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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96900 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Aprile 12, 2015, 06:13:42 pm »

Dopo la lunga frattura
Ma il traguardo degli Usa è riavvicinare l’America Latina

Di Sergio Romano

I l presidente degli Stati Uniti ha fretta. Dopo avere impiegato buona parte del suo primo mandato nel tentativo, non sempre riuscito, di liberare il suo Paese dal fardello delle due guerre di George W. Bush, Obama è impegnato in operazioni che potrebbero modificare l’immagine e il ruolo internazionale degli Stati Uniti.

Come nel caso dell’Iran, anche in quello di Cuba il presidente sarà bersaglio di molte critiche, non solo dei suoi avversari politici. Gli verrà rimproverato di avere conferito legittimità internazionale a un regime tirannico, di non avere preteso da Raúl Castro impegni formali sul rispetto dei diritti umani e civili. Ma Obama può rispondere, non senza ragione, che la politica dell’embargo, dopo essere stata praticata per più di mezzo secolo, non ha dato alcun risultato.

I Castro sono sempre al potere e il cambiamento di regime, che gli Stati Uniti speravano di provocare con le sanzioni, non ha avuto luogo. È opportuno continuare ad adottare misure che hanno colpito la popolazione molto più di quanto abbiano ferito il regime? P er favorire i mutamenti con altri mezzi, Obama dispone ora di una carta che i suoi predecessori non avevano. Per parecchi decenni i cubani della Florida, ormai cittadini americani, condizionavano la politica degli Stati Uniti riservando i loro voti ai candidati che promettevano di non revocare l’embargo. Oggi, due generazioni dopo l’inizio dell’esilio, sembrano soprattutto desiderosi di visitare l’isola, di aiutare i parenti rimasti in patria, di sfruttare e allargare le modeste aperture del regime. Se la politica di Obama favorirà i viaggi e gli scambi, i cubani della Florida potrebbero avere, all’interno della società cubana, il ruolo di una provvidenziale quinta colonna.


È possibile che il quadro politico latino-americano favorisca Obama. Il fronte anti-yankee, che si era costituito durante i due mandati di George W. Bush, si sta logorando. In Venezuela Nicolás Maduro non sa come correggere la politica demagogica di Chávez e non ha il carisma con cui il suo predecessore incantava le folle. In Bolivia e in Ecuador, Evo Morales e Rafael Correa non esercitano più sul subcontinente l’influenza del passato. Nei due maggiori Paesi - Argentina e Brasile - l’economia è stagnante e l’immagine delle due donne al vertice dello Stato (Cristina Fernandez de Kirchner e Dilma Roussef) si è appannata.

Se eviterà lo stile di altri presidenti americani Obama troverà in America Latina nuovi spazi e nuove occasioni. Ma sarebbe stato più difficile coglierle se non si fosse sbarazzato della questione cubana. Per molti anni l’embargo è stato l’arma di cui i Castro potevano servirsi per mobilitare il patriottismo latino-americano contro l’arrogante impero del Nord.
Oggi, per merito di Obama, quell’arma è spuntata. Il presidente lo sa, ma occorre che anche una più larga area della società politica degli Stati Uniti ne sia consapevole.

12 aprile 2015 | 09:34
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_12/ma-traguardo-usa-riavvicinare-l-america-latina-328f83b8-e0e5-11e4-87d6-ad7918e16413.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Aprile 16, 2015, 04:34:27 pm »

Un saggio di Andrea Riccardi Cristiani e armeni a Mardin
Un secolo fa la strage rimossa
Il cinico calcolo dei Giovani turchi, laici: aizzare l’odio delle popolazioni islamiche


Di Sergio Romano

Nella Turchia sudorientale, in una zona abitata prevalentemente da curdi, vi è una delle più belle città del Medio Oriente. È Mardin, una meta turistica premiata dall’Unesco per la straordinaria varietà della sua architettura religiosa: chiese, monasteri, moschee, sinagoghe, castelli medioevali. Oggi la sua popolazione è in grande maggioranza musulmana, ma nel 1915, quando fu teatro degli avvenimenti evocati in un libro di Andrea Riccardi pubblicato ora da Laterza, i cristiani avevano nove chiese, tre conventi e formavano una sorta di catalogo vivente del Cristianesimo romano e greco: armeni in buona parte, ma anche cattolici di rito latino, ortodossi, assiri, siriaci, caldei, tutti assistiti dai loro vescovi e patriarchi.

I campanili e i minareti svettano ancora sulla città, costruita sul pendio di una grande montagna, ma le comunità cattoliche e ortodosse sono oggi soltanto il pallido ricordo di un mondo in buona parte scomparso. Questo libro (La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo, pp.240, e 18) è anzitutto un’opera di pietà storica, scritta per ricordare la sorte dei cristiani d’Oriente, travolti anche in anni più recenti dalle guerre combattute in Libano, in Iraq, e in Siria. Riccardi dice implicitamente al lettore che la tragica cronaca delle persecuzioni subite dagli armeni agli inizi della Grande guerra non sarebbe completa se non ricordasse che il loro destino, in particolare a Mardin, fu condiviso dai cristiani. Ma l’autore non è soltanto il fondatore della Comunità di Sant’Egidio e, quindi, un cattolico militante. È anche uno studioso a cui preme ricostruire il contesto storico di quelle persecuzioni. Nel luglio del 1914, quando il governo austro-ungarico inviò alla Serbia l’ultimatum che avrebbe scatenato la Grande guerra, la Turchia era appena uscita da una umiliante sconfitta nella Seconda guerra balcanica e dal colpo di Stato che aveva dato il potere ai «Giovani turchi» di Unione e Progresso. I suoi tre Pascià — Djemal, Enver, Talaat — erano ferocemente nazionalisti e profondamente convinti che la sovranità dello Stato ottomano fosse minacciata dalle continue ingerenze delle potenze straniere nella politica dell’Impero. Le sue finanze erano soggette alla vigilanza di banchieri europei, organizzati in una specie di Fondo monetario internazionale.

Le comunità religiose non musulmane avevano potenti protettori stranieri: la Russia per gli ortodossi e gli armeni, la Francia e altri Paesi cattolici per i cristiani latini, la Gran Bretagna per i protestanti e gli ebrei. I trattati sulle capitolazioni avevano garantito alle comunità nazionali straniere una sorta di indipendenza giudiziaria, che intaccava profondamente la sovranità dello Stato. Al nuovo governo di Costantinopoli la guerra europea parve una provvidenziale via d’uscita. Il 9 settembre 1914 fu annunciato al mondo che le capitolazioni sarebbero state abolite, con un documento in cui si affermava tra l’altro che l’abolizione avrebbe permesso di realizzare le riforme ripetutamente sollecitate dalle grandi potenze. Due mesi dopo, mentre la Turchia era da qualche giorno in guerra a fianco della Germania, fu proclamata la Grande Jihad. La guerra santa presentava in quel momento un doppio vantaggio. Forniva alle masse anatoliche, ancora devotamente musulmane, una motivazione spirituale sul campo di battaglia; e dava alle persecuzioni contro i cristiani una giustificazione patriottico-religiosa. Per quanto concerneva gli armeni, in particolare, la guerra contro la Russia avrebbe permesso al governo turco di trattare la loro comunità come una pericolosa quinta colonna.

Armate di questi argomenti le autorità turche dettero il via alle deportazioni e ai massacri. Quando gli ambasciatori dei Paesi neutrali, fra cui Henry Morgenthau, rappresentante degli Stati Uniti, deplorarono i metodi utilizzati, Enver replicò con sfacciata franchezza: «L’odio tra turchi e armeni è così grande che dobbiamo farla finita con loro, altrimenti si vendicheranno su di noi». I metodi usati per i massacri, come scrive Riccardi, furono una disordinata combinazione di violenza pubblica e organizzata, casuale e venale. Vi furono molti casi in cui gli armeni credettero di avere salvato la loro vita con il pagamento di esosi riscatti, ma caddero egualmente nella trappola della deportazione e dell’eccidio. Ve ne furono altri in cui pietosi musulmani cercarono di nasconderli e salvarli. E ve ne furono altri ancora in cui le vittime divennero merce da vendere e comprare. A differenza di ciò che sarebbe accaduto nella Germania di Hitler, l’odio fu molto più religioso e identitario che razziale, e colpì contemporaneamente, come nel caso di Mardin, altri cristiani. Vi è in questa tragica vicenda un paradosso. Come ricorda Riccardi, gli strateghi dei massacri erano solo formalmente musulmani. I Giovani turchi conoscevano l’Europa, avevano avuto frequentazioni massoniche nelle capitali europee, invidiavano e ammiravano le società laiche, erano soprattutto nazionalisti e spesso atei. Usarono l’Islam per meglio motivare le truppe, i gendarmi, i funzionari dell’amministrazione imperiale a cui sarebbe spettato il compito di eseguire gli ordini del governo. Non fu il primo e non sarebbe stato purtroppo l’ultimo caso. Gli avvenimenti degli ultimi trent’anni, dalla guerra afgana a quella di Bosnia, dai massacri di Boko Haram in Nigeria a quelli dell’Isis in Iraq e in Siria, dimostrano quale uso perverso possa essere fatto della fede per accendere gli animi, alimentare l’odio e scatenare conflitti.

31 marzo 2015 | 11:29
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_marzo_31/cristiani-armeni-mardin-secolo-fa-strage-rimossa-c254940a-d787-11e4-82ff-02a5d56630ca.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Aprile 23, 2015, 11:14:25 am »

Politica e crisi libica
Litigate su tutto (non ora)

Di Sergio Romano

Spiace constatarlo, ma è stato necessario un altro dramma, il più grave dall’inizio del fenomeno, perché l’Europa cominciasse ad accorgersi che il Mediterraneo è una frontiera europea ed è il luogo in cui i morti, dall’inizio dell’anno, rappresentavano, prima dell’ultimo disastro, il 79% delle persone che nello stesso periodo hanno perso la vita cercando di attraversare una frontiera nell’intero pianeta. È improbabile che il vertice di Bruxelles, voluto dall’Italia, riesca a sciogliere oggi tutti i nodi di una questione particolarmente intricata. Ma sarà più difficile d’ora in poi, per i Paesi che in questi ultimi mesi hanno dato prova di una sconcertante indolenza, voltare le spalle a una questione che non concerne soltanto l’Italia e la Grecia. L’ultima tragedia sembra avere risvegliato le coscienze, aguzzato gli ingegni, reso possibile la convergenza tra le forze politiche italiane e meglio chiarito, per tutti gli europei, i termini della questione.

Non è possibile impedire che uomini, donne e bambini continuino a fuggire dalla Siria, dall’Iraq, dal Sudan, dal Congo e dal Kenya, dove il governo si prepara a chiudere un campo che ha ospitato sinora mezzo milione di somali. Combattere l’Isis, Boko Haram, Al Qaeda, Al Shabab e altre organizzazioni terroristiche del mondo musulmano, è indispensabile, ma tutti sanno che non potranno esservi vittorie decisive da un giorno all’altro. È stato proposto che i Paesi dell’Ue aprano speciali uffici consolari in alcuni Stati arabi per esaminare sul posto le domande d’asilo e concedere visti umanitari. È una buona idea, promossa, tra gli altri, dalla Comunità di Sant’Egidio e, nel Senato italiano, da Luigi Manconi. Ma non potrà funzionare se ogni Paese europeo non accetterà di impegnarsi pubblicamente sul numero delle persone che è pronto ad accogliere. Non può esservi alcuna soluzione se i Paesi dell’Ue non riconosceranno che a questa emergenza occorre reagire con la stessa disponibilità e generosità con cui ciascuno di essi risponde alle proprie catastrofi nazionali.

I visti umanitari non saranno sufficienti e vi saranno sempre persone pronte a rischiare la vita per tentare l’attraversamento del Mediterraneo. Occorre quindi distruggere le barche là dove sono all’àncora, in attesa dei loro carichi umani. Ma queste sono operazioni militari e d’intelligence che possono essere realizzate soltanto con la collaborazione delle autorità locali. Quella della Libia è indispensabile, e non è escluso che sarà necessario, prima o dopo, forzare la mano di coloro che non vorranno collaborare. Piaccia o no la Libia, oggi, è la quarta sponda dell’intera Unione Europa.

Sarà meglio, invece, non contare troppo sull’aiuto degli Stati Uniti. Obama ha deciso di trattare la questione mediterranea con gli stessi criteri con cui molti Paesi dell’eurozona hanno trattato la crisi greca: quanto meno la si aiuta tanto più la si costringe a rimboccarsi le maniche. Questo atteggiamento non dovrebbe dispiacerci. Come la crisi del credito, anche quella dei barconi dovrebbe costringere l’Europa ad affrontare il problema dei profughi non soltanto con uno sforzo finanziario condiviso, ma anche con strumenti unitari. Se la crisi finanziaria ci ha regalato l’Unione bancaria e il meccanismo salva Stati, perché la crisi dei profughi e dei barconi non dovrebbe regalarci una Legione europea, pronta a intervenire là dove la frontiera di Schengen richiede operazioni comuni? È l’unità, in ultima analisi, il mezzo più efficace e persuasivo per affrontare questa emergenza umanitaria. Un’azione comune può essere, per gli scafisti, il migliore dei deterrenti.

Gli stessi criteri valgono per l’Italia. Se Silvio Berlusconi è veramente disposto a sostenere la politica del governo in questa crisi, benvenuto. Vi sono momenti in cui è necessario litigare e ve ne sono altri in cui una nazione esiste soltanto se le sue maggiori forze politiche riconoscono l’esistenza di interessi comuni, più importanti delle loro diverse ambizioni. Una politica condivisa, in questo caso, presenterebbe molti vantaggi: renderebbe più incisiva l’azione del governo, isolerebbe il populismo xenofobo della Lega e le divagazioni opportuniste del M5S, dimostrerebbe che gli odiosi insulti alle vittime, raccolti da Gian Antonio Stella sul web per il Corriere del 21 aprile, non sono la voce dell’Italia.

23 aprile 2015 | 07:55
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_23/litigate-tutto-non-ora-262fd2c2-e97c-11e4-8a77-30fcce419003.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Maggio 10, 2015, 04:19:53 pm »

Dopo il voto in Gran Bretagna
Tempo di ripensare l’Unione europea

Di Sergio Romano

L’ Unione Europea non è una federazione e ciascuno dei suoi membri potrebbe conservare a lungo una parte della propria sovranità. Ma le loro elezioni non sono più esclusivamente nazionali. La sconfitta personale del leader indipendentista Nigel Farage (nonostante il 13% dei voti conquistati dal Ukip) lancia un segnale che verrà raccolto da tutti i partiti populisti del continente; e il mediocre risultato dei liberal-democratici di Nick Clegg parla, in particolare, ai liberali tedeschi. La vittoria dei conservatori ci concerne. David Cameron ha avuto il merito di mettere l’Europa al centro della campagna elettorale e non è sorprendente che il presidente della Commissione di Bruxelles sia stato il primo a indirizzargli un messaggio. Jean-Claude Juncker sa che una delle iniziative del primo ministro britannico, dopo la vittoria, sarà verosimilmente il tentativo di modificare lo status della Gran Bretagna nell’Unione Europea. In altre circostanze Londra avrebbe cercato di ritoccare qua e là, spesso con il benevolo aiuto di altri membri dell’Ue, le regole che non le piacciono.

Ma l’annuncio fatto negli scorsi mesi e la prospettiva di un referendum sull’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione, hanno il merito di rendere europeo ciò che rischiava di frantumarsi in una somma di pre-negoziati bilaterali. Era ora. Quando è entrata nella Comunità, nel 1973, l’Inghilterra ha portato con sé le sue predilezioni liberiste e ha dato un forte contributo alla formazione del Mercato unico. Ma ha preteso un trattamento di favore per la politica agricola e si è spesso opposta a misure che avrebbero comportato una progressiva erosione delle sovranità nazionali. Non avevamo motivo di esserne sorpresi. Sapevamo che Londra, negli anni Cinquanta, aveva contrapposto al disegno europeo di Jean Monnet una grande zona di libero scambio, priva di ambizioni politiche. E non potevamo ignorare che cambiò la sua linea soltanto quando constatò che il suo progetto era fallito.

Venticinque anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando venne in discussione la sorte dei «satelliti» dell’Urss, occorreva decidere se procedere subito all’allargamento dell’Unione o attendere che i vecchi membri collaudassero anzitutto le istituzioni create dal Trattato di Maastricht. La Gran Bretagna si batté per l’allargamento, vinse, ci costrinse ad accogliere in tempi relativamente brevi Paesi che venivano da esperienze molto diverse dalle nostre e guardavano a Washington, per il loro futuro, più di quanto guardassero a Bruxelles. La Gran Bretagna ottenne così due risultati: rese l’Unione meno omogenea e poté contare da allora sull’appoggio di tutti coloro che avevano cercato alloggio nell’Unione soprattutto per considerazioni economiche.

Oggi il quadro potrebbe cambiare. Quando comincerà il negoziato con Bruxelles sapremo con meglio quali siano le preferenze britanniche. Londra è pronta ad accettare che il Parlamento di Strasburgo abbia maggiori poteri? Che il rappresentante europeo per la Politica estera assomigli maggiormente a un ministro degli Esteri? Che il principio della libera circolazione delle persone, sia pure con le cautele imposte dalle minacce terroristiche, venga confermato? Il referendum, quando avrà luogo, sarà utile anche a noi. Sapremo finalmente se e quanto sia possibile contare sulla Gran Bretagna per il futuro dell’Europa. Non è escluso che da quel negoziato emerga la preferenza della società britannica per una sorta di Brexit, vale a dire la conservazione della propria eccezionalità. Ebbene, non sarà una rottura. Abbiamo troppo in comune per buttare via tutto ciò che ci unisce.

9 maggio 2015 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_09/tempo-ripensare-l-unione-europea-1db2b8ba-f60d-11e4-a548-cd8c68774c64.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Giugno 25, 2015, 10:37:45 am »

Le proposte per la Ue
L’europeista riluttante e i suoi amici

Di Sergio Romano

Il rapporto dei cinque presidenti (Consiglio europeo, Commissione di Bruxelles, Eurogruppo, Parlamento di Strasburgo, Banca centrale europea) è quanto di meglio l’Ue abbia prodotto negli ultimi anni. È stato commissionato dai capi di Stato e di governo. Sarà all’ordine del giorno del prossimo vertice. Come ha ricordato Giuseppe Sarcina sul Corriere di lunedì, il rapporto si propone obiettivi utili e ambiziosi. Attribuisce alla Commissione il compito di vigilare sulla competitività dei singoli membri e quindi sul loro mercato del lavoro. Rafforza i vincoli comunitari destinati a evitare le scandalose deviazioni di cui siamo stati spettatori in Grecia e altrove. Vuole che le presidenze dei singoli semestri obbediscano a un’agenda di priorità discussa con il Parlamento. Prevede un meccanismo comune per l’assorbimento degli choc che potrebbe essere affidato al Fondo europeo per gli investimenti strategici. Propone il completamento dell’Unione bancaria nel giro di due anni e l’adozione di uno schema comune per l’assicurazione dei depositi bancari.

Sappiamo per esperienza quale potrebbe essere la sorte del rapporto. Vi è il rischio, come in altre occasioni, che si smarrisca nel labirinto dei litigiosi negoziati fra gli Stati membri e che i suoi obiettivi slittino da un anno all’altro. È sempre possibile che venga costretto ad accettare correzioni e amputazioni che ridurrebbero considerevolmente le sue ambizioni e speranze. Eppure questo «rapporto dei cinque» ha caratteristiche che giustificano qualche speranza. Da qualche anno ormai l’Europa sembra condannata a fare logoranti battaglie di retroguardia. Una buona parte del nostro tempo è impiegata a inseguire il peccatore o il dissidente di turno per correggere i suoi errori, appagare le sue richieste o trattenerlo nella grande famiglia. È comprensibile. Vogliamo dimostrare al mondo e ai mercati che siamo in grado di preservare l’unità, vogliamo evitare che il fallimento di un negoziato susciti scetticismo e sfiducia nell’opinione pubblica europea e internazionale. Ma dovremmo avere compreso, ormai, che ogni negoziato, nella migliore delle ipotesi, è destinato a concludersi con un compromesso. Non sempre i compromessi sono utili e virtuosi. In molte circostanze convincono altri partner che ogni regola può essere tagliata, come un abito sul corpo del cliente. Non è questo, forse, il desiderio della Gran Bretagna o, per ragioni completamente diverse, della Grecia di Tsipras e dell’Ungheria di Viktor Orban? Non è questa la speranza di tutti i movimenti euroscettici che crescono come funghi nella società europea e di cui si servono tutti coloro che vorrebbero sottrarsi a qualche regola dell’Unione?

Se non vogliamo che questo accada, è ora di cambiare strategia. Anziché corteggiare l’amico riluttante, è ora di dirgli con chiarezza che da questa crisi si esce soltanto con una maggiore integrazione. La cancelliera tedesca e il suo ministro delle Finanze lo hanno già lasciato intendere in alcune occasioni con cenni e proposte che meritavano maggiore attenzione. Il rapporto dei cinque presidenti contiene idee che possono disegnare una costruzione europea finalmente unitaria. Sarà allora più facile, tra l’altro, impostare una comune politica estera.
Questo non significa che i Paesi dell’eurozona debbano necessariamente divorziare dagli altri membri dell’Unione. Quanto più decisamente avremo imboccato la strada dell’integrazione tanto più facile sarà concludere con gli altri partner accordi di comune interesse soprattutto in materia di mercato unico. Ma chi vorrà restare nell’Unione dovrà comprendere che possono farne parte soltanto coloro che condividono le sue ambizioni e i suoi ideali.

23 giugno 2015 | 08:01
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_giugno_23/europa-intergrazione-editoriale-sergio-romano-cb6634a8-1969-11e5-9779-e399e180b2ac.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Luglio 30, 2015, 10:25:05 pm »

La svolta ambigua di Erdogan
L’appello di Ankara alla Nato e il rapporto con gli stati islamici

Di Sergio Romano

Per comprendere l’appello che la Turchia ha indirizzato alla Nato, un’organizzazione di cui è stata per molto tempo un membro distratto, conviene tornare all’attentato del 20 luglio a Suruc, una città a 2 chilometri dalla frontiera siriana. In quella occasione l’Isis ha ucciso più di trenta persone e ne ha ferite un centinaio. Erano giovani, in buona parte curdi, che si apprestavano a partire per Kobane, la città che i curdi siriani, negli scorsi mesi, avevano tenacemente difeso contro l’Isis. Ma del gruppo facevano parte anche giovani laici e democratici che nelle ultime elezioni politiche hanno probabilmente votato per l’Hdp, il Partito democratico del popolo.

Il suo leader, il curdo Selahattin Demirtas, non ha esitato a denunciare pubblicamente l’ambiguità della Turchia di Erdogan: un Paese che è membro della Nato, ma non ha fatto mancare assistenza ai guerriglieri dello Stato islamico. Le stesse osservazioni circolavano in Occidente da parecchio tempo. Era lecito essere alleati degli Stati Uniti nella maggiore organizzazione militare dell’Occidente e, contemporaneamente, dare prova di simpatia per un movimento che Washington, alla testa di una coalizione, sta cercando di sconfiggere? Potevano il presidente Recep Tayyip Erdogan e il primo ministro Ahmet Davutoglu accettare senza reagire una violazione della sovranità nazionale turca come l’attentato di Suruc? I l governo turco doveva reagire e lo ha fatto, tra l’altro, permettendo agli americani di utilizzare la base militare di Incirlik per le incursioni dei loro aerei contro l’Isis. Non è certo, tuttavia, che la reazione all’attentato di Suruc annunci una nuova politica turca rispetto a quella praticata negli scorsi anni.

Il rapporto con gli Stati Uniti è cambiato da quando il Parlamento turco, nella primavera del 2003, negò alle truppe americane il permesso di attraversare la Turchia per invadere l’Iraq dal Nord. Il progressivo distacco della Turchia dall’Occidente è divenuto ancora più evidente quando il governo turco, dopo le rivolte arabe, ha sostenuto la Fratellanza musulmana e le sue ramificazioni mediorientali. Sapevamo da tempo che la Turchia aspirava a riconquistare nella regione, con i necessari adattamenti imposti dal tempo trascorso, il ruolo che era stato dell’Impero ottomano sino al suo declino. Ma era difficile immaginare che avrebbe spinto la sua simpatia per la Fratellanza sino alla rottura delle relazioni diplomatiche con il governo del maresciallo Al Sisi. In un momento in cui il mondo musulmano è dominato dal contrasto fra sunniti e sciiti, la Turchia, con una decisione che è allo stesso tempo politica e religiosa, ha scelto, in molte circostanze, il campo sunnita. Forse non è stata interamente complice dell’Isis, ma quando le circostanze hanno imposto una scelta fra lo Stato islamico e il regime filo-sciita del presidente siriano, ha scelto spesso il primo. E quando i curdi hanno dimostrato di essere i più efficaci e coraggiosi nemici dell’Isis, ha assistito senza reagire alla battaglia di Kobane in cui i primi correvano il rischio di soccombere alle forze del «califfo» Al Baghdadi. Non sarebbe giusto ignorare le ragioni dei turchi.

La guerra di George W. Bush in Iraq ha dato il via alla disintegrazione di un Paese che soltanto la dittatura di Saddam Hussein era riuscita, sia pure precariamente, a unificare. I curdi iracheni ne hanno approfittato per creare una provincia autonoma, molto simile a un piccolo Stato; e i turchi hanno colto l’occasione per fare del Kurdistan iracheno un utile partner economico. Ma la rivolta contro il regime di Damasco ha offerto un ruolo anche ai curdi siriani. Da quel momento i curdi, ovunque siano, sono diventati i protagonisti della regione, il popolo che costruiva combattendo, in Iraq e in Siria, il suo diritto all’indipendenza. Non è sorprendente che in queste nuove circostanze i rapporti del governo di Ankara con la propria minoranza turca, apparentemente avviati verso una migliore convivenza, siano rapidamente peggiorati. E non è sorprendente che Erdogan e il suo primo ministro, messi di fronte alla necessità di scegliere il loro obiettivo prioritario abbiano deciso di difendere l’integrità dello Stato. Comprendere le ragioni di un alleato, tuttavia, non significa condividerle. Per l’Europa l’obiettivo prioritario è la sconfitta dell’Isis e i curdi sono, in questa prospettiva, i suoi alleati. Se Ankara chiede alla Nato di essere autorizzata a combattere contemporaneamente l’Isis e i curdi, come sta accadendo in questi giorni, saremo costretti a rispondere che i nemici dei nostri nemici sono i nostri amici.

29 luglio 2015 (modifica il 29 luglio 2015 | 07:25)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_29/svolta-ambigua-erdogan-afd12b14-35af-11e5-b050-7dc71ce7db4c.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Agosto 17, 2015, 06:45:44 pm »

L’editoriale

Libia, gli interessi e i rischi
La possibilità di un accordo e la presenza militare nel Paese africano per vigilare sull’osservanza delle clausole: l’occasione per dimostrare che l’Italia è utile a tutti i suoi partner dell’Unione Europea

Di Sergio Romano

Un accordo sulla Libia è forse meno improbabile di quanto fosse negli scorsi mesi. Molte fazioni sono stanche di combattere. Il Paese ha bisogno di denaro e attende con ansia la ripresa delle esportazioni petrolifere. Il rappresentante dell’Onu, Bernardino León, ha in mano la bozza di un accordo preliminare siglato in Marocco nello scorso luglio da alcune delle parti. La presenza dello Stato Islamico a Derna e i massacri di Sirte, ormai controllata dalle sue milizie, rende l’intesa ancora più necessaria.

Se verrà firmato, tuttavia, l’accordo sarà pur sempre fragile e precario. Non basterà la firma di alcune delle componenti più rappresentative del Paese. Occorrerà una presenza militare autorizzata dall’Onu a cui venga affidato il compito di vigilare sull’osservanza delle clausole concordate, garantire la sicurezza delle istituzioni e la ripresa delle attività produttive, fra cui, in primo luogo, il funzionamento dei pozzi petroliferi. Nel corpo vi saranno truppe di Stati prevalentemente mediterranei, ma occorre un Paese che ne assuma la guida e fornisca il contingente più importante. Non è escluso che questo Paese possa essere l’Italia. Per ragioni storiche ed economiche è oggi il Paese che conosce meglio la Libia, la sua classe dirigente, le sue esigenze. Non può essere considerata direttamente responsabile della sciagurata spedizione del 2011. Può ricorrere alle esperienze e alle conoscenze accumulate dall’Eni negli ultimi decenni.

È pronta a correre i rischi di una operazione che sarà verosimilmente più difficile di quella libanese? Esistono interessi nazionali che dovrebbero spingere il governo ad accettare questa ipotesi? Credo che ve ne siano almeno tre. Il primo è ovviamente economico. Se vi sarà una presenza militare inviata dall’Onu, i pozzi libici potrebbero ricominciare a funzionare e il primo Paese a trarne vantaggio sarebbe l’Italia. Il secondo concerne l’immigrazione. Insieme al corridoio turco, quello della Libia è il percorso preferito dai migranti provenienti dall’Africa e dal Levante. Insieme alla Grecia, l’Italia è la prima tappa per coloro che vogliono raggiungere l’Europa centrale e settentrionale. Una missione militare in Libia permetterebbe di controllare meglio il traffico degli scafisti, di creare le condizioni per accogliere e trattenere i migranti sul suolo libico, di separare quelli che hanno un potenziale diritto d’asilo dalla massa dell’emigrazione sociale.

Il terzo interesse è politico. Nella gestione della crisi del debito greco (l’altro grande problema dell’Unione Europea in questo momento) l’Italia ha dovuto necessariamente limitarsi al ruolo dell’osservatore interessato. In Libia avrebbe una migliore occasione per dimostrare a Bruxelles che il Mediterraneo è la frontiera meridionale dell’Ue, che la sicurezza dell’Italia è la sicurezza di tutti. Non credo che alle Forze armate della Repubblica spiacerebbe recitare questa parte. Hanno fatto buone esperienze in Afghanistan e in Kosovo, avrebbero una carta in più per dimostrare che anche la sicurezza ha un prezzo e che il loro bilancio non può essere trattato come il capro espiatorio della crisi. Non è una questione di «bella figura». È l’occasione per dimostrare che l’Italia è utile a tutti i suoi partner dell’Unione Europea.

17 agosto 2015 (modifica il 17 agosto 2015 | 07:45)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_17/libia-interessi-rischi-9bb59dd8-449e-11e5-a4b6-1d04b76aab6d.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Settembre 11, 2015, 11:31:15 am »

Il commento
Il groviglio di Obama
Gli Usa vogliono sconfiggere il Califfato, ma vorrebbero contemporaneamente sbarazzarsi di Assad, dell’alleato russo e della base di cui dispone sulla costa siriana


Di Sergio Romano

Non posso immaginare che il rafforzamento della presenza militare russa in Siria, annunciato ieri a Mosca, abbia colto Washington di sorpresa. Nelle scorse settimane, dopo le ultime operazioni militari dell’Isis (lo Stato Islamico), la Russia aveva lasciato comprendere che era disposta a collaborare con gli Stati Uniti e le democrazie occidentali contro la minaccia islamista. L’offerta non è stata raccolta. Gli Stati Uniti vogliono sconfiggere il Califfato, ma vorrebbero anche contemporaneamente sbarazzarsi di Assad, del suo alleato russo e della base navale di cui dispone sulla costa siriana. Qualche giorno fa Putin è tornato sull’argomento con una dichiarazione in cui ha annunciato che Assad è pronto a fare nuove elezioni per il rinnovo del Parlamento ed è disposto a governare con la parte «sana» dell’opposizione siriana. Al di là di ogni considerazione sulla credibilità di una tale prospettiva, il messaggio dimostra che Putin continua a rivendicare un ruolo nella crisi siriana e non è disposto a permettere che il presidente Assad venga travolto da una paradossale convergenza tra l’Isis e le democrazie occidentali. Gli Stati Uniti sono contrari.

Washington non vuole Assad, non vuole l’Isis e non vuole Putin nel Mediterraneo. Un tale groviglio di desideri incompatibili sarebbe più facilmente sostenibile se il presidente Obama fosse disposto a impegnare le forze americane sul terreno. Ma esclude anche questa possibilità, forse perché non vuole concludere il suo mandato con una operazione che ricorderebbe, anche se in circostanze alquanto diverse, quella del suo predecessore alla Casa Bianca. Ha un altro piano? Se crede ancora che una guerra, come quella combattuta dall’Isis in Siria e in Iraq, possa essere vinta con i droni, commette probabilmente un errore. E commettono un errore, per le stesse ragioni, quei Paesi occidentali (Francia e Gran Bretagna) che sembrano pronti, pur di provare la propria esistenza, a ripetere la disastrosa esperienza libica. Una voce intelligente e pacata, in questo panorama di vie senza uscita, sembra essere quella del ministro degli Esteri tedesco. Frank- Walter Steinmeier ha chiesto ai russi di rinunciare all’invio in Siria di uomini e materiale militare, e a Francia e Gran Bretagna di astenersi dall’intervenire militarmente; e ha motivato questa richiesta aggiungendo che un tale atteggiamento allontanerebbe la prospettiva di una soluzione negoziata. Tradotta in chiaro questa dichiarazione sembra invitare implicitamente la Russia a farne parte.

Se questo è il senso delle parole del ministro tedesco, molti partner europei potrebbero condividerle; e l’Unione Europea dimostrerebbe di avere nella questione siriana la propria linea, molto più sensata di quella adottata da altri Paesi.

10 settembre 2015 (modifica il 10 settembre 2015 | 07:01)
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_10/groviglio-obama-c4b819ac-5774-11e5-b3ee-d3a21f4c8bbb.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Ottobre 28, 2015, 05:40:39 pm »

Il voto in Polonia e il peso della Storia
La vittoria del partito dei gemelli Kaczynski apre a nuove screzi con Mosca

Di Sergio Romano

L a vittoria nelle ultime elezioni polacche di Diritto e Giustizia, il partito dei gemelli Kaczynski, piacerà a tutti gli esponenti del nuovo nazional-provincialismo europeo, da Nigel Farage in Gran Bretagna a Marine Le Pen in Francia. Il risultato del voto e il possibile ritorno al potere di Jaroslaw, il gemello sopravvissuto dopo il disastro di Smolensk, sembrano dimostrare che nazionalismo, populismo ed euroscetticismo sono ormai i soli caratteri veramente comuni della grande Europa da Dover al Pireo. Eppure vi sono differenze di cui occorre tenere conto.

In Polonia, e per certi aspetti in Ungheria, esistono gruppi sociali che non hanno mai smesso di considerarsi vittime di una storia ingiusta. La Polonia non ha mai dimenticato le grandi spartizioni della seconda metà del Settecento e le sanguinose insurrezioni contro la Russia nell’Ottocento. Quando le circostanze le restituiscono la libertà, come è accaduto dopo la Grande guerra e dopo fine della Guerra fredda, ha quasi sempre ceduto alla tentazione di mirare alla riconquista del potere perduto nelle regioni (l’Ucraina, la Galizia, il Baltico) che appartenevano alla sua area d’influenza. Il caso dell’Ungheria è diverso, ma anch’essa ha un passato regale che condiziona i suoi istinti e le sue reazioni. Persino qualche leader comunista, a Budapest, ricordava privatamente le umilianti mutilazioni territoriali del Trattato di San Germano, nel 1919, quando una parte considerevole dei domini ungheresi divenne cecoslovacca, jugoslava, romena.

Nessuno di questi Stati vittime è privo di colpe e di errori. Anche Polonia e Ungheria sono state in molte circostanze aggressive e tracotanti. Anche la Polonia ha una sua parte di responsabilità nelle convulse trattative che precedettero la dichiarazione di guerra della Germania hitleriana il 1° settembre 1939. Ma i maestri delle scuole polacche, in particolare, non hanno mai smesso di ricordare agli alunni che la loro patria nel corso della storia è stata tradita, umiliata, crocifissa. Il clero cattolico ha recitato la sua parte facendo della Polonia il baluardo della fede di Roma contro quella di Bisanzio. Quando diceva che l’Europa, dopo la morte del comunismo, avrebbe respirato con i due polmoni dell’Ovest e dell’Est, Giovanni Paolo II lasciava comprendere che era giunto il momento in cui i cristiani del grande scisma si sarebbero infine riunificati sotto la guida di un prete polacco.

Questa storia, che i polacchi non smettono di raccontare a se stessi da qualche secolo, ha influito sulle loro scelte politiche. Quando hanno chiesto di aderire all’Unione Europea, non erano probabilmente maggioranza quelli che aspiravano a costruire con altri europei uno Stato federale nello spirito di Spinelli, Monet, De Gasperi, Adenauer. Chiedevano di entrare in un club dove avrebbero trovato, grazie al grande alleato americano, la possibilità di riemergere, magari saldando qualche vecchio conto, come potenza regionale. Per la Polonia, come per altri Paesi dell’Europa centro-orientale, l’alleanza americana conta molto più di Bruxelles e Strasburgo. Sostenuti da Washington, questi Paesi, con l’eccezione della Ungheria di Viktor Orbán, hanno cercato d’indurre l’Ue a fare una politica antirussa; e vi sono in parte riusciti.

Prepariamoci quindi, dopo il successo elettorale di Beata Szydlo e, soprattutto Jaroslaw Kaczynski, a nuovi screzi con Mosca. Ma non dimentichiamo che questi inconvenienti sono il risultato di un allargamento prematuro e frettoloso dell’Unione Europea. Quando si cominciò a parlare delle politiche che l’Ue avrebbe dovuto fare per favorire il ritorno alla democrazia degli Stati post sovietici, Jacques Delors, allora presidente della Commissione di Bruxelles, propose a François Mitterrand la creazione di due organizzazioni di cui la prima avrebbe aspirato a una Federazione e la seconda avrebbe formato con i vecchi membri una grande zona di libero scambio. Finché non saremo riusciti a stabilire una distinzione formale fra chi vuole l’Europa per l’Europa e chi la vuole per altri motivi, l’Ue sarà il peggiore dei condomini: quello in cui una minoranza intralcia il percorso della maggioranza.

27 ottobre 2015 (modifica il 27 ottobre 2015 | 07:30)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_ottobre_27/voto-polonia-peso-storia-57c6ff44-7c71-11e5-8cf1-fb04904353d9.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:24:51 pm »

IL COMMENTO

I rischi dei poteri speciali
La legislazione francese sullo stato d’urgenza conferisce al governo e ai prefetti poteri eccezionali.

Di Sergio Romano

Lo stato d’urgenza, proclamato dal presidente francese la sera del 13 novembre e confermato nel suo discorso al Congresso di fronte alle Camere riunite, non è il Patriot Act voluto da George W. Bush dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001. La legge americana conteneva misure repressive e inquisitive che l’apparato poliziesco degli Stati Uniti chiedeva da tempo; e fu l’occasione per la più brusca svolta illiberale del sistema di sicurezza americano dai primi anni della Guerra fredda. La legislazione francese sullo stato d’urgenza, invece, conferisce al governo e ai prefetti poteri eccezionali.

Sono previsti tra l’altro il coprifuoco, l’interdizione di soggiorno, le perquisizioni domiciliari senza autorizzazione giudiziaria e il coinvolgimento della giustizia militare; ma è un provvedimento eccezionale destinato a durare, probabilmente, non più di tre mesi e già adottato per i disordini nelle banlieue parigine durante la presidenza di Jacques Chirac nel novembre del 2005. È probabile che François Hollande non potesse fare diversamente. Un presidente scolorito, frequentemente punito dai sondaggi e alla vigilia di importanti scadenze elettorali doveva rappresentare se stesso al Paese come un uomo forte e deciso, capace di fare fronte alla minaccia islamista.

Mi chiedo tuttavia se sia altrettanto consapevole dei rischi che si nascondono nella proclamazione dello stato d’urgenza. L’Isis è certamente il più barbaro e crudele dei movimenti jihadisti degli ultimi decenni. Ma non è privo di una strategia. La sua principale esigenza, non meno importante delle armi e del denaro, è il reclutamento. Negli ultimi quindici mesi, secondo alcuni analisti, avrebbe perduto, insieme a una parte del territorio conquistato, non meno di 20.000 combattenti, fra cui parecchi ufficiali. Può continuare a reclutare soltanto se riesce a infiammare l’immaginazione dei suoi giovani «martiri» con lo spettacolo e la narrazione delle sue gesta più audaci e crudeli. Ha colpito Parigi perché nella capitale francese esiste il più grande serbatoio europeo di potenziali volontari. Ha agito spietatamente perché una tale sfida, lanciata al nemico nel suo territorio, suscita ammirazione in molti giovani che vanno alla ricerca di una causa in cui affogare la rabbia e le frustrazioni accumulate nei ghetti delle banlieue di Parigi. La proclamazione dello stato d’urgenza punta il dito inevitabilmente contro le comunità musulmane e i loro quartieri, fa di ogni maghrebino, in molte circostanze e in alcune ore della giornata, l’individuo sospetto che sarà legale fermare, interrogare, perquisire, trattenere.

Non tutti hanno dimenticato la caccia all’uomo nelle strade di Parigi il 17 ottobre 1961 quando alcune migliaia di algerini erano scesi in piazza per protestare contro un decreto del prefetto di polizia che «sconsigliava» ai francesi musulmani di Algeria (come erano chiamati allora) di circolare nelle strade di Parigi fra le 20.30 e le 5.30. La violenza con cui furono trattati dalla polizia e da molti parigini rese la loro indipendenza, un anno dopo, ancora più inevitabile.

La guerra, comunque, si vince soltanto in Siria e in Iraq. L’Isis non è uno Stato, secondo le regole e le convenzioni dell’Occidente, ma ha un territorio, caserme, banche, uffici pubblici, e soprattutto sudditi che attendono con ansia la loro liberazione e che diverranno verosimilmente, il giorno dopo, i migliori alleati dei loro liberatori.

18 novembre 2015 (modifica il 18 novembre 2015 | 08:16)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_18/i-rischi-poteri-speciali-c96afd8a-8dbf-11e5-ae73-6fe562d02cba.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Dicembre 19, 2015, 05:36:07 pm »

Le partite da giocare
Il peso dell’Italia in Europa
Nella politica internazionale il nostro Paese ha caratteristiche che non possono essere ignorate dal resto dell’Europa

Di Sergio Romano

La Commissione europea ha le sue competenze e i suoi comprensibili tic nervosi. Deve evitare di essere considerata parziale e incline a chiudere un occhio, soprattutto quando un caso concerne i partner maggiori, e non ha dimenticato che cosa accadde quando Francia e Germania furono autorizzate a violare il patto di Stabilità. Non esercita la sorveglianza sulle piccole banche, riservata alle banche centrali nazionali, ma è certamente competente quando esiste il rischio che un salvataggio si trasformi in un aiuto di Stato. Non è tutto. L’Italia non sta rispettando gli impegni assunti sul livello del proprio deficit e il suo presidente del Consiglio ha annunciato le nuove spese per la sicurezza con dichiarazioni che a Bruxelles, probabilmente, non sono piaciute. Anche sul problema dell’immigrazione vi sono stati momenti in cui l’Italia è stata accusata di eludere le norme sulla registrazione dei profughi e le regole dell’accordo di Dublino. E generalmente, infine, è uno dei Paesi che più frequentemente è stato denunciato per essersi sottratto agli obblighi comunitari.

Qualcuno potrebbe osservare che vi sono altri fronti, come quello medio-orientale, in cui l’Italia è considerata oggi carente e poco affidabile. È possibile che alcuni Paesi lo pensino. Ma il suo peso in Europa e la sua disciplina comunitaria vengono misurati e pesati su due diverse bilance. Nella politica internazionale l’Italia ha caratteristiche che non possono essere ignorate. È al centro di un mare che è diventato la frontiera più calda e insicura dell’Europa. È il primo dei due valichi utilizzati da coloro che fuggono dalle grandi aree della crisi: Siria, Iraq e Afghanistan. Anche i critici di Mare Nostrum non possono negare che in quella occasione l’Italia, pressoché sola, ha dato una buona prova di solidarietà umana e di capacità organizzative. Non prende parte alle operazioni siriane, ma quale Paese della grande coalizione diretta da Washington può essere certo di avere imboccato la strada migliore? Non ha mai perso di vista il problema libico ed è probabilmente il Paese che lo conosce meglio ed è il più adatto ad avere un ruolo operativo quando vi saranno le condizioni per un intervento autorizzato dall’Onu. Ha conservato buoni rapporti con la Russia, un partner di cui tutti, prima o dopo, capiranno di avere bisogno. E ha una buona rete di relazioni mediterranee.

Anche la Commissione di Bruxelles, quando occorrerà prendere decisioni sui problemi che rientrano fra le sue competenze, dovrà tenerne conto. Dopo le dichiarazioni di principio sulla questione delle banche e del deficit comincerà la ricerca delle soluzioni. L’accoglienza riservata dalla Commissione alla proposta del ministro italiano della Economia (un arbitrato della Consob per valutare quali perdite subite dai risparmiatori delle 4 banche possano essere risarcite grazie a un fondo di solidarietà) sembrano suggerire che quel momento non è lontano.

12 dicembre 2015 (modifica il 12 dicembre 2015 | 08:20)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_12/peso-dell-italia-europa-0d477790-a09e-11e5-8534-5a7dc9969e9f.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Novembre 05, 2016, 10:35:05 am »

DUELLO DI POTERI
Brexit, il dilemma politico per Londra
Se il governo di Theresa May non vincerà il ricorso, assisteremo a un dibattito parlamentare in cui verrà rimessa in discussione l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue
Di Sergio Romano

L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea (un problema che il governo di Londra credeva di potere affrontare con i considerevoli poteri di cui gode tradizionalmente l’esecutivo del Regno Unito) è improvvisamente diventata una imbrogliata crisi politica e costituzionale. Con una sentenza emessa ieri, l’Alta corte britannica non riconosce al governo di Sua Maestà il diritto di avviare il negoziato con la Commissione di Bruxelles senza avere prima consultato la Camera dei Comuni e forse anche quella dei Lord. I referendum britannici sono consultivi e la necessità di una verifica parlamentare sarebbe legalmente giustificata.

Ma il Primo ministro replica che la convocazione di un referendum e i suoi quesiti erano già stati approvati da un voto dei Comuni; non sarebbe necessario quindi interpellare nuovamente i membri del Parlamento. Ma l’Alta corte sembra sostenere che non è possibile modificare i diritti acquisiti dai cittadini britannici nell’ambito della Ue senza un dibattito parlamentare. Vi sarà un ricorso del governo e leggeremo di qui a qualche tempo, verosimilmente, un’altra sentenza. Ma il dramma di cui saremo spettatori nelle prossime settimane non sarà soltanto la prosecuzione di una vicenda ormai nota: se la Gran Bretagna voglia restare nell’Ue o uscirne. Sarà anche un duello fra politica e giustizia. Non sarà il primo nelle democrazie occidentali. Abbiamo assistito a parecchi interventi della Corte suprema americana contro le iniziative del presidente degli Stati Uniti.

Sappiamo che la elezione di George W. Bush alla Casa Bianca nel novembre del 2000 è stata decisa in Florida dall’ordinanza di un giudice della Corte suprema che aveva una evidente simpatia per il partito repubblicano. Sappiamo che il Tribunale costituzionale di Karlsruhe può bloccare per qualche mese la ratifica di un trattato della Repubblica federale nell’ambito dell’Unione europea. Sappiamo che la Corte costituzionale italiana può cancellare una legge elettorale. Ma il caso britannico è quello di un Paese che non ha una carta costituzionale ed è giustamente noto per avere sempre sottratto l’Esecutivo e il Legislativo a condizionamenti esterni. Forse l’errore del Primo ministro David Cameron, quando credette di potere ammansire con un referendum la fazione euroscettica del suo partito, fu di avere somministrato una dose di democrazia diretta a un Paese in cui la democrazia è sempre stata rigorosamente indiretta.

Non sarà facile riparare il guasto provocato dall’imprudenza di Cameron. Se il governo di Theresa May non vincerà il ricorso, assisteremo a un dibattito parlamentare in cui verrà rimessa in discussione l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue.
Secondo calcoli fatti prima del referendum, i partigiani del Remain (quelli che non volevano uscire dall’Unione) erano più numerosi di quelli che volevano uscirne. È possibile che i dubbi dei mercati finanziari sul futuro della City e alcune stime negative sulle esportazioni della Gran Bretagna verso il mercato unico abbiano rafforzato il primo gruppo. Ma non è escluso che molti parlamentari, se dovessero scegliere fra il primato della politica e quello dei giudici, sceglierebbero la politica. La Commissione di Bruxelles, per il momento, potrà soltanto aspettare. Quando verrà il momento dei negoziati, tuttavia, sarà bene evitare concessioni che permettano alla Gran Bretagna di restare nel mercato unico senza rispettare gli altri obblighi dei Trattati europei. Ciò che sta accadendo in queste ore conferma che sarà sempre un difficile compagno di viaggio.

3 novembre 2016 (modifica il 3 novembre 2016 | 21:31)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_novembre_04/brexit-dilemma-8d97fe68-a1fd-11e6-9c60-ebb37c98c030.shtml
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