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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 158160 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Aprile 26, 2012, 03:48:53 pm »

26/4/2012

Il tempo è scaduto

FEDERICO GEREMICCA


Gli applausi, come al solito. E poi le lodi e l’apprezzamento, naturalmente. Ed è così, praticamente senza eccezione alcuna, che anche ieri leader e comprimari hanno accolto il discorso di Giorgio Napolitano: probabilmente l’intervento più allarmato e severo mai svolto da un Presidente della Repubblica nei confronti dei partiti politici.

Non si riesce più a intendere, ormai, se tali reazioni siano frutto di impotenza o di ipocrisia.

Ma qualunque sia la ragione di apprezzamenti che non si traducono mai o quasi mai in scelte conseguenti, il Capo dello Stato ha voluto avvertire ieri che il tempo è praticamente scaduto: e che alcune scelte non sono più rinviabili, e certi atteggiamenti non più tollerabili.

Non è che Napolitano abbia chiesto alle forze politiche qualcosa di diverso da quel che i partiti stessi ogni giorno proclamano di voler fare e - anzi - di esser sul punto di fare: una nuova legge elettorale che permetta ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento; impegnarsi affinché «dove si è creato del marcio, questo venga estirpato»; approvare una legge sui partiti e modificare radicalmente le norme che ne prevedono il finanziamento: fissando più limiti e maggiori controlli. Sono mesi - anzi: anni - che le forze politiche applaudono, ringraziano ma poi la cosa finisce lì: e così, però, anche l’idea, l’affermazione che la cattiva politica possa esser battuta davvero soltanto dalla buona politica - piuttosto che dalla dilagante «antipolitica» - resta lettera morta. Declamazione. Ipocrisia.

Come non bastasse - come non bastasse, cioè, l’infimo livello di credibilità toccato - i partiti fanno altro: si moltiplicano, cambiano di nome, annunciano metamorfosi e «grosse sorprese» che, se non sono un tentativo di distogliere l’attenzione dai guai presenti, certo conclamano una distanza dal Paese reale che rischia di essere foriera di ogni guaio. Nessuno, naturalmente, la fa facile e pensa che sia opera semplice ricostruire il sistema politico sotto il tiro incrociato del populismo e della demagogia: ma immaginare che il compito sia ulteriormente rinviabile - magari correndo verso elezioni anticipate, che Napolitano ha nuovamente chiesto di scongiurare - è solo testimonianza di confusione o di vera e propria irresponsabilità.

Sia l’una che l’altra, in fondo, appaiono in qualche modo l’inevitabile conseguenza della crisi verticale nella quale è precipitato il modello-partito nato dalle ceneri della Prima Repubblica. Partiti «non-partito», li ha definiti D’Alema. O anche «partiti del leader», come ha voluto correggere qualcun altro. In ogni caso, partiti che il più delle volte - e con le necessarie distinzioni - sono plasmati e rappresentati da un uomo solo. Leader senza vice, senza eredi e senza ricambi, verrebbe da dire.

E infatti chi è l’erede di Silvio Berlusconi? Nessuno, in fondo, pensa davvero che possa essere il volenteroso Alfano. E chi è l’erede di Bossi? Forse Maroni, tuttora bisognoso di tutela, protezione e investitura? E lo stesso discorso vale per Casini e per Di Pietro, leader solitari e senza vice. Lo stesso modello - come in un inarrestabile circolo vizioso - viene incredibilmente e paradossalmente riproposto perfino nel magmatico campo dell’«antipolitica»: o c’è qualcuno che pensa davvero che Beppe Grillo abbia un erede e che il suo Movimento possa sopravvivere ad una sua (non prevista) uscita di scena?

Leader senza vice. Leader senza eredi. E il più delle volte, senza nemmeno un gruppo dirigente capace di supplenza. E naturalmente, colpito il leader - perché sconfitto, perché finito nei guai o perfino perché ammalato - quel che resta è la desolante confusione che è oggi sotto gli occhi di tutti. I partiti navigano a vista, non hanno rotta, subiscono quasi passivamente l’ondata di melma scagliata loro addosso dalla demagogia e dal populismo dilagante. Appaiono paralizzati. E invece l’unica di via di salvezza sarebbe agire e trovare «soluzioni che sono diventate urgenti, anzi: indilazionabili», come ha avvertito ieri il Capo dello Stato. Pena non solo il loro destino: ma al punto cui siamo, anche le sorti del Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10033
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« Risposta #181 inserito:: Maggio 07, 2012, 10:45:19 pm »

Politica
06/05/2012 - CENTROSINISTRA
Vincere e restare soli

La grande paura del Pd

FEDERICO GEREMICCA

Le vittorie elettorali fanno sempre bene: eppure a volte, paradossalmente, possono aprire problemi dei quali si farebbe volentieri a meno. Se è possibile sintetizzare in una battuta lo stato d’animo che regna nel quartier generale del Pd in attesa del primo turno delle amministrative, lo si potrebbe descrivere così. L’ evidente ottimismo intorno ai risultati che arriveranno dal voto, è appena mitigato da un paio di preoccupazioni che riguardano il futuro.

La prima di queste preoccupazioni, se si vuole la più ovvia, riguarda (al di là del numero di nuovi Comuni che saranno conquistati) i voti che otterranno le liste Pd e quelli che - al contrario - guadagneranno i partiti e i movimenti concorrenti all’interno dello stesso schieramento di centrosinistra: e cioè Sel, Idv e in parte - secondo alcuni - lo stesso Grillo. A Largo del Nazareno, infatti, nessuno ha grandi dubbi intorno al fatto che a conclusione del turno di ballottaggi saranno molti i Comuni la cui guida sarà passata dal centrodestra al centrosinistra: l’interrogativo non irrilevante per il futuro - riguarda piuttosto i rapporti di forza che il voto ristabilirà tra Bersani, Vendola e Di Pietro.

Il risultato delle liste concorrenti, infatti, non solo dirà di eventuali nuovi equilibri tra alleati-concorrenti: ma anche quanto avrà pagato (per Vendola e Di Pietro) stare all’opposizione del governo di Mario Monti. E qui arriva la seconda preoccupazione: che accadrà, dopo il voto, intorno all’esecutivo tecnico di SuperMario? E’ un interrogativo non da poco, visto che investe sopravvivenza e durata della legislatura e - in sostanza - data e prospettive dell’appuntamento considerato più importante: le prossime elezioni politiche. A volerla dire tutta, anzi, è forse proprio questa la maggiore delle preoccupazioni di Pier Luigi Bersani. In verità, le premesse affinché il clima dopo il voto si faccia irrespirabile ci sono tutte.

Il centrodestra, infatti, arriva a queste elezioni in ordine sparso e in condizioni pessime. Lega e Pdl si presentano quasi ovunque divisi, e la sconfitta in molti Comuni (anche significativi) è data già per certa. E chiaro che le somme verranno tirate solo dopo i ballottaggi, ma l’interrogativo è chiaro fin da ora: come reagirà Berlusconi - di fronte ad una sconfitta che potrebbe assumere il profilo della disfatta? Il rischio è che le fibrillazioni diventino ingovernabili e possano portare alla saldatura di due nervosismi: quello già evidente della Lega e quello crescente del Pdl. Già oggi i rapporti tra il partito di Berlusconi e il governo di Monti appaiono tesi: e ieri, da Brunetta a Gasparri, per finire a Sandro Bondi, è stato tutto un rosario di ultimatum e avvertimenti. Che cosa potrebbe accadere se il Pdl uscisse da queste elezioni con le ossa rotte? Lo scenario non è difficile da immaginare, e tratteggia una ulteriore presa di distanze dal governo Monti, fin quasi a prefigurare quel che molti dirigenti del Pdl chiedono già ora:e cioè una sorta di appoggio esterno all’esecutivo dei tecnici, da sostenere o avversare di volta in volta, provvedimento per provvedimento.

Uno scenario certamente allarmante per il governo in carica: e per il Pd più in particolare. A quel punto infatti, l’esecutivo - il cui consenso nel Paese comincia decisamente a calare - diventerebbe quasi un governo targato Pd: non proprio un buonissimo affare per un partito la cui base è già in sofferenza per molti dei provvedimenti varati da Mario Monti. Senza contare il rischio che una tale evoluzione possa addirittura portare ad una brusca interruzione della legislatura. Le incognite del dopo-voto, insomma, sono tante. Bersani lo sa e se ne preoccupa. Anche se intanto si prepara a gustare quella che si annuncia - fin forse da domani - come una robusta vittoria elettorale.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/453011/
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« Risposta #182 inserito:: Maggio 08, 2012, 09:35:58 am »

8/5/2012

L'argine-Pd contro l'esasperazione

FEDERICO GEREMICCA

Un cumulo di macerie politiche. E in mezzo ai rottami di partiti che non ci sono più (il Pdl), di movimenti messi in ginocchio dai loro stessi errori (la Lega) e di esperimenti rivelatisi nelle urne espedienti mediatici o poco più (il Terzo polo) solo il Pd sembra reggere l’urto dell’esasperazione popolare.

Il Pd si conferma - e adesso di gran lunga - il primo partito del Paese. Non che il voto non abbia riservato amarezze anche ai democratici di Pier Luigi Bersani, com’era prevedibile: ma a fronte della polmonite che ha colpito gli altri, quel che turba il Pd può esser per ora considerato un semplice seppur fastidioso raffreddore. E nulla più.

Le vicende di Palermo e Genova, certo, non sono esaltanti. Nel capoluogo siciliano il candidato Pd vincitore delle primarie va sì al ballottaggio, ma è più che doppiato dall’inossidabile Leoluca Orlando: comunque la si pensi, un leader vero, passato indenne attraverso cambi Repubblica (sindaco nella Prima e salvo terremoti anche nella Seconda) e cambi di partito; e a Genova, ferita ancora sanguinante, i democratici devono assistere al trionfo di Marco Doria, l’uomo che ha sconfitto alle primarie le due candidate del Pd. Qualche altra delusione, certo, è arrivata qua e là: ma nulla di paragonabile alla vera e propria messa in liquidazione che ha ridotto il Pdl a forza minore e la Lega - salvo Verona - ad un esercito in rotta anche al Nord e nelle sue troppo enfatizzate valli.

Ci si potrà interrogare a lungo intorno al risultato ottenuto dal partito di Bersani: si potrà, cioè, andare a cercare il pelo nell’uovo oppure dettagliare complicate spiegazioni circa la sua capacità di resistenza di fronte alla slavina che ha investito l’intero sistema politico. Ma forse varrebbe la pena di accontentarsi - per il momento - di analisi semplici, a cominciare da quella che riguarda - in fondo - la natura stessa del Pd: l’unico partito realmente strutturato lungo tutta la penisola e che - erede di due forze storiche e diversamente ideologiche (la Dc e il Pci) - gode di un residuo «voto di appartenenza» che ne permette la tenuta anche in momenti difficili come quello in questione.

Solo stamane, facendosi largo nella miriade di liste civiche e di formazioni di questo o quel sindaco, sarà probabilmente possibile avere percentuali più attendibili e capaci di indicare con precisione lo stato di salute del Pd. Ma due cose appaiono chiare fin da ora: che saranno moltissime le amministrazioni (anche importanti) che passeranno dal centrodestra al centrosinistra e che il voto - per la sua carica dirompente - consegna ai democratici certo buone soddisfazioni, ma anche un problema di non poco conto: e cioè il rapporto da tenere (da continuare a tenere) con il governo di Mario Monti.

Ieri, a scrutinio ancora in corso, Pier Luigi Bersani ha confermato sostegno e lealtà all’esecutivo tecnico di SuperMario, chiedendo solo che il Pd venga ascoltato un po’ di più e le sue proposte valutate con meno sufficienza. Ma non è dal rapporto diretto col premier e i suoi ministri che, presumibilmente, arriveranno insidie e difficoltà: il problema (l’eventuale problema) rischia piuttosto di esser determinato dalla possibile reazione di Berlusconi e di quel che resta del Pdl all’indomani di un voto che è assai più di un ultimatum o di un avvertimento.

Quel che lo stato maggiore del Pd può temere è una netta e brusca presa di distanze del Popolo della libertà dal governo Monti. Non una reazione, naturalmente, che arrivi fino al punto di rovesciare il tavolo e aprire una crisi, ma un cambio di passo, di atteggiamento che trasformi la sua fiducia e il suo sostegno in qualcosa di simile (se non di peggio) a un appoggio esterno. Questo consegnerebbe al Pd (e ad un Terzo polo deluso e ferito) la quasi esclusiva responsabilità di tener in vita il governo: con tutto quel che ne potrebbe seguire in termini di popolarità, consenso e tenuta della sua base elettorale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10074
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« Risposta #183 inserito:: Maggio 22, 2012, 03:45:29 pm »

Politica

22/05/2012 -

Dove arriva l'onda lunga di Grillo

Per battere l’astensionismo e le spinte dell’antipolitica, i sondaggisti non hanno dubbi: i partiti devono abbattere i costi della politica e, senza dover pensionare i vecchi leader, favorire la partecipazione di volti e forze nuove

Federico Geremicca

Non c’è nulla da inventare, davvero nulla. Se i partiti tradizionali soprattutto i maggiori - vogliono evitare che le prossime elezioni politiche nazionali si trasformino in un trionfo dell’astensionismo e dell’«altra politica», non devono che metter mano a ciò che sondaggisti, opinionisti e perfino il senso comune suggerisce loro di fare da almeno un anno a questa parte.

«Le leve per recuperare credibilità nei confronti dei cittadinielettori - spiega Nando Pagnoncelli, Country manager di Ipsos Italia - restano due: dare un segnale forte sul fronte della riduzione dei costi della politica e far emergere nuove personalità, che non vuol dire necessariamente cacciare i vecchi leader ma favorire la partecipazione di volti e forze nuove, attraverso strumenti più moderni di quelli tradizionalmente utilizzati dai partiti».

Se questo non avverrà, allora sì che il rischio che il movimento 5 Stelle dilaghi anche nelle elezioni politiche (Pagnoncelli lo stima già al 16% nelle intenzioni di voto) diventa assai concreto. «Un successo di Grillo nelle elezioni per Camera e Senato - aggiunge - non è scontato. Rispetto al voto per le elezioni di un sindaco, i “grillini” hanno un problema in più: mettere in campo personalità il cui profilo rassicuri gli elettori circa la loro competenza a risolvere i problermi che il Paese ha di fronte, e dei quali gli elettori sono ormai ben informati».

Tutti gli elettori, compresi i quelli del movimento di Beppe Grillo, che rappresentano - per altro una fascia non facilmente addomesticabile... «Le nostre ricerche chiarisce Pagnoncelli - lasciano spazio a pochi dubbi: chi vota 5 Stelle è solitamente laureato o diplomato (oltre la media degli altri partiti), ha un’occupazione, è in maggioranza di età compresa tra i 25 e i 40 anni, ha precedenti esperienze politiche e non ha una ostilità pregiudiziale verso la politica ma verso questa politica». Cittadini informati, colti e politicamente non sprovveduti, insomma: riconquistare il loro voto anche nell’elezione del Parlamento non è scontato. Nemmeno per Beppe Grillo...

Non a caso, Nando Pagnoncelli insiste sulla necessità di definire un giudizio meno approssimativo sul successo di Grillo e sul profilo di chi lo vota. Lo sbaglio più serio è catalogare il tutto sotto la voce “antipolitica”, e chiuderla lì. «E’ un errore che può anche portare all’elaborazione di strategie sbagliate - dice -. In realtà, il consenso ora un po’ in calo di Mario Monti e quello crescente di Beppe Grillo, sono le due facce di una stessa medaglia: e cioè, esprimono entrambi (sono entrambi il risultato) della necessità, della richiesta di una politica diversa, altra rispetto a quella attuale». Di Monti - potremmo tradurre - si apprezza la diversità e la competenza; di Beppe Grillo piace, evidentemente, la ventata di novità che lo circonda.

A partire dai risultati di queste elezioni amministrative è però difficile tratteggiare il possibile scenario che potrebbe determinarsi nel voto politico della primavera prossima, considerato che ancora non si conoscono le allenze che saranno in campo, i leader che le guideranno e perfino la legge elettorale con la quale si voterà. Ma un altro errore va evitato commentando i risultati di ieri: e cioè dire “mettiamo questi grillini alla prova, tanto falliranno”. E’ la stessa cosa che si ipotizzò, anni fa, con la Lega: ora che governeranno - si disse - tutti potranno vedere che non sono altro che populisti e demagoghi... Oggi, invece, non c’è nessuno che non ritenga che proprio gli amministratori del Carroccio (da Zaia e Tosi) siano quanto di meglio prodotto da un movimento che sul piano nazionale, invece, accusa ormai colpi su colpi...

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/455097/
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« Risposta #184 inserito:: Maggio 24, 2012, 11:42:32 am »

23/5/2012

L'ultimo intreccio delle riforme

FEDERICO GEREMICCA

Sono anni, molti anni ormai, che partecipano a talk show, organizzano convegni, tengono comizi elettorali e ripetono - ormai a memoria quel che occorre fare: riforme costituzionali che rendano più moderno e competitivo il Paese; una legge elettorale che permetta ai cittadini di scegliere i propri eletti; rinnovare profondamente la politica, nei volti e nella prassi; e urgenza delle urgenze, da qualche mese in qua (da quando si è scoperto che i partiti sarebbero alla mercé di tesorieri disonesti...) ridurre i finanziamenti ai partiti e tagliare le spese di smisurati apparati politico-amministrativi che, come sanguisughe, continuano a succhiar sangue anche dove non ce ne è più.

Sono anni che leader politici di ogni latitudine e di ogni schieramento, ripetono che occorre fare in fretta: una fretta che aumenta all’indomani di ogni tornata elettorale che certifica (proprio come quest’ultima) il crescere della disaffezione al voto e la richiesta di una politica diversa (finalmente si è smesso di definirla antipolitica tout court).

Ma ciò nonostante, quest’opera riformatrice - nota negli obiettivi da perseguire e negli strumenti da utilizzare - si è nuovamente trasformata in un’affannosa e confusa corsa contro il tempo. Una cosa da non credere. Da non credere soprattutto perché - come ogni elezione ormai conferma - a rischiare l’osso del collo non è solo (e soprattutto) il Paese: ma sono innanzitutto loro, i partiti. Vecchi o nuovi che siano.

Ieri, a Montecitorio, è stato finalmente battuto un colpo. Un colpo non definitivo (perché le votazioni continuano, e resta sempre l’incognita di un nuovo passaggio al Senato) ma certo significativo: le forze politiche hanno infatti deciso di dimezzare per gli anni a venire il finanziamento di cui godono e di ridursi della metà anche l’ultima tranche dei rimborsi loro assegnati. Col clima in cui è sprofondato il Paese, si dirà certo che si poteva fare di più: e forse è vero. Ma un primo segnale è arrivato: e anche il poco, considerati i tempi, è certo meglio del niente.

Le note dolenti - dolentissime, anzi - arrivano purtroppo da tutto il resto: oggi comincia al Senato l’esame del testo di riforme costituzionali (dalle quali dipende anche la possibilità di modificare la legge elettorale) e il rischio che tutto si areni è grande. «Dobbiamo darci una mossa», ha detto Anna Finocchiaro, capo dei senatori Pd. Ha ragione, naturalmente: ma il suo allarme rischia di essere tardivo.

Le doppie letture da parte dei due rami del Parlamento (necessarie in caso di leggi che modifichino la Costituzione) e la complessità delle materia in esame, rendono infatti concretissimo il pericolo che il treno faticosamente avviato si fermi alla prima stazione. In pochi giorni il Senato dovrebbe dare il via libera alla riduzione del numero dei parlamentari (da 945 a 750), al superamento del bicameralismo perfetto e attribuire maggiori poteri al capo del governo. Si riuscirà a fare in una manciata di settimane quel che non è stato portato in porto nel corso di più e più legislature?

Lo scetticismo, naturalmente, è lecito. Soprattutto perché a condizionare il confronto c’è il rapporto tra queste urgenti innovazioni di sistema e quella che per i partiti rappresenta da sempre la «madre di tutte le riforme» (decidendone rappresentanza e potere): cioè quella della legge elettorale. L’intreccio è perverso: è infatti impossibile modificare le regole con le quali gli italiani torneranno alle urne se prima non è noto il numero di parlamentari che dovranno eleggere. Tirare per le lunghe il confronto sulle modifiche costituzionali, insomma, di fatto significa bloccare la riforma della legge elettorale.

L’augurio - rivolto prima di tutto ai partiti, che in caso di fallimento rischiano davvero l’inesorabile messa in liquidazione - è che riescano, pur nei tempi stretti, a modificare quel che c’è da modificare nella Costituzione per poi passare al varo di una nuova legge elettorale. La speranza (di più: la forte sollecitazione) è che, nel caso fallisca la prima tornata di riforme, non si rinunci a cambiare la legge elettorale. Mai come stavolta, infatti, il meglio è nemico del bene. E se segretari e forze politiche non ne sono convinti, pensino a quanto sarebbe autolesionistico tornare a votare con il Porcellum: dopo averlo definito per anni - tutti, indistintamente - l’origine della malattia di cui soffre la politica in questo Paese...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10135
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« Risposta #185 inserito:: Agosto 18, 2012, 10:24:43 pm »

18/8/2012

Il rischio di non uscire dal passato

FEDERICO GEREMICCA

Adesso, naturalmente, molti dicono che non poteva che finire così, che il destino era segnato e che il bivio sarebbe stato necessariamente quello - micidiale - materializzatosi nelle ultime settimane.

Scegliere se morire di fame oppure di un qualche tumore. Lo dicono in molti: a partire, naturalmente, da quelli che nel corso di decenni hanno trasformato il Mezzogiorno d’Italia in una nauseabonda pattumiera e adesso - non avendo più tappeti sotto i quali nascondere veleni e scorie inquinanti - scrollano le spalle e puntano l’indice contro giudici «che così portano il Sud alla rovina e alla fame».

Già, il Sud: per vaste aree, lande ormai de-industrializzate, grondanti disoccupazione e rifiuti venefici, malavita capace di trasformare in oro anche le scorie tossiche, e panorami di archeologia industriale. Perché l’Ilva di Taranto è solo l’ultimo gigante ferito di una politica cosiddetta industriale che, oltre che fallimentare, oggi va rivelandosi in tutta la sua incosciente pericolosità.

Naufragato prima il polo chimico e poi quello minerario del Sulcis, la Sardegna è ormai - produttivamente - quasi un deserto; la Puglia difende il poco che ha: e senza l’Ilva quel poco diventa praticamente niente; la Calabria sperava nel mitico Ponte - la Grande Opera, buona a raccattare voti ad ogni elezione - così come aveva sperato in Gioia Tauro, il leggendario porto sospeso nel nulla; la Sicilia boccheggia sotto il peso della crisi della chimica, e della Campania e di Napoli - città che ha precorso i tempi di questo inarrestabile disastro - è quasi meglio non parlare.

Quel che c’era da dire - soprattutto sull’ex Italsider di Bagnoli, anch’essa poi Ilva - è stato infatti magnificamente detto da Ermanno Rea, in un libro terribile andato in stampa giusto dieci anni fa. È la storia commovente della fine della gigantesca acciaieria (due milioni di metri quadri, cinque milioni e mezzo di metri cubi fatti di altoforni, ciminiere, colate e capannoni) smontata pezzo a pezzo da operai con gli occhi a mandorla e ricostruita a Meishan, nel cuore della Cina (Paese ancora così poco attento all’ambiente da portarsi faticosamente a casa una vera e propria bomba ecologica). Fu la fine del sogno industriale della capitale del Mezzogiorno: con una morte effettivamente più spettacolare di quella toccata - un po’ in sordina - alle raffinerie, ai cantieri navali e alle piccole industrie che vivevano di indotto.

Uno sviluppo, se vogliamo chiamarlo così, le cui macerie fumanti sono oggi sotto gli occhi di tutti. Classi dirigenti - locali e nazionali - dedite alla rapina e alla raccolta di voti: raccolta che, mentre i pochi presidi industriali franavano miseramente, continuava producendo disastrosi rigonfiamenti del debito e delle amministrazioni pubbliche. Dalle fabbriche alle Regioni, alle Province e ai Comuni: e ora, naturalmente e inevitabilmente, via anche da lì. Quasi nessuno degli avventurieri travestiti da imprenditori ha pagato per il saccheggio di danaro pubblico e lo scempio del territorio perpetrato nel Sud d’Italia. E alla magistratura, infatti, andrebbero contestati non gli interventi di oggi, ma i mancati interventi di ieri...

Perché nulla è stato fatto in questi anni? Perché in Germania (e non è per dire la solita Germania: accade anche in Francia) l’acciaio è una produzione «pulita» e da noi una fabbrica di veleni e di morti? Per quanti anni si è ripetuto che senza lo sviluppo al Sud non ci sarebbe stato sviluppo per l’Italia? Intere scuole di meridionalismo - liberale, cattolico, comunista - si sono spese per tentare di convincere il «ricco Nord» che, per quanto amara, questa era la verità. Fatica sprecata. E una dopo l’altra, intanto, le cattedrali nel deserto essiccavano al sole. Crollavano vittime della loro stessa improduttività. Oppure mettevano operai e cittadini di fronte al drammatico bivio che oggi angoscia gli abitanti di Taranto: morire di fame o di un qualche tumore. Nel cuore dell’Europa, all’alba del terzo millennio. Da non credere, davvero.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10435
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« Risposta #186 inserito:: Agosto 22, 2012, 10:10:19 pm »

Politica

22/08/2012 - analisi

Veleni e rancori spaccano il centrosinistra

Sulle intercettazioni del Quirinale, contrapposti politici, magistrati e intellettuali

Federico Geremicca
Roma

Amicizie consolidate e antiche che si incrinano. Alleanze che d’improvviso si sfaldano. Partiti-non-partiti che si spaccano a metà come fossero mele e tutt’intorno, mentre le polemiche alimentano i veleni e arroventano i rancori, si ammucchiano le macerie fumanti di uno scontro interno al centrosinistra e del tutto inedito per temi e per protagonisti.

L’intensità autolesionistica ricorda quella che, nella primavera del 2008, portò alle dimissioni di Romano Prodi, lesionando seriamente la credibilità di quell’alleanza di governo.
Oggi (e per il momento) non ci sono esecutivi che rischiano la crisi: ma non per questo la vicenda è meno clamorosa.

E la vicenda, naturalmente, è quella che vede contrapposti - a partire dallo scontro in atto tra la Procura di Palermo e il Quirinale - pezzi di sinistra, di magistratura, di intellettualità e perfino di carta stampata. Stare con Napolitano o con i pm che indagano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia? Firmare l’appello de «Il Fatto quotidiano» a sostegno dei magistrati siciliani o schierarsi con il Quirinale, che ha chiesto alla Corte Costituzionale di stabilire il destino di certe discusse intercettazioni (quelle tra il Presidente della Repubblica e l’ex ministro Mancino)?

Lo scontro è senza quartiere. E ieri, mentre il centrodestra stava ancora fregandosi le mani, ecco l’ultimo capitolo: in campo, infatti, è sceso anche Valerio Onida - ex presidente della Corte Costituzionale e membro del Consiglio di presidenza di «Libertà e giustizia» - per contestare le tesi sostenute qualche giorno prima da Gustavo Zagrebelsky, suo predecessore alla guida della Corte e presidente onorario di «Libertà e Giustizia». Onida si è schierato decisamente con il Quirinale (a differenza di Zagrebelsky). Di più: è arrivato a sostenere
l’illegittimità dell’indagine dei giudici di Palermo: «Mi sembra - ha spiegato a “l’Unità” - che sia di competenza del Tribunale dei ministri, non della Procura. E non lo dico io, lo dice la Costituzione».

E’ l’ultima clamorosa spaccatura: «Ma noi non siamo un partito: ci si confronta liberamente, e che la si pensi in maniera diversa non mi pare onestamente un caso», dice Sandra Bonsanti, presidente di «Libertà e Giustizia». Nemmeno «la Repubblica» è un partito - nonostante lo si definisca da sempre giornale-partito (e conti di certo assai più di un partito) - ma anche lì sono volati gli stracci, con Eugenio Scalfari accorso in difesa di Napolitano pesantemente criticato, due giorni prima e proprio su «la Repubblica», da Gustavo Zagrebelsky. Nemmeno il partito dei giudici è un partito: eppure anche tra le toghe divampa uno scontro furioso che contrappone correnti interne, personalità e magistrati di primissimo piano.

E’ un intero mondo - fino a ieri legato da un comune sentire - a liquefarsi nell’afa di un agosto terribile. Sconcerta che il campo di battaglia sia la giustizia, e sorprendono le accuse che rimbalzano tra i due fronti: presunti «giustizialisti» contro ipotetici «affossatori della verità». E cosa ci sia dietro - cosa potrebbe esserci dietro - alla fine lo ha denunciato senza mezzi termini Luciano Violante (pure considerato tra i padri fondatori del partito dei giudici: paradosso dei paradossi). «Vedo in corso un attacco politico al ruolo del Quirinale e al governo... C’è un blocco che fa capo a “Il Fatto”, a Grillo e a Di Pietro che sta reindirizzando il reinsorgente populismo italiano... Il “populismo giuridico” utilizza le Procure come clava politica».

Vera o traballante che sia la tesi dell’ex presidente della Camera (ed ex magistrato), il livello del punto cui è precipitato lo scontro lo si coglie bene nella replica che arriva
dall’Italia dei valori: «Violante continua a farneticare di un progetto comune tra magistratura, politica e informazione per abbattere Napolitano e Monti. In realtà, lui è un uomo al servizio dei poteri forti e solleva polveroni... Con le sue dichiarazioni dimostra un’imbarazzante sintonia con Cicchitto... sono fatti l’uno per l’altro».

Chi fosse stato lontano dall’Italia nelle ultime settimane, non potrebbe che rimanere strabiliato di fronte a tutto questo. Quando aveva lasciato il Paese, «giustizialista» era l’accusa tradizionale che la destra rivolgeva al centrosinistra: e non la spada impugnata da un pezzo di sinistra contro un altro pezzo fino a ieri alleato; Di Pietro e Bersani apparivano ancora sorridenti nella foto di Vasto; «Libertà e Giustizia» non si divideva, il partito di «Repubblica» non si spaccava e, soprattutto, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di contestare al Capo dello Stato l’intenzione di occultare la verità sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.

E’ vero, la politica italiana (ed i rapporti tra la politica e la magistratura...) regala di sovente sorprese: ma ad un terremoto di tali dimensioni - e su un simile terreno - forse nessuno era preparato. L’origine, naturalmente, sarebbe tutta politica: e cioè la nuova collocazione di Antonio Di Pietro fuori dal centrosinistra, in aperta concorrenza col Pd e in gara con Beppe Grillo e la Lega per la conquista di consensi «radicali» e di voti da recuperare nell’enorme bacino dell’astensione e dell’antipolitica. Da qui, secondo molti, la decisione di tracciare una riga: immaginaria, certo, ma invalicabile e insidiosa. O di qua o di là: di qua dovrebbe voler dire stare con i magistrati di Palermo, di là con Napolitano, Monti e i partiti che lo sostengono.

Sullo sfondo - sia detto senza retorica - si stagliano i problemi del Paese: quasi sfocati rispetto alla questione in primo piano, che è di nuovo - e come sempre da vent’anni a questa parte - la giustizia. La novità è che, fino a ieri, oggetto degli strali «giustizialisti» era Silvio Berlusconi, non Napolitano... Così, il Cavaliere tira un sospiro di sollievo e ringrazia: e si gode, soprattutto, quella che i suoi definiscono una «rivincita postuma». In fondo, il suo cavallo di battaglia è sempre stato lo stesso: in Italia la giustizia non funziona. Sentirlo dire oggi alla sinistra, è musica fantastica per le sue orecchie...

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/466108/
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« Risposta #187 inserito:: Settembre 06, 2012, 04:46:39 pm »

5/9/2012

E Bersani ora dubita degli alleati

FEDERICO GEREMICCA

Matteo Renzi cresce nei sondaggi, miete simpatie anche fuori del Pd, richiama folle crescenti alle sue iniziative eppure - paradossalmente - non è il sindaco di Firenze, in queste ore, la preoccupazione maggiore di Pier Luigi Bersani. A campagna per le primarie ormai aperta (aperta senza regole e senza nemmeno la certezza che la consultazione avrà poi davvero luogo) quello che comincia a impensierire il segretario dei democratici sono gli scricchiolii e i riposizionamenti all’interno della maggioranza che lo ha sostenuto fino ad ora, e che dovrebbe spingerlo alla vittoria contro lo scatenato sindaco di Firenze.

Infatti, sotto l’effetto del ciclone-Renzi e alla luce di un paio di mosse del segretario - che non pochi nel Pd hanno giudicato sbagliate - la geografia interna al partito sembra mutare col passar dei giorni in maniera imprevedibile e non favorevole a Bersani.

Walter Veltroni è perplesso, tanto da augurarsi - mentre molti degli uomini a lui vicini cominciano a spostarsi verso Renzi - che le primarie non si svolgano; Enrico Letta e i suoi riflettono e tacciono, dopo alcune sortite del segretario giudicate eccessivamente anti-montiane; Romano Prodi non annuncia quello che pareva uno scontato sostegno al suo «ministro delle lenzuolate» e i cosiddetti «giovani turchi» sono partiti decisamente all’attacco e chiedono (proprio come il sindaco di Firenze) che «i vecchi si facciano da parte».

Un quadro, come si vede, non incoraggiante. Al quale si è aggiunta ieri una pesante e inattesa critica di Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale Pd, che ha chiesto a Bersani «una parola chiara» in difesa del gruppo dirigente, pena il rischio che - «tra il battutismo renziano e le intemerate dei giovani turchi sul ricambio generazionale» - le primarie si trasformino «in una farsa o in una impropria resa dei conti». E’ l’intero gruppo dirigente del Pd, insomma, a fibrillare sotto l’incalzare del «tutti a casa» urlato da Renzi in giro per il Paese. Fibrilla e sospetta che - di fronte all’efficacia di quello slogan - Bersani stia mettendo nel conto di abbandonare al loro destino alcuni dei più stagionati dirigenti del partito...

Non basta. Per i leader della maggioranza legata al segretario, infatti, gli imbarazzi di Bersani sul tema del rinnovamento non sono l’unica ragione di perplessità. Non sono piaciuti, per esempio, i toni riservati di recente al governo di Mario Monti e alla necessità del ritorno in campo della politica: sono parsi uno sgradito avvicinamento alle posizioni di chi considera il governo tecnico «una parentesi» da chiudere rapidamente, quasi fino a mettere in discussione perfino quell’«agenda Monti» considerata - ancora ieri - la stella polare del cammino futuro. La preoccupazione insomma è che - complice la necessità di contrastare la linea moderata e filo-montiana di Matteo Renzi - Bersani faccia ancor più sue posizioni «gauchiste» alla Fassina.

Anche il piglio da «candidato in pista» assunto dal segretario non convince molti. Non è piaciuta la decisione (solitaria) di dare del fascista a Beppe Grillo, trasformando in un colpo il Pd nel «nemico numero uno» del popolare comico genovese; non ha convinto l’articolo su Togliatti e il pantheon del Pd pubblicato da «l’Unità» (che avrebbe fatto davvero infuriare Romano Prodi) e ancor meno è stato gradito il mancato invito al ministro Fornero alla Festa nazionale Pd. Insomma, un decisionismo insolito per Bersani: e che sembra poter riservare una sorpresa al giorno, mentre i big del partito chiedono al segretario rassicurazioni e collegialità.

Una partita che sembrava senza storia, dunque, rischia di trasformarsi in una sfida dall’esito e dalle conseguenze imprevedibili. A ciò, più in generale, va aggiunta la sgradevole sensazione di confusione che regna con e tra i possibili alleati elettorali e di governo: Vendola contro Casini, Casini contro Vendola e il Pd che cerca di rassicurare e tenere tutto assieme. Inevitabilmente, torna a volteggiare il fantasma dell’Unione, quell’alleanza così indimenticabilmente eterogenea da portare al naufragio del secondo governo di Romano Prodi. E al di là delle primarie, è questo quel che rischia di render davvero più difficile una vittoria elettorale che pareva certa...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10490
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« Risposta #188 inserito:: Settembre 11, 2012, 10:09:02 pm »

11/9/2012 - CENTROSINISTRA

"Adesso": Renzi sceglie la sua parola d'ordine

FEDERICO GEREMICCA

La parola è ADESSO. Che va bene, magari ricorda il «The time is now» della vittoriosa campagna di Ronald Reagan nell’ormai lontano 1980: ma non c’entra niente. ADESSO, infatti, è la parola chiave della sfida spericolata che Matteo Renzi ha lanciato a Pier Luigi Bersani (e Nichi Vendola e Bruno Tabacci, per ora) e che comincia ufficialmente dopodomani a Verona.

ADESSSO. Come «ADESSO è il nostro momento» oppure «Il momento di cambiare è ADESSO». Le lettere (blu) che compongono la parolaslogan scelta dal sindaco di Firenze per le primarie del centrosinistra compariranno per la prima volta («Con una scenografia minimal», spiega Renzi) sul palco di Verona, città di partenza della campagna. Dopo, di corsa a Longarone (Vajont) per parlare di emergenze e politica del territorio, poi Belluno e infine Padova, per discutere di cultura e università. Un giovedì frenetico: che se solo dovesse somigliare davvero ad una giornata-tipo della campagna di Renzi, c’è da prepararsi a rimanerci secchi.

Nel corso delle quattro tappe di dopodomani, il sindaco di Firenze presenterà pezzi del programma col quale sfida Pier Luigi Bersani: nulla ancora di completamente definito, perché la bozza - aperta a proposte e contributi - verrà messa in rete e quindi inviata al centinaio di «Comitati per Renzi» già sorti spontaneamente in giro per l’Italia. E nulla di definito, naturalmente, perché il vero punto di forza del giovane sindaco fiorentino non è certo il programma, ma chi dovrà realizzarlo: cioè, non più i «soliti noti» (da «rottamare», come è evidente...).

La campagna di Renzi si annuncia imprevedibile, ricca di sorprese e momenti assai particolari. Da tener d’occhio, per esempio, la giornata di venerdì a Firenze. Matteo Renzi, infatti, ha tutta l’intenzione di salire su una ruspa e abbattere - vicino al vecchio Torrino, nella zona di San Frediano - delle costruzioni abusive messe da tempo sotto sequestro dalla magistratura. «In questo Paese non si tocca mai nulla... Io invece sono dell’idea che le cose brutte, a maggior ragione se abusive, vanno abbattute, fatte sparire - spiega -. Ho già buttato giù la vecchia pensilina della stazione, un eco-mostro che deturpava un’intera area, i resti di un antico complesso industriale e due o tre edifici scolastici cadenti e in disuso. Non per niente, prima che “rottamatore” mi chiamavano “sindaco demolitore”...». Non per niente: anche perché spesso è lui stesso a salire su gru e ruspe per procedere alle demolizioni...

In quasi tutte le prime tappe, Matteo Renzi sarà affiancato da sindaci e giovani amministratori che costituiscono la spina dorsale del movimento che punta su di lui come candidato premier del centrosinistra alle elezioni di primavera. Lo staff del primo cittadino di Firenze è già al lavoro da tempo. E molto leva sulle donne. Simona Bonafè, assessore a Scandicci, si occuperà delle tappe del camper sul quale Renzi girerà l’Italia; l’agenda sarà tenuta da Sara Biagiotti, consigliera provinciale a Sesto Fiorentino, mentre Maria Elena Boschi - giovane avvocatessa - terrà i contatti con i diversi comitati.

Su tutti «regna» e regnerà fino alla fine Roberto Reggi, ex sindaco di Piacenza «quadro» molto solido, come si sarebbe detto un tempo responsabile dell’intera organizzazione della campagna. Di comunicazione e dintorni, invece, si occuperà Giorgio Gori: un nome e un’esperienza che sono assai più di una garanzia...

Sono tutti già al lavoro, sono tutti molto entusiasti e sono tutti moderatamente preoccupati dalla quantità di polemiche, risposte stizzite e accuse di ogni genere che accompagnano quotidianamente Renzi in questo avvio di avventura. «Qualche amico dovremmo conservarlo...», viene sussurrato ogni tanto al sindaco. Che però non è d’accordo, se per amico si intende qualcuno dei «capi» o dei «lungopresenti» in Parlamento da tre o più legislature. La sfida ingaggiata dal giovane sindaco, del resto, è abbastanza senza ritorno. E soprattutto, se il momento è ADESSO, la partita va giocata fino in fondo: costi quel che costi e rischiando tutto quel che c’è ancora da rischiare...

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10513
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« Risposta #189 inserito:: Ottobre 01, 2012, 09:38:08 am »

Editoriali

30/09/2012

Trasparenza nuova sfida dei partiti

FEDERICO GEREMICCA

Fa certamente sensazione, soprattutto se rapportata alla grandinata di scandali in arrivo da molte Regioni italiane, la nettezza con la quale la quasi totalità dei partiti ha rivendicato - dopo l’annunciata disponibilità di Mario Monti ad un nuovo mandato - il diritto della politica a tornare alla guida del Paese. 

Si tratta, infatti, di una rivendicazione che - pur essendo del tutto legittima - fa tuttora a pugni con la condizione in cui versa il sistema politico italiano, con la confusione che regna in materia di leadership e alleanze, e la persistente vaghezza (quando non peggio) sul piano dei programmi e delle cose da fare.

Ciò nonostante, non è affatto da escludere che - dopo il voto della prossima primavera - sia appunto un governo sostenuto da una maggioranza politica a prendere in mano il destino del Paese. 

Del resto, stando ai più recenti sondaggi, è quel che chiede una parte non più minoritaria dell’elettorato.

Che invoca, però - e questo è il punto - un rinnovamento profondo di uomini e modi d’agire, la riduzione dei costi e dell’invadenza della politica e il proseguimento nell’opera di risanamento economico del Paese, pena il ritrovarsi di nuovo sull’orlo del baratro sfiorato giusto un anno fa.

Fino a oggi i partiti (tra di loro ed al loro stesso interno) hanno litigato soprattutto sulla cosiddetta Agenda Monti, diventata simbolicamente quasi lo spartiacque tra chi vuole continuare su una linea di rigore e chi, al contrario, immagina sia possibile un ritorno al tempo delle vacche grasse: abolendo - per esempio a partire dall’Imu - alcune delle misure e delle riforme varate dal governo, soprattutto in materia di riduzione del debito.

La discussione - difficile e delicata allo stesso tempo - naturalmente continuerà: ma le previsioni di un lento miglioramento della situazione economica, accompagnate dal contemporaneo esplodere di scandali odiosi e grotteschi, impongono - se non un cambio di obiettivi - certamente l’urgenza di definire con chiarezza i rimedi da mettere in campo contro l’ormai insopportabile andazzo di ruberie, cialtronerie e malaffare. Per esser chiari: all’emergenza economica se ne è aggiunta un’altra che - di fronte al dilagare dello sperpero di danaro pubblico da parte delle forze politiche - si può ormai tranquillamente definire «emergenza democratica».

Il che fare per arginarla sarà uno dei terreni sui quali verranno giudicati i partiti che vogliono riprendere le redini del governo del Paese. E sarebbe dunque ora che, dopo le inadempienze e i ritardi di questi mesi, le forze politiche facessero conoscere con precisione e nel dettaglio le misure che intendono assumere per arrestare l’onda melmosa della corruzione e del malaffare politico. Quel che occorre è che i partiti o le coalizioni che si candidano alla guida del Paese redigano un vero e proprio «manifesto» della trasparenza e della lotta agli sprechi e alla delinquenza politica: con il dettaglio delle spese da tagliare, degli apparati da ridurre, degli enti da abolire o da snellire, nella loro composizione e nei loro costi.

Di fronte a feste in maschera costose e di pessimo gusto, a vacanze pagate da consulenti amici, a spese ingiustificate e a continue ruberie di danaro pubblico, la richiesta della politica di fare un passo avanti non solo non è credibile, ma rischia di diventare non condivisibile in assenza di un nettissimo segnale di cambio rotta: l’«emergenza democratica» determinata dalla decomposizione del sistema dei partiti, insomma, va arrestata prima che sia troppo tardi.

L’antipolitica ha oggi il linguaggio inaccettabile di Beppe Grillo: ma nulla può rassicurare circa il fatto che il peggio sia questo e che il fondo sia stato toccato. E’ per questo motivo - per una forma che potremmo perfino definire di legittima difesa - che occorre una reazione chiara e immediata da parte delle forze politiche. Si mettano nero su bianco, in un «manifesto della buona politica», le cose che si intendono fare: quando, come e con chi. E si chieda su questo il giudizio e il voto degli italiani. In caso contrario, la richiesta di tornare alla guida dell’Italia rischia di essere poco credibile. Di più: rischia di esser considerata inaccettabile e perfino pericolosa. Con buona pace di ogni rivendicazione della regola democratica che vuole che il Paese sia governato da chi vince le elezioni...

da - http://www.lastampa.it/2012/09/30/cultura/opinioni/editoriali/trasparenza-nuova-sfida-dei-partiti-BvIh2X2AGF84UNEsbVrJoL/index.html
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« Risposta #190 inserito:: Ottobre 07, 2012, 03:28:03 pm »

Editoriali

07/10/2012

Onore al segretario rischia la trappola

Federico Geremicca

Onore e complimenti a Pier Luigi Bersani, per il coraggio, la coerenza e la già nota generosità. Ma anche tanti auguri e in bocca al lupo a Pier Luigi Bersani, per aver deciso di rendere possibile una sfida, quella delle primarie, che ora rischia di trasformarsi in una trappola micidiale per lui ed il suo gruppo dirigente. E’ lui, infatti, l’uomo che nella competizione con Renzi e Vendola ha tutto da perdere e poco o niente da guadagnare; ed è lui, soprattutto, che - sceso in gara per conquistare lo scettro di candidato-premier - potrebbe uscirne senza più nemmeno i gradi di segretario.

Ma questi sono, diciamo così, i possibili effetti collaterali - non irrilevanti, certo - di un approdo che getta invece le premesse per una possibile iniezione di vitalità alla fiaccata democrazia italiana: milioni di italiani andranno ai gazebo per scegliere il candidato premier del centrosinistra nel pieno di un crepuscolo etico e politico che - contemporaneamente - spinge milioni di altri ad annunciare che non andranno alle urne neppure per le elezioni vere.

 

Ogni iniziativa che tenti di riavvicinare alla politica cittadini nauseati da quel che leggono o vedono tutti i giorni in tv è - naturalmente - salutare e benvenuta. E questo vale, a maggior ragione, nel caso di primarie come quelle messe in cantiere dal Pd, che non saranno un giro di valzer ma un passaggio duro e aspro: capace, a seconda dell’esito, perfino di precipitare in una vera e propria scomposizione e rifondazione del campo riformista (ed è una svolta che molti elettori di centrosinistra auspicano da tempo). Dunque, proprio il carattere che potrebbero assumere queste primarie - con i rischi che nascondono - rende ancor più apprezzabile la rotta tenuta fin qui da Pier Luigi Bersani.

 

Ha accettato una sfida che, secondo lo Statuto del Pd, avrebbe incontestabilmente potuto rifiutare; da un certo punto in poi, è parso volere le primarie addirittura contro il parere degli stessi big che lo sostengono (da Bindi a D’Alema, passando per Veltroni e Marini); le regole che ha fissato - in parte ancora da definire - sono state accettate da Renzi, il che vuol dire che del suo potere di segretario ha approfittato poco o niente. Non è dunque sbagliato affermare che se le primarie si terranno, ciò accadrà - in larga parte - per merito del leader del Pd. Detto tutto questo, però, è da qui che cominciano i guai.

 

Pier Luigi Bersani, infatti, queste primarie può perderle per davvero: è una sensazione ormai largamente diffusa anche tra i suoi sostenitori. Se fossimo di fronte all’avvio di una regata, potremmo dire che Matteo Renzi è entrato nel campo di gara con le vele tese dal vento della voglia di ricambio (che non è liquidabile come antipolitica tout court) mentre il segretario è costretto ad un’andatura di bolina: avendo quel vento, insomma, che gli soffia contro. Renzi va illustrando, in giro per l’Italia, un programma assai semplice: in fondo, per ora si limita a dire «cari amici, eccolo il programma, sono io, mandiamo a casa chi ci ha portato fin qua». Bersani non può farlo, ed è un handicap non da poco: preannuncia una gara tutta in salita.

 

Sarà insomma una sfida dura per il leader del Pd, e questo rende ancor più significativo il fatto che l’abbia voluta lo stesso. Certo, ora i rapporti con i big della sua maggioranza (leader che giocano una partita per la sopravvivenza) non sono dei migliori. E infatti, col tono di chi vuol mostrarsi preoccupato, da qualche giorno vanno proponendo interrogativi micidiali: che succede se al primo turno delle primarie Renzi batte Bersani? Può restare segretario del partito un leader sconfitto dal voto dei suoi stessi iscritti ed elettori? «Sarebbe un problema», si rispondono da soli. In verità sarebbe un gigantesco problema: e Pier Luigi Bersani naturalmente lo sa.

 

Dicono che abbia voluto la sfida con Renzi per non trasformarsi nel simbolo del vecchio da «rottamare», per evitare che - di fronte a primarie negate - il sindaco di Firenze scendesse in campo con liste proprie, e per non restare prigioniero dei capicorrente della sua stessa maggioranza. Chissà se, in fondo, Bersani stesso non condivida il giudizio espresso ieri su di lui da Carlo De Benedetti: «E’ una persona equilibrata e saggia, ma deve scrollarsi di dosso una nomenklatura che lo ha condizionato e che è stata assolutamente negativa per il Paese». Riuscirà a farlo, lanciando segnali già nel corso della campagna per le primarie? Lo si vedrà. Da ieri, però, Bersani sa che se non ci proverà lui, potrebbe farlo qualcun altro: Matteo Renzi adesso è lì, pronto a sfruttare qualunque errore e qualunque timidezza. Uno stimolo non da poco a trasformare una semplice «resa dei conti» in una salutare (e indispensabile) rivoluzione...

da - http://www.lastampa.it/2012/10/07/cultura/opinioni/editoriali/onore-al-segretario-rischia-la-trappola-2lgsOfB2oebN0Wu7ewNutN/index.html
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« Risposta #191 inserito:: Ottobre 17, 2012, 04:18:18 pm »

retroscena
16/10/2012

Renzi: “Le regole? Un delirio ma Walter li ha inguaiati”

Lo sfidante di Bersani contro i meccanismi delle primarie: non siamo a quel tavolo e nemmeno ci informano

Federico Geremicca
Roma

Noi andiamo avanti: senza arroganza, con serenità e sempre col sorriso sulle labbra. Detto questo, ora davvero non vorrei essere nei panni di Pier Luigi...». Sono le quattro del pomeriggio, e Matteo Renzi fa il punto con gli uomini e le donne del suo staff prima di rimettersi in movimento. 

 

«Incassiamo il bel gesto di Veltroni: dimostra che il problema che poniamo non è un’invenzione, ma esiste. So che era preoccupato che io, dopo il suo annuncio, continuassi ad attaccarlo. Perché avrei dovuto? Ho detto “onore a Veltroni”, e questo penso. Si è sfilato nei tempi giusti... ora nei guai ci sono gli altri».

 

E dunque: fosse un altro momento, Matteo Renzi potrebbe fermarsi e osservare i risultati che va incassando e lo scompiglio che comincia a serpeggiare nel campo avverso. Ma non è un altro momento, e di rallentare non se ne parla affatto. Nella riunione di staff si fa un punto sulle ultimissime novità: Bersani a Bettola, il passo indietro di Veltroni, la linea attendista scelta da D’Alema e Rosy Bindi che chiedono a Bersani di sapere se li ritiene ancora utili oppure no: «E la situazione - spiega Renzi ai suoi - è messa in modo tale che qualunque cosa Pier Luigi sceglierà, sarà per lui un problema».

 

Il ragionamento del sindaco-“rottamatore” non è poi così diverso da quello che si sente fare perfino negli stessi piani alti di largo del Nazareno, sede del Pd. «Se Bersani abbandonasse D’Alema e Bindi, credo pagherebbe un prezzo alto anche alle primarie - dice nella riunione di staff -. Se invece li difendesse, annunciando che li ricandiderà, farebbe arrabbiare un sacco di militanti e darebbe nuova forze alla nostra campagna». E in una posizione non molto diversa, secondo il sindaco di Firenze, si troverebbe anche Massimo D’Alema. Dice Renzi: «Che farà, dopo l’annuncio di Veltroni? Potrebbe insistere per ricandidarsi: sarebbe un suo diritto, ma io continuerei a ripetere che se vinco le primarie finisce la sua carriera, non il centrosinistra. Oppure potrebbe dire che rinuncia: ma arriverebbe secondo dopo Veltroni, che è stato bravissimo, si è smarcato da lui e lo ha anticipato. E immagino che, considerati rapporti tra i due, D’Alema non possa essere affatto contento...».

 

Una parte della riunione con lo staff fila via così, con un’analisi della situazione che si va delineando; il resto della discussione, invece, è più strettamente organizzativa: si parla di primarie e della campagna in corso. Renzi non nasconde ai suoi qualche preoccupazione, ed una profonda arrabbiatura. 

«L’idea della pompa di benzina era bellissima, ma andava forse declinata in altro modo - spiega ai suoi -. Ho visto, però, che c’era poca gente - meno di quanta è venuta ad ascoltare me a Salerno - nonostante qualche pullman di ragazzi fatti arrivare da fuori Bettola. Pier Luigi, comunque, ha con sé molti esperti in comunicazione: qualche sorpresa ce la farà...».

 

E’ una preoccupazione contenuta: a differenza dell’arrabbiatura che va montando verso regole (quelle delle primarie) diverse e restrittive rispetto a quel che gli era stato promesso. «Ne ho parlato anche con Nichi Vendola - rivela il sindaco-“rottamatore” - che mi dice di una forte insistenza di Pier Luigi per un voto a doppio turno complicato, scoraggiante, fatto di elenchi, registrazioni e voto in tempi diversi. Un delirio. Noi a quel tavolo non ci siamo, e abbiamo anche poche informazioni: quando cerco Migliavacca al telefono, non mi risponde...».

 

Le regole. E dopo le regole, le pressioni. Secondo Renzi, si starebbe perdendo il senso della misura: «Sapete quel che è successo alla vigilia della tappa di Salerno: il sindaco De Luca, che sta con Bersani, ha chiesto che nessuno della giunta si facesse vedere da me. Ha perfino richiamato Alfonso Bonaiuto, il suo assessore al Bilancio che era stato a Firenze alla nostra iniziativa dedicata agli amministratori...». Ma perfino per recriminare il tempo è poco. Dunque, fine della riunione e di corsa a Scandicci, dove sta arrivando Napolitano: forse uno dei pochi Grandi Vecchi che Matteo Renzi non vuol “rottamare”...

da - http://lastampa.it/2012/10/16/italia/cronache/renzi-le-regole-un-delirio-ma-walter-li-ha-inguaiati-LxRfd24xZiF0zVKbQD98nJ/pagina.html
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« Risposta #192 inserito:: Ottobre 27, 2012, 05:32:37 pm »

Editoriali
27/10/2012

Sicilia, l’ora della verità per Grillo

Federico Geremicca

Da una parte l’incalzare della magistratura, dall’altra i loro stessi (e ripetuti) errori: e così, alla vigilia dell’atteso voto siciliano, quella che si chiude è un’altra settimana drammatica per il sistema dei partiti nel suo complesso. La condanna di Berlusconi, la richiesta di venti mesi di carcere per Nichi Vendola e l’indagine sulla segretaria di Bersani, accusata di truffa, sono solo gli episodi più eclatanti di questo scampolo di fine ottobre che quasi tratteggia - con gli arresti nell’inchiesta Finmeccanica e le condanne dei membri della Commissione nazionale grandi rischi - il profilo di un Paese alla deriva. Se a tutto questo si aggiunge il no della Camera al decreto che riduce stipendi e numero dei consiglieri regionali (dopo gli scandali nel Lazio e in Lombardia) il quadro è tristemente completo. 

 

E’ in un clima così che i partiti attendono il verdetto delle urne siciliane. Nelle stanze degli stati maggiori si analizzano da giorni sondaggi riservati, si affastellano ipotesi di risultati, si cerca - insomma - il bandolo della matassa ma non lo si trova, essendo alla prova - nell’isola - alleanze inedite e spesso assai diverse da quelle che potrebbero competere nel voto politico di primavera. Su una cosa, però, tutti gli osservatori si dicono d’accordo: è il voto al Movimento Cinque stelle di Beppe Grillo che va monitorato con attenzione, in quanto anticipatore di un possibile terremoto politico nazionale.

 

Chi ha seguito la campagna elettorale siciliana ed il lungo (e sempre affollato) tour del comico genovese, non ha praticamente dubbi: Grillo mieterà un buon successo. E l’interrogativo è solo uno: e cioè quanto sarà buono. Gli esperti dei diversi partiti attendono di conoscerne l’entità per poi provare a valutare, empiricamente, quale potrebbe essere il risultato che le liste di Grillo potrebbero ottenere nazionalmente. Il sistema di calcolo è semplice, e si fonda sulle abitudini elettorali dell’isola e sulla presenza di un gran numero di liste e candidati: alla percentuale che il Movimento Cinque stelle raggiungerà in Sicilia, basterebbe sommare un cinque per cento per ottenere - con buona approssimazione - la percentuale sulla quale potrebbe assestarsi Grillo nelle elezioni politiche generali. Per intenderci: se in Sicilia si collocasse tra il 10 e il 15 per cento, nel voto nazionale potrebbe attestarsi tra il 15 e il 20; se invece superasse il 15%...

 

Ecco, se superasse il 15 per cento, ci si dovrebbe davvero preparare al terremoto politico di cui si parla da mesi e che ogni rilevazione conferma: una grande avanzata di Grillo (un sondaggio Swg lo indica già come il secondo partito in tutte le regioni del Nord), un alto livello di astensioni e - di conseguenza - un indebolimento netto di tutti i partiti tradizionali. E’ una previsione che ha margini di approssimazione (non sono infatti ancora note le alleanze con le quali i partiti si presenteranno al voto, e nemmeno la legge con la quale si andrà alle urne) ma non dovrebbe discostarsi molto da quel che realmente accadrà.

 

I processi, gli scandali e le nuove inchieste della magistratura potrebbero, naturalmente, appesantire ancor di più il quadro. Senza contare l’effetto che sono destinate ad avere - nel bene e nel male - le già avviate primarie del centrosinistra e quelle programmate dal centrodestra. Le due consultazioni, infatti, potrebbero rafforzare Pd e Pdl (e dunque le coalizioni imperniate su questi due partiti) in caso di vittoria dei leader in campo, cioè Bersani e Alfano; ma potrebbero anche, al contrario, far implodere l’intero sistema se a vincere fossero Matteo Renzi o - a destra - un candidato diverso da Alfano.

 

Nubi scurissime, insomma, continuano ad addensarsi sul sistema politico: e la capacità (la possibilità) di reazione dei partiti pare ancora assai al di sotto di quanto sarebbe necessario. E’ per questo che tra voto siciliano, crisi che incalza, esito delle primarie, boom di Grillo e strali della magistratura, in primavera potrebbe accadere l’impensabile: e cioè che il panorama delle forze in campo per le elezioni politiche sia assai diverso da quello attuale, e perfino da quello immaginabile. C’è chi teme questa eventualità. Ma col crescere del degrado etico e politico c’è chi invece la auspica: tanto, si sostiene, peggio di così non potrà andare...

da - http://www.lastampa.it/2012/10/27/cultura/opinioni/editoriali/sicilia-e-l-ora-della-verita-per-grillo-SMkSkzTRLAj6ZKUnbmwCHJ/pagina.html
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« Risposta #193 inserito:: Ottobre 30, 2012, 05:39:45 pm »

Editoriali
30/10/2012

L’immagine di un sistema al collasso

Federico Geremicca

E adesso converrebbe che nessuno ricominciasse a parlare di «laboratorio siciliano». Oppure ritirasse fuori la metafora - solita e consolatoria - del «campanello d’allarme»: il verdetto emesso ieri dalle urne in Sicilia, infatti, è già oltre quel che si sarebbe potuto definire «l’ultimo allarme». 

 

L’ultimo allarme, per chi ha memoria, era suonato - invano - un anno e mezzo fa, prima col sorprendente esito di elezioni importanti come quelle di Napoli o Milano, e poi con l’avvento di Monti e dei suoi tecnici. E dunque, piuttosto che a un ultimo allarme, il voto siciliano di ieri somiglia assai più alla prima vera fotografia di un Paese dal sistema politico definitivamente collassato.

 

Basta mettere in fila quel che è uscito dalle urne: non c’è un dato, dicasi uno, definibile - tradizionalmente - normale. Vediamo. Intanto l’astensione: il muro del cinquanta per cento è stato alla fine infranto, e sono più i cittadini rimasti a casa che quelli andati alle urne. Poi lo stato di salute dei partiti: non ce ne è uno, tra quelli più o meno «storici», che arrivi al 15%, tratteggiando una situazione di grande debolezza e assoluta frammentazione. Ancora, il boom di Grillo: alcuni lo attendevano, altri lo temevano, ma nessuno avrebbe mai immaginato che l’M5S diventasse il primo partito certamente a Palermo e probabilmente nell’intera Sicilia.

 

Gli effetti di quel che ora appare come un inevitabile maremoto, sono naturalmente multipli. Per restare alla Sicilia, va annotato come il successo del neo-presidente Rosario Crocetta (sostenuto da Pd e Udc) sia stato così flebile e di dimensioni tanto contenute da non assicurargli neppure (stando agli ultimissimi dati) la maggioranza nella nuova Assemblea regionale. Se ci si sposta a Roma - e si mette da un canto il commovente ottimismo di Angelino Alfano, che ha definito «straordinariamente positivo» il risultato ottenuto dal Pdl - si avverte invece una preoccupazione, a volte addirittura un panico, ormai sempre più palpabile.

 

L’interrogativo al quale dovrebbero infatti rispondere i partiti dopo il voto siciliano, resta identico a quello che i fatti proposero un anno e mezzo fa: come arginare l’ondata dell’antipolitica (in tutte le sue forme) e recuperare credibilità e fiducia dagli occhi dei cittadini? All’epoca le risposte sembravano pronte: l’impegno era a ridurre drasticamente i costi della politica e a varare riforme costituzionali ed elettorali che - mentre Monti fronteggiava la crisi - rendessero il Paese più moderno ed efficiente. Sul primo fronte le risposte sono state tardive, insufficienti e spesso contraddittorie; sul secondo, nulla si è fatto: ma sarà proprio forse a questo nulla che ora ci si potrebbe aggrappare per tentare di salvare il salvabile e tenere in vita un sistema fiaccato e screditato.

 

La grande paura è legata, naturalmente, a quel che potrebbe accadere nelle elezioni politiche di primavera: partiti ancora in calo, astensione alle stelle, Grillo che continua a moltiplicare i suoi consensi... Con i pochi mesi a disposizione, non sono ormai più pensabili risposte politiche complessive e capaci di iniettare un po’ di fiducia nei cittadini. Si può però tentare, attraverso lo strumento della legge elettorale, di arginare fenomeni in altro modo non contrastabili. E a proposito di legge elettorale, il messaggio che arriva dal risultato siciliano pare quanto mai chiaro: con una legge elettorale che fosse decisamente proporzionale, l’ingovernabilità sarebbe assicurata...

 

E’ per questo - oltre che per il poco tempo ormai a disposizione - che è difficilmente immaginabile che il cosiddetto Porcellum finisca in cantina (come pure è stato assicurato per mesi). Si potrà forse procedere a qualche modifica marginale (una preferenza qui e lì, un ritocco alle soglie di sbarramento...) per però poi blindare l’impianto della legge e difendere sistema e partiti così come sono. Si dirà: ma il Porcellum non era da cambiare? Fa niente. E non si rischia di nuovo un Senato ingovernabile? Pazienza. Si fa un altro giro sulla stessa giostra, e poi si vedrà: magari annunciando in campagna elettorale che la prossima sarà una «legislatura costituente»... Non sembra una gran ricetta, è vero. Ma di migliori in campo davvero non ce n’è.

da - http://lastampa.it/2012/10/30/cultura/opinioni/editoriali/l-immagine-di-un-sistema-al-collasso-xSMs03mSH9RNBNRMoV1qIO/pagina.html
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« Risposta #194 inserito:: Novembre 12, 2012, 04:03:30 pm »

Politica
12/11/2012 - analisi

Primarie Pd, duello in tv: più dello share pesa il rischio dei troppi rancori

Il Pd e i “panni sporchi lavati in casa”

I timori di un eccesso di toni accesi

Federico Geremicca
ROMA

Il pericolo numero uno? Non è quello di un confronto a cinque che, alla fine, si riveli noioso (non che il rischio non ci sia: ma con la politica in tv ci siamo abituati...). Il pericolo numero uno, forse, è quello in cui si incappa - di solito - quando si decide di lavare i panni sporchi in piazza invece che in famiglia: rivelando una tale quantità di rancori, diffidenze e differenze da spaventare i vicini (in questo caso gli elettori di centrosinistra) che di tutto quel bailamme poco o nulla sospettavano. E il pericolo numero due? Il pericolo numero due è quello che in gergo tecnico viene di solito definito «flop»: un pericolo concreto, considerate le regole fissate per il confronto tra gli aspiranti candidati-premier del centrosinistra, il numero stesso dei partecipanti e perfino la tv scelta (Sky) per l’inedita sfida. Ma è considerato davvero un pericolo un basso livello di ascolti? O meglio: è considerato davvero un pericolo da tutti?

 

La domanda non è retorica (e naturalmente non può esser ritenuta offensiva) considerato che non c’è sondaggio che non faccia dipendere l’esito delle primarie del 25 novembre dalla quantità di elettori che si recheranno alle urne: un’alta affluenza favorirebbe Renzi, una partecipazione più contenuta significherebbe vittoria per Bersani. 

 

Tutto questo è noto da settimane, e non è dunque scandaloso immaginare che lo staff del segretario abbia tenuto conto di questi sondaggi, regolandosi di conseguenza anche a proposito della sfida tv: audience alta buona per Renzi, più bassa - invece - meglio per Bersani.

 

Da questo punto di vista, la scelta di sfidarsi su Sky (fortemente voluta dallo staff del leader Pd) garantisce certo qualità e regolarità nel dibattito, ma anche una platea di ascoltatori - e dunque potenziali elettori - assai più ridotta rispetto ad altre possibilità ed altre offerte (da Vespa a Fazio fino a Enrico Mentana). Si può naturalmente osservare come tale scelta faccia seguito ad analoghe decisioni in materia di regole per il voto alle primarie (a doppio turno per la prima volta e assai più complesse rispetto al passato). Ma resta la circostanza, comunque, che se primarie, sfide tv e tutto il resto sono in campo, lo si deve anche alla «generosità politica» di Bersani: e che se è riuscito - senza molti sforzi, pare - a convincere i suoi contendenti a sfidarlo su Sky, vuol dire che va bene così e la questione si può chiudere qui. Quindi, domattina, a dati di ascolto noti, avrà poco senso parlare di «flop» e di share basso, perchè la circostanza era nel conto e non potrà esser dunque presa a testimonianza, per esempio, di un cattivo stato di salute del centrosinistra (che magari esiste, ma si manifesta in altri modi...) oppure del fatto che le primarie hanno stufato prima ancora di andare in scena. Avrà più senso, invece, riflettere su quel che emergerà dal confronto: e soprattutto su quanti danni avrà provocato - se li avrà provocati - la decisione di «lavare i panni sporchi in piazza».

 

Il pericolo maggiore è senz’altro quello che da tempo, ormai, viene definito «rischio Unione»: e cioè una tale eterogeneità di proposte e posizioni da render assai preoccupante la prospettiva che a governare siano forze politiche i cui esponenti alle primarie potranno essere considerati magari bravi a duellare ma assolutamente inadatti a governare assieme, considerate le enormi differenze che esistono tra loro. Ecco, se alla fine del dibattito il commento della maggioranza dei telespettatori dovesse essere «ma tu lo metteresti il Paese di nuovo in mano a questi qui, che non sono d’accordo su niente?» allora il rischio boomerang sarebbe enorme. 

 

Qui in Italia si guarda e si fa spesso riferimento alle primarie americane spesso però confondendo - anzi sovrapponendo - le sfide tv tra i candidati alla presidenza e le primarie che le hanno precedute. Assumere i duelli tra Romney e Obama come traccia da seguire, per esempio, può portare fuori strada ed esporre a un pericolo mortale gli stati maggiori del centrosinistra: Obama e Romney, infatti, si sono duramente sfidati proponendo agli elettori - però - politiche e governi totalmente diversi. Bersani e Renzi, Tabacci, Puppato e Vendola, invece, dovrebbero stare - o almeno sostenere - lo stesso governo. E stasera, allora, questa è una delle prime cose che farebbero bene a non dimenticare... 

da - http://lastampa.it/2012/11/12/italia/politica/piu-dello-share-pesa-il-rischio-dei-troppi-rancori-EAKaLNU7wEIl9f4dlA0UMK/pagina.html
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