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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 119415 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Febbraio 21, 2010, 05:43:11 pm »

Il dibattito sulle radici della corruzione

L'Italia ipocrita e quelle domande alle quali non si vuole rispondere


Di chi può mai essere la colpa della corruzione italiana se non della politica? Di chi se non dei politici - beninteso di quelli per cui votano gli “altri”? Si mettano dunque l’una e gli altri sul banco degli accusati per la meritata, inevitabile condanna. Così la pensano oggi moltissimi italiani i quali non vogliono sentirsi dire che la corruzione di questo Paese - anche quella pubblica - è invece qualcosa che viene dal profondo, che rimanda alla storia vischiosa, oltre che del nostro Stato, della nostra società; ai suoi meccanismi e vizi inveterati. No, guai a dirlo: si è subito sospettati di voler cancellare le responsabilità individuali, di voler “salvare i ladri”. Che c’entriamo noi con la corruzione? La colpa è solo della politica.

In questo modo sta per ricominciare oggi il circolo perverso avviatosi nel ’92-’93. Infatti, se si mettono così le cose è fatale che agli occhi dell’opinione pubblica l’immagine di tutta la politica e di tutti i politici ne esca complessivamente a pezzi. Con l’ovvia conseguenza, che più ciò accadrà e più solo i mediocri o gli spregiudicati accetteranno di entrare nell’arena pubblica, e che quindi, alla fine, la politica risulterà ancora di più inetta e/o corrotta, accrescendo ulteriormente la sfiducia e la disistima generali. Sta per ricominciare alla grande, insomma, il meccanismo implacabile dell’antipolitica. Il meccanismo che si mise in moto all’epoca di “Mani pulite” e i cui risultati nonostante l’avvicendarsi di governi di destra e di sinistra, sono sotto gli occhi di tutti: allora svergognata e vilipesa la politica non si è rinnovata per nulla, la qualità dei suoi protagonisti è anzi in media peggiorata, ed essa non è stata capace né allora né poi di correggere un bel nulla del sistema che aveva portato a Tangentopoli.

Non è questione di pensare che la corruzione sia “connaturata” alla società italiana. Bensì di convincersi che essa è innanzi tutto della società italiana. Di convincersi cioè che, in Italia, in tanto la politica può ospitare un così alto numero di traffichini e di lestofanti, in tanto può rappresentare un ambito d’elezione per un così gran numero di scambi e guadagni più o meno loschi, in quanto, e solo in quanto, ha come sponda, come interlocutrice permanente, una società moralmente opaca come la nostra. Perché alla fine delle due l’una, insomma: o si nega che quella italiana sia una società di tal fatta (e mi sembra davvero difficile), o si deve sostenere che tra lo standard morale della politica e lo standard morale della società non c’è alcun rapporto necessario (e si dice una palese assurdità). Naturalmente c’è sempre una terza possibilità (che sospetto sia proprio quella fatta ipocritamente propria da molti abitanti della penisola): e cioè credere, o fingere di credere, che in una società di diavoli i politici, non si sa per quale miracolo, possano - anzi debbano – essere degli angeli; e la politica, di conseguenza, una specie di anticamera del paradiso terrestre. Tutti coloro che, come Marco Vitale, rimproverano alla politica in genere, e dunque anche alla sinistra, di non aver preso le misure necessarie per una vasta e radicale opera di moralizzazione pubblica, dovrebbero innanzi tutto chiedersi: ma siamo sicuri che quel partito o quello schieramento che lo avesse fatto avrebbe avuto il consenso degli elettori italiani? O non sarà forse che un’opera del genere - per come è l’Italia, il suo mercato del lavoro, i suoi rapporti patrimoniali, per come sono abituati i suoi pubblici dipendenti, per come sono le sua abitudini diciamo così fiscali - non sarà forse che un’opera del genere avrebbe suscitato molte più opposizioni che consenso? E perché altrimenti nessun partito, nessuno schieramento, ha mai preso questa strada?

Di fronte agli scandali in cui è coinvolta la politica (anche o soprattutto la politica) molti uomini e donne impegnati nelle attività private, nel mondo del fare come oggi si dice, amano invocare rispetto delle regole, meritocrazia, presenza di poteri contrapposti, trasparenza, orgoglio di ruolo. Lo ha fatto l’altro giorno anche Franco Bernabè su queste colonne. Confesso di non aver ben capito a chi fosse rivolto di preciso una tale astratta invocazione - che anche in questo caso come in altri casi, di altri autori, evita di fare nomi e cognomi - ma spero che comunque il presidente della Telecom mi perdonerà se gli rivolgo una domanda impertinente: in che misura a suo giudizio il sistema delle imprese italiane e quello bancario - e la stessa Telecom, aggiungo, toccando davvero il colmo dell’impertinenza - si attengono alle prescrizioni da lui messe nero su bianco? Personalmente penso che lo facciano parecchio meno di quanto dovrebbero e di quanto accada di solito in altri Paesi, a cominciare per esempio dagli Stati Uniti. Basta vedere l’accanimento tenace con il quale tutto quel mondo si è opposto ad un’efficace legislazione sulla “class action”; e se non sbaglio senza che nessun suo esponente alzasse la minima voce contraria. Non è solo la politica, insomma, a non avere le carte in regola.

Se non cominceremo una buona volta con il dirci tutto questo, con il dircelo ad alta voce e dircelo di continuo, potremo pure mandare periodicamente all’ergastolo tutti i “marioli” e i “birbantelli” del caso, potremo pure in un raptus suicida nominare Marco Travaglio ministro della giustizia, ma rimarremo sempre quello che siamo: una società malandrina, spietata e al tempo stesso accomodante, un Paese sostanzialmente senza legge e senza verità.

Ernesto Galli della Loggia

20 febbraio 2010(ultima modifica: 21 febbraio 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #61 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:34:10 am »


LA CRISI D’IDENTITA’ DEL PDL

Il fantasma di un partito

La plastica si sta squagliando? Sembrerebbe. Certo è che coloro che si erano illusi dopo le elezioni del 2008 che il Pdl fosse diventato un partito più o meno vero, qualcosa di più di una lista elettorale, sono costretti ora a ricredersi. Non era qualcosa di più: spesso, troppo spesso, era qualcosa di peggio. Una corte, è stato autorevolmente detto.

Ma a quel che è dato vedere pare piuttosto una somma di rissosi potentati locali riuniti intorno a figuranti di terz’ordine, rimasuglio delle oligarchie e dei quadri dei partiti di governo della prima Repubblica. E tra loro, mischiati alla rinfusa — specie nel Mezzogiorno, che in questo caso comincia dal Lazio e da Roma— gente dai dubbi precedenti, ragazze troppo avvenenti, figli e nipoti, genti d’ogni risma ma di nessuna capacità. E’ per l’appunto tra queste fila che a partire dalla primavera dell’anno scorso si stanno ordendo a ripetizione intrighi, organizzando giochi e delazioni, quando non vere e proprie congiure (e dunque non mi riferisco certo all’azione del Presidente Fini, il quale, invece, si è sempre mosso allo scoperto parlando ad alta voce), allo scopo di trovarsi pronti, con i collegamenti giusti, quando sarà giunto il momento, da molti dei cortigiani giudicato imminente, in cui l’Augusto sarà costretto in un modo o nell’altro a lasciare il potere.

Da quel che si può capire, e soprattutto si mormora, sono mesi, diciamo dalla famigerata notte di Casoria, che le maggiori insidie vengono a Berlusconi e al suo governo non già dall’opposizione ma proprio dalla sua stessa parte, se non addirittura dalle stesse cerchie a lui più vicine. Al di là di ogni giudizio morale tutto ciò non fa che mettere in luce un problema importante: perché mai la destra italiana, durante la bellezza di quindici anni, e pur in condizioni così favorevoli, non è riuscita che a mettere insieme la confusa accozzaglia che vediamo? Perché non è riuscita a dare alla parte del Paese che la segue, e che tra l’altro è quasi sicuramente maggioritaria sul piano quantitativo, niente altro che questa misera rappresentanza? Certo, hanno influito di sicuro la leadership di Berlusconi e la sua personalità.

Il comando berlusconiano, infatti, corazzato di un inaudito potere mediatico- finanziario, non era tale da poter avere rivali di sorta assicurandosi così un dominio incontrastato che almeno pubblicamente ha finora messo sempre tutto e tutti a tacere; la personalità del premier, infine, ha mostrato tutta la sua congenita, insuperabile estraneità all’universo della politica modernamente inteso. E dunque anche alla costruzione di un partito. La politica, infatti, non è vincere le elezioni e poi comandare, come sembra credere il nostro presidente del Consig l i o ; è prima a v e r e un’idea, poi certo vincere le elezioni, ma dopo anche convincere un paese e infine avere il gusto e la capacità di governare: tutte cose a cui Berlusconi, invece, non sembra particolarmente interessato e per le quali, forse, un partito non è inutile.

Ma se è vero che il potere e la personalità del leader sono state un elemento decisivo nell’impedire che la Destra esprimesse niente altro che Forza Italia e il Pdl, è anche vero che né l’uno né l’altra esauriscono il problema. Che rimanda invece a caratteristiche di fondo della società italiana che come tali riguardano tanto la Destra che la Sinistra. In realtà, il verificarsi simultaneo della caduta del Muro di Berlino e di Mani pulite ha significato la fine virtuale di tutte le culture politiche che la modernità italiana era riuscita a mettere in campo nel Novecento (quella fascista avendo già fatto naufragio nel ’45). È quindi rimasto un vuoto che il Paese non è riuscito a colmare. Non si è affacciata sulla scena nessuna visione per l’avvenire, nessuna idea nuova, nessun’indicazione significativa, nessuna nuova energia realmente politica è scesa in campo. Niente.

Il risultato è che in Italia i capi politici più giovani hanno come minimo superato la cinquantina. Ma naturalmente il vuoto è più sensibile a destra, e più sensibili ne sono gli effetti negativi, perché lì la storia dell’Italia repubblicana non ha costruito nulla e dunque non ha potuto lasciare alcun deposito; che invece è rimasto solo nel centro-sinistra, erede di un ininterrotto sessantennio di governo del Paese tanto al centro che alla periferia. Così come nel centro-sinistra sono rimasti quasi tutti i vertici della classe politica che fu cattolica o comunista, portando in dote la propria esperienza e le proprie capacità. Mentre alla Destra è toccato solo il resto: a cui poi, per il sopraggiunto, generale, discredito della politica, non si è certo aggiunto il meglio del Paese.

Ernesto Galli della Loggia

--

Per un errore tecnico, la testata on line del Corriere della Sera ha riportato ieri, per alcune ore, questo articolo di Ernesto Galli della Loggia che la direzione aveva deciso, nella tarda serata di lunedì, di rinviare di un giorno per lasciare spazio a un editoriale di Sergio Rizzo sul disegno di legge anticorruzione appena approvato dal governo. Il rinvio era stato concordato con l’autore.
Sempre per lo stesso errore tecnico, è stata inviata a Sky, nella notte di lunedì per la rassegna stampa di ieri, una bozza provvisoria della prima pagina, poi cambiata, che non è mai stata data alle stampe nelle edizioni italiane. Un numero limitato di copie è stato tuttavia stampato nelle tipografie estere. La Direzione, assumendosene la responsabilità, si scusa con i lettori e con l’autore. (f. de b.)


03 marzo 2010
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« Risposta #62 inserito:: Marzo 07, 2010, 06:43:28 pm »

IL FANTASMA DI UN PARTITO / 2

Comunisti involontari


Il Pdl va rassomigliando sempre di più al Partito comunista di un tempo. I suoi tre coordinatori mi perdoneranno, ma proprio questa è stata l’associazione scattatami nella mente leggendo la loro replica al mio editoriale «Il fantasma di un partito » di mercoledì.

Cosa c’entra il Pci? C’entra perché, come spesso capitava con i dirigenti di quel partito, anche Bondi, La Russa e Verdini nella loro replica sono costretti a confutare in pubblico ciò che in privato, invece, un gran numero di loro eminenti compagni di partito (per non parlare d’iscritti ed elettori!) sono prontissimi non solo ad ammettere, ma a denunciare apertamente essi per primi. Per buona educazione non faccio nomi, naturalmente.

Posso garantire però che non si tratta né di amici del Presidente Fini né tanto meno di persone che, come essi scrivono del sottoscritto, passano le loro giornate «in un ambiente praticamente sterile in compagnia unicamente dei loro libri preferiti e delle loro personali elucubrazioni ». E’ proprio questo occultamento dei problemi, insieme alla povertà di elaborazione intellettuale, alla mancanza di trasparenza nelle nomine interne e nelle candidature, all’assenza di una libera discussione e delle stesse sedi istituzionali dove eventualmente farla, tra le cause prime di quella evanescenza rissosa del Pdl in quanto partito, messa clamorosamente in luce dai recenti avvenimenti di Milano e Roma. Sui quali, invece, i miei tre interlocutori preferiscono sorvolare senza dire neppure una parola.

Così come del resto nessuno di quel partito ha sentito bisogno di chiedere scusa agli italiani per il pasticcio creato, per la fibrillazione in cui è stato gettato l’intero dibattito politico, e per aver costretto alla fine il Presidente della Repubblica ad avallare un orribile decreto tappabuchi pur di non privare di qualunque significato politico il prossimo appuntamento elettorale e di non lasciar precipitare nel ridicolo l’immagine del Paese più di quanto già ci sia. Sbaglia chi pensa che queste cose siano dette per partito preso antiberlusconiano. In generale il ruolo importante avuto da Berlusconi nello stabilimento del bipolarismo, nonché in particolare alcuni risultati positivi dell’attuale governo, non sono stati mai nascosti né da questo giornale né da chi scrive. Così come personalmente non ho difficoltà a riconoscere che ministri come Gelmini, Maroni, Tremonti, Sacconi o lo stesso La Russa stanno dando buona prova di sé.

Ciò che nell’ideologia del Pdl e del suo capo è inammissibile è l’idea che il consenso elettorale sia tutto, che esso debba mettere a tacere qualunque obiezione, che solo esso conti in una democrazia. E’ questa la premessa, infatti, di due micidiali conseguenze pratiche. La prima si manifesta all’esterno come senso di onnipotenza, come arroganza nei comportamenti, come altezzosa insofferenza verso qualunque critica. La seconda conseguenza colpisce all’interno lo stesso Pdl, impedendogli di essere un partito degno di questo nome.

Se conta solo la vittoria elettorale, infatti, e il carisma berlusconiano basta a vincere le elezioni, allora è fatale che la qualità degli uomini, il merito, l’onestà, non contino niente. Che tutto si riduca a chi si precipita meglio e per primo a fare i voleri dell’Augusto, a prodursi nell’inchino più profondo e nell’elogio più compiacente. Salvo poi, come capita, ordire dietro le quinte le inevitabili congiure.

Ernesto Galli Della Loggia

07 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #63 inserito:: Marzo 22, 2010, 12:18:51 pm »

Un'Italia anticristiana


Sempre più di frequente il discorso pubblico delle società occidentali mostra un atteggiamento sprezzante, quando non apertamente ostile, verso il Cristianesimo. All'indifferenza e alla lontananza che fino a qualche anno fa erano la regola, a una secolarizzazione per così dire silenziosa, vanno progressivamente sostituendosi un'irrisione impaziente, un'aperta aggressività che non è più solo appannaggio di ristrette cerchie di colti, come invece avveniva un tempo. Il bersaglio vero e maggiore è nella sostanza l’idea cristiana nel suo complesso, come dicevo, ma naturalmente, non foss'altro che per ragioni numeriche e di rappresentanza simbolica, sono poi quasi sempre il cattolicesimo e la sua Chiesa a essere presi in special modo di mira. Dappertutto, ma, come è ovvio, in Italia più che altrove.

Il celibato, il maschilismo, la pedofilia, l'autoritarismo gerarchico, la manipolazione della vera figura di Gesù, l'adulterazione dei testi fondativi, la complicità nella persecuzione degli ebrei, le speculazioni finanziarie, il disprezzo verso le donne e la conseguente negazione dei loro «diritti », il sessismo antiomosessuale, il disconoscimento del desiderio di paternità e maternità, il sostegno al fascismo, l'ostilità all'uso dei preservativi e dunque l'appoggio di fatto alla diffusione dell'Aids, la diffidenza verso la scienza, il dogmatismo e perciò l'intolleranza congenita: la lista dei capi d'accusa è pressoché infinita, come si vede, e se ne assommano di vecchi, di nuovi e di nuovissimi. Ma da un po' di tempo vi si aggiunge qualcosa che contribuisce a dare a quelle imputazioni un peso e un senso diversi, un impatto più largo e distruttivo, finendo per unirle tutte nel segno di un attacco solo complessivo. Questo qualcosa è un radicalismo enfatico nutrito d'acrimonia; è, insieme, una contestazione sul terreno dei principi, un chiedere conto dal tono oltraggiato e perentorio che dà tutta l'idea di voler preludere a una storica resa dei conti. Ciò che più colpisce, infatti, della situazione odierna — e non solo immagino chi è credente ma pure, e forse più, chi come il sottoscritto non lo è—è soprattutto l'ovvietà ideologico-culturale della posizione anticristiana, la sua facile diffusione, oramai, anche in ambienti e strati sociali non particolarmente colti ma «medi», anche «popolari». Ai preti, alla Chiesa, alla vicenda cristiana non viene più perdonato da nessuno più nulla. Si direbbe — esagero certo, ma appena un poco — che ormai nelle nostre società, a cominciare dall'Italia, lo stesso senso comune della maggioranza stia diventando di fatto anticristiano. Anche se esso preferisce perlopiù nascondersi dietro la polemica contro le «colpe» o i «ritardi» della Chiesa cattolica.

Tra i tanti e assai complessi motivi che stanno dietro questa grande trasformazione dello spirito pubblico del Paese ne cito tre che mi paiono particolarmente significativi.

Al primo posto l'ingenuità modernista, l'illuminismo divenuto chiacchiera da bar. Ci piace pensarci compiutamente moderni, e modernità sembra voler dire che gli unici limiti legittimi siano quelli che ci poniamo noi stessi.

Le vecchie autorità sono tutte morte e al loro posto ha diritto di sedere solo la Scienza. Siamo capaci di amministrarci finalmente da soli, non c'è bisogno d'alcuna trascendenza che c'insegni dov'è il bene e dov'è il male. Che cosa c'entrano dunque la religione con i suoi comandamenti, i preti con i loro divieti? Accade così che ogni cosa che getta ombra sull' una o sugli altri ci appaia allora come la rassicurante conferma della nostra superiorità: alla fin fine siamo migliori di chi pure vorrebbe farci continuamente la lezione.

E poi — ecco un secondo motivo — la Chiesa e tutto ciò che la riguarda (religione inclusa) ricadono nella condanna liquidatoria del passato, di qualsiasi passato, che in Italia si manifesta con un'ampiezza che non ha eguali. Il che significa non solo che tutto ciò che è antico, che sta in una tradizione, è perciò stesso sempre più sentito come lontano ed estraneo (unica eccezione l'eno-gastronomia: l'ideologia dello slow food è la sola tradizione in cui gli italiani di oggi si riconoscono realmente), ma significa anche, questa messa in mora del passato, che il pensare in termini storici sta ormai diventando una rarità. Sempre più diffusi, invece, l'ignoranza della storia, dei contenuti reali delle questioni, e l'antistoricismo, l'applicazione dei criteri di oggi ai fatti di ieri: da cui la ridicola condanna di tutte le malefatte, le uccisioni e le incomprensioni addebitabili al Cristianesimo, a maggior gloria di un eticismo presuntuoso che pensa di avere l'ultima parola su tutto.

E da ultimo il cinismo della secolare antropologia italiana, e cioè il fondo limaccioso che si agita al di sotto dell'appena sopraggiunta ingenuità modernista. Il cinismo che sa come va il mondo e dunque non se la beve; che appena sente predicare il bene sospetta subito il male; che ha il piacere dello sporco, del proclamarne l'ubiquità e la forza. Quel feroce tratto nazionale che per principio non può credere in alcuna cosa che cerchi la luce, che miri oltre e tenga lo sguardo rivolto in alto, perché ha sempre bisogno di abbassare tutto alla sua bassezza.

Ernesto Galli Della Loggia

21 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #64 inserito:: Aprile 05, 2010, 12:19:44 am »

Un futuro per Lega al di là del federalismo


È intorno alla futura evoluzione della Lega che probabilmente si gioca la sorte del sistema politico italiano e dunque, in questo senso, anche dell’Italia. Tutto si riassume in una domanda decisiva: vorrà (e riuscirà) il partito di Bossi a trasformarsi in una forza in grado di elaborare una prospettiva non più solo «padana», ma nazionale? Lo spingerà il successo elettorale appena conseguito a pensare una strategia e un ruolo capaci di farsi carico del Paese intero? E quali?

Tali domande si pongono proprio mentre va sempre più chiarendosi il carattere effettivamente nuovo della Lega. Che può riassumersi in questi termini: la Lega rappresenta la prima cultura politica italiana di segno «basso», che non nasce cioè dall’elaborazione di un’élite. Non già per il suo richiamo al popolo. Infatti tutte le culture politiche dell’Italia moderna, dell’Italia del Novecento, hanno messo al proprio centro il «popolo». Ma lo hanno fatto per così dire « paternalisticamente » : era un’élite colta, per l’appunto, che assegnava alle masse popolari questo o quel compito storico di carattere generale (quasi sempre di riscatto sociale e/o nazionale) che la sua visione del mondo e del Paese le suggeriva. Per socialisti, cattolici, fascisti, comunisti il «popolo», in sostanza, ha sempre rappresentato uno strumento in vista di un fine più vasto e più alto: anche se naturalmente tale fine doveva tornare a beneficio innanzi tutto dello strumento stesso.

Con la Lega questa storia del Novecento politico italiano finisce per sempre. Con la Lega, infatti, abbiamo un gruppo dirigente fatto della stessa identica pasta culturale e antropologica del suo elettorato, un gruppo dirigente che ha gusti, modi di vita, ragiona e parla come il suo «popolo». Il quale non è investito di alcun ruolo storico generale. A qualsivoglia più o meno verosimile prospettiva nazionale (o addirittura mondiale, com’era in fondo per cattolici e comunisti) esso antepone molto banalmente le sue specifiche esigenze di collettività che abita in un certo posto, che vive qui ed ora, che ha determinati problemi economici e non altri.

Ma è tenibile questa impostazione di così basso profilo, diciamo, così territorialmente ancorata e circoscritta, quando si supera un certo livello di espansione elettorale, quando si diventa, come la Lega oggi si appresta forse a diventare, una forza importante in regioni diverse ed eterogenee, dunque almeno in prospettiva in tutta la Penisola? La Lega pensa che la risposta a questa domanda sia il federalismo, che possa essere questo la sua ricetta generale per il Paese.

Ma non tiene conto di due ostacoli. Il primo sta nel fatto che, come ha più volte osservato Luca Ricolfi, il federalismo, fiscalmente inteso, significherebbe una perdita secca e immediata di risorse per almeno la metà della Penisola, diciamo da Roma in giù. Il secondo ostacolo, molto più grave, è nella pessima prova che dall’inizio sta dando l’istituto regionale. Le Regioni sono state una gigantesca, costosissima delusione, questa è la verità. Comprensibilmente la classe politica, tutta quanta, preferisce non parlarne; ma l’opinione pubblica ne è sempre più convinta, e prima o poi il nodo arriverà al pettine.

È proponibile, allora, la ricetta federalista con il sempre più largo discredito di cui godono quelle che ne dovrebbero essere le protagoniste? E con i danni economici che ne deriverebbero per tanti italiani? Dunque è altrove che la Lega dovrebbe guardare per proiettarsi in una dimensione nazionale. Per esempio lungo la via indicata da Maroni che come ministro degli Interni sta conducendo una repressione delle grandi organizzazioni criminali straordinariamente efficace.
C’è di sicuro qualcosa di paradossale nel fatto che spetti oggi proprio ad un ministro leghista il merito di una politica forte volta a ristabilire l’autorità dello Stato italiano e delle sue leggi. Ma forse è un paradosso che contiene un significato profondo. Forse, infatti, è proprio una classe politica così popolarmente empirica e culturalmente antistatalista come quella della Lega che domani potrebbe assegnarsi il compito ambizioso di quella riforma dello Stato, delle sue amministrazioni e delle sue regole, che da decenni è all’ordine del giorno ma che non si è mai vista. Al di là di ogni ubbia federalista, ecco materia per un grande programma politico che tutto il Paese aspetta e di cui domani il partito di Bossi potrebbe farsi credibile banditore.

Ernesto Galli della Loggia

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« Risposta #65 inserito:: Aprile 16, 2010, 09:06:16 am »

STRATEGIA ED ERRORI DI UN LEADER DELLA DESTRA

La separazione del delfino


E’da subito dopo la vittoria elettorale della destra nella primavera del 2008 che Gianfranco Fini ha cominciato a differenziarsi da Silvio Berlusconi, a costruire un'immagine di sé diversa da quella del presidente del Consiglio. E’ una strategia che oggi sembra compiere un passo ulteriore con la minaccia del presidente della Camera di dare vita addirittura ad autonomi gruppi parlamentari. Una strategia, peraltro, che ha avuto successo, dal momento che su temi quali i valori e le regole della Costituzione, la politica verso gli immigrati, il riconoscimento dei nuovi «diritti» soggettivi di carattere bioetico o sessuale, Fini è riuscito senz'altro a costruirsi un’immagine nettamente diversa da quella del leader della destra. Soprattutto egli ha mirato a marcare nei suoi confronti una forte differenza stilistica. Aiutato dalla propria carica istituzionale di presidente della Camera, si è mostrato attento, pronto al dialogo, di vedute aperte su qualunque argomento, sempre rispettoso delle forme e delle regole. Da ultimo ha trovato anche modo di darsi un’adeguata veste culturale istituendo un'apposita Fondazione, chiamando intorno a sé un drappello d'intellettuali, nonché, come si conviene, scrivendo perfino un libro dedicato (addirittura) al «futuro della libertà»

Insomma un Fini distante anni luce dall'antico delfino di Almirante e pure dal capo della defunta Alleanza nazionale. In vista di che cosa? ci si è chiesti fin dall'inizio. E si è sempre risposto: in vista della successione a Berlusconi. Ma a parte che quanto accaduto ieri sembra gettare più di un'ombra su questa ipotesi, resta il problema circa la natura della strategia di differenziazione adottata in tutto questo tempo da Fini. Se era davvero quella di diventare l'erede della leadership del Pdl, non sembra proprio che sia stata la strategia più adatta. Principalmente per un motivo: e cioè che si è trattato di una strategia rivolta in modo troppo esclusivo e — sia detto senza cattiveria — in modo talvolta troppo ingenuo, soltanto a mutare di 180 gradi la posizione ideologica del presidente della Camera, senza tuttavia dare a tale mutamento alcuna sostanza politico-programmatica che fosse in qualche misura congrua all’area politica di appartenenza dell’autore. Senza la capacità di colloquiare con tale area, di mantenere un rapporto reale con il suo elettorato.

Insomma: va bene diventare un liberal colto, internazionalista, devoto al patriottismo costituzionale; va bene dirsi sempre per il dialogo e il confronto; va bene auspicare una destra di tal fatta; ma quali soluzioni questa avrebbe dovuto poi adottare in tema di riforma fiscale e del Welfare, di riforme istituzionali, di federalismo, di organizzazione dell'università e della ricerca, di liberalizzazioni, di riforma della giustizia, eccetera eccetera? Fini, sia pure con le ovvie cautele cui lo obbliga la sua carica, non lo ha mai detto. Non ha mai detto qualcosa che fosse specificamente e politicamente soltanto «di destra ». Come ipnotizzato dal personaggio Berlusconi (al pari di quasi tutto il mondo politico italiano, la Lega esclusa), egli ha badato solo a distinguersi puntigliosamente dal suo stile istrionico, dai suoi plateali modi di essere, dal suo linguaggio aggressivo. C'è riuscito. Ma pagando un prezzo che forse non aveva previsto: di ritrovarsi alla fine, come oggi si vede, sulla soglia della casa che fino ad oggi era stata la sua.

Ernesto Galli della Loggia

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« Risposta #66 inserito:: Aprile 17, 2010, 04:38:51 pm »

STRATEGIA ED ERRORI DI UN LEADER DELLA DESTRA

La separazione del delfino

E’da subito dopo la vittoria elettorale della destra nella primavera del 2008 che Gianfranco Fini ha cominciato a differenziarsi da Silvio Berlusconi, a costruire un'immagine di sé diversa da quella del presidente del Consiglio. E’ una strategia che oggi sembra compiere un passo ulteriore con la minaccia del presidente della Camera di dare vita addirittura ad autonomi gruppi parlamentari. Una strategia, peraltro, che ha avuto successo, dal momento che su temi quali i valori e le regole della Costituzione, la politica verso gli immigrati, il riconoscimento dei nuovi «diritti» soggettivi di carattere bioetico o sessuale, Fini è riuscito senz'altro a costruirsi un’immagine nettamente diversa da quella del leader della destra. Soprattutto egli ha mirato a marcare nei suoi confronti una forte differenza stilistica. Aiutato dalla propria carica istituzionale di presidente della Camera, si è mostrato attento, pronto al dialogo, di vedute aperte su qualunque argomento, sempre rispettoso delle forme e delle regole. Da ultimo ha trovato anche modo di darsi un’adeguata veste culturale istituendo un'apposita Fondazione, chiamando intorno a sé un drappello d'intellettuali, nonché, come si conviene, scrivendo perfino un libro dedicato (addirittura) al «futuro della libertà»

Insomma un Fini distante anni luce dall'antico delfino di Almirante e pure dal capo della defunta Alleanza nazionale. In vista di che cosa? ci si è chiesti fin dall'inizio. E si è sempre risposto: in vista della successione a Berlusconi. Ma a parte che quanto accaduto ieri sembra gettare più di un'ombra su questa ipotesi, resta il problema circa la natura della strategia di differenziazione adottata in tutto questo tempo da Fini. Se era davvero quella di diventare l'erede della leadership del Pdl, non sembra proprio che sia stata la strategia più adatta. Principalmente per un motivo: e cioè che si è trattato di una strategia rivolta in modo troppo esclusivo e — sia detto senza cattiveria — in modo talvolta troppo ingenuo, soltanto a mutare di 180 gradi la posizione ideologica del presidente della Camera, senza tuttavia dare a tale mutamento alcuna sostanza politico-programmatica che fosse in qualche misura congrua all’area politica di appartenenza dell’autore. Senza la capacità di colloquiare con tale area, di mantenere un rapporto reale con il suo elettorato.

Insomma: va bene diventare un liberal colto, internazionalista, devoto al patriottismo costituzionale; va bene dirsi sempre per il dialogo e il confronto; va bene auspicare una destra di tal fatta; ma quali soluzioni questa avrebbe dovuto poi adottare in tema di riforma fiscale e del Welfare, di riforme istituzionali, di federalismo, di organizzazione dell'università e della ricerca, di liberalizzazioni, di riforma della giustizia, eccetera eccetera? Fini, sia pure con le ovvie cautele cui lo obbliga la sua carica, non lo ha mai detto. Non ha mai detto qualcosa che fosse specificamente e politicamente soltanto «di destra ». Come ipnotizzato dal personaggio Berlusconi (al pari di quasi tutto il mondo politico italiano, la Lega esclusa), egli ha badato solo a distinguersi puntigliosamente dal suo stile istrionico, dai suoi plateali modi di essere, dal suo linguaggio aggressivo. C'è riuscito. Ma pagando un prezzo che forse non aveva previsto: di ritrovarsi alla fine, come oggi si vede, sulla soglia della casa che fino ad oggi era stata la sua.

Ernesto Galli della Loggia

16 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #67 inserito:: Aprile 26, 2010, 11:31:40 am »

LA SVOLTA «LAICA» SULLA PEDOFILIA

Il codice Ratzinger

Ieri l'altro il vescovo di Bruges; giovedì quello di Kildare e Leighlin, ultimo di tre prelati irlandesi; subito prima il vescovo di Augsburg, il vescovo norvegese Muller e monsignor John Magee, ex segretario di vari Papi. In modo impressionante si susseguono a raffica le dimissioni di alti dignitari della Chiesa cattolica, colpevoli più o meno confessi, nella maggioranza dei casi, di abusi sessuali nei confronti di minori.

Insomma, l'opera di pulizia auspicata con parole di fuoco da Benedetto XVI quando era ancora il cardinale Ratzinger (e quando su questi temi — mi sembra importante notarlo— l’opinione pubblica non si faceva sentire) va avanti con decisione senza guardare in faccia a nessuno. Si tratta di un’importante opera di disciplinamento e in certo senso di autoriforma della Chiesa, dietro la quale si intravedono però fenomeni più ampi e significativi che non rendono troppo azzardato parlare di una vera svolta storica.

Per la prima volta, infatti, la Chiesa cattolica si spoglia di sua spontanea volontà di ogni funzione di intermediazione — e per ciò stesso, inevitabilmente, di «protezione» — nei confronti dei propri membri. Si priva di ogni attribuzione e volontà di giudizio nel merito, di decisione sua propria ed autonoma nei loro riguardi. Lo fa, per giunta, non in seguito a provvedimenti giudiziari emanati da una qualche autorità civile di cui le è giocoforza prendere atto, ma per l’appunto in via preliminare. Qualunque membro del clero, non importa il suo grado, abbia avuto comportamenti sessuali illeciti ha l'obbligo, per così dire, dell’autodenuncia e di affrontare quindi le conseguenze dei propri atti davanti alla giustizia laica. Allo stesso modo, sembra di capire, qualunque istanza gerarchica cattolica venga a conoscenza di atti sessuali illeciti commessi da un membro del clero ha l’obbligo d’ora in avanti della denuncia immediata all'autorità civile. In nessun modo, insomma, il peccato fa più da schermo al reato.

Non so quanti precedenti ci siano di un indirizzo del genere: certo pochissimi, forse nessuno. Come si sa, infatti, la Chiesa cattolica si è sempre considerata una societas perfecta, un’organizzazione che non riconosceva per principio alcuna istanza umana a lei sovraordinata, a cominciare dallo Stato. Nella sua ottica essa poteva sì rinunciare, quando fosse il caso, alle più svariate prerogative, competenze, diritti o che altro, ma sempre o per via pattizia (cioè concordataria), o perché costrettavi a forza dallo Stato. Con l’esplodere del problema della pedofilia si ha, invece, nei fatti, un cambiamento di rotta quanto mai significativo: che è la prova indubbia dell’estrema risolutezza con cui il Papa ha deciso di affrontare la questione non indietreggiando di fronte alle conseguenze.

Tale mutamento di rotta a sua volta ne implica, mi sembra, un altro ancora. E cioè che in questa circostanza la Chiesa ha finito per fare rapidamente proprio, senza riserve o scostamenti di sorta, il punto di vista affermatosi (peraltro recentemente e a fatica, ricordiamocelo) nella società laica occidentale. Non voglio certo dire che la Chiesa ha avuto bisogno del giudizio della società laica per considerare l'abuso sessuale sui minori un peccato gravissimo (forse il più grave stando alla lettera del Vangelo). Ma esso era tale anche dieci, venti o trenta anni fa quando tuttavia veniva quasi sempre coperto. Se oggi non è più così, non può più essere così, se oggi da quella gravità la Chiesa ha tratto le nuove e drastiche conseguenze che sono sotto i nostri occhi, con tutta evidenza ciò è accaduto solo perché il giudizio della società sugli abusi pedofili è anch’esso nel frattempo mutato. Cosicché, mentre su ogni altro uso della sessualità o pratiche connesse, essa ha adottato, e tuttora adotta, un suo proprio metro di giudizio, più o meno diverso rispetto a quello comunemente accettato, in questo caso vediamo invece che si conforma al punto di vista della società.

Si tratta beninteso del punto di vista della società occidentale, non molto condiviso, come si sa, da altre società come quelle islamiche o afro-asiatiche. Il che mi sembra indicativo di un ultimo dato di rilievo contenuto in questa vicenda. Vale a dire che il Cristianesimo romano e la sua Chiesa, pur a dispetto di ogni loro eventuale opinione o affermazione contraria (pur volendosi «cattolici» e cioè universali), mantengono comunque, però, un legame ineludibile con l’area di civiltà nel cui ambito geografico hanno messo le loro prime radici, che poi hanno modellato in modo decisivo, ma dalla quale, alla fine, non possono non essere anch’essi modellati. Forse è vero, insomma, che il futuro dell’Occidente si avvia a non essere più un futuro cristiano; ma ciò nonostante, in un modo o nell’altro e chissà ancora per quanto tempo, il Cristianesimo continuerà ad essere essenzialmente occidentale.

Ernesto Galli Della Loggia

26 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #68 inserito:: Maggio 15, 2010, 12:24:22 pm »

MALCOSTUME DELLA POLITICA E DELLA SOCIETA’

La trama nascosta della corruzione

Anche se non bisogna mai dimenticare che un conto sono i sospetti, un’altra cosa la verità, tuttavia le notizie di casi di corruzione politica stanno diventando così numerose da imporre una riflessione di ordine generale. Che però mi sembra giusto far precedere da una considerazione accessoria. E cioè che a ben vedere non si tratta mai soltanto di corruzione politica. Ogni episodio di corruzione politica propriamente detto, infatti, a quel che riferiscono le cronache, è sempre accompagnato da una rete di comportamenti a vario titolo oggettivamente complici: mogli che accettano tenori di vita implausibili, figli ultramaggiorenni che godono senza battere ciglio di favori come cosa dovuta, evasione fiscale generalizzata, amici che si fanno fare lavori e lavoretti da amici degli amici, ecc. ecc.

Insomma, tutta una trama di relazioni fondata su una personalizzazione radicale della vita sociale e insieme una vasta, capillare indifferenza alla correttezza e alla legalità. Ciò che ripropone la domanda invano sempre esorcizzata: ma che razza di società è la società italiana? Un’altra domanda ci riporta alla corruzione politica. La domanda è questa: perché da noi più che altrove la corruzione politica non sembra trovare l’ostacolo di alcuna efficace forza dissuasiva? Perché la paura di essere scoperti e quindi puniti, che dovrebbe naturalmente servire ad arginare la tentazione di cedere al richiamo del denaro facile, in Italia invece non sembra svolgere la sua funzione in misura apprezzabile? Le risposte possibili mi sembrano due, e rimandano ognuna a una profonda anomalia della nostra vita pubblica. La prima riguarda la giustizia.

Il nostro sistema penale- giudiziario, infatti, è ben capace di aprire indagini, ordinare intercettazioni, far scontare arresti preventivi immotivati, divulgare segreti istruttori più o meno compromettenti, e anche alla fine arrivare a rinvii a giudizio. Ma è singolarmente incapace di comminare sentenze esemplari e di farle scontare. I trent’anni di Madoff o gli ergastoli per i responsabili della Enron da noi sono impensabili. Le carceri italiane sono piene quasi soltanto di poveri diavoli, perché se si è un borghese facoltoso, come sono in genere coloro che incappano in un reato di corruzione (e cioè con un buon avvocato e buone relazioni), è rarissimo vedersi condannati in via definitiva a pene che non siano simboliche o quasi. La seconda spiegazione sta nella sciagurata legge elettorale che oggi vige nel nostro Paese. Bisogna ricordare infatti che ciò che giustamente più temono i politici non è il giudizio dei magistrati. È quello degli elettori.

È il non venire rieletti, e così dunque vedere cancellata la propria carriera. Ma con il «porcellum» attuale ciò è in pratica assolutamente improbabile. Il giudizio degli elettori sulla persona da eleggere, sulle sue qualità o magagne, infatti, si dà solo dove esista un qualche rapporto personale tra gli uni e l’altro: come per l’appunto avviene per laddove vige una legge elettorale maggioritaria basata su collegi uninominali (come nella Gran Bretagna). Non può darsi da noi, invece, dove, come si sa, non si votano «persone» ma «liste»: immodificabili e preconfezionate dai vertici dei partiti. In Italia, insomma, se per qualunque motivo il politico corrotto è gradito ai suoi capi può dormire sonni tranquilli: niente galera e la carriera sicura come prima.

Ernesto Galli Della Loggia

15 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_15/la_trama_nascosta_della_corruzione_della_loggia_a3bae088-5fde-11df-b9ba-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #69 inserito:: Maggio 23, 2010, 05:26:35 pm »

Le proposte di Monti sull'Unione

I veri nemici dell’Europa


Le sagge proposte contenute nel rapporto presentato qualche giorno fa da Mario Monti — miranti da un lato ad accrescere la coesione sociale dei Paesi dell’Unione europea, dall’altro a promuovere il loro sviluppo — sono il massimo che oggi il progetto europeistico può chiedere alle capacità di un intellettuale di valore ed al suo sapere specialistico, il massimo che quel progetto può chiedere all’economia.
Per tutto il resto, ed è il più, dovrebbe essere la politica a farsene carico. Ma è proprio qui, invece, che le classi dirigenti del continente continuano a manifestare la latitanza più completa e rovinosa

È una latitanza ormai congenita. Se ne è avuta la prova più evidente, a mio giudizio, in tutti gli anni scorsi con la disinvolta superficialità che ha fatto sì che in nessun Paese si alzasse una voce — una sola voce politica autorevole e significativa — per gettare l’allarme e avvertire di quanto andava inevitabilmente preparandosi. Che l’euro non avrebbe avuto vita facile, ed anzi prima o poi difficilissima, non ci voleva molto a prevederlo, infatti. Come poteva resistere a lungo sugli oceani tempestosi della globalizzazione finanziaria una moneta priva dello scudo della statualità, affidata unicamente alla gestione tecnica di una banca, ma per il resto in balia delle politiche economiche di un gran numero di governi, preoccupati come è ovvio solo del proprio consenso elettorale? Eppure non c’è stato alcun importante esponente politico di destra o di sinistra, che io ricordi, il quale abbia richiamato l’attenzione delle opinioni pubbliche sul pericolo imminente e per molti versi inevitabile.

L’Italia non ha fatto certo eccezione, anzi semmai è stata un esempio della superficialità di cui dicevo. Qui da noi, infatti, non solo nell’ambiente politico propriamente detto ma più in generale in quello giornalistico, accademico e culturale, è sembrato che si facesse a gara da parte di tutti (o quasi) nel chiudere gli occhi, nell’ostentare un vacuo quanto volenteroso ottimismo, e naturalmente nel bollare sprezzantemente di «euroscettico» quanti esprimevano un punto di vista diverso. Adesso sì che finalmente si vede dove conduceva invece la lungimiranza degli europeisti di professione!

In realtà, nulla come il discorso sull’Europa ha mostrato, in Italia e fuori, la pochezza che caratterizza ormai da almeno due decenni le classi politiche e i governanti del continente. Una pochezza che non solo in questo caso ha preso due forme. Da un lato l’incapacità di andare controcorrente, di affrontare magari una temporanea impopolarità pur di testimoniare un valore di verità politica e ideale. Non credo, infatti, che l’eurottimismo fosse davvero così condiviso e generale come esso sembrava. Generale è stata però la volontà di non rischiare, di non apparire isolati. Come se la routine e il conformismo intellettuale fossero ormai il solo orizzonte possibile. La seconda forma della pochezza delle classi dirigenti europee è apparsa in tutto questo tempo la perdita da parte loro precisamente del significato della politica, del valore della decisione politica nel senso più alto e più pieno del termine. Della sua inevitabile necessità quando le cose sono giunte al punto in cui erano (e sono) giunte nel processo di costruzione europea. Chi oggi ancora non lo capisce, o non ha il coraggio di dirlo, o magari dice che le priorità sono altre, è in realtà il vero nemico dell’Europa.

Ernesto Galli Della Loggia

23 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_23/i-veri-nemici-dell-europa-ernesto-galli-della-loggia_5e1034b4-662a-11df-b272-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #70 inserito:: Giugno 05, 2010, 05:18:31 pm »

Tra illusioni e pregiudizi


Appena licenziato in commissione dal Senato, il testo della riforma universitaria dovrebbe andare in aula il prossimo 15 giugno. Ma tra le tensioni interne alla maggioranza e le presumibili barricate dell’opposizione la prognosi non è delle più fauste. Ciò che però fa più temere — e secondo me deve anche dare più da pensare — è la rigidità ideologica che su questo argomento ancora si avverte fortissima nell’opinione pubblica. La politica si limita pigramente a rispecchiarla, rinunciando, in questo come in tanti altri casi, a qualunque funzione di guida.

È ormai da qualche anno, infatti, che a proposito dell’Università il Paese ha avuto modo di farsi un’idea assai più approfondita e realistica di quella fornita a scadenza fissa dalle varie «onde» o «pantere» organizzate dagli studenti. Questa visione più veritiera e più onesta si deve specialmente ad alcuni libri. Voglio ricordare gli autori e i titoli dei tre più importanti di essi — Raffaele Simone («L’università dei tre tradimenti»), Roberto Perotti («L’università truccata») e da ultimo Andrea Graziosi («L’università per tutti. Riforme e crisi del sistema universitario italiano») — perché si tratta di docenti universitari che non possono certo essere accusati di simpatie per la destra.

Che cosa insegnano i loro libri? Soprattutto questo: che dietro una facciata di estrema democraticità costruita negli anni ’60-’70 (libertà per qualunque diplomato di iscriversi a qualsiasi facoltà; tasse d’iscrizione mediamente assai basse; estrema facilità dei corsi; equivalenza formale di tutti gli atenei a causa del valore legale del titolo di studio e finanziamenti eguali per tutte le sedi) è venuta crescendo contemporaneamente una struttura inefficiente e sperperatrice (altissimo numero di fuori corso, smisurata percentuale di impiegati amministrativi rispetto al corpo docente), governata da una corporazione professorale volta quasi sempre ai propri esclusivi interessi (rettori in carica per decenni; moltiplicazione insulsa delle materie, dei corsi di laurea e delle sedi decentrate al solo scopo di moltiplicare i posti per i docenti; scarso impegno didattico e scientifico; privilegio accordato alle carriere interne e ai candidati locali rispetto al reclutamento di forze nuove ope legis accettate con il consenso di tutti).

In aggiunta, naturalmente, alla ben nota gestione dei concorsi perlopiù priva di ogni trasparenza. Come si vede, il quadro fornito dai libri di cui dicevo sopra è ben diverso da quello solitamente fornito dalle cosiddette «lotte studentesche », al quale in tutti questi anni si è avvezzata troppo docilmente molta parte dell’opinione pubblica. L’Università italiana, insomma, non è l’arena dove si scontrano da un lato i buoni—cioè gli studenti e i professori, tutti uniti sotto il sacro manto della Ricerca, della Cultura e del Diritto allo Studio con la lettera maiuscola — e dall’altro il cattivo ministro di turno, per principio affamatore della ricerca e dell’istruzione, incompetente, insensibile e autoritario così come il suo partito. L’Università è piuttosto un luogo dove, in nome della «pace sociale», per decenni è stato permesso a tutti di guadagnare qualcosa grazie allo scambio occulto tra demagogia democraticistica e lauree facili e a poco prezzo per gli studenti, contro pieni e incontrollati poteri al corpo docente. E dove a perdere (e a pagare i costi), al dunque, è stato solo il Paese.

Il quale si ritrova oggi con un sistema ipertrofico e insieme improduttivo (80 e più sedi universitarie: quasi una ogni provincia!), antimeritocratico, agli ultimi posti in tutte le classifiche internazionali, nonché, alla faccia di qualche decennio di «lotte democratiche», ancora sostanzialmente precluso alle classi popolari. Per risanare una situazione così intricata e incancrenita non esiste alcuna bacchetta magica, e certamente non è tale la riforma approntata dal ministro Gelmini. Ma è almeno il tentativo onesto e ragionevole di incidere in cinque direzioni importanti: introdurre criteri di ricambio e di funzionalità negli organi di governo degli atenei; sottoporre gli stessi a giudizi di efficienza e i docenti a giudizi di merito; avviare un riequilibrio quantitativo tra le diverse componenti della docenza; organizzare per gli studenti meritevoli un sistema di finanziamenti da restituire dopo la laurea e infine riformare il sistema dei concorsi in base ad una scelta dei commissari fondata sui loro meriti scientifici e insieme sul sorteggio.

Certamente: come ogni cosa, anche la riforma Gelmini è di sicuro migliorabile (e magari anche molto). A patto, tuttavia, che si voglia farlo. Che voglia farlo l’opposizione, rinunciando in una materia così cruciale per il futuro del Paese ad un contrasto di principio— ma non riesco ad immaginare proprio in base a quale principio— e che voglia farlo soprattutto l’opinione pubblica. In questo ambito, al pari di tanti altri della nostra organizzazione sociale, è arrivato il momento di capire che abbiamo sperperato decenni e montagne di soldi inseguendo illusioni, alimentando pregiudizi, costruendo contrapposizioni puramente ideologiche che non ci hanno portato da nessuna parte. Di capire che la realtà non è più a lungo eludibile. Di convincerci, come diceva il presidente Mao, che se si tratta di prendere il topo, il colore del gatto è indifferente.

Ernesto Galli della Loggia

05 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_05/tra_illusioni_e_pregiudizi_ernesto_galli_della_loggia_6d91086e-7061-11df-aae4-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #71 inserito:: Giugno 13, 2010, 08:54:01 am »

PRIVILEGI, FAVORI, CORRUZIONE

L’opacità del potere


Negli ultimi tempi è intervenuto un cambiamento importante sia nelle «auto blu» cosiddette «di servizio » — che poi peraltro sono quasi sempre nere — sia, più in generale, nelle auto adoperate dagli italiani che contano (dalle maestose berline di rappresentanza ai Suv c a f o n i s s i m i d a weekend): sempre più spesso queste auto hanno i vetri dei finestrini oscurati. La metafora è inevitabile: il potere nostrano ama l’opacità, accompagnata, anche in questo caso, dal privilegio: poter vedere senza essere visti. Un piccolo e normale privilegio stavolta, alla portata di tutti, ma che comunque allude alla dimensione dell’opacità, consustanziale a quella del potere italiano: la sua mancanza di pubblicità è, infatti, la garanzia maggiore del mantenimento del privilegio. Non è il desiderio di arricchire, non è il basso desiderio di impadronirsi di beni e ricchezze, l’anima vera della corruzione italiana, il suo principale movente. Psicologicamente credo che sia qualcosa di diverso: è il privilegio, l’ambizione innanzitutto di distinguersi, di appartenere al gruppo di coloro per cui non valgono le regole che valgono per tutti. A cominciare da quella regola suprema che è la legge.

Si ruba, si viola il codice penale, convinti che tanto a noi non toccheranno le conseguenze che invece toccherebbero a un comune mortale. Convinti che in un certo senso ciò che si sta commettendo non è neppure più un reato dal momento che siamo noi a commetterlo, e dal momento che noi facciamo parte di un gruppo a parte, il gruppo dei privilegiati, appunto. Dietro l’ormai leggendaria impudenza dell’ex ministro Scajola—leggendaria innanzitutto per la sua goffaggine («devo appurare chi è stato a pagare per l’acquisto della mia casa»)—cosa c’è infatti se non un’idea di privilegio talmente introiettata da essersi mutata in una presunzione d’impunità, pronta a prendere addirittura la forma della distrazione? Antica società di ceti, dominata da una forte rigidità gerarchica, la società italiana si è abituata a considerare il privilegio l’unico contenuto effettivo del rango. Essere qualcuno significa, in Italia, innanzitutto stare al di sopra della massa. E nella Penisola tutti — giornalisti, tassisti, parlamentari, membri di tutti gli ordini professionali, magistrati—tutti vogliono essere al di sopra degli altri, titolari di qualche privilegio: essere esentati da qualche obbligo; avere delle riduzioni; degli sconti o come minimo dei biglietti omaggio; rientrare in un «numero chiuso»; fruire di un’ope legis; godere di un trattamento speciale; magari di una cassa mutua riservata. Ma il massimo del privilegio, la consacrazione del vero privilegiato, sta altrove.

Sta nella possibilità di chiedere «favori», e naturalmente di ottenerli. Ed egualmente lì sta la dimostrazione indiscutibile del rango. Infatti si possono chiedere favori solo se si «conosce » (fornitori, nomi importanti, persone in posti chiave), e naturalmente si «conosce» solo se a propria volta si è «conosciuti », cioè se si è qualcuno. Non si capisce nulla delle ragioni e della profondità inaudita del narcisismo dilagante in Italia, specie tra i giovani, non si capisce la conseguente, universale, spasmodica voglia di apparizioni e di carriere in tv, se non si tiene a mente il privilegio di «conoscenze»—e dunque di favori, di accessi di ogni tipo—che da noi si attribuisce all’essere «conosciuti». Se «si va» in televisione ci si fa «conoscere», e per chi è «conosciuto» nulla è impossibile. Sulla scena italiana, intorno alla grande arena del privilegio, opacità e riservatezza da un lato, e narcisismo ed esibizionismo dall’altro, s’intrecciano contraddittoriamente: nel primo caso per difenderla, nel secondo per entrarvi. Da tempo però la scena è furiosamente animata da un altro protagonista: l’intercettazione telefonica. Questa, e la sua divulgazione,(così come la divulgazione degli stipendi e delle case) sono diventate la grande speranza, l’estrema risorsa della massa dei non privilegiati. Lo sa bene chi ha il potere di usarne— magistratura e stampa—e che proprio per questo ne fa l’uso così ampio che sappiamo.

Grazie all’intercettazione telefonica si rompe finalmente l’opacità del grande privilegio sociale, quello dei politici e dei ricchi innanzitutto, e l’aura di riservatezza di cui esso si nutre. Finalmente i discorsi dei potenti sono squadernati nella loro volgare quotidianità, nei loro desiderata, perlopiù inconfessabili, nei loro intrighi, ed esposti una buona volta al giudizio dei più. Nella sua versione italiana l’intercettazione telefonica diventa così la vendetta della plebe sull’oligarchia, la rivalsa della demagogia sulla democrazia. È lo sputtanamento, come è stato esattissimamente detto: lo sputtanamento demagogico, appunto, opposto alla pubblicità democratica. Una forma di giustizia violenta ed elementare, senza appello e senza garanzia alcuna. Una specie di linciaggio incruento. Ciò che è terribile è che la maggior parte di coloro che vivono in questo Paese pensi che sia questa, oggi, la sola forma di giustizia possibile. Ed ancora più terribile è che, probabilmente, hanno pure ragione.

di Ernesto Galli Della Loggia

12 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_12/opacita_potere_64a21030-75df-11df-9eaf-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #72 inserito:: Giugno 18, 2010, 05:03:17 pm »

BIVIO DELLA MATURITA’ PER LA LEGA

Tra Roma e Pontida


Ci sono circostanze in cui il successo può dare alla testa, inducendo a sciocchezze suicide. È il rischio che corre oggi la Lega, nel momento in cui, in seguito alle elezioni della scorsa primavera, si trova impegnata in prima persona, in Veneto e in Piemonte, al governo di grandi realtà territoriali. Dove per l’appunto è assai più difficile mantenere il senso dell’opportunità, e dunque del limite, perché — a differenza di quando si è al governo a Roma—si detiene un potere rilevantissimo ma in condizione di virtuale monopolio, con un’attenzione dei media generalmente benevola (con un controllo attenuato dell’opinione pubblica) e infine con un’opposizione quasi sempre senza nerbo e senza voce, in pratica fuori gioco.

In queste condizioni, specie per i politici locali della Lega, il rischio dell’autogol diviene assai alto. Lo si è visto nei giorni scorsi con gli episodi di antiitalianismo che hanno fatto capolino qua e là (con il tifo di «Radio Padania» per il Paraguay o il rifiuto di suonare l’inno nazionale), e che sarebbe sbagliato giudicare casuali e secondari, perciò politicamente irrilevanti. Non lo sono perché nella Lega l’ostilità e il disprezzo contro lo Stato nazionale non rappresentano un fatto estemporaneo: sono invece la deriva inevitabile a cui va incontro la prospettiva federalista ogniqualvolta questa ha bisogno di mostrare un volto radicale, una posizione di combattimento dura. Ciò che capita puntualmente sia quando il federalismo non riesce a concretizzarsi in un’effettiva realtà istituzionale, come accade in queste settimane, sia quando quella prospettiva viene adottata almeno a parole più o meno da tutti, e allora non serve più da sola a definire l’identità leghista. Agli occhi della Lega, insomma, il ghigno antipatriottico, l’insulto antistatale, rappresentano tanto l’uscita di sicurezza per sottrarsi all’unanimismo federalista, che il modo per tenere unite le proprie fila ribadendo quello che viene sentito come una sorta di «programma massimo».

Ma con l’antiitalianismo la Lega scherza con il fuoco. Per una ragione che non è difficile da capire. Infatti, laddove il federalismo, come si è visto e si vede ogni giorno, spacca il fronte avversario dividendolo tra chi ne fa propria una parte e chi l’altra, l’insulto antinazionale, al contrario, coalizza immediatamente in un sol blocco tutti coloro che non siano la Lega stessa. Cementando, per giunta, tale blocco con quel sentimento forte, potenzialmente aggressivo ed emotivamente trascinante, che è il patriottismo. Mentre con il federalismo, insomma, si possono costruire le alleanze più varie (dalla destra alla sinistra) e ci si può proporre alla guida del Paese, è invece piuttosto difficile immaginare di poter governare l’Italia dichiarandosi contro lo Stato italiano. Il ministro degli Interni, Maroni, ad esempio, non potrebbe mai ottenere gli ottimi risultati che sta ottenendo nella lotta al crimine organizzato, se mostrasse a poliziotti e carabinieri che a lui dell’Italia e del suo Stato gliene importa meno di niente. Con l’antiitalianismo si possono costruire delle Vandee, dei ridotti padani, delle roccaforti verdi, ma oltre non si va. Ci si condanna ad un minoritarismo permanente. Proprio il successo appena avuto, e che può forse preludere ad altri successi, obbliga dunque la Lega, e sempre di più, che se ne renda conto o no, a scegliere: o Pontida o Roma.

Ernesto Galli della Loggia

18 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #73 inserito:: Luglio 01, 2010, 04:58:00 pm »

La necessità di un colpo d’ala


Parlare di crisi finale di Berlusconi e del berlusconismo è senz’altro azzardato. Niente lascia credere, infatti, che se tra sei mesi ci fossero le elezioni politiche il Cavaliere non riuscirebbe per l’ennesima volta a riportare la vittoria. In un modo quale che sia, ricorrendo alle offerte elettorali più irreali, radunando le forze più diverse, gli uomini (e le donne) più improbabili, ma chi può dire che non ci riuscirebbe?

Se però il futuro appare incerto, il presente invece non lo è per nulla. Dopo due anni alla testa di un’enorme maggioranza parlamentare il governo Berlusconi può vantare, al di là della gestione positiva della crisi economica, un elenco di risultati che dire insoddisfacente è dire poco. Inauguratosi con l’operazione «Napoli pulita» esso si trova oggi davanti ad un’altra capitale del Mezzogiorno, Palermo, coperta di rifiuti, ridotta ad un cumulo d’immondizia, mentre l’uomo del miracolo precedente e dell’emergenza terremoto, Bertolaso, è assediato dalle inchieste giudiziarie.

Il simbolo di un fallimento non potrebbe essere più evidente. Ma c’è ben altro. C’è l’elenco lunghissimo delle promesse non mantenute: elenco che la difficile situazione economica e i grandi successi nella lotta al crimine organizzato non sono certo in grado di compensare. C’è la riforma della giustizia con la separazione delle carriere dei magistrati ancora di là da venire; ci sono le liberalizzazioni (a cominciare da quella degli ordini professionali) di cui non si è vista traccia; c’è il piano casa e delle grandi infrastrutture pubbliche a tutt’oggi sulla carta; la costruzione dei termovalorizzatori, idem.

La promessa semplificazione delle norme e delle procedure amministrative è rimasta in gran parte una promessa; la riforma universitaria ha ancora davanti a sé un iter parlamentare lunghissimo e quanto mai incerto; delle norme sulle intercettazioni meglio non dire; e infine pesa sull’Italia come prima, come sempre, la vergogna della pressione e insieme dell’evasione fiscali più alte del continente.

Una tale inadempienza programmatica è il risultato in buona parte dell’incapacità di leadership da parte del premier. Nel merito dei problemi che non lo riguardano in prima persona Berlusconi, infatti, continua troppo spesso ad apparire incerto, assente, più incline ai colpi di teatro, alle dichiarazioni mirabolanti ma senza seguito, che ad una fattiva operosità d’uomo di governo. In questa situazione lo stesso controllo che egli dovrebbe esercitare sul proprio schieramento è diventato sempre più aleatorio. Benché con modi e scopi diversi Fini, Bossi e Tremonti dimostrano, infatti, di avere ormai guadagnato su di lui una fortissima capacità di condizionamento. Riguardo le cose da fare ne risulta la paralisi o il marasma più contraddittorio.

Anziché governare le decisioni, il presidente del Consiglio sembra galleggiare sul mare senza fine delle diatribe interne al suo schieramento. E nel frattempo dalla cerchia dei fedelissimi, dove pure qualche intelligenza e qualche personalità autonoma esiste, continua a non venire mai alcun discorso d’ordine generale, continua a non venire mai nulla che abbia il tono alto e forte della politica vera. Il silenzio del Pdl che non si riconosce in Fini è impressionante. Ad occupare il proscenio rimangono così, oltre l’eterno conflitto d’interessi del premier, solo i ministri ridicoli (Scajola) o impresentabili (Brancher), il giro degli avidi vegliardi delle Authority, le inutili intolleranze verso gli avversari. Dov’è finita la rivoluzione liberale di cui il Paese ha bisogno?


Ernesto Galli della Loggia

28 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #74 inserito:: Luglio 07, 2010, 05:00:53 pm »

Un Paese senza politica

Quale sia davvero lo spirito del Paese dubito che possano dircelo i sondaggi. Meglio ascoltare se stessi e dare retta a quello che si avverte dentro e specialmente intorno a noi. C’è una sensazione che domina su tutte le altre, se non sbaglio: la sensazione che sono finiti i tempi felici. Fino a qualche tempo fa il Paese, pur con tutte le sue contraddizioni, appariva comunque orientato ad una visione positiva del proprio futuro. Aveva dei punti di riferimento sicuri. A cominciare da quelli fuori dei propri confini.

L’Occidente di cui facevamo parte era il luogo della libertà e della ricchezza, e ogni anno avevamo un po’ di più tanto dell’una che dell’altra. In entrambi i casi stando al riparo di una sicurezza collaudata e senza costi. Oggi ci sembra di scorgere quotidianamente i sintomi che non è più così. L’Occidente, l’Europa stessa, stanno pian piano svanendo. E con loro svanisce la sensazione di forza, quasi d’invincibilità, che per tanto tempo essi hanno incarnato. Compaiono al loro posto nuovi giganti mondiali che però avvertiamo lontanissimi da noi. Indifferenti ai modi nostri e alle nostre esigenze. E di nuovo, dopo decenni che non accadeva, soldati italiani muoiono combattendo in remote contrade, di nuovo senza molte speranze di vittoria.

In casa nostra i giorni e la vita dei tempi felici volevano dire una rete antica e tutto sommato affidabile di istituzioni che ne erano i punti fermi: la scuola, una banca, un ufficio postale, il municipio, il sindacato. Tutte cose che esistono ancora, naturalmente, ma senza più il senso, la certezza e l’autorevolezza di una volta. Non sappiamo bene perché, ma sentiamo che è così. La Chiesa e la famiglia stesse—questi due pilastri all’apparenza indistruttibili della soggettività e insieme delle collettività italiane — sono alle prese con forze corrosive che ne stanno alterando il profilo sociale e attutendone la voce. Insieme è finita — drammaticamente finita per sempre, ci dicono—la speranza di un lavoro ragionevolmente sicuro nel tempo.

Una fase decisiva di come l’Italia è diventata moderna, l’industrializzazione, sembra ormai giunta ad un compimento: interi settori produttivi sono scomparsi nell’ultimo ventennio mentre non si contano gli impianti, le fabbriche del Paese passati in mani straniere nel disinteresse generale. Ai fini del Pil forse non conta, ma a quelli dell’immaginario e del sentimento sì. È come se stesse cambiando sotto i nostri occhi la moralità di fondo del Paese e al medesimo tempo il valore del nostro stare insieme. Il moltiplicarsi senza freno dei casi di corruzione pubblica, di malversazione, di sperperi, non fa altro che rafforzare questo senso di un cambiamento che sa piuttosto di disgregazione. E per parlare di cose che sono simbolo di molte altre: da quanto tempo un libro, un film, un’architettura, una rappresentazione, insomma una cosa nuova pensata o fatta in Italia, non fa parlare di sé il mondo? Siamo dunque un Paese in declino? Meglio non dirlo. E forse non è neppure vero se si guarda a certi dati pure fondamentali. Ma senza dubbio siamo un Paese che sente di essere nel mezzo di un passaggio assai difficile della sua storia. E sente di affrontare questo passaggio senza guida, abbandonato agli eventi, al giorno per giorno. Nessuno è in grado di dirgli qualcosa circa il futuro che lo aspetta, che ci aspetta. Nessuno vuole o sa parlare alla sua mente e al suo cuore. Nessuno è capace di indicargli una via e una speranza. Ma che cos’è questo se non il compito della politica? Ecco allora il vero cuore duro della nostra crisi.

Ciò di cui l’Italia è oggi drammaticamente e specialmente priva è la politica. Non riusciamo a farci una ragione del presente e a vedere come affrontare il futuro perché ci manca la politica. La quale nella sua accezione più vera non significa altro che un progetto per la «città», un’idea del suo destino. Il discorso cade irrimediabilmente su chi soprattutto ha rappresentato la politica in tutti questi anni: su Berlusconi. Sarebbe sbagliato prima che ingiusto dire che egli non ha fatto, non ha realizzato nulla. Ma ciò che pure ha fatto, i cambiamenti tutto sommato positivi che egli ha contribuito a introdurre, i tentativi riformatori che pure ha cercato di mettere in opera, hanno mancato tutti su un punto decisivo. Berlusconi non è mai riuscito a iscriverli in un discorso generale rivolto a tutto il Paese, un discorso che fosse capace di parlare al suo animo, di comunicargli quel senso della sfida e quell’esigenza di mobilitazione che i tempi difficili richiedevano e richiedono. Se aveva un’idea d’Italia, di certo non si è mai curato di trasmetterla con qualche efficacia agli italiani. Egli è rimasto fino in fondo l’uomo di una parte, convinto forse che in ciò, alla fin fine, consistesse il suo vero ascendente sul proprio elettorato.

E così, più che espressione della politica in senso alto o dell’«antipolitica», come hanno sempre detto i suoi detrattori, alla fine egli si è ridotto ad essere (o ad apparire, il che è lo stesso) null’altro che l’uomo della non-politica. In numerosa compagnia, ahimè. La sua ormai lunga egemonia sul sistema politico, infatti, ha corrisposto alla — e si spiega con la —crisi perdurante e l’afasia politica di tutti i suoi oppositori. I quali mostrano di sapere solo parlare ossessivamente di lui e contro di lui, ma al di là di qualche banale genericità a base di «bisogna questo » e «bisogna quest’altro» — e naturalmente senza mai spiegare come o a spese di chi — non sanno andare. Sicché ormai il Paese ascolta anche l’opposizione nella più totale indifferenza, con un’alzata di spalle. Neppure da lei gli viene il racconto di qualche verità sgradevole, l’indicazione di una via difficile, una proposta nuova e ardita. Eppure nell’intimo della sua coscienza l’Italia avverte che questo solo sarebbe il modo per sperare di fare i conti con il mondo nuovo e aspro in cui essa è ormai entrata. Per farlo essa sarebbe anche disposta ad accettare medicine amare, se solo qualcuno gliene spiegasse però il senso e la necessità: se qualcuno le sapesse parlare di politica. Invece, come i malati avviati a una sorte rassegnata e infelice, essa si vede prescrivere solo degli zuccherosi placebo a base di nulla.

Ernesto Galli della Loggia

07 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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