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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 127333 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Luglio 18, 2010, 11:05:41 pm »

CETI ABBIENTI E SENSO DELLO STATO

Tra ricchezza e indifferenza


I dati sono ampiamente noti. Ma voglio ricordarli per l'ennesima volta riprendendoli da un recente articolo pubblicato sul Corriere da Sergio Rizzo. Ogni anno, in Italia, sfuggono completamente al fisco redditi per circa 300 miliardi di euro, con una perdita di entrate per le casse pubbliche pari a un dipresso a 100 miliardi di euro.

Venendo al dettaglio una cifra simile vuol dire che dovremmo credere all'incredibile: ad esempio che nel 2007 (ultime cifre disponibili) gli italiani con un reddito superiore a 200 mila euro sarebbero stati meno di 76 mila. Non solo, ma poiché solamente il 20 per cento di questi erano lavoratori autonomi (l'altro 80 per cento essendo dipendenti o addirittura pensionati), dovremmo pure credere che in tutta la Penisola, dalle Alpi al Lilibeo, non ci fossero allora più di 15 mila lavoratori autonomi che avessero un reddito di almeno 18 mila euro al mese. E dovremmo altresì credere—sempre stando a ciò che risultava al fisco — che in quello stesso anno soltanto 6.253 (dicesi 6.253) «percettori di reddito da imprese» avrebbero guadagnato più di 200 mila euro annui. Così come dovremmo convincerci che proprio in quelli che sono stati i 12 mesi precedenti la crisi ben il 45 per cento, vale a dire circa la metà delle società, avessero davvero, secondo quanto denunciato, un bilancio in perdita. Ma chi può credere a questa realtà di favola? Nessuno. Così come nessuno può credere che le tasse verrebbero pagate se solo fossero più basse (una favola che fa esattamente il paio con quella per cui se tutti pagassero le tasse queste diminuirebbero). Così come d'altra parte nessuno può credere ormai che faccia una differenza se al governo c'è la destra o la sinistra: la quale, anzi, ha dimostrato di non riuscire a dare alcuna concretezza alla sua astratta furia ideologica redistributiva.

E allora non resta che prendere atto di una diversa realtà, quella vera. E cioè che in Italia l'evasione fiscale, per la sua mole, la sua capillarità e la sua continuità nel tempo, è qualcosa di ben altro, e che va ben oltre una pur grave dimensione economica. Essa evoca piuttosto una fondamentale questione nazionale. Vale a dire qualcosa che rimanda immediatamente all'esistenza e alla consistenza stessa delle basi dello Stato nazionale, del nostro stare insieme. Infatti, se in una misura che non ha eguali in alcun altro Paese civilizzato la ricchezza, i ricchi, si sottraggono all'imposta, ciò vuol dire che di fatto, e nei fatti, essi mostrano di non riconoscersi in un' appartenenza comune. Che una parte della popolazione— e proprio quella più produttiva — non intende sottostare a quel vincolo sociale che è tale appunto perché obbliga a comportamenti che non corrispondono al proprio personale e immediato interesse.

Tra questo interesse e quello generale la stragrande maggioranza degli italiani ricchi invece non ha dubbi: sceglie senza esitare il primo e manda al diavolo il secondo. Questa indomabile asocialità dei ricchi ha almeno due gravi conseguenze oltre quelle ovvie di carattere economico. La prima è la grandissima difficoltà che ha incontrato e che incontra da sempre in Italia la formazione di una vera classe dirigente. Infatti quell’asocialità non può che dare luogo anche ad una tendenziale astatualità, cioè ad una sostanziale indifferenza per le sorti dello Stato. Come si vede benissimo nel fondo di grottesco anarchismo protestatario che si annida così spesso nei ricchi italiani, e che fa sì che essi, quindi, possano identificarsi assai difficilmente con gli interessi collettivi del Paese come invece dovrebbe fare una classe dirigente.

La seconda conseguenza è di ordine politico. Come accade normalmente in tutti i Paesi anche da noi, in linea di massima, la ricchezza preferisce, non da oggi, farsi rappresentare politicamente dalla destra. Non c’è niente di male. Se non fosse però che una ricchezza asociale e antistatuale, come quella descritta, ha finito inevitabilmente per trasmettere questi suoi caratteri alla parte politica verso cui perlopiù convoglia il suo voto, condizionandone pesantemente il profilo ideologico e i comportamenti. Per non perdere tale voto, infatti, la destra politica italiana è stata spinta, lo volesse o no, ad assecondare regolarmente le pulsioni antisociali ed antistatali di quella parte così importante del proprio elettorato di riferimento. Ed è questo elemento che insieme ad altri ha impedito e impedisce alla destra italiana di incarnare il senso delle istituzioni e dello Stato così come di dare voce alta e forte alla dimensione degli interessi nazionali, secondo quanto avviene, invece, quasi dovunque altrove.

Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente. Tale problema riguarda principalmente la destra. La quale si è accontentata finora di seguirne pedissequamente i desiderata, senza neppure cercare di dare loro una prospettiva diversa da quella egoistica da essi naturalmente espressa. Con ciò però condannandosi ad una funzione politicamente subalterna e troppo spesso, se è permesso dirlo, eticamente alquanto penosa.

Ernesto Galli Della Loggia

18 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_18/gallidellaloggia_ricchezza_indiferenza_e646f3da-9240-11df-a4a6-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #76 inserito:: Agosto 05, 2010, 03:32:06 pm »

La grande palude


Tra le tante anomalie della politica italiana di questi giorni ce n’è una più «anomala» delle altre. Di fronte a una maggioranza parlamentare spaccata, che non si sa neppure se esista ancora come tale, che cosa fa l’opposizione, che cosa chiede la sua stampa più autorevole? Tutto tranne la sola cosa a cui in qualunque sistema parlamentare si penserebbe subito, e cioè il ritorno alle urne. Elezioni anticipate? Per carità, si dice: inutili, pericolose, un’autentica sciagura per il Paese. Piuttosto, invece, al posto della vecchia, una nuova grande maggioranza «chi ci sta ci sta», un governo «tecnico» ma non proprio, comunque «larghe intese», le più larghe possibili, in cui alla fine potrebbero entrare tutti, da Bossi, a Fini, a Tremonti, a Casini, a Rutelli, a Bersani, a Vendola, in teoria anche Di Pietro e Beppe Grillo se volessero. Purché ovviamente ne stia fuori uno solo: Lui, l’Orco.

E’ nota la ragione di questa bizzarria: il principale partito d’opposizione, il Pd, non si sente pronto per una competizione elettorale, anzi la teme. Lo stesso vale più o meno per l’intero schieramento di centrosinistra (esclusa forse l’Italia dei Valori). Ma se questa è l’apparenza, dietro di essa si cela un dato ben più importante. Si cela il vero dato di fondo del quadro politico italiano nel momento in cui esso è costretto a prescindere da Berlusconi, in cui esso si pensa e si proietta oltre Berlusconi. Il dato di fondo è l’evanescenza, la virtuale dissoluzione di tutte le forze che compongono lo schieramento che sta tra Bossi e Di Pietro. Dopo Berlusconi, e senza di lui, in questo grande spazio non rimane più alcuna vera distinzione, alcuna appartenenza legata realmente a un passato, alcuna solida identità politica, alcun vero legame con referenti sociali. Oggi, in Italia, senza Berlusconi non ci sono più partiti, non c’è più nulla. C’è solo una grande palude parlamentare. Ed è perciò che a quel punto il solo governo a cui si riesca a pensare è, come accade oggi, quello dentro il quale ci siano tutti o quasi.

In questo modo la società italiana ritorna a un suo carattere originario dei tempi normali: la propensione a produrre un sistema politico-parlamentare in cui la tendenza a confluire, a convergere, la tendenza all’amalgama, se si vuole al trasformismo, prevale di gran lunga sulla tendenza alla divisione per parti nettamente contrapposte. Le cose sono andate in modo davvero diverso solo quando sul sistema si sono abbattute le conseguenze di grandiosi sconvolgimenti esterni, in particolare le due guerre mondiali. La prima delle quali ha voluto dire la dittatura fascista e dunque la nascita inevitabile nel nostro universo politico della contrapposizione fascismo/ antifascismo; la seconda l’introduzione obbligatoria nel sistema della contrapposizione est-ovest, nella figurazione comunismo/anticomunismo.

Ma vale la pena di notare come anche in queste due condizioni di antagonismo estremo le tendenze inclusivo-amalgamatrici siano sempre rimaste forti. Facendo del fascismo una dittatura largamente aperta all'accesso di forze e personalità d'origine diversa, e nel secondo caso creando con il «cattocomunismo » e il «consociativismo » due contrappesi importanti alla divisione radicale del sistema.

In Italia, insomma, i due totalitarismi del Novecento hanno subìto, non a caso, una particolarissima declinazione «nazionale» che ha fatto dell'uno un totalitarismo «imperfetto », e dell'altro un partito comunista «liberale». Così rimettendo a nuovo, in qualche modo, quel modello che potrebbe dirsi di «giolittismo inclusivo»—prodotto dall’incontro tra notabilato tradizionale e nuove identità cattolica e socialista — che è stato storicamente, ed è, la vera forma originale che ha preso la nostra autoctona modernità politica. È questo il modello che ogni volta tende a riproporsi. E che per l'appunto si stava riproponendo anche all’indomani di «Mani Pulite», nel 1993-94, cioè nel momento in cui venivano finalmente cancellate le conseguenze prodotte nel nostro sistema politico da fascismo e comunismo, e perciò si poteva tornare al consueto. Se solo, però, non ci fosse stato Berlusconi. Cioè, di nuovo, se non ci fosse stato qualcosa di radicalmente estraneo alla dimensione politica nostrana, così estraneo da essere addirittura proclamato sul campo come il simbolo vivente dell'antipolitica.

Solo grazie all’anomalia berlusconiana il sistema politico italiano fu costretto allora a organizzarsi in due schieramenti contrapposti, e così è rimasto per quindici anni. E' la presenza di Berlusconi che ha tracciato la linea dell’«o di qua o di là». E in tal modo ha neutralizzato il «centro». «Centro» che nella nostra tradizione politica può essere luogo di effettiva consistenza politica, di vera, autonoma identità, solo se si contrappone alla sinistra, e cioè inglobando e in un certo senso surrogando la destra. O altrimenti è destinato a divenire il semplice luogo «tecnico» dell'amalgama trasformistico, dove si incontrano le burocrazie dei partiti e le grandi oligarchie della società. E proprio questa, forse, è oggi l'alternativa che sta di fronte al Paese.

Ernesto Galli Della Loggia

05 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_05/la-grande-palude-della-loggia-editoriale_780fa08e-a04f-11df-bc17-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #77 inserito:: Agosto 10, 2010, 02:43:02 pm »

L’IDEA DELLA POLITICA CHE MANCA ALL’ITALIA

Nostalgia di Cavour


Sarebbe per primo Cavour—di cui oggi ricorre il duecentesimo anniversario della nascita — a non gradire di essere ricordato con elogi di maniera, con inutili apologie. A suo merito parlano a sufficienza i nudi fatti—naturalmente per chi pensa che sia un bene che esista un’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia—essendo egli per l’appunto stato, di quest’Italia, l’artefice non unico ma certo massimo. Eppure in Italia Cavour non è per nulla popolare. Se è così (e lo testimonia la generale indifferenza che circonda l’odierno anniversario), ecco allora un modo forse appropriato per ricordare il Gran Conte e la sua opera: chiedersene il perché. Farlo fa probabilmente capire anche molte cose di che Paese siamo.

La scarsa popolarità di Cavour è innanzitutto l’esito naturale della scarsa conoscenza- popolarità che da noi ha il Risorgimento, cioè quella parte della nostra storia che riguarda la nascita della nazione. Basti pensare che negli ultimi trent’anni, e fino a pochissimo tempo fa, nei manuali scolastici non gli veniva assegnato nessun rilievo particolare, e che sono almeno altrettanti anni che a nessun regista italiano viene in mente di girare un film serio su quel periodo (del resto su Cavour, che io sappia, non ne è mai stato girato nessuno). Tutto ciò è d’altra parte più che naturale se si pensa che in pratica tutte le culture politiche dell’Italia del Novecento (dal fascismo all’azionismo, dal cattolicesimo al socialismo, al comunismo gramsciano, e fino al leghismo) sono nate da una critica più o meno radicale al Risorgimento, e in particolare proprio alla soluzione cavourriana di esso, sprezzantemente definita «moderata». Perpetuando l’equivoca confusione tra liberalismo e moderatismo che continua a pesare come un macigno sulla nostra vita pubblica. Si aggiunga la dissociazione da ogni dovere collettivo e il disprezzo qualunquistico- anarcoide verso lo Stato in quanto tale che nutre tanta parte del Paese, comprese le sue classi elevate. In misura significativa l’impopolarità di Cavour non è altro che l’impopolarità presso tanti italiani dello Stato italiano.

Ed è poi l’impopolarità della politica. O meglio: la radicale incomprensione — in Italia diffusissima — di che cosa essa sia, non possa non essere, e che l’azione di Cavour incarnò come poche altre. È incomprensione per l’intreccio di elementi nobili e poco nobili, di idealità alte e strumenti bassi, in cui la politica consiste; per la combinazione di dissimulazione e di coerenza, di ambizione personale e di devozione ad una causa, di opportunismo contingente e lungimiranza, che contraddistingue la politica; incomprensione infine per la drammatica serietà che deve esserci in chi si assume il peso di dominare la complessità, sempre difficile e spesso contraddittoria, di questo intreccio. Proprio ciò Cavour seppe fare in modo incomparabile. Ma proprio per questo egli non piace. Perché la sua azione non rientra nelle due categorie con le quali, invece, la più parte dei suoi connazionali è abituata a pensare alla politica: quella del vuoto moralismo da un lato, ovvero quella della scaltrezza da magliari dall’altro. Unite entrambe da un’invincibile propensione alla faziosità. Non basta.

Nell’impopolarità di Cavour c’è anche il peso ininterrotto delle interne divisioni della Penisola. C’è in generale il pregiudizio antinordista di una parte considerevole d’Italia e, in particolare, c’è l’«antipiemontesismo»: l’incomprensione— mischiata ai ricordi di un’unificazione vissuta da più parti come annessione —per certi tratti costitutivi dell’animo e della cultura del Piemonte percepiti come troppo diversi dal carattere nazionale. Il rifiuto della retorica e della presunzione di sé, l’obbedienza alle regole, un radicato senso del dovere, la tenacia, un certo abito pessimistico: tutti questi tratti della mentalità subalpina finiscono paradossalmente per riverberare una luce negativa sul grande primo ministro (che accanto ad alcuni di quei tratti in realtà ne aveva anche altri, assai diversi, a cominciare da una joie de vivre molto libertino-borghese), ratificando il suo destino di straniero in patria. Di italiano da 150 anni in qua eternamente inattuale.

Ma proprio perciò attualissimo. La consapevolezza della nostra storia, il senso della cosa pubblica, un’idea alta ma vera e realistica della politica, la rimessa in vigore di certe virtù civiche: non è forse di queste cose che nell’accavallarsi disordinato delle lotte dei partiti, dello scontro di tutti con tutti, ha bisogno oggi più che mai il Paese? Non ha forse bisogno l’Italia di ritrovare il senso originario della sua esistenza come Stato libero e moderno? Lo so bene: invocare un ritorno a Cavour suona solo patetico, prima ancora che vano. Almeno sia consentito, però, sentirne fino in fondo una disperata nostalgia e ripeterne con gratitudine il nome per trasmetterlo a chi in futuro si dirà ancora italiano.

Ernesto Galli della Loggia

10 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_10/nostalgia-di-cavour-ernesto-galli-della-loggia_ee39cee8-a43b-11df-81a0-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #78 inserito:: Agosto 29, 2010, 11:08:51 am »

Il commento

Nord e Sud, un'unità che va ritrovata


 Ernesto Galli della Loggia

Una questione domina su tutte le altre della politica italiana e in vario modo le riassume tutte: il problema dell'unità nazionale, ovvero il problema di come tenere ancora insieme il Nord e il Sud del Paese.

È chiaro, per chi sa vedere, che siamo ad uno di quei momenti in cui la politica è chiamata a fare i conti con una vera e propria svolta storica: la fine della prima Repubblica ha significato molto di più di ciò che allora ci è sembrato. Ha significato anche la fine degli equilibri economico-sociali (e della relativa ideologia) che avevano reso possibile e accompagnato la secolare industrializzazione-modernizzazione italiana. Con ciò è giunto ad un suo punto critico anche il secolare patto nazionale la cui forma, risalente al vecchio Statuto Albertino, la Costituzione del '48 aveva, sì, profondamente innovato, ma in un certo senso ripreso e confermato.

Il compito che sta ora davanti al Paese è quello di rifondare questo patto. Di rifondare l'unità italiana rinsaldando l'unione tra le due parti decisive della Penisola, il Sud e il Nord. Chi saprà farlo - è facile prevederlo - s'installerà al centro del sistema politico divenendo la forza egemone per un lungo tempo avvenire. Il partito o lo schieramento che vorrà provarci, che aspirerà al ruolo di partito nazionale, dovrà però guardarsi innanzi tutto da un pericolo mortale: quello di apparire (e/o di essere) un partito «sudista» (è il pericolo di cui invece non sembra accorgersi l'Udc, che così perde ogni credibilità «nazionale» cui pure dice tanto di aspirare, dopo che si è proclamata espressamente Partito della nazione). Incorre in tale pericolo qualunque posizione - come quella del partito di Casini, appunto - la quale, lungi dal capire il fondamento reale del «nordismo» (lo chiamo così per brevità) attribuisce invece a Bossi e alla pura e semplice esistenza della Lega l'origine dei problemi; rifiutandosi cioè di riconoscerne e soprattutto capirne la loro sostanza e portata reali. Quasi che, se non ci fossero né Bossi né la Lega, il Nord non creerebbe più fastidi e tutto andrebbe a posto.

Non è così. La protesta del Nord si fa forte dell'esistenza di problemi reali (inefficienza dell'amministrazione centrale, scarsità d'investimenti infrastrutturali, livello altissimo della fiscalità, a cui si può aggiungere la meridionalizzazione degli apparati statali): problemi che tra l'altro per una parte significativa non sono specifici del Nord, bensì generali dello Stato italiano, anche se al Nord se ne sente di più il peso. E sta proprio qui, direi, la differenza decisiva con il «sudismo», con la protesta che negli ultimi tempi il Mezzogiorno ha a sua volta mostrato di voler mettere in campo come rivalsa antinordista all'insegna del rivendicazionismo risarcitorio per il proprio mancato sviluppo.
Infatti, almeno nella sua vulgata di massa, quella del Sud si presenta come una protesta che non tiene assolutamente conto, non fa menzione neppure, di quello che pure tutti gli osservatori imparziali hanno indicato da decenni come tra i principali, o forse il principale ostacolo di qualunque possibile sviluppo del Mezzogiorno. Vale a dire la paurosa, talvolta miserabile pochezza delle classi dirigenti politiche meridionali, specie locali, protagoniste di malgoverno e di sperperi inauditi, ma che continuano a stare al loro posto perché votate dai propri elettori.

Accade così, che mentre la protesta «nordista» ha corrisposto alla nascita e all'affermazione in loco di una nuova classe politica (quella della Lega), quasi del tutto diversa dal passato e assai polemica verso di esso, comunque la si voglia giudicare; viceversa la protesta «sudista», proprio per questo suo dato di partenza di irrealtà, è disponibile ad ogni uso e già oggi viene inalberata dai più variegati spezzoni e reduci di tutte le formazioni politiche meridionali degli ultimi decenni mentre palesemente si candida a diventare il refugium peccatorum di tutti i trasformismi e gli opportunismi politici che prosperano a sud del Garigliano. In tal modo privando di ogni dignità politica e di ogni futuro le sue pur esistenti ragioni, e condannandosi a rappresentare esclusivamente l'ennesima chiacchiera da comizio.
Un partito che oggi volesse avere una funzione davvero nazionale dovrebbe dunque partire da qui. Dal capire senza esitazione le fondate ragioni del Nord e cercare di combinarle con quelle del Sud. Che ci sono, ma non sono presentabili all'opinione pubblica del Paese con qualche possibilità di successo fintanto che non le si strappa dalle mani di chi finora ha governato il Mezzogiorno, da destra e da sinistra, da Napoli a Palermo, nel modo sciagurato che sappiamo.


29 agosto 2010
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_29/nord-e-sud-unita-che-varitrovata-editoriale-ernesto-galli-della-loggia_05f52236-b33b-11df-ac3b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #79 inserito:: Settembre 13, 2010, 04:10:51 pm »

COMUNICAZIONE GLOBALE, STATI IMPOTENTI

La democrazia non è in rete


Oltre le questioni legate al funzionamento dei media già affrontate sul Corriere di ieri da Giulio Giorello, la folle iniziativa anti islamica del reverendo Terry Jones (nominatosi tale da se stesso) solleva un ulteriore problema, forse ancora più importante e generale. Un problema che, come la famosa talpa di marxiana memoria, sta scavando sotto le radici del mondo attuale erodendole sotterraneamente senza che neppure ce ne accorgiamo. È il problema del rapporto tra il regime democratico e l'estensione dello spazio. Quanto spazio si conviene alla democrazia perché essa possa funzionare?

La questione si pose con forza già alla fine del '700, quando Rousseau sostenne che un regime democratico, preso nel suo significato letterale di «governo del popolo», sarebbe impossibile in un Paese di grandi proporzioni. Come può mai accadere, infatti, che qui alcuni milioni di cittadini riescano davvero a riunirsi per discutere e deliberare, per giunta avendo conoscenza delle tante questioni che hanno necessariamente luogo in un grande spazio? Conosciamo tutti la risposta a questa domanda: il governo del popolo è possibile non per via diretta bensì attraverso i suoi rappresentanti. L’unica democrazia possibile è quella rappresentativa. Chi ha provato ad inventarne qualcun'altra ha fatto sempre fallimento.

Sbaglieremmo però a credere che allora la questione è risolta una volta per tutte. Oggi, per esempio, lo spazio e le questioni storiche ad esso riferibili sono all’origine di alcuni dei problemi più difficili che si pongono all’Unione europea se vuole diventare un autentico soggetto politico. Infatti, a causa della sua vasta (troppo vasta?) area geografica, in essa si parlano un gran numero di lingue. Il che pone una drammatica domanda: come può sorgere una democrazia, anche rappresentativa, se i suoi cittadini non sono in grado di capirsi, se si è in grado di capire solo i partiti e i politici della propria lingua? Se l’estensione dello spazio non è almeno in certa misura compensata dalla vicinanza linguistica? Cosa sarebbero oggi gli Stati Uniti se gli abitanti della California parlassero una lingua diversa da quelli della Virginia o del Nevada? Addirittura: esisterebbero mai? Non è tutto. Anche negli antichi Stati nazionali la protesta di tante periferie contro il centro, con le conseguenti richieste di maggiore autonomia, indica quanto le relazioni determinate dallo spazio (più o meno grande) continuino ad essere un problema per la democrazia.

Il caso del cosiddetto reverendo Jones sottolinea però come oggi, nell’ambito spazio/statualità, accanto alla difficoltà chiamiamola classica determinata dall’eccesso di estensione dello spazio, se ne sia aggiunta un’altra, con effetti potenzialmente ancora più gravi.

E cioè la difficoltà legata alla ridotta estensione dello spazio statale, al suo restringimento di fatto, dovuto principalmente alla velocità ormai fantastica di ogni genere di comunicazione, vicina ormai al traguardo dell’istantaneità. Si è già creato, infatti, e si allarga ogni giorno di più, un vasto spazio virtuale, un tecno-spazio planetario dove soprattutto le notizie, i movimenti di denaro e i rapporti interpersonali, sia scritti sia vocali, hanno assunto in pratica il carattere dell’immediatezza. Aprendo così davanti a noi una sorta di epoca della prossimità totale. Che peraltro ha la sua negazione/antitesi nella crescente lontananza che invece, all’interno degli Stati, si è creata in un gran numero di casi tra centro e periferie.

E così, stretto come in una tenaglia dentro una spazialità da un lato dominata dall’immediatezza e dall’altro caratterizzata dalla lontananza, il regime democratico vede oltremodo indebolite le sue antiche possibilità di controllo (e di autonomia). Per entrambi i versi esso vede progressivamente assottigliarsi i margini della sua sovranità: e tanto più in quanto proprio le sue caratteristiche democratiche, la sua tutela dei diritti individuali e collettivi, rendono sempre più problematica la difesa di quella sovranità. La quale, lungi dall’essere «superata» a favore di inesistenti e fantasmatiche sovranità sovra o internazionali — come credono gli ottimisti —viene semplicemente messa in mora da altre minisovranità al suo interno, ovvero dalle leggi senza volto della tecnologia, che operano nell’interesse esclusivo di sé medesime e/o degli incontrollabili interessi economici (per esempio della finanza o della grande informazione commerciale globale) che se ne servono.

Ernesto Galli Della Loggia

13 settembre 2010
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_13/democrazia-non-e-in-rete-galli-della-loggia_0c03e5fc-bef5-11df-8975-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #80 inserito:: Settembre 20, 2010, 12:23:09 pm »

PD, IL PARTITO CHE MANGIA I SUOI LEADER

La solitudine dei numeri due


C’è un solo, vero vantaggio s t r a t e g i c o che la destra italiana ha sulla sinistra. La destra ha un capo, la sinistra no.
Specie quando si tratta di votare, di scegliere un futuro presidente del Consiglio questo si rivela un vantaggio decisivo. Il candidato della destra è il suo capo effettivo, conosciuto e riconosciuto come tale. Il candidato della sinistra, invece, è uno scelto a fare il candidato dai capi veri. La cui autorità quindi è un’autorità delegata, revocabile in ogni momento.

La scelta di Berlusconi come capo della destra, per varie ed ovvie ragioni (ma anche per una meno ovvia e di solito dimenticata: ed è che la destra italiana quale oggi la conosciamo l’ha inventata lui e solo lui) non ha bisogno di spiegazioni. Da che il Cavaliere ha deciso di scendere in campo il fatto che il capo sia lui è qualcosa d’indiscutibile, sul quale Berlusconi per primo non è disposto a transigere. Nessuno del resto ha mai pensato di prenderne il posto. Fini stesso, dopo anni di acquiescenza, si è limitato a chiedere di essere coinvolto in qualche modo nelle decisioni da prendere e di poter esercitare una sia pure insistente libertà di critica. È bastato questo per vedersi cacciato dal Pdl su due piedi.

Ciò che richiede di esser capito e spiegato, dunque, è perché la sinistra invece non riesca lei ad avere un capo. Mi sembrano tre i motivi principali.

Perché, innanzi tutto, non ci riesce quello che è il suo partito di gran lunga più forte, il Pd. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non aver scelto l’identità socialdemocratica, preferendole quella furbastra dei «democratici », lungi dal dare al part i t o e x c o m u n i s t a un’identità più ampia ed onnicomprensiva (come molti evidentemente speravano), gli ha reso impossibile, all’opposto, avere una qualunque identità. Lo ha condannato ad essere in permanenza un’accozzaglia di gruppi, di storie, di opinioni, ma non un partito. Dunque neppure ad avere una fisiologica e stabile vita interna con un capo riconosciuto. Il «comunismo » italiano, qualunque cosa esso fosse, traeva comunque dal leninismo il divieto ferreo del frazionismo e la conseguente inattaccabilità del segretario generale. Scomparso il «comunismo », non sostituito da niente, sembra svanita l’idea stessa di un capo. Sulla scena sono rimasti una dozzina di leader in lotta tra di loro ed autorizzati dal vuoto d’identità a recitare a turno tutte le parti in commedia.

Il secondo motivo riguarda con ogni evidenza la divisione ideologica della sinistra. Anche la destra è ideologicamente divisa, ma a destra sulle divisioni riesce sempre a prevalere in ultimo la volontà di vincere, e quindi il riconoscimento bene o male di un capo. Sulle passioni, cioè, riesce ad avere la meglio l’interesse politico complessivo.

A sinistra, invece, sembra prevalere su tutto la passione del proprio particolare punto di vista (di Rifondazione, Italia dei valori, Grillini, Verdi, ecc. ecc.). Vincere è importante, sì, ma a patto che ogni particolare punto di vista abbia modo di sopravvivere e di poter dire la sua da pari a pari con gli altri. Dunque senza riconoscere alcun capo: al massimo un leader elettorale. A sinistra il principale interesse politico, insomma, non è la vittoria sulla destra ma il mantenimento in vita delle proprie subidentità. In questo senso l’interesse delle varie minileadership fa corpo con l’aggressiva suscettibilità, alla base, delle varie sfumature del radicalismo ideologico.

C’è infine un terzo motivo, riconducibile in generale alla cultura maggioritaria nel popolo di sinistra. È il forte elemento antigerarchico presente in tale cultura. Cioè l’ostilità all’idea che specie in politica ci sia, debba esserci, uno che comanda e gli altri che obbediscono. E che dunque non contano solo le cosiddette «forze sociali», non solo «le strutture», ma anche (e come!) la personalità individuale: sicché la cosiddetta personalizzazione lungi dall’essere una patologia della politica è viceversa iscritta da sempre nel suo destino. Come se non bastasse, questo atteggiamento costitutivo della mentalità di sinistra è stato infine enormemente rafforzato dall’enfasi spasmodica posta sull’antiberlusconismo. Berlusconi dipinto incessantemente come «duce», «ras», «boss» ha prodotto l’effetto di squalificare ulteriormente ogni idea di comando, di capo. A ciò si è aggiunto l’altrettanto spasmodico e conseguente pregiudizio antipresidenzialista. Consacrato da una Costituzione la quale, si dice, sancirebbe la suprema ridicolaggine politica che un Paese possa essere governato non da un capo ma da un «primus inter pares».

Una sinistra con molti capetti ma senza un capo è costretta così a inventarsene spasmodicamente uno ad ogni stormir di fronde elettorali. Aprendo ogni volta un gioco al buio nel quale rischia di avere maggiori possibilità di successo, paradossalmente, o chi, tipo Beppe Grillo, in realtà non ha mai avuto a che fare con la politica, o chi, come Vendola, affida il suo richiamo sul pubblico allo stesso vuoto populismo del Grande Avversario da battere.

Ernesto Galli Della Loggia

20 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_20/solitudine-dei-numeri-due-editoriale-galli-della-loggia_c96456bc-c473-11df-be0b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #81 inserito:: Settembre 29, 2010, 11:36:33 am »

L'EDITORIALE

Cosa dirà (forse) il Cavaliere

Una difficile via d'uscita

   

Con le sue divisioni, i suoi personalismi, le sue inettitudini, la maggioranza di destra - tutta quanta, da Bossi a Fini passando per Berlusconi - ha portato il Paese nel più completo marasma politico.

Il guaio è che dopo questo marasma è prevedibile solo un marasma ulteriore: fino al caos. Poniamo infatti che oggi - ma la stessa cosa vale per domani o dopodomani - la Camera dicesse no alla richiesta di fiducia da parte di Berlusconi, e che dunque egli fosse costretto a dimettersi. Che cosa potrebbe fare il Presidente della Repubblica per evitare le elezioni anticipate? I numeri consentono due sole soluzioni possibili: un governo con una risicatissima maggioranza omnibus da Fini a Di Pietro, o, viceversa, un governo di larghissima maggioranza sinistra-destra-centro, magari affidato a un esponente della destra (Tremonti come un Dini reincarnato?). Bene: alzi la mano chi pensa che l'una o l'altra di queste maggioranze possa esprimere un minimo di coerenza programmatica, riesca a varare qualche misura significativa, a durare più di sei mesi. Anche l'idea che in una simile condizione politica si possa approvare una sia pur necessaria, urgente, sacrosanta nuova legge elettorale, sembra una pia illusione. Ce le vedete maggioranze così eterogenee mettersi d'accordo su un progetto di mutua soddisfazione o riuscire a superare l'opposizione e il prevedibile ostruzionismo della parte scontenta?

In ogni caso, dunque, una nuova crisi e questa volta, inevitabilmente, le elezioni anticipate con l'attuale legge elettorale. Chi le vincerebbe? È difficile avere dubbi: alla Camera senz'altro la coalizione Lega-Pdl sotto la guida ancora e sempre di Silvio Berlusconi, che al Senato, invece, quasi sicuramente non avrebbe la maggioranza. Dunque ancora impossibilità di formare un vero governo, un'ancora più grave instabilità: insomma il caos, come dicevo.

È solo questo fatto, è solo l'impossibilità di scorgere alternative realistiche che può portare oggi ad augurarsi che il governo in carica resti al suo posto. In attesa che prima o poi l'opposizione di sinistra riesca in ciò in cui fino ad oggi non è riuscita: costruire un'unità credibile intorno a un leader e a un programma credibili. Cioè, si metta in condizioni di affrontare l'avversario con qualche probabilità di successo.

Fino a quel giorno appare inevitabile, dunque, augurarsi che l'attuale maggioranza regga. Ma essa può farlo, potrà ancora godere di qualche consenso nel Paese, solo se oggi Berlusconi saprà trovare il tono e le parole appropriati. Se saprà dire alcune cose che l'opinione pubblica, in specie quella che non gli è pregiudizievolmente ostile, si attende da lui.

Per prima cosa qualche parola di spiegazione e di autocritica: per la scarsa capacità realizzatrice mostrata finora; per la scelta di circondarsi in troppi casi di persone inadeguate (Scajola, Brancher, Verdini, Cosentino, ecc.); per il clima di scontro esasperato (con la stampa, con la magistratura) che lungi dal sedare egli ha mostrato tanto spesso di alimentare; infine per il clima moralmente un po' troppo disinvolto che è emanato in tutto questo tempo dalle stanze del potere (o più spesso dalle sue camere da letto).

Sappiamo benissimo che non gli sarà facile, che egli non è certo uomo di pentimenti o di mea culpa. Ma è bene si convinca che certe idiosincrasie ce l'hanno pure gli italiani, e che pure i suoi elettori non appaiono più disposti a concedergli a occhi chiusi quell'apertura di credito che gli concessero due anni e mezzo fa. Dopo il tono c'è il merito.

Oggi Berlusconi deve andare dritto al punto. O meglio a pochi punti, in quello che sarebbe bene si presentasse come un vero e proprio programma dei cento giorni. Non servono discorsi vuotamente «alti e nobili». Non serve il mare di chiacchiere delle grandi promesse. Piuttosto, invece, poche cose da fare: di grande impatto pubblico ma non propagandistiche (l'immondizia napoletana docet), con indicazione rigorosa dei tempi, del finanziamento, delle modalità di tipo tecnico e legislativo per attuarle. L'elenco è fin troppo noto, ha solo l'imbarazzo della scelta. Ricordi comunque che il Paese è stanco di un presidente del Consiglio che ama pensare e parlare in grande ma non riesce nelle cose piccole e medie, per esempio in qualche liberalizzazione di licenze o di ordini professionali o nel sistemare qualche decina di chilometri di autostrade. Sarà capace Berlusconi di stare entro queste coordinate? È lecito avere dei dubbi. Ma alla fine tutto dipenderà da lui.

Ernesto Galli della Loggia

29 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #82 inserito:: Ottobre 18, 2010, 10:07:18 am »

La successione a Berlusconi

Dico la verità: mi sarei aspettato che dopo le critiche mosse dal Presidente Berlusconi al suo partito, alle responsabilità che a suo giudizio questo avrebbe nella perdita di popolarità del governo, i tre coordinatori dello stesso Pdl — Bondi, La Russa e Verdini—avrebbero in merito detto qualcosa, mosso qualche obiezione, insomma si sarebbero difesi e avrebbero difeso il loro operato. Come del resto avevano fatto più e più volte in precedenza, rispondendo puntualmente e puntigliosamente a tutte le critiche apparse sui giornali o altrove (ricordo, per esempio, una lunghissima lettera indirizzata a chi scrive pubblicata sul Corriere il 4 marzo scorso). Invece niente, neppure una parola. Evidentemente ci sono interlocutori ai quali è permesso ribattere e altri, invece, con i quali è consigliabile osservare un prudente silenzio.
Ma ancora più stupefacente, in tutti questi mesi, è stato il silenzio da parte di qualcosa che pure aveva nome partito — sempre il Pdl, appunto — di fronte al sistematico prevalere nelle scelte del governo delle esigenze degli alleati leghisti. Silenzio di tomba perfino dopo l’ultimo Consiglio dei ministri, dove — per dirla nella maniera più spiccia — Berlusconi ha tranquillamente venduto alcuni ministri del suo partito (Gelmini, Prestigiacomo, Bondi, Galan e Meloni) al diktat della coppia Tremonti-Bossi.
Quando succedono cose del genere, o quando si ascoltano critiche come quelle di cui sopra mosse da Berlusconi, nei partiti, in quelli veri, non c’è il silenzio dei massimi responsabili (e di tutti gli altri). Scoppia invece la discussione, il confronto, magari il litigio. Il punto dunque è sempre e solo uno: e cioè che il Pdl (così come prima Forza Italia), di plastica o no, comunque non è un partito vero. Nel caso migliore è una coorte di seguaci ciechi e muti scelti inappellabilmente dal capo; nel caso peggiore una corte d’intrattenitori, nani, affaristi, ballerine, di addetti alle più varie intendenze. Certo, il Pdl è anche un partito votato da tanti degnissimi italiani. Ma sappiamo tutti che i voti in realtà non vanno al Pdl, vanno alla persona di Berlusconi.
Ma se le cose stanno così, questo significa che l’operazione storica di sdoganamento della destra compiuta da Berlusconi nei confronti del sistema politico italiano — sì, un’operazione storica: riconoscerlo è un obbligo di obiettività che anche la sinistra sarebbe ora sentisse — questa operazione è tuttavia, per sua stessa colpa, rimasta a metà. Berlusconi, infatti, ha sì sdoganato la destra elettoralmente e sul piano del governo, ma non è riuscito a sdoganarla socialmente e culturalmente. Non c’è riuscito nell’unico modo in cui da sempre ciò avviene, e cioè creando e radicando sul territorio un vero partito, organizzato e strutturato come tale, portatore di esigenze, centro di relazioni con ambienti e personalità diverse, elaboratore di proposte, collettore di idee. E soprattutto, almeno in certa misura, centro effettivo di decisioni vincolanti per tutti, anche per i suoi capi.
Non c’è riuscito perché non ha voluto, naturalmente. E non ha voluto per tre ragioni: per la paura che ciò avrebbe comunque diminuito il suo potere; per un riflesso padronale creatosi in decenni di comando aziendale, in base al quale «se io ci metto i soldi (e per giunta prendo i voti), io comando»; e infine per il difetto, che in lui è abissale, di vera cultura politica.
Lo sdoganamento della destra italiana rischia dunque, così, di finire con Berlusconi. Se le cose continuano nel modo attuale, infatti, quando il presidente del Consiglio si ritirerà dalla scena politica, il Pdl rischia verosimilmente di sfasciarsi nel giro di tre mesi, lasciando i suoi esponenti a galleggiare come turaccioli su quella marea di voti che solo Berlusconi riusciva a suo tempo a prendere, ma che ora saranno allo sbando, nella più totale libera uscita. Quale elettore di destra, infatti, si potrà mai sentire motivato a votare per Verdini, la Brambilla o Scajola? Per persone che come proprio titolo di merito saranno in grado di esibire, a quel punto, solo quello dell’obbedienza perinde ac cadaver?
Ma c’è Fini, si dice: perché non potrebbe essere Fini a portare a termine l’opera iniziata da Berlusconi? Fare profezie è vano, ma mi sembra assai difficile che lo sdoganamento ideologico-politico della destra italiana, la creazione finalmente di un suo vero partito, possano avvenire per opera di chi è stato l’ultimo segretario del partito neofascista, di chi per anni e anni si è nutrito di quegli ideali, lo ha diretto con quei metodi, con quello stile. Neppure agli ex comunisti è riuscita in modo indolore e in tempi brevi un’operazione di sdoganamento e di rifondazione che in fondo presentava da tanti punti di vista ben minori problemi; figuriamoci se può riuscire a un personaggio come Fini, che ancora non moltissimi anni fa sosteneva che Mussolini era «il più grande statista del Novecento».

A me pare che in realtà, Fini—come D’Alema, come Casini, come Rutelli, come Bersani, come Fioroni, come tutta una classe politica— appaia ancora e sempre immerso per intero nel vecchio scenario della morente prima Repubblica, nella sua paralizzata e paralizzante inconcludenza. Da chi come Fini ha come primo obbligo quello di mostrarsi sempre e comunque fedele osservante delle polverose regole della democrazia italiana, dei suoi tic e dei suoi tabù, è difficile attendersi rotture e novità di qualsiasi tipo.

Sembra proprio, dunque, che dobbiamo rassegnarci: il berlusconismo è l’unica benché fangosa novità politica toccata in sorte all’Italia in questi anni. Per il dopo siamo ancora in attesa.

Ernesto Galli Della Loggia

18 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #83 inserito:: Novembre 01, 2010, 05:25:24 pm »

IL PDL E LA PARALISI DI GOVERNO

Il Pdl, il governo e la paralisi. Il coraggio della verità


Che cos’altro deve succedere perché il Pdl si ricordi di essere, sia pur allo stato fantasmatico, un’entità che dice di essere un «partito»? Che cos’altro deve succedere perché i suoi deputati e senatori si accorgano che continuando così almeno la metà di loro non rivedrà mai più il Parlamento, e può considerare chiusa la propria carriera politica? Eppure, che la situazione della maggioranza sia sull’orlo del collasso è evidente a tutti, così come è altrettanto evidente che di questo passo rischia di subire un danno irreparabile l’immagine stessa del Paese e quel poco o tanto che resta del suo rango internazionale.

Non si tratta dell’avventurosa vita notturna del presidente del Consiglio, della quale egli mostra troppo spesso di sottovalutare i rischi. Fin dall’inizio ci siamo volenterosamente sforzati di dire che in fondo (e sia pure entro certi limiti) tutto questo riguardava la sua vita privata: convinti tra l’altro, come i fatti hanno finora dimostrato, che non sarebbe stato certo agitando tali argomenti che l’opposizione sarebbe mai riuscita ad avere la meglio. Né si tratta della ben nota disinvoltura istituzionale del premier: disinvoltura che spetterà al magistrato appurare se nell’ultima vicenda della ragazza marocchina abbia superato o no il confine della legge. No, non si tratta di tutto questo, o non solo di questo. E neppure tanto della paralisi dell’azione di governo, che pure è un dato reale. Si tratta del fatto che negli ultimi mesi è venuta meno nell’esecutivo qualunque capacità di direzione e di coordinazione, qualunque consapevolezza della quantità e della gravità dei problemi sul tappeto se non al livello della pura emergenza. Palazzo Chigi ha perduto la pur minima capacità di ascoltare e di rappresentare il Paese. L’Italia è — ed ancor più si sente — una nazione allo sbando. Chi ha la responsabilità di essere stato eletto dal popolo lo capisce? Ha gli occhi per vederlo?

È dunque inconcepibile che in una situazione del genere non si apra nel Pdl una discussione approfondita e senza riguardi per nessuno su quello che sta accadendo. Ripetere, come fanno un po’ tutti i suoi esponenti, che questo sarebbe il momento di «resistere », di «tener duro», di «restare uniti», è un vano esercizio retorico da assedio di Forte Alamo. Nella sostanza è puro nullismo politico. Per giunta all’insegna dell’ipocrisia, dal momento che è noto a tutti come, tra l’altro, proprio i «resistenti» più esagitati siano assai spesso quelli che, nei capannelli e dietro le quinte, vanno poi dicendo le cose peggiori sul conto del presidente del Consiglio, rivelando e stigmatizzando, quasi con sudicio compiacimento, le sue défaillance di ogni genere.

Non è più il tempo dei camerieri zelanti e bugiardi. È giunto il tempo della verità.

Se vuole avere ancora un qualche futuro politico, se non vuole ripetere in un registro grottesco la tragedia del Partito socialista nel 1992-1993, il Pdl deve dimostrare oggi— oggi o mai più — di volere, e di potere — essere un organismo politico reale. Fermandosi a considerare la propria storia e affrontando quei nodi che fin qui non ha mai voluto affrontare. C’è bisogno di ricordarli? Il ruolo, certamente decisivo ma a dir poco ingombrante del suo fondatore e capo, di Berlusconi; il modo di reclutamento e la qualità del suo personale politico, sempre cooptato e quasi sempre improbabile e raccogliticcio, quasi sempre privo di vera esperienza e di legami con l’elettorato (e in più di un caso anche di dubbia o accertata pessima origine); l’assenza patologica al suo interno di discussione e di decisioni collettive; l’ottuso compiacimento plebiscitario, il disprezzo plebeo per la costruzione di qualunque consenso che non sia quello da comizio. E infine il carattere e lo scopo del proprio programma, del proprio ruolo politico generale. Non si può campare in eterno sull’abolizione dell’Ici o sull’opposizione virulenta alla sinistra e alle procure della Repubblica. L’Italia ha bisogno di qualcos’altro. Di molto altro. Per tutto ciò è inevitabile dispiacere al Cavaliere? Certamente. Ma il destino di un’ormai lunga e importante avventura politica oggi si decide su questo e solo su questo: sulla verità e sul coraggio di dirla.

Ernesto Galli della Loggia

01 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_01/della-loggia-editoriale-coraggio-verita_e17361ec-e586-11df-b5c0-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Novembre 14, 2010, 11:01:39 pm »

FASE CONCLUSIVA DI UNA STAGIONE POLITICA

Solitudine di un leader


In questo piovoso autunno italiano non sta finendo solo una maggioranza o un governo: si sta concludendo l’avventura di un uomo solo.
È la solitudine di Berlusconi il dato che oggi più colpisce. E se l’uomo ha mischiato e confuso come pochi altri il pubblico e il privato, la sua solitudine pure è un fatto politico e insieme personale, dove non sai quale delle due cose è stata ed è causa dell’altra.

Le serate di Arcore e di Palazzo Grazioli sono l’immagine di una solitudine esistenziale disperata e agghiacciante, anche se nascosta dai fasti di una miliardaria satrapia. Oggi ci è chiaro: era un moderno Macbeth assediato dalla foresta di Birnam sempre più vicina, quello che si rinserrava ogni sera nelle mille stanze dei suoi mille castelli in compagnia di docili comparse. Ma non aveva mai voglia quest’uomo — ci chiediamo noi uomini normali — di scambiare quattro chiacchiere con un amico vero, con una persona normale?

È tuttavia la solitudine politica quella che impressiona maggiormente: la solitudine politica che il premier ha costruito giorno per giorno intorno a sé, imitato da troppi suoi collaboratori. L’avventura berlusconiana, partita all’inizio con un cospicuo capitale di attese e di fiducia (perfino da parte di molti nemici) si è progressivamente chiusa in se stessa, ha tagliato i ponti con tutti i settori significativi della società, ha stupidamente decretato avversione e ostracismo ad un numero sempre crescente di persone: in pratica tutte quelle della cui fedeltà ed obbedienza pronta, cieca e assoluta, non si fosse arcisicuri.

In questo modo, forse senza neppure accorgersene, gli uomini e le donne del premier, la sua classe di governo, il suo milieu, sono diventati ben presto una sorta di esercito accampato in territorio nemico, con la stessa psicologia e la mentalità degli assediati. Si dà il caso però che quel territorio fosse il loro Paese. «O con noi o contro di noi» è divenuta la parola d’ordine suicida sempre più spesso pronunciata, di cui com’era logico, hanno finito per trarre vantaggio solo gli avversari. Consigli arrogantemente respinti, suggerimenti finiti nel nulla, proposte liquidate con un’alzata di spalle sono state sempre di più la regola: allontanando sistematicamente le intelligenze che pure sarebbero state disponibili a rendersi utili. La parabola di un uomo come Giuliano Ferrara parla da sola.

Il berlusconismo avrebbe potuto facilmente — e magari anche abusivamente, se si vuole—intitolare a se stesso tutto ciò che in Italia non era di sinistra. Non solo non ha voluto o saputo farlo. Ha fatto il contrario: ha regalato alla sinistra tutto ciò che sentiva o sapeva non essere intrinsecamente suo. Estraneo fin dalle origini alla socialità politica di gruppo in quanto nato dalla felice intuizione di un uomo solo, di un capo, invece di correggere tale vocazione primigenia alla solitudine e all’obbedienza gerarchica, è andato esasperandola.
Sempre più sono rimasti il capo soltanto e soltanto coloro che gli obbedivano. Certo, è rimasto sempre chi obbediva pur conservando qualche luce d’ingegno e di autonomia personale, ma le file dei puri e semplici profittatori e dei camerieri sono andate crescendo a dismisura, sono diventate un esercito, e dopo non molto tempo tutta la scena ha finito per essere occupata solo da costoro.

Una turba di mezze calzette, di villan rifatti, di incompetenti, di procacciatori: la solitudine sociale del berlusconismo si è andata sempre più incarnando in questa schiera compiacente e zelante, pronta ad ogni servilismo per il proprio personale interesse. Sono stati essi i principali artefici della muraglia invalicabile costruita intorno al potere del capo. Da essi il capo è apparso inspiegabilmente sempre più dipendere. Da essi trarre i consigli che di sconfitta in sconfitta, di fallimento in fallimento, lo stanno portando ineluttabilmente alla fine.

Più che vinto dalle inesistenti vittorie dei suoi nemici, il berlusconismo oggi crolla vittima di una sorta di autoreclusione si direbbe quasi studiata con intenzione, compiaciutamente suicida. E sempre più quello che fu per antonomasia «un uomo solo al comando» ormai appare niente altro che un uomo solo e basta. Che forse neppure si rende conto ancora di esserlo.

Ernesto Galli Della Loggia

14 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #85 inserito:: Dicembre 07, 2010, 04:35:47 pm »

POCHI I GIOVANI DALLA POLITICA ALLE BANCHE

Il potere grigio degli oligarchi


I l giovanilismo è di nuovo alla ribalta della scena italiana, chiamato a recitare la parte che da trent'anni è sempre la sua: i «giovani» (o per meglio dire poche decine di migliaia di questi che manifestano con parole d'ordine di sinistra) sarebbero gli araldi del «cambiamento», della «svolta», del «risveglio», l'avanguardia della protesta di tutta la società contro il potere cattivo di turno, preludio alla sua sospirata mandata in soffitta. Naturalmente, si scopre in breve che «i giovani» (sempre e solo studenti: sembra che in Italia, chissà perché, per avere la titolarità anagrafica della gioventù si debba evitare accuratamente qualunque rapporto con il lavoro manuale) non annunciano in realtà nulla di quanto sperato, la protesta si spegne, e tutto torna come prima, mentre il Paese resta in attesa della prossima immancabile «rivolta», con le stesse immancabili foto di cortei, gli stessi immancabili articoli entusiasti dei giornali, le stesse penose interviste ai presunti ribelli.
Ma l'apparenza inganna. La fortuna politico-mediatica del giovanilismo è solo un modo per nascondere la realtà: e cioè che l'Italia della Seconda Repubblica è un Paese sempre più dominato dai vecchi.

Lo è innanzi tutto per un puro fatto biologico-anagrafico: perché la combinazione della scarsa natalità e della diminuita mortalità ha reso gli ultrasessantacinquenni sempre più numerosi. Ma più in generale perché negli ultimi vent'anni, in coincidenza con una fase ormai lunghissima di ristagno economico, il Paese ha perso slancio, fiducia e vitalità, è andato ripiegandosi su se stesso. La società italiana si è progressivamente rinchiusa dietro le antiche difese che la sua storia ha costruito. Dietro la famiglia, ma ancor di più dietro la corporazione e l'oligarchia, quasi sempre saldate insieme in un blocco ferreo.

In nessun altro Paese dell'Europa occidentale come in Italia i vertici degli ambiti lavorativi sia pubblici che privati con un minimo di qualificazione sono protetti da regole di accesso, formali o informali, le quali di fatto sbarrano il passo a chiunque non si trovi già inserito nel personale da decenni o non goda di appoggi potentissimi. La generale, feroce ostilità al merito, unita al culto del principio della «carriera» e al legalismo spietato custodito dal Tar - tre pilastri della burocrazia statale - si rivela un'arma efficacissima per impedire ai funzionari più giovani e intraprendenti di scalare rapidamente gli alti gradi. Dell'università neppure a parlarne. Ma, ripeto, non è solo lo Stato: il sistema bancario, ad esempio, è ormai da decenni nelle mani degli stessi mentre i nuovi ingressi avvengono con il contagocce. In complesso, poi, tutti i consigli d'amministrazione del settore privato vedono la presenza strabordante di persone intorno ai settant'anni.

La politica non dà certo il buon esempio: non solo ritirarsi da essa a una certa età per dedicarsi a qualche altra attività è cosa da noi sconosciuta, non solo perlopiù l'età media dei leader italiani è seconda solo a quella della Corea del Nord, ma ogni volta che essa è chiamata a nominare i vertici di qualcuno dei mille enti alle sue dipendenze, si può essere sicuri che nel novanta per cento dei casi sceglierà un vecchio politico o un vecchio burocrate con una lunga carriera alle spalle nei più svariati incarichi (ognuno dei quali in genere non c'entra nulla con l'altro), messo lì soprattutto come ricompensa o per tutelare chi di dovere. Una persona giovane, un quarantenne dinamico, mai: si può essere sicuri.

Oltre a essere un potere ancora oggi massicciamente maschile, il potere italiano è un potere vecchio e di vecchi: privo di gusto per il nuovo, a corto di idee e di iniziative coraggiose, incapace di rischiare davvero. Ampolloso e ripetitivo, è abituato a muoversi con circospezione pari al suo stanco scetticismo. Un potere rappresentato da volti che abbiamo sotto gli occhi da così tanto tempo che ormai ci sembrano eterni, la sua durata media essendo a un dipresso il mezzo secolo.
In questo modo sulla scena italiana i giovani diventano sempre meno visibili. Tanto è vero che capita ormai frequentemente di trovarsi in situazioni o immersi in pubblici in cui tutti hanno un'età come minimo matura. Mentre, quasi in risposta all'ostilità ambientale e anche in ragione delle differenze di reddito, i giovani - e non necessariamente i soli adolescenti (penso ad esempio alle giovani coppie) - tendono a creare e frequentare circuiti loro propri. All'insegna di valori separati. Adulati e additati alla pubblica ammirazione come gli araldi del nuovo, gli italiani giovani di fatto sono gli ostaggi segregati (e le vittime) di tutto ciò che è vecchio.

Ernesto Galli Della Loggia

06 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_06/potere-grigio-degli-oligarchi-galli-della-loggia_55b4bbbc-00ff-11e0-96e9-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Dicembre 12, 2010, 04:27:29 pm »


OLTRE IL VOTO DI MARTEDI'

Il commento

Il futuro della destra

Se martedì prossimo il governo otterrà la fiducia nelle due Camere sarà difficile non riconoscere in ciò un indubbio successo di Berlusconi: un successo della leadership, della determinazione e della coriacea personalità del presidente del Consiglio. Ma anche quel successo non potrà cancellare un dato ormai acquisito: la grande promessa/scommessa berlusconiana è fallita. Berlusconi può durare tutto il tempo che si vuole, anche fino alla fine della legislatura, ma è impossibile non prendere atto che delle grandi novità che la sua discesa in campo sembrò annunciare quindici anni fa, oggi non rimane pressoché nulla.

Al centro di quella promessa/scommessa c'era, infatti, molto di più che il puro e semplice impegno (questo sì senz'altro mantenuto) di sbarrare il passo alla sinistra. C'era l'idea che quello che allora nasceva, nel quadro di un bipolarismo finalmente conquistato, doveva essere, sarebbe stata, una destra liberale adeguata ai tempi (quindi liberista ma con giudizio, per esempio solidarista ma decisamente anticorporativa), pregna degli umori della società civile ma dotata di senso delle istituzioni, capace di esprimere un'adeguata cultura e capacità di governo. Non è andata così, invece. Berlusconi non è stato capace di dare vita a nulla di tutto questo. Così come non è stato capace di farlo quella tradizione politica alimentata nelle file del Msi prima e di An poi, e di cui Gianfranco Fini è stato finora il massimo rappresentante. Tradizione che messa con la vittoria di Alemanno nella condizione unica di reggere le sorti della capitale del Paese, sta dando la prova d'inettitudine e di malgoverno che è sotto gli occhi di tutti.

In questi quindici anni, dunque, la destra plasmata e guidata da Berlusconi ha dimostrato di essere in grado di vincere le elezioni, ma non di radicare nella società una stabile struttura di rappresentanza degli interessi, di darsi le sedi dove elaborare una discussione programmatica, darsi un volto e formare dei quadri propri, insomma di fondare una vera cultura politica e un vero partito. Il che significa che anche le sue possibilità di vittoria elettorale presumibilmente diminuiranno di molto il giorno in cui il Cavaliere abbandonerà la scena. Quando ciò accadrà, quando tramonterà la sua stella, il sistema politico italiano minaccerà di ritornare così a quello squilibrio che, a pensarci bene, dura niente di meno che dai giorni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale. E cioè alla mancanza sulla destra di un moderno e grande partito di orientamento liberal-conservatore fedele alle istituzioni parlamentari, che raccolga i voti della vasta area d'ispirazione moderata, o come altro voglia dirsi, che comunque non si riconosce nella sinistra. In questo vuoto s'infilò e vinse a suo tempo il fascismo. Su questo vuoto, dopo il 1945, stabilì la sua egemonia la Democrazia cristiana costruendovi gran parte delle sue fortune politiche. Con il declino del berlusconismo quel vuoto ora si sta per manifestare nuovamente, e ne è segno inequivocabile l'infittirsi del lavorio centrista intorno al progetto di un «terzo polo» al quale sembra aderire anche Fini.

Progetto che ha come base e premessa necessaria la cancellazione di qualunque maggioritario e l'adozione di un sistema proporzionale che serva, tra l'altro, a sterilizzare la forza della Lega relegando il Carroccio isolato a destra, nello stesso ruolo marginale che nella Prima Repubblica aveva il Movimento sociale.

L'esito ineluttabilmente centrista-proporzionalistico del fallimento di Berlusconi potrebbe essere contrastato, mi pare, solo da un'iniziativa che partisse dall'interno del Pdl. Con l'obiettivo per l'appunto di guardare e di andare oltre Berlusconi. Un'iniziativa capace di immaginare una destra conservatrice su certi temi ma liberale su altri, anticorporativa, non bigotta ma radicata nell'ethos giudaico-cristiano, antigiustizialista ma fermissima nella legalità, plurale, e magari capace di accorpare con spregiudicatezza anche forze e tradizioni politiche come i radicali o spezzoni del mondo ecologista, oggi apparentemente incongrue ma, io credo solo apparentemente (si ricordi la definizione di Pannella data da Montanelli come «uno dei nostri»). Un'iniziativa che almeno oggi come oggi, però, fa a pugni con la quiete cimiteriale che regna nel Pdl, con il sorprendente mutismo che distingue tutti i suoi esponenti. Se le cose continueranno così, l'autocancellazione politica del Popolo della libertà condurrà inevitabilmente, come dicevo sopra, alla vittoria del progetto centrista neo-democristiano sulle rovine del berlusconismo. Una vittoria neo-democristiana: ma questa volta senza neppure quella grande cosa che dopotutto fu la Dc.

Ernesto Galli della Loggia

12 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_12/il-futuro-della-destra-ernesto-galli-della-loggia_ddb25620-05c6-11e0-be41-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Dicembre 21, 2010, 05:18:37 pm »


LA SINISTRA E IL FENOMENO VENDOLA

L'orecchino populista


Dopo il segno premonitore rappresentato da Di Pietro oggi Vendola è la conferma che l'elettorato che fu per decenni quello del Partito comunista ormai è un pallido ricordo perché un pallido ricordo sono ormai il suo mondo concreto e ideale, la sua mente e il suo cuore.

L'irruzione vittoriosa di Vendola nelle primarie del Pd segna per la sinistra la fine della «storia» come termine essenziale di riferimento e la sua sostituzione con la «vita». Finisce cioè l'idea secondo la quale sarebbe per l'appunto nella storia la dimensione più vera dell'esistenza degli uomini perché sarebbe essa la chiave vera della loro soggettività, e dunque sempre la storia sarebbe la causa e insieme la soluzione dei loro problemi. Questa idea, che peraltro non era stata solo della sinistra, finisce da noi con la fine dell'impianto ideologico che arriva all'Italia della Prima Repubblica dal cuore della modernità otto-novecentesca. Finisce con il declino dell'industrializzazione e dei suoi attori, con l'impallidimento dei grandi luoghi aggregativi della socializzazione come la famiglia, la Chiesa, i partiti, i sindacati. La sinistra è semplicemente quella che ha risentito di più del contraccolpo di tale fine perché era quella che più aveva puntato sulla storia e sul suo supposto svolgimento progressivo, credendosene interprete autorizzata, protagonista decisiva ed erede universale.

Per la suggestione di «Mani pulite» il grande vuoto così creatosi è stato riempito inizialmente da una sorta di trasfigurazione ideologica della giustizia penale. Il moralismo antico della sinistra dovuto al suo credersi portatrice privilegiata di istanze etiche è divenuto giustizialismo: l'idea cioè che dietro ogni avversario si celi un malfattore, e che quindi il codice penale possa e debba essere l'alfa e l'omega di ogni politica. Per una sua parte il popolo di sinistra in questa idea ancora si riconosce, e sta qui il motivo dell'ipoteca permanente che Di Pietro e il dipietrismo esercitano tuttora sui suoi orientamenti elettorali. Ma ormai, come dicevo all'inizio, un'ipoteca ben maggiore ha preso ad esercitarla un nuovo protagonista: Vendola. Alla sguaiataggine plebea dell'ex pm di Milano subentra lo studiato populismo del governatore pugliese.

Con Vendola si può dire che avvenga il distacco completo dall'antico ormeggio ideologico, che in qualche modo con Di Pietro era ancora quello tradizionale, e si entra in qualche cosa di completamente diverso: nel mare della vita. Vendola - anzi universalmente Nichi, in una misura neppure paragonabile a quella in cui Veltroni è mai riuscito ad essere Walter, o la Bindi Rosy: stigmate indiscutibile di una riuscita assimilazione al modello divistico di tipo rockettaro-televisivo - Vendola, dicevo, innanzi tutto non parla: intesse delle «narrazioni» parola chiave del suo lessico. Narra di «ragazzi» lui non dice mai giovani, termine «freddo» che sa di Censis, lui adopera solo termini «caldi», affettuosi, di notti sulla spiaggia ad ascoltare la «taranta» o vecchi cantastorie, di sua madre e dei suoi amici, di grandi speranze e grandi delusioni. Certo, la politica è sempre presente. Ma nella sua «narrazione» la politica è quasi esclusivamente evocazione di sentimenti, è immagini ed emozioni, fantasiosa capacità di rubricare come «immagini di morte» eguali «la macchia di petrolio del Golfo del Messico e il plastico del garage di Avetrana in uno studio tv».

Ernesto Galli Della Loggia

21 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_21/galli-della-loggia-orecchino-populista_8ad3af36-0cc8-11e0-a1b6-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Dicembre 30, 2010, 08:52:04 pm »

DITE LA VERITA' AL PAESE

Un disperato qualunquismo


Non vanno bene le cose per l'Italia.

Prima che ce lo dicano le statistiche - comunicandoci per esempio un dato lugubre: che nel 2010 il reddito pro capite degli italiani sarà in termini reali inferiore a quello del 2000 - ce lo dice una sensazione che ormai sta dentro ciascuno di noi e ogni giorno si rafforza.


Basta che ci guardiamo intorno per scorgere un panorama sconfortante: abbiamo un sistema d'istruzione dal rendimento assai basso; una burocrazia sia centrale che locale pletorica e inefficientissima; una giustizia tardigrada e approssimativa; una delinquenza organizzata che altrove non ha eguali; le nostre grandi città, con le periferie tra le più brutte del mondo, sono largamente invivibili e quasi sempre prive di trasporti urbani moderni (metropolitane); la rete stradale e autostradale è largamente inadeguata e quella ferroviaria, appena ci si allontana dall'Alta velocità, è da Terzo mondo; la rete degli acquedotti è un colabrodo; il nostro paesaggio è sconvolto da frane e alluvioni rovinose ad ogni pioggia intensa, mentre musei, siti archeologici e biblioteche versano in condizioni semplicemente penose.
Per finire, tutto ciò che è pubblico, dai concorsi agli appalti, è preda di una corruzione capillare e indomabile. C'è poi la nostra condizione economica: abbiamo contemporaneamente le tasse e l'evasione fiscale fra le più alte d'Europa, mentre gli operai italiani ricevono salari ben più bassi della media dell'area-euro; il nostro sistema pensionistico è fra i più costosi d'Europa malgrado le numerose riforme già fatte e siamo strangolati da un debito pubblico il pagamento dei cui interessi c'impedisce d'intraprendere qualunque politica di sviluppo.
Ancora: nessuno dall'estero viene a fare nuovi investimenti in Italia, ma gruppi stranieri mettono gli occhi (e sempre più spesso le mani) su quanto resta di meglio del nostro apparato economico-produttivo; nel frattempo il processo di deindustrializzazione non si arresta e la disoccupazione, specie giovanile, resta assai alta.

Nessuno di questi mali ha un'origine recente, lo sappiamo bene. Non paghiamo cioè per errori di oggi o di ieri: o almeno non solo per quelli. È piuttosto un intero passato, il nostro passato, che ci sta presentando il conto. Oggi cominciamo a capire, infatti, che qualche tempo fa - quando? nel '92-'93? un decennio dopo con l'adozione dell'euro? - si è chiuso un lungo capitolo della nostra storia. Nel quale siamo diventati sì una società moderna (qualunque cosa significhi questa parola), ma pagando prezzi sempre più elevati, accendendo ipoteche sempre più rischiose sul futuro, chiudendo gli occhi davanti ad ogni problema, rinviando ed eludendo. Prezzi, stratagemmi, rinvii, che negli Anni 70-80 hanno cominciato a trasformarsi in quel cappio al collo che oggi sta lentamente strangolando il Paese.

Lo sappiamo che le cose stanno così. Ce ne accorgiamo ogni giorno che l'Italia perde colpi, non ha alcuna idea di sé e del suo futuro.
Ma ci limitiamo a pensarlo tra noi e noi, a confidarcelo nelle conversazioni private. Avvertiamo con chiarezza che avremmo bisogno di bilanci sinceri e impietosi fatti in pubblico, di un grande esame di coscienza, di poterci specchiare finalmente e collettivamente nella verità. Che ci servirebbero terapie radicali. Invece sulla scena italiana continua a non accadere nulla di tutto ciò.

Chi dovrebbe parlare resta in silenzio. Resta in silenzio il discorso pubblico della società italiana su se stessa, consegnato ad una miseria che diviene ogni giorno meno sopportabile. Ma soprattutto resta in silenzio la politica, divisa tra lo sciropposo ottimismo di Berlusconi, il suo patetico «ghe pensi mi» da un lato, e la vacuità dei suoi oppositori dall'altro. Bersani, La Russa, Bossi, Fini, Bondi, Vendola, Verdini, Di Pietro, Casini, e chi più ne ha più ne metta credono di parlare al Paese con le loro dichiarazioni, le loro interviste, i loro attacchi a questo o a quello, i loro progetti di alleanze, di controalleanze e di governi: non sanno che in realtà se ne stanno guadagnando solo un disprezzo crescente, ne stanno solo accrescendo la distanza dal loro traballante palcoscenico. Sempre più, infatti, la loro produzione quotidiana di parole suona eguale a se stessa: ripetitiva, irreale, ridicola. Mai una volta che uno di essi proponga al Paese una soluzione concreta per qualche problema concreto: chessò, come eliminare la spazzatura a Napoli, come attrarre investimenti esteri in Italia, come finire la Salerno-Reggio Calabria prima del 3000, come iniziare a risanare il debito pubblico. Mai: anche se a loro scusante va detto che nel solcare quotidianamente l'oceano del nulla sono aiutati da un sistema dell'informazione anch'esso perlopiù perduto dietro la chiacchiera, il «retroscena», il titolo orribilmente confidenziale su «Tonino» o «Gianfri», il mortifero articolo di «costume».

Nelle pagine e pagine dedicate dai giornali alla politica diventa sempre più difficile distinguere il vero dal falso, scorgere qualche spicchio di realtà tra i fumi dell'aria fritta. È così che alla fine siamo condannati a questo necessario, disperato, qualunquismo.
Agli italiani non sta restando altro. Disperato perché frutto dell'attesa vana che finalmente da dove può e deve, cioè dalla politica, venga una parola di verità sul nostro oggi e sul nostro ieri. Una parola che non ci esorti - e a che cosa poi? A credere in un ennesimo partito, in un'ennesima combinazione governativa? - ma che ci sfidi: ricordandoci gli errori che abbiamo tutti commesso, i sacrifici che sono ora necessari, le speranze che ancora possiamo avere. Per l'Italia è forse iniziata una corsa contro il tempo, ma non è affatto sicuro che ce ne resti ancora molto.

Ernesto Galli della Loggia

30 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_30/un-disperato-qualunquismo-ernesto-galli-della-loggia-editoriale_2120c614-13e4-11e0-96ea-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #89 inserito:: Gennaio 07, 2011, 12:07:14 pm »

CASO BATTISTI, IMMAGINE ITALIANA

Il commento
Indignarsi non Basta

Storia
Un Paese che vuole contare è innanzi tutto un Paese di cui gli altri conoscono la storia


Per motivi fin troppo ovvii il caso Battisti mette in questione l'immagine dell'Italia, ci obbliga a considerare come il mondo ci vede. Certo, Brasile e Francia non sono il mondo. Sono pur sempre, tuttavia, due grandi Paesi rappresentativi di interi universi culturali. Due Paesi che contano. Ebbene, «Il Brasile - ha scritto a ragione Peppino Caldarola sul Riformista - ha trattato il nostro Paese come un alleato minore cui assestare uno schiaffo con la certezza di non subire conseguenze». Dalla Francia, invece, una fitta schiera di autorevoli intellettuali, oltre a trovare tutte le scuse possibili e impossibili (in verità esclusivamente quest'ultime, direi) per il pluriomicida Battisti, non ha mancato di impartirci la lezione del caso sul terrorismo, sugli «anni di piombo», sulla giustizia, sulle nostre supposte manchevolezze in tutti questi ambiti e in molti altri ancora.

Nel primo caso la diplomazia risponderà come deve. In quanto opinione pubblica, invece, sarebbe sbagliato se la nostra reazione si limitasse a quella degli offesi, se fosse la reazione adontata e dai toni vagamente sciovinisti echeggiati per esempio in certe dichiarazioni governative. Meglio faremmo a renderci conto che quanto accaduto nei giorni scorsi rispecchia piuttosto un dato permanente. E cioè che presso la stragrande maggioranza dei pubblici stranieri l'Italia così com'è è una realtà largamente ignorata. È ignorata la sua storia unitaria, e in modo particolarissimo quella degli ultimi quindici anni. È perlopiù sconosciuto il modo di funzionare dei suoi organi costituzionali (i loro poteri, le loro prerogative) e specialmente della giustizia. Egualmente pressoché sconosciuti sono il tono effettivo della nostra vita pubblica e politica, la variegata qualità delle nostre relazioni sociali, dei nostri costumi e comportamenti collettivi, direi anche la qualità del nostro dibattito intellettuale. Anche per gli stranieri colti, troppo spesso l'immagine attuale dell'Italia è schiacciata sotto il peso di tre stereotipi: Berlusconi (vissuto come un mistero orripilante, premessa di ogni male), l'onnipotenza della mafia e della camorra, il pervadente oscurantismo del Cattolicesimo. Per il resto: approssimazione, inefficienza, arbitrio. Insomma, il solito folklore mediterraneo.

Ma se le cose stanno così la colpa è soprattutto nostra. Per esempio del nostro ministero degli Esteri, che per una pitoccheria suicida lascia da anni nel più completo abbandono la rete dei nostri istituti culturali all'estero (di un numero ridicolmente elevato e quindi anche per questo con scarsissime risorse, scoordinati, privi di un indirizzo unitario); che cura in modo assolutamente inadeguato i corrispondenti della stampa estera in Italia non fornendo loro occasioni significative per conoscere più approfonditamente il Paese; che non si preoccupa di finanziare in misura significativa la traduzione di opere italiane, di mantenere stabili rapporti con i numerosi dipartimenti di studi italiani nelle università straniere, di avere una politica favorevole e larga di occasioni per tutti coloro (e sono ancora molti) che all'estero si occupano in modo serio d'Italia e di cose italiane.

Un'altra parte non indifferente di responsabilità ce l'hanno poi gli ambienti intellettuali di casa nostra. Troppi nostri scrittori, artisti, uomini di cultura, sembrano farsi quasi un punto d'onore nel compiacere senza fiatare le opinioni più raffazzonate e sommarie che capita loro di ascoltare da amici o colleghi stranieri quando si parla dell'Italia. E il loro più o meno tacito assentire ha peso, conta. In essi mostrarsi ostili al governo di destra in carica, così raccogliendo il quasi certo consenso dell'interlocutore, ha in genere la meglio su qualsiasi sforzo volto per esempio a chiarire le ragioni di fondo, i motivi complessi, che spesso spiegano per non piccola parte tanti aspetti negativi della nostra situazione. Per quanto almeno mi è capitato di vedere, quella cosa che si chiama «carità di patria» - e che per l'appunto dovrebbe indurre, non certo a nascondere la propria opinione, ma almeno ad accompagnarla con discorsi più alti e con un certo distacco - non è merce molto diffusa tra gli italiani colti quando si trovano fuori casa. Si aggiunga poi il nostro invincibile provincialismo culturale, il quale tende troppe volte a farci apparire bello ciò che non è italiano. E che per esempio qualche tempo fa ha spinto anche una casa editrice come Laterza ma non è certo la sola! a tradurre un libro come quello di Christopher Duggan, La forza del destino, un libro che offre una versione della storia italiana negli ultimi 150 anni che dire caricaturale è dire poco. Noi stessi contribuendo in tal modo ad accreditare un punto di vista circa il nostro passato che non aiuta certo a capire nulla del nostro presente. È così - è anche, e anzi soprattutto, così - che quando poi capita che l'Italia debba misurare il peso e la qualità della propria immagine nell'arena internazionale, essa si ritrova con il bel risultato che le ha riservato il caso Battisti. Un Paese che vuole contare ed essere preso sul serio dagli altri è innanzi tutto un Paese di cui gli altri conoscono a sufficienza la storia e la realtà attuale, un Paese che, se è l'Italia, non deve, o non dovrebbe, essere scambiato per la Macedonia o per la Colombia con buona pace di entrambe.

Ernesto Galli della Loggia

07 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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