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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 160158 volte)
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« inserito:: Dicembre 06, 2007, 12:04:33 pm »

6/12/2007
 
Doppia crisi al veleno
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Le spiegazioni possono essere diverse e anche sulle responsabilità si potrebbe discutere a lungo, ma il risultato finale è sotto gli occhi di tutti, incontestabile: le gioiose macchine da guerra del bipolarismo all’italiana sono letteralmente in frantumi. La crisi e il riassetto della prima (la coalizione di governo) hanno come accelerato la dissoluzione della seconda (il polo d’opposizione) e il terreno, adesso, è ingombro di cocci e di veleni che rendono paradossalmente accidentato l’esercizio di entrambe le funzioni: siamo, insomma, più o meno alla paralisi. Le due crisi hanno marciato in maniera parallela e inarrestabile, ed era evidente che l’escalation avrebbe potuto portare a esiti pericolosamente imprevedibili. E infatti, nel giro di un paio di settimane, abbiamo assistito allo sbriciolamento della Casa delle Libertà e ad uno dei più aspri scontri istituzionali della storia repubblicana: l’aperto conflitto tra la presidenza della Camera e quella del Consiglio.

Fermo restando che le ulteriori evoluzioni delle due crisi appaiono del tutto imprevedibili, colpisce il fatto che il loro apice sia stato determinato proprio dalla rottura delle due alleanze considerate fino a ieri tra le più solide nel panorama politico.

L’alleanza tra Berlusconi e Fini, da una parte, e quella tra Prodi e Bertinotti dall’altra. A causare il brusco e doppio allontanamento hanno contribuito, naturalmente, diversi fattori. Sarebbe però pura miopia non vedere come esse segnalino un fenomeno apparentemente inarrestabile: e cioè la crisi di autorevolezza e di credibilità delle leadership che da quasi quindici anni fanno da perno per entrambe le coalizioni. Per Romano Prodi si tratta di un declino annunciato, essendo stato lo stesso premier a comunicare ad avvio di legislatura di sentirsi al suo «ultimo giro» da leader politico. Per Silvio Berlusconi le difficoltà si sono manifestate in maniera meno attesa ma non per questo meno profonda. Da un paio di settimane è il leader di un partito, non più di una coalizione: e non è una differenza da nulla. Naturalmente, in ragione degli effetti concreti che può determinare, gran parte dell’attenzione è calamitata dall’aspro scontro apertosi tra Fausto Bertinotti e Romano Prodi. È senz’altro vero che - al di là dello schema interpretativo che vuole il governo prigioniero della sinistra radicale - il partito del presidente della Camera abbia dovuto accettare decisioni nient’affatto popolari presso il proprio elettorato (dal no alla commissione sul G8 al pacchetto Welfare...). Eppure quella di Fausto Bertinotti è parsa un’escalation quasi studiata a tavolino. Ha cominciato col ventilare un governo istituzionale che evitasse le elezioni in caso di caduta di Prodi; ha continuato evocando «brodini caldi» per un esecutivo «emaciato e malaticcio»; ha concluso sancendo che «questo governo ha fallito», paragonando Prodi - citando Flaiano - a Cardarelli, «il più grande poeta morente». Che ieri il braccio destro del premier a Palazzo Chigi - Enrico Micheli - lo abbia addirittura accusato di «affievolimento del senso dello Stato», magari fa sobbalzare dalla sedia, ma ci può stare.

La domanda più ovvia, a questo punto, sarebbe: cosa succederà adesso? Nessuno può saperlo. È probabile che il governo tiri avanti fino alla già annunciata verifica di gennaio, così com’è possibile che ruzzoli per le scale del Senato, inciampando sul decreto sicurezza, sul pacchetto Welfare o magari sull’approvazione definitiva della legge finanziaria. La sensazione - è chiaro - è che il capolinea sia vicino: e del resto, di fronte alle rapidissime trasformazioni in atto nelle due coalizioni, il governo di Romano Prodi somiglia ormai a un fossile, a quel che resta - insomma - di una fase politica lontana anni luce. Il vero interrogativo, dunque, è quel che l’esecutivo trascinerà con sé nel fragore del prevedibile crollo. Se infatti dovesse seppellire anche la possibilità del varo di riforme che permettano la ricostruzione di un sistema politico ormai terremotato, allora i rischi di una lunga fase di instabilità si farebbero grossi. A danno del Paese, naturalmente. Ma anche della credibilità delle nuove leadership faticosamente emergenti...
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 08, 2009, 04:58:43 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 21, 2007, 06:41:01 pm »

21/12/2007
 
Ma ora il Cavaliere può dire ciò che vuole
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Che la politica abbassi i toni, passando dalla rissa incontrollabile degli ultimi dieci anni a un confronto che permetta almeno di distinguere le proposte degli uni dalle obiezioni degli altri, è esigenza richiamata ormai da tempo. Alle ripetute promesse non è mai seguito alcun fatto: e per rimanere agli avvenimenti degli ultimi mesi, non c’è stata questione sulla quale la polemica non abbia raggiunto e spesso superato toni da bar del porto. È per questo, in fondo, che ha in qualche modo colpito il silenzio nel quale i leader del centrosinistra hanno avvolto la penosa vicenda della telefonata intercettata tra il direttore di Rai Fiction, Agostino Saccà, e Silvio Berlusconi. Silenzio che ha riguardato sia il contenuto della telefonata sia la sdegnata spiegazione che l’ex premier ne ha fornito: «Lo sanno tutti nel mondo dello spettacolo: in certe situazioni in Rai si lavora soltanto se ti prostituisci o se sei di sinistra».

Da Franco Giordano a Walter Veltroni, da Francesco Rutelli a Oliviero Diliberto (passando per lo stesso presidente del Consiglio e tutti gli altri leader dell’Unione) non una parola è giunta a stigmatizzare comportamenti e affermazioni volgari, offensive e poco consone al profilo di un uomo di Stato.

Eppure, per molto meno, in passato si sono spesso levate grida al limite dell’accettabile. Siamo dunque all’alba di un modo nuovo di condurre il confronto politico? Dobbiamo spellarci le mani per applaudire un modo di fare finalmente vicino al sempre citato «stile anglosassone»? È difficile crederlo. E se anche fosse così, si sarebbe partiti dal caso sbagliato.

Non sfuggono a nessuno i motivi per i quali con Silvio Berlusconi, leader del maggior partito italiano, il dialogo sia inevitabile: finché resta in campo - e non ci sono segnali, in verità, che intenda abbandonarlo - non si può prescindere da un confronto con la forza e i valori che rappresenta. Chi ha provato ad attaccarlo (anche all’interno della stessa Casa delle Libertà) ha dovuto fare i conti con un leader dall’ancora salda presa sul Paese. Che con Berlusconi si debba dunque trattare (di legge elettorale e non solo) è del tutto incontestabile: il problema, semmai, sono lo stile, i contenuti e gli obiettivi del necessario confronto. E in questo senso è forse già venuto il momento di darsi una regola e di porre una questione, che può ancora avere il carattere di un interrogativo: c’è forse qualcuno, nel centrosinistra, che pensa che per portare a buon fine il confronto con l’ex premier occorra fornirgli una sorta di salvacondotto che lo metta al riparo da polemiche e obiezioni qualunque cosa faccia e dica?

Nessuno intende dar spazio a malizie e sospetti di alcun genere: che la nuova piccola raffica di intercettazioni e inchieste che ha colpito il Cavaliere, per esempio, possa essere utilizzata per renderlo «più disponibile» al dialogo o che il centrosinistra - sul tema delle intercettazioni e del loro utilizzo - immagini un qualche futuro «scambio di cortesie» tra le parti. Davvero non crediamo che sia così. Ma ancor più incomprensibile, allora, appare l’improvviso bon ton dei leader del centrosinistra nei confronti del caso Berlusconi-Saccà e dintorni. Abbassare i toni della polemica (cosa auspicabile) non può significare perdere la capacità di indignarsi di fronte all’affermazione che in Rai o sei di sinistra o ti prostituisci oppure non lavori. Quella esposta da Berlusconi, infatti, non è una «tesi discutibile»: è un concentrato offensivo. Offensivo per tutti i lavoratori della Rai e per i tanti dirigenti dell’azienda vicini al Cavaliere, chiamati ora a scegliere se considerarsi di sinistra o piuttosto dediti alla prostituzione. Inaccettabile. Inaccettabile come il silenzio che ha accompagnato l’ultima sgradevole sortita dell’ex premier.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 05, 2008, 12:22:33 am »

4/1/2008 (6:58) - RETROSCENA. VELENI E SOSPETTI NEL DUELLO INFINITO TRA EX AMICI

Walter, Franceschini e l’equivoco presidenzialista
 
Il vicepresidente D'Alema e il leader del Pd Veltroni tornano ai ferri corti sulla legge elettorale?
 
Così un'intervista "sbagliata" ha portato allo scontro nel partito

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Come ai bei vecchi tempi. E diciamo la verità: se ne sentiva quasi la mancanza. Walter da una parte, Massimo dall’altra. A tirarsi sciabolate. E’ più o meno trent’anni che va avanti così, nonostante le vacanze assieme a Sabaudia (ricordo lontano e ormai sbiadito, in verità), la comune militanza e l’ineludibile necessità, alla fine, di andar d’accordo o, quanto meno, di trovare un punto di equilibrio tra due idee della politica (e della vita, a dirla tutta) difficilmente conciliabili. Nulla è parso, fino ad ora, poter risolvere una competition che è prima di tutto psicologica: né i decessi a catena dei partiti che li hanno ospitati (prima il Pci, poi il Pds, infine i Ds) né la costruzione di una nuova casa sono riusciti a sciogliere un grumo che sarebbe sbagliato etichettare solo come «rancore». Forse è semplicemente che si conoscono da troppo tempo - e troppo bene - per potersi fidare l’uno dell’altro. E se poi capita che tra l’uno e l’altro ci si metta di mezzo una terza persona, può succedere quel che è successo al malcapitato Franceschini, vice di Veltroni e dunque numero due del Pd.

La sua intervista a «la Repubblica» dell’altro giorno (quella, per intenderci, con la quale ha proposto l’adozione del sistema elettorale francese, con doppio turno ed elezione diretta del presidente) ha scatenato un putiferio sia a destra che a sinistra: ma è soprattutto riuscita, in un sol colpo, a far infuriare D’Alema ed a gettare nello sconforto Veltroni. «E’ una novità clamorosa - ha accusato il ministro degli Esteri - Ha un effetto devastante: per le riforme, per il centrosinistra e anche per il governo... Domando, con tutto il rispetto: siamo impazziti?... Ma poiché so che Walter è un politico accorto, che calcola sempre a fondo le sue mosse, a questo punto qualcosa mi sfugge... Credo, però, che Prodi non sia per niente contento». Sì, è vero, l’intervista è di Franceschini e non di Veltroni: ma è invece a quest’ultimo che D’Alema (con qualche ragione) contesta l’infelice sortita, ipotizzando addirittura che la mossa punti a far saltare il tavolo delle riforme e con esso il governo. Peccato, in tutto questo, che nemmeno al leader del Pd l’uscita del suo vice sia piaciuta granché...

«Diciamo che in alcuni passaggi la formulazione non è stata felicissima», spiega uno dei più stretti collaboratori del leader del Pd. «Naturalmente, noi eravamo al corrente dell’intervista di Dario - continua - ma qualcosa non ha funzionato, perchè nessuno pensa a mettere in pista il sistema francese, sul quale l’intesa è impossibile. Quell’intervista doveva avere il senso di una mossa di interdizione: un modo per dire ad alleati e opposizione, ora che la trattativa ricomincia, che sul piano della mediazione il Pd ha già dato, rinunciando appunto a insistere su quel modello, e che dunque gli altri non continuino a tirare la corda - per esempio sul sistema tedesco - perché rischiano di spezzarla...». Insomma, un mezzo pasticcio. «Non che Walter non consideri il modello francese - e lo ha detto anche di recente - il più adatto al nostro Paese: ma ha chiaro che rilanciarlo adesso - conclude la fonte - significa solo mandare tutto per aria. Evidentemente ci toccherà tornare sull’argomento per chiarire l’equivoco».

Veltroni lo farà in un’intervista nella quale non dovrebbero mancare un po’ di repliche all’indirizzo dell’«amico» vicepremier. Tra le cose che più hanno infastidito l’entourage del leader del Pd, infatti, c’è «il cinismo» con il quale Massimo avrebbe approfittato del mezzo scivolone di Franceschini per attaccare Walter, imputandogli disegni d’ogni tipo. «Fa sorridere D’Alema quando dice “non capisco” oppure “c’è qualcosa che mi sfugge” - spiega lo stretto collaboratore di Veltroni -. In genere è di fronte alle sue interviste che tocca spesso domandarsi cosa c’è dietro e a cosa punti... In realtà, Massimo ha voluto cinicamente approfittare di un equivoco per riprendere uno spazio politico che aveva visibilmente perso. Il tentativo, evidente, è di porsi lui come garante dei partiti minori e dello stesso Prodi». Per dirla tutta - come avrebbe confidato Veltroni a un dirigente del Pd - «è la furbata di uno che ha voluto divertirsi un po’».

Dunque, non resta che vedere in che modo Veltroni ricollocherà nel dibattito in corso la suggestione del modello francese e come risponderà all’«amico» Massimo: se tenterà, insomma, di contenere la tempesta in un bicchier d’acqua o se ne approfitterà per un «franco chiarimento» che rischierebbe però di aprire una sorta di guerra punica all’interno del Pd. Certo, l’ennesimo duello tra Walter e Massimo favorisce il riemergere di ricordi dolorosi. Soprattutto per Veltroni. Sì, la volta in cui D’Alema - era l’estate del 1994 - fu eletto segretario del Pds con un voto degli organismi dirigenti che sovvertì l’esito di una consultazione tra gli iscritti, che a quel posto volevano Veltroni. Ma soprattutto la mai rimarginata ferita del 1998, quando D’Alema sostituì Prodi alla guida del governo attraverso una crisi dai contorni ancora oscuri. Le analogie sono da brivido. Oggi il Professore è di nuovo a Palazzo Chigi, Massimo è il suo vice e Walter il leader del maggior partito della coalizione; nel ‘98 Prodi era a Palazzo Chigi, Walter il suo vice e D’Alema il leader del maggior partito della coalizione. Quando si dice il caso! O quando si maligna che la vendetta è un piatto che va servito freddo...

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 06, 2008, 11:43:29 pm »

6/1/2008
 
Napoli, rinascimento e declino
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Che orgoglio quell’immagine che faceva il giro del mondo. Clinton in tuta che fa jogging su un lungomare fantastico con uno sfondo da favola: un vulcano, un’isola, un golfo, il mare blu... Era Napoli. E non un secolo fa. Estate ‘94, summit degli otto Grandi, la città a lucido, le piazze e i monumenti restaurati, cultura e musica in ogni angolo.

Era il punto più alto di quel fenomeno che, per un motivo o per l’altro, fu chiamato «rinascimento napoletano». Antonio Bassolino governava la città da appena tre anni, ma i risultati si vedevano. Qualcuno ci sentiva puzza di effimero, non gli si fece caso. Infatti che orgoglio quell’immagine che faceva il giro del mondo. Ora in giro per il mondo - metaforicamente e materialmente intendendo - ci sta andando l’immondizia: da quella spedita negli inceneritori tedeschi a quella che tracima per immagini dai siti e dalle tv di tutto il pianeta. Bel colpo, niente da dire.

Naturalmente, non è questione di contrapporre i meriti del «rinascimento» allo scandalo di questa «monnezzopoli», anche perché i protagonisti (anzi, secondo alcuni: il protagonista) grossomodo son gli stessi: i governi di centrosinistra e il sindaco (e poi governatore) Antonio Bassolino. Qui si vorrebbe solo segnalare - mentre la polemica politica, magari, se ne frega e punta e guarda ad altro - la devastante rapidità di un malinconico declino. La parabola di un città senza più simboli e punti di riferimento: mentre è sempre attorno a dei simboli e a dei punti di riferimento che ha fatto leva - nel bene e nel male - per trovar forza e riscattare quel certo orgoglio da città di re e antica capitale. E’ vero, naturalmente dipende dai simboli: ma onestamente ce n’è pochi peggiori di questa monnezza qua.

Perfino annaspando alla cieca nel tunnel degli Anni 80 - le cricche di pentapartito, un sindaco ogni otto mesi, l’impero dei Di Donato e dei Pomicino, dei Gava e dei De Lorenzo - Napoli trovò a che aggrapparsi. Sembrano niente due scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia e una Supercoppa italiana in soltanto quattro anni! Ma intanto Napoli era nel mondo Diego Armando Maradona, e il volto pulito di Ciro Ferrara.

Sembra niente, ma fu comunque meglio di niente. E in fondo c’era dell’altro: perché i teatri off e le sale di registrazione improvvisate nei sottoscala dei quartieri cominciavano a partorire miracoli, che l’era del «rinascimento», poi, avrebbe consacrato. Napoli iniziò a essere anche Massimo Troisi e Pino Daniele, la Nuova Compagnia di Peppe Barra e il teatro di Luca De Filippo, che rinverdiva i fasti del suo grande papà. E poi, sì, certo, era anche la città delle tangenti, di Raffaele Cutolo e della macchina criminale perfetta che diventò la sua Nuova Camorra Organizzata (della quale, a dirla tutta, si sentì una qualche cinica nostalgia negli Anni 90, quando crollato l’impero di don Raffaele, la città fu sepolta dai morti ammazzati nella guerra scatenata da centinaia di clan alla conquista del potere). Si tirava avanti, insomma. C’era del male, figurarsi, tanto male - camorra, poco lavoro - ma anche illusioni a cui aggrapparsi, simboli effimeri magari, però piccole luci in un cielo non ancora tutto nero.

Le luci. Quelle che il ricambio politico accese, accecando la città, all’indomani di Tangentopoli. Fu lo sfavillìo del «rinascimento napoletano». Guardate il restauro di Palazzo Reale! E ammirate la magnificenza di piazza Plebiscito! E poi i lampioni di via Caracciolo, il mare, turbinii di feste, i nuovi registi alla Mario Martone, aria nuova, aria nuova. Il «rinascimento» finisce sulle copertine dei settimanali di mezzo mondo, i giornalisti occupano gli alberghi del lungomare per dire dell’ennesimo «miracolo napoletano». La città ritrova orgoglio e angoli di sfarzo da antica capitale.

Quando uno dopo l’altro arrivano in visita a Napoli Bill Clinton, il Papa e la regina Elisabetta è l’apoteosi. Qualche élite intellettuale storce il naso, perché mentre la festa continua la città è sottoposta a una deindustrializzazione selvaggia. Si sussurra un’accusa: demagogia dell’effimero. Ma Napoli regge ancora, ha bellissime cose di sé da mandare in giro per il mondo e ne è fiera: anche se si intuisce che la città affanna e che sotto i lustrini niente. Sia come sia, Bassolino si passa il testimone e viene rieletto sindaco; poi lo passa a Rosetta Iervolino, che malvolentieri se lo ripassa ed eccoci qua. Qua vuol dire sotto questo cumulo di monnezza. E poichè monnezza chiama monnezza (camorra, tangenti, scaricabarile) qua vuol dire sotto una montagna gigantesca di rifiuti solidi e politici, di macerie sociali, di illusioni triturate. Com’è successo? Si prova a ricostruire, ma è peggio, è il solito tiro di accuse incrociate. E non è che prima di arrendersi all’idea che Napoli nel mondo oggi sia soltanto una discarica, qualcuno non avesse pensato ad una controffensiva. Anche solo un diversivo, magari.

«Porca miseria, cominciamo a dire che Napoli è anche...». E’ anche? Lavezzi non lo conosce nessuno, e poi non sarà mai Maradona; Massimo Troisi è morto che sono dieci anni e più; vertici internazionali non è nemmeno il caso di parlarne; Pino Daniele s’è trasferito dalle parti di Formia e di Peppe Barra non frega quasi più niente a nessuno. Ci si sforza, si riflette. E diamo pure la colpa a quelle immagini in tv, ma non viene in mente altro che monnezza. Una diffusa e nauseabonda monnezza.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 17, 2008, 03:13:21 pm »

17/1/2008 (7:9)

Nel Granducato di Ceppaloni

«Sapete chi gli ha votato contro? Chi ha avuto solo quattro favori»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A CEPPALONI


E quando se le dimenticano più, quelle immagini, qui nella valle del Sabato, anzi, per essere più precisi, qui a Ceppaloni? Sandra e Clemente a New York. Meglio: Sandra e Clemente sulla Quinta Strada! Belli come il sole, in piedi in una Maserati Ghibli bianca senza capote, proprio come John e Jackie, o come Hillary e Bill. E mica un secolo fa... Era l’ottobre scorso, il 9 ottobre, giorno della sfilata per il Columbus day: e Sandra e Clemente erano lì che rappresentavano l’Italia. Lui con la fascia, lei con la bandiera. Peccato per quei dieci giovinastri, tifosi di Beppe Grillo, spuntati da dietro le transenne per urlargli «dopo De Magistris trasferisci anche noi». Ma loro comunque erano lì, che rappresentavano l’Italia. E Ceppaloni, s’intende, prima di tutto.

Che sarebbe questo paesone, residuo dell’Italia degli Anni 70 e 80, che è tutto un saliscendi tra le colline, e sul quale Clemente Mastella regna in pace da almeno trent’anni in qua. I paesani gli vogliono bene. Anche perché, primo: non hanno motivo per non volergliene; e secondo, chi glielo fa fare? Clemente è stato «il deputato», poi è stato «il sindaco», ora è sindaco, deputato e ministro assieme: ma è prima di tutto un amico, uno che se può dare una mano, la dà. «Sapete chi è che qua gli ha votato contro? - va spiegando in un piccolo bar Mario Tranfa, cugino di Clemente -. Quelli ai quali, dopo quattro favori già fatti, al quinto ha detto no». E pare che sia proprio così. La cortesia di Sandra e Clemente, del resto, è proverbiale. La dote, si dice, sarebbe più di lei che di lui, ma che importa. Quello che conta è che alla fine sono gentili, una parola per tutti, un pensiero per ognuno. E anche un regalo: che è certamente una sciocchezza, ma può rendere in miniatura l’idea di cos’è, più o meno, il sistema Mastella.

Natale 2005: diciassettemila euro in torroncini da regalare in giro per l’Italia, e a Ceppaloni prima di tutto. Torroncini acquistati qui, s’intende: a San Marco dei Cavoti, a Summonte, in zona, insomma, che è pure meglio, così i soldi restano tra noi. I soldi, appunto: provenienti dai finanziamenti pubblici destinati al giornale di partito, «Il Campanile» (come rivelato da un’inchiesta de l’Espresso). Però i cesti li prepara la signora Sandra con le sue mani, e li sceglie lei: millecentocinquanta euro solo per quelli, come da fattura del Cis di Nola, e fa niente che i soldi fossero sempre quelli dei finanziamenti a «Il Campanile». Come a dire che quasi quasi i regali agli amici di Ceppaloni li facciamo noi...

Però, appunto, t’inerpichi sulla stradina che porta alla casa di Clemente e di Sandra - cancello scuro, colonne rosso pompeiano, una telecamera, due cipressi alla fine del vialetto d’ingresso - t’inerpichi e pensi che questo è. Qui non c’è il craxismo, questa non è Tangentopoli e non c’è nemmeno la cupezza imposta da certi patti tra la politica e la mafia: il sistema Mastella è un’altra cosa. Lui ha tenuto in vita, qui, una fiammella in attesa che la tempesta passasse, dopo che il grande fuoco sembrava spento: a Ceppaloni il clientelismo non è finito mai. È vero: sta tornando alla grande quasi ovunque. Ma qui non era finito mai. Per questo, forse, è un clientelismo che sa d’antico: niente maxitangenti e niente affari su grandi appalti, però il posto di lavoro te lo trovo, la promozione te la faccio avere io, a quell’incarico là ci mettiamo un uomo mio. Questo, per altro, sembrerebbe venir fuori dall’inchiesta su Sandra e Clemente: comandiamo noi e a quell’Asl o a quella presidenza ci metti chi diciamo noi.

Non è che sia meno grave, intendiamoci: in fondo, il sistema Mastella, su scala maggiore, è quello che ha avvolto per decenni l’Italia - soprattutto qui al Sud - in una spira soffocante di inefficienza e sprechi, di moltiplicazione degli incarichi, mazzette, buchi di bilancio e tutto il ben di Dio che la Seconda Repubblica ha ereditato. Però qui Clemente non è odiato, come a un certo punto è stato odiato Bettino a Milano; e ne pronunciano apertamente il nome, non come in paesi dove certi nomi conviene non farli. E’ meglio o è peggio? Anzi, per esser precisi: è più sopportabile, visto che non girano maxitangenti e non ci sono morti ammazzati? «È na’ fesseria... Una settimana e passa tutto...», assicura la donna del piccolo bar sulla piazza, intitolata a un vecchio sindaco del paese. «La signora Sandra, poi, è così gentile che ci manca già...».

Verso le tre del pomeriggio, il portavoce della signora Sandra (è pur sempre presidente del Consiglio regionale campano) esce dalla casa nella quale deve stare rinchiusa e dice ai tanti giornalisti: «Sandra si rammarica di non potervi invitare come al solito a pranzo...». Alle cinque esce di nuovo e porta tè e biscotti al cioccolato: «Ha telefonato Bassolino e poi credo Prodi, quasi sicuramente Berlusconi... Ma hanno chiamato in centinaia, non saprei». La signora Sandra ha risposto a tutti con cortesia e gratitudine sincera: e viene da chiedersi cosa debba esser successo da farle urlare infuriata al telefono - come alcune intercettazioni rivelerebbero - «quello per me è un uomo morto».

Clemente magari lo sa, perché si conoscono da una vita ed è una storia lunga e bella, quella con e Sandra. Lui giovanotto che studia qui, lei ragazzina che va e viene da Long Island. Un giorno si conoscono (ed è naturalmente un 14 febbraio, San Valentino), un lungo fidanzamento e poi il matrimonio, che tra due mesi fa 35 anni. Lui entra in politica e sale gradini, diventa deputato, sta con De Mita; lei fa la volontaria per la Croce Rossa, e anche lei sale gradini. Fino a diventare presidente del Consiglio regionale campano: e anche lì, però, quante polemiche sulla moltiplicazioni delle auto blu e delle commissioni, proliferazione di nuovi e di segreterie. «Non ci penso nemmeno a dimettermi», ha chiarito ieri mattina mentre - surreale com’è giusto che sia - Clemente si dimetteva da ministro a Roma per il provvedimento di carcerazione domiciliare inflitto a Sandra, e a Sandra quel provvedimento nessuno l’aveva ancora comunicato.

Ma naturalmente non è solo questione di Sandra: la questione è che a lui hanno anche decapitato l’intero Udeur campano, che è come tagliare i capelli a Sansone. La bufera, evidentemente, non era passata. Oppure è ripresa. Un vero guaio per il sistema Mastella. In più, ci sono i guai di Roma, con quegli sbarramenti nella legge elettorale. E stavolta, ironia della sorte, non gli è nemmeno di conforto aver affianco Sandra. Perché è vero che si sono promessi di star vicini nella gioia e nel dolore: ma a un dolore così, forse nemmeno l’officiante avrebbe mai pensato...

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 18, 2008, 03:31:19 pm »

18/1/2008 (7:11) - IL COLLOQUIO CON IL LEADER DELL'UDEUR

"Mai più con Di Pietro Il Pd mi ha scaricato"
 
Lo sfogo di Clemente Mastella: «Io mi dimetto, Pecoraro che ci ha riempito di rifiuti invece resta»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A CEPPALONI


L’auto avanza a fatica, provando a scansare i sit-in di protesta, colorati da striscioni, cartelli e bandiere gialle dell’Udeur.
Clemente Mastella ha appena finito la lunga conferenza stampa ma è ancora un fiume in piena. Osserva le centinaia di cittadini scesi in piazza per solidarizzare con lui e con la moglie Sandra: «Trecentomila voti alle ultime regionali, ecco cos’è l’Udeur da queste parti. Un partito che raccoglie consenso, non una banda di pedofili o di spacciatori. E mia moglie è una persona perbene. Ho avuto la solidarietà di Scalfaro, una lettera affettuosa da Cossiga. Poi le telefonate di Andreotti, di tanti vescovi e forse quella più bella, quella di Franca e Carlo Azeglio Ciampi. Secondo lei la signora Franca e il presidente telefonerebbero a un delinquente?».

Ci sono cose che in una conferenza stampa non si possono dire e in un’auto che affanna nel traffico invece magari sì. Sensazioni. Sospetti sgradevoli. A volte fatti interpretabili ma non sufficienti come prova. Poi, delusioni per certe mancate solidarietà politiche: e la tentazione è fare due più due. Certo, per Mastella è anche un modo di difendersi. Ma vale la pena ascoltare, per esempio, certi ragionamenti sugli «alleati» del Pd. Dice: «La mattina che mi sono dimesso, mi hanno lasciato solo: nemmeno un vicepremier. E la sera non hanno mandato in tv nessuno a difendermi. Del governo c’era Di Pietro: un mio nemico. È per questo che quando stamattina m’ha chiamato Fioroni gli ho detto: “Beppe, tu mi dai la solidarietà ma intanto ieri sera a Porta a Porta vi siete sfilati tutti, una vergogna”...».

E se ne è andato dall’Udeur per passare appunto al Partito democratico l’uomo - Sandro De Franciscis, presidente della Provincia di Caserta - che Mastella considera forse il regista di quella che a lui pare una macchinazione: l’inchiesta che lo riguarda e che ha portato all’arresto di sua moglie Sandra: «E voglio dire una cosa, come semplice osservazione, perché è anche un amico mio: ma a Totò Cuffaro lo stanno processando per mafia, ed è rimasto libero; a Sandra l’indagano per concussione e l’arrestano». La tesi - è chiaro - è che si intenda disintegrare l’Udeur e lui stesso. E’ come un’ossessione: «Io guardo i fatti. O con i partiti unici o con gli sbarramenti elettorali o con le campagne contro di me o con le inchieste giudiziarie... A me pare che ci vogliono eliminare. Me e naturalmente a Sandra. Tutti sanno che De Franciscis vuole candidarsi a governatore della Campania: e chi è di stimato, apprezzato e pulito che può ostacolargli la strada? Sandra. E guarda che succede...».

Non si conoscono indagati eccellenti che, prima o poi, non arrivino a giocarsi la carta del complotto: ma l’ex ministro della Giustizia dice di elencare solo fatti. Con una premessa. «Io non so che succederà per il governo di Roma. Ci sono tante incognite... Però una cosa gliela posso dire: io in un governo con Di Pietro non ci posso stare più. Un signore che si permette di attaccarmi e che intanto ha fatto avere al giudice di Brescia che lo prosciolse un incarico da tre milioni di euro in faccende di autostrade... Per non parlare di Pecoraro Scanio: io mi dimetto per un avviso di garanzia. Lui ha seppellito la Campania di rifiuti e resta al suo posto». E svolta, chiamiamola così, questa premessa, i fatti: «Con me hanno provato di tutto. Mi hanno indagato un figlio per Calciopoli, ed è stato prosciolto; hanno intercettato i telefoni di tutti i miei familiari per mesi; una volta che incontrai per caso Lele Mora al “Bolognese” mi pedinarono e andarono a controllare se avesse pagato il conto per me. Adesso ci riprovano. Ma io sono una persona perbene, uno che è uscito pulito da Tangentopoli e dopo trent’anni di politica ha avuto solo due avvisi di garanzia: per le faccende del Calcio Napoli!».

L’idea che Mastella ha della politica - dei suoi limiti, delle sue regole, della sua etica - è elementare, ed era emersa bene già nella conferenza stampa di un’ora prima: «Ci indagano o ci arrestano - aveva detto - per telefonate fatte per reclamare una presidenza oppure raccomandare qualcuno. E’ diventato un reato. Allora io vi chiedo questo: ora l’Udeur è fuori dal governo ma nella maggioranza, se io chiamo Prodi e gli dico “però vorrei la presidenza della Rai” oppure di qualunque altra cosa, ecco, questa che cos’è concussione o logica politica?». Ed è per logica politica, dunque, che Sandra e Clemente si sono infuriati con De Franciscis quando ha cominciato a nominare «persone sue» di qua e di là fregandosene dell’Udeur: «E’ per questo che Sandra lo detesta. E’ per questo che ha detto al telefono: “Per me quell’uomo è morto”. O qualcuno pensa che volesse assoldare un killer?! E guarda caso ci aprono un’inchiesta che decapita il partito e fa finire mia moglie agli arresti domiciliari. E chi è il capo della Procura che ci indaga? Un parente di De Franciscis...».

Mastella ha parlato anche col cardinal Ruini. «Una telefonata affettuosissima». Domenica porterà i suoi deputati e senatori a Piazza San Pietro per star vicino al Papa. «Lo sa perché sono stati arrestati i miei consiglieri regionali? Per aver presentato un’interrogazione per saperne di più di certe nomine di De Franciscis, e nell’ordinanza i giudici hanno scritto che serviva “per isolarlo politicamente”. Poi dicono che la gente ce l’ha coi giudici. Ma le pare che un magistrato si deve mettere a sindacare le iniziative politiche mie o di un altro?».

Iniziative politiche. Anzi, la politica. Alla quale, nella filosofia di Clemente Mastella, tutto è concesso o quasi: «Non prendere le tangenti, però. E prima di tutto perché, come m’hanno insegnato i miei genitori, quello è peccato». Ma il resto sì. Raccomandare, far promuovere, far assumere non è peccato. Del resto, e l’aveva detto in conferenza stampa, bisogna pure saperlo fare: «Se raccomando qualcuno, raccomando uno bravo. Prendi un primario d’ospedale: a me conviene che sia bravo, perché se poi ho un incidente stradale e quel primario non mi salva, quando vado dal Padreterno, lui mi dice: “La colpa è tua, l’avevi raccomandato tu”!». In sala si ride: chi è che non è stato o non ha raccomandato? Ora, però, pretendere una presidenza o la promozione di qualcuno a primario porta in galera. Benissimo, era ora. Ma che non finisca come col calcio, dove, per una trattenuta in area, il rigore a qualcuno lo danno e a qualcun altro no...

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 22, 2008, 12:28:24 pm »

22/1/2008
 
L'ombra delle urne
 
FEDERICO GEREMICCA

 
L’epilogo, improvviso anche se non certo inatteso, ha sorpreso perfino Umberto Bossi, leader dal fiuto solitamente buono, che ancora ieri su Libero assicurava: «Prodi non è bollito... il governo non cade questa settimana». E invece da ieri pomeriggio la crisi è politicamente aperta, in ragione della scelta compiuta da Clemente Mastella. Ci si attendeva un capitombolo dell’esecutivo per uno sgambetto di Lamberto Dini o per uno dei tanto evocati «incidenti di percorso» al Senato, dov’era già pronta una insidiosissima mozione di sfiducia verso il ministro Pecoraro Scanio. Alla fine, invece, è stato l’uomo dei penultimatum - lo spesso sbeffeggiato Mastella - a giocare d’anticipo: «Dico basta. L’esperienza politica del centrosinistra è conclusa». Una mossa che ha colto tutti in contropiede, ma non Romano Prodi. Alle otto della sera, infatti, Palazzo Chigi ha voluto far sapere: «Ci aspettavamo una sorpresa. Per due giorni Mastella non si è fatto trovare».

Stamane il premier parlerà nell’aula di Montecitorio della situazione determinatasi, ascolterà il dibattito che si svilupperà e trarrà le sue conclusioni. Prodi potrebbe salire al Quirinale a rassegnare le dimissioni già in mattinata oppure percorrere per intero la via della parlamentarizzazione della crisi, attendendo il voto della Camera (dove il governo ha la maggioranza anche senza l’Udeur) su una mozione di fiducia per poi decidere se salire al Colle o procedere ad analogo passaggio anche nell’aula di Palazzo Madama.

Comunque sia, il dado sembra ormai tratto: a diciotto mesi esatti dalla sua nascita, il governo di Romano Prodi affonda nella crisi, lasciando temporaneamente il campo a uno scenario fatto di assoluta confusione.

E occorre dire che di questa confusione la giornata di ieri è stata specchio allarmante e fedelissimo. Apertasi con già sul groppone l’eredità delle ultime settimane - dalle immagini della spazzatura napoletana in giro per il mondo al ministro della Giustizia indagato dalla magistratura - ha vissuto di due avvenimenti distinti per gravità ma ugualmente preoccupanti. Il primo è l’esplicito e inedito scontro frontale tra il governo italiano e la Santa Sede intorno alle ragioni che hanno spinto Benedetto XVI a rinunciare alla sua visita alla Sapienza; il secondo è il triste panorama emerso dal rapporto 2008 dell’Eurispes, che segnala il crollo verticale di credibilità presso i cittadini praticamente di ogni tipo di istituzione. Entrambi gli avvenimenti sono passati in secondo piano dopo l’annuncio di crisi fatto da Mastella: ma sarebbe un errore gravissimo destinarli al dimenticatoio, non foss’altro perché è precisamente da questioni così che qualunque altro futuro governo dovrà ripartire.

Già, ma quale governo? E in questa stessa legislatura o dopo nuove elezioni politiche? Nessuno, al momento, è in grado di avanzare previsioni che abbiano un minimo di attendibilità, considerato il gran intreccio di questioni sul tappeto e la varietà di interessi divergenti tra maggioranza e opposizione, e addirittura all’interno dei due stessi schieramenti. Andare a elezioni anticipate significherebbe far slittare il referendum di un anno, gettare nel cestino ogni ipotesi di riforma elettorale e tornare al voto con una legge considerata unanimemente fattore di instabilità e ingovernabilità: eppure Berlusconi - e non solo lui, in verità - ha già annunciato che «è urgente dare la parola ai cittadini». Non imboccare quella via, al contrario (ed escludendo la riproposizione di un governo di centrosinistra) vorrebbe dire tentare la costituzione di un esecutivo tecnico o di garanzia del quale, al momento, pochi vedono le condizioni.

Il rischio, insomma, è quello di una crisi confusa e dai tempi non brevissimi: precisamente il contrario di quello di cui il Paese ha bisogno oggi. Per questo il lavoro che attende il Quirinale - notaio e arbitro della crisi - non si preannuncia affatto semplice. La speranza è che, giunte a un passo dal baratro, le forze politiche di maggioranza e di opposizione recuperino un minimo di concordia e, di conseguenza, un comportamento che non renda devastante il bilancio di una legislatura non certo cominciata nel migliore dei modi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 31, 2008, 04:33:10 pm »

31/1/2008
 
Niente pasticci
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Era già qualche giorno che nei palazzi della politica si sussurrava che se c’è un uomo che può tentare di portare il Paese fuori dalle secche della crisi, quest’uomo è Franco Marini. E non soltanto, si badi, per le sue riconosciute (e sperimentate) capacità «trattativiste» o per la cordialità che contraddistingue i suoi rapporti personali con molti leader della Casa delle libertà («È un amico - ha spiegato ieri Cesa, a nome dell’Udc -. Vedremo cosa ci dirà»). La sua forza, infatti, è soprattutto nell’essere la seconda carica dello Stato: e questo dovrebbe rappresentare - nelle intenzioni del Presidente della Repubblica, che gli ha ieri affidato il delicato incarico - una garanzia sia rispetto alla serietà e alla credibilità della missione cui è chiamato, sia rispetto ai timori dell’opposizione che paventa trucchi, tecniche dilatorie e magari soluzioni instabili o peggio ancora pasticciate.

Il messaggio che il Quirinale ha inteso trasmettere con la scelta di Franco Marini è dunque duplice: si ritiene che vi sia la possibilità di raggiungere un accordo sulla legge elettorale (e dunque di far nascere un nuovo governo), altrimenti non sarebbe stata chiamata in campo la seconda carica dello Stato; e la seconda carica dello Stato non può esser nemmeno sfiorata dal sospetto di prestarsi a giochini di qualunque tipo o di puntare ad approdi fragili e insicuri. Questa è dunque la premessa.

E del resto, il fatto che sia impossibile pensare al varo di un esecutivo dalla maggioranza risicata e mutevole è insito nell’obiettivo stesso affidato all’eventuale nuovo governo: riformare la legge elettorale prima di riportare il Paese alle urne.

Sarebbe assai discutibile, infatti, se dopo mesi spesi a sostenere la necessità che la nuova legge elettorale sia cambiata col concorso di una larga maggioranza di forze politiche (lo ha detto Prodi, lo ha detto Veltroni, lo ha affermato lo stesso Marini) si finisse invece per affidare questo compito a un esecutivo che dovesse reggersi solo grazie al pentimento di qualche «dissidente» della vecchia maggioranza e magari a qualche parlamentare in uscita dall’Udc. Un simile governo, infatti, oltre a riportare il Paese nel clima ansiogeno - e dunque scarsamente produttivo - degli ultimi mesi di vita del gabinetto Prodi, sarebbe esso stesso la garanzia più solida che l’obiettivo per il quale nasce non verrebbe mai raggiunto. E ci troveremmo di fronte, insomma, quasi a un tradimento del mandato ieri conferito dal Quirinale.

Non è pensabile, nonostante le pressioni non siano scarse, che Franco Marini possa mettere la propria autorevolezza al servizio di un così discutibile obiettivo: ma non è forse inutile ripetere che l’unica condizione che giustificherebbe la nascita di un esecutivo all’altezza del compito da affrontare (e dunque non di un governicchio) è che esso possa godere del sostegno anche delle maggiori forze d’opposizione. Tocca naturalmente al presidente del Senato verificare - appunto - l’esistenza di una simile possibilità. E si deve presumere che se alla fine Marini ha accettato l’incarico «finalizzato» conferitogli da Napolitano, ciò non sia dovuto solo al suo riconosciuto senso dello Stato, ma anche alla convinzione di avere qualche buona carta da giocare.

Quali siano queste carte non è difficile da immaginare. Innanzitutto la garanzia che, varata la riforma, si torna alle urne senza inutili giri di valzer; quindi, l’assicurazione che in assenza di un’intesa larga sulla modifica della legge elettorale non sarà lasciato spazio a soluzioni di basso e incerto profilo; infine, la convinzione che esista la possibilità di tradurre in norma o l’accordo che Veltroni e Berlusconi avevano di fatto raggiunto tramite i loro «tecnici» (Vassallo e Quagliariello) delegati alla trattativa oppure un’intesa frutto dell’elaborazione delle cosiddette bozze-Bianco. È chiaro che è quest’ultimo punto che deciderà la vita o la morte della legislatura. Per dirla in chiaro: senza un’ampia intesa sulla riforma, il nuovo governo non nasce. Se un largo accordo invece venisse raggiunto, un esecutivo Marini potrebbe prendere il largo, a prescindere da quali e quante forze dell’opposizione decidessero alla fine di sostenerlo col sì oppure di astenersi.

Missione ad alto rischio, dunque. O addirittura «missione impossibile», come si è sostenuto. Ma Marini ci prova. E se i numerosissimi appelli a un’intesa che eviti il voto non servono a far maggioranza al Senato, certo potrebbero indurre a qualche ripensamento. Questa, almeno, è la speranza del presidente incaricato. Altrimenti la parola passa alle urne: evento traumatico e magari dannoso per il Paese, ma del quale - in fondo - non c’è motivo d’aver paura.
 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 09, 2008, 11:36:44 am »

9/2/2008
 
Il giorno della svolta
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Si potrà discutere all’infinito su quanto ci sia di genuina convinzione e quanto invece di forzosa necessità nelle importanti novità politiche maturate nella giornata di ieri: Veltroni che conferma di fronte ai leader della Cosa Rossa la scelta di presentare il suo Pd da solo alle elezioni; Berlusconi - soprattutto - che lo insegue mettendo in pista il Popolo delle Libertà (nelle cui liste accoglierà Fini, un po’ di partitini ma non Bossi e Casini, per ora); Pezzotta, Tabacci e Baccini che varano - forse nel momento più difficile - la loro Rosa bianca. È del tutto legittimo, dicevamo, interrogarsi sulle ragioni e sulla profondità di queste svolte.

Ma due annotazioni sono possibili fin da ora. La prima è che, quasi rispondendo ad una delle critiche più feroci mosse alla politica dalla cosiddetta «antipolitica», il sistema si è mosso verso una decisa (per ora) semplificazione della propria geografia; la seconda è che molto di quanto sta accadendo non può non esser fatto risalire - come all’epoca i più attenti osservatori già pronosticarono - alla nascita del Partito democratico, voluto da Prodi e da Veltroni. È possibile che nei prossimi giorni altre «scosse di assestamento» stabilizzeranno e definiranno con maggior precisione il quadro delle forze in campo e delle alleanze che verranno stipulate in vista del voto del 13 di aprile. Ma molti segnali sembrano dire che, a differenza di quanto poteva apparire ancora solo dieci giorni fa, la partita elettorale è riaperta.

Se la sostanza delle scelte non muterà, infatti, si fronteggeranno (alla conquista del premio di maggioranza) il Pd di Veltroni da un lato e il partito-listone di Berlusconi e Fini dall’altra, col sostegno della Lega che dovrebbe esser loro federata. La Cosa rossa di Bertinotti e la Rosa bianca probabilmente finiranno per fare corsa a sé, mentre ha del malinconico la parabola di Casini e di Mastella, vecchi amici alle prese col duro ultimatum loro imposto dal Cavaliere. Logica vorrebbe che i centristi (Udeur, Udc e Rosa bianca) si unissero in un unico soggetto politico, per semplificare ulteriormente il quadro e avere una chance di superare le soglie di sbarramento (4% alla Camera e il doppio al Senato): ma non è detto che la logica prevalga sulle ambizioni personali e su una ricerca di visibilità che pare il cascame di un’epoca che potrebbe davvero avviarsi a conclusione.

Quel che sembra sottendere le scelte di Veltroni e Berlusconi (naturalmente diverse per profondità di maturazione e per tempismo) è infatti una straripante insofferenza verso i «ricatti» dei piccoli partiti, capaci di far interdizione e di impedire - con il loro due o tre per cento - tanto l’azione di governo quanto addirittura un’efficace politica di opposizione. Prodi è caduto per questo, in fondo. E per la stessa ragione, Berlusconi ha dovuto rinviare a lungo la nascita del suo Popolo delle Libertà. I due leader, per dirla in parole semplici, sembrano essersi stufati dell’andazzo e hanno deciso di cogliere l’occasione del voto per andare ad una sorta di resa dei conti che sta ridisegnando la geografia politico-elettorale del Paese. È un bene. Resta però da chiedersi - se questi erano lo stato d’animo e la direzione del processo da avviare - perché si sia persa l’occasione (e qui la responsabilità è soprattutto del centrodestra) di varare una legge elettorale che favorisse accorpamenti e semplificazione del quadro politico.

Infine, un’ultima questione. Dicevamo all’inizio che, in entrambi i campi, sembra avviato un processo che pare andare oggettivamente incontro ad una delle richieste più pressanti arrivate dal cosiddetto «movimento dell’antipolitica», ma più in generale da osservatori politici e cittadini qualunque: la riduzione della frammentazione partitica. È certo un bene, ma non è sufficiente, perché l’altra e ancor più forte sollecitazione era e resta quella di un profondo rinnovamento delle classi dirigenti: basta con le stesse facce di sempre, basta con i soliti nomi, basta con quella sorta di gerontocrazia politica (e non solo politica) che regge il Paese da un tempo immemorabile. Sarebbe assai utile se, in questa fase che prepara profondi rivolgimenti, Veltroni e Berlusconi mettessero mano anche a questo problema.

La via c’è, è pronta per esser percorsa ed è quella del rinnovamento a partire dalle liste elettorali. Il leader del Pd ha annunciato di volerla percorrere, Berlusconi - invece - ancora non si è espresso, essendo alle prese con altri problemi. Sappiano d’essere entrambi attesi alla prova delle candidature: e attesi non da questo o quel commentatore ma da cittadini che sperano di potersi recare alle urne e non dover votare, ancora una volta, i soliti noti. Ecco, se la riduzione della frammentazione sarà accompagnata da un serio rinnovamento del personale politico, allora sì che le elezioni del 13 aprile potrebbero davvero segnare una svolta nel rapporto tra politica e cittadini. A tutto vantaggio non solo dei secondi, ma soprattutto della prima...

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 10, 2008, 03:11:37 pm »

10/3/2008 (7:18) - LA STORIA, SE IL LEADER PUO' DECIDERE TUTTO

Ricatti e veleni al mercato dei candidati
 
La preferenza venne abolita perchè generava corruzione.

Ora Berlusconi: "Ho capito che è meglio tornare alle preferenze"

La trattativa tipo: «Non mi dai un posto sicuro? Allora cambio partito»

FEDERICO GEREMICCA


ROMA
L’Eurostar 9373 delle ore 9,46 fila silenzioso, lasciandosi alle spalle la stazione di Roma. Sono da poco passate le dieci del mattino e il signore scamiciato seduto nella poltrona 25 della carrozza 1 pare davvero molto agitato. Si divide tra due telefonini, parla a voce alta e apre uno spaccato grottesco – involontariamente, s’intende – su uno degli aspetti più mortificanti della campagna elettorale in corso: il mercato delle candidature al tempo della Terza Repubblica. Sta dicendo il signore: «Io a Dell’Utri stanotte gli ho mandato un messaggio chiaro: se quello, Nino Foti, è davvero candidato numero 13 nelle nostre liste in Calabria, io domani mattina mi candido con l’Udc, numero 2 al Senato e 3 alla Camera».

Il signore si chiama Gesuele Vilasi, è consigliere regionale in Calabria per Forza Italia, non è affatto un politico peggiore di altri e naturalmente resta da stabilire se sia più scortese origliare oppure strillare in treno al punto che, per chi è seduto di fronte, diventi impossibile non ascoltare. «Mi passa l’onorevole Bondi, per favore?... Ah, è in riunione... Era per le liste». Fa un altro numero. «Pronto, sono l’onorevole Vilasi, cercavo il dottor Letta. E’ in riunione? Dica che ho chiamato, grazie». Poi è uno dei suoi telefonini a squillare: «Ciao Giancarlo. Ma io lo so, figurati se non lo so che vogliono scaricare tutto sul coordinatore regionale del partito. Ma quest’operazione l’ha fatta Verdelli e allora i voti a Foti glieli viene a trovare lui perché li ho avvisati: se lo candidano, io domattina sono in lista con l’Udc alla Camera e al Senato».

Comprensibilmente, l’onorevole Vilasi – come già detto nient’affatto peggiore di altri – pretende che a buttar fuori dalle liste (e, presumibilmente, dal Parlamento) il candidato Nino Foti, sia Marcello Dell’Utri, visto che infatti il popolo non può. Voti la lista e ti tocca eleggere anche chi non vuoi, se si trova «in buona posizione»: una specie di o mangi la ministra o salti dalla finestra... Potere assoluto in mano ormai nemmeno più alle segreterie dei partiti, ma ai soli leader: alla cui saggezza è affidata la composizione non soltanto delle loro liste, ma del nostro Parlamento. Se ci si riflette, a parte il resto, è anche questo – l’impossibilità per l’elettore di esprimere un giudizio su chi è presente in lista – che può permettere le candidature (l’elezione) contemporanee di Matteo Colaninno e della segretaria del ministro Fioroni, della figlia di Totò Cardinale e dell’addetta stampa di Prodi. E produrre l’arrivo in Parlamento di un’altra «letteronza» o di una star tv. Infatti, non c’è verso: se vuoi votare questo o quel partito ti tocca eleggere per forza una o uno così. Insomma, scelto da altri.

Gesuele Vilasi lo sa, e si regola di conseguenza. Altra telefonata: «Trecento fax, glieli ho fatti mandare stanotte perché sono rimasti chiusi in due o tre a fare le liste fino alle quattro del mattino. Loro lo candidano e noi ce ne andiamo. E per quanto mi riguarda, Senato e Camera con l’Udc». Che magari è perfino l’aspetto di questa storia che infastidirebbe di più il Cavaliere: proprio con l’Udc di Casini! E forse perfino eletto: perché tanto anche chi aveva deciso di votare per Casini prima dell’ipotetico arrivo di Vilasi – e volesse continuare a farlo, naturalmente – non potrà che votare pure per l’ex «nemico» di Forza Italia.

Questa storia, in tutta evidenza, una morale non ce l’ha. Il cosiddetto voto di preferenza fu un fattore decisivo in quel dilagare di corruzione e degenerazione che portò al crollo della Prima Repubblica: fiumi di danaro in manifestini e faccioni, corti di clientes, spese folli da far rientrare con tangenti e finanziamenti illeciti. Mente chi finge di non ricordare. Ma anche così, è evidente, non può più andare. E quel che sorprende, è l’assenza di consapevolezza di quanto la perdurante imposizione non più di semplici candidati ma di eletti, gonfi le vele dell’antipolitica. E contraddica ogni proposito di rinnovamento. Forse nemmeno i leader ne possono più di un sistema così, che alle fine – in fondo - espone soprattutto loro. Ma allora, tra i tanti impegni che vanno assumendo con gli italiani in questa campagna elettorale, ribadiscano magari con più forza che questa legge elettorale la cambieranno, che quello in corso è l’ultimo «mercato». E che lo faranno in fretta, cioè prima di entrare nel solito e incontrollabile clima pre-referendum.

da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 25, 2008, 03:48:17 pm »

25/3/2008
 
Le pensioni di Walter
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Probabilmente l’immagine che rende meglio l’idea dello stato della competition elettorale tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi a tre settimane dal voto è quella di una partita di calcio.

Meglio: del secondo tempo di un match che ricomincia con una squadra che torna in campo dopo aver dato molto, se non tutto, nella prima frazione, e l’altra che - avendo potuto giocare di rimessa - appare più fresca e in grado di controllare la partita. Dopo un avvio sprint, infatti, il passo di Veltroni sembra essersi fatto più pesante: e se è vero che ha recuperato parte dello svantaggio iniziale, la sensazione è che nel momento in cui dovrebbe mettere a segno la rete decisiva si ritrovi d’improvviso col fiato grosso e a corto di energie. Dopo la rimonta iniziale, da una settimana i sondaggi segnano una fase di stagnazione; e messo alle spalle l’avvio spettacolare e coraggioso fatto di rottura delle vecchie alleanze e candidature a effetto, ora la campagna si combatte in un tran tran un po’ noioso (in un gioco a centrocampo, insomma) che avvantaggia soprattutto chi deve difendersi. L’interrogativo dunque è: può - e come - Veltroni ripartire all’attacco per completare la rimonta?

Lo staff perennemente al lavoro nel loft del Circo Massimo esclude cambi di rotta e colpi a sorpresa: «Veltroni - spiegano - continuerà lungo la linea tracciata: niente polemiche e toni alti, replica all’avversario solo se costretto e da adesso in poi insistenza ancor maggiore sugli obiettivi programmatici del suo possibile governo. E’ il profilo di una campagna elettorale normale, finalmente da Paese europeo: ed è un po’ avvilente che la si consideri invece noiosa, solo perché usciamo da quindici anni di competizioni condotte a colpi di insulti e di paure del comunismo». Il fatto, però, che cambi di toni e di rotta non ce ne saranno non vuol dire che Veltroni non abbia ancora in cantiere iniziative capaci di far discutere. Il leader del Pd, infatti, si prepara a mettere in campo alcune proposte tematiche di sicuro impatto: la prima, già oggi, riguarderà le pensioni medio-basse, ferme da anni ed erose dall’inflazione. Ci hanno lavorato per settimane Morando, Tonini e Treu, approdando ad una proposta che punta ad agganciare questa fascia di pensioni al continuo aumento del costo della vita.

Sul piano dei «colpi d’immagine», invece, resta da calare la carta della squadra di governo, che Veltroni vorrebbe riservare per gli ultimi giorni di campagna elettorale. Il leader del Pd non annuncerà i nomi di tutti e 12 i membri del suo possibile esecutivo ma solo quelli che al loft definiscono i «ministri della società civile», cioè personalità non parlamentari ma provenienti dal mondo dell’economia e delle professioni: si tratterà di nomi illustri, portatori di competenze che dovrebbero garantire circa l’efficacia dell’eventuale azione di governo. Basterà a ridare slancio alla rincorsa del Pd? «Dipende naturalmente dal tipo di proposte che avanzerà e dalla qualità di quella parte della squadra di governo che vorrà annunciare - spiega Claudio Velardi, ex consigliere di D’Alema e fondatore, oltre che di Reti, di New Politics, società di marketing politico e comunicazione istituzionale -. E dipende, soprattutto, dalle mosse che farà il suo avversario. La svolta alla campagna elettorale l’ha infatti impressa Berlusconi con la sua sortita su Alitalia, tema di sostanza e di grande impatto. Veltroni deve augurarsi che il Cavaliere non abbia in serbo altri colpi così, e soprattutto deve sperare che alla fine il duello tv si faccia, perché non c’è dubbio che nel confronto diretto la sua freschezza comunicativa prevarrebbe sugli argomenti di Berlusconi».

Non dissimile è l’analisi di Antonio Polito, direttore de «Il Riformista», che alla vicenda Alitalia attribuisce - però - un valore ancor maggiore: «Berlusconi se ne sta avvantaggiando - dice - perché con la sua sortita è riuscito a riportare al centro della scena il governo Prodi, che Veltroni - al contrario - ha tentato in ogni modo di far dimenticare e tener lontano dalla contesa. In Tv c’è di nuovo Prodi che deve spiegare e difendersi, sono ricominciate le liti tra ministri... Insomma di fronte agli italiani è ricomparso il teatrino che tanti danni aveva fatto al centrosinistra. Credo che per uscire dalle secche - conclude Polito - Veltroni dovrebbe puntare con forza su un tema altrettanto concreto, tirando fuori soluzioni praticabili e accompagnate da dati e cifre. Immagino ci proverà. E immagino lo farà sul tema del precariato, che lui stesso ha definito la priorità delle priorità».

Insomma, è necessaria una scossa. Ma è a una scossa assai meno leaderistica che pensa, dal suo osservatorio bolognese, Sergio Cofferati. «A Veltroni non si può chiedere di più. Sta facendo una campagna elettorale ottima e impegnativa perché, dico per dire, se annuncia che toccherà tutte le province italiane, poi deve farlo. L’importante - però - è che prima e dopo l’arrivo del leader, in quelle province poi la campagna elettorale cominci davvero, con le iniziative locali, i porta a porta, i contatti personali... Questa legge elettorale non stimola certo l’attivismo dei candidati, non essendoci le preferenze ed essendo tutti più o meno sicuri o dell’elezione o del fatto che non saranno eletti: ma per completare la rimonta è indispensabile la mobilitazione di tutto il popolo delle primarie». Veltroni ci ha pensato, e domenica prossima saranno allestiti 12 mila gazebo nei quali verranno distribuiti kit con materiale di propaganda pensato per convincere gli elettori ancora indecisi. A quel punto, alla fine della campagna elettorale mancheranno appena una decina di giorni. Un’inezia o un’eternità, secondo i punti vista...
 
da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 12, 2008, 10:57:08 am »

12/4/2008
 
Sospetti e veleni
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Evocati già da giorni da Silvio Berlusconi come possibile «variante criminale» del risultato elettorale, i brogli hanno fatto concretamente irruzione nella contesa tra i partiti a 48 ore dall’apertura dei seggi. I fatti - anticipati ieri da questo giornale - sono ormai più o meno ufficialmente noti: indagando sugli affari della cosca Piromalli, gli investigatori hanno intercettato una telefonata nella quale il senatore Marcello Dell’Utri e un imprenditore pregiudicato emigrato in Venezuela discutevano di come «segnare» e attribuire al Pdl alcune decine di migliaia di schede bianche o nemmeno ritirate nelle circoscrizioni estere. L’imprenditore è Aldo Miccichè, ex dc, latitante dal 1988 al 1990, arrestato poi a Torino. Condannato per bancarotta e precedentemente indagato per truffa, tangenti e finanziamenti illeciti, Micciché sarebbe appunto il curatore, secondo la Dda di Reggio Calabria, degli affari illegali dei Piromalli in Venezuela.

Il senatore Dell’Utri, interpellato dall’agenzia Ansa, ha negato di aver ricevuto avvisi di garanzia per questa vicenda, pur ammettendo di aver parlato al telefono con Aldo Miccichè: «Si è offerto di occuparsi dei voti degli italiani all’estero e l’ho messo in contatto con la nostra rappresentante, Barbara Contini», ha spiegato Dell’Utri. E ha aggiunto: «E’ una persona con la quale ho avuto rapporti per ragioni di energia: lui in Venezuela si occupa di forniture di petrolio, io ero in contatto con una società russa per cui, conoscendo questi russi, ho fatto da tramite». Degli affari russo-venezuelani nulla si sa, e dunque nulla può esser obiettato: ma è certamente prova di un labile senso della legalità accettare l’offerta di un pregiudicato - per di più in odore di ’ndrangheta - «di occuparsi dei voti degli italiani all’estero». Ma tant’è. E il senatore Dell’Utri, in fondo, è la stessa persona che a pochi giorni dal voto - e tra lo stupore generale - ha esaltato come «eroe» Vittorio Mangano, mafioso condannato all’ergastolo (e la sortita, purtroppo, è stata intesa come un «segnale» in molte regioni meridionali soffocate dalla criminalità organizzata).

La vicenda è imbarazzante, e certo poco edificante. Le indagini vanno avanti, l’esistenza dell’intercettazione è stata confermata sia dalla Dda di Reggio Calabria sia dal ministro Amato e quel che qui si vorrebbe chiedere è che si faccia chiarezza il più rapidamente possibile. È del tutto inconcepibile, infatti, che in un Paese occidentale a solida democrazia, le elezioni possano essere condizionate da sospetti di brogli veri e da evocazione di brogli presunti. L’invito, naturalmente, è rivolto innanzitutto alla magistratura, ma anche i leader in campo farebbero bene a ponderare parole e toni. Berlusconi prima di ogni altro. È stato il leader del Pdl, infatti - a cinquant’anni di distanza dal referendum repubblica-monarchia - a tirar fuori l’accusa di brogli dopo le elezioni del 2006, a rilanciarla più volte nei venti mesi del governo Prodi ed a rievocarla ripetutamente in questa campagna elettorale.

L’interrogativo che è infatti lecito porsi, è più o meno il seguente: è un comportamento politicamente responsabile evocare lo spettro di brogli alla vigilia di un voto che potrebbe decidersi - in particolare per quel che riguarda il Senato - sul filo di lana? Non lo è, naturalmente. E allora qual è lo scopo dell’allarme brogli? Prepararsi, forse, a contestare l’esito del voto, se non pienamente gradito, proprio con l’argomento che sarebbe stato determinato da illegalità nei seggi? E che pensare, infine, di fronte alla circostanza che a lavorare a possibili irregolarità - secondo i magistrati - sarebbero proprio esponenti del partito che invece denuncia di esser sul punto di subirli? Il dopo elezioni potrebbe rivelarsi già di per sé confuso e delicato, senza bisogno di avvelenarlo col sospetto di «brogli italiani» e tentativi di «brogli esteri». Del resto, il Pdl ieri ha annunciato che saranno 118 mila i «difensori della libertà» schierati nei seggi a garanzia della regolarità delle operazioni di voto. Se l’ex premier non si fida del Viminale e nemmeno della magistratura, abbia fiducia almeno nei suoi «combattenti».
 
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 15, 2008, 04:04:30 pm »

15/4/2008
 
Il grande ritorno
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Annunciato da tutti i sondaggi come la conclusione più probabile, il ritorno di Silvio Berlusconi al governo del Paese è da oggi realtà. L’ex premier, infatti, ha contenuto il tentativo di rimonta del Pd di Walter Veltroni e, grazie anche al notevolissimo risultato ottenuto dalla Lega di Umberto Bossi, ha conquistato tanto alla Camera quanto al Senato una maggioranza che ora gli permette di riprendere le redini del Paese. Accade per la terza volta in quattordici anni, in ragione - anche - di un principio di alternanza al governo che, dall’avvio della cosiddetta Seconda Repubblica (elezioni del 1994), ha puntualmente funzionato ad ogni tornata elettorale. Questa vittoria, però, sembra assumere un valore tutto particolare per i grandi mutamenti politici che l’hanno preceduta e prodotta, per il clima in cui è maturata e per le difficili condizioni in cui versa il Paese.

Partiamo dal primo dato. Il «bipartitismo coatto» imposto da Walter Veltroni e da Silvio Berlusconi al sistema politico ed al Paese (a dispetto di una legge elettorale del tutto proporzionale) ha funzionato, producendo vittime illustri ed un vero e proprio terremoto (positivo) nella geografia parlamentare.

A dispetto del passato, le aule di Camera e Senato ospiteranno nella legislatura che si apre quattro o al massimo cinque gruppi parlamentari: una semplificazione che ci avvicina agli spesso invidiati sistemi di altri Paesi europei e che potrebbe produrre maggior rapidità nelle decisioni da assumere e nella stessa dialettica politica. Il prezzo più alto lo pagano le forze di ispirazione comunista e ambientalista, che restano fuori dal Parlamento: è la prima volta che accade, non è affatto detto che sia un bene, ma la drammatica sconfitta subita dalle liste capitanate da Fausto Bertinotti può forse essere il punto di partenza per la ricostruzione di una sinistra che stia al passo con l’evoluzione di un Paese in rapido cambiamento.

È possibile che lo stesso processo di semplificazione imposto dalla nascita del Pd prima e del Pdl dopo, abbia in qualche modo arginato i potenzialmente dirompenti effetti della cosiddetta «antipolitica». La tanto temuta «astensione di massa» non si è infatti verificata (ha votato comunque oltre l’80% degli italiani, con un calo di tre punti percentuali rispetto a due anni fa): e la critica serrata al sistema dei partiti ha finito, anzi, per premiare due forze storicamente anti-sistema, la Lega di Bossi e l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Sarebbe però suicida pensare che la bufera che ha investito la «casta» sia ormai passata, e non dar corso agli impegni assunti in campagna elettorale in termini di riduzione delle spese, delle ingerenze e dei privilegi della politica.

Questo è solo uno degli impegni - e nemmeno il più gravoso - che attende Silvio Berlusconi una volta insediato a Palazzo Chigi. Gli altri sono noti e non vale nemmeno elencarli, essendo stati oggetto di campagna elettorale: la crescita è ferma, la recessione in agguato, l’insicurezza dei cittadini crescente e il sistema istituzionale del tutto inadeguato ad una moderna società occidentale. Molte preoccupazioni accompagnano la tenuta di una maggioranza nella quale il peso e i voti della Lega sono determinanti, e qualcuno già scommette che anche questa legislatura potrebbe aver vita breve e travagliata. Si vedrà. Potrebbe però confortare lo spirito - assai diverso dal passato - mostrato da Berlusconi in campagna elettorale: una certa consapevolezza che i tempi sono difficili, che sarà necessario qualche sacrificio, la disponibilità a forme di collaborazione - su temi bipartisan - con l’opposizione.

Del tutto diversi, infine, i compiti che sono di fronte a Walter Veltroni. Il primo è senz’altro consolidare e radicare il Partito democratico, battezzato nel fuoco di una battaglia che l’ex sindaco di Roma sperava, forse, più lontana. La rimonta non è riuscita, e nemmeno la soglia del 35%, a spoglio non ancora ultimato, sembra raggiunta. Ciò nonostante l’avventura non può dirsi fallita: il Pd è in campo, ha una classe dirigente e gruppi parlamentari largamente rinnovati e può senz’altro proporsi come alternativa all’attuale maggioranza. A condizione che affronti la seconda - e più grande - delle questioni che ha di fronte: e cioè come portare «il riformismo al governo del Paese» (parole di Veltroni) separando i destini del Pd da quelli della sinistra radicale. Un italiano su tre ha votato per Veltroni: troppo poco per vincere. Almeno fin quando in campo c’è Silvio Berlusconi.
 
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 17, 2008, 12:30:16 pm »

17/4/2008 (7:10) - IL TONFO DELLA SINISTRA, INTERVISTA A SERGIO COFFERATI

"La Padania esiste, è qui e va capita"
 
"Se il Pd non se ne rende conto, perderà sempre"

FEDERICO GEREMICCA


BOLOGNA
Ma quindi, signor sindaco, intendiamoci: possiamo rompere un tabù e titolare quest’intervista “cari amici del Pd, la Padania esiste”? Sergio Cofferati ci pensa un attimo perché, come un fulmine, forse gli ripassano per la mente i dubbi che ebbe prima di sgombrare un campo di immigrati e dire “cari compagni, la sicurezza non è un valore della destra” (affermazione oggi scontata, ma allora accompagnata da fischi e accuse di tradimento); o quando, non troppi mesi dopo, decise di sperimentare lì - a Bologna - la “vocazione maggioritaria” del Pd, rompendo la sua alleanza con la cosiddetta sinistra radicale. Dunque, Cofferati ci pensa. E poi si apre in un calda risata. «Ma certo che sì, la Padania siamo noi. Guardi che io son di lì, nato a Sesto e Uniti, provincia di Cremona, in mezzo ai contadini...».

Ci vorrà forse del tempo perché anche quest’affermazione - “la Padania esiste” - venga digerita come ineluttabilmente vera. Ma per Sergio Cofferati è importante che ciò avvenga: e che il Pd ne tragga ogni conseguenza, in termini di analisi politica, proposta istituzionale e assetto organizzativo. La Padania esiste, e lo dimostrano perfino i risultati elettorali: se è così, non ha senso negarlo sol perché ne ha parlato prima la Lega... Ed è soprattutto della Lega - oltre che della Sinistra Arcobaleno - che Sergio Cofferati parla in questa sua intervista dopo il voto del 13 aprile.

Però che c’entra, scusi, la Padania col risultato elettorale?
«C’entra perché credo che ormai occorra analizzare anche i risultati elettorali non più regione per regione ma area per area. Se noi osservassimo le cose un po’ più dall’alto, ci accorgeremmo che quel che accade sulla sponda destra del Po succede anche sulla sponda sinistra...».

Sarà. Ma che c’entra col voto?
«In grandi aree del nord ci sono ormai elementi di uniformità dettati dalla struttura economica e sociale: e per queste due vie, producono risultati elettorali. Se si guarda la pianura... Cremona e Reggio Emilia, oppure Mantova e Ferrara - che sono città di regioni diverse - hanno una strutture economica, sociale e risultati elettorali del tutto simili».

Tutto questo per dir cosa?
«Che gli elementi di identità territoriale non sono più rappresentati dai confini geografici e regionali. Le persone si muovono... Il Po divide, fa da separazione per alcuni tratti, ma è una separazione geografica che non ha più alcuna corrispondenza né economica né sociale. Per venire al concreto: io penso che non ci possa organizzare efficacemente sul piano della rappresentanza considerando invalicabili i confini geografici. Di più: credo che ormai sia in divenire anche una questione di carattere istituzionale. Dunque, quando penso alla dimensione territoriale del futuro Pd, penso a due cose assieme: agli antichi insediamenti ottocenteschi della rappresentanza politica - luogo per luogo, paese per paese - e ai modernissimi scavalcamenti di confini geografici e regionali ormai fittizi. L’Emilia Romagna è parte del nord e ha caratteristiche di sviluppo, in alcune sue zone, simili a quelle della Lombardia. La collina emiliano romagnola ha forti elementi di somiglianza con la collina bergamasca e bresciana; e la pianura lombarda con la pianura emiliano romagnola. Un partito deve prendere come riferimento queste grandi aree. E’ inevitabile. Non farlo non ci aiuterà né a capire il nord né a radicare il Pd in queste aree decisive del Paese».

Dove invece la Lega si espande di elezione in elezione...
«E continuerà a farlo, soprattutto se non aggiorniamo la nostra analisi. La Lega non è un un partito che intercetta un voto di protesta: questo è un argomento senza fondamento, ha ragione Maroni. La Lega è un partito con una linea politica di destra, raccoglie consensi sulla base della sua linea che è proposta e sperimentata, per altro, anche in ruoli e attività istituzionali. Naturalmente, io non condivido quella linea, e la contrasto. Ma se torniamo alla tesi che quelli alla Lega sono voti di protesta, commettiamo un errore clamoroso».

E crede che sia questo quel che sta accadendo?
«In parte sì. E sono stupito. Così come mi stupisce sentir dire che “anche gli operai votano Lega”, come fosse una scoperta. Posso farle un esempio?».

Naturalmente.
«A parte il fatto che quando un partito supera certe soglie di consenso il suo radicamento è necessariamente interclassista, vorrei ricordare il 1994, cioè la crisi del primo governo Berlusconi. Il sindacato protestò per la riforma delle pensioni proposta, ma la crisi l’aprì Bossi in Parlamento. E lo fece perché l’acuirsi del contrasto tra sindacato e governo mandò in sofferenza la base sociale ed elettorale della Lega, che già allora era fatta anche da operai. E se devo dirle, anzi, la situazione di oggi mi sembra somigli molto a quella che ricordavo».

Cioè, vede possibili problemi tra Lega e Popolo della Libertà?
«La linea della Lega ha evidenti elementi di diversità rispetto a quella di Berlusconi. In materia economica guarda alle piccole imprese, con tratti protezionistici, e dunque altro che liberismo. Nel sociale è molto attenta ai temi del welfare, e quanto alla globalizzazione... Considerati i rapporti che ha con la Lega, credo non sia un caso che Tremonti sia approdato alle teorizzazioni cui è giunto. Comunque, questo riguarda loro. Ciò premesso, il lavoro fatto da Veltroni è del tutto positivo e pienamente condivisibile. E la linea economica e sociale indicata è quella che ci può consentire con pazienza di acquisire risultati positivi anche in questa parte del Paese».

Un’ultima domanda, su tutt’altro: che le pare della batosta subita dalla Sinistra arcobaleno? Magari ne sarà contento, considerati i suoi rapporti a Bologna con Rifondazione...
«Considero l’assenza in Parlamento di quella sinistra un fatto profondamente negativo, prodotto dai loro errori politici enfatizzati da una pessima legge elettorale da cambiare. Credo che, a differenza del 1996, stavolta Rifondazione avesse scelto con convinzione la strada della partecipazione al governo. Hanno però sottovalutato le difficoltà di stare in una ampia coalizione. In un quadro così, la necessità della mediazione bisogna darla per scontata: e della mediazione non puoi cogliere sempre e solo gli aspetti negativi. Ora spero riflettano. E mi auguro che dalla riflessione emerga la voglia di riprovarci piuttosto che quella di rifugiarsi per sempre all’opposizione in nome di una scelta puramente identitaria».

da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 24, 2008, 09:23:37 am »

23/4/2008 (7:29) - RETROSCENA - I DEMOCRATICI E LA CANDIDATURA CHE NON C'É

I prodiani sfidano il Cinese "Romano pronto per Bologna"
 
Continua la guerra dei nervi sul futuro sindaco.

Cofferati: parlerò solo il 18 giugno

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BOLOGNA


Sistemato dietro la scrivania, in una piccola sala della biblioteca di Giurisprudenza, il professor Augusto Barbera confessa un certo imbarazzo: «Su questa ipotesi davvero non me la sento di dir nulla, visto che già sbagliai la previsione su Cofferati... Quando si ipotizzò una sua candidatura a sindaco di Bologna, io pensai: “Ma figurarsi se uno come lui, lanciato com’è, viene a fare il sindaco qui”... Invece venne. Allora mi limito a dire che non me la sento di escludere che con Romano possa andare allo stesso modo: e che cioè possa esser lui, la primavera prossima, il candidato alla guida della città». Che sarebbe, poi, un epilogo possibile dell’estenuante guerriglia - sotterranea ma non segreta - che divide il «cinese» e il Professore fin dal giorno in cui, si può dire, il primo fu messo in pista dai Ds come candidato-sindaco della città: senza nemmeno sentire l’opinione di Romano Prodi, padre dell’Ulivo e bolognese doc.

E alla fine, dunque, in quella sorta di guerra dei nervi apertasi tra il «cinese» e il Professore, si è giunti fin qua: che se Cofferati fa il favore di non ricandidarsi, noi una soluzione l’avremmo, Romano sindaco e non se ne parla più. Lo dicono i prodiani, non Prodi, certo, che - anzi - al diffondersi delle voci rispose: «Farò il nonno, il resto sono balle». Ma da provocatoria che era, l’idea è diventata fascinosa. «Se ne discute fra il divertito e il distaccato nelle facoltà e nei salotti bolognesi», ha annotato Edmondo Berselli su «Repubblica». E poi: «Si pensi a come potrebbe essere felice l’incontro tra il più emiliano degli uomini politici con la sua emilianissima città di vita». Questa, più o meno, l’aria qualche settimana fa: da allora, naturalmente, la faccenda è peggiorata.

Perché, prima di tutto, c’è stato il voto, dal quale il governo Prodi è uscito come è uscito. Perché, poi, il Professore ha comunicato che non intende più fare il presidente di un Pd che lo processa. E perché, naturalmente, anche Cofferati ci ha messo del suo: prima lodando «il lavoro straordinario» di Veltroni, e poi chiedendo al Pd di riconoscere l’esistenza di una questione-Padania, e di attrezzarsi di conseguenza. Ne è nato un dibattito sul Pd del Nord, nel quale Prodi è stato il primo a intervenire: una stupidata, il Pd ha il suo statuto, è già federalista e non possiamo ricominciare ogni volta da capo. Un paio d’ore ed ecco la replica: dica quel che vuole, resto della mia opinione. E il «duello», rischia di incattivirsi: come quelle liti delle quali non ricordi come fu l’inizio, ma di sicuro non vedi la fine.

Una guerra dei nervi nella quale, naturalmente, ognuno ci mette il suo. Cofferati, gelido, che a chi chiede se si ricandida risponde: «Lo saprete il 18 giugno, non un giorno prima»; e «ambienti prodiani» che intanto dicono in giro che il «cinese» è stanco, che farà il papà e che ha addirittura deciso di trasferirsi a Genova... «Ci tiene tutti in sospeso per sue vicende personali - lamenta Andrea Papini, parlamentare vicino al Professore -. Ma qui ognuno ha le sue questioni personali, e non è che le fa pesare sul partito o sulle istituzioni. Noi abbiamo bisogno di sapere che intende fare. E se vuole la mia opinione, le dico che una ricandidatura di Cofferati potrebbe incontrare difficoltà in città». Questo per dirne una. E un’altra potrebbe essere la singolare disavventura in cui è incappato Luca Foresti, ex Margherita, responsabile del sito web del Pd bolognese, un cui scritto polemico col sindaco (gli chiedeva bruscamente di comunicare i propri progetti futuri) prima compariva nella homepage, quasi fosse una posizione ufficiale, e poi veniva derubricato a opinione personale.

Ovviamente, ad alimentare le schermaglie non ci sono solo questioni cittadine (per esempio, la tutela e il futuro della rete di poteri che l’arrivo del «cinese» ha letteralmente scompaginato) ma anche visioni differenti del Pd e della sua prospettiva. Cofferati, in questa fase veltroniano convinto, è per pigiare l’acceleratore sul nuovo corso: rottura a sinistra, barra al centro e ambizione maggioritaria; Prodi e i prodiani, al contrario, non nascondono nostalgie unitarie e uliviste: e considerano un azzardo non riuscito l’avventura solitaria del Pd. «Quella maggioritaria non è un’ambizione campata in aria - ripete invece il “cinese” -. Né a Roma né a Bologna: in città, la settimana scorsa, abbiamo superato il 49% dei voti...». Che è un’enormità: ma comunque non sufficiente - fanno notare alcuni - a vincere la corsa a sindaco la primavera prossima. Ed è questo, in realtà, lo spartiacque politico che divide il Professore e il «cinese»: tanto a Roma quanto a Bologna.

«Io credo che su questo abbia ragione Cofferati e che sia giusto continuare sulla strada tracciata da Veltroni - annota Augusto Barbera, che dirige i “Quaderni costituzionali” del Mulino -. Su altre sue uscite, invece, sono perplesso: intendo la scoperta della Padania, le ronde in città e la rincorsa di certi temi cari ai leghisti. Comunque sia, Cofferati in città è forte, come dimostra l’ultimo voto. Però i salotti che all’inizio gli avevano aperto le porte, le hanno richiuse...». Magari sono gli stessi salotti, per tornare all’inizio, che discutono - «tra il distaccato e il divertito» - dell’ipotesi di una candidatura del Professore a sindaco della città: «Se Cofferati lascia - annota Andrea Papini - qui si apre il vaso di Pandora. Immagini la folla di candidati... Allora potrebbe essere proprio il Pd a chiedere il sacrificio a Romano. Perché Prodi non ci pensa, non vuole, ma se precipita tutto...».

Sarebbe un bel pasticcio, per il Pd. E per il suo segretario emiliano, Salvatore Caronna. Che però non sembra turbato dal duello tra il «cinese» e il Professore: «Il Pd chiederà a Sergio di ricandidarsi, e la faccenda finirà lì». E se non finisse, segretario? «Se non finisse, rischieremmo dei guai. Ma vedrete che invece finirà lì...».

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