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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 126547 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Febbraio 02, 2011, 05:10:01 pm »

L’ALLERGIA AL LEADER DEL PD

La fabbrica delle anime

L’Italia è il Paese in cui alla vigilia di ormai più che probabili elezioni politiche l’opposizione è ancora priva di un leader da contrapporre al leader dello schieramento avversario, cioè a Silvio Berlusconi. Ciò riguarda tanto l’opposizione di sinistra che quella di centro: ma per ragioni solo in parte eguali. Il problema comune è che entrambe le opposizioni hanno una composizione eterogenea, ognuna essendo formata di tre, quattro, o anche più formazioni diverse, le quali devono trovare un accordo su chi le rappresenti nella competizione elettorale: una decisione, come si capisce, tutt’altro che facile.

Ma se questo è il problema comune sia al centro che alla sinistra, la sinistra ne ha uno in più. E cioè che qui è lo stesso partito di gran lunga più importante dello schieramento, il Partito democratico, che non ha un vero leader, non ha un capo. Per capo intendo una persona in grado di prendere decisioni vincolanti per tutti perché titolare di un consenso non da contrattare ogni volta con una continua ricerca di compromessi. Intendo insomma esattamente ciò che il povero Bersani non è. Ma Bersani non ha colpa. Il Pd manca di una simile figura da sempre: ed è questa una tra le non ultime ragioni per cui è un partito zoppo, sempre incerto nelle sue mosse, insicuro e poco affidabile all’esterno in quanto incapace di parlare con una voce sola.

Sono tre i principali motivi di questa specie di destino maligno.

Il primo è che innanzitutto nella cultura, nel modo di sentire del popolo del Pd si avverte una diffidenza profonda per l’idea stessa che un capo sia necessario. L’evoluzione ideologica dell’elettorato di sinistra successiva alla fine del comunismo ha voluto perlopiù dire, infatti, l’approdo a un democraticismo antigerarchico che è portato a vedere in ogni esercizio d’autorità un più o meno larvato sopruso. Dalla reverenza verso il capo indiscusso designato dal Partito con la P maiuscola a decidere di tutto (Togliatti, Berlinguer) si è passati all’idea opposta che di tutto possano e debbano decidere tutti (e chi non è d’accordo ha diritto di fare per conto suo come se nulla fosse). Alla speranza nella storia essendo subentrata con pari forza, dopo «Mani pulite », l’idolatria per i codici, tutto il senso comune della sinistra si è impregnato di regolamentarismo, di astrattezza, di sospetto per qualsiasi contenuto o potere legato alla persona. L’odio per Berlusconi ha fatto il resto, colorando di una luce d’arbitrio ogni realtà di leadership. Il risultato è stato una vera e propria automutilazione che la sinistra si è masochisticamente inferta, disconoscendo la funzione essenziale che nella politica ha sempre avuto l’esistenza di un capo.

Il quale capo, peraltro, non emerge nelle file del Pd anche per un secondo motivo: perché esso manca da tempo di un vero programma, di punti concreti sui quali definire la propria identità, di proposte con cui presentarsi all’elettorato. Sicché di fatto l’unica cosa su cui nel Pd c’è una parvenza di dibattito (per modo di dire: in realtà, infatti, non vi sono sedi effettive di discussione interna; tutto, anche in questo caso, si riduce a interviste e dichiarazioni ai giornali) è solo la tattica da adottare per far fuori Berlusconi e sugli eventuali alleati ai quali ricorrere.

Contenitore di molte prospettive ideali anche assai diverse tra di loro, il Pd non riesce in realtà a discutere di niente per paura di non trovarsi d’accordo su nulla. Ma proprio questa latitanza di concretezza programmatica e insieme di dibattito implica inevitabilmente l’assenza di vera lotta politica all’interno del partito, l’assenza di prese di posizioni che impegnino realmente chi le prende, l’impossibilità, infine, che si formino vere maggioranze intorno a un programma e intorno a una persona. E dunque l’impossibilità che nasca un vero leader. Al suo posto, invece, l’affollarsi di un’oligarchia sganciata da ogni responsabilità, immutabile, dove si entra solo e non si esce mai, dove tutti, a turno, prendono tutte le posizioni o quasi, madre di un sostanziale immobilismo punteggiato da continui compromessi.

Un meccanismo del genere non è certo fatto per consentire di prevalere a chi abbia voglia e capacità. È piuttosto il vivaio inevitabile della mediocrità. Dato questo modello ormai consolidato è comprensibile, infatti, che nessuno che pure eventualmente ne avesse qualche vago desiderio abbia poi voglia di giocarsi ciò che ha già, contrapponendosi al sistema e così rischiando di restare isolato perdendo tutto. In un partito dove non c’è vero dibattito politico, dove non c’è lotta politica su proposte concrete e contrapposte, che non ha alcuna identità programmatica, nessuno, comprensibilmente, se la sente di scommettere sulla bontà delle proprie idee. Nessuno se la sente di puntare sul fatto che il futuro gli darà ragione, e dunque di accettare di restare in minoranza oggi perché domani saranno i fatti a dargli la leadership. Nel Pd, insomma, è la stessa strada che conduce alla nascita di veri capi politici che risulta impraticabile, se non addirittura inesistente.

Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi da anni. Ad una patologica iperpresenza di superleadership a destra, a sinistra corrisponde un’altrettanto patologico vuoto di leadership. Anche di ciò si nutre voracemente l’anomalia italiana: quell’anomalia che ci sta conducendo alla rovina.

Ernesto Galli della Loggia

02 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #91 inserito:: Febbraio 07, 2011, 11:56:32 am »


LA PARALISI DELLA POLITICA

Una tregua vera o meglio il voto

Può una maggioranza reggersi sulla condiscendenza dell’on. Scilipoti? Può un Paese sapere che le sue sorti dipendono da un gruppetto di deputati transfughi da provenienze così eterogenee da non riuscire a trovare altra definizione per sé stessi che quella vagamente orwelliana de «i responsabili »? Il caso dell’Italia dimostra, ahimè, che è possibile. Ma se la cosa può funzionare sul piano dei numeri, non funziona sul piano politico. Cioè nella realtà.

Su questo piano quel che si è visto e che si continua a vedere è il progressivo sfilacciamento della proposta politica con cui il Pdl si presentò a suo tempo davanti al corpo elettorale, una congenita difficoltà da parte del suo capo di fissare gli obiettivi e di tenere la rotta, infine (ma non in ordine d’importanza) un’irrefrenabile tendenza al conflitto e allo scontro più aspro con gli altri partiti nonché con gli altri organi e poteri dello Stato. Un conflitto e uno scontro che si rinnovano ogni giorno, si ramificano, si moltiplicano, investono i più diversi ambiti delle istituzioni e della società, rimbalzando con sempre rinnovato vigore da uno all’altro. Fino a che il Paese intero, come appare da mesi, si ritrova scosso da una fibrillazione senza tregua, incerto di tutto, lacerato da divisioni sempre più profonde.

A questo punto è divenuto di ben scarso interesse accertare colpe e responsabilità (se ne occuperanno i tribunali), anche se è impossibile nascondere che da un lato l ’ i niziativa sul filo dell’irritualità di una parte della magistratura (qual era la notitia criminis che prima della famosa notte della Questura di Milano ha indotto a mettere sotto controllo la villa di Arcore?), e dall’altro lo stile del presidente del Consiglio, dell’uomo come del leader politico, imprimono continui innalzamenti al livello della tensione. Ma ripeto, tutto ciò ha ormai poca importanza. Oggi quello che conta è il sentimento generale che si respira nel Paese, anche in vasti settori della maggioranza, soprattutto tra coloro che ritengono importante salvare il profilo storico dell’esperienza di governo del centrodestra per molti aspetti certamente positiva. Se non sarà possibile una tregua, più volte invocata su queste colonne e più volte chiesta dal capo dello Stato (e non raccolta da un’opposizione che preferisce purtroppo la piazza al dialogo), il ricorso al voto anticipato appare una soluzione preferibile pur con una legge elettorale disgraziata di cui abbiamo avuto prove inconfutabili.

La politica però tende a non prestare alcun ascolto a questo malessere generale. Da mesi, infatti, nelle parole dei suoi attori, le elezioni anticipate sono solo un diversivo tattico da adoperare a seconda delle convenienze, una parola d’ordine destinata a durare un giorno, uno spauracchio agitato per intimorire l’avversario: niente di più.

Quel Paese che non ne può più e vuole un nuovo inizio —e che oggi rappresenta quasi certamente la maggioranza, comprendendo elettori di tutti gli schieramenti — è dunque privo d’interlocutori politici, salvo il presidente della Repubblica. Ma nessuno può pensare che a un uomo equilibrato e imparziale come il presidente Napolitano possa mai venire in mente di intervenire per determinare un esito o un altro della crisi. È la politica che deve riprendere in mano il suo destino. O è possibile una vera tregua, magari in occasione dei prossimi provvedimenti sull’economia, quanto mai necessari, sui quali un’opposizione responsabile avrebbe il dovere di confrontarsi lealmente senza pregiudizi, oppure è meglio restituire la parola agli elettori. Conviene a tutti.

Ernesto Galli della Loggia

07 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - www.corriere.it/editoriali/11_febbraio_07
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« Risposta #92 inserito:: Febbraio 25, 2011, 11:08:47 pm »

UNA LEGGE SBAGLIATA

I Confini della Volontà

La legge sul fine vita

La Costituzione italiana garantisce, all'articolo 32, che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». Chiunque insomma, nell'ambito della gestione della sua salute, è padrone di disporre come vuole del proprio corpo: di andare o no da un medico, di curarsi o non curarsi, di sottoporsi o no ad un'operazione, al limite anche di cessare di alimentarsi. Ciò vale se egli è in stato di coscienza, se è in grado d'intendere e di volere. Ma che accade se non lo è più? Se il grado avanzato di una malattia che lo ha colpito, o un incidente improvviso, lo rendono per l'appunto incapace d'intendere e di volere? La legge sotto esame in questi giorni alla Camera stabilisce che allora egli perda in sostanza il diritto surricordato e che alla sua volontà, prima così solennemente garantita, si sostituisca invece quella del medico.

Il progetto di legge di cui stiamo parlando decreta questa perdita di diritto nel momento in cui stabilisce che sì, io posso affidare le mie volontà in materia di «attivazione o non attivazione di trattamenti sanitari» a una cosiddetta «dichiarazione anticipata di trattamento» contenente perfino «la rinuncia ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamento sanitario in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale» (dunque solo in questo caso?), e posso, sì, egualmente, nominare un «fiduciario» che mi rappresenti quando non dovessi essere più cosciente. Stabilisce anche, però, che nel primo caso la mia dichiarazione non ha alcun valore vincolante ma solo un valore di «orientamento»; e stabilisce altresì, in un emendamento al testo iniziale, che anche nel secondo caso se sorge un contrasto tra il parere del mio «fiduciario» e quello del medico è il parere di quest'ultimo che ha la meglio. La mia volontà, insomma, è solo un «orientamento», ma di fatto io sono nelle mani di ciò che decide il medico. Si aggiunga infine, per colmare la misura, che la validità già molto aleatoria della mia «dichiarazione» è sospesa se mi trovo in condizioni di urgenza o d'imminente pericolo di vita. Cioè proprio nella circostanza - come ha fatto giustamente osservare il professor Possenti nel suo ottimo articolo di mercoledì sul Corriere - in cui la suddetta «dichiarazione» dovrebbe valere di più.

In verità a ogni persona di buon senso sfugge per quale ragione la legge, da che tutela in modo assoluto la mia volontà finché sono cosciente, non debba poi riconoscerle più alcun valore quando manifesto tale volontà ora per domani, cioè per quando non sarò più in grado di farlo a causa di un sopravvenuto stato d'incoscienza. Perché nel frattempo posso aver cambiato idea, è la risposta. Già, ma ci si rende conto che se questo modo di ragionare fosse fondato, allora non dovrebbe essere riconosciuta valida, per esempio, nessuna disposizione testamentaria che non fosse redatta e sottoscritta un istante prima di morire? Capisco che l'importanza dei beni materiali è ben diversa da quella della vita umana, ma la manifestazione di volontà è sempre la stessa. Se è valida in una materia non può che essere valida sempre. Non solo: ma proprio per una simile eventualità - perché può sempre sopraggiungere un imprevisto qualunque che quando ero cosciente non ero in grado di prevedere nelle mie disposizioni - proprio per questo, dicevo, io posso nominare un «tutore», una persona di mia fiducia che in caso di mia impossibilità decida per me. E invece, come ho già ricordato, anche questo la legge non permette.

Ma anche qui: perché mai ciò che pensa e decide del mio destino un medico sconosciuto deve avere la meglio su ciò che invece pensa e decide una persona alla quale presumibilmente mi legavano rapporti intensi di conoscenza e di affetto (un congiunto, un coniuge, un amico, un compagno), e della quale mi sono comunque fidato al punto di consegnare la mia vita nelle sue mani? Stupisce davvero che proprio una visione del mondo che si vuole cristiana - qual è senz'altro quella di chi ha ispirato e redatto questa legge - abbia deciso di sottrarre la morte alla sua tragica e misteriosa umanità, alla sua natura di drammatica prova e compendio di una vita e dei suoi affetti, per consegnarla invece alla gelida presunta imparzialità dell'apparato sanitario, alla tecnicalità del sapere medico-scientifico. È in questo modo che si spera di contrastare l'arroganza culturale della tecno-scienza? Si dice che simili disposizioni di legge sarebbero state predisposte per evitare il ripetersi di un caso come quello di Eluana Englaro. Ma ciò che in quel caso apparve a molti (compreso il sottoscritto) ripugnante e inammissibile fu la pretesa da parte di un Tribunale, servendosi di indizi fragilissimi e di deduzioni capziose, di ricostruire la supposta volontà di quella povera ragazza e di autorizzarne, in base a ciò, la virtuale soppressione. Proprio perché in una tale materia la volontà personale deve essere considerata sacra, essa non può essere affidata alle illazioni di qualche magistrato. Si dice ancora che la legge in questione servirebbe a evitare il ricorso più o meno sotterraneo a pratiche eutanasiche. È un obiettivo che personalmente condivido in pieno. Ripeto, in pieno; ma non capisco che cosa c'entri: sarebbe come vietare la fabbricazione delle armi per impedire che qualcuno le usi per uccidersi. Comunque, se questo è il problema mi pare che ci sia un mezzo facilissimo per risolverlo: si stabilisca per legge che nelle dichiarazioni della propria volontà in previsione di un sopravvenuto stato d'incoscienza sia permesso di indicare non già i trattamenti che si vorrebbero avere, bensì esclusivamente le pratiche e le cure mediche che non si vogliono avere. Fino a prova contraria è difficile considerare come eutanasia il semplice lasciarsi morire: o deve essere vietato anche questo?

Ernesto Galli della Loggia

25 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #93 inserito:: Marzo 06, 2011, 11:42:12 am »

DOMANI LA DISCUSSIONE ALLA CAMERA

Quando una legge decide della vita

Ci sono casi in cui idratazione e alimentazione artificiali divengono una forma di trattamento sproporzionato

Per quanti sforzi facciano non riescono ad essere convincenti, i difensori dell'attuale progetto di legge sul «trattamento di fine vita» approntato dal governo, che domani arriva in Aula alla Camera. Sono principalmente due gli argomenti cui essi ricorrono per non riconoscere un valore vincolante né all'anticipata dichiarazione di volontà circa il trattamento sanitario a cui essere sottoposti quando non si è più in grado d'intendere e di volere (la cosiddetta Dat), né all'opinione di un «fiduciario» (che termine orribile! Non ce n'era un altro?) eventualmente indicato per quella drammatica circostanza; e quindi per lasciare l'ultima parola a un medico o, come dice adesso il testo emendato, a un collegio paramedico.

Il primo argomento suona a un dipresso così: «Chi può davvero stabilire in anticipo, nel momento magari in cui sta ancora bene, quale sarà la sua volontà in un contesto ben diverso, quando per esempio dovesse trovarsi in agonia?». C'è del vero in questa obiezione. Mi chiedo però a mia volta: chi mai, allora, appare più verosimilmente idoneo a decidere in sua vece? Il suo «fiduciario», la persona da lui ben conosciuta, alla quale probabilmente lo legano affetto e amicizia, e alla quale egli si è comunque volontariamente affidato, ovvero un medico sconosciuto e che molto probabilmente nulla sa di lui, della sua personalità, del suo animo? Già, ma in questo modo - ecco il secondo argomento dei difensori del disegno di legge - privandolo di ogni diritto d'intervento autonomo si lede in misura inaccettabile il prestigio e la professionalità del medico. Devo dire la verità? Mi sembra un argomento risibile. Con lo stesso criterio, infatti, si dovrebbe allora proibire, ad esempio, il ritiro del mandato dato a qualunque professionista - avvocato, architetto, o chiunque altro - perché egualmente ciò lederebbe in misura insopportabile la sua professionalità. Andiamo! Il sospetto è che in realtà a «suggerire» al governo di legiferare nel senso ora detto siano state le autorità ecclesiastiche, preoccupate che il libero corso dato all'autodeterminazione dei singoli potesse celare il ricorso a questa o quella pratica eutanasica (preoccupazione perfettamente legittima e sulla quale personalmente concordo: purché però non diventi un'ossessione!), e invece convinte, sulla base dell'esperienza, di riuscire a influenzare con una certa facilità decisioni e comportamenti della classe medica.

In realtà, se davvero la preoccupazione della Chiesa cattolica circa le Dat è quella che ho ora detto, mi pare che ci sia un mezzo assai semplice per tagliare la testa al toro: stabilire per legge che le Dat stesse non possano contenere alcuna disposizione in positivo, e cioè a fare checchessia, ma solo in negativo, a non fare. Se l'eutanasia è «ciò che pone alla vita un termine artificiale, che fa morire una persona prima che la vita sia giunta al suo termine naturale» (Buttiglione), allora mi sembra indiscutibile che lasciare per la propria fine la disposizione di non fare, equivalga per l'appunto a lasciare che la vita «giunga al suo termine naturale». Il che tra l'altro avrebbe anche il vantaggio di non urtare in alcun modo la suscettibilità di alcun medico perché a questi non verrebbe imposta di fatto alcuna scelta terapeutica.

Del tutto diverso appare il problema dell'idratazione e alimentazione artificiali a soggetti non coscienti. In questo caso l'intervento del legislatore, come si sa, si è reso necessario per evitare il ripetersi della pazzesca sentenza sul caso Englaro da parte della Corte di Cassazione, che si arrogò per l'occasione il compito di istanza legiferatrice autorizzando la morte della ragazza.
Il disegno di legge prescrive che l'idratazione e l'alimentazione artificiali siano in ogni caso obbligatori considerandoli non già terapie ma «forme di sostegno vitale», e vietando altresì che la dichiarazione anticipata ne possa in alcun modo disporre. Salvo però aggiungere in un emendamento: «Ad eccezione del caso in cui le medesime (idratazione e alimentazione) risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche del corpo». Ma chi giudica dell'eccezione? E soprattutto - fa notare uno studioso di vaglia di questa materia come il professor Paolo Becchi - in base a quali criteri o esami clinici si può accertare che «idratazione e alimentazione siano ancora efficaci nel fornire al paziente i fattori indispensabili alla sua sopravvivenza? Efficaci sembrerebbero proprio esserlo dal momento che altrimenti il paziente sarebbe già morto!». Non solo: ma il medico che sospendesse idratazione e alimentazione non violerebbe con ciò stesso quel «divieto di qualunque forma di eutanasia» (compresa dunque anche l'eutanasia cosiddetta «passiva») che il disegno di legge solennemente proclama?

Un disegno di legge, in conclusione, da rimeditare da cima a fondo per molti aspetti. Ad esempio ammettendo, come suggerisce sempre Becchi, che in certi casi pure idratazione e alimentazione artificiali possono divenire una forma di trattamento sproporzionato, e dunque configurare un inammissibile accanimento terapeutico. Da interrompere una buona volta, da interrompere anch'essi, dunque, per lasciarci finalmente in pace di fronte alla speranza e al mistero nell'ora della nostra morte.

Ernesto Galli della Loggia

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« Risposta #94 inserito:: Marzo 25, 2011, 06:40:15 pm »

IL RUOLO DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA

Un nuovo patriottismo

L'anniversario dell'Unità ha messo in luce un cambiamento importante dell'Italia di questi anni: il patriottismo è diventato anche di sinistra (mi riferisco, com'è chiaro, a quella sinistra di ascendenza marxista da molto tempo maggioritaria nella sua area; non già all'altra, ultraminoritaria, di ascendenza repubblicana e democratica, che invece patriottica lo è sempre stata).

Naturalmente anche prima di oggi moltissimi italiani appartenenti alla sinistra suddetta hanno nutrito un forte sentimento della patria, e in moltissime occasioni lo hanno manifestato con le parole e coi fatti. Tuttavia mai prima d'ora il patriottismo era entrato nel bagaglio ideologico di tale sinistra, nel suo orizzonte emotivo e culturale. Addirittura per gran parte della Prima Repubblica quella sinistra, lo si ricorderà, di patrie non nascondeva di averne due (l'altra essendo, ahimé, l'Unione sovietica). Oggi, invece, le cose per fortuna appaiono (se non altro appaiono) ben diverse.

I motivi del cambiamento sono molti. Innanzi tutto il fatto che la tradizionale inquilina dello «spazio patriottico», e cioè la destra, intralciata politicamente dalla presenza della Lega, si è fatta stupidamente paralizzare dai suoi veti lasciando libero il campo che un tempo era tipicamente suo. Pur avendo i voti di tanti italiani che un reale e forte sentimento della patria lo hanno, eccome!, essa, tuttavia, non è riuscita a dare a tale sentimento dei suoi elettori alcuna efficace rappresentazione politica. È accaduto invece che, essendo la destra alleata politica di una forza così sguaiatamente «antitaliana» come per l'appunto la Lega, questo solo fatto abbia subito trasformato il patriottismo in un'arma efficace contro il governo e la maggioranza, e perciò assai appetibile da parte della sinistra. La quale così ha trovato anche un modo per riempire almeno in certa misura il vuoto prodotto nel suo bagaglio ideologico dalla fine del comunismo.

Si aggiunga un ultimo fatto decisivo. E cioè che da oltre una decina d'anni il patriottismo, insieme al culto della Costituzione, è ormai diventato l'ideologia ufficiale della presidenza della Repubblica. Ciò è accaduto in coincidenza con un andamento delle cose che ha fatto del presidente della Repubblica il vero dominus virtuale del sistema politico-istituzionale, determinando, di pari passo, anche una forte crescita simbolica della sua immagine. Si è trattato di un processo che, iniziato con Pertini, è divenuto - dopo i settennati molto divisivi di Cossiga e Scalfaro - sempre più pronunciato con la presidenza di Ciampi e di Napolitano. Il progressivo discredito della politica, la sua rissosità inconcludente, la sua perdita di orizzonte ideale, insieme alla pochezza del personale di governo hanno avuto il risultato di esaltare sempre di più, per contrasto, la figura politica sì, ma istituzionalmente super partes e circondata di un apparato cerimoniale intrinsecamente nobilitante, del capo dello Stato. In breve, questi è diventato l'unico protagonista della scena ufficiale capace (perché credibile) di un discorso pubblico «alto», il solo in grado di parlare al Paese del suo passato e del suo futuro. Facendo uso, naturalmente, di toni e contenuti patriottici: gli unici consentiti dalla specificità del pur grande potere presidenziale.

Ma sia Ciampi che Napolitano non venivano dal nulla. Venivano entrambi da un retroterra ideologico di sinistra, sia pure di due sinistre diverse. La loro biografia personale e il prestigio del loro ruolo hanno avuto dunque l'effetto ovvio di accelerare ancora di più la corsa al patriottismo di una sinistra orfana di tanti ismi ormai annientati dalla storia.

Ernesto Galli della Loggia

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« Risposta #95 inserito:: Aprile 04, 2011, 11:03:06 am »

SLOGAN PADANI E PROBLEMI REALI

Lega di lotta, non di governo

La crisi della leadership berlusconiana a stento riesce a mascherare un'altra crisi che sta esplodendo in questi giorni: la crisi della Lega. È la crisi che è raffigurata come meglio non si potrebbe dalla foto di quella rete del campo profughi di Manduria, semiabbattuta e superata d'un balzo da centinaia di tunisini poi dispersisi nei dintorni. Con l'incisività perentoria delle immagini essa mostra l'impotenza di un ministro leghista dell'Interno, Maroni, che, molto bravo ad arrestare mafiosi e camorristi, non sa invece che pesci pigliare proprio sul tema forse più caro alla propaganda e all'ideologia del suo partito: quello dell'immigrazione. Bossi ha un bel dire agli immigrati «fuori dalle palle». Il suo ministro non è capace neppure di trattenerli dietro una rete: non dico neppure, naturalmente, di respingerli in mare lasciandoli al loro destino, così come invece, ascoltando le grida di Bossi, qualche ingenuo e feroce leghista forse si è immaginato che potesse accadere. Ma evidentemente un conto sono i comizi a Pontida, un altro conto fare seguire alle parole i fatti.

La verità è che quanto accade in questi giorni sta mostrando l'impossibilità/incapacità della Lega ad essere un vero partito di governo. Con l'ideologia leghista si può essere ottimi sindaci di Varese e perfino di Verona, ma non si riesce a governare l'Italia. Non si riesce, cioè, a pensare davvero i problemi del Paese in quanto tale (non solo nella sua interezza, ma anche nella complessità dei suoi rapporti internazionali), e tanto meno immaginarne delle soluzioni. Con l'ideologia leghista al massimo si può stare al governo, che però è cosa del tutto diversa dal governare. Si può al massimo, cioè, essere alleati gregari di una forza maggiore e occupare dei posti: ma al solo scopo, in sostanza, di chiedere mance e favori per i propri territori. Il limite della Lega è per l'appunto questo: a chiacchiere essere contro «Roma ladrona», ma poi essere condannata a comportarsi nei fatti come un tipico partito di sottogoverno.

Questa posizione sostanzialmente subalterna della Lega è l'inevitabile conseguenza di quel vero e proprio bluff ideologico che è l'evocazione della Padania (con implicito sottinteso separatista). Non si può governare nulla che riguardi l'Italia, infatti, tanto meno un problema come l'immigrazione, volendo essere solo «padani». Quello della Padania, in realtà, è un bluff che solo la stupida timidezza delle forze politiche «italiane» non ha fin qui avuto il coraggio di «vedere», e che Bossi adopera all'unico scopo di marcare il proprio impegno territoriale e il proprio feudo elettorale. Ma che per il resto è di un'inconsistenza assoluta presso lo stesso elettorato leghista.

Lo dimostrano con il loro comportamento gli stessi amministratori locali della Lega, i quali, molto saggiamente, quando è il momento della verità non se la sentono quasi mai di onorare davvero il bluff «padano». Come si è visto ad esempio - uno solo tra i tanti - quando nei giorni scorsi il governatore Cota, dovendo scegliere tra il partecipare solennemente alle celebrazioni dell'Unità d'Italia e del ruolo in essa avuto dal suo Piemonte, e in alternativa avallare invece le idiozie anti italiane delle «camicie verdi» restandosene a casa, non ha esitato a scegliere. Ben consapevole che, qualora se ne fosse restato a casa, molto probabilmente si sarebbe giocata la rielezione.

Ernesto Galli Della Loggia

04 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #96 inserito:: Aprile 11, 2011, 08:38:00 pm »

I TANTI TALENTI COSTRETTI A EMIGRARE

Generazioni perdute


La manifestazione dei precari di sabato scorso ha ricordato agli italiani che il loro è un Paese che riserva ai giovani una condizione di estremo sfavore. Ma non solo perché trovare un lavoro stabile è un'impresa disperata. Anche perché (e forse tra i due fenomeni c'e una relazione) ai posti che si dicono di responsabilità - cioè nei posti che contano - si arriva, bene che vada, tra i 50 e i 60 anni, e ci si resta per decenni.

Tutta la classe dirigente italiana è organizzata in un sistema di compatte oligarchie di anziani che per conservare e accrescere i propri privilegi sono decisi a sbarrare l'ingresso a chiunque. A cominciare dal capitalismo industriale-finanziario il quale, almeno in teoria, dovrebbe essere il settore più dinamico e innovativo della società, ma dove invece i Consigli d'amministrazione assomigliano quasi sempre a un club esclusivo di maschi anziani. Anche il sistema politico e i partiti non scherzano. I leader più importanti non solo stanno in politica da almeno tre o quattro decenni, ma in media è da almeno 20-25 anni che occupano posizioni di vertice.

La muraglia invalicabile dietro la quale prospera la gerontocrazia italiana ha un nome preciso: l'ostracismo alla competizione e al merito. In Italia il sapere e il saper fare contano pochissimo. Moltissimo invece contano le amicizie, il tessuto di relazioni, l'onnipresente famiglia, e soprattutto l'assicurazione implicita di non dar fastidio, di aspettare il proprio turno, di rispettare gli equilibri consolidati: vale a dire ciò che fanno o decidono i vecchi.

È così che l'Italia sta mandando letteralmente al macero una generazione dopo l'altra. Ma non tutti si rassegnano a subire la frustrazione di dover passare i migliori anni della propria vita ad arrancare dietro un posto di seconda fila, precario e mal pagato. A partire almeno dagli Anni 90, infatti, decine di migliaia di giovani, donne e uomini, hanno trovato modo di lasciare la Penisola e di ottenere un lavoro fuori dai nostri confini. Non è vero che l'emigrazione italiana è finita. Certo, ora non sono più le «braccia», sono i «cervelli»; ma la sostanza del fenomeno non cambia. Sono giovani di talento che per avere un futuro hanno dovuto andarsene dal Paese. E che nelle università, negli uffici finanziari, nelle case di commercio, nelle banche, nei centri di ricerca, negli ospedali, nelle imprese industriali di mezzo mondo, mostrano come il nostro sistema d'istruzione, pur con i centomila difetti che sappiamo, sia tuttavia ancora capace di produrre una formazione d'eccellenza. Sono giovani di talento che fuori d'Italia hanno avuto modo di farsi apprezzare, di costruirsi carriere e posizioni spesso di rilievo. È un'emigrazione di qualità, insomma. Ma è anche un'emigrazione che non dimentica, non riesce a dimenticare, il proprio Paese. Un'emigrazione che per mille segni mostra quanta voglia avrebbe di poter essere utile all'Italia.

Che senso ha allora, mi chiedo, che un'Italia di vecchi, un Paese disperatamente in declino, non pensi a ricorrere in qualche modo a questa riserva collaudata di energia e di competenze? Stabilizzare centinaia di migliaia di lavoratori precari è un obiettivo sacrosanto ma è certamente un obiettivo non facile. Richiede interventi economici e giuridici complessi. Ci si deve assolutamente provare, ma ciò non toglie che allo stesso tempo non si possano anche studiare procedure di favore e incentivi allo scopo di immettere un certo numero di italiani di talento che si trovano oggi all'estero, per esempio in posizioni medio-alte della Pubblica amministrazione, degli Enti locali, delle Asl.

Nelle Università qualcosa del genere si è tentato ma è naufragato per le inevitabili resistenze corporative. Il che dimostra che ciò che soprattutto servirebbe per muoversi nella direzione ora detta sarebbe un impulso forte e coordinato dal centro. Cioè un'iniziativa politica che desse il segnale che il Paese vuole cambiare rotta, farla finita con abitudini che ci soffocano, prendere con coraggio strade nuove, muoversi finalmente con immaginazione senza lasciarsi frenare dal burocratismo, dalle vecchie oligarchie, dal passato. Conosco l'obiezione: e cioè che per fare tutto questo ci vorrebbe una vera leadership politica, un governo. È proprio così: ci vorrebbe un governo.

Ernesto Galli della Loggia

11 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #97 inserito:: Aprile 22, 2011, 05:34:41 pm »

I NUOVI POPULISMI EUROPEI

La frattura culturale

Per quanto tempo ancora le classi dirigenti europee adagiate nella vulgata europeista reggeranno alla pressione dei cambiamenti sempre più impetuosi che vanno manifestandosi tra le grandi masse dei loro Paesi? È questa la domanda che pongono le elezioni di domenica scorsa in Finlandia. La strepitosa affermazione del partito populista-antieuropeista dei «Veri Finlandesi », balzato al terzo posto con il 20 per cento dei voti, è l’ultimo campanello d’allarme, infatti, dopo quelli già risuonati in Italia, in Olanda, in Danimarca, in Ungheria; mentre a Parigi il Front National di Marine Le Pen già arriva nei sondaggi a insidiare il presidente Sarkozy.

L’Europa è oggi teatro di una grande, progressiva frattura culturale tra i vertici e la base delle sue società. E il nuovo populismo, di cui tanti lamentano i successi, appare né più né meno che come una sorta di nemesi che si abbatte su classi dirigenti che hanno cessato da tempo di essere «popolari», cioè di essere in sintonia con i sentimenti, gli umori, le paure e le speranze delle grandi masse. Da tempo, infatti, tutte le élite europee — in testa gli intellettuali e incluse quelle economiche — agiscono e parlano come pietrificate in una visione immobile del mondo, dominata da un pugno di principi guida: l’internazionalismo, l’espansione illimitata dell’individualismo e dei suoi diritti, l’idolatria del proceduralismo consensualistico, l’idea che l’economia rappresenti il regolatore supremo delle collettività umane.

È una visione del mondo specialmente forte nell’Europa occidentale ma che agli occhi delle popolazioni europee appare ormai sempre più incongrua rispetto ai nuovi scenari interni e internazionali. Le oscure prospettive della crescita economica; il calo demografico e l’invecchiamento con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici; l’immigrazione; l’avvento di universi culturali, come quello elettronico- telematico, inediti e pervadenti, profondamente spaesanti; la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nella massa dei meno istruiti, dei più anziani, dei soggetti deboli—cioè nella maggioranza —, un clima di inquietudine, di timori oscuri, di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti.

È, al fondo, un’indistinta ma fortissima domanda di politica che si leva dalle viscere delle società europee. Una domanda di nuovi traguardi pratici, di nuove mobilitazioni collettive e insieme di nuovi orizzonti ideali: che le élite sembrano però incapaci di intendere e ancor più di soddisfare. Queste non si rendono conto che negli ultimi decenni, sia pure inavvertitamente, hanno privato le masse popolari della sola cultura che insieme al socialismo era valsa ad integrare le masse suddette nell’universo della modernità e nella prospettiva dell’emancipazione: la cultura della nazione. Cioè la cultura che dopo la fine del socialismo/ comunismo era l’unica in cui quelle masse erano abituate storicamente a riconoscersi. Le quali masse, adesso, sono sul punto, addirittura, di vedersi obbligate a rinunciare più o meno anche al Welfare. E dunque di restare davvero come integralmente nude di fronte alla storia.

Non è un caso se è l’Europa l’ambito dove la frattura culturale tra masse ed élite si manifesta più clamorosamente. Tutta la costruzione europea è stata portata avanti, infatti, sulla base di una drammatica sottovalutazione della politica; sulla base della convinzione che l’economia rappresentasse la dimensione decisiva, che l’economia fosse in grado di produrre la politica. Laddove, se qualcosa aveva dimostrato il Novecento, era esattamente il contrario, e cioè che deve essere la politica a comandare. Per la salvezza della stessa economia.

Così come è sempre la costruzione europea l’ambito dove il democratismo economicistico post-nazionale delle élite del vecchio continente ha avuto e ha modo, logicamente, di dispiegarsi con maggiore ampiezza. E dunque è naturale che sia regolarmente l’Unione europea quella chiamata a pagare oggi il prezzo più alto per le scelte delle élite di cui sopra. Perché mai gli elettori finlandesi o quelli di qualunque altro Paese dovrebbero mostrarsi solidali con le disastrate finanze di Grecia o Portogallo? Si può essere solidali davvero solo con coloro a cui ci sentiamo legati da vincoli di comune appartenenza, nei confronti dei quali esiste la convinzione di «stare nella stessa barca» dal momento che condividiamo con essi un’origine e un destino: e cioè, per esempio, perché siamo abitanti di una stessa patria politica. Avere una medesima moneta, invece, è tutt’altra faccenda e di ben minore valore: in nome della quale si può al massimo rinunciare a qualche vantaggio, non già fare sacrifici realmente tali. E se qualcuno si mette in testa d’imporli, come meravigliarsi se allora la terra comincia a tremare sotto i piedi, se dovunque prendono a crescere i partiti dell’atavismo, della chiusura nel comunitarismo, nel caldo della «Heimat», e infine dell’esclusione e dell’odio?

Ernesto Galli Della Loggia

20 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #98 inserito:: Maggio 13, 2011, 11:18:34 am »

METAMORFOSI DI UN RUOLO

Quirinale, la supplenza necessaria


Da quando nel 1992 entrò in crisi il sistema politico che aveva tenuto a battesimo la Repubblica nessun potere dell'ordinamento costituzionale italiano ha subito, sotto un'apparenza di immutabilità, modifiche sostanziali così profonde come il potere del presidente della Repubblica. Le sue prerogative - fino a non molti anni fa in prevalenza notarili o di relativamente innocua esternazione - sono divenute fonte sempre di più di decisioni risolutive. Ecco perché da tempo chi esercita quella carica è fatto oggetto, praticamente ogni giorno, di appelli, critiche, polemiche, da parte di tutte le forze politiche. Non è questione della nota scostumatezza costituzionale di Berlusconi o della sua altrettanto nota aggressività verbale; così come, dall'altra parte, non è questione della spregiudicatezza manipolativa di Di Pietro o chi altri. La questione vera è che il presidente della Repubblica è ormai diventato il dominus effettivo della scena politica del Paese. E come potrebbe mai, dunque, in tale condizione apparire sempre super partes nella discussione pubblica?

Le cause di questa trasformazione di fatto sono parecchie, ma due mi sembrano quelle essenziali. La prima consiste nella quantità e nella varietà delle prerogative e dei poteri che la Costituzione conferisce al presidente. Prerogative e poteri numerosi, vari, che spaziano in ambiti molteplici, ma soprattutto - ciò che per la loro evoluzione è stato decisivo - necessariamente indeterminati, suscettibili cioè, per loro natura, di un esercizio esclusivamente formale o viceversa sostanziale, a seconda delle circostanze e della situazione politica. Si pensi solo all'autorizzazione per la presentazione alle Camere dei disegni di legge d'iniziativa del governo, alla promulgazione delle leggi o all'emanazione dei decreti legge, cioè a tutta l'attività legislativa dell'esecutivo: autorizzazione che - lungo una scala da un minimo a un massimo - può essere intesa vuoi come un atto dovuto, puramente estrinseco, o viceversa dare luogo di fatto a un vero e proprio intervento attivo nella formulazione dei provvedimenti legislativi. Si aggiunga, a sanzionare significativamente il rilievo della carica del presidente, e a conferirgli un alto potenziale politico, la sua durata - sette anni, e reiterabili, vale a dire un tempo assai superiore a quello di qualsiasi altra carica dello Stato - peraltro non sottoponibile a nessuna «sfiducia», salvo il caso estremo di messa in stato d'accusa davanti alle Camere.

Alla fine, dunque, tutto dipende ineluttabilmente dalle circostanze. È stato il progressivo indebolimento degli antichi partiti e del loro sistema già negli anni 80 e nei primissimi 90, con Pertini e Cossiga, che ha creato sempre più un vuoto. Molti vuoti. Ed è allora, per riempire questi vuoti di diversa natura, che è iniziata a mutare anche la valenza politico-costituzionale della presidenza della Repubblica, grazie inizialmente all'uso dello strumento, in realtà per nulla secondario, delle «esternazioni». Poi fino ad oggi si è verificata una serie di accelerazioni repentine.

Un bipolarismo approssimativo e senza regole, causa di continui scontri muro contro muro; la presenza per la prima volta nella storia della Repubblica di governi di destra privi però di adeguata rappresentanza nelle élite tradizionali; l'affollarsi di formazioni politiche nuove e spesso aleatorie; coalizioni mutevoli; una classe politica incolta e in molta parte inesperta: tutto ciò ha finito per inasprire il clima generale e per rendere sempre più cruciali temi che prima non lo erano o non lo erano nella stessa misura. A cominciare dallo scioglimento delle Camere, per finire all'esatta definizione dei poteri del presidente del Consiglio, specie in rapporto agli altri organi e poteri dello Stato. E dunque è andata crescendo di pari passo la centralità del presidente della Repubblica, sempre più chiamato a esercitare i suoi poteri di arbitraggio e di decisione, e inevitabilmente sempre più oggetto di consensi e di dissensi.

È difficile negare che Giorgio Napolitano stia svolgendo con avvedutezza ed equanimità la parte che la storia gli ha assegnato. Una parte non facile, condannato per forza, come egli è, a essere considerato troppo neutrale e insieme troppo poco: troppo da una sinistra che per avere egli un tempo militato nelle sue file lo vorrebbe più simile a sé, e troppo poco neutrale da una destra che lo sente troppo diverso da sé. Che il suo tentativo di non stare per principio da nessuna parte stia avendo successo è però testimoniato dalla sua nuova, indubbia popolarità, frutto precisamente del fatto che settori crescenti dell'opinione pubblica, stanchi e sfiduciati, s'identificano per l'appunto con quel suo stare, o sforzarsi di stare, «da nessuna parte». Così come lo testimonia, se non m'inganno, pure il fenomeno anch'esso nuovo del sentimento patriottico diffusosi recentemente in vasti settori del Paese.

Il patriottismo, infatti, ha un forte bisogno di una figura simbolica di riferimento, la quale, come è ovvio, non rappresenti però «una parte» bensì un «tutto»; e quanto più la trova tanto più esso è in grado di svilupparsi. In Giorgio Napolitano, evidentemente, quella figura di riferimento il nuovo patriottismo italiano sente di averla trovata. Così come, dall'altra parte, la presidenza della Repubblica, già con Ciampi e poi adesso ancora di più con Napolitano, ha cominciato a trovare nel patriottismo la sua propria ideologia di riferimento. E anche questa non è certo una novità dappoco.

Ernesto Galli Della Loggia

13 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #99 inserito:: Maggio 23, 2011, 10:47:01 pm »

NON SI GOVERNA SOLO CON TV E PROMESSE

Alle radici del malessere

Cascano le braccia davanti alla cecità politica che sta dimostrando in queste ore la destra nella campagna per Milano.
Ma davvero si può pensare che dilagare sui telegiornali, promettere ministeri, togliere multe, elargire mance e favori possa rovesciare un risultato che ha cause politiche profonde? Per carità: magari il ballottaggio di domenica assegnerà la vittoria a Letizia Moratti, chi può dirlo?, ma se ciò accadrà sono sicuro che accadrà solo perché, pur di non consegnare la città agli avversari, l’elettorato di destra si ricompatterà e tornerà alle urne che aveva disertato una settimana fa. Non certo perché ammaliato dall’ennesima concione berlusconiana o dal miraggio di qualche improbabile ministero alla Bovisa elargito da Bossi.

La destra dovrebbe convincersi che ciò che soprattutto le sta togliendo il consenso del Paese (Milano inclusa) — oltre qualche intemperanza, chiamiamola così, della vita privata del suo leader: ma in misura che io credo assai poco rilevante— non dipende in realtà dall’economia. Dipende da qualcos’altro che va al di là delle pur non facili condizioni di vita di tanti cittadini. Sostanzialmente dipende dal fatto che molti elettori di destra hanno cominciato a perdere fiducia nella capacità di Berlusconi e dei suoi di capirli e di rappresentarli in generale. Al contrario di ciò che spesso pensa la sinistra, non è per nulla vero, infatti, che a destra ci siano solo interessi, e per giunta quasi sempre bassi e talora inconfessabili.

C’è una visione organica dell’Italia, dello Stato e delle sue amministrazioni, dei valori e dei rapporti sociali (oltre che, va da sé, di quelli economici). È per l’appunto con tutto ciò—proprio del loro elettorato, ma in molti casi non solo — che Berlusconi e i suoi stanno mostrando di non riuscire più a essere in sintonia. Da un’infinità di tempo essi hanno abbandonato le grandi questioni generali, spesso di alto valore simbolico. Si sono spesi solo su due di esse: quelle riguardanti il fine vita e la giustizia. Ma si tratta di due questioni circa le quali era troppo evidente da un lato l’interesse elettoralistico per il voto cattolico, e dall’altro l’interesse personale del leader (senza contare peraltro che in entrambi i casi hanno combinato poco o nulla).

Il fatto è che Berlusconi e i suoi non riescono più a dare voce al proprio retroterra, a esprimerne il punto di vista, circa il modo in cui il Paese dovrebbe essere, circa i contenuti virtuosi che un’Italia di destra potrebbe/vorrebbe avere, e che sarebbe sciocca faziosità pensare che non possano esistere. I governi delle democrazie — che siano di destra o di sinistra — non esercitano il potere solo per spendere o per distribuire risorse. Esistono anche per difendere chi si trova in posizioni di svantaggio, per tutelare gli interessi generali, per aiutare a vivere meglio. È su questo piano soprattutto che il governo della destra italiana non è stato capace di agire e di trasmettere un messaggio in grado di arrivare all’opinione pubblica. Innanzitutto alla «sua» opinione pubblica.

Ernesto Galli Della Loggia

23 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #100 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:34:26 pm »

IL CIRCOLO VIZIOSO DEL PDL

L'obbedienza che avvelena

È stata l'obbedienza - pronta cieca e assoluta - il veleno che ha ucciso il Pdl. O meglio che, inoculato nel suo corpo fin dall'inizio, fin dall'inizio gli ha impedito di esistere veramente come partito. Bisognava obbedire a Berlusconi, questa la regola: dargli sempre ragione, o perlomeno non azzardarsi mai a criticarlo esplicitamente e con una certa continuità.

Intendiamoci: anche in un partito l'obbedienza è necessaria. Ma in dosi appena eccessive essa diventa micidiale. Abitua chi comanda a credersi infallibile, e chi obbedisce a non avere idee, a ridursi a un ruolo totalmente passivo. Oppure, com'è capitato a Fini, induce cieche ribellioni senza futuro. Ma c'è una cosa ancora più grave, ed è che quando vige il principio dell'obbedienza quel che ne risulta è inevitabilmente una selezione alla rovescia. I primi posti e le maggiori prebende vengono assegnati a coloro che si mostrano più obbedienti: e cioè, in genere, ai più deboli, ai più conformisti. Insomma, prevalgono i più incapaci.

Non voglio dire con ciò che allora i maggiori esponenti del Pdl sono stati fino a oggi tutti degli incapaci. Sto dicendo che fin qui, però, tutti non hanno fatto altro che obbedire in silenzio (le due sole eccezioni di rilievo essendo, a quel che si sa, da un lato Giulio Tremonti, corazzato dal suo rapporto con la Lega e dalla sua inscalfibile arroganza intellettuale, e dall'altro Gianni Letta: l'unico capace, quando il troppo era proprio troppo, di dire a Berlusconi il fatto suo). Hanno obbedito in silenzio anche persone dal curriculum non insignificante, persone dotate di cultura e di autonomia di giudizio.

Ma perché lo hanno fatto? Io credo perché erano convinti e/o consapevoli che i voti, alla fine, li portava solo Berlusconi. Solo lui: con i suoi soldi, le sue televisioni, il suo carisma. Tutto il resto, a cominciare dalla loro personale qualità umana e politica, agli occhi dell'elettorato sarebbe contato insomma poco o nulla, e dunque per i disobbedienti non c'era alcun futuro. Si è così alimentato un circolo vizioso: più essi ubbidivano, più di per sé finivano per non contare nulla; ma più non contavano nulla e più erano costretti fatalmente a ubbidire. Un circolo vizioso di cui la leadership di Berlusconi si è molto avvantaggiata. Ma di cui lo stesso Berlusconi si è alla fine trovato prigioniero, arrivando a pagare un prezzo altissimo, e cioè la disintegrazione del Pdl come strumento politico di qualche utilità. A quello precedente è così subentrato un nuovo circolo vizioso: più il premier perdeva smalto e consenso e più il Pdl e i suoi uomini sul territorio erano inchiodati alla loro pochezza, alla loro piccola statura politica; ma più ciò accadeva e più l'immagine del capo stesso finiva anch'essa per appannarsi ulteriormente.

È questo il meccanismo che si è messo vorticosamente in moto nei primi due turni delle amministrative, e tutto lascia credere che se gli attori e le parti rimarranno quelli visti finora esso sarà difficilmente reversibile. Ma se è così, se Berlusconi da solo non ha più i voti, se non rappresenta più la garanzia che prima rappresentava, allora nel Pdl l'obbedienza, semmai lo è stata, non è più una virtù. Allora per i suoi esponenti di prima come di seconda fila è venuto il momento di alzare la testa, di cominciare a disobbedire, di provare a esistere politicamente. Le primarie possono essere uno strumento. Altri se ne possono trovare. Ma ciò che oggi è decisivo è una cosa soprattutto: che imparino a disobbedire. Anche ad Alfano, se necessario.

Ernesto Galli Della Loggia

03 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #101 inserito:: Giugno 12, 2011, 05:22:15 pm »

PRIVILEGI, CORPORATIVISMO, DEMAGOGIA

I tre veri pilastri della conservazione

Da più di vent'anni le «riforme» sono il grande mito della politica italiana. Invocate da tutti, promesse da tutti, dalla destra, dalla sinistra, quasi mai realizzate da nessuno. Ma regolarmente, imperturbabilmente, promesse sempre di nuovo da tutti. Sono il grande mito perché per giudizio unanime (ultimo quello del governatore Draghi: «L'Italia ha un disperato bisogno di riforme») sono la sola cosa da cui il Paese può sperare la salvezza: e cioè di riguadagnare il terreno che stiamo perdendo in tutti settori, di riacquistare efficienza, di ricominciare a crescere, di tenere insieme le sue varie parti.

Che cos'è che in Italia impedisce di «fare le riforme»? La risposta è semplicissima: la loro impopolarità. Ci troviamo ad essere strangolati da un paradosso micidiale: proprio perché sono così vitalmente necessarie, le «riforme» suscitano un'opposizione fortissima in grado di bloccarle. Enormemente più forte che in altri Paesi, questo è il punto. Ciò accade perché altrove, in genere, una riforma vuol dire un provvedimento impopolare sì, ma che non cambia le regole del gioco, non cambia il principio sul quale la società è costruita. Da noi invece no. Le riforme di cui noi abbiamo più bisogno, infatti, sono quelle che dovrebbero rompere proprio il meccanismo con cui funziona la nostra società, mutarne alla radice lo spirito e la mentalità. Quando in Italia si dice «riforme», bisogna esserne consapevoli, si dice in realtà «rivoluzione». E la più difficile tra le rivoluzioni: quella culturale.

Qualunque sia il provvedimento a cui si pensi per modernizzare il Paese, per rimetterlo in carreggiata, ci si accorge subito, infatti, che esso va immancabilmente a colpire uno dei tre pilastri sui quali si regge gran parte della società italiana: il privilegio, il corporativismo, la demagogia. Certo: bisogna scorgere i concreti, concretissimi interessi particolari, settoriali, che ognuna di queste cose alimenta e tutela. Ma tali interessi, però, non avrebbero mai potuto costituirsi e solidificarsi come hanno fatto, senza una premessa di tipo essenzialmente culturale condivisa dall'intera società italiana. Che qui ha la sua anima, la sua più vera antropologia.

In Italia qualunque individuo così come qualunque istituzione, qualunque impresa capitalistica non sopporta né il merito, né la concorrenza, né controlli indipendenti. Qualunque categoria, qualunque organismo non sogna altro che monopoli, numeri chiusi, carriere assicurate, condoni, esenzioni, ope legis, proroghe, trattamenti speciali, pensioni ad hoc, comunque condizioni di favore. E quasi sempre ottiene quanto desidera. Ricorrendo, come ho detto, all'arma vincente della demagogia. Specie a partire dagli anni Settanta, infatti, corporativismo e privilegi hanno progressivamente soffocato la società italiana costruendo (o avvalendosi di già pronte) costruzioni ideologiche menzognere, le quali avevano regolarmente al proprio centro i «diritti», la «democrazia», la «solidarietà»: parole d'ordine, discorsi, che agitando ogni volta la bandiera del bene e del giusto in realtà sono serviti unicamente a promuovere il più spietato particolarismo o a saccheggiare le casse pubbliche. Spessissimo a tutte e due le cose insieme.

È contro questa autentica muraglia socio-culturale - la quale nella sua essenza non è né di destra né di sinistra, potendo essere indifferentemente entrambe le cose - che da decenni s'infrange, o meglio si spegne appena levatosi, qualsiasi vento riformatore italiano. L'imponenza di quella muraglia, infatti, ha l'effetto di porre in una condizione di eterna minoranza la dimensione del bene comune, dell'interesse collettivo, che in tal modo non riesce ad avere alcun peso politico determinante. È per questo che le riforme non si fanno, e in particolare non si possono fare proprio quelle che ci servirebbero di più.

Il dispositivo corporativistico-demagogico-antimeritocratico è divenuto lo strumento grazie al quale da due decenni il cuore maggioritario della società italiana reale neutralizza la sfera della politica, imponendo in cambio del proprio consenso la sua impotenza. Lo strumento grazie al quale essa neutralizza di fatto tanto la destra che la sinistra all'insegna della loro comune, certificata, impotenza; grazie al quale, infine, ne cancella i profili, ne vanifica identità e programmi. L'iperpoliticismo resta sì, dunque, come un carattere tipico della sfera pubblica italiana. Ma esso non è più il predominio del comando politico sulla società, com'è stato fino alla fine della prima Repubblica. Ora è piuttosto la penetrazione/subordinazione capillare e diffusa, l'uso continuo della politica da parte delle infinite articolazioni corporativo-antimeritocratiche della società. La quale realizza per questa via una sua antica vocazione: servirsi del potere, disprezzandolo.

Ernesto Galli Della Loggia

12 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #102 inserito:: Luglio 01, 2011, 06:39:40 pm »

DIETRO LE quinte DEL POTERE

L’insicurezza e la fragilità


Quanti degli interessi colpiti dai provvedimenti finanziari approvati ieri dal governo avrebbero fatto ricorso nei giorni scorsi, per tutelarsi, se solo avessero potuto, ai buoni uffici di Luigi Bisignani? Non lo sapremo mai. Così come non sappiamo se nel frattempo qualche emulo intraprendente magari lo ha sostituito nella sua attività. Perché comunque una cosa è certa: che i ministri della Repubblica passino le loro giornate al telefono con personaggi come Luigi Bisignani e che nella Penisola prosperi da decenni una fauna di faccendieri suoi pari non è un fatto di costume sia pure deplorevole. Tanto meno è un fatto casuale. È qualcosa, invece, che inerisce a una certa natura profonda del potere italiano, ad alcuni suoi meccanismi decisivi. Soprattutto è qualcosa che racconta più e meglio di tante analisi dotte come quel potere è sentito è vissuto da coloro che lo rappresentano: specialmente quando si tratta del potere e dei politici della destra. Non voglio dire che con la sinistra sarebbe tutt’altra musica, ma sicuramente è con la destra che certi tratti oscuri della nostra sfera politica sembrano aver acquistato un r i s a l t o e una tipicità particolari.

Nelle registrazioni telefoniche generosamente elargiteci dall’autorità giudiziaria si svela in pieno il dato decisivo: la gracilità, l’insicurezza, vorrei dire il senso di provvisorietà che abita il potere italiano. Tutto vi appare instabile, privo di vera forza, ogni equilibrio si fa e si disfa di continuo, e naturalmente sempre dietro le quinte: alleanze, rapporti d’interesse, cordate. Ogni giorno dunque è una corsa affannosa ad essere informati dell’ultimo retroscena, dell’ultimo pranzo, a sapere chi sta con chi, chi vuole nominare chi e perché. Si passa il tempo non a fare, a governare, ma a parlare, a «sapere», e poi di nuovo a parlare: dal momento che dovunque può nascondersi un’insidia, un trabocchetto, dovunque può nascere una combinazione nuova da cui non bisogna restare esclusi. Il profluvio demenziale delle dichiarazioni quotidianamente rilasciate dai politici alle agenzie di stampa e il furor maniacale con cui gli stessi compulsano ad ogni istante i cellulari che le riportano, nel terrore di perdersene una, sono lo specchio di una egemonia malata della parola sui fatti.

Anche per questa via nel potere italiano ha preso ormai a dominare la non istituzionalità. In almeno due sensi: innanzi tutto perché ciò che davvero conta, le decisioni davvero importanti, non sembrano mai seguire percorsi definiti, procedure stabilite, dipendendo invece quasi sempre da un magma di relazioni informali; ed è in questo magma, dove il merito delle cose e delle persone conta poco o nulla, che si svolge ogni giorno, fuori di ogni regola, una sotterranea battaglia d’influenze, di ricatti, di piaceri, di do ut des, nella quale esponenti dell’alta burocrazia, dell’industria pubblica e privata, i vertici della magistratura e dei vari corpi dello Stato, competono per incarichi, appalti, promozioni, nomine varie. C’è poi un secondo aspetto, più sottile e in un certo senso più g r a v e d e l l a n o n istituzionalità di cui dicevo sopra.

È il fatto che immersi nel magma dell’informalità gli stessi che sono ufficialmente investiti del governo, i ministri (o almeno la maggior parte di essi), danno l’impressione di smarrire del tutto la consapevolezza del proprio ruolo, della propria funzione di comando, e diciamo pure della dignità connessa al proprio rango, per muoversi e parlare come il più scalcagnato portaborse di Montecitorio. La ministra Prestigiacomo che simile a un povera sprovveduta chiede lumi e informazioni a Bisignani confidandogli i propri disappunti è la raffigurazione — non saprei se più patetica o drammatica— di un potere che non sa neppure di essere tale, che non crede neppure lui in se stesso, e che forse, viene da pensare, inconsapevolmente perfino si disprezza.

Sono l’insicurezza di sé e insieme la non istituzionalità diffusa, pervadente, del potere italiano, che producono come un frutto naturale la figura del mediatore, dell’intermediario, del faccendiere. Bisignani non è la patologia, è la normalità del potere italiano. È colui che sa davvero come stanno le cose, che di qualunque ambiente si tratti è a conoscenza della graduatoria aggiornata di chi conta e di chi non conta, colui che mette in contatto, che tesse gli accordi riservati, che tiene le fila, che dà le indicazioni giuste, che indirizza agli interlocutori appropriati, che segnala per ogni nomina le persone fidate. È una figura che in modi nuovi si collega a una lunga galleria di «tipi» della tradizione italiana: qualcosa a metà tra il cortigiano e l’eminenza grigia, una riedizione del «puparo» e insieme di Arlecchino servo di tutti i padroni. I tipi di un Paese che sembra condannato a incarnare in eterno un’apparenza, una «scena»: un Paese grande e maledetto dove la realtà vera non è mai quella che appare.

Ernesto Galli Della Loggia

01 luglio 2011 08:36© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #103 inserito:: Luglio 13, 2011, 08:28:21 am »

QUANDO L'ELETTORE NON C'È

Il commento

La clientela del deputato

Che cosa penseranno in queste ore, leggendo nelle cronache delle belle imprese dell'onorevole Milanese, i suoi elettori? E che cosa avranno pensato ieri o l'altrieri gli elettori dei vari Cosentino, Papa, Brancher, Romano, e di non pochi altri senatori e deputati, a vario titolo indagati, rinviati a giudizio, condannati da un tribunale? La risposta è semplice: non hanno pensato niente. Per una ragione altrettanto semplice: perché quegli elettori in realtà non esistono. Grazie alla legge elettorale in vigore, infatti, si è eletti alla Camera o al Senato per il puro ed esclusivo fatto di occupare un determinato posto nella lista presentata da un partito, non per altro (così come più o meno analogamente la consigliera regionale Minetti non è stata eletta per aver ricevuto dei voti, ma per la semplice volontà espressa dal candidato-presidente Formigoni di averla nel suo «listino»: l'elezione di lui comportando automaticamente quella di lei). In Italia non si eleggono dei rappresentanti, com'è noto: si vota un partito. Ci pensa questo, preliminarmente, a indicare nomi e cognomi.

Ne deriva che se si vuole occupare un posto di parlamentare ciò che conta è una cosa sola: guadagnarsi il favore di chi sceglie i nomi dei candidati da mettere nella lista di partito, e ottenere un buon posto nella medesima. Cioè, in pratica, l'unica cosa che conta è ingraziarsi ad ogni costo chi comanda: vale a dire il capo o i capi del partito. E naturalmente non smettere di farlo neppure a elezione avvenuta, dal momento che molto comprensibilmente ogni eletto vuole sempre essere rieletto. Il risultato è che in specie dove la gerarchia è ferrea - leggi nel Pdl - il semplice deputato o senatore diventa un'entità del tutto priva di ruolo ed eterodiretta: non ha da fare altro che votare come gli viene ordinato, ogni suo contatto con la base è sostanzialmente inutile, non ha radici in niente, non ha alcun elettorato di riferimento, non deve rispondere a nessuno se non a chi lo ha fatto eleggere.

Diviene in tal modo inevitabile - in fondo anche ragionevole - che il semplice deputato o senatore si dedichi allora a quelle attività diciamo così collaterali che possono procurargli direttamente un utile personale, ovvero renderlo «interessante» agli occhi di chi comanda: per esempio frequentare a vario titolo le sue varie stanze, mettere a disposizione appartamenti, persone e servigi di ogni tipo, offrire regali, creare occasioni, e poi intermediare a beneficio proprio incontri, appalti e commesse, agevolare amici e parenti, favorire nomine, e via dicendo. In Italia, il malcostume e la corruzione legati alla politica traggono un alimento continuo e potente innanzi tutto da questo degrado della funzione parlamentare, che da tempo è spogliata di quasi ogni autentico significato.

È dubbio però che il vero rimedio possa essere una diversa legge elettorale. Tuttavia cambiare quella attuale - per esempio ritornando non già a qualche sciagurata riedizione della proporzionale ma al «Mattarellum» - rappresenterebbe perlomeno un segnale. È vero, infatti, che anche con il «Mattarellum» i candidati dei collegi uninominali venivano scelti dai partiti - come del resto era la regola anche con la proporzionale - ma quel che dopotutto fa una certa differenza è per che cosa si viene scelti. Se per prendere più voti possibile in un determinato collegio, ovvero, come accade oggi, se per ricevere un regalo in cambio dell'obbedienza e di nient'altro.

Ernesto Galli Della Loggia

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« Risposta #104 inserito:: Luglio 20, 2011, 10:03:41 am »

SEGNALI DI DECLINO DEL NOSTRO PAESE

Interesse collettivo, quella virtù perduta

Tra le parcelle dei notai e degli avvocati, e il voto di milioni di elettori...... il ministro Alfano, con il suo silenzio, si è schierato dalla parte delle parcelle

Certe cose non si possono misurare con alcun dato statistico, con nessun grafico. Ma si respirano nell'aria. È così che nell'Italia di oggi si avverte sempre più diffusa l'impressione che il nostro futuro è ormai un futuro di declino. Che stiamo diventando un Paese di serie B.

Non c'entrano (o sono solo sullo sfondo) le nostre pur difficili condizioni economiche, il debito pubblico stratosferico, la «manovra». C'entrano piuttosto il confronto con gli altri Paesi, da tempo sfavorevole all'Italia in tutti i campi, il senso d'inadeguatezza di ogni nostra infrastruttura, le disfunzioni di quasi ogni nostra istituzione; e ancor di più c'entra l'incapacità di chi dirige la cosa pubblica d'immaginare qualche rimedio, di dare l'impressione (almeno l'impressione) di capire che cosa è in gioco; la sua incapacità di avere un sussulto che rappresenti un segno di svolta rispetto al corso fatale degli eventi.

Ciò che in grande misura determina la crisi d'immagine e di consensi della destra nei confronti dell'opinione pubblica - della sua stessa opinione pubblica - è precisamente il distacco incolmabile che aumenta ogni giorno tra gli esponenti del Pdl e i sentimenti di scoramento e di sfiducia di cui ho appena detto. Sentimenti che stanno diventando sempre di più il sentire comune del Paese. È il fatto che gli esponenti della destra, i suoi ministri, non sanno mai dire una parola, mai compiere un gesto, mai trovare un'occasione simbolica che trasmetta un messaggio di serietà e di coerenza, di preoccupazione per l'interesse collettivo, magari anche contro il proprio; un gesto che sia testimonianza di sollecitudine per l'identità della nazione e il suo futuro.

Prendiamo il ministro Alfano, neosegretario politico del Pdl. Ebbene, tre o quattro giorni fa succede che varie decine di avvocati e notai, parlamentari del suo partito, offesi dalla sola idea che il governo possa pensare a modificare i loro rispettivi ordini professionali, scendano sul sentiero di guerra minacciando addirittura di uscire dalla maggioranza se il loro veto non sarà accolto. Sul carattere politicamente miserabile di questi signori ha già detto quello che andava detto Antonio Polito su queste colonne.

Ma che cosa, invece, ha detto o fatto Alfano? Assolutamente nulla. In altre parole: un buon numero di deputati e di senatori di un partito si ammutinano contro il loro stesso governo per difendere i propri interessi personali, e il segretario politico di quel medesimo partito non trova necessario fare la minima osservazione, lanciare loro il minimo avvertimento. Tra le parcelle dei notai e degli avvocati da una parte, e il voto di milioni di elettori dall'altra, Alfano, insomma, si è schierato con il suo silenzio dalla parte delle parcelle. È così, mi domando, che si difende la dignità della politica, l'interesse generale? È così che si dà un esempio di serietà al Paese, che gli si dà un segnale di quel rinnovamento dello spirito pubblico di cui la difficile condizione economica fa avvertire ancora di più a molti il bisogno?

Certo, quello di Alfano è un dettaglio. Ma quasi sempre è proprio nei dettagli che si annida la verità più significativa. Sono un dettaglio, ad esempio, o potrebbero passare per tale, anche i criteri di valutazione per i candidati ai concorsi universitari (in realtà non si tratta più di concorsi, ma per farmi capire continuo a chiamarli così) emanati di recente dalla neo istituita Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). In particolare dove si stabilisce quale peso dare alle pubblicazioni dei candidati. Ebbene, d'ora in poi, ha stabilito l'Anvur, una monografia pubblicata presso quello che viene definito «un editore internazionale» avrà un peso 3, un articolo pubblicato su «una rivista internazionale» 1,5 , mentre una monografia pubblicata presso quello che viene definito «un editore nazionale» avrà solo un peso 1,2, e infine un peso di appena 0,5 un articolo su una rivista italiana (ma l'aggettivo italiano è sempre pudicamente omesso; viene sempre scritto «nazionale»: chissà perché). Dal che sembra inevitabile trarre le seguenti conseguenze: a) che ai fini di un concorso per insegnare in un'università della Repubblica un libro di 500 pagine pubblicato, mettiamo, da Einaudi o dal Mulino vale meno di venti pagine pubblicate su una rivista americana, spagnola o tedesca che sia; b) che per definizione gli editori e le riviste «nazionali», cioè italiane, non possiedono né possono in alcun caso possedere un carattere «internazionale»: questo appartenendo solo a ciò che si pubblica in lingue diverse dalla nostra; c) che tutti gli studiosi nati nella Penisola sono invitati a cessare d'ora in poi dall'usare l'italiano nei loro scritti e dall'avere come referenti culturali iniziative editoriali di qualunque tipo che adoperino la lingua italiana; in sostanza la cosa più ragionevole che possono fare è di diventare inglesi.

Va subito precisato che naturalmente l'Anvur agisce in piena autonomia dal ministero dell'Università e della Ricerca (e la sua delibera la dice lunga su che cosa pensi del proprio Paese e della sua identità una parte degli intellettuali italiani: che lo vedrebbero volentieri diventare una regione del Canada). Ma che il ministro Gelmini non abbia trovato opportuno esprimere al riguardo la propria libera opinione è singolare e significativo (e queste righe sono un invito a farlo). Anche così, mi sembra, la destra segna la propria lontananza dal più vero e drammatico interrogativo che la collettività nazionale ha di fronte (e tanto più vero e drammatico in quanto è preliminare a tutti gli altri ma è il meno dicibile): che ci sta a fare nel mondo l'Italia? Perché, e in vista di che cosa ha un senso che continui ad esserci?

Ernesto Galli della Loggia

17 luglio 2011 11:03© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_17/della-loggia_interesse-collettivo_f11d4016-b044-11e0-b0ea-f35f7bc4068c.shtml
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