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« Risposta #165 inserito:: Novembre 11, 2011, 04:58:11 pm » |
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Politica 11/11/2011 - LA CRISI, L’OPPOSIZIONE Dilemma Bersani: appoggiare Monti col rischio di sparire La probabile vittoria alle elezioni barattata col governo tecnico FEDERICO GEREMICCA ROMA Mettetevi nei panni di chi era lì, deliziato da questo e quel sondaggio, tutti da mesi concordi nel proclamarlo vincitore. Mettetevi nei suoi panni, cioè negli abiti di chi era pronto ad incassare - di fronte a elezioni a gennaio - l’investitura a candidato-premier senza nemmeno il rischioso fastidio della prova delle primarie. Mettetevi nei panni di Pier Luigi Bersani, insomma, così da capire come il piombare in campo di Mario Monti poteva somigliare - per lui ad una vera e propria sciagura. «Invece non un tentennamento - assicura Rosi Bindi, la voce intermittente per qualche problema col telefono -. Non un’oscillazione. E se devo dire chi si è speso, anzi chi si sta spendendo di più per convincere i dubbiosi - perché qualche dubbioso c’è l’abbiamo anche noi - nemmeno io tentenno: Bersani». Si potevano avere dei dubbi, in questo giovedì di tensione e di passione: sarebbero stati legittimi. Si poteva pensare a qualche giochino, anzi doppiogiochino: in politica se ne vedono ogni giorno, e se ne vedranno ancora. E si poteva, infine, immaginare l’umano prevalere dell’interesse personale e di partito: la storia è piena di scelte dettate da paura o da egoismo. Al contrario, da ieri sera una cosa è diventata irreversibilmente chiara: se dall’inizio della prossima settimana Monti siederà a Palazzo Chigi, molto lo si dovrà - certo - a Giorgio Napolitano, ma il resto del merito sarà suo, dell’uomo che «mica siamo qua a smacchiare i leopardi»... Intendiamoci: se si provano a enumerare i vantaggi e gli svantaggi personali e di partito che la scelta comporta, verrebbe da dire che la rotta individuata dal leader del Pd ricorda da vicino un tentativo di suicidio. I democrats, infatti, barattano un futuro prossimo certo (la pronosticata vittoria alle elezioni anticipate) con un domani del tutto incerto; Bersani rende di nuovo contendibile con le primarie la postazione di candidato premier; il Pd si espone agli attacchi che gli arriverannoda sinistra, a cura di chi resterà fuori dal governo (Di Pietro e Vendola, al momento); «e c’è un rischio per noi forse ancor più serio - aggiunge Rosi Bindi -. E cioè che all’ombra di un lungo governo tecnico e di fronte a un Pdl che cambia pelle, il Terzo Polo slitti di nuovo dall’altra parte del campo, e la frittata è fatta. È un pericolo vero: ma noi siamo gente seria, e vengono prima i pericoli ai quali Berlusconi ha esposto il Paese...». Sarà pure così, anzi è certamente così: ciò non toglie che, dietro l’apparente sicurezza, tutto il Pd ha fibrillato a lungo intorno alla scelta da fare. Riunioni al largo del Nazareno, sede del partito; faccia a faccia più o meno riservati nei corridoi di Camera e Senato; telefoni roventi per tentare di capire se il governo nascerà davvero e se (domanda che non guasta mai...) vi entreranno uomini del Pd; interrogativi irrisolti sull’accelerazione e la direzione imposte da Giorgio Napolitano all’andamento della crisi. Se il partito ha tenuto la barra dritta e ha messo tutto il proprio peso (politico e parlamentare) al servizio di una soluzione, è senz’altro per la posizione assunta sin da subito da Bersani. Non possiamo rischiare la bancarotta - è stato il ragionamento - per poi magari ereditare il classico cumulo di macerie: dobbiamo insistere per un governo che tiri fuori il Paese dal pantano in cui è finito. Non ad ogni condizione, naturalmente. E le condizioni del Pd - almeno quelle fondamentali - sono due e sono chiare. La prima, un governo che marchi una grande discontinuità rispetto a quello uscente: quindi Gianni Letta, Nitto Palma, Franco Frattini e compagnia bella possono metterci una pietra sopra e prenotare un viaggio oppure una vacanza. La seconda, la parola chiave dei provvedimenti che andranno presi per fronteggiare la crisi deve essere «equità»: Bersani non dice patrimoniale, tassazione delle rendite finanziarie, guerra senza quartiere all’evasione fiscale, ma è chiaro che senza assicurazioni in questo senso, la disponibilità del Pd potrebbe traballare. Va bene assumere come riferimento la lettera della Bce: ma una cosa è farne un riferimento e altra è trasformarla nel nuovo Vangelo... Tutto bene, dunque, in casa democratica? Dirlo sarebbe una bugia: ma il dado è tratto e ora non si può arretrare. «Il passaggio è storico - ammette Nicola Latorre -, si sta certificando la fine della Seconda Repubblica: una fine sancita dal governo di Berlusconi e determinata non dai giudici, come lui temeva, ma dal fallimento della sua politica». Festeggia (assai in privato...) anche Matteo Renzi, croce e delizia (più la prima che la seconda) del segretario del Pd. «Quel che sta accadendo - confessa - è il trionfo dell’idea di rottamazione. E che a mettere il timbro sul fallimento di un’intera classe politica sia un signore di quasi settant’anni, può sembrare paradossale ma ci sta, ci sta...». DA - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/429291/
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« Risposta #166 inserito:: Novembre 16, 2011, 12:06:48 pm » |
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13/11/2011 L'occasione per le riforme FEDERICO GEREMICCA C’ è un errore che il nascente governo Monti, e i partiti che decideranno di sostenerlo, non dovrebbero commettere: e cioè definire il proprio orizzonte programmatico solo in rapporto all’emergenza economico-finanziaria che pure si troverà a fronteggiare. Segnando la sua nascita, nei fatti, la fine della cosiddetta Seconda Repubblica, il nuovo esecutivo dovrebbe rapidamente porsi l’obiettivo di sostenere la Terza con quelle innovazioni costituzionali (e di regole elettorali) la cui assenza ha certo contribuito anche al mesto naufragio del governo Berlusconi. Avendo i partiti politici autolesionisticamente dimostrato, fin qui, di non esser in grado di varare riforme che ne scalfiscano l’influenza e il potere (a vantaggio, naturalmente, di un miglior funzionamento del sistema nel suo insieme) tale opera riformatrice può esser invece tentata oggi - con speranze di successo - da un governo nel quale i partiti, appunto, si limitano ad assolvere a un compito da retrovia. Non riuscire nell’impresa - o non tentarla nemmeno - rischia infatti di condannare anche la prossima legislatura (e dunque l’avvio della Terza Repubblica) ad una vita stentata e grama: e ad una conclusione che potrebbe essere non molto diversa dalla fine toccata alla Prima ed alla Seconda. Già troppi elementi, infatti, rendono assai simili l’epilogo delle legislature 1992-‘94 e 2008-2011, per non ritenere che sia il caso finalmente di intervenire. Il primo elemento è senz’altro l’assoluta e deludente incapacità mostrata dai partiti di autoriformare un sistema - ieri come oggi - evidentemente contraddittorio e traballante. Alla fine del terribile biennio ‘92-‘94, furono fondamentalmente Tangentopoli e i magistrati a suonare la campanella di fine ricreazione: oggi i titoli di coda scorrono per la spinta dei mercati e le pressioni dell’Europa. In entrambi i casi, crisi praticamente imposte dall’esterno: ieri in ragione della corruzione dilagante, oggi a causa di inettitudine e cattivo governo. Non può essere considerato un caso il fatto che la prima legislatura della cosiddetta Seconda Repubblica - con l’avvento al governo di Silvio Berlusconi - durò quanto durò (appena due anni) e finì come finì. A fronte di una legge elettorale marcatamente maggioritaria e di un assetto sempre più bipolare, infatti, il sistema istituzionale non fu dotato degli aggiustamenti e delle semplificazioni necessarie. E’ da allora che si cominciò a discutere di fine del bicameralismo perfetto, di uno statuto dell’opposizione, della riduzione del numero dei parlamentari, eccetera eccetera. Da allora ad oggi, ad ogni scadenza elettorale, i partiti hanno inserito queste riforme nei propri programmi elettorali: non se ne è mai fatto nulla, e il sistema politico-costituzionale è rimasto bicefalo (un po’ maggioritario, un po’ proporzionale) con conseguenze che sono - da anni - sotto gli occhi di tutti. Oggi si ripropone - e non per una libera scelta dei partiti, ma in ragione di un’emergenza drammatica - la possibilità di pensare seriamente agli aggiustamenti di cui il sistema politico ha mostrato di avere un disperato bisogno. A quindici anni di distanza dall’ultimo esecutivo (presieduto da Lamberto Dini) in qualche modo paragonabile a quello che dovrebbe esser guidato da Mario Monti, il ritorno di un governo tecnico potrebbe render possibile le riforme promesse e mai realizzate da tre lustri in qua. Occorrerà, naturalmente, l’impegno e il consenso dei partiti: quantomeno dei partiti maggiori. E non è detto che, giunti al punto cui si è giunti e in un clima che dovrebbe rapidamente «raffreddarsi», stavolta questo non diventi realmente possibile. La pre-condizione, ovviamente, è che il governo Monti veda la luce. L’alternativa, del resto, rischia di essere esiziale. Chi chiede che «la parola torni al popolo» e che «la democrazia non ceda il passo alla tecnocrazia» dovrebbe infatti avere l’onestà di dire che parola potrebbe mai pronunciare il popolo e che successo marcherebbe la democrazia con una legge elettorale che - stando a tutti i sondaggi - non produrrebbe alcuna maggioranza al Senato, con tutto quel che ne discende. L’occasione per completare un percorso riformatore finora appena accennato, dunque, c’è. Buttarla al vento assieme al governo Monti - al di là del possibile tracollo economico che questa ipotesi determinerebbe - sarebbe un delitto: e a guardarla dal punto di vista degli stessi partiti, anzi, qualcosa di assai simile a un suicidio... da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9428
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« Risposta #167 inserito:: Novembre 17, 2011, 04:54:32 pm » |
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Politica 17/11/2011 - intervista Bindi: attenti, non sta nascendo un governo di Grande coalizione "Giusto che non ci sia Letta, evitiamo la confusione delle larghe intese" Federico Geremicca Roma Onorevole Bindi, il governo Monti ha giurato e molti elettori del suo partito già si chiedono perché sostenere questo esecutivo sarebbe una scelta migliore rispetto a elezioni che avrebbero visto - secondo i sondaggi - il Pd tornare al governo. «Io credo che il partito democratico è cresciuto nei consensi degli italiani perché ha dimostrato nel tempo di essere una forza politica credibile e responsabile, alla quale si può affidare il governo del Paese. Ora investiamo questa credibilità nel sostegno al professor Monti: e sono certa che, quando si voterà, saremo premiati per la scelta fatta». D’accordo: ma per il Pd non era meglio votare? «Per il Pd certo. Ma per l’Italia? Era questa la scelta migliore per il Paese? Immagini due mesi di campagna elettorale dura, mentre i conti peggioravano ogni giorno di più...». Cosa le dà la sicurezza che con questo governo invece miglioreranno? «Questa sicurezza non ce l’ha nessuno: ma siamo certi che questa è la soluzione politica che offre al Paese le maggiori chanche di venir fuori dalle difficoltà. E’ la svolta che permette un lavoro serio, un recupero di credibilità. Monti dice di aver fiducia e io come lui credo nelle possibilità dell’Italia». Ammetterà, però, che questa inedita esperienza di governo nasconde molti rischi per il Pd... «Rischi naturalmente ce ne sono, ma rischiamo tutti. Però prima di tutto viene l’interesse del Paese. Abbiamo chiesto un esecutivo tecnico per riaffermare l’autonomia del governo, il primato della politica in Parlamento e per marcare la netta discontinuità con l’esecutivo precedente...». Motivo per il quale avete detto no alla presenza di Gianni Letta. «Sarebbe stato difficile spiegare la presenza nell’esecutivo di un esponente di primo piano di un governo, quello uscente, che abbiamo criticato e critichiamo». Il Pdl, invece, non aveva preclusioni. «Per la ragione opposta alla nostra: noi chiedevamo discontinuità, loro segni di continuità. Per noi, inoltre, è importante evitare qualunque confusione tra il sostegno a questo governo e la strategia politica del Pd...». Che vuol dire, scusi? «Che non sta nascendo un governo di grande coalizione: respingo questa idea. Noi non siamo alleati né col Terzo polo né col Pdl: non ci sono né larghe intese né nuove coalizioni. Ed è per evitare appunto il rischio di confusione che è giusto che i partiti non vi partecipino con leader o vicepresidenti». Ciò nonostante è presumibile che sarete oggetto di una opposizione «da sinistra»: Vendola già dice che nel governo vede segni di continuità col passato... «Non credo che sia così. Non vedo la continuità. In ogni caso noi terremo aperto il cantiere della costruzione del Nuovo ulivo e continueremo il confronto con il Terzo polo. E mentre Monti fa il suo lavoro - che dovrà essere improntato a principi di rigore, crescita ed equità - proveremo a fare finalmente in Parlamento le riforme necessarie: a partire dalla legge elettorale e dalla riduzione del numero dei parlamentari». Lei è davvero sicura che Monti potrà fare quel che è necessario? Le ricette economiche di Pd e Pdl sono molto distanti, no? «Nessun dubbio su questo. Ma ci sono questioni sulle quali ci sono state impuntature ideologiche che forse oggi sarà possibile rimuovere. In ogni caso, ci vorrà generosità e buon senso da parte di tutti per trovare di volta in volta i punti di incontro e la sintesi migliore». Si dice che Bersani abbia personalmente fatto un sacrificio dando il via libera a Monti perché, votando adesso, la sua candidatura a premier non sarebbe stata discussa. Crede sia così? «Siamo stati molto assieme in queste ultime ore, e devo dire - per altro - di non aver mai visto il Pd così unito, pur in un passaggio tanto delicato...». Sì, ma Bersani? «E’ quello che più di tutti ha lavorato per questa soluzione. E io dico che vale per lui quello che vale per il Pd: sarà premiato per la scelta fatta. In più, guardi, questa faccenda delle leadership a tempo, che oggi sono forti e tra un anno no, non mi convince affatto. E’ leader chi ha più filo per tessere: e Bersani in questi ultimi giorni ha dimostrato che di filo per tessere ne ha davvero tanto...» da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/430282/
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« Risposta #168 inserito:: Novembre 22, 2011, 04:01:59 pm » |
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Politica 22/11/2011 - CENTROSINISTRA I PRIMI GUAI Vendola barricadero imbarazza il Pd "Un Bossi di sinistra?" Il leader accusa le "ombre lobbistiche" nel governo Timori tra i riformisti. Perplessi anche gli elettori di Sel Federico Geremicca Roma Qualcuno già pensa di rispolverare per lui l’appellativo che marchiò per mesi Gianfranco Fini al tempo delle sue prime polemiche con Berlusconi e soprattutto con Giulio Tremonti: “Signor no”. Qualcun altro, invece, ci va giù in maniera più netta e aspra: «E’ il Bossi di sinistra”. Tanto nel primo quanto nel secondo caso il riferimento è a lui, Nichi Vendola: che non ha fatto mistero - né prima né dopo - di apprezzare assai poco la scesa in campo del professor Mario Monti e della sua pattuglia di ministri tecnici. Domenica sera, incalzato da Fabio Fazio, ha spiegato: certo, finalmente «un governo senza tacchi a spillo»; è vero, «si recupera il decoro»; è poi, sì, è un successo esser «passati dalle veline ai professori». Però... E i però sono tanti, e assai affilati: «Se la politica economica di Monti sarà in continuità con quella vecchia, avremo nuovi indignati per le strade»; oppure: «Lo stile di Berlusconi era la commistione tra pubblico e privato: e da questo punto di vista, mi spiace, ma anche nel nuovo governo c’è qualche ombra che danza»; e infine: «Nel centrosinistra vedo molte democristianerie in azione». E se questo è il giudizio a pochi giorni dall’insediamento dell’esecutivo, qualcuno si chiede cosa ci sia da attendersi quando Monti varerà le sue prime misure: che difficilmente potranno entusiasmare Sel e il suo leader... Non si parla ancora apertamente di un “caso-Vendola”, naturalmente, ma è chiaro che in casa Pd la preoccupazione cresce. Si tratta di un doppio timore, in verità: il primo riguarda certamente la navigazione del governo Monti, che i democratici sostengono senza riserve e contro il quale probabilmente non sarebbe (non sarà) difficile cavalcare la piazza; il secondo - e più serio - investe invece il futuro: e cioè la prospettiva di un’alleanza politico-elettorale(con Di Pietro e Vendola, appunto) che i mesi del governo del professore - pochi o tanti che saranno - rischiano di mandare letteralmente in frantumi. Sono preoccupazioni fondate? O sono più fondati - al contrario - i timori che attraversano i partiti nient’affatto entusiasti dell’avvento di un governo tecnico? Bobo Maroni, a nome dell’unica forza politica dichiaratamente all’opposizione di Monti, per esempio dice: «Dietro l’obbligo di mettere i conti in sicurezza c’è anche l’obiettivo di mettere da parte Berlusconi e smantellare il sistema bipolare... Quindi si tratta di eliminare le anomalie della politica, marginalizzandole: la Lega in primis, ma anche Vendola e Di Pietro...». Uno scenario da fantapolitica? Forse sì. E in ogni caso, gli ultimi a lamentarsene dovrebbero essere i protagonisti di quella evidente incapacità di governo che ha portato il Paese a un passo dal baratro e dunque alla nascita del poi contestato governo Monti. Diverso, ovviamente, è il discorso che riguarda Nichi Vendola e il suo partito, da sempre opposizione a Berlusconi. In questo caso, infatti, più che guardare ai “disegni segreti” che avrebbero portato all’avvento dei tecnici, sarebbe forse utile interrogarsi su cosa questo esecutivo possa effettivamente fare per il Paese e dunque sugli scenari futuri. Non può infatti sfuggire a Vendola che l’annunciata alleanza elettorale tra Pd-Idv e Sel difficilmente guadagnerà credibilità se i soggetti in causa avranno, in questi mesi, comportamenti troppo diversi rispetto al neonato governo Monti. E’ vero, naturalmente, che un problema del tutto analogo a quello di Bersani ce l’ha Silvio Berlusconi nel rapporto con la Lega, ma è altrettanto vero che nell’altra metà del campo questioni simili vengono risolte (o aggirate) con assai più semplicità: quasi come se una certa volubilità di comportamenti avesse scarso o nessun peso... Nel fronte riformista le cose vanno diversamente, invece. E molti, per esempio, avevano addirittura sperato (e sperano ancora) che proprio intorno al difficile lavoro che attende Monti le forze dell’alternativa potessero guadagnare sul campo quella credibilità che fino a ieri è parsa latitare. La scelta (in divenire) di Nichi Vendola pare andare in un’altra direzione. Ma stavolta c’è una novità sulla quale il leader diSel non potrà non interrogarsi: gli ultimissimi sondaggi (quello del TgLA7 di ieri, per esempio) danno il suo partito e quello di Di Pietro per la prima volta in deciso calo. I loro voti passano al Pd... Possibile, dunque, che gli stessi elettori di Sel non condividano l’eccessiva freddezza nei confronti del governo Monti? Possibile, certo. A Vendola, dunque, capirne le ragioni... da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/431034/
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« Risposta #169 inserito:: Dicembre 09, 2011, 10:58:42 pm » |
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9/12/2011 Ma i partiti non giochino a nascondino FEDERICO GEREMICCA Strizzatine d’occhio in Parlamento, così che solo chi deve capire capisca; incontri alla maniera dei carbonari, preferibilmente col buio e solitamente in luoghi inusuali; telefonate da cellulare a cellulare, senza passare dalle segreterie; e poi, naturalmente, distinguo, prese di distanze e la ripetizione sempre più stanca di un ritornello che dice «questi provvedimenti non ci piacciono, ma dovremo votarli per forza». Ecco, mentre la manovra di Monti muove i primi passi in Parlamento, c’è un interrogativo che va facendosi ormai ineludibile: per quanto tempo ancora i partiti che hanno deciso di sostenere il governo del Professore potranno continuare così, in questa sorta di «si fa ma non si dice», un piede dentro e l’altro fuori nel tentativo di ridurre i danni elettorali che temono di subire in ragione della manovra in discussione? Intendiamoci, nessuno ha mai immaginato nemmeno per un istante che dalla feroce contrapposizione che ha segnato nell’ultimo quindicennio i rapporti tra centrodestra e centrosinistra, si potesse passare d’incanto a una sorta di magica e pacificata «unità nazionale»: ma è pur vero che tra un esecutivo di larghe intese - classicamente inteso - ed un governo di vaghe intese (intese tanto vaghe al punto da risultare indecifrabili) forse un punto di equilibrio era lecito attenderselo, e soprattutto è necessario trovarlo. L’idea, infatti, che si possa arrivare fino alla primavera del 2013 in mezzo a questo stillicidio di distinguo e recriminazioni (soprattutto da parte delle forze della ex maggioranza, a dir la verità) appare illusoria ogni giorno di più. Approvata la manovra, con l’anno nuovo diventerà assolutamente indispensabile fare una scelta: o al voto subito, costi quel che costi, e perfino con l’attuale e pessima legge elettorale; oppure ancora un anno di lavoro, ma con uno spirito che non può esser quello di queste ore e - soprattutto - con strumenti di coordinamento tra i partiti (da cabina di regia a «direttorio»: li si chiami come si vuole) che rendano meno cervellotiche e complicate le necessarie consultazioni del premier, e diano il senso di un impegno pieno delle forze politiche che appena tre settimane fa hanno deciso di non andare al voto per evitare la bancarotta del Paese. Che la larga maggioranza dei soggetti politici in campo (con la dichiarata esclusione del Pd di Bersani) abbia vissuto con fastidio e disappunto l’investitura di un governo tecnico, è apparso chiarissimo fin dai giorni convulsi della nascita dell’esecutivo. Ugualmente evidente è il fatto che la forza del gabinetto-Monti risiede (oltre che nell’esplicito sostegno del capo dello Stato) nei risultati che riuscirà ad ottenere, piuttosto che nel sostegno di una maggioranza parlamentare pure larghissima. Detto tutto ciò, nessuno avrebbe potuto immaginare che la tiepida disponibilità della maggioranza uscente si sarebbe così rapidamente trasformata prima nel no della Lega e poi in quella sorta di gelo critico col quale il Popolo delle Libertà sta avvolgendo il governo del Professore. È un quadro che non può reggere a lungo, in tutta evidenza. Ed è un atteggiamento che dubitiamo finirà per risultare pagante, quando arriverà il tempo delle elezioni. Difficile infatti immaginare che gli italiani abbiano dimenticato dov’eravamo appena tre settimane fa: le solite risse sulle escort e sulla giustizia mentre il Paese affondava, lo sconcerto (e gli sfottò) della stampa internazionale intorno al caso-Italia, i sorrisi insopportabili - ma indimenticabili - della Merkel e di Sarkozy sollecitati a dire la loro sull’affidabilità italiana. Eravamo lì: e da lì, purtroppo, non siamo ancora sufficientemente lontani. E l’idea che a colpi di distinguo e prese di distanze si possano convincere gli elettori che il governo uscente avrebbe fronteggiato la crisi in maniera più efficace di quello presente, è del tutto illusoria: i cittadini, infatti, non potrebbero che chiedersi «e allora perché non l’avete fatto?». Meglio sarebbe rimboccarsi le maniche e dare una mano per quel che si può, ognuno rinunciando - come inevitabile, considerata la situazione - a qualcuno dei «punti fermi» dei propri vecchi e spesso fallimentari programmi. Insomma: uno sforzo esplicito e leale per il bene comune, come si sarebbe detto un tempo e non si dice più. È assai probabile, in fatti, che gli elettori siano più disposti a premiare nelle urne - quando sarà - un impegno evidente (e perfino autocritico) piuttosto che questa già insopportabile melassa fatta di ipocrisia, distinguo e incontri segreti più o meno smentiti... da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9531
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« Risposta #170 inserito:: Gennaio 02, 2012, 03:15:34 pm » |
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2/1/2012 Il doppio messaggio dal Colle FEDERICO GEREMICCA La prima è ripresa dal severo discorso tenuto da Papa Benedetto XVI in occasione degli auguri rivolti il 22 dicembre scorso ai membri della Curia romana: intendiamo il riferimento a quella «forza motivante» necessaria ha insistito Napolitano - «perché si sprigioni ed operi una volontà collettiva» indispensabile per superare le difficoltà e guardare al futuro con più ottimismo; la seconda è quella che il Presidente della Repubblica ha definito una «digressione personale»: e cioè la sua lunga militanza nelle file del Partito Comunista Italiano e «la vicinanza al mondo del lavoro, alle sue vicende e ai suoi travagli». Ricordare che la propria formazione politica sia avvenuta «nel rapporto diretto con la realtà delle fabbriche della mia Napoli», serve certo al Capo dello Stato per dire della comprensione che ha delle attuali difficoltà e per farsi garante - quasi - del fatto che non saranno né ignorate né sottovalutate; ma il richiamo ad una quasi comune provenienza, legittima - nel paragone con quanto accaduto negli anni del dopoguerra e poi della crisi economica del 1977 - la richiesta alle classi lavoratrici ed alle loro organizzazioni sindacali di rimettere in campo quello slancio costruttivo e quel senso di responsabilità mostrati in passato e indispensabili in un passaggio difficile come quello attuale. Che dire, invece, della «forza motivante» invocata da Napolitano sulla scia di quanto già affermato da Papa Benedetto XVI? L’esigenza e l’obiettivo appaiono chiari: ricercare un orizzonte, una motivazione, un traguardo - insomma - che sia capace di dare un senso ai sacrifici oggi richiesti ed una speranza per il futuro, soprattutto ai più giovani. Di recente, è quanto si è tentato di fare - con successo - ai tempi dell’ingresso nell’euro, di fronte ai sacrifici Era sicuramente il messaggio di fine anno più difficile da quando, nell’ormai lontano maggio del 2006, Giorgio Napolitano fu eletto presidente della Repubblica. Auguri complicati dal fatto che gli italiani sanno che l’anno che li attende sarà forse perfino peggiore di quello appena archiviato; ed una ricostruzione non facile di come si sia arrivati fin qui (la crisi economica e finanziaria, la caduta di Berlusconi, l’avvento dei tecnici) anche in ragione delle tante tensioni ancora vive e di talune fantasiose ricostruzioni intorno al ruolo che proprio il Capo dello Stato avrebbe giocato nello sviluppo della crisi. Come era lecito attendersi, nella sera dell’ultimo dell’anno, il Presidente non ha evitato alcuno dei temi in campo, affrontandoli con quel «linguaggio della verità» esplicitamente (ma inutilmente) invocato fin da quest’estate al Meeting di Rimini: e prendendo di petto le due questioni forse più spinose (un orizzonte di speranza e crescita che giustifichi i sacrifici chiesti; e le tensioni sociali e il malessere che serpeggiano tra le classi più colpite dalla manovra) è ricorso a due citazioni solo apparentemente così distanti tra loro. che anche allora vennero chiesti agli italiani. L’orizzonte, a quel tempo, era una Italia forte in una grande Europa: la stessa Europa alla quale oggi Giorgio Napolitano chiede - perfino con qualche rudezza - il riconoscimento degli sforzi che il nostro Paese sta compiendo. Queste due questioni sono collocate dentro un percorso che il Capo dello Stato definisce con nettezza: elezioni oggi sarebbero una jattura, e dunque va lasciato al governo di Mario Monti il tempo necessario a portare il Paese fuori dalle secche in cui è finito (incidendo ulteriormente su privilegi inaccettabili e spese dello Stato); i partiti politici (che devono metter mano a una profonda rigenerazione) affrontino intanto quelle riforme istituzionali evocate da decenni, mai realizzate e diventate oggi realmente indispensabili alla nostra democrazia. Per Silvio Berlusconi, infine, una sola fredda citazione: «Ha preso responsabilmente atto» della travagliata crisi politica che era in corso. Quasi come un sipario fatto calare, tra un brindisi e un fuoco d’artificio, su oltre tre lustri di vita politica capaci di segnare più nel male che nel bene - la storia e la vicenda italiana... da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9604
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« Risposta #171 inserito:: Gennaio 10, 2012, 10:49:18 pm » |
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Colpo di scena. nuovo presidente è Sergio Marotta
Addio «eccellente»: Vecchioni lascia la presidenza del Forum delle culture
Il cantautore amareggiato: «Pensavo di dovermi occupare solo di cultura. Scusate, mi sbagliavo. Torno a fare il lanciatore di coltelli, che forse mi riesce meglio»
NAPOLI — «Cari amici ci tenevo a farvi sapere che ho dato le mie dimissioni dal mio controverso ruolo di presidente del Forum di Napoli. Pensavo di dovermi occupare solo di cultura. Scusate, mi sbagliavo. torno a fare il lanciatore di coltelli, che forse mi riesce meglio». E’ il messaggio postato sul suo blog da Roberto Vecchioni, col quale annuncia che rinuncia all’incarico di presidente del Forum delle culture 2013. «Solo due cose voglio dire», aggiunge il cantautore. «Tenterò di farmi scivolare addosso le chiacchiere, non risponderò e nemmeno commenterò tutte le critiche e le voci maligne che metto già in conto, sarà solo e sempre quello che faccio a parlare per me. Ringrazio tutti (tantissimi) quelli che mi sono stati vicini in questo momento non facile per me. L’amore per la città della mia infanzia e per la cultura mi hanno forse fatto pensare di essere diverso da quello che sono: l’artista, il giocoliere di sogni e di parole vorrei regalarlo anche a Napoli».
LA LETTERA - Solo poche ore prima il cantautore aveva comunicato la sua decisione con una lettera al direttore del Forum, Francesco Caruso, e con una telefonata al sindaco Luigi de Magistris. Quello tra il primo cittadino e l’artista è stato un colloquio, raccontano i più stretti collaboratori del primo cittadino, lungo e dai toni pacati. Alla base della scelta del cantautore, secondo quanto egli stesso ha detto a de Magistris, la difficoltà a conciliare la sua vocazione di artista con le necessità organizzativo-manageriali connesse all’incarico. Si conclude dunque, ancor prima di cominciare davvero, l’avventura del cantante alla presidenza del Forum. Una vicenda che era stata già segnata dalle polemiche, dalle discussioni, dal dibattito relativi al compenso assegnatogli per ricoprire il ruolo. Inizialmente gli erano stati infatti proposti 150 mila euro sotto la voce «diritti d’immagine» e «spese di staff». Troppi, secondo chi aveva criticato quella scelta. Era stato peraltro proprio Vecchioni, circa un mese fa, a troncare di netto le polemiche. «Ho deciso di accettare l'incarico senza compenso - aveva annunciato - perché nutro un sentimento di profondo amore per Napoli, perché a Napoli è iniziata una nuova ed entusiasmante stagione politica, perché il Forum sarà un'occasione per rilanciare la città e per consolidare l'unità del nostro Paese». Il sindaco de Magistris non era stato meno prodigo di complimenti, di auspici, di belle speranze. «La decisione di Vecchioni», aveva detto ad inizio dicembre, «fa onore non solo all'artista ma soprattutto alla sua persona. Ieri il colpo di scena, anche se, a dar credito alle parole di Daria Colombo, moglie e manager del cantante, quello di Vecchioni non è un addio a Napoli. «Roberto», sostiene, «continuerà ad impegnarsi per la città, anche se lo farà nella maniera che gli è più consona, quella di artista».
Fabrizio Geremicca
10 gennaio 2012© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #172 inserito:: Gennaio 18, 2012, 12:06:20 pm » |
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18/1/2012 La rivincita dei forconi FEDERICO GEREMICCA Si può metterla alla solita maniera, naturalmente, e dire che è l’ennesima storia siciliana, confusa, opaca, certamente incomprensibile sul continente, e comunque un paio di giorni e la fiammata si spegnerà. Possibile. Intanto, però, i primi due giorni sono passati, e mentre a Palermo - già quasi in emergenza - le auto fanno la fila per accaparrarsi le ultime gocce di benzina, nei magazzini di mezza isola tonnellate di frutta, verdura e pesce fresco vanno in malora, e il traffico stradale e ferroviario è già pesantemente in tilt. Con scarsa fantasia, forse, contadini, pescatori e camionisti hanno chiamato la loro «rivolta» (cominciata lunedì, finirà alla mezzanotte di venerdì) Operazione Vespri siciliani. Le analogie sono inesistenti: tranne, forse, per l’agitarsi sullo sfondo di ombre misteriose e dagli obiettivi nient’affatto chiari... Comunque la si voglia vedere - e da vedere ci sarà molto - dopo mesi e mesi di crisi inarrestabile, quel che da 48 ore sta andando in scena tra Catania e Ragusa, Caltanissetta e Palermo, è l’irruzione in campo di quella che un tempo si sarebbe definita semplicemente «gente in carne e ossa». E’ la rivincita dei trattori sullo spread, insomma, dei forconi sui Btp e dei Tir sugli Eurobond. Dopo tanto parlare di tensioni sociali e famiglie che non arrivano più a fine mese, dunque, la rivolta è esplosa. Non è che ci sia da rallegrarsene, naturalmente: ma se qualcuno ancora sperava che la crisi potesse restar confinata nel limbo, nel mondo asettico dei titoli e degli indici di Borsa, ora potrà rifare i propri conti. La miccia che ha fatto esplodere la rivolta, dopo settimane di lenta incubazione, è tutta in una domanda alla quale i siciliani aspettano ancora una risposta: ma com’è possibile che qui, dove si raffina il 40% della benzina italiana, gasolio e super spesso costano perfino più che altrove (Lampedusa, per dire, ha il record europeo del caro-benzina)? Gli ultimi aumenti hanno di fatto messo definitivamente in ginocchio il mondo dell’autotrasporto, della pesca e dell’agricoltura: e sono giusto queste tre categorie - spalleggiate da indignatos più o meno indigeni - ad aver dato il via alla protesta che sta paralizzando interi settori produttivi dell’isola. Dietro le quinte - o addirittura sul proscenio della protesta - si muovono figure ambigue, sfuggenti, dal profilo sfumato. Il capo del «Movimento dei Forconi», che organizza braccianti e contadini, è un uomo non lontano da Raffaele Lombardo, governatore siciliano; nelle retrovie di «Forza d’urto» si agitano esponenti di Forza Nuova, movimento dell’estrema destra, il cui leader - Roberto Fiore - inneggia da giorni alla protesta; alle assemblee preparatorie dell’Operazione Vespri siciliani si è spesso visto Maurizio Zamparini, presidente del Palermo calcio e addirittura fondatore di un movimento anti-Equitalia. L’elenco potrebbe naturalmente continuare, ma con l’unico risultato di aumentare la confusione. Chi invece questa confusione dovrebbe provare a scioglierla, chi dovrebbe moderare le esasperazioni (ieri c’è stato il primo ferito) e indicare una rotta - la politica, intendiamo - è del tutto assente. E quando è presente è quasi peggio, visto che soffia pericolosamente sul fuoco. Delegittimata dai suoi stessi comportamenti e ora platealmente commissariata dall’équipe di tecnici del professor Monti, la politica - i partiti - cercano confusamente la via da seguire. La destra aizza la rivolta, ma non è l’unica: condizionati dall’importante tornata elettorale alle porte (in primavera si va al voto in centinaia di comuni, Palermo, Trapani e Agrigento compresi) forze politiche e singoli leader provano a stare nella «rivolta». Leoluca Orlando - nuovamente candidato a sindaco di Palermo - e l’Italia dei valori siciliana, esprime comprensione per la protesta (e ci mancherebbe...), blocchi stradali e ferroviari compresi. Raffaele Lombardo si schiera e promette. E altri lo seguono. Non sono segnali tranquillizzanti. Ma soprattutto non è tranquillizzante l’idea che la politica piuttosto che risolvere i problemi - li amplifichi e li esasperi, sperando di ricavarne vantaggi. Vecchi sistemi e modi di fare usurati: che nemmeno l’avvento di Monti, però, è riuscito a cancellare. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9661
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« Risposta #173 inserito:: Febbraio 03, 2012, 12:10:47 pm » |
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3/2/2012 Anime morte il veleno della politica FEDERICO GEREMICCA Ormai è come una caccia all’uomo. Casa per casa, ufficio per ufficio, segretaria per segretaria, vitalizio per vitalizio. Non siamo ancora al clima dei mesi terribili di Tangentopoli, quando politici, ministri e amministratori di qualunque livello non potevano nemmeno mostrarsi in pubblico - pena insulti e lanci di monetine - ma non è detto che non ci si arrivi. E non sarebbe un bene, se è vero (come è vero) quel che ha lamentato ieri Bruno Tabacci, uno che Tangentopoli l’ha vista da vicino: «Siamo passati da Severino Citaristi a Luigi Lusi... La questione morale non è stata affatto risolta. Anzi: negli ultimi venti anni si è andata appesantendo». Si tratta di un giudizio difficilmente contestabile: e di una situazione - quella attuale - della quale i partiti portano, naturalmente, il massimo della responsabilità. Tutti i partiti, con differenze non significative: a cominciare da quella Lega «di lotta e di governo» che un tempo con pessimo gusto - faceva penzolare cappi nell’aula di Montecitorio ma i cui parlamentari, oggi, ricorrono in massa contro la riforma dei vitalizi. E’ ai partiti, dunque, che va imputato l’attuale stato di cose, compreso il perdurante discredito che li circonda: ma se si vuole davvero cambiare questa insostenibile situazione, è precisamente dai partiti (soprattutto in presenza di un governo che per il momento, saggiamente, si tiene alla larga dalla canea montante) che va pretesa una soluzione. Naturalmente, il punto è volerla davvero, una soluzione. E non limitarsi considerata la già provata insufficienza - a campagne di denuncia, invettive e cavalcate moralistiche (nelle quali i partiti stessi sono spesso in prima fila...) che possono tutt’al più fungere da lavacro per troppe cattive coscienze, ma certo non cambiare lo stato delle cose. Se nonostante il moltiplicarsi di censori severissimi e di moralizzatori dell’ultima ora nulla è cambiato da Tangentopoli a oggi, è semplicemente perché nulla di concreto è stato fatto: nulla che impedisse - o rendesse più difficile - il ripetersi di episodi di corruzione e di malcostume politico. Oggi, in tutta evidenza, il bivio è chiaro: si intende far qualcosa o solo dare l’impressione di star facendo qualcosa? Se la maggioranza degli eletti in Parlamento pensasse che sia la seconda la via da battere, sappia che il rischio è elevatissimo, perché non c’è Paese democratico che possa restar tale a lungo con la politica, i partiti e le istituzioni ridotte ad anime morte. Se invece - anche solo per l’evidente impossibilità di difendere posizioni di privilegio non più tollerabili - ci si fosse finalmente convinti ad intervenire, il lavoro da fare è certo molto: ma la strada è tracciata. E sono le stesse forze politiche, del resto, ad elencare da anni (e naturalmente a non fare) le tre, quattro cose da cui partire. Una legge che dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione e disciplini ruolo, funzioni e regole interne dei partiti politici; una legge elettorale che ridia ai cittadini il diritto di scegliere i propri eletti, così da poterli cambiare (oggi nemmeno questo è possibile!) in caso di inefficienza o immoralità; norme che disciplinino le primarie, così da assicurarne la regolarità e da renderne vincolante l’esito; una legge che riduca il numero dei parlamentari (è imbarazzante perfino scriverlo per la millesima volta...) e differenzi compiti e ruoli delle due Camere. E poi regolamenti che ristabiliscano - per gli ex presidenti della Repubblica, gli ex presidente di Camera e Senato, gli ex parlamentari e quelli in carica - chi ha diritto a cosa e perché. Senza riferimenti certi - senza leggi, insomma - tutto resterà nell’incertezza e nella discrezionalità più assoluta: e il populismo demagogico imperante (dentro e fuori i partiti) non potrà che ingrossare ulteriormente le proprie fila. Ciò a cui si assiste ormai da mesi, infatti, non è un dibattito (magari duro ma civile) su come rifondare politica e partiti, quanto - piuttosto una sorta di regolamento di conti, una guerra senza quartiere che difficilmente potrà avere vincitori. Accadde lo stesso venti anni fa con Tangentopoli, dopo la quale sul terreno non rimasero che macerie politiche. Su quelle macerie nessuno ricostruì un sistema fatto di regole e leggi che impedissero il ritorno del malcostume e della corruzione: il risultato, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che l’errore rischi di ripetersi è avvilente. Avvilente e pericoloso: per il Paese - certo - e per gli stessi partiti ormai sul punto di affogare nel loro stesso discredito. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9730
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« Risposta #174 inserito:: Febbraio 12, 2012, 02:43:07 pm » |
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12/2/2012 Pd e Pdl tentati dal ritorno agli antichi riti FEDERICO GEREMICCA Mentre Mario Monti lavora lungo l’asse Roma-Bruxelles-Washington per convincere - a quanto pare con successo - capi di governo e mercati circa la rinnovata affidabilità italiana, i partiti politici sembrano aver deciso di metter finalmente mano alla riscrittura di alcune regole di sistema fondamentali per il futuro del Paese: a cominciare, in particolare, da una nuova legge elettorale. Si tratta di un lavoro complicato, naturalmente, difficile - per altro - da immaginare del tutto sganciato dall’impalcatura istituzionale che la nuova legge dovrebbe animare e però avviato (a quel che è dato capire) col piede sbagliato. Il punto di partenza assunto è sacrosanto: restituire ai cittadini il potere di scegliere i propri eletti in Parlamento. Già il fatto, però, che questo obiettivo sia considerato raggiungibile solo col ritorno ad una legge elettorale proporzionale (è su questo che si lavora) è cosa discutibile; che il passaggio successivo - poi - debba consistere nell’abbandono dell’assetto bipolare del sistema politico, lo è ancor di più; ma quel che appare davvero sorprendente, è l’approdo cui la nuova legge dovrebbe portare. Infatti, messa in agenda per permettere agli elettori di selezionare i propri eletti, essa potrebbe finire per negare ai cittadini il potere di una decisione perfino più importante: la scelta dell’uomo chiamato a governare il Paese. Il condizionale è d’obbligo, considerato che il lavoro è solo iniziato: ma proprio la circostanza che si sia ancora nel pieno dell’opera, permette di porre un paio di questioni che sarebbe sbagliato sottovalutare. La prima riguarda il fatto che la traccia su cui si sta lavorando costituisce oggettivamente un atto di prepotenza nei confronti del milione e più di cittadini che nei mesi scorsi ha firmato per un referendum che si proponeva addirittura un rafforzamento del profilo maggioritario dell’attuale legge elettorale: occorre convincersi che continuare a ignorare le indicazioni che vengono dal Paese (in materia di acqua, di finanziamento pubblico ai partiti, di legge elettorale...) non solo è insopportabile, ma rischia di ridurre ancor di più la già scarsa fiducia di cui godono i partiti. La seconda questione - invece - è tutta in una domanda ed è, se possibile, ancor più rilevante: ma davvero si pensa ad un ritorno al passato tale da riproporre un sistema noto e abbandonato, una legge elettorale - cioè - per la quale votavi La Malfa e ti ritrovavi a Palazzo Chigi Craxi, e se sceglievi il Psdi potevi esser certo che il governo l’avrebbe guidato un democristiano? Dopo quasi vent’anni - non certo idilliaci - durante i quali gli italiani si sono divisi intorno alla possibilità o meno di avere Berlusconi a Palazzo Chigi (Berlusconi: non un leader alleato o un altro esponente del Pdl), continuando intanto a scegliere il sindaco, il governatore o il presidente della Provincia che li avrebbe governati, un tale salto all’indietro appare non solo poco comprensibile, ma anche poco digeribile. Viene da chiedersi dove siano finiti i tanti paladini del bipolarismo. E sorprende che nessuna protesta - anzi! - si alzi dalle file del centrodestra, da anni sempre pronto al «o Berlusconi o elezioni» e a grida e lamenti su ribaltoni presunti e complotti in divenire. Nessuna persona ragionevole e in buona fede, naturalmente, può negare quanto rabberciato, confuso e incompleto sia stato in questi anni il «bipolarismo all’italiana». E tutti capiscono perché l’indicazione diretta del premier oggi appassioni assai meno il centrodestra, orfano di un Berlusconi che ripete di non volersi ricandidare. Ma sono motivi sufficienti per buttar via - come si è soliti dire - il bambino con l’acqua sporca? E il Pd dell’alternativa (e prima ancora della «vocazione maggioritaria») non ha nulla da dire o da obiettare? Il passaggio è delicato - molto delicato - visto che è in discussione l’assetto futuro del Paese. E sarebbe forse il caso di affrontarlo con qualche furbizia in meno e un po’ di lungimiranza in più. Per altro, tra i tanti problemi che i partiti politici hanno di fronte, ce n’è uno che sarebbe micidiale sottovalutare: il confronto tra il loro agire e l’agire del governo Monti. L’esecutivo ha dalla sua rapidità di decisione, sobrietà e un crescente prestigio internazionale; a questo sarebbe suicida contrapporre anche solo la sensazione che si intenda chiudere in fretta la parentesi, e non per andare avanti ma per tornare agli antichi riti. Se si è finalmente avviato il confronto sulla legge elettorale affermando che occorre ridare al cittadino la possibilità di scegliere il suo deputato, sarebbe grottesco concluderlo togliendogli il potere di scegliere chi lo governerà. Pochi capirebbero. E molti, magari, penserebbero «teniamoci i tecnici, che chi si fida di quei partiti là». da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9762
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« Risposta #175 inserito:: Febbraio 23, 2012, 11:30:19 am » |
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23/2/2012 Articolo 18 un'occasione per il Pd FEDERICO GEREMICCA Che si tratti di obiezioni di merito o di metodo, piuttosto che di una scelta tattica (o addirittura generata dalle crescenti tensioni interne al Pd), sta di fatto che il «nuovo corso» avviato da Pier Luigi Bersani nei confronti del governo-Monti, rischia di precipitare i democratici in un paradosso del tutto inatteso: e cioè, «regalare al centrodestra» (per usare una formula assai di moda) attori e risultati di un esecutivo che il Pd più di ogni altro - e Bersani prima di tutti - ha voluto così fortemente da rinunciare addirittura a elezioni che lo avrebbero visto sicuro vincitore. La prospettiva (lontana ma certo non più remota) sta naturalmente molto agitando le acque in casa democratica: ma poiché non tutti i mali vengono per nuocere, sarebbe allora utile che il Pd cogliesse l’occasione di questa nuova divisione interna non per concluderla con la solita conta tra correnti, ma per meglio definire - prima di tutto come dovere verso i suoi iscritti ed elettori - gli altri «pezzi» non secondari della sua ancora labile identità. Infatti, anche se la sorpresa sarebbe grande, può certo accadere che - in ragione dei tentennamenti e delle prese di distanze del Pd - proprio Silvio Berlusconi (che ha dovuto lasciare Palazzo Chigi di malavoglia per far spazio a Monti) si ritrovi ad essere lo sponsor più convinto del suo indesiderato successore: ma il partito che avesse determinato una tale parabola cioè il Pd - avrebbe l’obbligo di una chiara e limpida spiegazione. Cos’è che è cambiato? In cosa i democratici non sono (o non sono più) d’accordo con Monti? E che cosa propongono di fare in alternativa? Da questo punto di vista, la discussione che si è aperta intorno alla possibile riforma dell’articolo 18 potrebbe essere perfetta per un chiarimento che investa la natura stessa (la ragione sociale, si potrebbe dire) del Partito democratico. Essa, infatti, potrebbe aiutare a meglio definire - e una volta per tutte - questioni tutt’altro che marginali, ma ciò nonostante ancora irrisolte: a partire dall’idea che si ha del mercato del lavoro e dei meccanismi che devono regolarlo, fino al rapporto con le organizzazioni sindacali e con il loro presunto diritto di condizionamento (e talvolta di veto) dentro e fuori i luoghi di lavoro. Purtroppo, invece, la via imboccata sembra esser fatta - ancora una volta di scorciatoie, divagazioni e uso strumentale (a fini interni) delle questioni sul tappeto. Piuttosto che discutere per dirne una - se sia possibile per un esecutivo varare norme senza l’accordo dei sindacati, si litiga sull’opportunità che il responsabile economico del partito sfili in corteo con la Fiom contro i provvedimenti di un governo al quale ha votato la fiducia (questione che si credeva risolta, in verità, già al tempo dei ministri comunisti in piazza contro il governo Prodi...). Per non dire, naturalmente, degli ulteriori elementi polemici (molto spesso assai distanti dalla questione sul tappeto) con i quali gli oppositori interni del segretario appesantiscono e deviano la discussione: dalla legge elettorale alle primarie, fino ai futuri e possibili rapporti con Monti e la sua squadra. Il risultato è quello che va delineandosi con sempre maggior chiarezza: un ritorno di quell’incertezza e quella confusione - insopportabile ai più - che aveva caratterizzato l’ultimo anno almeno del governo di Silvio Berlusconi. E il riproporsi - in maniera perfino più acuta - di quello che è stato forse l’elemento più penalizzante per il Pd in questa legislatura: la sensazione, cioè, che non costituisse una alternativa credibile al centrodestra. Che non fosse, insomma, una forza politica affidabile. Un vecchio proverbio afferma che una scelta è sempre meglio di due mezze scelte. Applicato al rapporto del Pd col governo Monti, lo si potrebbe tradurre così: o di qua o di là è sempre meglio che un po’ di qua e un po’ di là. Anche perché, ripresosi dallo choc delle dimissioni, Berlusconi sembra aver fatto la sua scelta: tutti a sostegno del governo, senza se e senza ma. Il rischio, per il Pd, è dunque il paradosso di cui si diceva all’inizio: «regalare Monti» alla destra dopo aver fatto tanto per averlo al governo. A occhio e croce, non proprio un buon affare... da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9806
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« Risposta #176 inserito:: Marzo 09, 2012, 11:43:50 am » |
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Politica 06/03/2012 - reportage L’amarezza di Rita e il tramonto di una città che non c’è più Palermo, vince Ferrandelli alle primarie E nei bar qualche elettore Pd sbuffa contro "i professionisti dell’antimafia" FEDERICO GEREMICCA inviato a Palermo In una domenica un po’ grigia, col vento fresco che spazza le vie e le piazze della città, «Rita» - oppure «la signora» - come semplicemente la chiamano qui, è stata bocciata e rimandata a casa dal suo stesso «popolo della sinistra». Che questo sia accaduto a pochi mesi dal ventennale del barbaro assassinio del fratello, forse non è un caso: e certo non resterà senza conseguenze... E’ una fase che si chiude, una pagina che si volta: e per paradossale che possa sembrare, non è scontato che sia un male per Palermo. Seduto a un tavolino del bar Spinnato, uno dei più celebri della città, Antonello Cracolici - capogruppo Pd alla Regione, tessitore del patto di governo con Lombardo e grande sponsor di Fabrizio Ferrandelli, il giovane vincitore della disfida di Palermo - non infierisce perché sa che non è il caso, e che non bisogna esagerare. Dunque, minimizza: «Alle ultime elezioni europee, Rita ha avuto 240 mila voti: compreso il mio. E se si ricandiderà a Strasburgo, lo avrà di nuovo. Ma non credo che sarebbe stato un buon sindaco della città: ed è per questo che abbiamo sostenuto un altro candidato». E’ una motivazione possibile, certo. Plausibile. Ma forse non completa, e non del tutto vera. Un pezzo di verità, infatti, quasi lo urla un anziano signore che riconosce Cracolici al bar, gli si avvicina e dice: «Bravo onorevole. Basta a farsi belli con il merito degli altri...». E in questo caso intende col sacrificio di Paolo Borsellino. E’ un problema antico. Leonardo Sciascia ci si avvicinò e fu lapidato per aver coniato una definizione che, spesso stravolta, ha comunque fatto storia: «professionisti dell’antimafia». La faccenda, naturalmente, non può certo riguardare «Rita» (il solo pensarlo è una bestemmia) ma il modo di intendere trent’anni di antimafia, forse sì: i buoni - anzi gli ottimi - tutti da una parte, i cattivi inesorabilmente tutti dall’altra; una linea dritta, tirata per dividere la città: di qua gli ottimi, di là i «contigui». Una cultura (e poi una politica) manichea e senza dubbi, senza zone d’ombra: inevitabile, forse, negli anni terribili dello scontro armato, ma delle stragi del ’92 ricorre il ventennale, tanta acqua più pulita è passata sotto i ponti, la mafia ha rinculato sotto i colpi dello Stato (trasformandosi in qualcos’altro per l’ennesima volta) e tentare di far rivivere a ogni costo gli steccati degli anni bui non solo non sembra utile, ma non funziona più. «Rita» se ne sta nella sede del suo comitato elettorale, poche stanze affollate e disadorne a due passi dal centro della città. Non parla, è delusa, incerta sul futuro, dubbiosa su quel che è stato. Bersani la chiama, la ringrazia per la forza e il coraggio con cui si è spesa. Ma alle sette della sera «la signora» guarda la tv e si imbatte in Enrico Letta, che avvisa: «Il segnale di Palermo è chiaro: ci chiedono facce nuove...». Anche il primo - e il più ingombrante - dei suoi sponsor, Leoluca Orlando, per ora tace: anzi, pochissime parole per dire che le primarie sono state inquinate dal voto dei fan di Lombardo a Ferrandelli (che fino a un mese fa, peraltro, militava nell’Idv assieme a lui). E’ il ritorno in campo dell’anatema, della scomunica. Ma, su 30 mila partecipanti alle primarie, quasi 20 mila hanno detto no a «Rita»: e forse è troppo semplice marchiarli tutti con il timbro di «contigui», «inquinatori» e via dicendo. Sia come sia, si ricontrollano i voti. I garanti sono al lavoro e già oggi, probabilmente, emetteranno la loro sentenza. Il verdetto, se confermasse l’esito della consultazione, getterà altra benzina sul fuoco della polemica che infiamma a Roma intorno ai destini della cosiddetta «foto di Vasto», cioè l’alleanza tra Pd, Sel e Idv. Qui, invece, la questione sarà un’altra: provare a vincere le elezioni di maggio, ricostruendo - prima di tutto - un minimo di solidarietà e fiducia tra vincitore e vinti di queste primarie velenose. Lei, «Rita», ci sarà poco o forse niente. «La mia linea - aveva detto all’inizio dell’avventura - è mai accordi con Lombardo e il Terzo polo». Fabrizio Ferrandelli (una faccia da Cetto La Qualunque) e i suoi sponsor - Antonello Cracolici e il senatore Lumia - non la pensano così, visto che già in Regione sono al governo con Lombardo. Tutti «contigui»? Chi lo sa... Certo, se così fosse, bisognerebbe riscrivere un po’ di storia. Ma non è questo, adesso, il problema di Palermo. E si spera, anzi, che non lo sia mai più... da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/445202/
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« Risposta #177 inserito:: Marzo 18, 2012, 10:14:03 am » |
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Cronache 18/03/2012 - immigrazione, la nuova emergenza Lampedusa polveriera L'isola rivive l'incubo del 2011 Le salme dei cinque migranti deceduti in mare durante la notte arrivano al porto di Lampedusa Il sindaco: qui il clima è già pesante, Monti intervenga subito FEDERICO GEREMICCA Lampedusa Alle cinque del pomeriggio sono tutti lì, sul molo, isolani e autorità, curiosi e militari, tragici protagonisti di un film purtroppo già visto e perfino rivisto. Le cinque bare con i corpi degli immigrati morti (tre giovani e due donne) sono poco lontano: ed è forse proprio la presenza di quei feretri a mitigare almeno un po’ la rabbia che monta. Ai primi sbarchi e ai primi morti, Lampedusa è già una polveriera. E ci sono molti motivi - alcuni buoni, altri cattivi - perché la situazione sia così. Quelli ufficiali - e dunque, diciamo, quelli buoni - li urla nel cellulare il sindaco dell’isola, Dino De Rubeis, già in prima linea l’anno scorso, proprio di questi tempi, di fronte a ondate di sbarchi (50mila fu il totale degli arrivi nel 2011) che travolsero letteralmente Lampedusa. E’ furibondo: «La libera informazione va garantita, ma sono qui in mezzo a gruppi di fotografi che continuano a scattare centinaia di immagini delle bare, e a che diavolo serve - se non a danneggiarci - mandare in giro per il mondo foto di bare? Tutti i telegiornali hanno già cominciato a parlare di una nuova invasione dell’isola, e questo ci rovina perché produrrà altri danni al turismo e noi qui è di turismo che viviamo». Tira il fiato per un attimo, poi continua: «E’ inutile nascondersi dietro a un dito: qui il clima è già pesante e io chiedo ufficialmente a Monti di intervenire immediatamente: sono tecnici, non rischiano polemiche e strumentalizzazioni, quindi si diano da fare. E lo facciano in fretta». Clima già pesante, dice il sindaco. Che non dice tutto, però: più di un ufficiale della Marina, infatti - oltre a qualche funzionario dello Stato - ieri si è sentito rispondere da diversi albergatori che non c’erano stanze per loro: hotel pieni o in ristrutturazione... La verità è che i lampedusani non vogliono che si rimetta in piedi quel «circo» (lo chiamano così) fatto di giornalisti, militari e volontari che l’anno scorso occupò di fatto l’intera isola da gennaio a giugno. Donato De Tommaso, instancabile comandante della stazione dei carabinieri di Lampedusa, non nega che ci sia tensione, ma chiarisce: «Intanto le stanze per gli operatori che devono venire qui, sono state trovate... Certo, c’è nervosismo: ma vedrete che i lampedusani si confermeranno popolo generoso». E’ possibile che sia così. Ma almeno un paio di faccende inducono - invece a un certo pessimismo. La prima riguarda il Centro di accoglienza dell’isola che (proprio come l’anno scorso all’inizio della grande «invasione») è desolatamente chiuso, in attesa da mesi di esser sottoposto a collaudo dopo l’incendio che ne distrusse un’ala l’anno scorso. Dice De Rubeis, il sindaco: «Decidano cosa farne. Noi non vorremmo che riaprisse, ma questo è possibile solo se si riesce a bloccare il flusso di migranti all’origine: perché se invece li fanno arrivare fin qui, certo non possiamo ritrovarci come nel 2011 con migliaia di tunisini e libici liberi e in giro per le nostre strade». E’ un problema, certo: che rischia di esser ingigantito dalla seconda faccenda, potenzialmente ancor più esplosiva. E’ presto detto: il 6 e il 7 maggio Lampedusa vota per rieleggere il suo sindaco, e considerato che l’anno scorso l’«invasione» degli immigrati costò all’isola un calo di oltre il 50 per cento delle presenze turistiche, la battaglia elettorale rischia di trasformarsi in una gara a chi è più duro verso i clandestini e a chi promette interventi e misure il più rigide possibile. Non lo dice così chiaramente, ma nemmeno lo nasconde, Angela Maravantano, senatrice leghista di Lampedusa (fu eletta candidandosi in Emilia...) che ancora non ha deciso se candidarsi a sindaco. «Noi siamo solidali con i clandestini: ma se vengono intercettati in acque internazionali, a 70 miglia dall’isola, qualcuno ci deve spiegare perché vengono portati sempre e tutti qui». L’attacco della senatrice, naturalmente, è al governo Monti: «Qui non è il momento di proporre baratti del tipo voi accogliete gli immigrati e noi in cambio vi diamo questo o quello... Quest’isola vive di turismo, l’anno scorso la stagione è stata disastrosa, c’è gente che non ha guadagnato una lira e non accetteremo che anche quest’anno vada così. Chi ha il dovere di intervenire lo faccia, perché dopo che i Tg hanno dato la notizia dei cinque morti e dei nuovi sbarchi, sono arrivate le prime disdette di prenotazioni. Facciano in fretta, però, perché rischiamo la “sindrome maltese”, cioè il rifiuto degli immigrati; e perfino lo sciopero fiscale: non pagheremo più le tasse, perché non abbiamo nemmeno un ospedale e ci sentiamo lasciati in balìa delle ondate di clandestini». Gli aerei della Guarda di Finanza e della Capitaneria di porto si alzano in volo a metà giornata e scorgono all’orizzonte nuove carrette del mare. Almeno 300 immigrati arriveranno sull’isola in meno di 24 ore: e potrebbero essere solo l’avvisaglia della nuova e temuta invasione. La gente bestemmia, le condizioni meteo non sono ideali per la traversata dalle coste libiche o tunisine, ma nemmeno così negative da impedirla. Si scruta l’orizzonte, dunque, e si spera nel cattivo tempo. Proprio come un anno fa. E proprio come se quanto accaduto non avesse insegnato niente... da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/446818/
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« Risposta #178 inserito:: Aprile 04, 2012, 05:04:02 pm » |
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4/4/2012 La quaresima della classe politica FEDERICO GEREMICCA Sarà perché a volte le cose si vedono meglio stando lontano dal campo di battaglia, oppure sarà per la circostanza che il passo indietro fatto in autunno non ha appannato un certo fiuto politico. Fatto sta che ci ha dovuto pensare Silvio Berlusconi ieri - a raffreddare gli spiriti di rivalsa che vanno montando nel suo partito. Il governo di Monti non si tocca fino a fine legislatura, ha ripetuto. E a chi considera questa scelta rinunciataria, ha spiegato: «La classe politica gode della fiducia del 4-5 per cento degli italiani. E una percentuale di elettori che sfiora il 60 per cento, oggi non saprebbe nemmeno per chi votare». Quindi, nervi a posto, sostegno a Monti e avanti sulla via delle riforme. Si tratta di una presa d’atto assai realistica circa il clima che si respira nel Paese, e che restituisce tutt’altro peso e valore alla pur importante tornata elettorale del 6 e 7 maggio. In entrambi gli schieramenti, infatti, fino ad ancora un paio di settimane fa c’era chi attribuiva al prossimo voto amministrativo addirittura il valore di un giudizio sull’operato del governo, da mandare eventualmente a casa per accorciare la penitenza cui sono obbligati i partiti. Non ci voleva molto, in verità, a capire che le cose stavano in tutt’altro modo: e che a rischiare l’osso del collo - nel voto di maggio - saranno certo più i partiti che l’esecutivo tecnico di Mario Monti. Lo “scandalo dei tesorieri” (prima Lusi, Margherita, e ora Belsito, Lega) ha soltanto aggravato una situazione di difficoltà che era già sotto gli occhi di tutti. Difficoltà che, in parte, sono addirittura oggettive: se solo si pensa, per esempio, alla complessità di condurre una campagna elettorale contro partiti che sono avversari magari a Palermo o a Verona - per dire ma alleati (seppur di malavoglia) a Roma. O, ancora, al fatto che nessun candidato - né di centro, né di destra e nemmeno di sinistra - potrà stavolta esser sostenuto da ministri e sottosegretari col solito corteo di auto blu (con tutto quel che significa in termini di clientela, promesse e consenso). Non è forse mai accaduto, in Italia, nemmeno ai tempi del governo «tecnico» di Ciampi. Il fatto è che la «classe politica» - per usare un termine che andrebbe cancellato - è in piena Quaresima: ma con una Pasqua che appare ancora lontanissima... A queste difficoltà oggettive si sono via via aggiunti, nelle ultime settimane, problemi che hanno fiaccato ancor di più lo stato di salute di tutte le forze politiche, praticamente nessuna esclusa. Scandali a catena - da Sud a nord - con sindaci sotto tiro per regali a base di ostriche e prelibatezze di mare, e tesorieri indagati per spaghettini al caviale a spese del partito. Poi, naturalmente, le difficoltà politiche legate all’incalzante (e discussa) azione del governo: dall’alta tensione nel triangolo Pd-CgilFiom ai malumori nel Pdl, che ha visto colpita dal governo anche parte (piccola parte...) del proprio insediamento elettorale. I partiti, insomma, arrivano senza potere e senza quasi più onore all’appuntamento elettorale che avrebbe dovuto invece decidere della durata del governo Monti e che - al contrario - si va caratterizzando come un esame delicatissimo circa le loro possibilità di ripresa e di rilancio. Il proliferare di liste civiche e l’enorme numero di candidati in campo, forse riuscirà a mascherare le difficoltà di questo o quel partito rendendo praticamente quasi impossibile separare vinti e vincitori. Ma c’è un dato che sarà difficilmente aggirabile: il livello crescente di disaffezione elettorale. In calo ormai da anni, la partecipazione al voto rischia di essere ulteriormente depressa dalla presenza a Roma di un governo che rappresenta - per la sua stessa e sola presenza - un muto atto d’accusa verso i partiti. A fronte di questa novità, ben altro - si era detto - avrebbe dovuto essere l’azione dei partiti. E invece, dagli scandali a raffica fino all’efficacia dell’azione politica (si pensi alla palude in cui sembrano finite le riforme) si è continuato l’andazzo di prima. Si poteva far senz’altro meglio: e il rischio, adesso, è raccogliere frutti amarissimi nelle prime vere elezioni al tempo dei tecnici... da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9961
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« Risposta #179 inserito:: Aprile 12, 2012, 03:38:23 pm » |
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12/4/2012 Come ripartire dalle ceneri dell'antipolitica FEDERICO GEREMICCA Faceva perfino un po’ di tenerezza, ieri mattina, ascoltare Bobo Maroni all’uscita della Procura di Milano: «Siamo a completa disposizione dei giudici - spiegava -. La Lega non ha niente da nascondere...». Meno tenerezza, naturalmente, avevano fatto - per anni - gli slogan razzisti e i cappi penzolanti: versione audio e video di una furia antipolitica giunta - per fortuna di tutti - al capolinea. E un sentimento analogo - quasi di umana pietà - ha accompagnato l’ascoltare certe difese cui è stato più volte costretto Antonio Di Pietro, ora per coprire gli scivoloni del figlio Cristiano (ah, questi figli) ora per giustificare storie di ristrutturazioni e appartamenti giudicati sospetti. Anche Di Pietro, naturalmente, prima e dopo questi passi falsi, non è che suscitasse - e susciti - sfrenate simpatie, sempre in groppa ad un giustizialismo rapidamente sconfinato nell’antipolitica. L’elenco è lungo. E potrebbe comprendere - fatte le dovute e non irrilevanti differenze le difficoltà ciclicamente incontrate da Beppe Grillo o la marginalizzazione che è toccata alla sinistra cosiddetta «radicale». Ma quel che qui importa, dopo il terremoto che ha scosso via Bellerio, è registrare il declino - anzi: il fallimento - di un’idea eccessivamente semplificata della politica e del far politica: la convinzione, cioè, che basti fiutare il vento, orientare le vele, cavalcare qualunque onda e il gioco è fatto. La gente è stufa degli sperperi di danaro pubblico? Ecco pronto il «Roma ladrona». I cittadini non ne possono più del potere onnipresente e soffocante dei partiti? Ecco «la Casta», attacco indifferenziato a tutto e tutti, postulato e propellente per ogni antipolitica: di destra e di sinistra, sia chiaro. L’idea che alcuni problemi - in questo caso la drammatica degenerazione del ruolo e del carattere dei partiti politici - abbiano bisogno di una soluzione e non solo di una continua e opportunistica denuncia del malaffare, ormai non sfiora quasi più nessuno. Per anni - e da più parti - si è continuato a gettare benzina sul fuoco dello sdegno popolare convinti che questo avrebbe conservato e anzi accresciuto il consenso del proprio gruppo o del proprio movimento. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. «Padroni in casa nostra» trasformato in «Ladroni in casa nostra», è solo la rappresentazione visiva di quel che è accaduto: la sostanza è nella disaffezione elettorale, nell’astensione crescente, nella distanza siderale che ormai separa eletti ed elettori. Chi di antipolitica ferisce di antipolitica perisce, è uno slogan, una semplificazione forse utile a descrivere lo stato delle cose: ma c’è un dato politico - certo meno evidente - sul quale sarebbe invece ora di iniziare a ragionare. E il dato è che nel crepuscolo della Seconda Repubblica non c’è solo la verticale crisi di credibilità della politica e dei partiti, ma anche - in maniera sempre più evidente - il disfarsi, il capolinea dell’antipolitica. Entrambe arrivano esauste alla fine del loro ventennio, travolte dai loro stessi eccessi. E se il declino dei partiti e della politica è inequivocabilmente rappresentato dall’avvento dei tecnici di Mario Monti al governo del Paese, il cortocircuito dell’antipolitica ora ha il volto in lacrime di Umberto Bossi e le urla padane di un popolo che si sente tradito. Eppure, queste due crisi allo specchio costituiscono un’occasione forse imperdibile per ritrovare la via smarrita e ricominciare. Tocca alla politica, naturalmente, ai partiti fare il primo passo. Le occasioni non mancano: dalla revisione di tutti i meccanismi del loro finanziamento fino alle sempre promesse riforme elettorale e istituzionali, opportunità e lavoro da fare ce ne sono a iosa. E’ un banco di prova che, è evidente, sarebbe suicida fallire. Rigenerare la politica è certo più difficile che battere la grancassa propagandistica dell’antipolitica: ma va fatto, e il momento non è più rinviabile. In caso contrario, si fornirebbe benzina inattesa ad un’antipolitica agonizzante: e nulla, a quel punto, potrebbe escludere che un altro «Cavaliere bianco» arrivi a passeggiare sulle rovine della Seconda Repubblica. Così come un suo antenato-predecessore galoppò su quella della Prima... da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9986
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