 | 09:21
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_11/assassini-coraggio-dirlo-ed76d41a-9969-11e4-a615-cfddfb410c4c.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il Quirinale La nebbia sull’irto colle
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:46:40 am
Il Quirinale
La nebbia sull’irto colle
Quello che avrebbe dovuto essere un disincarnato custode-garante della Legge si è trasformato sempre più spesso in padrone virtuale dell’intero meccanismo politico

Di Ernesto Galli della Loggia

In nessun capitolo come in quello riguardante il capo dello Stato, la Costituzione materiale della Repubblica, cioè quella che vige di fatto, lungi dal forzarla o tradirla ha viceversa portato alle estreme conseguenze la Costituzione scritta.
Come si sa, la versione ufficiale è invece opposta. Si dice abitualmente, infatti, che proprio per ciò che riguarda il presidente della Repubblica vi è stato, sì, tra la lettera e la realtà uno scostamento significativo, per cui quello che avrebbe dovuto essere un disincarnato custode-garante della Legge si è trasformato sempre più spesso in padrone virtuale dell’intero meccanismo politico.

Ma ciò sarebbe avvenuto - si sostiene - per effetto di contingenze particolari: prima fra tutte il vuoto politico che ha dovuto necessariamente essere riempito da chi in qualche modo poteva farlo. E con l’aiuto dei poteri provvidenzialmente «a fisarmonica» (la definizione come si sa è di Giuliano Amato) attribuitigli dalla Carta: cioè di poteri estensibili o restringibili in modo da adattarsi alle circostanze. Peccato - aggiungo io - che la misura dell’adattamento, non potendo ovviamente essere decisa dalle circostanze stesse, venga rimessa in pratica alla libera (e inoppugnabile) interpretazione che di esse dà il presidente: vale a dire a una sua decisione arbitraria. Quale fu ad esempio quella del presidente Napolitano nell’autunno 2011 di non sciogliere le Camere dopo la caduta del governo Berlusconi, bensì di affidare il governo a Mario Monti. In realtà, disporre legittimamente di un potere d’intervento politico esercitabile a piacere come quello ora accennato, significa disporre di un potere con ogni evidenza rilevantissimo. Tali sono, peraltro, tutti i poteri del presidente, anche quelli diciamo così di routine: tutti con una forte valenza politica e rimessi alla sua esclusiva volontà. Da quelli più formali a quelli più informali: dalla nomina dei giudici della Corte costituzionale alla decisione di approvare, respingere o «consigliare», come è capitato spesso, la nomina di un ministro o la presentazione di un disegno di legge.

Ne segue che il carattere oggettivamente e spiccatamente politico del ruolo del presidente della Repubblica più che essere frutto di circostanze «particolari», è in realtà iscritto a chiare lettere nel testo stesso della Costituzione. I cui autori pensavano di scrivere la Costituzione di una democrazia parlamentare, ma in corso d’opera hanno disegnato nei fatti un capo dello Stato che per molti aspetti assomiglia più che altro al Sovrano dello Statuto Albertino. Certo, questa o quella circostanza ha potuto contribuire in modo particolare a enfatizzare e «politicizzare» il ruolo in questione (come del resto accadeva anche sotto la monarchia). Ma soprattutto, io direi, hanno contato il temperamento e la biografia di chi è stato chiamato a interpretarlo: dal modo notaril-notabilare, distaccato, di un Einaudi, un Leone, un Ciampi, siamo passati a quello intimamente politico e interventista di un Gronchi, un Pertini, un Napolitano.


Quanto detto finora sottolinea il carattere assolutamente incongruo del modo della nomina del Presidente: cioè il voto segreto. Il quale infatti, e come è del resto la regola nel parlamentarismo, lungi dal garantire la vittoria del «migliore» in quanto frutto della libertà di coscienza dei parlamentari, favorisce viceversa solo il carattere quasi sempre opaco, «contrattato» e talora volutamente «inquinante», del meccanismo di formazione della maggioranza. Non a caso l’elezione del capo dello Stato è da sempre il grande appuntamento della stagione per i «franchi tiratori». Da questo punto di vista è alquanto singolare che nella nostra Costituzione il voto palese, prescritto per il voto sulla fiducia al governo per ragioni di chiarezza e di moralità politica, non lo sia per la designazione del presidente della Repubblica.

Il risultato è in questi giorni sotto gli occhi di tutti: la persona destinata a ricoprire la carica politica divenuta la più importante del nostro sistema viene scelta nell’ombra, al di fuori di qualunque orientamento non dico dei cittadini elettori ma dell’opinione pubblica largamente intesa. Intorno alla sua elezione si annodano così trattative segrete, conversazioni riservate, giochi, inganni, depistaggi: insomma tutto il repertorio del machiavellismo da poveracci della peggiore tradizione nazionale. Che almeno, però, serve a mostrare come stanno effettivamente le cose al di là della solfa edificante sul «garante», l’«arbitro», il « super partes », e altrettali definizioni. E cioè che partiti ed esponenti politici sono così consapevoli della realtà della posta in gioco - e cioè mettere il proprio cappello sul vertice del potere, ovvero impedire che lo metta l’avversario - che brigano in ogni modo per essere nel novero degli elettori, per non restarne esclusi, cercando possibilmente di escludere i rivali.

21 gennaio 2015 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_21/nebbia-sull-irto-colle-3a57ca74-a13e-11e4-8f86-063e3fa7313b.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’Islam non ci chieda di limitare la libertà
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2015, 04:58:08 pm
Equivoci
L’Islam non ci chieda di limitare la libertà
Non bisogna credere che il radicalismo musulmano sia mosso da ragioni religiose. Qual era per esempio la terribile blasfemia commessa dalla poliziotta uccisa a Montrouge?
Di Ernesto Galli della Loggia

Le parole ormai famose di papa Bergoglio a commento della strage di Parigi («se tu offendi la mia mamma, un pugno te lo devi aspettare») hanno segnato l’inizio di una significativa inversione di tendenza — o almeno di un dubbio — nel giudizio su quei fatti da parte dell’opinione pubblica occidentale. Che si può esprimere con queste parole: «La libertà va difesa, naturalmente, ma offendere le religioni, e poi con quella volgare crudezza propria di Charlie Hebdo, è sbagliato. È sbagliato non tener conto della particolare sensibilità che hanno in proposito i fedeli musulmani». Sono parole ispirate a una saggia prudenza in teoria condivisibile, che possono però avvalorare due gravi errori di giudizio.

Il primo è quello di far credere che il radicalismo islamico abbia nella sostanza un carattere di reazione, di risposta a presunte azioni dell’Occidente. Che è precisamente ciò che esso vuol far credere per ovvi motivi di popolarità, ma che è falso. E che sia falso lo dimostrano proprio i recenti sanguinosi fatti di Parigi: di quali offese religiose si era mai macchiata, infatti, la poliziotta spietatamente freddata a Montrouge poche ore dopo la mattanza nella redazione di Charlie Hebdo? E qual era la terribile blasfemia commessa dai 4 clienti del supermercato kosher altrettanto spietatamente fatti fuori? Forse quella davvero imperdonabile di essere ebrei, come tante altre vittime uccise di recente in Francia e in Belgio? Ancora: quali insulti a quale mamma avevano lanciato i tremila morti degli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle? Riesce difficile rispondere. Così come riesce alquanto difficile indicare le ipotetiche colpe commesse dalle centinaia e centinaia di cristiani massacrati da anni, dal Pakistan alla Nigeria, per mano del fanatismo islamico. Se non una sola colpa, certo gravissima: essere cristiani, per l’appunto.

Il secondo errore che l’improvvisata affermazione papale può ingenerare è questo: che se pure viene accettato il principio della difesa della sensibilità religiosa, tracciare in materia un confine giuridico oggettivo resta quanto mai difficile, anzi impossibile. Non è male ricordare a questo proposito che la vignetta che da anni costa al suo autore danese una vita infernale, rinchiuso in una sorta di casa-bunker, protetto da decine di gendarmi contro la furia omicida del fanatismo islamico, non aveva nessuno dei caratteri volgari e sessualmente spinti di Charlie Hebdo. Ritraeva Maometto con un turbante che avvolgeva una bomba. Ma tanto è bastato. Il romanzo di Salman Rushdie Versetti satanici contiene una rivisitazione in chiave onirica di una presunta ispirazione diabolica di Maometto. Di nuovo: tanto è bastato per far guadagnare al suo autore una condanna a morte dall’imam Khomeini, al traduttore giapponese del libro la morte effettiva, e infine il ferimento a quello italiano e all’editore norvegese dell’opera. Un altro esempio: il regista olandese Theo van Gogh è stato ucciso solo per aver girato un documentario sull’oppressione delle donne nel mondo islamico, mentre la deputata olandese musulmana, collaboratrice del regista, ha dovuto rifugiarsi negli Usa e da allora vive sotto protezione.

La domanda allora è: visto che da quanto appena detto sembra proprio che la soglia di sensibilità religiosa diffusa nell’Islam sia estremamente bassa, davvero dovremmo farla nostra, adottandola nella nostra legislazione? Va da sé però che in questo caso dovremmo adottarla come norma generale applicabile a tutte le fedi religiose. Ma allora, di conseguenza, domani per esempio dovrebbe essere vietato disegnare il Papa nelle vesti di un crociato, oppure criticare i risultati del Sinodo sulla famiglia per non offendere la sensibilità dei cattolici, così come bisognerebbe vietare il commercio delle opere di Nietzsche in cui si attacca ferocemente il Cristianesimo, e così via immaginando. Che facciamo se no? Decidiamo noi quale sia la soglia politicamente corretta della sensibilità religiosa, solo oltre la quale scatta la sanzione penale? E in base a quale criterio? E con quale certezza di risultati?

In realtà l’intolleranza fanatica così diffusa nell’universo islamico — madre diretta della sua vasta propensione alla violenza — rimanda direttamente a un fattore che tuttora ci ostiniamo a non considerare: e cioè la scarsa conoscenza che in esso si ha del mondo moderno, causata a sua volta da una scarsa diffusione dell’istruzione. Per cui in pratica l’unico strumento di acculturazione per masse larghissime della popolazione finisce per essere l’insegnamento religioso.

Secondo l’Unesco, infatti, nel 2009 circa il 40 per cento degli arabi sopra in 15 anni, specie le donne, era analfabeta (il 50 per cento addirittura, secondo le stime di un docente dell’Università di Rabat su Le Monde nel luglio 2012). E da allora la situazione non sembra essere molto migliorata. Non solo, ma come ha dichiarato il direttore delle Iniziative culturali dell’Istituto del Mondo arabo con sede a Parigi, Mohamed Métalsi, «per i più piccoli l’educazione è fortemente impregnata di religione, mentre per i più grandi l’insegnamento della filosofia si attiene solo ai testi musulmani. Della filosofia greca o dei Lumi neppure a parlarne». Con tali premesse non stupisce il risultato di un rapporto redatto nel 2002 sotto l’egida della Nazioni Unite: e cioè che nell’insieme dei Paesi arabi (circa 400 milioni di abitanti) si pubblicavano meno libri che nella sola Spagna; mentre secondo un rapporto analogo del 2003, in mille anni (mille anni!) il mondo arabo nel suo complesso avrebbe tradotto all’incirca 10 mila titoli: ancora una volta l’equivalente di quelli che sempre la sola Spagna traduce in solo anno. Per giunta «le grandi opere della cultura occidentale — è sempre Métalsi a parlare — sono tradotte in un numero limitatissimo, e le traduzioni sono spesso mediocri».

Forse da qui, da questi dati dovremmo cominciare a ragionare quando parliamo — così spesso a vanvera — di terrorismo, multiculturalismo e integrazione. Forse a partire da questi dati dovremmo impegnare un confronto serrato, amichevole ma fuori dai denti, con i Paesi arabi.

28 gennaio 2015 | 09:27
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_gennaio_28/islam-non-ci-chieda-limitare-liberta-58aeee1e-a6c3-11e4-93fc-9b9679dd4aa0.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il professore francese che vuole insegnare la storia
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2015, 10:01:03 am
Il corsivo del giorno

Il professore francese che vuole insegnare la storia del fascismo senza conoscerla

Di Ernesto Galli della Loggia

Qualunque storico italiano, di qualunque orientamento, si vergognerebbe di scrivere sul fascismo le pagine che invece si leggono in Controllare e distruggere (parole aggiunte nel titolo dall’editore Einaudi per rendere più succulento il prodotto) Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa 1918 -1945, di Johann Chapoutot. Uno studioso di valore del nazismo, che però mostra di sapere poco o nulla di storia italiana. Non sa ad esempio che nel 1919 la legge elettorale proporzionale non fu «reintrodotta» per la semplice ragione che prima di quella data non c’era mai stata; non sa che nel ‘22 Facta non succedette a Giolitti nella carica di presidente del Consiglio bensì a Bonomi; che all’Aventino non parteciparono solo i deputati socialisti, come egli suggerisce, ma i deputati di tutte le opposizioni; e che è davvero molto azzardato affermare che il colpo di Stato fascista dell’ottobre ‘22 fosse «minuziosamente preparato» o «ispirato a quello dei bolscevichi». Così come del resto non risulta da nessuna parte che nel 1922, dopo essersi insediato al governo, Mussolini abbia «trasformato alcuni ras locali del Partito nazionale fascista in prefetti volanti che controllano e supervisionano l’azione amministrativa dello Stato»; e neppure che Badoglio nel settembre 1943 abbia mai «trattato un’alleanza con gli Alleati».

Insomma errori e superficialità (anche nella traduzione: vedi la «guardia regia» che diventa «Guardia reale») che punteggiano una narrazione che è solo un ammasso di stereotipi storiografici fuori corso. Dove non v’è traccia, per esempio, della rovinosa frattura prodotta nel sistema politico dall’intervento in guerra; dove per esempio sono taciute le gesta irresponsabili del massimalismo socialista; dove i fascisti sono solo dei violenti prezzolati da industriali e agrari in quanto «diga anticomunista». Concludendo: assolutamente da non leggere.

4 febbraio 2015 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_04/professore-francese-che-vuole-insegnare-storia-fascismo-senza-conoscerla-d62117fa-ac40-11e4-88df-4d6b5785fffa.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Tutto ciò che manca alla destra
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:36:54 pm
Tutto ciò che manca alla destra
Di Ernesto Galli della Loggia

Tutto lascia credere che l’elezione del presidente della Repubblica, avendo mandato all’aria il cosiddetto patto del Nazareno, abbia posto fine a quella strategia dei «due forni» sulla quale il governo Renzi ha fin qui potuto contare: cioè l’uso di maggioranze parlamentari di volta in volta diverse, includenti oppure no Forza Italia, a seconda dei provvedimenti da votare. Il che, tuttavia, non ha certo cancellato quello che è forse l’elemento chiave che nel nostro sistema politico nato nel 1994 assicura fisiologicamente, come un fatto abituale, un grosso vantaggio competitivo alla Sinistra rispetto alla Destra. Beninteso, ve ne sono parecchi, di questi elementi fisiologici di preminenza: il fatto, tanto per cominciare, che la Sinistra ha dietro di sé settori della società civile più compatti e in certo senso più strategici (ad esempio i media e la cultura); che può contare in linea di massima su una maggiore motivazione, e quindi fedeltà, del proprio elettorato; che essa ha maggiore familiarità e conoscenze con personalità e circuiti politici internazionali.

Ce n’è uno però, come dicevo, più importante degli altri. Questo: la Sinistra, quando è al governo, sa e può fare, pur se entro certi limiti e per intenderci alla buona, politiche sia di sinistra che di destra, dal momento che sa che anche in questo ultimo caso conserverà comunque i propri voti, e in più attirerà quasi certamente voti dal campo avversario. La Destra invece no: essa sa e può fare (quando pure ci riesce) solo politiche di destra; e dunque al massimo può conservare il bacino elettorale suo proprio non potendo tuttavia sperare di ampliarlo di molto. Nella Seconda Repubblica ha funzionato così. Specialmente, come dicevo sopra, per effetto del diverso grado di fedeltà e di senso di appartenenza - o se si preferisce di «laicità» - che esiste in Italia tra il «popolo» di sinistra e quello di destra. Anche se è vero che in compenso la Destra gode del vantaggio di partenza di rappresentare socialmente la maggioranza del Paese. Sta di fatto che nel gioco politico iniziatosi nel ’94 mentre la prima riesce a disporre di due strade la seconda è sembrata sempre capace di percorrerne una sola.

Di tutto ciò, come ha mostrato ieri su queste colonne Michele Salvati, l’azione finora svolta da Matteo Renzi è il massimo esempio - ma non il solo: negli enti locali i casi sono moltissimi - di quanto sto dicendo. Pur con vari mal di pancia perché di certo in contrasto con molte sue premesse, la Sinistra renziana, infatti, può fare liberalizzazioni, riformare la Costituzione, cancellare privilegi nel mercato del lavoro, prendere di petto i sindacati, invocare inchieste e castighi sui vigili fannulloni di Roma, dare un’immagine di sé insomma (non importa che poi la realtà sia talvolta un’altra) diversa da quella sua tradizionale, e così facendo ricevere un gran numero di consensi pure dal centro e dalla destra. Che cosa è stata capace di fare invece di analogo in senso opposto nei suoi anni d’oro la Destra?

Certo, ha pesato molto la leadership berlusconiana, i cui limiti sono divenuti presto evidenti. Specialmente la sua scarsa determinazione e la sua inettitudine a tenere insieme la maggioranza e a guidarne l’azione di governo. Che infatti è apparsa fin da subito priva di un riconoscibile orientamento generale, di un qualunque disegno, sfilacciata in mille provvedimenti dettati dall’emergenza o da puri interessi particolari. La conclusione è stata che nei loro lunghi anni di governo, Berlusconi e i tanti che erano con lui non sono riusciti a trasmettere al Paese l’idea di che cosa potesse voler realmente dire un programma politico di destra, quali principi - se mai c’erano - essa mirasse a realizzare. Tanto meno - figuriamoci! - Berlusconi e i suoi (anche quelli che poi lo hanno abbandonato) sembrano aver mai pensato di spingersi su una strada programmatica che potesse apparire «di sinistra».

Questo è forse il principale problema che il tramonto dell’ex premier lascia in eredità alla sua parte. Se la Destra vuole tornare ad essere elettoralmente competitiva deve prefiggersi una linea che sia riconoscibilmente alternativa a quella della Sinistra, naturalmente, ma che al tempo stesso sappia interpretare anche alcune esigenze di fondo dell’elettorato di quest’ultima. Ciò sarà possibile, io credo, ma solo a una condizione.

Una condizione che si spiega con la storia particolare del nostro Paese e delle sue culture politiche. Tra le quali quella liberal-democratica nei fatti si è sempre mostrata fragile, poco radicata e soprattutto incapace di sorreggere vaste ambizioni. Altrove sarà diverso, è certamente diverso, ma in Italia - come del resto in molti altri Paesi dell’Europa continentale - una sostanziale contaminazione della Destra moderata con punti programmatici diversi dai propri, i quali guardino verso sinistra, è possibile solo se la Destra riesce a integrare dentro di sé, stabilmente - non già in modo estrinseco sotto forma di fragili accordi di vertice che lasciano il tempo che trovano - la cultura del cattolicesimo politico.

Berlusconi ha pensato che fosse sufficiente un’alleanza con le gerarchie ecclesiastiche all’insegna di una strumentale condivisione di «valori irrinunciabili» (a lui e al suo ambiente peraltro del tutto estranei). Ma evidentemente non di questo si tratta. Bensì di fare i conti con quel lascito di idee e di propositi che vengono da una lunga storia e che hanno alimentato un’esperienza che è stata decisiva per la vicenda della democrazia italiana.

Altrimenti, per una Destra che oggi miri a contrastare l’egemonia renziana l’alternativa è una sola: quella di puntare spregiudicatamente su un massiccio smottamento ideologico-emotivo delle masse (popolari e non) verso particolarismi anarcoidi, verso forme di xenofobia e di antieuropeismo radicali. È la via attuale della Lega: una via tenebrosa e senza ritorno.

10 febbraio 2015 | 08:21
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_10/tutto-cio-che-manca-destra-87632958-b0e8-11e4-9c01-b887ba5f55e9.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La prova che attende il Presidente
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:47:45 pm
Quirinale
La prova che attende il Presidente

Di Ernesto Galli della Loggia

Designando Sergio Mattarella, l’assemblea dei grandi elettori del presidente della Repubblica ha scelto senz’altro una persona degna e irreprensibile. Non si può dire però di pari notorietà. Credo che fino a sabato scorso, infatti, ben pochi italiani avessero idea di chi fosse il futuro capo dello Stato, sapessero qualcosa di lui, ne conoscessero perfino l’aspetto. È questo, del resto, l’ovvio risultato dell’aver scelto un candidato del quale al momento dell’elezione - come ci hanno informato i giornali - non si conosceva alcuna manifestazione o dichiarazione pubblica successiva al 2008 (quindi ben prima di venir eletto alla Consulta), salvo una sua breve intervista a un gruppo di giovani dell’Azione Cattolica.

Alla lunga lista delle sue singolarità l’Italia ne ha aggiunta così un’altra: quella di avere un capo dello Stato che, pur avendo a norma della Costituzione il compito di «rappresentare l’unità nazionale», risulta però affatto sconosciuto alla stragrande maggioranza dei cittadini per non dire alla loro quasi totalità. Così come del resto anche la sua prima e più vera affiliazione politica - quella al cattolicesimo democratico rappresentato da Aldo Moro (un leader politico assassinato circa quarant’anni fa) - temo che non riesca a significare più molto per chiunque non faccia parte di un ristretto gruppo di seguaci o di addetti ai lavori.

Lo dico con il più grande rispetto, non di maniera, per la persona e per le istituzioni repubblicane, ma è così: la presidenza Mattarella reca il segno, ancor più di tutte le altre che l’hanno preceduta, di un frutto esclusivo del sistema politico-partitico. D i mediazioni, stratagemmi tattici, inclusioni ed esclusioni, tutte interne ad esso. In questo senso essa reca il segno inevitabile della massima separatezza tra quel sistema e il Paese, tra la sfera della politica e la gente comune.

Non si tratta di invocare in alternativa rovinosi plebiscitarismi. Non è questo il punto. Si tratta di convincersi che in un regime democratico, perché vi sia un minimo di auto riconoscimento dei cittadini nelle istituzioni è auspicabile - io aggiungerei necessario - che le istituzioni stesse siano rappresentate da persone in qualche modo note, con il cui volto, con le cui idee, vi sia da parte degli stessi cittadini un minimo di familiarità. E del resto non ebbe in mente precisamente un’idea del genere lo stesso attuale presidente della Repubblica quando oltre vent’anni fa propose, proprio lui, una legge elettorale (il ben noto Mattarellum), largamente basata sul collegio uninominale maggioritario, cioè su un rapporto immediato e diretto tra eletto ed elettori?

Sono convinto che proprio per l’abito di sobrietà che è del suo temperamento, il presidente Mattarella avrà letto con un certo ironico distacco la valanga di dichiarazioni e di articoli di giornali gonfi di adulazione e di retorica che si è rovesciata sulla Penisola e sulla sua scrivania in questi giorni. Valanga che però non sarà certo servita a nascondere alla sua intelligenza il carattere di separatezza, di forte lontananza dalla pubblica opinione, sotto la cui insegna è nata la sua elezione. E di conseguenza la necessità di porvi rimedio utilizzando la grande quantità di risorse simboliche di cui il suo incarico dispone. Cominciando con il parlare superando il suo naturale ma forse eccessivo amore per le poche parole e rivolgendosi agli italiani nel modo in cui chi li rappresenta deve oggi fare: con semplicità, trovando reale novità d’accenti, animando il loro senso di appartenenza alla comunità nazionale, suscitando le loro speranze.

6 febbraio 2015 | 07:54
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_06/prova-che-attende-presidente-e472096a-adc9-11e4-92f5-d80ea89fe184.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La guerra rimossa Cattiva coscienza europea
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2015, 07:46:40 am
La guerra rimossa
Cattiva coscienza europea

Di Ernesto Galli della Loggia

Mentre scriveva nel suo editoriale per il Corriere di ieri che «gli europei sembrano ormai incapaci di pensare seriamente alla sicurezza», Angelo Panebianco non poteva immaginare quanta ragione gli avrebbero dato dopo solo poche ore le notizie giunte da Copenaghen sull’ultima impresa del terrorismo jihadista. E sempre sperando che non facciano lo stesso le notizie provenienti in futuro dall’Ucraina. Alla sua analisi manca tuttavia una premessa importante: gli europei sono incapaci di pensare alla loro sicurezza innanzi tutto perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra. Di pensare concettualmente la guerra. Di convincersi cioè che quando in una situazione di crisi una delle due parti appare decisa per segni indubitabili a usare la violenza, c’è un solo modo di fermarla: minacciare di usare una violenza contraria. E quando è inevitabile, usarla.

Da settant’anni questa elementare verità all’Europa di Bruxelles ripugna. Non a caso tutto il suo establishment politico-culturale ha appena potuto permettersi di ricordare il centesimo anniversario della Grande guerra solo a patto di farne propria l’antica qualifica papale di «inutile strage». Inutile dunque l’indipendenza della Polonia, dell’Ungheria o dei Paesi baltici che scaturì da quel conflitto. E perché? In che senso, da quale punto di vista? Inutile pure il risveglio politico di tutto il mondo islamico in seguito al crollo dell’impero ottomano: ma chi può dirlo? Così come inutile, naturalmente, nel suo piccolo, anche il ritorno all’Italia di Trento e Trieste, non si capisce in base a quale criterio. I n base al criterio, si risponde, che tutto questo è costato un enorme numero di morti. È vero. Ma un enorme numero di morti, per fare solo qualche esempio, sono costate anche le invasioni barbariche, le guerre di religione del Seicento, la battaglia di Stalingrado, per non parlare, che so, della colonizzazione dell’America in seguito alla scoperta del Nuovo mondo: si è trattato perciò di avvenimenti «inutili»? Ma via, che modo è mai questo di fare storia, assumendo come criterio chiave il numero dei morti?

È peraltro in questo modo, a forza di suscitare emozioni e di consolidare giudizi del genere, che la storia - quella vera, quella che secondo una famosa immagine di Hegel assomiglia inevitabilmente a un banco di macelleria dal momento che gli uomini sono sempre quelli del peccato originale - è in questo modo, dicevo, che la storia si è progressivamente dileguata dall’orizzonte concettuale dell’opinione pubblica europea. E insieme dalla cultura delle sue élite politiche, dopo il ‘45 orientate massicciamente in senso cristiano-socialdemocratico. Il vuoto lasciato dalla storia è stato riempito dai principi. Unicamente i principi devono guidarci nell’arena del mondo: la giustizia, la libertà, l’eguaglianza, il diritto. Ma soprattutto la pace. Peccato che in quell’arena i principi, se non sono sostenuti dalle armi, possono voler dire una sola cosa: il compromesso a tutti i costi, il compromesso sempre e comunque. E alla fine - nella sostanza, anche se ogni sostanza può sempre essere mascherata - quasi sempre la resa.

E infatti a cos’altro si prepara se non alla resa un’Unione Europea la quale - c’informava sempre ieri sul Corriere Danilo Taino, immagino con intima soddisfazione di Federica Mogherini, ormai avviata a farci rimpiangere lady Ashton - negli ultimi vent’anni, mentre ai suoi confini crollava il mondo, ha visto dimezzare la propria aviazione tattica, l’artiglieria passare da circa 40 mila pezzi a poco più di 20 mila, e i suoi tre Paesi più popolosi (Germania, Francia e Italia) attualmente in grado di schierare insieme solo 770 (dicesi 770) carri armati? E le altre cifre relative agli armamenti declinare più o meno nella stessa clamorosa misura? Forse, per risultare credibile, un presunto ministro degli Esteri dovrebbe occuparsi anche di queste minutaglie.

Niente guerra, invece, niente inutili stragi. L’Italia in specie poi, si sa, è votata alla pace. Se domani andremo in Libia, se mai ci andremo, anche lì, c’è da giurarci, non andremo per fermare con le armi le orde dello «Stato islamico», cioè con la guerra. No. Dimentichi che non c’è ipocrisia maggiore di quella delle parole, ma decisi a non dismettere la nostra sciocca ideologia, andremo «per mantenere la pace».

La guerra, gli europei dell’Ue hanno deciso di lasciarla agli americani. Credendo così, tra l’altro, di poterli comodamente giudicare dei «guerrafondai» schiavi della «cultura delle armi» e di potersi sentire quindi moralmente superiori ad essi: in una parola più democratici.

E invece è vero proprio il contrario. Se anche dopo il terribile Novecento gli Usa hanno potuto lasciare posto nel proprio arsenale ideale e politico alla guerra - e continuare a fare delle guerre - è stato anche perché consapevoli del forte legame della loro società con i valori democratici. Un legame che si è dimostrato capace di rimetterli sulla strada giusta dopo ogni guerra sbagliata, di suscitare gli anticorpi in grado di immunizzarli dai pericoli politici e dalle cadute etiche che sempre si accompagnano alla guerra. È per l’appunto questa consapevolezza (degli americani ma anche dei britannici) che gli europei invece, i quali pure si credono tanto più democratici, non possono avere. Oscuramente essi avvertono che il loro rifiuto della guerra, apparentemente così virtuoso, in realtà copre la paura che in qualche modo la guerra possa resuscitare come d’incanto i démoni che affollano il loro passato così poco democratico. È solo un caso se il Paese non da oggi più pacifista di tutti è la Germania? Il nostro amore per la pace, insomma, assomiglia molto a un antico rimorso divenuto cattiva coscienza .

16 febbraio 2015 | 08:22
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_16/cattiva-coscienza-europea-1bf6b196-b5a5-11e4-bb5e-b90de9daadbe.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Gli ordini professionali che non si guardano allo...
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:21:49 pm
Professori e non solo
Gli ordini professionali che non si guardano allo specchio
Non ci sono solo i politici ma anche i professionisti e le loro corporazioni, incapaci di fare autocritica

Di Ernesto Galli della Loggia

La decadenza di un Paese si misura anche dall’incapacità della sua classe dirigente di vedere i propri errori, di discuterli e magari di correggerli. Ma la classe dirigente non è fatta solo dai politici. Ne fanno parte a pieno titolo pure le grandi corporazioni professionali pubbliche e private: l’alta burocrazia, i magistrati, gli avvocati, i medici, i notai, i giornalisti, i farmacisti ecc. Da queste corporazioni però, dai loro «ordini» e associazioni, in tutti questi anni - mentre il Paese si avvitava nella crisi, mentre mille nodi arrivavano al pettine - non è mai capitato di ascoltare alcuna voce autocritica di qualche consistenza. A nessuno è mai venuto in mente di avere il più piccolo rimprovero da farsi. Nulla. Tutti innocenti. Tutti attenti solo al bene pubblico, si direbbe, alla deontologia professionale, al buon andamento delle cose. Del resto, come si sa, di qualunque cosa capiti in Italia la colpa è sempre e solamente dei maledetti politici. Della «casta» per antonomasia.

E invece non è così. Parlo della situazione che conosco meglio, quella dell’Università. Poche settimane fa sul Corriere, Gian Antonio Stella ha tracciato una radiografia spietata della composizione del suo corpo docente: «L’età media delle varie fasce è impressionante: 60 anni gli ordinari, 53 gli associati, 47 e mezzo i “giovani” ricercatori (...); per ogni professore under 40 ce ne sono 474 ultrasessantenni». Siamo all’ultimissimo posto tra i Paesi europei per presenza nell’Università di docenti al di sotto dei 40 anni: l’8,8 per cento. Ciò è la logica conseguenza, d’altra parte, del fatto che la fascia dei ricercatori, cioè il primo grado della carriera accademica, rappresenta tutt’oggi meno della metà del numero complessivo dei docenti.

Ma chi ha la colpa di una situazione che, come si capisce, ipoteca negativamente tutto il futuro culturale ed economico del Paese? Forse il governo, il Parlamento, i ministri? No. La massima colpa è dei professori universitari stessi. Bisogna sapere infatti che, grazie all’autonomia riconosciuta alle singole sedi universitarie, sono stati loro che fino ad ora hanno amministrato a proprio insindacabile giudizio l’organigramma della docenza nelle rispettive università. Sono stati loro che hanno deciso (e decidono) come impiegare i fondi a disposizione (scarsi, certo, sempre molto scarsi, ma questo è un altro discorso: tutti sono capaci di far bene quando il denaro scorre a fiumi) scegliendo ogni volta, per esempio, se far posto a due giovani ricercatori o a un ordinario, se promuovere un ricercatore nella fascia dei professori o, viceversa, far passare un professore dalla seconda alla prima fascia. Decisioni nella stragrande maggioranza delle quali il criterio fondamentale è stato sempre fatalmente uno solo: il favore ai propri amici e/o allievi, la tutela del proprio insegnamento o raggruppamento disciplinare a scapito anche di quelli che andrebbero oggettivamente rafforzati.

Ho scritto fatalmente non a caso. È inevitabile, infatti, che l’interesse collettivo degli studi e del Paese, poiché nella sede dove vengono prese queste decisioni non è rappresentato da nessuno, alla fine risulti regolarmente sacrificato. Si spiega così la situazione in cui si trovano oggi molte sedi universitarie, specie nel Sud: avendo per anni impiegato le proprie risorse nel modo sconsiderato anzidetto, adesso non hanno più i mezzi per far entrare in ruolo i docenti che hanno appena passato l’esame di abilitazione nazionale. I quali servirebbero almeno a portare un certo ringiovanimento dei quadri, mentre invece oggi sono costretti ad aspettare in una sorta di lista d’attesa infinita che sembra rovesciare il recente enunciato del ministro Giannini: da «d’ora in poi nei ruoli ma solo con il concorso» a «d’ora in poi con il concorso ma fuori dai ruoli».

Questo è ciò che in Italia significa quasi sempre l’autonomia nella realtà delle cose. Questo è il risultato inevitabile (si pensi alla magistratura) quando a una corporazione viene dato il privilegio di autoamministrarsi al di fuori di ogni controllo, di decidere essa, sostanzialmente a suo arbitrio, i propri organici e come spendere i fondi che le affida lo Stato. Dietro le altisonanti parole «autonomia» e «autogoverno» la realtà che novanta volte su cento si nasconde - e non può essere altrimenti - è l’interesse di chi sta già dentro e dei suoi protetti, la mancanza di ricambio, la difesa corporativa.


26 febbraio 2015 | 09:05
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_26/gli-ordini-professionali-che-non-si-guardano-specchio-45212782-bd8d-11e4-8a38-1230a4c6f057.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il ricorso all’Onu. Una falsa autorità morale
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:54:21 pm
Il ricorso all’Onu
Una falsa autorità morale
Solo da noi mi pare l’Onu è considerata quasi una sorta di sede della coscienza universale, di unica titolare autorizzata a giudicare che cosa è bene e che cosa è male

Di Ernesto Galli della Loggia

Meglio chiarirlo subito: per sbarrare la strada all’Isis va benissimo cercare ogni possibile via diplomatica (puntare al «dialogo» mi sembra davvero un po’ troppo); egualmente giustissimo non affrettare in alcun modo un’eventuale soluzione militare della questione Libia. Tutto ciò per dire che in vista di qualunque decisione nel merito di tale questione mi sembra più che sensato guardare alle Nazioni Unite. Considerare cioè il Palazzo di Vetro come una sede preliminare ineludibile di qualunque via futura si scelga. Tuttavia, da ciò a celebrare il culto dell’Onu, a proclamarne obbligatoria l’osservanza in ogni circostanza, come sono inclini a fare da sempre una parte dell’opinione pubblica italiana e la totalità della classe politica, ce ne corre (o dovrebbe corrercene).

Invece solo da noi, mi pare, l’Onu è considerata quasi una sorta di sede della coscienza universale, di unica titolare autorizzata a giudicare che cosa è bene e che cosa è male negli affari del mondo. Solo nel nostro discorso pubblico o quasi le sue pronunce sono generalmente accolte come l’inappellabile voce della giustizia. Da qui la necessità - sentita in Italia come assoluta - di un consenso dell’Onu stessa per attestare la liceità di qualsivoglia uso della forza: non già, come invece è, per dichiararne semplicemente la conformità formale al deliberato dell’organizzazione. Deliberato - bisognerà pur ricordarlo - che non proviene però da nessuna autorità imparziale (tipo tribunale o gruppo di «saggi» o esperti super partes ), bensì da un’assemblea di Stati. Di quei «freddi mostri», come li definì a suo tempo un grande europeo, i quali sono soliti giudicare legale o meno l’uso della forza (come del resto qualunque altra cosa) sempre e comunque in base a un solo criterio: il proprio interesse politico (o, ciò che è la stessa cosa, il proprio schieramento ideologico di appartenenza). Quale autentico valore morale abbia una simile pronuncia può essere oggetto perlomeno di qualche dubbio. Del resto il carattere moralmente spurio perché fondamentalmente solo politico delle pronunce delle Nazioni Unite è attestato dal suo stesso statuto, quando istituisce il diritto di veto. Cioè la regola per cui qualunque verdetto dell’Assemblea generale degli Stati è di fatto reso inoperante e perciò nullo dal diritto riconosciuto ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) di opporre la loro volontà contraria. Che razza di accertamento legale, e tanto più etico, è mai quello che può concludersi in questo modo?

Un’ulteriore riprova della base in realtà assai debole su cui poggia l’autorità delle Nazioni Unite è data dagli stessi che per un altro verso si presentano come i loro più convinti paladini. Cioè da coloro che si riconoscono nelle culture politiche che maggiormente auspicano in ogni occasione il ricorso all’Onu e l’ossequio alle sue risoluzioni. Per esempio i cattolici in generale e le gerarchie vaticane: gli uni e le altre sempre pronti a sostenere l’opportunità dell’intervento del Palazzo di Vetro, l’uso delle sue istanze e l’adeguamento alle sue direttive quando si tratta di tensioni e scontri politici tra gli Stati, di minacce di guerra. Quando però si tratta di questioni di diversa natura come l’aborto, la definizione di genere o il matrimonio tra persone dello stesso sesso - questioni dove l’etica conta davvero - allora, invece, all’Onu e ai suoi meccanismi decisionali non vengono più attribuiti, chissà perché, alcuna autorità e alcun valore. Così come del resto una vasta parte dell’opinione pubblica occidentale non attribuisce neppure lei alcun valore alle varie, pazzotiche (per non dir peggio) delibere delle Nazioni Unite in materia di razzismo, sionismo e via dicendo.

La verità, come non è difficile capire, è che dietro il ritornello del ricorso all’Onu che domina la politica estera dell’Europa c’è innanzitutto l’inconsistenza di quella politica. E subito dopo il deperimento del concetto tout court di politica in senso forte: come decisione per l’appunto sulla pace e sulla guerra, sulla vita e sulla morte. E questo è, a sua volta, l’effetto dell’incertezza che regna nella nostra coscienza su che cosa siamo e sul suo senso, su che cosa dunque ci è consentito di volere e sui mezzi da impiegare per volerlo. Ormai anche il concetto primordiale di autodifesa ci appare un concetto problematico. Per qualunque cosa o quasi abbiamo bisogno del consenso degli altri, e per metterci a posto la coscienza ci diciamo che è così perché sono gli altri meglio di noi a sapere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Anche se dentro di noi sappiamo benissimo che gli altri, in realtà, ci indicheranno solo ciò che sembrerà più utile per loro.

22 febbraio 2015 | 10:33
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_22/falsa-autorita-morale-5ccb0ca8-ba5f-11e4-9133-ae48336c4c83.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Vacue riforme La scuola cattiva è questa
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2015, 05:05:39 pm
Vacue riforme
La scuola cattiva è questa

Di Ernesto Galli della Loggia

La buona scuola non è solo quella degli edifici che non cascano a pezzi, degli insegnanti assunti e progredenti nella carriera per merito, o delle decine di migliaia di precari (tutti bravi? Siamo certi?) immessi finalmente nei ruoli: obiettivi ovviamente giusti, e sempre ammesso che il governo Renzi riesca a centrarli, visto che specie sui mezzi e i modi per conseguire gli ultimi due è lecito avere molti dubbi. Ma la buona scuola non è questo. La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite - esagero - neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino - e vorrei dire di più, di persona - che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire.

In questo senso, lungi dal poter essere affidata a un manipolo sia pur eccellente di specialisti di qualche disciplina o di burocrati, ogni decisione non di routine in merito alla scuola è la decisione più politica che ci sia. È il cuore della politica. Né è il caso di avere paura delle parole: fatta salva l’inviolabilità delle coscienze negli ambiti in cui è materia di coscienza, la collettività ha ben il diritto di rivendicare per il tramite della politica una funzione educativa.

La scuola - è giunto il momento di ribadirlo - o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società.

La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta.

Che cosa è diventata negli anni la scuola italiana lo si capisce dunque guardando all’Italia di oggi. Un Paese che non legge un libro ma ha il record dei cellulari, con troppi parlamentari semianalfabeti e perfino incapaci di parlare la lingua nazionale, dove prosperano illegalità e corruzione, dove sono prassi abituale tutti i comportamenti che denotano mancanza di spirito civico (dal non pagare sui mezzi pubblici a lordare qualunque ambiente in comune). Un Paese di cui vedi i giovani dediti solo a compulsare ossessivamente i loro smartphone come membri di fantomatiche gang di «amici» e di follower; le cui energie, allorché si trovano in pubblico, sono perlopiù impiegate in un gridio ininterrotto, nel turpiloquio, nel fumo, nella guida omicida-suicida di motorini e macchinette varie; di cui uno su mille, se vede un novantenne barcollante su un autobus, gli cede il posto. Essendo tutti, come si capisce, adeguatamente e regolarmente scolarizzati. È così o no?

Si illude chi crede - come almeno una decina di ministri dell’Istruzione hanno fin qui beatamente creduto - che a tutto ciò si rimedi con «l’educazione civica», «l’educazione alla Costituzione», «l’educazione alla legalità» o cose simili. A ciò si rimedia con la cultura, con un progetto educativo articolato in contenuti culturali mirati a valori etico-politici di cui l’intero ciclo scolastico sappia farsi carico. Un progetto educativo che perciò, a differenza di quanto fa da tempo il ministero dell’Istruzione, non idoleggi ciecamente i «valori dell’impresa» e il «rapporto scuola-lavoro», non consideri l’inglese la pietra filosofale dell’insegnamento, non si faccia sedurre, come invece avviene da anni, da qualunque materia abbia il sapore della modernità, inzeppandone i curriculum scolastici a continuo discapito di materie fondamentali come la letteratura, le scienze, la storia, la matematica. Con il bel risultato finale, lo può testimoniare chiunque, che oggi giungono in gran numero all’Università (all’università!) studenti incapaci di scrivere in italiano senza errori di ortografia o di riassumere correttamente la pagina di un testo: lo sanno il ministro e il suo entourage ?

All’imbarbarimento che incombe sulle giovani generazioni si rimedia altresì creando nelle scuole un’atmosfera diversa da quella che vi regna ormai da anni. In troppe scuole italiane infatti - complici quasi sempre le famiglie e nel vagheggiamento di un impossibile rapporto paritario tra chi insegna e chi apprende - domina un permissivismo sciatto, un’indulgenza rassegnata. Troppo spesso è consentito fare il comodo proprio o quasi, si può tranquillamente uscire ed entrare dall’aula praticamente quando si vuole, usare a proprio piacere il cellulare, interloquire da pari a pari con l’insegnante. Ogni obbligo disciplinare è divenuto opzionale o quanto meno negoziabile, e l’autorità di chi si siede dietro la cattedra un puro orpello. Mentre su ogni scrutinio pende sempre la minaccia di un ricorso al Tar.

Quando ho sentito il presidente Renzi e il ministro Giannini annunciare una svolta, parlare di riforma, di «buona scuola», ho pensato che in qualche modo si sarebbe trattato di questi argomenti, si sarebbe affrontato almeno in parte questi problemi. E finalmente, magari, con uno spirito nuovo di concretezza, con una visione spregiudicata. In fondo il primo ha una moglie insegnante, mi sono detto, la seconda ha passato la sua vita nell’Università: qualcosa dovrebbero saperne. Invece niente. Prima di tutto e soprattutto i soldi e le assunzioni (bene), ma poi per il resto il solito chiudere gli occhi di fronte alla realtà, i soliti miraggi illusori per cui tutto è compatibile con tutto, per cui l’«autonomia» degli istituti invece di essere quella catastrofe che si è rivelata viene ancora creduta la panacea universale, la solita melassa di frasi fatte e mai verificate. E naturalmente mai uno scatto di coraggio intellettuale e politico, mai una vera volontà di cambiare, mai quell’idea alta e forte del Paese e della sua vicenda di cui la scuola dovrebbe rappresentare una parte decisiva, invece della disperata cenerentola che essa è, e che - ci si può scommettere - continuerà a essere.

8 marzo 2015 | 08:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_08/buona-scuola-quella-cattiva-efa928c6-c562-11e4-a88d-7584e1199318.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La replica a Elisabetta Sgarbi
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2015, 11:52:52 pm
La replica a Elisabetta Sgarbi
Houellebecq e l’anomalia di quella parola non detta
Il timore Nel libro l’Islam viene dipinto con toni negativi: forse questo ha fatto un po’ paura

Di Ernesto Galli della Loggia

C on buona pace di Elisabetta Sgarbi e dei redattori di Bompiani mi ostino a pensare che c’è qualcosa di strano se andando su Internet e digitando, in un motore di ricerca, il titolo del romanzo di Michel Houellebecq Sottomissione , su tutti i siti del mondo compare al massimo alla terza riga la parola «Islam», mentre invece lo stesso termine è rigorosamente bandito sia dalla quarta di copertina dell’edizione originale di Flammarion sia dalla bandella della traduzione italiana di Bompiani (che peraltro, sia detto a sua attenuante, è una semplice rimasticatura dell’originale). Nulla, neppure la filologica annotazione che «sottomissione» - come viceversa si legge dovunque nei suddetti siti e sulla Rete - è per l’appunto una delle traduzioni possibili e certo la più comune, della parola Islam. Tanto lo sanno tutti - mi pare pensi Sgarbi - perfino Galli della Loggia (grazie della fiducia), aggiungendo «peccato che lo rimuova».
Non lo rimuovo per nulla. Osservo soltanto che a saperlo oltre io, Sgarbi e «l’amico Pietrangelo Buttafuoco» (buttato lì come il cavolo a merenda, giusto per farci capire che lei non è una sprovveduta e sa scegliere le amicizie politicamente bilanciate), non siamo proprio legioni. Un editore preoccupato di vendere i suoi libri, mi chiedo, non dovrebbe cercare di far capire qualcosa del loro contenuto? E allora: davvero il direttore editoriale di Bompiani pensa che scrivere di «nuove forze» che arrivano al potere fa capire a qualcuno che a Parigi, come immagina Houellebecq, siede un governo presieduto da un musulmano? Via!

Ma «nominare la parola Islam nella bandella avrebbe immediatamente dato al lettore la sensazione di un romanzo contro l’Islam» - obietta Sgarbi - laddove invece esso è «un’articolata interpretazione del rapporto con l’Occidente». Be’, articolata mica tanto, per la verità. Nel libro l’Islam, infatti, arriva al potere grazie a tre fattori: il riflesso antixenofobo delle sinistre, il fiume di soldi provenienti dal petrolio e, si direbbe proprio, la fregola scopereccia della popolazione maschile sedotta dalla poligamia. Di un’eventuale ruolo (anche elettorale) di milioni di donne francesi per esempio, ricondotte a casa a servire il loro marito padrone, neppure una parola che sia una. Come articolazione non so a Sgarbi, ma a me non pare un granché.

Quel che è certo è che l’Islam vi è dipinto come un modello civile ostile ai valori di pluralismo (improvvisamente tutti i media e gli intellettuali diventano islamici o filo), all’eguaglianza dei sessi, alla presenza ebraica (nel romanzo c’è una fuga degli ebrei francesi verso Israele). E allora, cara Sgarbi, secondo lei dipingere un quadro del genere è contro l’Islam o no? Io credo proprio di sì e sfido chiunque a sostenere il contrario. E credo che forse, pubblicare un testo del genere, a lei così attenta ad amministrare la sua immagine coltivando il trasgressivo ma nei limiti di ciò che piace alla gente che piace, le abbia fatto temere di apparire, dio guardi, «islamofoba» (e invece no, si rassicuri: sono due cose diversissime). Come forse la stessa cosa ha fatto un po’ paura anche a Flammarion (che però non voleva ripetere la figuraccia di quando non volle pubblicare il testo della Fallaci dopo l’11 settembre); e come forse alla fine ha fatto un po’ paura anche a Houellebecq: ma si sa, capita che l’autore non sia all’altezza della sua opera. Houellebecq però, pur difendendo il suo libro dall’accusa di «islamofobia», ha comunque avuto l’ardire di affermare che, se pure lo fosse, «ne avrebbe il diritto» (Le Monde , 20 gennaio). Pensi un po’ che sfacciato!

15 marzo 2015 | 09:01
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_15/houellebecq-l-anomalia-quella-parola-non-detta-fc13550c-cae7-11e4-9a7c-4c357fdc7cec.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La strage di Tunisi Noi, assediati e troppo timidi
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2015, 11:04:26 am
La strage di Tunisi
Noi, assediati e troppo timidi

Di Ernesto Galli della Loggia

Destabilizzare tutti gli assetti politico-statali del mondo arabo; impadronirsi di quell’immenso spazio geopolitico instaurandovi un potere ispirato all’islamismo radicale; da lì muovere a uno scontro con l’Occidente, preliminarmente messo sulla difensiva e impaurito dall’azione di nuclei terroristici reclutati nelle comunità musulmane al suo interno. Davvero si corre troppo con la fantasia attribuendo un disegno del genere alla galassia della jihad che mercoledì a Tunisi ha compiuto la sua ennesima impresa sanguinaria? Davvero significa dare corpo a dei fantasmi? Bisogna vedere: chi l’avrebbe detto nel gennaio del 1933 che quel tizio esagitato appena nominato cancelliere della Germania avrebbe effettivamente cercato di realizzare i suoi fantastici propositi di sterminio, mettendo a ferro e a fuoco il mondo? Eppure allo scoppio della Seconda Guerra mondiale mancavano neppure sette anni.

Il messaggio che viene da Tunisi è chiaro: per il nostro Continente si avvicina una prova decisiva. Siria, Libia, Tunisia, cioè la sponda meridionale del Mediterraneo, cioè il confine marittimo dell’Unione. Come non accorgersi che prima che agli Stati Uniti è a lei, a noi, che è rivolta la sfida islamista? Dunque le imprevedibili accelerazioni della storia impongono oggi all’Europa ciò a cui essa si è finora sempre rifiutata: di essere un soggetto politico vero. Vale a dire con una vera politica estera; con un vero esercito. E con veri capi politici: gli unici che nei momenti cruciali possono fare scelte coraggiose, costruendo altresì intorno ad esse il consenso necessario.

Non c’è tempo da perdere. Per far fronte alla feroce determinazione dell’islamismo radicale, alla sua capacità di penetrazione, la politica deve innanzitutto prepararsi all’impiego della forza. La si chiami come si vuole per non turbare i nostri pudori lessicali - operazione di polizia internazionale, missione di pace ( sic !) o che altro - l’importante è capirsi sulla sostanza. Così come è necessario che l’Europa si convinca - e convinca gli Stati Uniti - a dire con chiarezza all’Arabia Saudita, al Qatar e a qualche altra monarchia del Golfo che il loro doppio gioco non può continuare a lungo: che esse non possono con una mano fare lauti affari con l’Occidente, e con l’altra finanziare chi uccide a sangue freddo i suoi cittadini. Un Islam antijihadista peraltro esiste: noi dobbiamo sia aiutarlo con più determinazione a non divenire ostaggio del terrore (è il caso della Tunisia), sia abituarci a chiederne l’aiuto prezioso che può offrirci.

20 marzo 2015 | 08:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_20/strage-tunisi-noi-assediati-troppo-timidi-europa-jihad-isis-c2251716-cec7-11e4-8db5-cbe70d670e28.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA L’identità fragile dei cristiani
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2015, 11:18:31 pm
Coscienza e coraggio
L’identità fragile dei cristiani

Di Ernesto Galli della Loggia

Cristiana la nostra identità? Ma quando mai! Innanzi tutto non ce lo permette forse neppure la nostra Costituzione; sicuramente poi ce lo vieta l’Europa e ancor più sicuramente ce lo vieta il pensiero dominante. Secondo il quale tutto ciò che ci distingue, infatti, a cominciare dallo stesso termine identità, è sospetto: allude a possibili discriminazioni, esclusioni, persecuzioni. Se vogliamo essere dei bravi democratici (come vogliamo), possiamo avere quindi solo identità cosmopolite, universali, fruibili e condivisibili senza distinzioni da chiunque, sanzionate da diritti altrettanto universali. E poiché ognuno di noi deve sentirsi libero di essere qualunque cosa, ne segue che come collettività, come insieme, non possiamo essere nulla, consistere in nulla, identificarci in nulla di storicamente o culturalmente determinato.

Neppure lontanamente possiamo pensare, ad esempio, di avere «radici» (ambiguo termine biologico che, come è stato denunciato, solo per questo già sa di razzismo), radici in una storia, in una tradizione, in una cultura. Figuriamoci poi in una religione. Ancora ancora, grazie al ricordo della Shoah, avvertiamo un leggero soprassalto se ammazzano qualche ebreo in un supermercato parigino o in un museo di Bruxelles. Ma se in una contrada d’Africa o d’Asia da anni abbattono croci e incendiano chiese a decine, fanno schiave e violentano donne solo perché cristiane, se per la stessa ragione decapitano o freddano con un colpo alla nuca chiunque non preghi Allah, non riusciamo a scomporci più di tanto.

5 aprile 2015 | 10:05
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_05/identita-fragile-cristiani-0ab25194-db5a-11e4-8de4-f58326795c90.shtml


Titolo: E. GALLI DELLA LOGGIA Destra e sinistra oggi. Partiti di plastica e vecchi ...
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2015, 04:44:37 pm
Destra e sinistra oggi. Partiti di plastica e vecchi merletti
Una volta terminati gli effetti della droga dell’antiberlusconismo, si sono viste le cose come stavano: il Pd non esisteva più, era un involucro vuoto


Di Ernesto Galli della Loggia

Allora era vero! Era vero, come molti non si sono mai stancati di dire, che Forza Italia è stato sempre un partito di plastica. Era vero che Berlusconi era il suo padrone e tutti gli altri, i deputati e i senatori, solo una sorta di suoi dipendenti sostanzialmente a libro paga: i quali, finché le cose andavano bene, non si sognavano di emettere un fiato qualunque cosa gli venisse ordinata o accadesse. Ed era vero che Berlusconi ha sempre voluto che le cose andassero così, impedendo dunque per vent’anni che a destra nascesse qualcosa che avesse delle radici, che durasse, che si richiamasse a qualche visione alta e complessa del Paese e della sua storia complicata. Sì, era vero: dal momento che oggi proprio queste cose dicono - anzi denunciano a gran voce: e bisogna dire alquanto spudoratamente - quegli stessi, i vari Bondi, Fitto, perfino una pasdaran come la Biancofiore - che appena ieri, stando dentro Forza Italia, accettavano tutto, ed anzi spesso protestavano indignati contro chi si permetteva le medesime critiche che oggi essi muovono. A imitazione, del resto, di quanto prima di loro avevano già detto un paio di anni fa, stracciandosi anch’essi debitamente le vesti, una lunga schiera di fuoriusciti, da Gianfranco Fini ad Angelino Alfano. Nel momento del naufragio tutti consapevoli - guarda caso! e quando alcuni ancora sperano di salvarsi su qualche zattera - che forse il capitano ha sbagliato rotta.

È così: molte verità a lungo negate oggi stanno diventando innegabili. E ra anche vero, eccome se era vero, ad esempio, che per gettarsi alle spalle il Partito comunista e la sua esperienza non poteva bastare cambiare il nome e fare come se nulla fosse. Che era necessario non solo capire bene che cosa era accaduto, «com’era stato possibile» (magari con l’aggiunta di qualche opportuna autocritica), ma anche che chi era stato un «ragazzo di Berlinguer», condividendone faziosità, accecamenti e fedeltà all’Ottobre rosso, si facesse giudiziosamente da parte. E invece di raccattare per anni tutto il raccattabile - dalla finta sinistra di Sergio D’Antoni alla sinistra dei quartieri alti di Giovanna Melandri - facesse spazio a quella socialdemocrazia che aveva sempre disprezzato. Era vero, infatti - come qualcuno disse subito - che in caso contrario, com’è puntualmente avvenuto, la dirigenza vecchia del partito che nasceva nuovo avrebbe in realtà impedito a questo di essere nuovo. Così è accaduto che quel partito si sia via via appassito, si sia via via impoverito di idee e di passioni, si sia disarticolato in una molteplicità di feudi nazionali e locali spesso nelle mani di opachi personaggi dediti ad affari ancora più opachi.

Tutto ciò è rimasto celato finché è durata la droga dell’antiberlusconismo. Ma appena la droga è finita si sono viste le cose come stavano: il Pd non esisteva più. Era un involucro vuoto. E a questo punto è bastata per impadronirsene una banda di giovani audaci, animati da uno smisurato desiderio di vincere, che nulla avevano a che fare con la sua lunga storia. I quali anzi possono essere considerati, nei confronti di questa storia, come la vendetta di un’altra storia, di una storia completamente diversa. Allora era vero, era vero tutto insomma. Era vero tutto (o quasi) di ciò che non molti hanno detto per anni a proposito della Destra e della Sinistra italiane. Peccato che oggi, quando finalmente i più se ne accorgono, sia troppo tardi.

17 aprile 2015 | 08:47
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_17/partiti-plastica-vecchi-merletti-333d6de4-e4cc-11e4-845e-5bcd794907be.shtml


Titolo: E. GALLI DELLA LOGGIA. Renzi, i migranti e l’Ue. Il balbettio degli egoisti...
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 11:39:58 am

Renzi, i migranti e l’Ue
Il balbettio degli egoisti d’Europa

Di Ernesto Galli della Loggia

Si può immaginare una prova di egoismo e di miope inettitudine più clamorosa di quella mostrata dall’Unione europea riunita giovedì a Bruxelles per discutere il da farsi rispetto all’ondata migratoria che sta rovesciandosi sulle coste meridionali del nostro continente? Posta davanti a una sfida geopolitica di carattere epocale, davanti alle sciagure e ai problemi di ogni tipo che questa produce, la sola cosa, infatti, che l’Unione si è saputa inventare è stata quella di mandare qualche altra nave nel Mediterraneo e di destinare una manciata in più di quattrini all’operazione Triton. Cioè di far finta di fare qualcosa allo scopo di non fare nulla.

Nel suo balbettio e nel suo riuscire a mancare regolarmente tutti gli appuntamenti decisivi che potrebbero farle fare un salto di qualità verso un’esistenza di soggetto politico, l’Europa è ormai diventata qualcosa d’imbarazzante. La mancanza di leadership e di visione minaccia di renderla un organismo sempre più ingombrante per le cose facili e sempre più inutile per quelle difficili. Un vuoto ammasso di egoismi nazionali che dura finché questi non vengono disturbati.

Del resto è apparso non meno insufficiente nei giorni scorsi anche il comportamento del governo italiano. Il presidente Renzi, recatosi a Bruxelles sperando verosimilmente grandi cose (anche se non si sa di preciso che cosa), ha dovuto accontentarsi di quasi nulla. Il fatto è che per ottenere seppure in parte da un sinedrio come quello di Bruxelles ciò che si desiderava, bisognava battere i pugni sul tavolo. Tutto il Paese avrebbe seguito un presidente del Consiglio che avesse tenuto un discorso del tipo: «Cari signori, l’Italia non intende vedere annegare centinaia di persone in mare senza muovere un dito. Noi quindi faremo di tutto per cercare di salvare il maggior numero possibile di migranti. Ma tutto questo costa, costa molto. Siccome però non siamo il Paese di Bengodi, e le nostre risorse sono limitate, sappiate che se voi non fate nulla di più del quasi niente che vi proponete di fare, allora alle prossime scadenze l’Italia si vedrà costretta con molto rammarico a sospendere qualsiasi tipo di finanziamento, anche quello ordinario, all’Unione e alle sue attività». E invece, ahimè, nulla di simile si è sentito. Evidentemente un conto è bacchettare Civati o tirare le orecchie alla Camusso, un altro affrontare a brutto muso Cameron o la Merkel (oltre, immagino, il mugugno sussiegoso della Farnesina). E così abbiamo dovuto accontentarci di una mancia accompagnata da un’amichevole pacca sulla spalla.

Giorni molto difficili si annunciano dunque nell’immediato per l’Italia. Ma per l’intera Europa si avvicina a più o meno lunga scadenza l’appuntamento con una catastrofe annunciata, quella di un’insostenibile pressione demografica del Sud del mondo la quale, proprio in quanto continua ad essere pervicacemente rimossa, tanto più minaccia inevitabilmente di assumere i tratti di un vero e proprio collasso geopolitico.

Non è vero che non ci sia nulla da fare. Se l’Europa esistesse, se avesse una vera guida politica dotata di autorità e di visione, potrebbe fare molto, specie per le migrazioni mosse da ragioni economiche. Previo un accordo quadro con l’Organizzazione dell’Unione africana, ogni Paese europeo (da solo o insieme a un altro) potrebbe ad esempio stabilire con uno Stato di quel continente una sorta di vero e proprio gemellaggio: rapporti speciali di aiuto e cooperazione per favorirne lo sviluppo; essere autorizzato a destinarvi investimenti privilegiati in campo economico e turistico; stabilire con esso accordi doganali speciali per favorirne le produzioni e le esportazioni; aprirvi centri culturali, inviarvi «missioni» di ogni tipo specie per migliorarne gli apparati scolastici, sanitari, giudiziari e di polizia; accoglierne gli studenti migliori con borse di studio; e anche, magari, aprirvi dei «campi di addestramento» lavorativo, linguistico e «antropologico-culturale», destinati a coloro che comunque intendessero abbandonare il loro Paese.

Costerebbe e non sarebbe facile, certo. Avrebbe anche dei rischi, forse. Ma sono per l’appunto queste le cose che fa la politica, che solo la politica sa fare. Perlomeno la politica che non gioca a scaricabarile, ma quella che immagina, che osa, che agisce.

26 aprile 2015 | 08:07
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_26/balbettio-egoisti-europa-migranti-strage-editoriale-9e13b9c0-ebd9-11e4-b9d3-aa4aa3ffc489.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA I nuovi conservatori. Nostalgia di un’Italia diversa
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2015, 04:53:23 pm
I nuovi conservatori
Nostalgia di un’Italia diversa

Di Ernesto Galli della Loggia

Siamo in molti oggi in Italia, credo, ad avvertire dentro di noi e intorno a noi sempre più spesso pensieri e pulsioni che in altri tempi avremmo giudicato tipici di una mentalità conservatrice (e che in un certo senso lo sono davvero). La cosa è tanto più significativa in quanto riguarda persone che spesso sono state di sinistra e dicono di esserlo ancora. Nel Paese sta dunque montando una subdola ondata conservatrice?

Chiariamo innanzi tutto un punto: l’economia non c’entra. Qui da noi il «liberismo selvaggio» continua a non fare proseliti: ben pochi pensano cioè che la proprietà debba avere più diritti del lavoro o che non debba esserci una protezione adeguata per la parte più sfavorita e fragile della società. No, l’Italia di cui sto dicendo non inclina al conservatorismo perché è sul punto di passare dalla parte del più forte. Tanto meno sul punto di iscriversi al «partito dell’ordine», che non sa neppure che cosa voglia dire.

E non c’entra neanche l’età, come pure si potrebbe pensare. Oggi tra l’altro, si sa, è più facile semmai trovare un progressista doc tra quelli che hanno i capelli grigi che tra i ventenni. Stiamo dunque diventando conservatori per un’altra e semplice ragione: perché a petto di ciò che è l’Italia attuale ne vorremmo una diversa, e magari, per chi se la ricorda, un’Italia ancora con alcune cose, con alcune caratteristiche, che aveva quella di ieri e che sono state insulsamente gettate via. Forse più che conservatori siamo nostalgici. Nostalgici ad esempio dello Stato. Inteso non come astratto feticcio ma come quell’insieme di organi e di funzioni di controllo e di vigilanza, preziosi al centro come nelle periferie.

Nostalgici di quello Stato che non si era ancora rassegnato all’inefficienza dei suoi uffici e alla abituale protervia dei suoi dipendenti, che nei ministeri e altrove non aveva dato tutto il potere alle lobby interne e ai sindacati. Quello Stato che non aveva ancora deposto quasi per intero la sua sovranità nelle fauci del «mostro freddo» di Bruxelles, e neppure si era ancora arreso ai cacicchi regionali o ai voleri di qualche capetto dei «territori»; che non aveva ancora deciso di dismettere sempre e comunque ciò che è pubblico solo per rimpinguare, come poi si è visto, i portafogli dei privati. Nostalgici dello Stato, della Banca d’Italia, delle Sovrintendenze, dei Provveditorati, del Genio Civile, dell’Ufficio Geologico Nazionale, delle Prefetture (sì certo, delle Prefetture!): dello Stato insomma rappresentato da quelle amministrazioni che per un secolo e mezzo ci hanno consentito una convivenza in fin dei conti decente, riuscendo bene o male a disciplinare il nostro anarchico frazionismo e il nostro scarso rispetto delle leggi.

La nuova Italia conservatrice lo è, dunque, perché la nostalgia alla fine è sempre anche desiderio di conservare. Ad esempio conservare una scuola capace di tenere a bada le famiglie e di mantenere la disciplina; con insegnanti bravi, consci del proprio ruolo e capaci di farsi ubbidire; con regole non destinate a mutare ogni tre anni; con programmi non pronubi alle novità quali che siano, alla «sperimentazione», all’«inglese», alle «lavagne elettroniche», al «mondo del lavoro», additati come altrettanti orizzonti supremi di ogni programma educativo. Una scuola ideale che forse non è mai esistita: ma la cui immagine, di fronte alla rovina presente, si rafforza ogni giorno di più come un irrinunciabile dover essere.

O ancora, conservare le nostre città: libere dalle movide, dai pub, dalle troppe pizzerie al taglio e dai troppi negozi alla moda che chiudono dopo appena un paio d’anni ma non senza aver decretato nel frattempo la scomparsa dalle vie di barbieri e di fiorai, di ciabattini e librerie. Conservare i paesi, i borghi grandi e piccoli dell’Italia antica, con gli uffici postali, le stazioni ferroviarie, i palazzi e le opere d’arte: quel paesaggio, quelle forme di vita che legano tanti di noi al passato. Che sono il passato vivo e vitale del Paese.

Ma c’è dell’altro e di più, mi pare, in questa piega chiamiamola pure conservatrice che sta prendendo una parte dell’opinione pubblica orientata finora diversamente. C’è la convinzione ad esempio che si debba ritornare ad onorare dimensioni antiche come le buone maniere o il senso comune, un minimo rispetto per i ruoli e le gerarchie; per il merito. S’intravede una considerazione nuova per i valori della coesione collettiva (per esempio lo spirito nazionale), accompagnata da un’insofferenza crescente verso gli atteggiamenti più conclamati di autoreferenzialità, di ribellismo, di edonismo vacuo. Si fa strada un certo distacco rispetto a forme di scientismo prometeico, di certezza laicista, verso cui prima si aderiva senza problemi.

È di destra tutto questo? È di destra volere norme non cervellotiche, controlli efficaci, interessi collettivi tutelati, chiedere attenzione per quanto rappresenta la nostra identità umana e storica, volere un’atmosfera culturale meno succuba alle mode dei tempi? È solo uno sterile rimpianto? Corrisponde alla richiesta di cose delle quali non compete occuparsi a chi governa? Questo è forse ciò che pensano coloro che vivono nell’acquario della politichetta montecitoriesca. Sbagliando, perché dietro quanto fin qui detto si muovono in realtà due potenti convinzioni che recano con sé due significati politici clamorosi e sempre più evidenti. Prima di ogni altra cosa, che la Seconda Repubblica è stato un fallimento totale: con tutti i suoi D’Alema, i suoi Berlusconi, i suoi Bossi, i suoi Prodi e compagnia bella, con tutti i suoi partiti e con tutte le sue scelte politiche che volevano essere di rottura, o comunque «diverse» rispetto al passato, e che invece non hanno portato a nulla. E poi - e soprattutto - che dalla Seconda Repubblica non si esce né a destra né a sinistra, per adoperare un lessico antico. Si esce invece con una ridefinizione profonda di ciò che è di destra e di ciò che è di sinistra. Dove in certi casi si può essere «conservatori» stando a sinistra, o temi «di destra» possono essere fatti propri dalla Sinistra. È ciò di cui si è accorto grazie alla sua età e al suo fiuto Matteo Renzi: ed è per questo che egli sta riportando una vittoria dopo l’altra, mentre i suoi avversari interni balbettano sul nulla e dalle altre parti si agitano solo dei fantasmi o degli inutili masanielli.

6 maggio 2015 | 08:35
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_06/nostalgia-una-italia-diversa-galli-loggia-0e738da0-f3b2-11e4-8aa5-4ce77690d798.shtml


Titolo: E. GALLI DELLA LOGGIA Trasformismo dilagante Le radici della crisi dei partiti
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 10:07:47 am
Trasformismo dilagante
Le radici della crisi dei partiti

Di Ernesto Galli della Loggia

Destra e Sinistra appaiono in crisi e quasi in via di scomparsa, mentre al loro posto si va delineando per il futuro un ampio schieramento ultramaggioritario, tendenzialmente centrista, capace di inglobare quasi tutte le componenti parlamentari. Contemporaneamente si diffonde, sempre più massiccio nelle periferie ma ormai anche nel Parlamento nazionale, il fenomeno del trasformismo. Oggi è questa, nella sua essenza, la situazione che ci sembra nuova della nostra vita politica. Ma a ben vedere lo è solo relativamente.

La situazione odierna, infatti, ricorda da vicino la situazione che si verificò in Italia già negli ultimi decenni dell’Ottocento dopo l’esaurimento della Destra e della Sinistra risorgimentali. Le quali, peraltro, anche durante il Risorgimento erano state sì contrapposte, ma fino a un certo punto. Non a caso Cavour governò per anni, come si sa, con una maggioranza che in pratica escludeva solo la Destra e la Sinistra estreme: maggioranza battezzata con il nome significativo di «connubio».

Questo connubio paratrasformistico - che di fatto s’interruppe solo per pochi anni subito dopo l’Unità - durò in pratica fino alla Prima guerra mondiale. In tutto questo tempo l’amplissimo schieramento politico che si riconosceva nelle istituzioni dello Stato - l’eterogeneo «partito costituzionale» - non fu capace di dividersi stabilmente in una Destra e in una Sinistra contrapposte. Sicché la rappresentanza parlamentare rimase perlopiù identificata, nella sostanza, in una vasta palude filogovernativa. Fu solo con la comparsa nell’aula di Montecitorio, all’inizio del Novecento, dei socialisti prima, poi dei cattolici, dei fascisti e dei comunisti, e dei loro rispettivi partiti, che le cose cambiarono. Fu solo allora che nel Parlamento come nel Paese si stabilirono vasti schieramenti con discrimini veri e contrapposizioni non aggirabili; per tutto il XX secolo c’è stato posto, così, solo per le grandi ideologie, per le alternative drammatiche, per i grandi partiti organizzati. Ma è proprio tutto ciò - cui si doveva storicamente la fine del monopartitismo virtuale e del trasformismo, propri della precedente tradizione italiana - che è scomparso tra il 1992 e il 1994 sotto i colpi di Mani pulite.

Ancora nel ventennio successivo è più o meno sopravvissuta una forma spuria di contrapposizione Destra-Sinistra grazie all’arrivo sulla scena di Berlusconi: grazie cioè all’accanimento del padrone di Mediaset nell’agitare il fantasma dell’anticomunismo, e alla risposta dei suoi avversari con il controfantasma dell’antifascismo. Finalmente però, con lo spappolamento di Forza Italia, il Novecento italiano è terminato, e di conseguenza ha potuto scomparire anche quanto restava di ciò che un tempo si chiamava comunismo.

L’Italia post novecentesca si ritrova così oggi riconsegnata alla sua più antica peculiarità. Ritorna in un certo senso alle origini post risorgimentali e incontra di nuovo il trasformismo. Sconfitta nel sangue l’illusione fascista, tramontate le grandi ideologie d’impianto transnazionale le cui divisioni erano servite in passato a modellare le nostre divisioni, il sistema politico italiano si trova oggi costretto a utilizzare i materiali ideologici autoctoni, a derivare il suo discorso unicamente dal Paese reale, dalle risorse intellettuali e morali che esso riesce a mettere in campo. Che però non sembrano gran cosa.

Se oggi ci riesce così difficile dare contenuti effettivi a questa o a quella piattaforma di partito, dividerci tra Destra e Sinistra, non è perché nella realtà manchino i contrasti d’interesse e le divisioni. È innanzi tutto perché la società italiana sembra avere perduto la capacità di pensare realmente se stessa, a cominciare dalle ragioni di fondo della crisi del Paese. Sembra non avere più la fantasia e l’audacia di immaginare vie e strumenti nuovi, nuovi compiti e nuovi doveri. Ed è come se l’assenza di queste cose si porti con sé anche un’assenza d’interesse e di voglia di futuro, anche il desiderio e il gusto delle contese forti sulle cose vere: che è per l’appunto ciò che genera i partiti. In questo modo al posto delle lotte abbiamo le risse, al posto delle discussioni le polemiche, al posto dei giornali e dei libri i talk show popolati di «ospiti» capaci solo di ripetere slogan a cui si sospetta che essi siano i primi a non credere. La nostra vita e il nostro discorso pubblici mancano di profondità e di passione. Appaiono sempre più poveri, ripetitivi, privi di orizzonti e di progetti. Come possono nascere dei veri partiti in queste condizioni?

Esiste poi un altro insieme di ragioni che spiegano il ritorno alla convergenza generale verso il centro e del trasformismo. Una società che è tornata ad essere fragile - oggi per giunta con pochi giovani e molti anziani -, una società dalle risorse di nuovo tendenzialmente scarse, è spinta naturalmente a stringersi intorno al potere, a cercarne la protezione, così come ha fatto per secoli. È spinta naturalmente a credere solo nel potere, e prima di ogni altro nel potere politico: tanto più quando questo, come accade oggi, assume un aspetto marcatamente personale che lo rende più visibile e temibile, e perciò più forte. È spinta a credere, del resto, non solo nel potere di chi ha in mano la cosa pubblica. Anche il potere malavitoso, ad esempio, appare oggi ben più forte di venti anni fa, se è vero come è vero che ci si mette sotto la sua tutela non più soltanto nelle tradizionali zone del Mezzogiorno ma anche in Emilia, anche in Lombardia. Mentre dal canto suo pure il familismo, la protezione familiare, appaiono più forti che mai.

Chi l’avrebbe detto agli albori della Seconda Repubblica che alla fine essa ci avrebbe ricondotto all’Italia dello Statuto: senza partiti e con un governo di fatto privo di alternative.

17 maggio 2015 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_maggio_17/radici-crisi-partiti-editoriale-della-loggia-65fce2cc-fc5b-11e4-9e3e-6f5f0dae9d63.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Migranti, folklore e dibattiti utili
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2015, 03:59:36 pm
Immigrazione
Migranti, folklore e dibattiti utili

Di Ernesto Galli della Loggia

Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato proprio un federalista doc, uno dei capi di quei leghisti che da anni ci fanno una testa così sui mitici «territori», sulle loro esigenze e sui loro diritti inalienabili, a farci sapere che in realtà quanto sopra vale sì per i «territori», ma solo a un patto: che si tratti dei «territori» dove comandano loro? Il chiarimento - davvero istruttivo - lo si deve al presidente della Lombardia, Roberto Maroni. Il quale, irritatissimo perché alcuni sindaci della stessa Lombardia avevano osato contro il suo avviso dichiararsi disponibili ad accogliere un certo numero di immigrati, non ha trovato di meglio che minacciarli all’istante di togliere ai loro Comuni i contributi regionali. Come un qualunque prefetto dell’Italietta centralista del tempo che fu.

Guai però se questo folklore del federalismo italiota ci servisse per mettere la sordina sulla questione ogni giorno più grave che rappresenta l’immigrazione incontrollata che al ritmo di mille-duemila persone al giorno si rovescia attraverso il Mediterraneo sulle nostre coste. Mentre altre centinaia e centinaia di migliaia, lo sappiamo, attendono sull’altra riva. Si tratta di un fenomeno di carattere epocale. È qualcosa che lasciato a se stesso costituisce un pericolo per aspetti decisivi della nostra vita, come collettività statale e nazionale. Esso ad esempio mette in contrasto le varie parti geografiche del Paese schierando, come già si vede oggi, l’una contro l’altra. Avvelena le relazioni tra i diversi strati sociali della popolazione, dal momento che è solo su quelli meno abbienti che ricadono in maniera assolutamente sproporzionata i costi di ogni tipo del fenomeno. Nell’esistenza quotidiana di milioni di nostri concittadini, spesso in quella dei più deboli ed anziani, diffonde poi (ed è inutile obiettare che si sbagliano: anche perché più di una volta, invece, non si sbagliano per nulla) disagi, insicurezze, paure, che si traducono in pericolosi riflessi di tipo securitario fuori misura; rischia infine di alimentare posizioni ideologiche dai contenuti aggressivi e radicali in grado di modificare gravemente il nostro quadro politico.

L’immigrazione insomma è l’opposto della normale amministrazione, è potenzialmente un terremoto. E come tale va trattata: non può essere affrontata solo con le categorie della benevolenza umanitaria (a cui pure nessuno di noi intende sottrarsi), così come non si può pensare di affidarne la gestione a una flottiglia della Marina e alla debole guida del ministro Alfano. Va trattata tendenzialmente come una vera e propria emergenza nazionale, e tutto il governo, a cominciare dal presidente Renzi, deve metterla ai primi posti delle sue priorità, muovendosi in modo adeguato. Innanzi tutto nei confronti dell’Europa: e cioè seguendo finalmente una linea decisa, molto decisa, anche fino alla durezza (scelga Renzi quale, purché ne scelga davvero una). E quindi all’interno, chiamando tutto il Paese (non solo le forze politiche) ad una sorta di grande consultazione collettiva, ad una presa d’atto della nostra situazione storica, ad una discussione sul nostro futuro, per stabilire insieme il da farsi: a cominciare - questa la prima proposta che personalmente mi sentirei di fare - da una nuova, non più rinviabile, legge sulla cittadinanza. È in ballo il destino dell’Italia: il presidente del Consiglio ci dica che cosa pensa.

9 giugno 2015 | 08:04
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_giugno_09/migranti-folklore-dibattiti-utili-2447cf3a-0e68-11e5-89f7-3e9b1062ea42.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA «La circolare delle circolari»: fatele circolare
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:33:16 pm
Il corsivo del giorno
«La circolare delle circolari»: fatele circolare
Scuola, un esempio di burocrazia estrema e sgrammaticata nell’atto di un preside

Di Ernesto Galli della Loggia

«Circolare n. 44. Oggetto: circolazione circolari. Sono state presentate alcune rimostranze da parte di genitori dell’alberghiero e dei loro rappresentanza (sic!) riguarda (sic!) la mancata circolazione di alcune circolari. Si raccomanda di far circolare per le classi agli (sic!) studenti tutte le circolari e di farle ricircolare per le classi uscite prima (sic!).
Si raccomando (sic!) di mantenere un flusso continuo di circolazione e di ricircolazione delle circolari anche con l’ausilio attivo e fattivo all’ (sic!) istituto alberghiero degli studenti di accoglienza turistica». Questo è un testo ufficiale redatto e firmato da un dirigente scolastico della sgrammatica Repubblica italiana.

Sono pronto a fornire in privato a chi ne avesse interesse l’indicazione del nome e cognome del dirigente scolastico che ha redatto e firmato questo testo ufficiale di una scuola della Repubblica italiana, nel quale gli stupri sintattico-grammaticali gareggiano con la surreale demenzialità dell’enunciato, con un effetto complessivo degno del migliore Totò.

Come cittadino della suddetta sgrammaticata Repubblica mi limito ad avanzare solo tre domande, più che consapevole, peraltro, della loro prevedibile inutilità: 1) il ministro dell’Istruzione, e per lui i suoi uffici, hanno la possibilità di venire mai a conoscenza che un loro dipendente è capace di scrivere (oltre che di concepire, ma lasciamo perdere) un testo simile? Hanno un qualche controllo effettivo di che cosa accade realmente nella scuola, nelle scuole? 2) e se sì, hanno il potere per esempio di iniziare all’istante un procedimento che porti in tempi ragionevoli all’allontanamento dal suo incarico di chi ha scritto l’obbrobrio di cui sopra? 3) Che razza di «Buona scuola» ci si deve aspettare da un’«autonomia» degli istituti scolastici invocata e decantata come la panacea di ogni male, che però poi può consegnare il destino di anche uno solo di essi nelle mani di uno scervellato semianalfabeta come l’autore dello scritto in questione?

29 maggio 2015 | 07:45
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Da - http://www.corriere.it/scuola/medie/15_maggio_29/circolare-circolari-fatele-circolare-1a8996ba-05c4-11e5-93f3-3d6700b9b6d8.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La svolta che Renzi deve fare
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2015, 05:16:53 pm
Dopo il voto
La svolta che Renzi deve fare
Dopo la battuta d’arresto elettorale il problema che Renzi ha davanti è chiaro: capire il segnale proveniente dalle urne e cambiare

Di Ernesto Galli Della Loggia

Dopo la battuta d’arresto elettorale il problema che Renzi ha davanti è chiaro: capire il segnale proveniente dalle urne e cambiare. Verosimilmente solo così potrà superare con successo lo scoglio delle prossime elezioni politiche (quando ci saranno), senza di che, egli lo sa bene, la sua carriera politica sarebbe virtualmente finita. Cambiare, dunque. E infatti pare che egli abbia detto «Tornerò a fare Renzi», cioè, sembra di capire, tornerò ad essere quello che nel giro di un anno, di slancio e senza fare compromessi, conquistò a suo tempo la segreteria del Pd e il governo del Paese.

Non è detto, però, che proprio questa sia la ricetta giusta. Il cattivo risultato elettorale del Pd sta a indicare, infatti, che forse proprio quel Renzi lì, quel personaggio e quei modi che hanno funzionato egregiamente nella fase della conquista del potere - un aspetto simpaticamente spigliato, capacità di trovare formule sintetiche per comunicare, una diversità accattivante rispetto al resto della classe politica, un piglio sbrigativo - quel personaggio e quei modi, dicevo, risultano forse assai meno utili quando si tratta di governare (non sarebbe del resto la prima volta). Si può ragionevolmente dubitare, ad esempio, che twittare in misura frenetica o frequentare i talk show di ogni risma affidando i propri messaggi politici a Barbara D’Urso sia il modo migliore per sostenere l’azione di governo.

Insomma, ciò che in questo anno al presidente del Consiglio non è riuscito troppo bene è il passaggio dal Renzi outsider «fiorentino» al Renzi «italiano» di Palazzo Chigi. Non è solo una questione di forma. Si prenda per esempio il caso della «squadra», dei suoi collaboratori più vicini. In questo caso specialmente sarebbe stato forse necessario un salto di qualità tra i due Renzi. Un salto di qualità che invece non sembra esserci stato. Peccato, perché gli uomini politici di rango, quelli che un Paese deve augurarsi di avere alla propria testa, si distinguono anche, se non specialmente, per questo aspetto: per il fatto di circondarsi di persone di valore, pur sapendo che all’occasione persone simili parlano fuori dai denti, potranno contraddirli. Ma le persone di valore sono preziose anche perciò: perché non si limitano solo ad obbedire. In politica come altrove la fedeltà è un’ottima cosa, infatti, purché però faccia rima con sincerità. Egualmente sarebbe meglio che coloro che in televisione parlano a nome del presidente del Consiglio, ne sostengono la causa, si sforzassero di farlo con maggiore capacità argomentativa, con minore ricorso a frasi fatte e a slogan che dopo un po’ mostrano la corda.

Collaboratori capaci, tratti da ambienti diversi, di solide competenze, servono a conoscere e a risolvere i problemi, a immaginare soluzioni adeguate, a essere il centro motore di una forte azione di governo, a produrre consenso. Servono a mantenere aperti canali di comunicazione con tutta la società italiana nelle sue mille e complesse articolazioni; e non soltanto con gli ambienti dell’industria e della finanza, nell’idea (sbagliata) che siano questi i soli ambienti che contano.

Ma da un presidente del Consiglio come Renzi l’opinione pubblica si aspettava soprattutto la novità dei contenuti. Sarebbe ingiusto dire che tali contenuti siano mancati. Alcune riforme significative sono state approvate (penso al Jobs act soprattutto) o messe in cantiere, anche se in alcuni casi tra i più significativi (ad esempio la riforma del Senato o quella della scuola) queste stesse riforme sono apparse prive di una sufficiente ispirazione di principio portata avanti con decisione e coerenza. Ma il punto decisivo, a me pare, è che questi contenuti non sono mai riusciti a saldarsi in un vero discorso al Paese e sul Paese: a trasformarsi cioè in un vero discorso politico in grado di suscitare nel pubblico quel senso di identificazione che diviene consenso elettorale.

Da questo suo giovane presidente del Consiglio spregiudicato e così pieno di vita l’Italia si aspettava sì dei fatti, delle iniziative concrete, ma anche qualcosa di simile, io credo, a un bilancio e a un esame di coscienza: le sole cose da cui è possibile che prenda avvio quel «nuovo inizio» di cui abbiamo bisogno. Di cui il Paese sa nel suo intimo di aver bisogno. Esso avrebbe voluto capire dalla sua voce perché ci troviamo nella situazione in cui ci troviamo, in che cosa abbiamo sbagliato, in che cosa possiamo sperare. Voleva sentire un discorso serio, alto, magari anche drammatico, ma che non fosse fatto solo di richiami all’ottimismo. Un discorso che evocasse il senso di un cammino da intraprendere, che indicasse una prospettiva in cui credere.

Da tempo, infatti, è come se avessimo perso il filo della nostra storia, dopo tutto una storia non indegna. Abbiamo bisogno di ritrovarlo: e alla fine un compito del genere solo la politica può assolverlo. Nel pieno di una stagione difficile l’Italia voleva, e vuole, una guida. Matteo Renzi ha oggi le carte in mano per esserlo più di qualunque altro: ma deve liberarsi di molte scorie e paradossalmente crederci di più. Con più consapevolezza, più autorevolezza, orizzonti più larghi.

21 giugno 2015 | 09:23
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_21/svolta-che-renzi-deve-fare-d6d32fba-17e5-11e5-b9f9-a25699cf5023.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il realismo saggio sui migranti
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2015, 07:47:30 pm
Integrazione e regole
Il realismo saggio sui migranti

Di Ernesto Galli della Loggia

L’ondata migratoria che sta arrivando sulle coste italiane è il fenomeno potenzialmente più dirompente sul piano sociale e politico che il nostro Paese si trova ad affrontare dopo il terrorismo. Esso riguarda sì l’Africa e l’Asia ma riguarda innanzitutto l’Italia, l’Italia che non fa figli. Degli immigrati noi abbiamo bisogno: altrimenti nel giro di pochi decenni la nostra economia si fermerà, e saremo condannati a divenire una società di vecchi poveri, senza pensione, isterilita, priva di energie vitali, di creatività. La demografia non è una favola, è una scienza: senza l’immigrazione ci avvieremmo ad una lenta ma irreparabile scomparsa. Quanti dei nostri concittadini ne sono consapevoli?

Noi tutti vogliamo invece che l’Italia viva. E che lo faccia restando il Paese che conosciamo e che si è costruito nei secoli della sua tormentata e lunga storia. Vogliamo legittimamente, insomma, restare italiani. Il che vuol dire, per esempio, con le consuetudini e i costumi che quella storia ha prodotto, e anche godendo di quel passabile livello di sicurezza di cui abbiamo finora sempre goduto nelle nostre città e sui nostri treni, di un livello passabile di decoro urbano, di una tranquilla confidenza nei rapporti sociali come più o meno è sempre stato. Tutto questo è però messo in pericolo - pensa una parte dell’opinione pubblica: in genere quella meno favorita dal punto di vista socio-culturale (questo elemento è politicamente importantissimo) - dall’immigrazione.

Forse sbaglia, ma non è certo con il rovesciarle addosso di continuo l’accusa di xenofobia e di razzismo o vacui inviti all’«accoglienza» che le si può fare cambiare idea: anche perché spesso i suoi timori, se non altro per ciò che le dice la sua personale esperienza quotidiana, non appaiono affatto infondati.

È principalmente a tali timori che deve rispondere la politica. Facendo quanto fino ad ora essa si è ben guardata dal fare: cioè innanzitutto dicendo finalmente al Paese quale strategia l’Italia intende adottare non per i barconi che arrivano oggi dalla Libia o per i disperati oggi accampati al Brennero o a Ventimiglia, ma domani e dopodomani e negli anni a venire di fronte al nostro calo demografico e agli immigrati che arriveranno comunque e di cui comunque avremo bisogno.

A mio giudizio l’obiettivo della suddetta strategia può essere uno solo: l’integrazione. Senza se e senza ma. È necessario far capire che l’alternativa non è altro che l’apartheid, sia pure in forma più o meno mascherata. Vale a dire che milioni di uomini e donne giunti da fuori vivano in permanenza tra noi, ci diano il contributo del loro lavoro, però in condizioni di inferiorità, senza i nostri diritti, senza le nostre possibilità e le nostre speranze. Magari scendendo un giorno nelle strade e mettendo tutto a ferro e fuoco per l’esasperazione: è davvero questo che vogliono coloro che pensano che «Salvini alla fin fine non ha tutti i torti» ?

Dunque l’integrazione: l’unica via per rendere compatibili l’immigrazione e la democrazia. Un’integrazione senza se e senza ma: cioè buttando a mare una buona volta tutte le chiacchiere insensate sulla società multiculturale e invece adottando consapevolmente l’obiettivo di fare degli immigrati altrettanti nuovi italiani. Ma al tempo stesso - si guardino le cose come stanno, con saggio realismo - rassicurando il più possibile quelli antichi che ciò non creerà alcuna frattura distruttiva nel panorama umano e culturale cui sono abituati. Il che richiede anche, io credo, l’adozione molto ferma di alcune misure repressive.

Mi espongo a ogni critica indicandone tre: 1) la cancellazione delle attenuanti e l’istituzione di un percorso giudiziario accelerato per quei reati che con più frequenza vedono coinvolti gli immigrati (in modo di arrivare in breve tempo alla sentenza ottenendo così il necessario effetto dissuasivo); 2) il divieto di usare una lingua diversa dall’italiano nelle funzioni religiose, tranne evidentemente per il testo delle preghiere e dei libri sacri; 3) infine, il divieto che in un qualunque edificio più della metà delle abitazioni siano stabilmente occupate da persone prive della cittadinanza italiana .

La cittadinanza è la questione cruciale. E visto che ci sono dirò la mia anche su questo come su altri argomenti funzionali all’obiettivo per me prioritario del «divenire italiani». Lo dirò con proposte concrete, se non altro per cercare di avviare una discussione pubblica non campata in aria, che ritengo quanto mai necessaria.
Andrebbe innanzitutto affermato il principio che se si nasce in Italia si è per ciò stesso italiani (i problemi di doppia cittadinanza si possono risolvere con il buon senso), e che dopo cinque/sette anni di residenza legale si può acquistare la cittadinanza previo un esame di lingua e di cultura italiane. Per il resto, dopo tre anni dal primo ottenimento del permesso di soggiorno, questo dovrebbe essere rinnovabile solo dopo un analogo esame. Dopo di che si ha diritto all’elettorato attivo e passivo per i consigli dei Municipi delle grandi città e per quelli comunali nei centri inferiori a ventimila abitanti.

Altri esempi delle misure possibili per andare nella direzione che auspico: incentivi e/o sgravi economici a tutti gli immigrati che intraprendono in proprio piccole attività artigianali o commerciali; convalida, previo un esame di equipollenza, dei titoli di studio rilasciati dai Paesi di provenienza a chi immigra in Italia; presa in carico parziale o totale da parte dello Stato delle spese per l’istruzione universitaria di giovani immigrati; adozione di un sistema di quote per favorire l’ingresso nelle pubbliche amministrazioni e nelle forze armate e di polizia di cittadini nati da genitori non italiani.

Naturalmente tutto ciò costa, è evidente. Ma non vedrei nulla da eccepire se, di fronte a una politica di solidarietà ambigua e reticente sul tema dell’immigrazione come quella che l’Unione Europea ha tenuta fino ad oggi, il nostro governo decidesse che d’ora in avanti sottrarrà dal contributo annuale che l’Italia versa al bilancio dell’Unione stessa una cifra pari all’ammontare di quanto necessario a finanziare le varie iniziative di cui sopra. Non è forse più in armonia con i grandi principi dell’Europa, tra l’altro, occuparsi della vita di chi arriva tra noi senza nulla, piuttosto che pagare un lauto stipendio a qualche migliaio di burocrati?

24 giugno 2015 | 08:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_24/migranti-italia-integrazione-realismo-saggio-ernesto-galli-loggia-028f9046-1a32-11e5-9695-9d78fe24c748.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La svolta che Renzi deve fare
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2015, 07:55:48 pm
La svolta che Renzi deve fare
Dopo la battuta d’arresto elettorale il problema che Renzi ha davanti è chiaro: capire il segnale proveniente dalle urne e cambiare
Di Ernesto Galli Della Loggia

Dopo la battuta d’arresto elettorale il problema che Renzi ha davanti è chiaro: capire il segnale proveniente dalle urne e cambiare. Verosimilmente solo così potrà superare con successo lo scoglio delle prossime elezioni politiche (quando ci saranno), senza di che, egli lo sa bene, la sua carriera politica sarebbe virtualmente finita. Cambiare, dunque. E infatti pare che egli abbia detto «Tornerò a fare Renzi», cioè, sembra di capire, tornerò ad essere quello che nel giro di un anno, di slancio e senza fare compromessi, conquistò a suo tempo la segreteria del Pd e il governo del Paese.

Non è detto, però, che proprio questa sia la ricetta giusta. Il cattivo risultato elettorale del Pd sta a indicare, infatti, che forse proprio quel Renzi lì, quel personaggio e quei modi che hanno funzionato egregiamente nella fase della conquista del potere - un aspetto simpaticamente spigliato, capacità di trovare formule sintetiche per comunicare, una diversità accattivante rispetto al resto della classe politica, un piglio sbrigativo - quel personaggio e quei modi, dicevo, risultano forse assai meno utili quando si tratta di governare (non sarebbe del resto la prima volta). Si può ragionevolmente dubitare, ad esempio, che twittare in misura frenetica o frequentare i talk show di ogni risma affidando i propri messaggi politici a Barbara D’Urso sia il modo migliore per sostenere l’azione di governo.

Insomma, ciò che in questo anno al presidente del Consiglio non è riuscito troppo bene è il passaggio dal Renzi outsider «fiorentino» al Renzi «italiano» di Palazzo Chigi. Non è solo una questione di forma. Si prenda per esempio il caso della «squadra», dei suoi collaboratori più vicini. In questo caso specialmente sarebbe stato forse necessario un salto di qualità tra i due Renzi. Un salto di qualità che invece non sembra esserci stato. Peccato, perché gli uomini politici di rango, quelli che un Paese deve augurarsi di avere alla propria testa, si distinguono anche, se non specialmente, per questo aspetto: per il fatto di circondarsi di persone di valore, pur sapendo che all’occasione persone simili parlano fuori dai denti, potranno contraddirli. Ma le persone di valore sono preziose anche perciò: perché non si limitano solo ad obbedire. In politica come altrove la fedeltà è un’ottima cosa, infatti, purché però faccia rima con sincerità. Egualmente sarebbe meglio che coloro che in televisione parlano a nome del presidente del Consiglio, ne sostengono la causa, si sforzassero di farlo con maggiore capacità argomentativa, con minore ricorso a frasi fatte e a slogan che dopo un po’ mostrano la corda.

Collaboratori capaci, tratti da ambienti diversi, di solide competenze, servono a conoscere e a risolvere i problemi, a immaginare soluzioni adeguate, a essere il centro motore di una forte azione di governo, a produrre consenso. Servono a mantenere aperti canali di comunicazione con tutta la società italiana nelle sue mille e complesse articolazioni; e non soltanto con gli ambienti dell’industria e della finanza, nell’idea (sbagliata) che siano questi i soli ambienti che contano.
Ma da un presidente del Consiglio come Renzi l’opinione pubblica si aspettava soprattutto la novità dei contenuti. Sarebbe ingiusto dire che tali contenuti siano mancati. Alcune riforme significative sono state approvate (penso al Jobs act soprattutto) o messe in cantiere, anche se in alcuni casi tra i più significativi (ad esempio la riforma del Senato o quella della scuola) queste stesse riforme sono apparse prive di una sufficiente ispirazione di principio portata avanti con decisione e coerenza. Ma il punto decisivo, a me pare, è che questi contenuti non sono mai riusciti a saldarsi in un vero discorso al Paese e sul Paese: a trasformarsi cioè in un vero discorso politico in grado di suscitare nel pubblico quel senso di identificazione che diviene consenso elettorale.

Da questo suo giovane presidente del Consiglio spregiudicato e così pieno di vita l’Italia si aspettava sì dei fatti, delle iniziative concrete, ma anche qualcosa di simile, io credo, a un bilancio e a un esame di coscienza: le sole cose da cui è possibile che prenda avvio quel «nuovo inizio» di cui abbiamo bisogno. Di cui il Paese sa nel suo intimo di aver bisogno. Esso avrebbe voluto capire dalla sua voce perché ci troviamo nella situazione in cui ci troviamo, in che cosa abbiamo sbagliato, in che cosa possiamo sperare. Voleva sentire un discorso serio, alto, magari anche drammatico, ma che non fosse fatto solo di richiami all’ottimismo. Un discorso che evocasse il senso di un cammino da intraprendere, che indicasse una prospettiva in cui credere.

Da tempo, infatti, è come se avessimo perso il filo della nostra storia, dopo tutto una storia non indegna. Abbiamo bisogno di ritrovarlo: e alla fine un compito del genere solo la politica può assolverlo. Nel pieno di una stagione difficile l’Italia voleva, e vuole, una guida. Matteo Renzi ha oggi le carte in mano per esserlo più di qualunque altro: ma deve liberarsi di molte scorie e paradossalmente crederci di più. Con più consapevolezza, più autorevolezza, orizzonti più larghi.

21 giugno 2015 | 09:23
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_21/svolta-che-renzi-deve-fare-d6d32fba-17e5-11e5-b9f9-a25699cf5023.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Una Ue mediocre risveglia le nazioni
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2015, 07:14:09 pm
Una Ue mediocre risveglia le nazioni
La pochezza delle classi dirigenti europee, che hanno creduto di poter fare a meno del consenso dei popoli, ha generato il fallimento.
Le istituzioni comunitarie hanno perso credibilità agli occhi dei cittadini, che le ritengono troppo lontane

di Ernesto Galli della Loggia

Per l’europeismo ufficiale — quello che da anni domina la retorica politicoburocratico-giornalistica — la sconfitta del voto greco non potrebbe essere più bruciante. Convinto in virtù dei suoi chilometrici trattati e delle sue brillanti politiche di poterla fare finita una volta per tutte con i nazionalismi europei, esso assiste oggi alla più violenta esplosione di sentimenti nazional / nazionalistici che il Continente abbia conosciuto dal 1945 in poi. Un’esplosione conseguenza diretta di quei trattati e di quelle politiche, e che quasi sempre, ahimè, si trascina dietro demagogie isolazionistiche, pulsioni xenofobe, fremiti di vario autoritarismo. Un bel risultato, non c’è che dire.

Un risultato non casuale. Esso infatti è la conseguenza del duplice fraintendimento che ha accompagnato tutta la vita della costruzione europea, e che costituisce il motivo conduttore di quel Manifesto di Ventotene che l’Unione continua inspiegabilmente a considerare come una sua pietra di fondazione. Il duplice fraintendimento è consistito e consiste: a) nel considerare ormai esaurita ogni funzione storica positiva dello Stato nazionale, e b) nel credere dunque che la semplice esistenza del suddetto Stato sia destinata a produrre inevitabilmente la patologia del nazionalismo. Partendo da questo erroneo giudizio, l’Europa non è mai riuscita a ragionare intorno a un dato decisivo: e cioè che nella concreta esperienza del continente lo Stato nazionale che essa intendeva «superare» era tuttavia, né più né meno, che il contenitore storico della sovranità popolare e della democrazia rappresentativa. E che dunque ogni colpo portato alla sua esistenza, ai suoi poteri, alla sua sovranità, ogni ampliamento dell’ambito di competenze comunitarie (figuriamoci poi nel caso della moneta!), rischiava di suscitare prima o poi una reazione tra i cittadini europei, per l’appunto in nome del sentimento democratico. Come infatti è puntualmente avvenuto e sta avvenendo dappertutto; come sempre più sicuramente avverrà. Questo è il segnale che giunge da Atene. Al limite l’oggetto del voto (l’austerità richiesta da Bruxelles) è un dato secondario. Ciò che conta è il carattere dirompente della contrapposizione: da una parte degli organi burocratici, dei conciliaboli riservati di ministri e primi ministri (senza pubblicità di dibattiti, senza composizioni formali: perché oggi, ad esempio, un incontro Hollande-Merkel da soli? Chi l’ha deciso?) e dall’altra la volontà popolare e la sua sovranità.

A questo siamo arrivati per colpa della pochezza delle classi dirigenti politiche europee che da vent’anni gestiscono l’Unione. Una pochezza che tra l’altro — almeno nel caso dei politici italiani — subito, appena questi siedono in qualche consesso europeo, si ammanta di una supponenza sussiegosa che poi dispiegano anche quando discettano di Europa una volta tornati a casa. E così, pur essendo essi, e solo essi, gli autori di trattati ritenuti in seguito unanimemente sbagliati, di politiche che hanno mancato l’obiettivo, di mostruosi progetti di costituzione mai andati in porto, sono qui ancora oggi che mentre tutto va in pezzi, invece di osservare almeno un cauto silenzio, si ergono a critici pensosi e sapienti dei loro stessi sbagli e delle loro stesse opinioni di ieri. L’Europa ha perso paurosamente di credibilità agli occhi dei suoi cittadini anche per questa diffusa irresponsabilità politica, contraria a ogni regola democratica: chi sbaglia non paga mai, e anzi continua a farla da maestro.

Ma è una pochezza che a ben vedere ha riguardato e riguarda, prima che gli uomini, entrambe le culture politiche finora egemoni nell’Europa occidentale del dopoguerra e quindi anche a Bruxelles: quella cristiano-democratica e quella socialdemocratica (nella quale sono poi confluiti gli ex comunisti). Nell’ambito europeo, sottratte a ogni vera competizione e avvolte nella morbida atmosfera del compromesso continuo, esse hanno trovato la sede elettiva per acquisire, insieme a una loro compiaciuta e definitiva ufficialità una completa spoliticizzazione. È come se frequentando l’Ue cristiano-democratici e socialdemocratici avessero smarrito ogni senso vivo della storia europea e della drammaticità dei suoi nodi peculiari (lo Stato nazionale, i vincoli di consenso posti dalla democrazia, ma anche il problema del confine orientale, il rapporto con la sponda sud del Mediterraneo, eccetera). Ogni senso vivo della storia innanzitutto politica dell’Europa. E del loro rapporto con essa.

Adagiatesi nel conformismo comunitario dell’ortodossia economico-sociale, le due principali culture politiche del Continente appaiono da anni incapaci di pensare nient’altro che la routine, di avere uno scatto d’immaginazione, un sussulto d’indignazione, di abbandonare le strade rivelatesi sbagliate: in fin dei conti di ricordarsi le ragioni per cui sono nate e degli elettorati che esse rappresentano.

Di fronte al precipitare della crisi greca, e poi al voto di domenica, è stato impressionante lo spettacolo offerto in particolare dalla sinistra europea: ascoltare le incertezze di Hollande e di Renzi, vedere la socialdemocrazia tedesca immediatamente pronta a proclamare la propria fedeltà alla cancelliera Merkel. Ma intendiamoci, un maggiore bagaglio di idee e di visione non hanno certo mostrato i loro avversari interni. Per restare in Italia, i vari Fassina, Vendola, D’Attorre, che cosa hanno saputo proporre se non vuoti slogan a base di «Una politica di sviluppo», «No all’Europa delle banche», «Sì a un’Europa democratica»? Già: ma come? Con quali regole? Con quali istituzioni? Nessuno lo sa.

7 luglio 2015 | 09:37
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Da -http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_07/unione-mediocre-risveglia-nazioni-15b176a0-2476-11e5-8714-c38f22f7c1da.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il caso Germania Le regole che non fanno la politica
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:26:00 pm
Il caso Germania
Le regole che non fanno la politica

Di Ernesto Galli della Loggia

A scadenza fissa la Germania torna a presentarsi come la detentrice del primato in Europa, e quindi come la candidata elettiva alla sua guida. Aggirato e rimosso in varie maniere, è questo il dato centrale da cui ogni discussione sull’unità europea, - ogni discussione vera, e cioè che non navighi nei cieli delle chiacchiere e delle buone intenzioni - dovrebbe partire. È un fatto: la Germania ha una naturale spinta a primeggiare - e di gran lunga - su tutti gli altri Paesi dell’area continentale (esclusa quindi la Gran Bretagna, fondamentalmente grazie alla sua antica insularità oceanica); e questa spinta a primeggiare tende, prima o poi, a trasformarsi in una volontà di strutturazione centralizzata dell’intera area europea sotto il comando di fatto di Berlino.

La spinta tedesca al primato nell’Unione Europea ha dunque un che d’inevitabile. Appartengono infatti alla Germania la popolazione più numerosa, le esportazioni più cospicue, l’economia più forte sostenuta da un’alta produttività, la tecnologia e la ricerca tra le più avanzate, strettissimi legami linguistici e/o culturali e quindi d’influenza con numerosi altri Paesi come Austria, Svizzera, Danimarca, Lettonia, Estonia; infine essa possiede una posizione geografica che la proietta immediatamente verso Oriente, fino alla Russia, con funzioni di naturale economia-guida se non di vera e propria leadership culturale. Da 150 anni l’Europa è chiamata a fare i conti con la potenza tedesca. Egualmente, da 150 anni la Germania cerca come giustapporre la sua potenza alla struttura tradizionale dell’Europa, cerca come rendere in qualche modo compatibile la prima con la seconda.
Per ben due volte nel corso del secolo scorso, nel 1914 e poi di nuovo nel 1939, la via scelta dalla potenza tedesca è stata come si sa la guerra: cioè la decisione di tradurre la propria potenza in dominio, di attuare «manu militari» il disegno di una grande sfera d’influenza e di conquista all’interno dello spazio europeo.

Oggi non siamo di fronte a nulla di simile, per fortuna. Ma la sostanza del problema di fondo è la medesima: quali rapporti possono esserci tra la Germania e l’Europa, tali da far combaciare il peso soverchiante della prima, i suoi modelli economici, culturali e ideologici, con le esigenze di autonomia del sistema degli Stati nazionali che caratterizza la seconda? Tali da far stare le due cose insieme? Il problema non sarebbe oggi così drammaticamente evidente se in tutti questi decenni del dopoguerra, da che è tornato ad essere il Paese principe dell’Europa, alla Germania fosse riuscita l’operazione di trasformare la sua crescente potenza, anziché in aspirazione al dominio, in esercizio di un’egemonia. In capacità di costruire un’egemonia.

Il dominio - sia che prenda una forma bellico-militare sia che prenda quella dell’imposizione di regole e vincoli economici - alla fine appare sempre a chi lo subisce l’espressione diretta di puri rapporti di forza, e pertanto qualcosa di duro, di autoritario, di necessariamente odioso. L’egemonia, viceversa, è la capacità di trasformare la potenza in una vasta e multiforme influenza indiretta, esportando modi di vita e di pensare, popolarizzando personaggi e luoghi-simbolo, modellando l’immaginario altrui secondo il proprio, dando forme nuove, le proprie, agli oggetti della quotidianità. L’egemonia, per capirci, è ciò di cui si sono mostrati e si mostrano supremamente capaci gli Stati Uniti: con Hollywood, Lincoln, i jeans, la Statua della libertà e la Coca-Cola.

Ma è proprio ciò di cui non si mostra capace la Germania. Rispetto all’Europa essa non riesce ad esportare altro che automobili e frigoriferi, riesce ad associare il suo nome solo all’aspirina e ai semiconduttori elettronici. Nessun europeo ha mai cantato una canzone tedesca, letto un libro giallo tedesco, o visto, tranne quelli con l’ispettore Derrick, un film tedesco. È vero, Berlino è un mito della gioventù europea ma, sospetto, molto più per il livello dei suoi servizi, il basso costo della vita e le generose opportunità economiche verso gli stranieri, che per la bellezza architettonica della Potsdamer Platz o per altro. Tra il Tiergarten e il Central Park continua a non esserci partita.

In tal modo alla Germania fanno difetto in Europa la generica simpatia, il consenso, che un tal genere di egemonia procura. E forse anche per questo essa non riesce a tradurre il suo potere economico in vera leadership politica: qualcosa di cui però essa per prima, paradossalmente, sembra non sapere che cosa sia e quasi non avvertire il bisogno. Trincerata dietro le sue ammirevoli performance produttive e l’altrettanto ammirevole qualità della sua vita civile, la Germania attuale appare ben poco interessata, infatti, a trasmettere un’immagine di sé che vada oltre questi aspetti. E così, nel modo come si propone all’esterno, essa appare fondamentalmente autoreferenziale, tutta riconducibile solo alle sue statistiche, incapace di proporre all’Europa una prospettiva che vada oltre il feticistico «rispetto delle regole» così ossessivamente richiamato in questi ultimi tempi.
Ma «il rispetto delle regole» può andar bene come norma fondamentale per un condominio, non per un progetto storico di una portata così ambiziosa come quello dell’unione del Continente. Con il rispetto delle regole non si è mai creato nulla, e mai nulla si creerà. Per questo ci vuole la politica, solo la politica: quella cosa fatta di passioni e di audacia, di lungimiranza e di creatività, e poi anche delle parole per dirlo, che nessuno avrebbe mai pensato che proprio la patria di Schiller e di Weber potesse mai dimenticare.

19 luglio 2015 (modifica il 19 luglio 2015 | 08:51)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_19/regole-che-non-fanno-politica-403c5dd8-2dde-11e5-804a-3dc4941ce2e9.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Sui migranti non servono Sermoni
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 11:22:06 am
Sui migranti non servono Sermoni
Di Ernesto Galli della Loggia

L’Italia è un Paese con una forte disoccupazione e un alto indice di povertà. Sono molti gli italiani che vivono male, in abitazioni insufficienti, che anche se hanno un lavoro non sanno come arrivare alla fine del mese, e non godono di nessun aiuto pubblico. Stando così le cose è mai ammissibile che l’Italia abbia davvero bisogno di vedersi arrivare decine di migliaia di immigrati, e che possa permettersi di impiegare le sue risorse per accoglierli? Non solo, ma dopo quanto è accaduto in Gran Bretagna e in Francia, con i giovani africani e asiatici di seconda generazione convertitisi allo jihadismo islamico e al terrorismo, è davvero ancora possibile credere all’integrazione?

Non sono io a fare queste domande. Me le hanno rivolte, in tono spesso infuriato, i lettori del Corriere: dai quali non ho mai ricevuto una quantità di lettere così critiche come quando ho scritto qualche settimana fa un articolo sulla necessità di far posto in Italia agli immigrati e ai rifugiati, praticando a loro favore una larga politica d’integrazione (Corriere , «Il realismo saggio sui migranti», 25 giugno).

Bene: alle domande critiche di cui sopra o ad altre analoghe potrei rispondere ribadendo più o meno le mie ragioni. Ma non voglio farlo, perché penso che ciò servirebbe solo a tacitare, almeno sulla carta, le ragioni dei lettori dissenzienti, che invece esistono e sono l’espressione di problemi e disagi reali, molto reali. Penso che sia più giusto, dunque, cercare di capire che cosa ci dicono tali ragioni, che cosa chiedono, per quali problemi domandano una soluzione. C hi protesta contro l’immigrazione lo fa mosso in genere da due stati d’animo molto forti: il senso d’insicurezza e il bisogno di eguaglianza.

L’insicurezza è prodotta dal vedere un estraneo comportarsi senza alcun riguardo verso la comunità di cui si fa parte. Per esempio orinare a proprio piacere contro i muri, ubriacarsi e schiamazzare a perdifiato, non pagare il biglietto sui mezzi pubblici, accamparsi nei parchi cittadini, vendere dovunque merce contraffatta, invadere gli spazi comuni (stazioni, marciapiedi) per dedicarsi apertamente al taccheggio, o tenere analoghi comportamenti: e però venendo sanzionato, bene che vada, solo una volta su mille. Per simili gesta, infatti, le forze dell’ordine e le polizie locali non solo non intervengono quasi mai, ma quando lo fanno la cosa di regola non ha alcun esito significativo.

Non so se i ministri dell’Interno e della Giustizia, i sindaci, si rendono contro che assecondando questo andazzo essi si assumono la grave responsabilità di contribuire ad esasperare lo spirito pubblico, ad eccitarlo al massimo contro gli immigrati. Se invece si trovasse il modo di intervenire contro le suddette infrazioni con frequenza e in senso immediatamente punitivo (sì, punitivo: guai ad aver paura delle parole), ciò avrebbe un importantissimo effetto di rassicurazione. Bisognerebbe per questo cambiare le leggi o non lo consente la Costituzione con i suoi tre gradi di giudizio? E allora? Se manteniamo un governo non è forse anche per cambiare le leggi e se occorre la Costituzione? Ad esempio per introdurre la possibilità di comminare, in sostituzione di pene pecuniarie spesso inesigibili, l’obbligo di eseguire lavori socialmente utili? Perché non pensarci? Il governo neppure immagina, mi pare, la molteplicità di effetti positivi che avrebbe sull’opinione pubblica vedere un passeggero abusivo o una taccheggiatrice costretti, che so, a spazzare una strada per una settimana o a cancellare le scritta dai muri di una scuola: nati in Italia o altrove non importa, naturalmente, ma non nascondiamoci che nel caso degli immigrati il valore di una simile politica sarebbe davvero strategico. Trasmetterebbe loro il messaggio che il primo obbligo che essi hanno, venendo in Italia, è quello di rispettare, come chiunque, le norme che regolano la nostra collettività. E ai nostri concittadini farebbe capire che in una situazione di confronto difficile con estranei che adottano comportamenti impropri (come fanno assai spesso gli immigrati, non nascondiamoci dietro un dito) essi non sono abbandonati a se stessi ma possono, al contrario, contare sull’aiuto efficace dello Stato.

Il secondo sentimento che specie negli strati popolari è colpito più negativamente dall’immigrazione è il sentimento della giustizia, ovvero il bisogno di eguaglianza. Ogni beneficio concesso agli immigrati è visto come qualcosa tolto agli italiani, gettando così le basi per una contraddizione, politicamente micidiale, tra spesa sociale e spesa per l’accoglienza, tra «noi» (che paghiamo le tasse) e «loro».

È sciocco negare che questa sensazione si basi su dati reali, riguardanti soprattutto i rifugiati e i richiedenti asilo: per i quali i regolamenti europei prevedono la concessione di varie provvidenze. Basti pensare che in Germania, quest’anno, la loro accoglienza peserà sul bilancio dello Stato per qualcosa come 6 miliardi di euro. Ma detto che è certamente urgente che l’Unione Europea restringa il numero di Paesi la fuga dai quali possa essere giustificata in base a «ragioni umanitarie» (è ammissibile ad esempio che ben 70 mila cittadini di Kossovo, Albania e Macedonia abbiano chiesto l’asilo in Germania per le suddette ragioni?), mi sembra comunque ancora più urgente un’altra misura. E cioè - riprendo un’idea lanciata da Giovanna Zincone sulla Stampa - che nel nostro Paese si stabilisca che ad ogni provvidenza erogata dallo Stato per gli immigrati o i rifugiati corrisponda un’erogazione di pari ammontare di beni e servizi ai territori che li accolgono (sotto forma di restauro di edifici, di nuove attrezzature pubbliche, di dotazione di asili e centri sociali, di miglioramento della pulizia e della vivibilità dei luoghi, ecc.).

Per sortire il loro effetto, tali erogazioni, però, aggiungo io, dovrebbero avere alcuni requisiti: essere fortemente e immediatamente visibili, realizzare il proprio scopo in tempi brevi, infine essere gestite direttamente dal governo centrale (magari per il tramite dei prefetti: altro che «rottamarli»!), al fine di evitare loro eventuali «manipolazioni» e occultamenti distorsivi ad opera dei poteri politici locali e di conferire all’iniziativa il suo necessario carattere «nazionale». Bisogna convincersi che esser ostili in linea di principio al fenomeno migratorio, vederlo con apprensione, può essere sbagliato (come io ritengo), sbagliatissimo, ma è del tutto legittimo. Sta perciò a chi è favorevole pensare e adottare misure concrete per attenuare o cancellare una tale ostilità. Misure concrete però, concrete: non sermoni buonisti sull’obbligo dell’«accoglienza» che lasciano il tempo che trovano.

2 agosto 2015 (modifica il 2 agosto 2015 | 08:30)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_02/migranti-non-servono-sermoni-editoriale-galli-loggia-de84c13c-38de-11e5-b1f9-bf3f6fff91aa.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La «vigilanza» dell’Enac sull’inferno di Fiumicino
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 11:32:49 am
La «vigilanza» dell’Enac sull’inferno di Fiumicino

Di Ernesto Galli della Loggia

Riflettete sulla capacità d’analisi, sulla preveggenza dell’Enac (Ente nazionale aviazione civile: presidente, da soli 13 anni, Vito Riggio). Che l’altro ieri ha convocato - ma con comodo, per il 6 agosto, tanto che fretta c’è - i responsabili di Aeroporti di Roma, proprietari e gestori dello scalo di Fiumicino, per comunicare agli stessi che «serve un maggior rinforzo di personale per le riparazioni e le manutenzioni» dell’aeroporto, e «occorre una vigilanza costante e continua di tutti gli apparati». Non basta: il coraggioso Riggio è arrivato ad affermare che il blackout di giovedì «evidenzia anche qualche pecca non proprio contingente dello scalo». Pensa tu!

È in questo modo che in Italia l’amministrazione, lo Stato, il governo concepiscono il controllo nei confronti dei privati incaricati o concessionari di pubblici servizi (dalle autostrade, all’energia, alle telecomunicazioni: quasi sempre venduti loro a prezzi stracciati dallo Stato stesso). Ed è a causa di questa vigilanza alla buona, di fatto collusa con i sorvegliati, che tutti quei servizi sono ormai precipitati al livello d’incuria, d’inefficienza e di abuso permanente ai danni dei cittadini, che sappiamo.

Non solo in queste ore, ad esempio, Fiumicino è un luogo infernale. Non solo oggi nei suoi spazi è impossibile camminare senza essere spintonati e assordati da un vocio costante, è impossibile trovare un posto dove sedersi, dove fare la pipì senza percorrere chilometri, è un’impresa reperire un banco informazioni. Di regola, insomma, lo spazio a disposizione dei passeggeri è ormai ridotto al minimo. Per una semplice ragione: perché la sete di profitto ha spinto sempre di più Aeroporti di Roma ad affittare ogni minimo angolo riempiendo tutto di negozi, magazzini, attività commerciali. Con buona pace dell’Enac: tanto per il suo presidente, quando deve viaggiare, c’è sempre la saletta vip.

1 agosto 2015 (modifica il 1 agosto 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_01/vigilanza-dell-enac-sull-inferno-fiumicino-99782c8c-380c-11e5-90a3-057b2afb93b2.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Le parole sul Sud che nessuno dice Serve una rottura
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2015, 11:20:12 am
La rottura che serve
Le parole sul Sud che nessuno dice
Serve una rottura
Deputati e concittadini del Mezzogiorno devono rivendicare che lo Stato è anche legge e diritti uguali per tutti, non solo sperpero di soldi

Di Ernesto Galli della Loggia

«Lo Stato non è solo le sue risorse economiche, i finanziamenti pubblici. Lo Stato è anche la legge e i diritti eguali. Cioè il contrario del dominio degli interessi privati o di clan, il contrario dell’evasione fiscale generalizzata, del clientelismo, della logica della raccomandazione a spese del merito, dello sperpero del pubblico denaro. Ci piacerebbe che i nostri concittadini del Mezzogiorno d’Italia se lo ricordassero e ce lo ricordassero più spesso. E che dunque, ad esempio, fossero loro per primi, i loro deputati, le loro assemblee locali, a chiederci sì più spesa pubblica, ma anche un’azione sempre più energica delle forze dell’ordine, un controllo sempre più incisivo da parte degli organi dello Stato sulla vita sociale delle loro contrade, contro quelli di loro, e Dio sa quanti sono, i quali pensano e agiscono in modo ben diverso. Che contro tutti questi ci chiedessero, loro, più severità, più intransigenza. Perché invece ciò non accade ormai se non rarissime volte?

Il problema del Mezzogiorno, del suo mancato sviluppo, non è anche questo silenzio della grande maggioranza della società meridionale, a cui da tempo fa eco colpevolmente il silenzio e il disinteresse del resto del Paese? Non è da qui che bisogna allora ricominciare?».

Sono queste le parole che mi sarebbe piaciuto sentir dire da Matteo Renzi venerdì scorso alla direzione del Pd, parlando delle condizioni del Sud, al posto del «rottamare i piagnistei» e dello «zero chiacchiere» con cui invece ha condito il suo discorso. L a rottura decisa rispetto al passato di cui il nostro Paese ha bisogno dovrebbe essere, infatti, anche una rottura nel linguaggio. E non già, come si capisce, verso il basso, verso i tweet e gli hashtag, bensì verso l’alto, verso la dimensione in cui si esprimono per l’appunto quelle visioni generali nuove e audaci di cui abbiamo bisogno. Di cui ha bisogno in modo tutto speciale il Mezzogiorno.

L’inizio del cui declino attuale coincide con l’inizio della crisi che dagli anni Novanta del secolo scorso - combinando elementi nazionali e internazionali, assommando il post-sessantottismo ai più vari diktat dell’Europa di Bruxelles - va disintegrando lo Stato italiano storico, formatosi con il Risorgimento e durato fin verso la fine della Prima Repubblica. È la crisi che da oltre un ventennio va mangiandosi tutte le strutture amministrative del nostro vecchio Stato, tutti i suoi abituali ambiti d’azione di un tempo (dall’istruzione al controllo sugli enti locali, alla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico), per effetto del trionfo delle retoriche (e delle prassi) decentralizzatrici, sindacal-partecipative, democraticistiche, antimeritocratiche. È la crisi che ha inghiottito anche tutte le culture politiche del Novecento italiano, tutte le loro premesse storico-ideali, nonché naturalmente tutti i partiti che esse avevano prodotto. Ed è infine la crisi che ha spinto ad accettare il dogma della privatizzazione, l’«andare sul mercato», di quasi tutte le reti nazionali di servizi (dalla rete ferroviaria e delle stazioni, alle Poste, agli aeroporti, alle autostrade) con il loro crollo qualitativo per il pubblico indifferenziato e il loro riorientamento classista a favore di chi può spendere; che ha spinto a considerare inammissibile qualunque ruolo sociale o economico diretto dello Stato, o quasi.

È in tutti questi modi che nell’ultimo venticinquennio quello che ho chiamato lo Stato italiano classico è andato decomponendosi.

Ora, il problema del Mezzogiorno, la «questione meridionale», era precisamente la questione di quello Stato, la principale sfida alla sua esistenza, il massimo dei suoi problemi storici, a cominciare da quello del consenso. E infatti fino a venticinque anni fa, fin quando quello Stato è esistito, il Mezzogiorno è stato sempre sentito dalle classi dirigenti italiane come un ineludibile banco di prova. Dalle classi dirigenti e, si può ben dire, dall’intera cultura storica e politica nazionale; la quale ha sempre considerato necessario per il progresso del Mezzogiorno due cose: da un lato l’apertura di un forte conflitto sociale e politico all’interno della stessa società meridionale (condizione resa a suo tempo finalmente possibile dall’avvento della democrazia repubblicana), dall’altro l’intervento deciso in tale conflitto di un attore esterno a fianco dei «buoni» contro i «cattivi»: fossero gli operai del Nord alleati immaginari dei contadini del Sud, fosse un’altrettanto immaginaria piccola imprenditoria antinotabilare, ma alla fine sempre e soprattutto lo Stato. Lo Stato i cui protagonisti politici del Novecento, in un modo o nell’altro, non a caso ebbero tutti dietro quella cultura storica e politica che ho appena detto: Mussolini il meridionalismo vociano e nittiano, il popolare trentino De Gasperi l’ispirazione del siciliano Sturzo, il comunista piemontese Togliatti la lezione del sardo Antonio Gramsci.

Il Mezzogiorno è precipitato nell’irrilevanza, si è avvitato nella decrescita, è scomparso come «questione», nel momento in cui si è dissolto questo complesso nodo storico al cui centro c’era lo Stato nazionale italiano: perché innanzi tutto si è dissolto questo Stato e per effetto di una tale dissoluzione.

Ho però l’impressione che per tutti questi discorsi il nostro presidente del Consiglio non abbia molto interesse. Che sia assai lontana dal suo pensiero l’idea che per raddrizzare le sorti del Mezzogiorno la prima cosa da fare sia, come io invece credo, riprendere in mano, ricostruire, dove occorra accrescere, la macchina dello Stato, ristabilire il significato culturale e politico dei suoi tradizionali ambiti d’azione, la sua efficienza, la sua capacità di controllo e d’intervento capillare, anche la sua forza repressiva. A Matteo Renzi, piace di più immaginare che costruire l’Alta Velocità fino a Reggio Calabria, questo sì cambierà le cose (ma perché non le ha cambiate la costruzione dell’autostrada? Perché?). Ai miei occhi è la prova che di quella parte del Paese che governa egli non conosce molto, forse non l’ha mai neppure troppo frequentata. Se avesse visto di persona, infatti, anche una sola volta, come gli abitanti e le autorità dell’intera costa che da Maratea va fino a Pizzo hanno ridotto quei luoghi, gli sarebbe venuto almeno il sospetto, sono sicuro, che il suo Frecciarossa non servirà assolutamente a nulla.

9 agosto 2015 (modifica il 9 agosto 2015 | 09:14)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_09/parole-sud-che-nessuno-dice-serve-rottura-a22c41f4-3e5d-11e5-9ebf-dac2328c7227.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Le urla inutili sui migranti
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 04:57:14 pm
Le urla inutili sui migranti
Quando impreca contro l’«invasione» la Destra italiana sembra fare di tutto per dimostrare il suo vuoto politico. Prima di impartire lezioni così aspre la Chiesa dovrebbe invece essere sicura di avere sempre evitato calcoli e silenzi prudenti

Di Ernesto Galli della Loggia

Quando impreca contro «l’invasione degli immigrati» la Destra italiana sembra fare di tutto per dimostrare che la sua cifra essenziale resta il vuoto politico, l’inesistenza di idee e di programmi. A cui essa supplisce con appelli all’emotività, con il dar voce crudamente a «ciò che pensa la gente». Il che può anche essere giusto, ma cessa completamente di esserlo quando poi ci si guarda bene — come essa per l’appunto si guarda bene — dall’offrire ai sentimenti e alle opinioni suddetti la minima soluzione sensata, qualunque sbocco che non sia un no cieco, il chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Che cosa propone di fare Matteo Salvini, ad esempio, quando l’Sos di una zattera di disperati semisommersa dalle onde arriva a un nostro centro radio? Ce lo dica: in concreto non a chiacchiere, che cosa si dovrebbe fare? Lasciarli affogare e chiuderla lì? Magari speronarli per fare prima? E una volta raccolti dove li si porta? «Indietro»: indietro dove? Sulle coste libiche che sono terra di nessuno? per sbarcare sulle quali ci vuole un’operazione militare in piena regola, magari da replicare dieci volte a settimana? È questo che propone Salvini?

Anche l’altra panacea sempre evocata dal capo leghista e dai suoi — «aiutarli a casa loro» — sembra alquanto nebulosa. I migranti arrivano da territori vastissimi, alcuni in stato di guerra. Che cosa si suggerisce di fare? Di dare alcuni milioni di euro ai più truci governi e poteri locali perché ci facciano il piacere di trattenerli? Di impiantare (così, senza essere invitati?) in quelle immense contrade (dal Corno d’Africa al Golfo di Guinea: milioni di chilometri quadrati) uno, due, cento Centri di qualcosa per cercare di dissuadere chi se ne vuole andare dal farlo?
Ma come, concretamente? Servendosi di quali e quanti mezzi? Un tale balbettio non vede coinvolta però solo la Destra leghista e parte di Forza Italia. Sul tema dell’immigrazione Beppe Grillo, infatti, pensa e parla esattamente come Salvini. Quel balbettio esprime dunque una più vasta diseducazione politica di una parte importante del Paese. Che non ama soffermarsi a riflettere su alcun problema in termini di soluzioni possibili, di modi realistici per attenuarne le conseguenze negative, ma la fa sempre facile, proponendo rimedi immaginari che esistono solo nella sua testa. E ogni volta sembra interessato solo a trovare un nemico contro cui scagliarsi.

È un’idea della politica autoreferenziale, ciecamente legata a quello che essa crede il proprio tornaconto, interessata solo alle contrapposizioni plateali. Quella politica, per l’appunto, che ha autorizzato il segretario della Conferenze episcopale italiana, monsignor Galantino, a definirne gli esponenti «piazzisti da quattro soldi che pur di raccattare voti dicono cose straordinariamente insulse». Vero. Ma forse per impartire lezioni così aspre bisognerebbe anche essere assolutamente sicuri di parlare in nome di un’ispirazione e di una prassi politiche del tutto scevre di calcoli e di silenzi prudenti, improntate solo alla verità e all’equità. In specie su un tema come quello dell’immigrazione, che per sua natura vede in gioco una molteplicità di cause e di attori, e quindi di responsabilità. E invece mi sembra di non aver mai sentito una coscienza pur necessariamente universale, come quella cui dà voce monsignor Galantino, esprimersi sul conto dei governi dei Paesi africani, ad esempio, con lo stesso piglio ultimativo, con lo stesso tono moralmente deprecatorio usati ogni giorno nei confronti dei governi dei Paesi europei. Eppure, se da un punto di vista cattolico questi ultimi appaiono colpevoli di uno scarso spirito di accoglienza, non hanno forse molte colpe e responsabilità anche i governi dei Paesi africani da cui proviene una così larga massa degli immigrati?
Si tratta troppo spesso di governi nelle mani di personalità inadeguate, di cricche tribali, di militari violenti e guerrafondai, tutti di solito volti ad arricchirsi mettendo le mani su ogni risorsa possibile a cominciare dagli aiuti internazionali, del tutto disinteressati a migliorare le condizioni dei propri cittadini, perlopiù oppressive e violente talora in modo inaudito.

Credo bene che ci sia chi voglia o debba fuggire via! Ma se è così, non crede forse monsignor Galantino che governi del genere meritino una rampogna aspra e insistita perlomeno analoga a quella riservata ai governi, ai politici e alle opinioni pubbliche occidentali? Una rampogna che però, come dicevo, non mi sembra di avere mai udita.
Cercare di mettere la discussione sul terreno delle cose da fare, delle misure concrete e possibili, delle ragionevoli strategie di medio e lungo periodo da adottare: questo è ciò che a proposito del fenomeno migratorio ci serve. Unicamente e urgentemente questo. La Grecia insegna che i voti acquistati con la demagogia sono voti avvelenati. Ma neppure bastano i precetti morali, sia pure i più nobili, a governare le difficili cose di questo mondo.

12 agosto 2015 (modifica il 12 agosto 2015 | 09:19)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_agosto_12/urla-inutili-migranti-fbed6136-40b1-11e5-a6d2-d8f2ee303642.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Sovranità nazionali L’Europa che Merkel non vuole
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2015, 05:24:07 pm
Sovranità nazionali
L’Europa che Merkel non vuole

Di Ernesto Galli della Loggia

Che la cancelliera Merkel e il ministro Schäuble abbiano ieri caldamente invitato il Parlamento tedesco a dare il via libera al prestito europeo (con partecipazione del Fondo monetario) alla Grecia di 86 miliardi di euro non sorprende certo. Così come non sorprende che, salvo qualche defezione, il Bundenstag abbia dato loro retta votando in conformità. Infatti, dopo settimane di dure trattative nelle quali il governo Tsipras, messo con le spalle al muro, si era alla fine detto disposto ad accettare il programma di radicali riforme interne richiesto per la concessione del prestito dai vertici europei (ma specialmente da Berlino), un no tedesco sarebbe apparso non solo incomprensibile economicamente (anche perché perlopiù i soldi in questione non andranno affatto nelle tasche dei greci bensì da queste passeranno immediatamente in quelle dei loro creditori; come nel primo salvataggio, di cui hanno beneficiato proprio istituti tedeschi).
Un no tedesco sarebbe apparso soprattutto politicamente autolesionistico, dal momento che avrebbe aperto una crisi profonda dagli esiti incerti nell’intera Unione Europea, mettendo dunque radicalmente in forse la leadership che in tutta la vicenda greca ha esercitato abilmente la Germania, alternando minacce e spirito di conciliazione.

Una Germania, peraltro - non si può fare a meno di osservare - che è subito passata per così dire all’incasso. È proprio di queste ore, infatti, la notizia della ratifica del passaggio di 14 aeroporti greci tra i più redditizi, per l’appunto, alla società tedesca Fraport. Si tratta di aeroporti che il governo greco è stato obbligato a privatizzare per adempiere alle richieste dei suoi creditori europei e in omaggio alle regole europee ostili in linea di massima alla proprietà pubblica di attività economiche. Ma anche qui non si può tacere sulla bizzarria di una privatizzazione imposta ad Atene, che alla fine però torna a vantaggio non già di una qualche impresa privata, come sarebbe stato logico attendersi, bensì di una società pubblica quale è precisamente la suddetta Fraport, la cui maggioranza azionaria si dà il caso che sia nelle mani del governo dell’Assia e della città di Francoforte. Evidentemente un’impresa pubblica greca è una cosa, ma se la stessa pur restando sempre pubblica è tedesca, allora è una cosa tutta diversa.
Così dunque funziona il governo delle regole all’interno della Ue, sulle quali la Germania sta costruendo da tempo la sua incisiva guida nell’ambito dell’Unione (e forse anche qualcosa d’altro).

Peccato che si tratti di una guida politicamente sterile, destinata a non far fare alcun vero salto avanti all’Unione, ma semmai ad accrescere il discredito già forte, di cui questa oggi già gode in parti considerevoli delle opinioni pubbliche. Le regole di cui la Germania si fa incessante paladina, infatti, sono regole che riguardano unicamente i dati economici e le politiche economiche rigidamente intese. Ma proprio perché fondata su tali parametri, sulle regole e sui relativi trattati, la leadership tedesca si iscrive tutta in una prospettiva di processualità: come del resto era quella di cui l’euro avrebbe dovuto essere al centro quando si sperava che esso avrebbe magicamente prodotto la transizione dall’unione economico finanziaria a quella politica.
Oggi sappiano che era una speranza fallace. Perché il vero problema dell’Unione, il salto necessario - quello che deciderà della sua vita o della sua morte - ha una natura radicalmente politica e insieme istituzionale. Non si iscrive in alcuna processualità economica, ma al contrario esige una rottura. Non richiede alcuna applicazione di regole già in vigore, ma la creazione di regole nuove e altre. Alla politica si arriva solo dalla politica.

Ma da questo orecchio Berlino non ci sente, così come neppure la sua voce si sente (al pari di quella di tutte le altre capitali, bisogna onestamente aggiungere). Si capisce perché. Per essere tale il salto politico in questione, infatti, non può che porre in modo esplicito il problema cruciale della sovranità: di una cessione eguale e concordata di sovranità da parte dei vari Stati nazionali. Che però avrebbe l’effetto assai probabile, con l’entrata in gioco di fattori inediti, di ricombinare in modo nuovo e imprevedibile gli attuali rapporti di forza che vedono la Germania favorita: esponendola quindi ad un eventuale ridimensionamento di rango. Mentre finché si sta sul terreno dell’euro e dell’economia il suo dominio è assicurato. Anche se si tratterà sempre di un dominio contabile, da ufficio di ragioneria: nulla a che fare con quell’egemonia generosa, coraggiosamente ideale, a cui solo una grande visione politica può dare vita.

20 agosto 2015 (modifica il 20 agosto 2015 | 07:23)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_20/europa-che-merkel-non-vuole-eaf01ce6-46f8-11e5-aa5e-2130add6a46c.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Vincoli e debolezze che ci paralizzano
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2015, 04:58:02 pm
Vincoli e debolezze che ci paralizzano

Di Ernesto Galli della Loggia

Si susseguono sullo scenario italiano ed europeo, per non dire mondiale, i segnali di crisi riguardanti assetti complessivi delicatissimi. Equilibri che credevamo in qualche modo stabili, dapprima lentamente, e poi con un moto progressivamente accelerato, hanno cominciato ad alterarsi e sembrano avvicinarsi tutti, in un modo o nell’altro, a un punto di rottura. Ne cito quattro che mi sembrano i più importanti.
 1) La migrazione di masse umane sempre maggiori verso i Paesi più o meno sviluppati del Pianeta (non si tratta solo di quelli dell’emisfero Nord: è coinvolta anche l’Australia, e questo è noto, ma pure un Paese come il Sudafrica). I dati sono ormai conosciuti e impressionanti: basti dire che si prevede che quest’anno le richieste di asilo raggiungeranno nella sola Germania la cifra di 800 mila.
2) La «tempesta demografica perfetta», come è stata definita, che si sta abbattendo sull’Europa sotto i nostri occhi perlopiù indifferenti. Nell’Ue - dove la Germania detiene il record della più bassa natalità mondiale: 8,2 nascite ogni 1.000 abitanti - per ogni donna vedono la luce appena 1,55 bambini. Ai ritmi attuali, per dirne una, in Spagna ogni nuova generazione conterà in futuro un numero di individui inferiore del 40 per cento rispetto a quella precedente.
3) Le trasformazioni climatiche e, spesso connesso a queste, il degrado ambientale, fenomeno particolarmente grave in Italia; più in concreto: inquinamento, cementificazione del territorio, deforestazione selvaggia, dissesto geologico, esaurimento delle risorse idriche, crescita esponenziale dei rifiuti.
4) Infine, i mutamenti radicali nell’ambito del lavoro. È pressoché certo che
i nostri sistemi economici stanno andando verso un’incapacità strutturale di assorbire l’offerta di lavoro disponibile. La robotica applicata ai processi industriali e la telematica sempre più diffusa nel settore dell’impiego e dei servizi stanno eliminando un numero alto e crescente di posti di lavoro, destinati per chissà quanto tempo a restare scoperti. È facile immaginare le conseguenze politiche ma anche economiche (ad esempio, sulla domanda complessiva) di un fenomeno del genere. Ecco dunque quattro scenari che definiscono il tempo avvenire, ma già assai prossimo a noi, come un tempo di crisi destinato prevedibilmente a rappresentare un vero e proprio salto di epoca storica. A fronteggiare il quale in prima fila saranno chiamate le nostre società e i loro regimi politici. È allora naturale chiedersi fino a che punto tali regimi siano attrezzati per tentare di assolvere un simile compito.

La sola domanda sembra già contenere una risposta negativa. Nella nostra vita politica (un po’ di tutti i regimi democratici, non parliamo poi dell’Italia) manca, infatti, qualsiasi istanza, qualsiasi organismo deputato a riflettere, prevedere e magari programmare qualcosa sui tempi medio-lunghi. Le democrazie europee vivono giorno per giorno. I loro esponenti, alle prese con scadenze elettorali più o meno continue e ravvicinate, possono pensare solo a quanto succederà fino a quel giorno. Al futuro ci penserà il prossimo governo.

Si vede qui quanto pesi il vincolo del consenso. Infatti, anche se ci fosse l’attenzione (che invece non c’è) per le avvisaglie di crisi epocale a cui ho accennato sopra, le misure eventualmente volte a farvi fronte per tempo - implicando problemi molto complessi e di lungo periodo che presumibilmente richiedono grandi investimenti di risorse che tuttavia non recano vantaggio ad alcun interesse organizzato qui e ora - ben difficilmente avrebbero mai la possibilità di entrare nell’agenda di un qualunque governo. Non solo, ma il vincolo del consenso proprio della democrazia agisce ancora in un altro modo, forse ancora più paralizzante, nell’ostacolare la capacità da parte delle nostre società di affrontare le questioni critiche che ci stanno davanti. In parte notevole, infatti, tali questioni implicano valori e comportamenti eminentemente individuali (per esempio, nel caso della fertilità come del consumo selvaggio di suolo o di risorse naturali) che dovrebbero dunque mutare in misura significativa. Ma può proprio la democrazia - la quale nella nostra versione liberale è ormai identificata con una sempre più autonoma manifestazione della soggettività - sperare di riuscire a influire in senso prescrittivo sul modo d’essere e d’agire dei singoli? E con quali strumenti?

In realtà nulla come gli scenari di crisi che incombono sul nostro futuro prossimo - richiedendo un impegno arduo di tutti, di lunga lena e di scarsissimo appagamento nell’immediato - mettono in luce due gravi punti deboli del regime politico e della società in cui viviamo. Il primo consiste nell’assenza di un sentimento collettivo di appartenenza e di destino, riferito a un ethos condiviso dai più. Quel sentimento e quell’ ethos che un tempo avevano la loro premessa tipica nella fede religiosa o nel patriottismo: due cose che i grandi padri della democrazia hanno sempre ritenuto in qualche modo essenziali per l’esistenza di questa, per la sua capacità di affrontare i compiti più difficili, di riconoscersi in un’impresa comune. Due cose che però la secolarizzazione individual-cosmopolita ormai dominante non ha sostituito con niente di analogo valore.

La seconda cosa che ci manca - che manca al sistema politico delle nostre democrazie - è l’esistenza di una sorta di «potere neutro», cioè di un potere designato sì, ma non solo per via politica, e indipendente dal meccanismo e dalle scadenze del consenso elettorale (sul tipo per intenderci della Corte suprema americana: fondamentale è la durata a vita dell’incarico). Il quale grazie al prestigio riconosciutogli fosse in grado di svolgere non solo una funzione forte di orientamento sull’opinione pubblica, ma per esempio avesse anche il potere d’imporre argomenti specifici nell’agenda degli organi deliberativi (non solo di quelli centrali ma anche di quelli locali) ovvero, a certe condizioni, di sospendere l’iter deliberativo degli organi suddetti in attesa di maggiori approfondimenti.

Disgraziatamente è arcisicuro che invece le nostre democrazie resteranno quelle che sono. E si avvieranno a occhi bendati, come oggi stanno facendo, verso le tenebre del futuro.

31 agosto 2015 (modifica il 31 agosto 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_31/vincoli-debolezze-che-ci-paralizzano-bc2abbec-4f9e-11e5-8a95-dfd606371653.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La memoria tedesca e la svolta di Angela Merkel
Inserito da: Arlecchino - Settembre 08, 2015, 04:38:46 pm
Questione migranti
La memoria tedesca e la svolta di Angela Merkel

Di Ernesto Galli della Loggia

L a cancelliera Merkel non è una reincarnazione tedesca del dottor Jekyll e Mister Hyde: una santa donna o un’inflessibile virago a seconda che si tratti di aprire le porte ai rifugiati del Medio Oriente o di chiedere i conti a quegli scialacquatori di greci. Essa è l’attento e intelligente capo politico di un grande Paese che ha interessi, ambizioni, progetti. Che soprattutto ha una forte consapevolezza di sé e del proprio ruolo, insieme però a lunga memoria della propria storia. Una lunga, indelebile, memoria. Quella fotografia del bimbo siriano riverso senza vita sulla riva turca deve aver ricordato immediatamente alla cancelliera quella di un altro bambino, questa volta ebreo, ripreso tra le fiamme del ghetto di Varsavia, nel 1942, con le mani alzate in un patetico segno di resa alla ferocia della soldataglia nazista. Merkel ha capito che quell’immagine, e poi l’immagine di quelle colonne di disperati in fuga tra fili spinati e vagoni piombati, e poi ancora quella della loro corsa verso la terra promessa di un’irraggiungibile Germania, stavano sul punto di coinvolgere pericolosamente il suo Paese in una sorta di remake storico di una violenza simbolica insopportabile. Forse ha anche ricordato, lei figlia della Ddr comunista, di quando i suoi concittadini cominciarono a segnare la fine del regime recandosi a migliaia sotto le mentite spoglie di turisti proprio a Budapest, dove si accamparono sotto l’ambasciata della Bundesrepublik per chiedere un visto d’ingresso verso la libertà. Ancora drammatici ricordi insomma. Ancora ciò che stava accadendo minacciava di mettere in gioco non tanto l’immagine dell’Europa quanto, per una singolare logica del contrappasso, quello della Germania. Era sul punto di tramutarsi in un boomerang contro Berlino e il suo governo: i politici di rango certe cose le capiscono in un attimo. Per istinto. E agiscono.

Ecco allora che con un colpo a sorpresa la cancelliera ha deciso di aprire ai disperati le porte del suo Paese. Con un gesto che in qualche modo è la prosecuzione emblematica di quello compiuto nel dicembre del 1970 da Willy Brandt, quando s’inginocchiò a Varsavia davanti al memoriale delle vittime del ghetto. Con un gesto che per l’appunto chiude il cerchio: dopo il perdono chiesto allora agli ebrei, alle sue vittime per antonomasia, la Germania oggi addirittura apre le braccia ai reietti della terra, diviene lei una novella Sion per i nuovi perseguitati.
Ottenendo peraltro con ciò un enorme guadagno politico: e anche questo, io credo, la cancelliera deve averlo subito intuito. D’un tratto, infatti, Il Paese che nell’ambito dell’Unione Europea è stato considerato da sempre come attento soprattutto al rigore finanziario e ai suoi interessi economici, il Paese che da sempre ha avuto il problema di trasferire la sua potenza produttiva in un rango politico corrispondente, che ha incontrato una costante difficoltà a far riconoscere ed accettare la propria leadership, è divenuto l’indiscussa guida del continente. E lo è divenuto grazie all’esibizione di un’alta ispirazione morale: capace di costringere l’Inghilterra di Cameron, così tradizionalmente gelosa della sua diversità, ad adeguarsi benché solo in parte, precipitosamente; d’indurre il patetico Hollande a immaginare di infliggere improbabilissimi sfracelli militari alla Siria di Assad pur di far vedere che la Francia ancora esiste.

È difficile dire, però, se tutto questo segna davvero un nuovo inizio. È difficile prevedere, infatti, se Merkel e l’élite tedesca (una democrazia non è governata certo da una persona sola) saranno in grado di far seguire alla svolta clamorosa dell’altro giorno e al risultato ricavatone una conseguente linea d’azione eticamente orientata e al tempo stesso condivisa sul piano interno e su quello internazionale. Specialmente in ragione di un elemento decisivo e drammatico che domina l’intero scenario della migrazione in atto verso il nostro continente: la sua imprevedibilità quantitativa. Con quanti migranti deve prepararsi a fare i conti l’Europa? Decine di migliaia? Centinaia? Milioni? Nessuno può dirlo.
Quello che possiamo dire con sicurezza, però, è che non esiste al mondo decisione politica riguardante un qualunque fenomeno, la quale possa essere indifferente all’entità quantitativa del fenomeno stesso, praticabile cioè qualunque sia l’entità di questo. Inevitabilmente, insomma, ogni decisione politica è, e sarà sempre, soggetta alla valutazione di tale circostanza: dal momento che a dispetto di ogni miglior proposito l’etica della convinzione continua ad essere cosa ben diversa dall’etica della responsabilità.

7 settembre 2015 (modifica il 7 settembre 2015 | 07:35)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_07/memoria-tedesca-svolta-angela-merkel-83249d62-5521-11e5-b550-2d0dfde7eae0.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La Destra che l’Italia non ha
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 04:24:13 pm
La Destra che l’Italia non ha

Di Ernesto Galli della Loggia

Sulla Destra italiana il ventennio berlusconiano ha agito come una droga. L’ha euforizzata con successi insperati, le ha fatto credere di essere sulla cresta dell’onda, che ormai il futuro era suo: per poi lasciarla stremata e a pezzi come appunto appare oggi. Ma in realtà la colpa di Berlusconi è stata quella dell’illusionista, nulla di più. In Italia, infatti, il problema di una Destra che non c’è, della sua inesistente identità politica, c’è da ben prima di lui: solo che è rimasto nascosto finora dall’assoluta egemonia della Democrazia cristiana prima, e poi da quella altrettanto assoluta del Cavaliere. Svanite entrambe, ora esso ritorna.

Nella sostanza il problema della Destra italiana, io credo, è il problema della difficoltà che incontrano nel nostro Paese un’antropologia e una cultura politica conservatrici, analoghe cioè a quelle che più o meno caratterizzano in Europa le Destre di governo. Non tragga in inganno l’apparenza. È vero infatti che in larga maggioranza la società italiana appare conservatrice. È vero che è diffidente delle novità, non ama i cambiamenti sostanziali, le svolte di alcun tipo; che è una società di antico e consolidato pessimismo, innestato su un fondo smaliziato fino al cinismo. Ma il suo - questo è il punto - è un conservatorismo nullista, solo negativo: inutilizzabile politicamente se non per bloccare i riformatori e i progressisti, per fermare la Sinistra. Serve magari a evitare i salti nel buio, come nel ‘48, ma tutto finisce lì. Quello spontaneo della società italiana è un conservatorismo senza ambizioni, senza progetto, senz’alcun orizzonte istituzionale vero, sul quale è impossibile costruire nulla, o è possibile costruire tutto: perfino il sovversivismo fascista o le fortune di un governo che si vuole di sinistra.

Ma un moderno conservatorismo politico è altra cosa. Innanzi tutto è liberale. Cioè in economia è contro ogni strettoia corporativa o monopolistica a vantaggio di gruppi privilegiati e interessi protetti, senza per ciò essere sempre e comunque contro l’intervento pubblico. Ideologicamente, poi, esso dovrebbe essere interessato soprattutto a promuovere e difendere la diversità delle opinioni. Cercando altresì di essere culturalmente anticonformista e quindi simpatizzando con le minoranze e il loro punto di vista: sicché oggi, per esempio, diffiderà dello scientismo e dell’idolatria tecnologica imperanti, così come del pregiudizio egemone secondo cui ogni desiderio soggettivo può diventare un diritto. E si asterrà, naturalmente, dall’omaggio universale a tutte le idee, le mode e le «diversità» politicamente corrette.

Proprio l’anticonformismo culturale e la simpatia per le posizioni di minoranza spingono un liberalismo così inteso a stare in guardia verso l’attuale modernità trionfatrice e travolgente dovunque: e proprio per questo a orientarsi in senso conservatore. Il che oggi vuol dire mostrarsi attenti alla tradizione, cauti nel disfarsene sempre e comunque secondo quanto invece comandano i tempi. Mostrarsi attenti, per esempio, a non indulgere a un certo materialismo e ateismo di maniera, e invece a considerare cosa preziosa il retaggio giudaico-cristiano iscritto nei nostri costumi e nelle nostre istituzioni; attenti, ancora, a non stravolgere la scuola, la trasmissione culturale - come invece accade da decenni - sotto una valanga di innovazioni dei programmi una più sciocca e inutile dell’altra, di rilassatezza disciplinare e di democraticismi distruttivi. Avere un orientamento conservatore significa anche, infine, voler conservare l’orizzonte entro cui si è nati, custodire per le generazioni future i paesaggi, i luoghi, i tesori d’arte, che il passato ci ha trasmesso.

Detto tutto ciò rimane però il punto fondamentale: in Italia una vera cultura politica conservatrice non può che essere soprattutto una cultura orientata allo Stato: allo Stato come garante da un lato dell’interesse generale (che alla fine è sempre l’interesse dei più deboli), e dall’altro dell’obbligo dell’adempimento da parte di tutti dei doveri verso questo interesse: tanto per cominciare pagando le tasse. Tutela dell’interesse generale significa pure cercare di assicurare la snellezza e la chiarezza delle normative, l’imparzialità delle procedure amministrative, le competenze delle burocrazie, premiare il merito anziché i raccomandati, non lasciare la porta aperta agli sperperi o al furto del pubblico denaro.

E significa da ultimo prendersi cura della macchina dello Stato, delle sue articolazioni al centro e specialmente alla periferia, mantenendone le capacità di controllo sul territorio attraverso le prefetture, le sedi della Banca d’Italia, le intendenze di Finanza, le sovrintendenze alla tutela dei Beni culturali, eccetera. Dal momento che in Italia, bisogna convincersene, la rinuncia a questa funzione dello Stato non innesca quasi mai una benefica esplosione degli animal spirits della società civile, bensì quasi sempre quella dei porci comodi della medesima, sotto l’egida delle oligarchie locali quando non della malavita organizzata.

Tutto questo corrisponde a quella cosa che si chiama autorità e sovranità dello Stato, le quali a una qualunque Destra dovrebbero forse stare a cuore; e che - c’è bisogno di dirlo? - fanno tutt’uno con l’idea di sovranità nazionale. Anche questa un’idea oggi abbastanza desueta ma che, sentendo l’aria che tira in Europa, è stata forse messa da parte un po’ troppo affrettatamente.

Lascio giudicare ai lettori se la Destra italiana si sia mostrata capace di essere conservatrice nel modo che si è fin qui detto. A me pare di no, assolutamente di no. Per lo più infatti essa appare tuttora la pedissequa rappresentante della pancia di un elettorato confusamente prepolitico, custode di interessi settoriali, modernista o reazionario secondo le convenienze. Si può capire la Lega, la quale punta al tanto peggio tanto meglio e non si considera certo forza di governo. Il problema sono tutti gli altri. E negli altri regna l’assenza di qualunque cultura politica strutturata in grado di dar vita a una discussione vera, a un tentativo di bilancio, a uno straccio di ipotesi sul futuro. Nulla. Tutti sembrano sperare solo nella resurrezione di Lazzaro Berlusconi o nelle risorse trasformistiche proprie unite a quelle del Pd: in realtà due speranze entrambe pallidissime. Così la Destra italiana si avvia a diventare politicamente il proprio fantasma: qualcuno, ogni tanto, riferisce di averla avvistata in un talk show televisivo.

15 settembre 2015 (modifica il 15 settembre 2015 | 07:07)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_15/destra-che-italia-non-ha-a69fd9ea-5b62-11e5-8007-cd149b0f5512.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Stranieri e diritti Le libertà che l’Europa assicura
Inserito da: Arlecchino - Settembre 22, 2015, 06:34:20 pm
Stranieri e diritti
Le libertà che l’Europa assicura

Di Ernesto Galli della Loggia

Se è vero che il fenomeno della migrazione politico-economica che si sta rovesciando sull’Europa è un fenomeno di gigantesche proporzioni storiche, epocale come si dice, allora è quasi certo che la percezione complessiva che ne abbiamo non corrisponde alla realtà alla quale esso darà luogo quando si sarà definitivamente assestato. Oggi, insomma, esso ci appare una cosa diversa da quella che risulterà nei fatti, diciamo tra mezzo secolo. Per una semplice ragione, anzi due: che i fenomeni sociali evolvono in modo relativamente prevedibile nel breve-medio periodo ma in modo assolutamente imprevedibile su quello medio-lungo; e in secondo luogo perché il nostro sguardo e il nostro cervello sono, diciamo così, tarati per vedere da vicino o relativamente da vicino, non a distanza di decenni. Del futuro ci facciamo il più delle volte un’idea assai imprecisa; spessissimo sbagliata.
Possiamo allora provare a considerare quanto oggi sta accadendo in modi un po’ diversi da quelli che di solito ci viene fatto di adoperare (tra l’altro sempre sotto la pressione di una fortissima polemica ideologico-politica nella quale siamo inevitabilmente coinvolti).

Il primo modo diverso potrebbe essere questo. Lo spostamento di grandi masse perlopiù islamiche verso l’Europa è un riconoscimento inequivocabile delle conquiste realizzate dalla nostra civiltà. È una sorta di grande consultazione popolare realizzata con i piedi invece che con la scheda. C oloro che infatti fuggono dalla Siria, dall’Eritrea, dall’Afghanistan, dall’Iraq, non chiedono di stabilirsi in Turchia, non vogliono diventare ospiti permanenti della Giordania e del Libano che pure li accolgono di buon animo. Né pensano minimamente di cercare rifugio in Arabia Saudita o negli altri Stati del Golfo, tanto straripanti di ricchezza quando ferocemente discriminatori verso chiunque non abbia avuto la ventura di nascere entro i loro confini.

No. Pur essendo perlopiù musulmane quelle grandi masse umane non mostrano alcun desiderio di restare nella «Terra dell’Islam». Esse cercano l’Europa. Vogliono stabilirsi qui, tra i crociati e gli ebrei amici del Grande Satana. Perché? Perché qui sanno di poter trovare un po’ di benessere, almeno un minimo di assistenza sociale, ma soprattutto un quadro di protezione legale, di libertà. Qui, per quante traversie gli capiti di vivere, quelle persone non sono alla mercé del potere arbitrario e spesso crudele che salvo pochissime eccezioni domina nei Paesi islamici. Esistono dei giudici, in Europa.

Faremmo male, io credo, a sottovalutare il significato e le conseguenze di tutto questo, specie per quanto riguarda le seconde generazioni di chi oggi arriva tra noi. Per un giovane uomo che diventa un terrorista, dobbiamo chiederci, quante migliaia invece non lo diventano? E quante giovani donne, che a casa loro sarebbero rimaste delle analfabete sottomesse, decidono invece, dopo essere state nelle nostre scuole e aver visto la nostra televisione, di prendere in mano la propria esistenza e di non sottostare più all’antica autorità dei padri padroni?

Beninteso pur restando gli uni e le altre islamici. E siamo qui al secondo modo diverso in cui forse dovremmo guardare al fenomeno odierno dell’immigrazione, cercando di immaginarne gli effetti sui tempi lunghi.
Nel clima del suo nuovo radicamento in Europa che cosa ne sarà di questo Islam? Non è forse possibile pensare che esso conoscerà per esempio una profonda differenziazione interna, una pronunciata diversità rispetto a quello rimasto nelle sue aree originarie? E non è immaginabile che i contenuti di tale diversità, sviluppatasi sul terreno di un’inevitabile ibridazione con la nostra cultura, possano facilmente andare verso un maggiore orientamento allo spirito di razionalità, alla liberalità e alla tolleranza, verso un’inedita sobrietà di modi cultuali? Nulla è mai la stessa cosa dovunque, o dura immutabile. Così come già nel ‘600 il Cristianesimo di Amsterdam non era quello di Roma, ci fu anche un tempo in cui l’Islam di Cordoba o di Salonicco non era certo quello della Mecca.

Oggi, insomma, gli europei temono che l’arrivo di tanti stranieri possa mutare negativamente il proprio modo di vivere e di sentire. Con molta più ragione, mi pare, dovrebbero essere però questi stranieri, e in prima fila quelli provenienti dall’Islam, a temere circa la possibilità di mantenere inalterato alla lunga il loro patrimonio culturale. E infatti i fanatici del cosiddetto Stato Islamico se ne sono accorti, e hanno già lanciato la scomunica contro chi decide di emigrare.

Ma perché avvenga quanto ho ipotizzato, perché possano innescarsi i mutamenti di cui sopra, sono assolutamente necessarie due condizioni. Innanzi tutto che le società europee non si perdano dietro a un vuoto universalismo multiculturale, e quindi si mostrino ferme nel non abiurare la propria cultura e le proprie tradizioni; anche - per quanto possibile, e per quanto ciò possa apparire intollerabile al mainstream secolarista - la propria tradizione religiosa.

In secondo luogo è necessario che i governi e gli Stati siano egualmente fermi nell’esercitare le loro prerogative in materia di ordine pubblico e di giustizia.
Ciò richiede un oscuro impegno quotidiano, lo sappiamo: ed è difficile, costoso, spesso sgradevole, quasi sempre suscita le proteste indignate dei «buonisti» per partito preso. Ma è assolutamente necessario. Chi fa scempio con la massima indifferenza di un parco pubblico o gira abbigliato in modo improprio, o esprime propositi illegali, o vende merce contraffatta, va sanzionato sempre e senza esitazione. Altrimenti chi giunge tra noi avrà l’impressione di trovarsi non già in una società organizzata, con regole e principi suoi, attenta a tutelarli, non avrà l’impressione di trovarsi perciò a fare i conti con una cultura consistente e coerente con la quale il confronto è ineludibile; bensì crederà di essere capitato in un limbo sociale, in un nulla informe, in un non luogo senza norme e senza autostima. Dove quindi si può fare ed essere ciò che si vuole: naturalmente restando in tutto e per tutto quelli che si era prima.

20 settembre 2015 (modifica il 20 settembre 2015 | 07:25)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_20/liberta-che-l-europa-assicura-4c6140e4-5f50-11e5-9125-903a7d481807.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Partiti e leader L’ambigua ricerca delle élite
Inserito da: Arlecchino - Settembre 28, 2015, 07:43:45 pm
Partiti e leader
L’ambigua ricerca delle élite
Cercano un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare.
Ma con quale obiettivo?

Di Ernesto Galli della Loggia

La corsa dei parlamentari di destra e di centro ad abbandonare i loro schieramenti per andare a sinistra riproduce più o meno quanto sta avvenendo nella società italiana. È ormai da qualche tempo, infatti, che salvo rare eccezioni i vertici che contano, gli organismi significativi, tutte le voci influenti, vanno orientandosi in una sola direzione: quella di Matteo Renzi, o, se si può dir così, del renzismo. Non già verso il Pd, tanto meno verso la sinistra: verso il presidente del Consiglio. Si tratta di una rilevante differenza rispetto al passato più recente; anche se in qualche modo essa segna il ritorno a un modello antico della nostra storia nazionale. Dagli anni Ottanta in poi, un generico orientamento verso il centrosinistra, infatti, è stato sempre più largamente maggioritario nell’élite italiana. Il fenomeno era già evidentissimo nell’ultima fase della Prima Repubblica, sicché, divenuto il Pd l’erede di fatto di tutto quel sistema ideologico-partitico, nulla di più logico che fosse poi esso ad attrarre le maggiori simpatie. Simpatie che tuttavia si sono trovate a dover fare regolarmente i conti con le incertezze ideologiche e le nebulosità programmatiche di una base — esemplarmente rappresentata da un leader come Massimo D’Alema — immobilizzata tra nostalgie della «Ditta» e velleità di un mai meglio precisato «aggiornamento». Dall’altro canto, specie dopo la comparsa di Berlusconi, l’affiliazione al centrodestra dell’élite italiana non è stata certo insignificante.

Ma dal punto di vista dell’élite, alquanto circoscritta, direi: in pratica limitata agli ambienti economici e degli affari coinvolti nella sfera degli appalti e dei contratti pubblici, alle pur vaste cerchie interessate alle migliaia di nomine istituzionali, nonché a un certo mondo alto-burocratico. Per il resto sporadici fenomeni sostanzialmente di opportunismo, ma nulla di più. Renzi ha rotto questo schema. Mandato in soffitta il vecchio Pd e alzando l’insegna «Le cose da fare in questo Paese non sono né di destra né di sinistra, sono da fare e basta», egli sta rapidamente riunendo intorno alla propria persona tutta l’Italia del potere, tutta l’Italia che conta, proveniente dall’una o dall’altra precedente affiliazione. È il ritorno all’antico di cui dicevo sopra. La grande stabilizzazione politica italiana ha sempre funzionato in questo modo, infatti: intorno a un uomo, non intorno a un partito. E in primo luogo agglutinando intorno a quella persona la grande maggioranza dell’élite. Fu così fin dall’inizio con Cavour, poi con Crispi e Giolitti. E come il potere italiano fu assai più che fascista mussoliniano, così in seguito non fu certo democristiano bensì degasperiano, per concedere poi la propria fiducia ai due soli veri leader che la Dc ebbe dopo di lui, Fanfani e Andreotti. Ci provò a suo tempo anche Craxi, riuscendovi solo pochissimo e per brevissimo tempo. Berlusconi non c’ha neppure provato. È un fatto, mi pare, che nella nostra storia la classe dirigente, pur intrattenendo per antica tradizione un fortissimo rapporto con la politica, si è mostrata nel complesso quasi per nulla interessata, invece, a un qualsiasi rapporto con i partiti. Pronta ad appoggiarne i capi, ma anche a rapidamente abbandonarli.

Forse neppure la «Repubblica dei partiti» è mai stata realmente la Repubblica delle élite italiane: le quali infatti l’hanno lasciata colare a picco senza muovere un dito. Tutto sta a indicare, insomma, che specialmente per le classi dirigenti di questo Paese è stato sempre più facile trovare un raccordo stabile e fisiologico con la politica rappresentata da una persona piuttosto che da un partito. «Ma che male c’è?», si obietta; «Se le cose da fare non sono né di destra né di sinistra, non basta che ci sia una persona che le voglia e le sappia fare?». Questa obiezione esprime uno stato d’animo diffuso, dovuto all’immobilismo che da anni soffoca l’Italia, alla sensazione che in questo Paese da anni nulla si muova, e che tutto ciò ci stia uccidendo. È lo stato d’animo che gioca a favore dell’attivismo del nostro giovane presidente del Consiglio, giustificando il consenso personale che egli raccoglie.

Ma le cose non sono così semplici come possono apparire. Innanzi tutto, perché anche ammesso che le cose da fare non abbiano alcun colore partitico particolare, è difficile immaginare, però, che un tal colore non ce l’abbia neppure il modo di farle. Che per esempio vi sia un solo e unico modo di mettere o non mettere una tassa sulla casa o di decidere un piano di investimenti pubblici, che una riforma scolastica o una politica circa l’immigrazione concepite dalla destra siano eguali a quelle concepite dalla sinistra. Le idee, insomma, fanno pur sempre la differenza. E quando si dice idee, si dice contenuti concreti, scale di valori, priorità, obiettivi: tutte cose che fino a prova contraria non solo in politica ma nella vita di una collettività contano. E che dividono, che giustamente, fisiologicamente, dividono. Si chiama democrazia: nella quale, per l’appunto, contano sì gli uomini, conta sì la capacità di comando e di realizzazione di un leader, ma dovrebbero necessariamente contare anche le idee.

Nel formarsi di un vasto seguito personale intorno a un capo non c’è nulla di male. Proprio la democrazia ha bisogno di leadership forti, e ne ha bisogno in modo particolare oggi l’Italia. È piuttosto la rapidità e l’unanimismo con cui un tal seguito si sta formando intorno a Renzi nelle aule del Parlamento e fuori, che suscita qualche perplessità. Se nel primo caso si tratta palesemente della non molto nobile speranza di salire sul carro del vincitore, e al momento giusto di trovare un posticino nelle liste elettorali, nel secondo sono soprattutto le élite del potere italiano che cercano un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare. Ma con quale obiettivo, per quale fine? E vogliono davvero tutte la medesima cosa e nel medesimo modo? Nell’assenza di qualunque risposta, resta l’impressione di una sostanziale indifferenza rispetto ai contenuti: sulla quale l’evanescenza di ogni visione generale in cui ormai vive l’intero Paese, a cominciare proprio dalla politica, non manca di gettare una luce inevitabilmente ambigua.

27 settembre 2015 (modifica il 27 settembre 2015 | 07:10)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_27/partiti-leadership-ambigua-ricerca-elite-04eee334-64d1-11e5-b742-179fcf242c96.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA I compiti della politica La scomoda verità su Roma
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 03:19:34 pm
I compiti della politica
La scomoda verità su Roma

Di Ernesto Galli della Loggia

Gli ultimi due sindaci di Roma sono stati forse i peggiori che la città abbia avuto. Per motivi differenti: il primo, Alemanno, per la sua contiguità con gli ambienti più torbidi del sottobosco squadristico-malavitoso dell’antico neofascismo cittadino nonché per la gestione spudoratamente clientelare delle aziende comunali affidata a personaggi dello stesso ambiente; il secondo, Marino, per la stolida insensibilità autoreferenziale dell’uomo, per la sua totale incapacità di pensare e fare le cose più necessarie.

Ma ora che questa lunga pagina sembra sul punto di chiudersi è giunto il momento di aprire il discorso più importante: quello sulla città, su che cosa è oggi Roma. Perché è da qui che il male comincia. È da ciò che la città è diventata negli ultimi due, tre decenni, che nasce il suo sfascio amministrativo ma prima ancora il degrado civile che lo ha generato.

Una città disarticolata spazialmente da un’informe crescita speculativa. Senza più un’élite riconosciuta e senza la sua plebe antica: perciò ormai senza più tradizioni e senz’anima. Dagli anni Settanta priva del fermento di vita e di idee assicuratole un tempo da quel numeroso ceto di artisti, di intellettuali, di giornalisti colti, di uomini e donne del cinema e del teatro che s’incontravano nelle sue trattorie, nelle gallerie d’arte, nelle librerie (luoghi ormai letteralmente inesistenti).

Una città dove perfino i salotti delle signore della prima Repubblica, che ambivano a un certo tono, hanno chiuso i battenti. Al loro posto una galassia di centri d’influenza e di coalizioni d’interessi: i quattro o cinque circoli del generone, le associazioni dei commercianti, le cooperative dei taxi, i costruttori, i gestori degli alberghi e dei ristoranti, i padroni dei bus turistici. Con il loro corredo di professionisti di fiducia, con i loro «presidenti»: gli uni e gli altri con i loro molti «amici» e «clienti», e quindi sempre con folti pacchetti di voti da distribuire alla politica di cui vivono a ridosso. Sono loro che ormai esprimono lo spirito maneggione, lo stile volgarmente confidenziale e un po’ sbracato della città, della quale sono ormai i veri padroni sociali. Sono loro che al pari di tante altre caste cittadine italiane da Milano a Firenze hanno deciso - svanita ogni illusione di sviluppo urbano diverso da una terziarizzazione selvaggia - che oltre la politica e i suoi favori, l’unico altro modo per fare soldi è sfruttare la città storica come una mucca da mungere. E dunque avanti, a Roma, con l’obiettivo di accrescere l’orda del turismo devastatore tra il Pantheon, il Colosseo e Trinità dei Monti.

Gare di appalti, contratti di consulenze, pratiche per licenze di ogni tipo, legano questa oligarchia all’amministrazione comunale: la più elefantiaca e la più fannullona d’Italia, blindata da una marea di sigle sindacali più o meno fasulle, abituate spudoratamente a fare il bello e il cattivo tempo ricattando sindaci e cittadini. Un’amministrazione comunale il cui vero simbolo è la «polizia di Roma Capitale», come si chiama ora, secondo la ridicola dizione voluta dal sindaco Alemanno. Il modo stesso d’indossare la divisa, il taglio dei capelli, l’approccio verbale malmostoso e sempre privo di garbo di vigili e vigilesse romane sono la raffigurazione esatta di una città insieme aggressiva e svogliata, sempre inappropriata e fuori dalle regole.

Anche la politica - è questa la vera, decisiva, novità dell’ultimo decennio - fa ormai parte a pieno titolo di questo degrado civile di Roma. Forse anzi, come farebbero pensare certe inchieste giudiziarie e non, ne è divenuto un oscuro motore nascosto. Assai più delle periferie è da tempo il centro della città la roccaforte del Pd, divenuto ormai il partito che piace alla gente che piace; e che conta. Perduta l’anima torinese-napoletana della sua lontana origine comunista, il Pd, come ha scritto esattamente Marco Damilano sull’Espresso, in forza dell’incontro Veltroni-Rutelli è nato romano, ed è stato al governo della città per un tempo lunghissimo. Appare quindi quasi una nemesi, che proprio Roma assista alla conferma più evidente della perdita da parte sua di ogni «diversità» d’antichissima memoria, con Marino che cade ignominiosamente per uno di quegli scandali a cui in un epoca remota sembravano destinati solo i «forchettoni» dc o, più vicino a noi, i bru-bru della variegata corte berlusconiana. La vicenda dell’ormai ex sindaco, insomma, non si libra isolata nel nulla: va letta come apologo della parabola di un intero partito, spesso - qui come in tanti altri luoghi - perdutosi nell’ingaglioffimento di quadri di nessuna educazione politica e di ancor minore tenuta morale, mossi solo dall’arrivismo e dalla sete di potere.

Ma attenzione a non fare del Pd e della politica un capro espiatorio. Proprio la vastità delle disfunzioni, delle inadeguatezze, dei mali di ogni tipo venute alla luce così clamorosamente negli ultimi due anni mostrano, lo ripeto, che a Roma c’è una realtà sociale diffusa che è guasta, che troppi gruppi sociali, troppi organismi, troppi ambienti, sono intimamente corrotti. In troppi sono abituati a non avere alcun senso civico, a non rispettare nessuna regola, a evadere tutto ciò che è possibile evadere, ad abusare di ogni possibilità di abuso. In un tale panorama sconsolante la politica trova un suo limite oggettivo: non si possono raddrizzare le gambe ai cani. Se non si vuole essere faziosi, il caso Marino mostra anche questo. Precisamente perciò potrebbe essere proprio la politica a cercare di riguadagnare l’onore perduto dando essa, una volta tanto, una lezione alla cosiddetta società civile. Facendo, per esempio, una cosa di cui in Italia si sta ormai perdendo quasi la nozione: si chiama esame di coscienza.

10 ottobre 2015 (modifica il 10 ottobre 2015 | 07:02)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_10/scomoda-verita-roma-marino-5a7e3778-6f08-11e5-98e3-5a49a4f4dd41.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il partito che Renzi non ha
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 06:02:19 pm
Il partito che Renzi non ha

Di Ernesto Galli della Loggia

Matteo Renzi è alla ricerca di un partito. Sembra paradossale dirlo per uno che come si sa è il segretario del Pd, ma il fatto è, come è ben noto, che del suo partito egli ha un controllo abbastanza evanescente. Proiettato alla sua testa da un voto alle primarie in cui gli iscritti veri e propri erano certamente una decisa minoranza, e in cui si contavano perfino non pochi che non ne erano neanche elettori, Renzi oggi ne domina con fatica il centro, cioè i gruppi parlamentari; ma ben poco la periferia. Nel primo caso tutto certamente cambierà con le prossime elezioni, quando il segretario procederà alle inevitabili epurazioni da cui si salverà - se si salverà - solo un pugno dei suoi attuali avversari interni. Nelle periferie, invece, la regola perversa delle primarie aperte - che però Renzi non può cancellare essendo finora il suo unico e comunque massimo titolo di legittimazione - rende ogni volta la designazione del candidato sindaco un gioco di bussolotti. Oggi più che mai, dal momento che oggi, nelle periferie, il Partito democratico sta di fatto evaporando. Intendiamoci: gli iscritti, sia pure molto diminuiti rispetto al passato, restano. Un partito però non sono solo gli iscritti: è anche un luogo di elaborazione/ discussione di idee, è uno strumento per organizzare e gestire il conflitto sociale, e quindi uno strumento di selezione di quadri; è infine un canale di comunicazione dal centro verso la periferia e viceversa.

Ma c’è qualche traccia di questo partito, mi domando, nell’attuale realtà del Pd? Non mi sembra proprio. Dalle Alpi alla Sicilia la sua periferia si presenta come un insieme di feudi più o meno grandi in mano a capi locali virtualmente autonomi, di centri di potere di fatto indipendenti, di coalizioni decise ogni volta sul posto. O altrimenti di grandi spazi vuoti. La conseguenza è che sindaci renziani di qualche peso oggi, tranne a Firenze, non ne esistono. Né sembra facile trovarne qualcuno nei prossimi mesi per Roma, Napoli o Milano.

Può mai darsi però il caso di un partito che esiste solo al centro? E che poi, tra l’altro, al centro esiste soltanto nella persona del suo capo? La risposta è nelle cose. Nell’Italia di oggi esiste Renzi ma un Pd renziano, un Pd diciamo così modellato e ispirato dalle idee del presidente del Consiglio, non si vede proprio. Né mi sembra personalmente probabile che una simile creatura veda mai la luce. In un certo senso, infatti, il renzismo si identifica pienamente nella natura antipartitica/apartitica all’insegna della quale è nata la Seconda Repubblica, almeno per questo collocandosi in un’ideale prosecuzione con il berlusconismo. Con un’importante differenza però: che mentre nel Cavaliere quella natura anti e apartitica si rivestiva di toni antisistema e di un’arcaica vocalità antisinistra che erano decisivi nel mantenere in vita per contrapposizione la Sinistra stessa, dandole l’illusione di esistere, con Renzi ciò non avviene.

Con il presidente del Consiglio ogni tono contrappositivo viene meno (è riservato solo alla sua insignificante minoranza interna o alle frange antisistema reputate irrecuperabili, tipo i leghisti definiti «bestie»). I confini e le differenze di contenuto tra tutti i partiti - almeno quelli compresi in un arco che invece che costituzionale ora potremmo chiamare della «ragionevolezza operosa» - risultano virtualmente cancellati. È soprattutto virtualmente cancellata la distinzione fondativa di ogni sistema politico di tipo parlamentare: quella tra Destra e Sinistra, ancora ben viva all’epoca berlusconiana. Non a caso ciò avviene a opera di chi figura come leader della Sinistra. Infatti, se è sempre stata la Sinistra a definire che cosa è di destra e che cosa è di sinistra, non poteva che essere una voce titolata a parlare a nome della Sinistra stessa, ad averne in certo senso la rappresentanza, a dichiarare caduta di fatto la separazione tra i due campi. È in questo modo che la Seconda Repubblica, nata contro la Prima, accusata di essere una Repubblica dei partiti, grazie a Renzi porta a compimento il suo programma di una Repubblica senza partiti.

Esiste un contrasto che mi verrebbe da definire ontologico tra la personalità di Renzi e l’idea di partito, sicché è assai improbabile che possa mai esserci realmente un Partito democratico renziano. Un partito nasce e vive intorno a una scala di valori, a un’idea-messaggio forte, a una visione della storia del Paese entro la quale collocarsi. Implica il lungo periodo; e naturalmente il richiamarsi non al tutto ma a una parte, almeno in un qualche momento del suo discorso. Tutte cose, se non sbaglio, che non sono nel modo d’essere e di pensare e tanto meno nello stile del presidente del Consiglio. Alla personalità aperta, naturalmente ottimistica e superenergetica di Renzi, i tempi lunghi non dicono molto. Egli crede alle sfide che si vincono o si perdono sul tamburo. Al messaggio indirizzato alla sua parte anteporrà sempre l’arringa rivolta al pubblico, all’essere convincente il risultare simpatico. Quanto ai valori, quelli veri, gli sembrano forse cosa troppo importante per mischiarli pubblicamente con la politica: che alla fine, come sospetto, deve apparirgli solo una grande messa in scena.

Renzi non è fatto per la politica di partito. È fatto per governare. Lì il suo temperamento lo ha prepotentemente indirizzato, lì - bisogna augurarsi - egli può dare i risultati migliori. Ma senza un partito alle spalle il suo retroterra è destinato a restare perennemente sguarnito. Presidiato da successi elettorali forse anche importanti, ma di scarsa utilità quando si tratta di pensare le cose da fare, come farle, con chi farle. Destinato ad avere un numero sempre crescente di clienti, di amici, di ammiratori, questo è sicuro, tuttavia egli poggerà sempre su una base in certo senso poco solida. E nella sua azione come nel suo ruolo apparirà sempre, prima o poi, come già appare oggi, qualcosa di insuperabilmente fragile.

21 ottobre 2015 (modifica il 21 ottobre 2015 | 07:51)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_21/partito-che-renzi-non-ha-a1061eee-77b0-11e5-95d8-a1e2a86e0e17.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La violenza e noi europei smarriti
Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:26:33 pm
Saperla riconoscere
La violenza e noi europei smarriti


L’editoriale del Corriere della Sera del 23 novembre 2015

Di Ernesto Galli della Loggia

C i sono molti modi con i quali una società può consolarsi dei mali che le piombano addosso. Uno dei più ovvi è la mistificazione: cambiare il segno di ciò che le è capitato, piegarne il significato specialmente idealizzandone alcuni tratti, accentuandone altri, sorvolando su altri ancora. Un’operazione nella quale, come si capisce, una parte decisiva oggi l’hanno i media. I quali diventano specchio ma anche fabbricanti della coscienza sociale.

È quanto è accaduto a proposito della strage di Parigi. Il senso del lutto è stato sublimato in un autocompiacimento al limite di un’insulsa arroganza culturale. L’obiettivo dei terroristi - uccidere il maggior numero possibile di persone: pertanto colpire nei luoghi pubblici (e dove se no?) - è stato trasformato in un attacco «al nostro modo di vivere», alla «nostra possibilità di uscire la sera per andare a un concerto, a un ristorante, a divertirci»: come se queste medesime cose non facciano parte della vita quotidiana di quasi tutto il mondo, Paesi islamici inclusi (e infatti in tutto il mondo, dall’Iraq alle Filippine, il terrorismo predilige esattamente gli stessi bersagli che ha colpito a Parigi). È seguito l’impegno roboante a base di «non ci farete cambiare le nostre abitudini»: nel momento stesso in cui nelle comunicazioni, per esempio, si restauravano barriere e controlli abbandonati da anni; in cui perfino un viaggio in treno stava diventando come attraversare un tempo la Cortina di ferro. Nel momento stesso in cui ritornava all’ordine del giorno delle società europee una quisquilia come lo «stato d’emergenza».

E poi i giovani, i giovani... Anche qui una trasfigurazione idealizzante del tutto irreale e autoconsolatoria. Una società di vegliardi, la quale vede la natalità cadere a picco, e che è di fatto organizzata tutta per sfavorire in ogni modo le classi giovanili, si è d’improvviso riconosciuta simbolicamente proprio nei giovani - vittime ovvie, ma certo casuali di sparatorie avvenute all’interno di locali pubblici in una sera di weekend -. Un’enfatizzazione simbolica che forse è servita a nascondere qualcos’altro da tenere nascosto: e cioè il nostro oscuro senso di colpa per il modo in cui trattiamo i giovani, da rovesciare nell’attribuzione di una responsabilità ben maggiore all’efferatezza jihadista; o forse, chissà, la consapevolezza angosciosa che ogni giovane vita sottrattaci costituisce una perdita irreparabile.

E ancora le parole di quel poveretto a cui hanno ucciso la moglie ed è rimasto solo con una figlia in tenerissima età, che i media ci additano mielosamente come esemplari, quasi il prototipo obbligatorio della reazione politicamente corretta: «Non vi farò il dono di odiarvi», «rispondere all’odio con la collera sarebbe cedere alla stessa ignoranza che vi ha reso ciò che siete».

Se s’intende che non bisogna scendere in strada a organizzare pogrom antislamici, non mi pare proprio che siano cose di cui fortunatamente (ripeto per chi non voglia capire: fortunatamente) esista la minima avvisaglia. Ma di fronte a certi crimini non esiste, non deve esistere, non è moralmente degna, una collera della giustizia? Non era forse giusto odiare i kapò dei campi di sterminio, i carnefici di Nanchino o gli organizzatori della carestia artificiale in Ucraina? E non si parla forse nella Bibbia di una collera di Dio contro i malvagi?

In realtà l’intera rappresentazione mediatica di quanto è accaduto e sta accadendo in Francia e altrove sembra avere soprattutto una funzione più o meno consapevolmente esorcistica del nostro smarrimento, di noi europei occidentali, di fronte a quello che è diventato per noi l’enigma della violenza. La nostra estraneità alla violenza - non a quella che, camuffata in mille modi, esiste pure da noi, bensì alla violenza in quanto uso della forza volontariamente accolto da una cultura nei suoi valori - è ormai tale che non riusciamo neppure a immaginare una società, una religione, che una simile estraneità non la condividano. Che non siano istituzionalmente favorevoli sempre e comunque alla «pace». Il solo pensare che invece esistano lo consideriamo, già in quanto tale, un fatto di violenza. Supporre o suggerire, ad esempio, che su questo punto cruciale della violenza le società islamiche non abbiano la nostra stessa sensibilità, anzi ne abbiano una assai diversa, viene stigmatizzato, già solo questo, come l’anticamera dell’«islamofobia».

Siamo, vogliamo sentirci, così «buoni», che non riusciamo a credere che qualcuno nel mondo possa invece considerarci «cattivi» . Fino al punto che ce la voglia far pagare ricorrendo a quella cosa che si chiama guerra: una cosa che al mainstream del pensiero che si dice democratico appare talmente inconcepibile da essere sottoposta, almeno qui in Italia, a un vero e proprio tabù semantico. Da noi la parola «guerra», come ha capito benissimo il nostro presidente del Consiglio, è diventata una parola impronunciabile. E se no del resto come potremmo sentirci così buoni?

Ma perché di guerra si tratti non è necessario essere in due. Basta che uno decida di spararti addosso. Certo, non è detto che ogni colpo di fucile debba rappresentare di per sé l’inizio di una guerra. Ammettiamo però che qualche migliaia di colpi e centotrenta morti possono far sorgere qualche ragionevole sospetto.

23 novembre 2015 (modifica il 23 novembre 2015 | 07:57)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_23/violenza-noi-europei-smarriti-08238b1c-91aa-11e5-98d3-3899a469cdf7.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Attentati a Parigi, la battaglia culturale che ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:33:06 pm
Attentati a Parigi, la battaglia culturale che dobbiamo lanciare (senza le solite ipocrisie)
Se i moderati hanno le mani legate, bisogna stanare gli autoinganni e le falsità storiche che nutrono l’estremismo radicale


Di Ernesto Galli della Loggia

Come faccia il terrorismo che tutti, ma proprio tutti, definiscono islamista a non avere nulla a che fare con l’Islam, è qualcosa che dovrebbe, mi pare, richiedere una spiegazione. Che invece non ci viene mai data dai tanti che pure ci ammoniscono con severità a tenere separate le due cose. L’unica spiegazione talvolta offertaci circa l’obbligo di tale separazione starebbe nel fatto che la maggior parte delle vittime del terrorismo suddetto - a Bagdad per esempio, o a Beirut o ad Aleppo o al Cairo - sarebbero in realtà proprio degli islamici. Il che è vero: peccato però che nessuno dei mille attentati commessi in quei luoghi sia mai stato rivendicato, che si sappia, con proclami a base di citazioni di «sure» del Corano e di relative maledizioni contro gli «infedeli»: come invece è la regola quando nel mirino è ieri Parigi o in genere l’Occidente. In realtà, a Bagdad o a Beirut, l’impiego del tritolo o del kalashnikov corrisponde semplicemente al modo oggi più comune da quelle parti di regolare i conflitti politici con gli avversari. L’impiego ad uso bellico dei testi sacri, insomma, è riservato soltanto a noi. Dunque, smettiamola di nasconderci dietro un dito: la religione c’entra eccome. Innanzi tutto perché islamici ferventi e religiosamente motivati sono i terroristi, e poi per un’altra importante ragione.

Perché ciò che lega le mani all’islamismo moderato - che senz’altro esiste ed è maggioritario - impedendogli regolarmente di farsi sentire e di opporsi alle imprese sanguinarie degli altri, è per l’appunto il ferreo ricatto della comunanza religiosa. Ed è sempre questo ricatto-vincolo che a suo modo crea nella gran parte dell’opinione pubblica islamica, nelle sterminate folle delle periferie come negli strati più elevati, se non una qualche tacita complicità, certamente l’impossibilità di dissociarsi, di schierarsi realmente contro. Ciò che a propria volta vincola in misura determinante anche l’azione dei governi di quei Paesi.

Ma se le cose stanno così, se per l’esistenza del terrorismo è decisiva l’esistenza di questo ampio retroterra costituito e cementato dal fortissimo ruolo identitario della religione, non è forse qui, allora, a proposito di questo ruolo, che l’Occidente dovrebbe impegnarsi in uno scontro, lanciare una sfida? Certe guerre non si vincono solo militarmente grazie alle armi (che pure sono importanti e vanno impiegate fino in fondo) ma anche con altri strumenti.

Non si tratta di dichiarare né una guerra tra civiltà né una guerra tra religioni. Bensì di iniziare un’analisi, una discussione dai toni anche aspri se necessario, sugli effetti che ha avuto per l’appunto il ruolo identitario della religione islamica sulle società dove essa storicamente è stata egemone, una discussione su che cosa sono queste società, e sulle vicende storiche stesse del mondo islamico, forse un po’ troppo incline all’oblio e all’autoassoluzione. Un confronto-scontro con quel mondo di carattere eminentemente culturale. In sostanza lo stesso confronto-scontro che la cultura laico-illuministica occidentale ha avuto per almeno due secoli con il Cristianesimo e con la sua influenza storico-sociale, ma che viceversa si mostra quanto mai restia ad avere oggi con l’Islam. Riducendosi così a menare scandalo, magari, per il mancato matrimonio dei gay a Roma ma in pratica a non dire nulla sulla loro impiccagione a Teheran, o sulla lapidazione delle adultere a Islamabad.
Il modo migliore per aiutare l’Islam moderato a liberarsi del ricatto religioso, delle sue paure di lesa solidarietà comunitaria, è proprio quello di incalzarlo a un confronto senza mezzi termini con un punto di vista diverso che non abbia paura della verità. Un punto di vista fatto proprio dai media, dagli scrittori, dagli intellettuali occidentali, che quindi chieda conto di continuo a quell’Islam del perché mai quasi sempre nel suo mondo le donne debbano essere tenute in una condizione di spaventosa inferiorità, perché nei suoi Paesi non si traduca un libro (tranne il Mein Kampf e I Protocolli dei Savi di Sion , con tirature da capogiro), perché non ci sia mai un’importante mostra d’arte, perché costruire una chiesa o una sinagoga debba essere vietato, perché essi non abbiano sottoscritto se non parzialmente le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, perché in genere si faccia così poco per debellare l’analfabetismo. Un confronto che chieda il suo giudizio su ognuna di queste cose, e crei l’occasione per ascoltarlo e discuterne. Dare per scontata l’esistenza di un Islam moderato ma poi non cercare un confronto con esso non ha senso.

Un simile confronto potrebbe anche servire a dissipare l’unilateralità vittimistica con cui troppo spesso l’opinione pubblica islamica, anche quella moderata, è portata a vedere il rapporto storico tra il mondo islamico stesso e quello cristiano. Potrebbe servire a ricordare, per esempio, che le Crociate furono soprattutto una debole e caduca risposta (per giunta limitata alla Palestina e poco più) alle immani conquiste militari realizzate dall’Islam nei tre secoli precedenti di territori in parte cristiani come il Nord Africa. O ricordare, per fare un altro esempio, che i massacri compiuti nel 1945 e in seguito dal colonialismo francese in Algeria non hanno avuto certo nulla da invidiare a quelli, ancora più efferati, commessi dalla Turchia mussulmana ai danni dei cristiani in Bulgaria a fine Ottocento.

Il terrorismo islamista e il suo richiamo religioso si nutrono in misura notevole degli autoinganni, dell’ignoranza della realtà storica, delle vere e proprie falsificazioni, che hanno più o meno largo corso nelle società che gli stanno dietro, e che da lì arrivano anche alle comunità islamiche in Europa. È di questi succhi velenosi che si nutre la formazione elementare di molti dei suoi adepti. Se a costoro si riuscisse a svuotare un poco l’acqua in cui nuotano, o a chiarirgli appena un po’ le idee prima che imbraccino un mitra, non sarebbe un risultato da poco.

16 novembre 2015 (modifica il 16 novembre 2015 | 17:45)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_novembre_16/battaglia-culturale-db4528e2-8c29-11e5-b416-f5d909246274.shtml


Titolo: E. GALLI DELLA LOGGIA La tentazione degli intellettuali: l’Occidente sempre ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 30, 2015, 03:12:48 pm
Polemiche
La tentazione degli intellettuali: l’Occidente sempre colpevole
Contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente una voce in difesa della giustizia offesa


Di Ernesto Galli della Loggia

Anche di fronte al terrorismo islamista una parte dell’intellettualità italiana sembra non poter fare a meno di giudicare la civiltà occidentale sempre come la più colpevole; o perlomeno malvagia e iniqua al pari di ogni altra. Rosetta Loy, per esempio, si domanda sul Fatto di venerdì scorso con quale faccia possiamo mai sentirci autorizzati, proprio noi, abitanti di questa parte del mondo e autori di alcune tra le peggiori nefandezze della storia, a lanciare parole di accusa contro gli autori della strage di Parigi.

Se lo chiede ricordando a mo’ di esempio il terrificante sistema di sfruttamento e sterminio messo in piedi alla fine dell’800 in Congo da quel vero criminale che fu Leopoldo II del Belgio. E naturalmente lo fa in polemica con il profluvio d’inni alla triade Liberté, Egalité, Fraternité ascoltati in questi giorni.

Non tiene conto però, Rosetta Loy, di un particolare decisivo. E cioè che contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente, perlopiù ispirata dai principi cristiani, una voce in difesa della giustizia offesa. Da quella di Las Casas e poi dei Gesuiti delle «Reducciones», denunciatori degli orrori della Conquista ispanica delle Americhe, a quella - che pure lei stessa ricorda - di Mark Twain, Conan Doyle, Joseph Conrad; voce che a proposito del Congo ebbe un’eco vastissima. Talmente vasta che il governo britannico incaricò un suo diplomatico, Roger Casement, di un’indagine in loco che, resa pubblica nel 1904, illustrò apertamente «la riduzione in schiavitù, le mutilazioni e le torture subite dagli indigeni nelle piantagioni della gomma».

Voci di denuncia che tra l’altro sono state spesso proprio di intellettuali, come sono specialmente degli intellettuali ebrei quelle che oggi denunciano in Israele le ingiustizie subite dagli arabi. Accade, è accaduto qualcosa di simile altrove? A me non pare. A Rosetta Loy non so.

29 novembre 2015 (modifica il 29 novembre 2015 | 10:46)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_29/tentazione-intellettuali-l-occidente-sempre-colpevole-ed9a28e6-967c-11e5-bb63-4b762073c21f.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il prezzo dei voti Le riforme che (forse) non avremo
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2015, 07:23:41 pm
Il prezzo dei voti
Le riforme che (forse) non avremo

Di Ernesto Galli della Loggia

Un governo che in Italia provi a fare certe riforme si espone a un rischio quasi sicuro: quello di perdere le elezioni. Da noi assai più che altrove dato il tipo di compenetrazione tutta particolare che si è stabilita tra lo Stato e la società. Il governo Renzi mi pare esserne consapevole, e infatti si regola di conseguenza.

Quando dico certe riforme intendo quelle che dovrebbero cercare di cambiare il modo d’essere e/o di funzionare di alcuni ambiti e di alcune legislazioni che rappresentano vere e proprie criticità in cui ci dibattiamo da decenni, ma che sono sempre lì come altrettante insuperabili colonne d’Ercole della nostra vita collettiva, o che lo stanno ormai diventando.

Penso ad esempio all’organizzazione e al funzionamento della pubblica amministrazione e alla sua super blindatura costituita dal contratto del pubblico impiego; penso alla fitta rete di tutele legislative di cui godono i gruppi più vari (farmacisti, tassisti, notai, ordini professionali di ogni genere, ma anche aziende e rami di attività economica), all’organizzazione della magistratura e della giustizia, alla legislazione sugli appalti e sulla spesa pubblica che con i mostruosi percorsi a ostacoli che prevede sembra fatta apposta per conferire un enorme potere di blocco e di ricatto alla burocrazia e alla politica; penso al sistema fisiologico e diffuso dappertutto degli sperperi più incredibili.

Ma penso anche a riforme meno clamorosamente urgenti ma assolutamente necessarie, quali per esempio quella dei programmi scolastici, fermi a una stagione ideologica ormai tramontata, ovvero alla riforma altrettanto urgente negli studi universitari del sistema di laurea del tre+due, rivelatosi una vera catastrofe.

Come si vede, si tratta di riforme che però presentano elettoralmente uno o l’altro di questi due gravi aspetti negativi: o colpiscono nel proprio personale interesse vasti gruppi di ceto medio, forti, oltre che della loro quota di voti, di ramificate influenze sociali e di una conseguente capacità di ritorsione e di boicottaggio; ovvero di riforme che spaccano ideologicamente l’opinione pubblica. O che fanno talvolta le due cose insieme.

Appare del tutto logico, quindi, che in vari decenni nessun esponente politico si sia voluto bruciare cimentandosi con esse. Pur essendo tutti perfettamente consapevoli che proprio tali riforme sono quelle che davvero servirebbero per rimettere in moto l’Italia su basi nuove, che solo tali riforme farebbero voltare davvero pagina al Paese.

Anche Renzi, ahimè, a dispetto del suo empito attivistico-oratorio-riformistico, sembra intenzionato a tenersi lontano dalle materie elettoralmente scottanti. Basta considerare le principali misure finora adottate o messe in cantiere dal suo governo. Escludendo evidentemente le misure che in realtà costituiscono esborso di quattrini e/o agevolazioni economiche di varia entità e destinazione (bonus, abolizione delle tasse sulla casa e dell’Imu agricola, sblocco dei cantieri fermi, eccetera), sono tre le riforme propriamente dette, avviate o compiute dal governo attuale: il Jobs act, la riforma del Senato, la riforma della legge elettorale. Quanto al primo provvedimento, esso innova sì ma non colpisce alcun interesse costituito, dal momento che o migliora le condizioni contrattuali già in vigore o si applica a contratti di lavoro che vedono la luce solo dopo la sua entrata in vigore. La riforma del Senato, dal canto suo, ha aperto sì un contenzioso violentissimo, ma tutto interno al ceto politico: la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, infatti, è largamente indifferente o vede con favore la fine del bicameralismo. Lo stesso, o quasi, può dirsi della progettata riforma della legge elettorale: se ne appassionano moltissimo i parlamentari (che a ragione vi vedono scritto il loro destino) ma sì e no un paio di milioni di elettori politicizzati; a tutti gli altri essa interessa poco o nulla. In complesso, insomma, si tratta di riforme che pur oggettivamente importanti, tuttavia si presentano come elettoralmente innocue o destinate quasi sicuramente a favorire la linea governativa.

È così che dopo circa due anni l’Italia renziana appare ancora, per gran parte, l’Italia corporativa, taglieggiatrice e classista di sempre, con il suo Stato burocratico, anchilosato e intellettualmente torpido. L’Italia incapace di smantellare strutture soffocanti, di abolire leggi inutili o nocive, di cancellare privilegi, di immettere un largo e spregiudicato soffio rinnovatore nel suo vecchio, troppo vecchio, organismo. E ciò accade, paradossalmente, proprio quando essa è guidata dal gruppo dirigente più giovane e apparentemente dinamico della sua storia. Il quale, però, sembra diventato tanto cautamente accorto oggi, nel gestire il potere, quanto fu invece coraggiosamente audace a suo tempo allorché si trattò di conquistarlo.

7 dicembre 2015 (modifica il 7 dicembre 2015 | 07:28)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_07/riforme-che-non-avremo-editoriale-galli-loggia-69014eb4-9caa-11e5-9189-eea9343a1b14.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Il declino delle élite L’Europa senza più statisti
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 13, 2015, 06:38:16 pm
Il declino delle élite
L’Europa senza più statisti

Di Ernesto Galli della Loggia

Stasera, in Francia, la classe politica di governo - Hollande o Sarkozy o entrambi, non importa - penserà di aver vinto le elezioni. E così di aver fatto il proprio dovere, di avere alla fine sconfitto la minaccia del «populismo», sia pure con l’aiuto di una legge elettorale dallo strepitoso premio di maggioranza, contro la quale, peraltro, non mi sembra che si sia levata in questa occasione neppure la più timida critica da parte dei sacerdoti nostrani del proporzionalismo. Partita chiusa, dunque: la vita ricomincia, la democrazia europea ha vinto.

Ma ha tutta l’aria di essere una vittoria che lascia il tempo che trova. La partita vera, infatti, si è appena aperta. È la partita, di cui in Francia è andata in scena solo una mano, che vede il nostro continente alle prese con una condizione storica nuova e sempre più difficile. Una stagnazione economica di lungo periodo sta erodendo implacabilmente l’intero tessuto sociale (a cominciare per esempio dal rapporto tra le generazioni), e insieme i margini di tutte le politiche sociali; la costruzione dell’Unione europea, d’altra parte, mostra sempre di più le sue contraddizioni e specialmente la sua incapacità di esistere su un qualunque terreno politico; per la prima volta negli ultimi quindici secoli, poi, una grande migrazione si rovescia da altri continenti sulle nostre contrade, creando problemi e tensioni interne di ogni tipo; ai confini d’Europa, per finire, esplodono conflitti di una vastità ma soprattutto di una qualità inedite quanto temibili.

Una grande potenza, la Russia, si fa intanto di nuovo minacciosamente sentire alle sue porte, e viceversa il Grande Protettore di sempre, gli Stati Uniti, appare solo desideroso di tenersi il più lontano possibile da tutto. Viviamo oggi in un’Europa che finisce di risvegliarsi dal sogno del lungo e felice dopoguerra, e improvvisamente si scopre se non vicina a un punto di rottura, certamente davanti a una drammatico cambiamento di scenari storici. Un cambiamento di fronte al quale le sue classi politiche appaiono, quale più quale meno, tutte quante immerse in una sconsolante mediocrità, incapaci di comprendere ciò che sta succedendo, di immaginare risposte adeguate, sorde ai nuovi orientamenti e alle nuove domande che nascono nell’opinione pubblica. Anche la cancelliera Merkel, che è quanto di più vicino esista all’immagine di uno statista europeo, non riesce in realtà a sottrarsi ad una visione sostanzialmente sempre germanocentrica. Ci si può meravigliare se i sistemi politici e istituzionali nei quali le classi politiche europee sono abituate da decenni a farla da padrone raccolgono tra i cittadini una fiducia e un consenso sempre minori?

Di tutto questo ci parla l’esempio della Francia, a dispetto della soddisfazione d’obbligo di cui farà mostra il vincitore di stasera: del declino delle élite politiche europee. Nel lontano 1945, subito dopo la fine della guerra mondiale, la democrazia continentale poté contare per la sua nascita e il suo primo radicamento su una generazione di capi e di quadri selezionati e ammaestrati dalla terribile lezione della vittoria dei totalitarismi, e dalle vicende della grande politica in anni di ferro e di fuoco; una generazione cresciuta in una quotidianità di vita spesso aspra, fatta di pochi beni e di molte letture, di passione per le idee, trascorsa tra la gente comune. Fu la generazione dei De Gasperi, dei Mendès France, degli Adenauer, degli Schuman, degli Ollenhauer, dei Nenni, nel bene e nel male anche dei Togliatti e dei Tito: politici abituati a organizzare il mondo intorno a una visione generale fondata su valori forti. Seguirono, negli anni 60-70 e fino alla fine del secolo, uomini che avevano ancora fatto a tempo a sentire l’eco, e spesso più che l’eco, della temperie mondiale tra le due guerre: anche se perlopiù usciti dalla dura selezione delle piazze e dei comizi, dell’attività di governo, dallo scontro nelle assemblee. I Fanfani, i Kohl, i González, i Berlinguer: cresciuti sulle orme dei predecessori ne conservarono in qualche modo le idealità, seppure con l’accresciuta scaltrezza, tinta di cinismo, di un partitismo ormai maturo. Anche per questa scaltrezza, ma specialmente per la pronta intelligenza delle cose alte come di quelle basse, per lo stile istituzionale sostenuto, per l’alto registro della sua eloquenza, François Mitterrand resta nel ricordo il massimo e ultimo statista di quella stagione della democrazia europea.

Poi c’è stato il dopo, il tempo che viviamo: senza più statisti, affollato solo da politici. Da politici in genere selezionati da nulla se non dal caso o dall’obbedienza, passati attraverso nessuna prova, trovatisi scodellata la pappa già bella e pronta: abituati più che a convincere una riunione di militanti o di elettori, ad ammaliare un pubblico televisivo. Ci guidano élite politiche, classi di governo, fisiologicamente prive di qualunque originalità coraggiosa, altamente omogeneizzate nella banale convenzionalità delle idee eguali dominanti a destra come a sinistra. Élite politiche, classi di governo, composte di uomini e donne nella cui formazione si sente l’assenza, comune ormai a tutta la nostra cultura, della storia - della lezione di alta drammaticità e della tensione etica che è propria della narrazione storica - a pro, invece, della consequenziarietà ingannatrice di troppi ragionamenti economici. Uomini e donne che sono figli di società come le nostre: ricche, indulgenti, permissive, psicologicamente e culturalmente lontane mille miglia dall’idea del tragico e della lotta. Dall’idea che la politica possa avere qualcosa a che fare con Dio e con la morte.

L’Europa, insomma, affronta il momento forse più gravido di scelte della sua storia recente con le élite politiche più mediocri della sua non lunga vicenda democratica. Stasera, quando l’uno o l’altro celebrerà sui nostri schermi la propria inutile vittoria, Hollande e Sarkozy ce lo rappresenteranno, c’è da giurarci, in modo inarrivabilmente patetico.

13 dicembre 2015 (modifica il 13 dicembre 2015 | 08:17)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_13/europa-senza-piu-statisti-f117ae94-a167-11e5-80b6-fe40410507f1.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Lo scatto necessario Il governo e il Sud che non c’è
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 23, 2015, 06:15:50 pm
Lo scatto necessario
Il governo e il Sud che non c’è

Di Ernesto Galli della Loggia

Mi chiedo, ascoltando come tutti noi i suoi discorsi, se al nostro presidente del Consiglio è mai capitato di trascorrere più di una notte in qualche città dell’Italia meridionale, se conosce appena un poco quella parte del Paese. Se ha mai visto, per esempio, il terrificante panorama di Catanzaro o il centro antico di Palermo; se ha mai dato più di un’occhiata all’ininterrotta conurbazione napoletana che si stende da Pozzuoli a Castellammare. O, chessò, se per andare a Potenza o a Nuoro invece di un comodo elicottero ha mai preso un treno. (Non voglio chiedergli se ha mai provato - così, tanto per provare, per carità - a farsi una tac in un ospedale calabrese: sono convinto però che molti calabresi glielo chiederebbero volentieri). Penso che la risposta a tutte queste domande sia no, e credo di non sbagliare. Del resto è la maggior parte dell’intera classe dirigente italiana che ormai non sa più che cosa sia il Sud; che sempre più spesso neppure vi mette piede. E forse non solo essa: sono convinto che anche per la maggior parte dei giovani veneti o lombardi Lecce o Siracusa suonino come nomi di località esotiche e remote. Si salvano solo i luoghi di vacanza: il Salento, Carloforte o Positano come le Maldive, insomma.

L’addio al Mezzogiorno prima che culturale è stato ideologico e politico. È cominciato a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando la centralità sempre maggiore del tema della legalità ha preso a fare del Sud, patria delle maggiori organizzazioni criminali europee, se non mondiali, il terreno del negativo e del male per antonomasia. Rapidamente tutto ciò che riguardava il Sud, a cominciare dalla sua classe politica, ha acquistato un sapore di imbroglio, di corruzione, di raccomandazioni. Certo: il resto d’Italia non era da meno. Però lo era di meno. E così, chiusa la Cassa del Mezzogiorno - nell’opinione corrente divenuta unicamente simbolo di spreco e di sottogoverno, mentre invece è stata anche molte altre cose buone - stanziare soldi per il Sud è diventato sempre più problematico politicamente, alla fine impossibile. Il Sud è uscito dall’agenda dei governi.

L’ordinamento regionale ne ha completato la rovina. Non solo perché lo ha ancora di più rinchiuso nella gabbia delle sue pessime tradizioni politiche, ottimamente rappresentate specie dai gruppi dirigenti locali. Ma perché ha frantumato la sua immagine unitaria: ciò che ne faceva, per l’appunto, una grande «questione» agli occhi del Paese. Il Mezzogiorno è sparito: il suo posto è stato preso dalle Regioni meridionali. L’ordinamento regionale, poi, è valso potentemente a diffondere l’idea che il Sud, autogovernandosi, era ormai una cosa a parte, un soggetto politico a sé, che non aveva più alcun bisogno di aiuto da altri: «Ci sono le loro Regioni con sempre più poteri: che se la vedano loro». La concomitante, progressiva delegittimazione del ruolo imprenditoriale dello Stato, voluta con particolare forza anche dall’Unione Europea, ha fatto il resto.

Così, nella sostanziale indifferenza degli italiani (compresa, tragicamente, gran parte degli stessi meridionali e delle loro scellerate rappresentanze parlamentari), il Mezzogiorno è giunto dov’è oggi: sull’orlo del collasso. Da anni il suo distacco dal Nord non fa che accrescersi, sicché ormai, per esempio, il gap economico tra la Lombardia e la Calabria è maggiore di quello tra la Germania e la Grecia. È a rischio povertà nel Sud un individuo su tre (nel Nord uno su dieci). Il tasso di disoccupazione al 20 per cento è più del doppio della media nazionale (quello giovanile supera il 30 per cento). Oltre il 18 per cento delle famiglie ha difficoltà nell’approvvigionamento idrico. In Regioni come la Sicilia, la Sardegna, la Campania la percentuale degli studenti che non terminano il quinquennio dell’istruzione superiore si aggira intorno al 40 per cento (la media nazionale, altissima, è di circa il 25). In tutto il Mezzogiorno, infine, non c’è una sola sede universitaria definita «di qualità»: il che in parte spiega anche perché nell’ultimo decennio le immatricolazioni negli atenei meridionali siano diminuite di oltre il 27 per cento (nel Nord dell’11).

Ciò che colpisce di questa situazione è la sostanziale assenza di una reazione forte e continua da parte dell’opinione pubblica meridionale e di chi dovrebbe darle voce. Mancano larghi dibattiti, autocritiche, progetti: mancano gruppi attivi, iniziative di mobilitazione duratura, leader moderni e capaci. Le eccezioni sono la conferma della regola. È la società civile del Mezzogiorno che si direbbe ormai disanimata, svuotata di energie, perfino quasi di risorse intellettuali desiderose e capaci di parlare al Paese, come pure in passato tante volte essa ha fatto. In queste condizioni le continue richieste di fondi per i casi più vari che dal Sud si muovono allo Stato finiscono inevitabilmente per apparire più che altro come la richiesta di inutili mance. Specie se poi vengono soddisfatte.

Come stupirsi allora se nella «narrazione» di Renzi il Sud non ci sia? Senza il Sud, però, è difficile che possa esserci una «narrazione» dell’Italia, tanto più un progetto per il suo futuro. Senza il Sud infatti non esiste neppure l’Italia, esiste un’altra cosa, un altro Paese. È questo un punto cruciale - e insieme il punto più debole, mi pare - del discorso del nostro presidente del Consiglio. Se ci si propone di governare l’Italia per dieci anni - come pare che egli voglia fare - allora è impossibile farlo solo da Firenze (al massimo con una propaggine a Milano e dintorni). Così come è impossibile farlo ripetendo e twittando raffiche di «rimbocchiamoci le maniche», «la svolta è vicina», «siamo ripartiti» o incitamenti simili. Sembra necessario qualcosa di più: qualcosa che guardi più lontano e più in alto, che risponda a questioni di fondo. Che connetta il passato con il futuro, i pochi con i molti, chi ha di più con chi ha di meno, il Nord con il Sud, appunto.

21 dicembre 2015 (modifica il 21 dicembre 2015 | 08:34)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_21/governo-sud-che-non-c-e-74ba6972-a7ac-11e5-927a-42330030613b.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Università, calano le matricole un declino da fermare
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 30, 2015, 06:15:07 pm
Gli atenei
Università, calano le matricole un declino da fermare
Per la prima volta nella storia italiana diminuisce il numero degli iscritti, il 20% in meno nell’ultimo quinquennio.
Cala anche il numero dei docenti, mentre la spesa statale per gli atenei resta ferma da dieci anni

Di Ernesto Galli della Loggia

Per la prima volta nei 150 anni della sua storia l’Italia vede diminuire il numero degli studenti immatricolati all’università (meno il 20 per cento nell’ultimo quinquennio). Ciò avviene in concomitanza con una forte contrazione quantitativa che colpisce tutta la nostra istituzione universitaria. Più o meno nello stesso periodo, infatti, i docenti sono diminuiti del 17 per cento, e all’incirca della stessa percentuale il personale amministrativo, mentre l’ammontare dei finanziamenti ordinari che lo Stato versa agli atenei segna una diminuzione di ben il 22,5 per cento in termini reali. La spesa statale per borse di studio è ferma da dieci anni a 160 milioni annui (quindi cala in termini reali). In sostanza, rispetto al totale della spesa pubblica il comparto universitario è quello che ha fatto segnare negli ultimi anni la maggiore riduzione del personale e della spesa stessa. Il brillante risultato di questa politica di vero e proprio disinvestimento in un settore come quello dell’istruzione superiore e della ricerca - che peraltro in ogni occasione tutti si affannano a definire cruciale, importantissimo, decisivo - è che oggi l’Italia è all’ultimo posto in Europa per numero di giovani provvisti di laurea. Il ministro Giannini conosce certamente queste cifre. Nel caso contrario non ha che da dare un’occhiata al rapporto della Fondazione Res curato da un valente economista come Gianfranco Viesti, dedicato per l’appunto alle condizioni dell’università italiana. Dove un dato drammatico emerge, insieme a quello della forte contrazione del finanziamento statale: la crescente disparità di condizioni fra atenei del Nord e atenei del Sud.

Il calo delle immatricolazioni nel Sud e nelle Isole è, per esempio, più che doppio rispetto al Nord del Paese (e riguarda, fatto significativo, specialmente i giovani provenienti dalle famiglie meno abbienti). Cresce poi il numero degli studenti meridionali che si iscrivono nelle università centro-settentrionali (il fenomeno inverso è quasi inesistente, com’è inesistente la mobilità all’interno dell’area meridionale). Al Sud, una percentuale di studenti oscillante tra il 17 e il 25 per cento a seconda delle sedi abbandona gli studi, contro una percentuale nel Centro-Nord del 12-15 per cento. Infine, il numero dei posti nei corsi di dottorato, la possibilità di assunzione di nuovi docenti, le loro possibilità di carriera, tutti questi fattori vedono gli atenei del Mezzogiorno più o meno gravemente indietro rispetto a quelli del resto del Paese. Ora, se è del tutto fisiologico che in un Paese esistano sedi universitarie più dotate e altre meno, è viceversa sicuramente patologica una situazione come quella italiana dove in tutto il Sud non si registra neppure un centro universitario di eccellenza (un buon dipartimento qua e là non serve a cambiare il quadro), mentre questi, invece, sono tutti concentrati al Nord con qualche oasi fortunata al Centro.
Il nostro sistema universitario soffre insomma di una doppia criticità. Da un lato esso vede da anni le proprie risorse diminuire (mentre in Francia, Germania e Spagna avviene il contrario); dall’altro esso si presenta sempre più come un sistema differenziato, con un Sud che arretra progressivamente. Ancora una volta due Italie, dunque, e ancora una volta sempre più lontane: un giovane nato a sud del Tevere (in questo caso bisognerebbe forse dire a sud dell’Arno) è destinato, novanta probabilità su cento, a studiare in un’università di serie B.

Anche in questo ambito la prima spiegazione va cercata in un divario storico di partenza tra le due parti del Paese. Al quale si sono poi aggiunte nel Sud le ben note condizioni economiche ambientali sfavorevoli, la povertà dei circuiti culturali locali, élite politiche cittadine e regionali quasi sempre prive di visione e di capacità, la peste del baronato con punte record di clientelismo accademico e non. Un peso tutto particolare ha avuto infine una legislazione sciagurata che, facilitando il reclutamento del corpo docenti all’interno di una stessa sede universitaria, ha impedito quella circolazione su base nazionale dei professori che prima era la regola. Gli atenei meridionali si sono trovati così come rinchiusi irreparabilmente nei propri mali e nei propri vizi, condannati a una progressiva subalternità.

Una subalternità che peraltro è stata ancor più accentuata dalla scelta politica compiuta dalle autorità ministeriali negli ultimi anni. I soldi non sono tutto, è vero, ma senza soldi non si può fare quasi nulla, senza soldi non si va molto lontano. Detta in poche parole, la scelta politica di cui dicevo è consistita nel decidere di distribuire i fondi statali ai vari atenei in misura differenziata, premiando quelli che adempivano meglio a una serie di condizioni. Specificare in dettaglio è in questa sede impossibile. Basterà dire che di fatto tali condizioni (livello delle tasse richieste agli studenti, quantità e qualità della produzione scientifica dei docenti, livello delle attrezzature, livello di internazionalizzazione) sembrano studiate apposta per premiare gli atenei che sono già ai primi posti e ricacciare così ancora più indietro quelli che sono agli ultimi. Ciò che infatti da anni, come si è visto, sta regolarmente avvenendo, a danno soprattutto delle sedi meridionali.

Ma paradossalmente ciò sta avvenendo senza che nessuno lo abbia discusso veramente. Senza che nessuno abbia discusso la questione cruciale. Vale a dire: che cosa si deve fare del sistema universitario italiano? Come deve essere? Puntare su poche sedi già oggi in buona posizione per cercare di farne dei veri centri di eccellenza di livello europeo può essere giusto, ma che fare allora delle altre e quali caratteristiche queste debbono avere? Ed è giusto che le sedi di eccellenza siano tutte o quasi concentrate in un triangolo della Pianura padana? Infine: si può immaginare un qualunque futuro per il sistema universitario riducendogli progressivamente i fondi come si fa ormai da troppo tempo?

Da ultimo una postilla: questo non vuole essere uno di quei piagnistei da «gufo» che tanto dispiacciono al nostro presidente del Consiglio. Al contrario: è un invito proprio a Matteo Renzi perché rivolga la sua attenzione a una questione cruciale per il Paese e intervenga come, se vuole, sa fare. Se gli servono idee, ammesso che egli pensi di averne bisogno, stia sicuro che in circolazione ce ne sono di ottime.
30 dicembre 2015 (modifica il 30 dicembre 2015 | 08:53)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_dicembre_30/universita-calano-matricole-declino-fermare-17ae7d06-aec6-11e5-8a3c-8d66a63abc42.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Integrare senza sensi di colpa
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 10, 2016, 04:22:29 pm
Diritti e doveri
Integrare senza sensi di colpa

Di Ernesto Galli della Loggia

Quando da molte parti s’invoca verso gli immigrati una politica volta all’integrazione, di che cosa parliamo in realtà? Che cosa intendiamo esattamente? E per cominciare: in che cosa pensiamo che gli immigrati debbano integrarsi? Lo ha detto chiaramente l’altro ieri la cancelliera Angela Merkel: vogliamo che gli immigrati assorbano «i fondamenti culturali del nostro vivere insieme», che essi s’integrino, cioè, nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi. Ma cos’altro rappresenta tutto questo, mi chiedo, se non una cultura, nel caso specifico la nostra cultura? L’integrazione, insomma, è integrazione in una cultura, l’adozione di fatto (volontaria o involontaria non importa) dei suoi tratti caratteristici di fondo, della sua visione del mondo. O è questo, o semplicemente non è.

Ma se le cose stanno così bisogna allora rendersi conto delle conseguenze che ne derivano. In particolare del fatto che un tale progetto d’integrazione è radicalmente contraddittorio, per non dire incompatibile, con l’idea e la prassi del multiculturalismo. Quel multiculturalismo che invece in Occidente moltissimi ancora considerano la linea guida da seguire nel rapporto con l’immigrazione: anche perché espressione del «politicamente corretto».

Questo multiculturalismo all’insegna del «politicamente corretto» è alimentato da decenni dal pregiudizio che la nostra civiltà si sarebbe macchiata di misfatti di qualità e quantità superiori a tutte le altre, e quindi si sente in dovere della più esasperata attenzione verso ogni minoranza o gruppo non occidentale, percepito per definizione come potenziale vittima di soprusi. Esso non solo può essere protagonista di episodi di ridicolaggine assoluta (ma significativa), di cui di recente hanno dato notizia i giornali, come la protesta del campus dell’Università di Yale contro l’intitolazione di un edificio al presidente americano Wilson perché a suo tempo «favorevole alla supremazia bianca», ovvero come la protesta sempre di un gruppo di studenti dell’Ohio, mobilitatisi in grande stile contro l’indebita «appropriazione culturale» di cui si sarebbe macchiata la caffetteria del loro college preparando dei piatti etnici ma scostandosi dalla loro preparazione tradizionale. Esso ha avuto sicuramente una parte non piccola anche nel comportamento timido fino all’omissione della polizia di Colonia la notte dell’ultimo dell’anno, così come dell’occultamento per giorni della notizia di quei fatti da parte dei media tedeschi, o delle infelici, ridicole, dichiarazioni del sindaco della città.

Il multiculturalismo consiste nell’idea che in una società possano / debbano convivere senza problemi culture diverse. Anche molto diverse. Il guaio è che la cultura non è come un cappotto, che uno può infilarsi o sfilarsi a piacere. Quando se ne possiede una, e si ha intenzione di mantenerla, è molto difficile, pressoché impossibile, adottarne insieme un’altra. Se si crede in certi valori, è difficilissimo farne propri allo stesso tempo anche altri. Se per esempio è radicata dentro di me una certa idea dell’altro sesso e dei rapporti tra i due, una certa idea del rapporto tra la religione e lo Stato, una certa idea del mio passato storico, del suo significato e del suo rapporto con quello altrui, e se, come è ovvio, da ognuna di queste idee discendono comportamenti conseguenti, come potrò mai integrarmi davvero in un’altra cultura? Come potrò mai essere in certo senso due persone diverse contemporaneamente?

Non a caso una società realmente multiculturale - che non è quella che ci fanno vedere nei film dove tutti contenti mangiamo insieme il cous cous o indossiamo una pittoresca djellaba, ma è caratterizzata da una molteplicità paritaria di culture - questa società non esiste in alcun luogo del pianeta. In ogni società vi è una cultura dominante, cioè quella che determina il quadro delle regole generali. Regole che - va sottolineato con forza - anche nel caso delle attuali società democratiche, direi anzi soprattutto in queste, non sono mai neutre, quindi condivisibili (e perciò osservabili) da tutti senza problemi. Esse, invece, rappresentano e tutelano sempre determinati modelli di vita, determinati valori, frutto di una determinata storia, specialmente religiosa. Bisogna quindi avere il coraggio di dirlo e soprattutto di farlo capire a chi viene tra noi, non nascondendo che ciò vale soprattutto per coloro che provengono dal mondo islamico. Per gli immigrati integrarsi implica necessariamente la rinuncia a una parte più o meno importante della propria cultura. Perlomeno significa accettare che l’ambito d’influenza di essa - per esempio di alcuni modi tradizionali d’intendere la propria fede religiosa - incontri dei limiti più o meno significativi.

Abbiamo il dovere di offrire agli immigrati protezione e opportunità, eguaglianza e godimento dei diritti. Dobbiamo facilitarne l’ingresso nel mondo del lavoro (anche magari con percorsi di favore), soprattutto garantendoli dallo sfruttamento di padroni e imprenditori senza scrupoli (ciò che facciamo poco e male). In parecchi casi non dobbiamo esitare a concedere anche la nazionalità. Ma non dobbiamo esitare a chiedere, e se necessario a imporre - anche grazie a nuove disposizioni, a eventuali nuovi e più penetranti poteri ai servizi sociali o alle autorità di polizia locale e non - alcune regole. Che per esempio dopo un certo periodo di tempo per ottenere il permesso di soggiorno sia necessario dimostrare il possesso della lingua italiana. Che la predicazione nei luoghi di culto non debba avere carattere politico. Che all’interno dei nuclei familiari le mogli debbano avere accesso alla lingua italiana e godere piena libertà di movimento (ciò che oggi in un gran numero di casi non avviene). Che l’obbligo scolastico dei minori sia rigorosamente osservato per entrambi i sessi. Che le adolescenti non siano rispedite nei Paesi d’origine per contrarre matrimoni combinati (come invece è attualmente frequente).

Sono solo pochi esempi di un genere di questioni e di problemi che le classi politiche del nostro continente devono affrontare subito con la massima decisione e lungimiranza. Se finora l’Unione Europea ha fatto poco o nulla in questo ambito, il governo italiano ci pensi da solo. Abbia immaginazione e fermezza, soprattutto non abbia paura di avere coraggio: da ogni punto di vita non ha che da guadagnarci.

10 gennaio 2016 (modifica il 10 gennaio 2016 | 07:41)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_10/immigrrati-migranti-integrare-senza-sensi-colpa-editoriale-63e372c0-b764-11e5-8210-122afbd965bb.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Tra le leggi e i valori esiste una corrispondenza...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 14, 2016, 07:38:15 pm
MULTICULTURALISMO. Prospettive

Tra le leggi e i valori esiste una corrispondenza nelle società democratiche
Il rischio è credere che sia reale il mondo levigato e confortevole dove regna la morale del politicamente corretto In India essere cattolico è un’impresa che può costare anche la vita

Di Ernesto Galli della Loggia

Sarebbe buona norma che prima di criticare un testo lo si leggesse con un minimo di attenzione. Mi sorprende che invece Carlo Rovelli — per giunta uno scienziato di vaglia — si sia fatto prendere dalle sue emozioni e dai suoi pregiudizi obiettando a cose che io non ho mai scritto.

A differenza di quanto egli mi attribuisce non ho mai scritto, infatti, che «la nostra società deve essere guidata da un sistema di valori e dalle regole dettate (corsivo mio) dai comportamenti socialmente ammessi». Ho scritto di condividere l’opinione della cancelliera Merkel secondo cui chi immigra da noi deve integrarsi «nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi». Come si vede una cosa ben diversa da quella immaginata da Rovelli (non ho mai pensato né scritto, cioè, che debbano essere i comportamenti socialmente accettati a dettare le regole. E mi chiedo: può specialmente un uomo di scienza permettersi una simile leggerezza? Può farne l’architrave del suo ragionamento senza accorgersi dell’errore?).

Il fraintendimento ora detto, chiamiamolo benevolmente così, consente a Rovelli, che vi insiste più e più volte, di prodursi in una lunga discettazione sulla necessità che le nostre società siano «regolate dalle leggi, non da sistemi di valori e giudizi individuali su cosa siano comportamenti socialmente ammessi», sdegnandosi adeguatamente del fatto che io, invece — secondo l’opinione che egli manipolando le mie parole mi attribuisce — auspicherei il contrario.

Evviva le leggi, abbasso i valori: questo è la sostanza del punto di vista di Rovelli, convinto, si capisce benissimo, di esprimere in tal modo una visione altamente democratica e razionale come si conviene a un vero scienziato. Peccato però che in questo caso si tratti di un punto di vista e di una visione sbagliati. Le leggi di una qualunque società, infatti, derivano da null’altro che dai suoi valori. E da dove altro se no? Salvo rarissimi casi tra le une e gli altri non vi può essere che una sostanziale coincidenza: pena, altrimenti, la non osservanza delle prime o la necessità di dure misure repressive per ottenerne il rispetto. «Le leggi vengono discusse dalla politica» scrive Rovelli. Appunto: e su che cosa egli crede che verta tale discussione, che cosa crede che rispecchi la sua conclusione in un testo legislativo, se non ciò che pensa, che crede, che spera chi vive in quella società? Cioè i suoi valori? Valori che poi, naturalmente, non possono non influenzare in modo significativo anche i comportamenti socialmente ammessi. In ogni società — e tanto più direi nelle società democratiche — tra leggi, valori e comportamenti c’è una sorta di necessaria

circolarità, di necessaria corrispondenza (esattamente come io avevo scritto nella frase da Rovelli manipolata).

L’evidente scarsa dimestichezza di Rovelli con tali argomenti si manifesta in pieno quando egli si mette a parlare della cultura in generale e di quella della nostra penisola in particolare (ma in fin dei conti lo capisco: non si può possedere in eguale misura la bibliografia sui neutrini e quella sulla storia d’Italia). Cultura è una parola complessa, dalle molte accezioni; un po’ come filosofia. Ebbene Rovelli parla di cultura come chi a proposito di filosofia parlasse allo stesso modo della filosofia idealistica e della «filosofia del parmigiano», cioè non distinguendo la sostanziale differenza tra gli usi diversi dello stesso termine. Certo che «ogni cultura non è mai unica», come un po’ alla buona scrive Rovelli. Certo che ogni cultura degna di questo nome si forma attraverso la confluenza nel proprio alveo di influssi e ibridazioni. Ma l’alveo è decisivo, per l’appunto. E ogni alveo è diverso da un altro. Dunque, credere che l’Italia sia un esempio preclaro di multiculturalismo solo perché della sua identità fanno parte cose diverse come il Rinascimento toscano e l’Illuminismo milanese, o perché Peppone e don Camillo votavano partiti opposti, è un’idea di un’approssimazione e di un’ingenuità che un minimo, ma proprio un minimo, di preparazione sull’argomento sarebbe stata sufficiente ad evitare. La verità è che non ci si può mettere a sentenziare su queste cose in modo impressionistico, basandosi su un buon liceo e sulla lettura dei giornali. È come se io mi mettessi a disquisire sui «buchi neri» o a dire la mia sugli anelli di Saturno.

Egualmente è di un’ingenuità e di un’approssimazione intellettuali da far cadere le braccia credere, come il mio interlocutore crede, che la cultura italiana di oggi sia profondamente diversa da quella dei nostri nonni. Cioè, bisognerebbe dedurne, che la cultura di un Paese — quella vera, quella profonda, frutto di innumerevoli stratificazioni a cominciare da quella religiosa — cambi ogni settanta, ottanta anni. Non è così. Ciò che cambia è semmai il costume, caro Rovelli, il costume, non la cultura, non i tratti dell’identità e dei suoi valori di fondo. Sono cose assai diverse, come lei sa, e la conoscenza dovrebbe consistere innanzi tutto nella capacità di distinguere.

Che dire infine di New York, Shanghai o Mumbai additate in queste righe quali eden di una «tolleranza serena delle diversità», della «convivenza pacifica», di «un senso civico comune», di «una nuova identità plurale»? Ma ha mai provato chi scrive tali cose a passeggiare di notte nel Bronx o a tenere un comizio antigovernativo su un marciapiede del Bund? Ed è mai venuto a conoscenza che, certamente non nei quartieri centrali di quella grande città, ma sicuramente in moltissime zone dell’India, essere cattolico è, per esempio, un’impresa a rischio che si può pagare con la vita, ovvero, per dirne un’altra, che lo stupro delle giovani donne è pratica diffusa, molto spesso ancora oggi impunita? Ma andiamo, di che cosa stiamo parlando?

La verità è che il multiculturalismo di cui parla Rovelli e che suscita la sua entusiastica adesione non ha molto a che fare con nulla di reale, con la storia, con le culture, con i problemi reali (da lui infatti del tutto ignorati perché, immagino, attribuiti a pure «superstizioni» che il progresso prima o poi cancellerà). È un multiculturalismo da vip lounge aeroportuale, un multiculturalismo da campus di Yale, da prestigiose summer school riservate ai «migliori studenti», come egli scrive. Un mondo levigato e confortevole dove regna il politically correct che lo obbliga a credere che esistano leggi disincarnate dettate da una morale universale mentre — che bello! — in una strada da qualche parte «i giovani di tutto il mondo si parlano». È il mondo al riparo del mondo dove solo può vivere in un cieca autoreferenzialità l’idillio buonista di tante élite intellettuali dell’Occidente, avvolte nel compiacimento dei privilegiati che neppure sospettano di esserlo.

13 gennaio 2016 (modifica il 13 gennaio 2016 | 07:55)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_gennaio_13/tra-leggi-valori-esiste-corrispondenza-societa-democratiche-3655aa54-b9bb-11e5-b643-f344dc24c117.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Renzi rompe gli equilibri in un Paese che cambia
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 27, 2016, 11:28:50 am
Renzi rompe gli equilibri in un Paese che cambia

Di Ernesto Galli della Loggia

Curiosamente non ha suscitato molta attenzione il dissidio che nei giorni scorsi ha opposto il presidente del Consiglio da un lato e, pressoché contemporaneamente, la Banca d’Italia e il ministero degli Esteri dall’altro. La prima colpevole, agli occhi di Renzi, di non avergli saputo fornire in tempo le analisi e i consigli in grado di evitare la crisi bancaria che ha fatto scendere in piazza migliaia di risparmiatori; il secondo costretto a digerire la sostituzione del nostro rappresentante presso la Ue — finora un ambasciatore di carriera giudicato però troppo morbido nei confronti di Bruxelles — con un ambasciatore politico quale l’ex viceministro Calenda. Eppure pochi episodi fanno capire altrettanto bene quanto l’Italia è cambiata. Banca d’Italia e ministero degli Esteri non sono istituzioni qualunque.

Ognuna a suo modo ha rappresentato una quintessenza della statualità italiana e della sua vicenda storica. Non solo per la loro funzione, ma perché in entrambi i casi questa funzione si è per così dire incarnata in una specifica ideologia e in un altrettanto specifico «spirito di corpo». Fatti di una tradizione e di una cultura, di norme stilistiche e di principi di azione loro propri. Per le istituzioni italiane un caso rarissimo. Nella prima Repubblica Banca centrale e Diplomazia sono state chiamate a gestire un’idea d’Italia che era, com’è ovvio, l’idea delle culture politiche dominanti, ma che con qualche aggiustamento si combinava senza troppi problemi con quella delle loro rispettive tradizioni

L’idea di un'Italia «occidentale» e insieme europeista (sebbene con qualche inevitabile «giro di valzer»), ben conscia di certe sue storiche peculiarità, soprattutto guidata da una classe politica sufficientemente preparata e decisa a stabilire una consonanza collaborativa con l’alta amministrazione. Per mezzo secolo Esteri e Banca centrale hanno dunque rappresentato e gestito ognuna per la sua parte questa Italia, e lo hanno fatto, hanno potuto farlo, con un forte ruolo in prima persona, con la responsabilità di attori diretti.

Negli anni 90, con la fine contemporanea della «guerra fredda» e della prima Repubblica, tutto però ha cominciato a erodersi. Ha cominciato a prendere forma un’altra Italia, quella in cui viviamo. Un Paese che inediti scenari internazionali costringono a punti di riferimento sempre più mobili e incerti anche se al medesimo tempo, e contraddittoriamente, lo stesso si trova sempre più ingabbiato dalle regole europee. Un Paese dagli equilibri politici mutevoli, governato da una classe politica slegata da ogni passato che perlopiù ignora; attraversato da pulsioni di rabbia, da improvvisi movimenti d’opinione, da oscure voglie di rovesciamenti di fronte.

Per più di un verso l’Italia attuale appare insomma costretta a navigare a vista, alle prese con una difficile ridefinizione degli interessi nazionali, nel mentre si è incrinato quello stesso rassicurante perimetro della sovranità nazionale entro il quale proprio la Banca d’Italia e la nostra Diplomazia hanno tradizionalmente sviluppato la propria identità e del quale sono state addirittura tra i massimi presidi. Oggi l’una e l’altra si trovano prive della possibilità d’interloquire con vere culture politiche di riferimento (tutte ormai ridotte a informi gelatine di idee sparse), con veri partiti. Viceversa la crescente, impetuosa personalizzazione del sistema politico non solo italiano le pone sempre più direttamente a contatto con la solitaria figura del leader, del capo del governo (i ministri essendo ormai figure minori: nel caso degli Esteri quasi un comprimario). Il leader: con le sue mutevoli esigenze, la necessità di mantenersi sulla cresta dell’onda e magari in sintonia con i sondaggi, la sua voglia di accentrare nelle proprie mani le decisioni, con il suo naturale desiderio di successi visibili e immediati. Specialmente se questo leader si chiama Matteo Renzi.

Si capisce come l’insieme delle condizioni fin qui dette possa essere adoperato non solo al fine di porre per così dire «fuori fase» la Banca centrale o il ministero degli Esteri, non solo per restringere, come di fatto in certa misura sembra avere già ristretto, i margini di autonomia dell’una e dell’altro, ma anche per intaccare il senso e soprattutto la certezza della loro missione istituzionale. E si capisce allora il significato del dissidio che ha opposto entrambi al presidente del Consiglio.

Un dissidio che non manca di avere anche un evidente risvolto stilistico: da un lato la contegnosa sobrietà rivestita di grisaglia di Palazzo Koch, da un lato l’inglese fluente e una certa esterofilia blasé della Farnesina, dall’altro, invece, gli abiti troppo stretti, la voglia un po’ provinciale di far bella figura e il fare spiccio e risoluto di Renzi. Un dissidio che alla fine sembra l’indizio di un vero e proprio cambio di fase storica nella geografia del potere italiano e dei suoi rapporti interni. E che forse annuncia qualcosa ancora di più: l’avvento di una «gente nova» e del suo comando al posto delle élite di un tempo e delle loro istituzioni.

25 gennaio 2016 (modifica il 26 gennaio 2016 | 04:45)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_gennaio_25/renzi-rompe-equilibri-un-paese-che-cambia-b9a6430a-c3a7-11e5-b326-365a9a1e3b10.shtml


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Quei notabili locali tra soldi e potere
Inserito da: Arlecchino - Agosto 09, 2016, 06:02:41 pm
Quei notabili locali tra soldi e potere
La crisi sistemica di molti istituti di credito non è solo un fatto economico, ma pure un capitolo di storia sociale del Paese: una radiografia spietata che svela il lato oscuro delle classi dirigenti sul territorio, il sogno di dominio delle oligarchie più periferiche

  Di Ernesto Galli della Loggia

La crisi del nostro sistema bancario non è solo un fatto economico, è anche un capitolo di storia sociale del Paese. Parlo in riferimento ai tanti istituti medi e piccoli — ma pure a una banca come il Monte dei Paschi, ad esempio — la cui crisi costituisce una radiografia spietata del potere locale italiano. Essa ci racconta infatti nel modo più crudo che cosa sono e come si comportano le oligarchie che dominano nella periferia italiana e che attraverso i loro esponenti troviamo ogni volta alla testa degli istituti in bancarotta. Svelandoci che cosa realmente è l’Italia dei tanto esaltati «territori». Carige, Banca Etruria, Banca Marche, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, CariFerrara, CariChieti, Monte Paschi: c’è dentro mezza Penisola: anzi tutta quanta se si considera la lunga lista di banche minori (quasi tutte di credito cooperativo) che la Banca d’Italia ha commissariato nei mesi scorsi e che vede una massiccia presenza di banche del Mezzogiorno. Causa e modalità dello sconquasso sono più o meno sempre le medesime. La storia è sempre la medesima. È una storia di gruppi di comando locali installatisi alla testa degli istituti, i quali in sostanza si perpetuano cooptando via via i propri membri. Sono in genere formati da qualche imprenditore non sempre brillantissimo, da qualche nome più o meno «illustre» tratto perlopiù dal ceto possidente tradizionale, da un pugno di professionisti affermati con vasti giri di contatti e di «agganci», da una vecchia gloria superammanicata o da qualche astro in ascesa della politica locale.

Troviamo sempre infine due o tre alti dirigenti di banca perlopiù di oscura origine ma capaci — capaci per intenderci, allo stesso modo che può dirsi capace di un meccanico che trucca le automobili —: uomini, questi ultimi (donne non se ne trovano mai), dall’ambizione accesa, che sanno come muoversi nelle pieghe dei bilanci e perciò rendersi necessari, che capiscono al volo di chi bisogna essere amico e a chi conviene concedere un fido a occhi chiusi. Tutti quanti naturalmente, si può immaginare, «conoscono» qualcuno a Roma, frequentano nella loro città i luoghi, le cerimonie e le occasioni che contano, sanno destreggiarsi bene tra Regione e Palazzo di Giustizia, sono in ottimi rapporti con il Comune, con la Camera di Commercio e l’Unione industriale. Non sono l’élite d’altra parte?

È di questi campioni del notabilato di tante città e province italiane che sono stati formati i consigli di amministrazione, i comitati di presidenza, i collegi dei Sindaci, che hanno portato alla rovina un bel gruppo di istituti bancari e depredato decine di migliaia di loro più o meno incolpevoli concittadini. Perché lo hanno fatto? È molto semplice: per arricchirsi, per arricchirsi sempre di più. E insieme per accrescere la propria influenza, per avere più cariche, più relazioni importanti, per diventare più potenti e così magari ancora più ricchi. Soprattutto più ricchi. Posso dirlo senza perciò apparire un cupo moralista? Se c’è una cosa che colpisce da quanto sta emergendo dalle inchieste giudiziarie in corso è la dimensione appropriativa senza l’ombra di uno scrupolo, l’indifferenza a qualsiasi straccio di etica della responsabilità, che sembrano congeniali al notabilato di cui sopra. Questa voglia mai sazia di soldi e di potere, di mettere le mani su una villa o su un affare, l’incapacità di fermarsi.

Così come colpisce l’ovvia convinzione dell’impunità sostanziale, di farla franca in qualunque caso, che con ogni evidenza permeava i sullodati signori del credito. Una convinzione fondata su un dato di fatto — che in Italia i potenti in galera seppure ci vanno ci restano sì e no qualche settimana — ma soprattutto sull’intreccio delle relazioni sociali: quello stesso intreccio che così di frequente ha determinato l’erogazione dei crediti facili presto rivelatisi inesigibili ma sempre rinnovati fino all’ultimo. L’intreccio delle relazioni, dicevo: in una certa provincia italiana ci si conosce tutti, specie tra quelli che contano. Insieme si progettano affari e vacanze, cene e consulenze, si stabiliscono matrimoni e ordini del giorno. E naturalmente si è pronti a scambiarsi favori, a chiudere un occhio quando va chiuso. Anche da parte di chi, come le Procure della Repubblica, avrebbe invece il dovere di tenerli spalancati.

«Che cosa ci si può aspettare da un Paese così?» viene malinconicamente da chiedersi. E viene da pensare al film della sua storia unitaria, al film degli ultimi 150 anni, che ormai sempre più spesso sembra riavvolgersi al contrario. Infatti è contro questa riottosa «società civile» intimamente sorda a ogni richiamo all’interesse generale, e contro i suoi animal spirits autocentrati e ciecamente acquisitivi, che da sempre se l’è dovuta vedere lo Stato italiano. Ed è contro di essa che tanto spesso sono sembrati naufragare i suoi tentativi di far valere regole di legalità e fini collettivi più ampi e più civili. Tentativi che oggi più che mai sembrano vani nel momento che a questo Stato è venuta meno l’arma della politica, e insieme quella sua preziosa appendice democratica rappresentata dai partiti, che in passato si è rivelata decisiva per imporre la propria volontà alle periferie. Per tenerle insieme, per legarle a un progetto capace di guardare lontano, oltre i loro confini e i loro interessi immediati. Oltre i consigli d’amministrazione bancarottieri e gli arricchimenti personali.

6 agosto 2016 (modifica il 6 agosto 2016 | 21:45)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_agosto_07/quei-notabili-locali-soldi-potere-a910a6ee-5c0d-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml



Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Interviste DI Luca Falcone
Inserito da: Arlecchino - Giugno 03, 2017, 11:38:25 am
Interviste
Luca Falcone @lucafalc1  · 2 giugno 2017

Galli della Loggia: “Da Craxi al governo Moro: ecco le occasioni perse dalla politica”
Ernesto Galli della Loggia nel suo libro “Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica” incrocia la storia d’Italia attraverso la sua biografia

Professor Ernesto Galli della Loggia nel suo libro “Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica” (Il Mulino, pp. 355, 24 euro) è centrale il tema del cambiamento. Cambiare idea è inevitabile, ma perché nel nostro Paese viene considerato un tradimento?

“Ciò è dovuto all’egemonia culturale prodotta da una politica ideologizzata che in maniera manichea ha diviso il mondo tra il bene e il male assoluto. Il marxismo ha aperto la strada a questo meccanismo, il resto l’ha fatto lo storicismo. Se la storia va verso la nostra parte, chi la pensa diversamente da noi va contro la storia. E per farlo deve avere degli interessi materiali particolari, altrimenti non si giustifica la cosa. A ciò, nel secondo dopoguerra, si è legato anche un processo di idealizzazione positiva della triade Resistenza-Repubblica-Costituzione con una forte caratura etica. Chiunque osasse criticare qualcosa di questa triade si poneva automaticamente fuori, e quindi da un punto di vista morale tradiva”.

A proposito del cambiamento del sistema politico italiano, lei indica nel volume due grandi occasioni perse. Una, all’inizio degli anni ‘60, col primo centrosinistra e il fallimento del riformismo di Aldo Moro. La seconda con Craxi, negli anni ‘80, soprattutto per un generale ostracismo – in particolare del Pci – nei confronti del leader socialista.

“Sì, credo che quelli siano stati due snodi fondamentali in cui i principali protagonisti, la Democrazia cristiana, il Pci e il Partito socialista, paralizzarono la modernizzazione del nostro sistema politico. Nel primo caso i socialisti, bloccati da ‘un vorrei ma non posso’, persero l’opportunità col Governo Moro di incidere davvero sul piano delle riforme. Dal lato della DC, gli errori furono tutti addebitabili ad Aldo Moro che, troppo spaventato da questa alleanza di centrosinistra, mise il freno a qualsiasi tipo di vera riforma. E, infine, i comunisti – sia negli anni ‘60 che negli ‘80 – non capirono la reale portata storica del momento e non seppero elevare il livello della loro azione oltre l’allarme sull’incombente fascismo. Quanto al tentativo di Craxi, il suo errore fu, dopo aver indicato la strada della grande riforma, metterla da parte e, in più, dopo l’87 non saper cogliere il momento per un’apertura alta e generale al Pci che avrebbe potuto creare le basi di un grande polo di sinistra riformista”.

Il suo libro incrocia la storia d’Italia attraverso la sua biografia. Lei ha spesso sollevato il tema dell’egemonia culturale della sinistra e del Pci nella vita del Paese. Quali le cause?

“I comunisti sono stati i più bravi – per merito di Togliatti – a scegliere di puntare sulla cultura. Dal cinema, ai giornali, alla radio: hanno capito che quelli erano gli strumenti per condizionare la società ed esercitare il loro potere. Prima c’era stato il fascismo e la cultura di orientamento liberal-democratico era già stata messa in crisi. Il primo esodo degli artisti e degli intellettuali avvenne allora. Dopo la fine della guerra ci fu il secondo. Questa volta verso il Pci, che aveva capito prima e più degli altri l’importanza di quell’elemento”.

Perché in Italia per gli intellettuali è stato così difficile fare i conti veri prima col fascismo all’inizio del secondo dopoguerra e poi, dopo il 1989, col comunismo?

“Col fascismo doveva fare i conti tutta la società. Ci occupiamo degli intellettuali perché scrivendo lasciano tracce con i loro testi, ma erano in tanti ad avere qualcosa da farsi perdonare e fu così che tutti si perdonarono tra loro. Nel libro racconto il caso emblematico di Guido Leto – capo della famigerata Ovra, la polizia politica fascista – che, dopo ‘incredibili vicissitudini’ tra la caduta del fascismo e la fine della guerra, nel 1951 tornò tranquillamente alla sua brillante carriera nella polizia dell’Italia repubblicana. Cosa diversa fu, invece, col comunismo. Venne posta una netta distinzione tra quanto avvenne in Italia e quello che successe in Urss. C’era un velo di silenzio sulla realtà sovietica, tanto i comunisti italiani erano diversi. Questo permise di distinguere e “non vedere”.

Come stanno gli intellettuali in Italia oggi? Tutti rifugiati nel “privato”?

“Semplicemente non contano più. Non hanno un ruolo di rilievo nella società e per questo non prendono più la parola come avveniva nel passato. E’ un bene, forse. Finalmente conquistiamo la normalità. Una normalità grigia e fatta di silenzio. Il clima è cambiato, anche perché non ci sono più le ideologie al centro della scena”.

Nel testo pone una distinzione tra l’uso politico e la vocazione pubblica della storia. Molti i casi di sfruttamento a fini politici e culturali di falsificazioni della storia. Come giudica il dibattito sulla cosiddetta post-verità, in cui secondo qualcuno non è vero ciò che è vero ma è vero ciò che è virale?

“E’ una corbelleria. Non esiste dibattito. Non ci sono parole. E’ una cosa che non esiste la post-verità”.

Sono passati 17 anni dalla morte di Craxi. Nel suo libro lei dedica pagine importanti al tentativo (e agli errori) della sua riforma del sistema politico italiano. Siamo pronti per un dibattito maturo su quell’argomento o anche qui prevalgono elementi di tipo morale nel giudizio?

“Mi sembra che non siamo pronti per un dibattito maturo. O meglio: anche in questo caso prevale la doppia verità. Chiunque si approcci in maniera seria e approfondita al tema, pensa che quello sia stato un tentativo positivo di cambiare il sistema politico. Poi però nessuno lo dice in pubblico o lo scrive, perché sulla figura di Craxi ancora prevale solo l’elemento giudiziario. In questo caso l’egemonia culturale è di chi ha elevato a unico criterio di valutazione non la storia e la politica, ma la fedina penale delle persone, anche perché, forse, non si possiedono gli strumenti culturali ed intellettuali per approfondire alcuni fenomeni”.

Non si può negare che uno degli ultimi tentativi di cambiamento del sistema politico italiano sia stato quello di Matteo Renzi, naufragato nelle urne del 4 dicembre. Lei scrive: “Cambiare è stato un tabù nella Prima Repubblica, per poi diventare un mantra senza effetto nella Seconda”. Dobbiamo rassegnarci all’impossibilità della politica di cambiare il Paese dalle fondamenta?

“Rassegnarsi mai. Dovremmo però smetterla di dirlo e provarle a fare davvero. Non torno sugli errori e le insufficienze di Matteo Renzi. Certo è che per molti anni sarà difficile che qualunque politico si avvicini di nuovo al tema delle riforme di sistema. Ma è sbagliato, perché questo Paese ha il disperato bisogno di farle. Non possiamo neanche dire che in alternativa rischiamo il declino, perché già ci siamo dentro con tutti i piedi. Bisogna intervenire per evitare che il declino ci travolga del tutto”.

Da - http://www.unita.tv/interviste/galli-della-loggia-libro/


Titolo: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Gli apparati pubblici e il declino dello Stato
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 02, 2018, 06:55:46 pm
IL CASO ITALIANO

Gli apparati pubblici e il declino dello Stato
È naturale chiedersi se la nostra crisi non sia anche crisi dell’intero vertice amministrativo-giuridico, delle sue qualità e diciamo pure della sua etica

  Di Ernesto Galli della Loggia

Sarebbe sciocco mettere sotto accusa istituzioni chiave dello Stato sulla base di poche seppur comprovate inadeguatezze, di singoli casi di malcostume, di sensazioni necessariamente generiche. Ma sarebbe altrettanto, se non più, sciocco tacere dell’impressione negativa che lasciano nel pubblico recenti notizie di cronaca riguardanti la Banca d’Italia, la Consob, e il Consiglio di Stato. Innanzi tutto perché in tutti questi casi ci troviamo di fronte a istituzioni di vertice in qualche modo rappresentative (al meglio!) di tutto un insieme; e poi perché l’impressione negativa di cui ho detto, lungi dal nascere solo da queste ultime vicende appare corroborata da indizi che si succedono ormai da tempo.

Come si capisce, è difficile essere precisi, dal momento che si tratta di un’impressione dai contorni ancora sfumati e dai contenuti non molto definiti. Ma forte è la sensazione che le istituzioni di cui sopra stiano smarrendo il senso della loro tradizione, che su di esse gravi sempre più il pericolo della perdita di quelle doti di capacità e di rigore che fin qui sono state parte essenziale della loro realtà e della loro immagine. Forte è la sensazione che in coloro che lavorano al loro interno stia venendo meno la consapevolezza del proprio ruolo. Del suo rilievo pubblico, nonché delle qualità personali e culturali che sono necessarie. Le cose sembrano stare proprio in questa maniera poco esaltante.

Ma se questa è oggi l’impressione che danno istituzioni come la Banca d’Italia e il Consiglio di Stato, allora è naturale chiedersi che cosa dovrà mai esserne di tutto il resto del nostro apparato statale: dell’alta burocrazia, dei suoi uffici, dei suoi capi. È naturale chiedersi, in una parola, se ormai la crisi italiana non sia anche crisi dell’intero vertice amministrativo-giuridico in senso lato dello Stato ( dalla Consob al Csm, al Consiglio di Stato, all’Anvur, al Consiglio Superiore dei lavori pubblici e così via seguitando), delle sue qualità e capacità di servizio, dei modi che ne regolano il reclutamento e il funzionamento. E diciamo pure la parola: della sua etica.

Il fatto è che tra le molte fratture che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica ce n’è stata una, silenziosa ma importantissima, che ha riguardato l’élite pubblica del Paese, quella che vede fianco a fianco la politica e l’amministrazione (intendendo con il termine anche le varie magistrature). Prima del 1994 si era stabilita tra le due una notevole convergenza. Terminato negli anni 60 il difficile periodo di assestamento del nuovo regime repubblicano e liberatisi i vertici dello Stato dalle scorie fasciste, la politica, ancora memore delle usurpazioni della dittatura, aveva pian piano imparato a rispettare (e in buona misura anche ad apprezzare) le autonome competenze dell’alta amministrazione e delle alte magistrature. Le quali a loro volta avevano appreso a contare, per la difesa della propria autonomia e la salvaguardia del proprio standard etico-culturale, su una parte della cultura cattolica ma specialmente sul forte abito di moralità pubblica rappresentata dalla tradizione laico-repubblicana nonché, a motivo del proprio ruolo di opposizione, da quella comunista: entrambe molto influenti e ascoltate rispettivamente nel governo e nel Paese. Personalità politiche come Andreatta, La Malfa, Amendola, sono state i custodi simbolo di questo ethos politico-amministrativo. Che aveva un nome un po’pomposo che oggi suona quasi umoristico: senso dello Stato.

La rottura del ’92-’94 ha cambiato tutto. Ha spezzato il filo di una tradizione che bene o male risaliva ai padri fondatori e ai loro ideali. A partire da quella data è rapidamente giunta al potere una classe politica sempre più simile a quello che ormai stava divenendo la media del Paese: culturalmente slegata da qualsiasi passato, priva di visione, immersa nell’atmosfera economicistica dei tempi; moralmente disinvolta e indifferente alle regole. Una classe politica, infine, che perlopiù imbevuta di euro-universalismi e dei miti della globalizzazione, nulla poteva realmente sapere di quell’ideologia dello Stato nazionale e dei suoi interessi che alla fin fine è ancora oggi l’ideologia essenziale che sorregge ogni funzione pubblica. Era soprattutto una classe politica nuova, agli occhi della quale governare non voleva più dire amministrare quanto specialmente comandare; che negli apparati dello Stato non cercava tanto degli interlocutori intelligenti quanto degli esecutori obbedienti.

È accaduto così che nella seconda Repubblica i vertici dello Stato, l’alta burocrazia, i grand commis e le alte magistrature, perduto il precedente rapporto con una sfera politica addestrata e consapevole, si siano trovati in certo senso abbandonati a se stessi. Presi nell’alternativa tra la tentazione di un’impossibile autonomia sempre sul punto di divenire separatezza autoreferenziale da un lato, e dall’altro la richiesta di una subalternità compiacente prossima a una vera complicità. Tra il credersi arbitri dei destini collettivi e il farsi servi-padroni della politica. Ed è accaduto che in questa stessa malefica alternativa si siano trovate le istituzioni che essi rappresentavano. Lo Stato della seconda Repubblica soffre da vent’anni del virtuale scollamento tra l’élite degli apparati pubblici e l’élite politica, la cui causa principale sta nel mutamento radicale che ha investito tanto la sfera della politica e le sue idee che la dimensione del governare. Un mutamento al quale però quegli apparati non possono andare dietro perché esso implica più o meno direttamente la negazione della loro funzione.

30 dicembre 2017 (modifica il 31 dicembre 2017 | 07:23)
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