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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 158079 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Luglio 17, 2011, 09:38:04 am »

Politica

13/07/2011 - LA CRISI: I TENTATIVI DI DIALOGO

Il bisogno di "coesione" mette in crisi l'opposizione

L'emergenza l'ha costretta a non ostacolare una manovra «iniqua»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Non ci sono ambasciatori. E nemmeno telefoni roventi. In più, zero incontri segreti, zero patti e zero accordi intorno a quel che resta della legislatura. L’idea di un governo di «salvezza nazionale», insomma, da ieri è materia buona per qualche titolo di giornale, e nulla più. Non ci voleva molto per averne conferma: e ora che la conferma è arrivata, i leader dell’opposizione sono lì a decantare al Paese il loro di senso di responsabilità, e a interrogarsi preoccupati - intorno a cosa sarà da lunedì in poi.

L’illusione che Silvio Berlusconi potesse favorire la propria cacciata da Palazzo Chigi, così come chiesto dai leader del centrosinistra («noi favoriamo l’approvazione-lampo della manovra, ma lui poi si deve dimettere») si è liquefatta a ora di pranzo, quando una lunga nota del premier ha triturato le speranze degli ottimisti a oltranza: non un cenno alle dimissioni chieste, non un ringraziamento alle opposizioni, nessun apprezzamento per l’intervento salvifico del capo dello Stato e addirittura la riaffermazione, un po’ surreale, che «il governo è stabile e forte, e la maggioranza coesa e determinata».

Per Berlusconi, insomma, l’avventura di un governo che non sia presieduto da lui è finita prima ancora di cominciare. E il fatto che la sua posizione resti immutabile nonostante la sconfitta alle amministrative e al referendum, i ripetuti guai giudiziari di un bel pezzo di governo e lo spettro incombente della speculazione finanziaria, dimostra - anzi, conferma - una cosa della quale Bersani, Casini e Di Pietro sono in fondo consapevoli da tempo: Berlusconi non lascerà mai Palazzo Chigi, a meno che non vi sia letteralmente costretto. O dall’ennesimo rovescio giudiziario o da quella che un tempo si sarebbe chiamata «congiura di Palazzo».

Si hanno notizie di possibili «congiure di Palazzo»? Nel quartier generale delle opposizioni ci avevano sperato, qualche settimana fa. Certi silenzi di Giulio Tremonti e certe minacce di Umberto Bossi dopo la secca sconfitta di Milano, sembravano il preludio a che qualcosa potesse accadere: poi il leader leghista ha fatto marcia indietro, il super-ministro è finito in una palude di guai e di case in prestito, e la speranza è svanita. «Ora non resta che Claudio Scajola - ammette Roberto Rao, deputato e braccio destro di Casini -. Intendiamoci, nessuno si fa soverchie illusioni, ma lui è l’unico che può contare su una pattuglia di deputati potenzialmente capaci di mandare il governo gambe all’aria».

Lo farà? Difficile. E se non lo farà, cos’è che potrebbe costringere o convincere il premier a farsi da parte? Al momento non ci sono risposte. E l’unica ipotesi in campo è di quelle che è meglio non evocare: «Se lunedì Borsa e mercati crollassero di nuovo, nonostante il varo della manovra - aggiunge Rao - allora sarebbe chiaro che il problema non è in cosa metti nella padella ma nella padella stessa, cioè nel manico». Una sorta di mozione di sfiducia politica da parte del mondo dell’economia e della finanza, insomma: che nemmeno Rao e Casini, però, arrivano ad augurarsi.

Approvata la manovra, insomma, per l’opposizione tutto rischia di tornare al punto di partenza. E stavolta sarebbe un ritorno non precisamente indolore. Sul terreno, infatti, resterebbero un’occasione perduta e una non rassicurante certezza. L’occasione perduta è, appunto, la possibilità di una grande campagna nel Paese contro una manovra giudicata iniqua, inadeguata e furbesca: difficile svilupparla dopo averne comunque favorito l’approvazione in tempi così rapidi da non aver precedenti in Italia e probabilmente in Europa. La certezza è che senso dello Stato, galateo politico e atteggiamenti responsabili, sono termini e atteggiamenti del tutto estranei all’agire politico del premier: e quindi è inutile insistervi attendendosi in cambio chissà che cosa...

Questa certezza rischia ora di diventare foriera di polemiche tra i partiti d’opposizione, all’interno di alcuni di essi e perfino nei confronti del palazzo del Quirinale. Va bene il senso di responsabilità e va bene anche che gli interessi del Paese vengono prima di ogni altra cosa: ma l’intervento col quale Napolitano ha chiesto «coesione» di fronte all’emergenza economico-finanziaria, alla fine ha messo l’opposizione spalle al muro e si è trasformato in una sorta di regalo al Cavaliere.

Si poteva non rispondere all’appello del Capo dello Stato? No, non si poteva. Ma forse si potevano concordare condizioni diverse: «Noi abbiamo chiesto e continuiamo a chiedere che dopo l’approvazione della manovra in tempi così rapidi da esser sconosciuti in democrazia, il governo si dimetta - annota Rosi Bindi -. Forse potevamo cambiare l’ordine dei fattori: prima ti dimetti e poi noi facilitiamo l’approvazione della manovra. Comunque, è andata: e speriamo che ai mercati basti». Ma è l’ultima volta, sembra sottinteso. E da domani si torna all’antico: lotta dura senza paura...

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/411272/
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« Risposta #151 inserito:: Luglio 22, 2011, 04:19:27 pm »

22/7/2011

Le due debolezze

FEDERICO GEREMICCA

C’è ancora qualche ostacolo, certo: per esempio il rifinanziamento delle missioni italiane all’estero e la posizione di esplicita critica assunta dalla Lega.

E c’è, naturalmente, la spada di Damocle di una situazione economico-finanziaria che tiene ancora mezza Europa col fiato sospeso, anche se il quadro pare quello di una lenta ma progressiva ripresa. Per il resto, il rinvio a settembre delle questioni più spinose e la difficoltà del concretizzarsi di un’alternativa, paiono far presagire un’estate senza crisi e col governo comunque in sella.

Si sente ripetere spesso, soprattutto in riferimento alle esigenze dei mercati, che la stabilità sia un valore in sé. Nel caso in questione, e di fronte ai deprimenti avvenimenti dell’ultima settimana, qualche dubbio sarebbe lecito: ma agosto è alle porte, e quasi tutti - fuori e dentro il Palazzo - sono pronti a scommettere che la voglia di vacanza finirà per prevalere su tutto il resto. Che questo sia un bene - o piuttosto una ulteriore perdita di tempo rispetto ad una fase politica che pare ormai avviata a conclusione - lo si vedrà appunto alla ripresa: ma per adesso è precisamente così che sembrano destinate ad andar le cose.

Può non piacere, naturalmente, e ce ne sarebbero molte ragioni. La confusione è tale, infatti, che ormai si fa perfino fatica a recuperare il bandolo della matassa di un confronto politico (e soprattutto di un’azione di governo) totalmente schizofrenica. E così, a seconda degli umori, la questione delle questioni - sulla quale ognuno minaccia crisi e ritorsioni - diventa un giorno il federalismo e quello successivo la riforma delle intercettazioni; poi si passa ai costi della politica, si torna alle riforme da varare e si riprecipita, naturalmente, sulla giustizia che così non va. L’ago della bussola sembra impazzito, la rotta si trasforma in un incomprensibile zig zag: il risultato è la paralisi, ed il rinvio a tempi migliori di questioni - spesso urgenti - che è assolutamente impossibile affrontare in un clima così.

Si potrebbe discutere a lungo sul come e sul perché una maggioranza in origine ampia e solida si sia ridotta a dipendere da Domenico Scilipoti e dal farsi e disfarsi di nuovi e improbabili gruppi parlamentari. Certo ha pesato l’addio di Fini e del suo drappello di parlamentari: ma la brusca accelerazione della crisi politica e l’aumento delle difficoltà dopo le elezioni amministrative e i referendum, dicono che ormai la questione è un’altra. E non è difficile individuarla nell’evidente indebolimento delle due leadership che da quasi vent’anni, ormai, rappresentano l’essenza e l’anima del centrodestra così come lo conosciamo.

L’altro ieri alla Camera, durante e dopo il voto sul destino di Alfonso Papa, si è avuta una rappresentazione perfino plastica di questa debolezza, di questa inattesa impotenza: intendiamo il pugno sbattuto sul banco da Silvio Berlusconi e la desolante assenza in aula di Umberto Bossi, che prima ha cambiato posizione tre volte sulla concessione degli arresti per l’ex magistrato e poi ha pavidamente disertato il voto. Certo, il vecchio «senatùr» ha il problema di Maroni che lo incalza sempre più da presso; e Berlusconi è stato costretto a cedere (o fingere di cedere) il bastone del comando al giovane Alfano. Ma si tratta, appunto, degli effetti di una doppia e contemporanea crisi: che sta dilaniando il centrodestra, paralizzando il governo e creando difficoltà sempre più serie all’intero sistema-Paese.

Cosa accadrà ora non è poi forse così difficile da prevedere. Tempi e oggetto della definitiva resa dei conti sarebbero già fissati e ben visibili all’orizzonte. Il tempo è settembre, l’oggetto saranno due voti che si preannunciano delicati fin da ora: quello sulla richiesta di dimissioni del ministro Romano, rinviato a processo per mafia, e quello sull’autorizzazione all’arresto per Marco Milanese. Sarà allora che tutti i nodi - a cominciare dal rapporto tra la Lega e Silvio Berlusconi - verranno probabilmente al pettine. Si spera solo che ciò possa avvenire senza le risse, gli insulti e i pugni mostrati dopo il voto su Alfonso Papa: spettacolo intollerabile e deprimente in un Parlamento dove nemmeno i rapporti personali, ormai, sono più quelli del bel tempo che fu...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9006
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« Risposta #152 inserito:: Luglio 28, 2011, 05:27:15 pm »

28/7/2011

La riflessione che il Pd deve fare

FEDERICO GEREMICCA

Il caso di giornata è lo sfogo amarissimo e indignato di Pier Luigi Bersani che - messo alle strette dalle inchieste che dalla Puglia alla Lombardia stanno facendo tremare il Pd - preannuncia una inedita «class action» dei militanti democratici: e punta l’indice contro il ritorno in funzione della micidiale macchina del fango, da troppo tempo - ormai protagonista assoluta delle vicende e degli equilibri politici del Paese. E’ il caso di giornata, ed è giusto e necessario discuterne.

Con una premessa ed una avvertenza, però: che rincorrere la cronaca e continuare a stare al giorno per giorno oggi riflettori su questa inchiesta e domani su quell’arresto - rischia di occultare e far perdere il senso del quadro d’insieme. Un quadro, in tutta evidenza, assai allarmante per una democrazia.

Anche la lettura dei giornali di ieri - oltre agli inquietanti sviluppi di inchieste già note - offre notizie che stimolano sentimenti ormai sempre più difficili da definire. Finisce sotto inchiesta un assessore regionale lombardo della Lega, accusato di aver favorito l’elezione in Consiglio di Renzo Bossi attraverso una sorta di spionaggio politico-personale dei suoi rivali alle elezioni; vanno agli arresti, in Abruzzo, un sindaco e il coordinatore regionale dell’Api - il partito di Rutelli - per una presunta tangente di 100 mila euro chiesta per permettere la costruzione di un centro residenziale su un terreno non edificabile. E si potrebbe naturalmente continuare. A conferma del fatto che se una volta (ma accade ancora oggi...) era la guerra ad essere definita la prosecuzione della politica con altri mezzi, oggi si può serenamente dire che lo sono le inchieste giudiziarie: o meglio, l’uso politico che troppo spesso se ne fa (con quel che ne segue in termini di credibilità del sistema). Ma torniamo al Pd di Bersani.

L’amarezza del segretario dei democrats, costretto a difendere se stesso e il partito da accuse e sospetti che non lo riguardano direttamente, è comprensibile e può ricordare - in qualche modo - quella del ministro Tremonti, per restare solo al caso più recente: Bersani non poteva non sapere chi fosse e cosa facesse Filippo Penati, così come il titolare del dicastero dell’Economia non poteva non sapere chi fosse, cosa facesse e che regime di vita avesse Marco Milanese. E’ una logica apparentemente micidiale ma lo si voglia o no, è la logica imperante nel malefico rapporto giustizia-politica almeno dal ’92 in poi. Il leader del Pd ha tutto il diritto, naturalmente, di difendere la propria onorabilità (e quella del partito che dirige) da una interpretazione diciamo così «estensiva» delle responsabilità penali: politicamente, invece, la faccenda in questione è più controversa e non sarebbe male se venisse colta come occasione per una riflessione che vada oltre la contingenza.

Non è infatti né un mistero né un’affermazione offensiva rilevare come il far leva sulle disavventure giudiziarie di esponenti del maggior partito concorrente (intendiamo il Pdl, e a partire dai guai di Berlusconi) sia pratica politica costante per il Pd e le altre opposizioni da molto tempo in qua. Si può naturalmente discutere (e distinguere) la gravità e la frequenza dei reati contestati e delle vicende giudiziarie alla ribalta, ma la logica e le semplificazioni a volte strumentali sono identiche a quelle che oggi deve fronteggiare il leader Pd. Ed è addirittura possibile, anzi, che dietro la rabbia e l’indignazione del gruppo dirigente democratico ci sia il disappunto per il fatto che le recenti tegole giudiziarie siano arrivate proprio nel momento in cui tegole simili e continue nel tempo avevano di fatto colpito e fiaccato gli avversari politici (non pochi, Pd escluso) fino a far apparire proprio il partito di Bersani come l’unica alternativa al dilagante malcostume.

La domanda alla quale proprio di fronte a vicende così occorrerebbe dare una risposta è se è possibile (oltre che utile, accettabile e civile) andare avanti in questo modo. La pratica dell’occhio per occhio, prevede un seguito: dente per dente. E se i fatti si stanno incaricando di dimostrare come una guerra politica combattuta di sponda con le procure non possa vedere vincitori, la memoria dovrebbe aiutare a ricordare cosa fu Tangentopoli (di cui, pure, tutti ricominciano a parlare): cioè chi vinse, chi perse e che volto aveva il «Cavaliere bianco» che scese in campo per salvare l’Italia...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9027
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« Risposta #153 inserito:: Agosto 18, 2011, 05:50:40 pm »

Politica

18/08/2011 - INTERVISTA

Renzi: "Rottamarli? Macché, si stanno liquefacendo da soli"

«Bisognava intervenire sulle pensioni, senza riforme fra tre anni saremo daccapo con queste comiche»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Dice, lui che è diventato suo malgrado famoso proponendosi come rottamatore di un’intera classe dirigente, che gli hanno praticamente rubato il lavoro: «Si stanno liquefacendo da soli, sono all’ultimo giro e temo che non se ne siano nemmeno accorti». Spiega che la manovra è quel pasticcio iniquo e inutile che è sotto gli occhi di tutti «perché da Berlusconi mi aspettavo, e ancora ci spero, un colpo d’ala che non è arrivato, e da Bersani maggior coraggio». E rimettendo al centro del dibattito un tema che non gli procurerà simpatie a sinistra, argomenta: «Una manovra che non affronta la questione ineludibile della riforma delle pensioni non può che ridursi a quel che è: tasse, balzelli e tagli lineari. Che sono il contrario della capacità di scegliere e governare». Parla Matteo Renzi, sindaco di Firenze.
E ne ha per tutti: Tremonti in testa, naturalmente.

Perché Tremonti, scusi?
«Perché le sue vicende personali, che qui non commento, gli hanno tolto lucidità e autorevolezza. Le misure che propone lo dimostrano.
Ormai somiglia all’imitazione che fa di lui Corrado Guzzanti: solo che Guzzanti, almeno, fa ridere».

Ammetterà che intervenire nel pieno della crisi non è facile.
«Governare non è mai facile: ma con Bankitalia e il Quirinale a far quotidianamente da sponda, era lecito attendersi di più.
Invece hanno confermato di essere al capolinea. E Berlusconi è messo così male da pendere dalle labbra di Bossi. Che è quanto dire».

E’ l’ultimo alleato rimastogli.
«Sarà. Però ormai è il capo dei conservatori. Fa tristezza. Lui, che ha cominciato come rivoluzionario, si è fatto nominare ministro delle Riforme per bloccare qualunque riforma. Ma non è che un Paese moderno possa accettare l’idea che di pensioni non si può nemmeno discutere perché arriva Bossi e dice no».

Anche i sindacati erano contrari, in verità.
«Hanno tra i pensionati il maggior numero di iscritti: non condivido ma capisco le difficoltà. Certe prudenze di Bersani, invece, non me le spiego. Ho letto le cose scritte da Prodi sulla crisi, e stavolta l’ho trovato più avanti del mio segretario».

Renzi spara sul quartier generale: siamo alle solite?
«Niente affatto. Però ci vuole più coraggio. Quando si liberalizza, bisogna farlo sul serio. Prenda la vicenda delle licenze per i taxi.
A Firenze abbiamo deciso di aumentarne il numero e vorremmo venderne un paio di centinaia. Fatti i conti, il Comune ci farebbe un bel po’ di quattrini. Poi, in un codicillo nascosto, ho scoperto che l’80% del ricavato deve essere redistribuito tra i tassisti... Direi che così proprio non va».

Ripeto: Renzi spara sul quartier generale?
«E io ripeto: niente affatto. Anzi, alcune delle proposte avanzate da Pier Luigi sono del tutto condivisibili. Il prelievo sui “capitali scudati”; l’aumento dell’Iva sui beni di lusso; la lotta all’evasione... Ma l’Italia, nonostante tutto, è un Paese grande, moderno e vitale. Bisogna capirlo e non averne paura».

E che c’entra, scusi?
«L’aumento dell’aspettativa di vita fa parte della crescita e del benessere di un Paese. Vivere di più, lavorare più a lungo e andare in pensione più tardi ne è una inevitabile conseguenza. Dobbiamo convincercene: anche perché in assenza di riforme strutturali che riducano la spesa non “una tantum” ma stabilmente, tra tre anni saremo punto e a capo con queste comiche».

Addirittura?
«Ma sì. A Firenze taglieranno, a occhio e croce, 50 milioni di euro: però mi permettono di portare l’addizionale Irpef dallo 0,3 allo 0,8%, così ne recupero 35... Le Province? Da abolire, ma solo un po’. Come direbbe Flaiano, la ragazza è incinta ma soltanto un po’.
E’ da ridere. E in aggiunta, dove occorrerebbe il bisturi, usano la sega elettrica: e dunque vai con i tagli lineari... Una classe dirigente seria avrebbe cominciato dalla previdenza: ma questi sono al lumicino e si vanno spegnendo come una candela».

Le sue critiche sono aspre, ma sull’abolizione delle Province anche lei ha dei dubbi, no?
«Nemmeno per idea. Solo che o le aboliamo tutte o non ha senso cancellarne una qui e una lì. Il governo aveva la possibilità di riscrivere la storia dei rapporti tra istituzioni in questo Paese: ha scelto di riscriverne la geografia».

Sarà d’accordo con lei Formigoni, secondo il quale con questa manovra il federalismo fiscale è morto.
«Già, ma sono io a non condividere il suo ottimismo. Parla del federalismo come di una cosa che c’era: io non l’ho mai visto.
E mi conceda una battuta sulla “macelleria sociale”: suona offesa verso i macellai, perché per tagliare un buon filetto ci vuole cura e attenzione. Lei in questa manovra ne ha viste, per caso?».

Non molte, in verità. E lei invece ha altre battute?
«No, solo una considerazione amara. Che a quelli della mia generazione i genitori hanno lasciato qualche soldo in banca e magari una casa in cui vivere: ai nostri figli, dopo aver lautamente mangiato, lasceremo il conto del ristorante da pagare. Non mi pare un successo di cui vantarsi...».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/416056/
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« Risposta #154 inserito:: Agosto 20, 2011, 09:26:02 pm »

20/8/2011

Nuove regole per salvare la politica

FEDERICO GEREMICCA

L’interrogativo non è nuovissimo, ma resta - irrisolto - al centro di accesissime dispute politiche, economiche e non di rado perfino filosofiche: in società complesse e globalizzate, il potere vero - cioè la capacità di dettare regole e perfino comportamenti collettivi e individuali - appartiene alla sfera della politica o a quella dell’economia? Le vicende delle ultime settimane, con l’annaspare impotente dei governi di tutto il mondo di fronte alle scorribande della finanza più o meno speculativa, paiono contenere una risposta in sé: nell’assetto attuale, è la politica - ormai - a dover rincorrere in maniera sempre più evidente l’economia alla ricerca di un qualche accordo.

Governanti e classi dirigenti illuminate prenderebbero atto di tale evidenza per tentare - finalmente - di concordare nuove regole comuni e salvare, come si dice, quel che è ancor possibile salvare. In queste pesanti settimane, invece, si è spesso sentita ripetere - e non è questione solo italiana - una tesi per metà consolatoria e per metà frutto di calcoli politici, certo legittimi ma poco producenti. La tesi, nella sostanza, è così riassumibile: il grosso delle responsabilità dello spaventoso tsunami finanziario che sta sommergendo le Borse di tutto il mondo, sta nella pochezza - peggio: nell’assenza di qualsiasi autorevolezza - delle classi politiche governanti. L’assunto è stato esposto ripetutamente anche in Italia il mese scorso, al momento del varo della prima (e insufficiente) manovra del governo: per le opposizioni, a non esser credibili erano non solo e non tanto le misure proposte dal governo quanto gli stessi governanti, da Berlusconi a Tremonti e via via elencando. Ora, pur essendo del tutto evidente il crescente deficit di autorevolezza della compagine al governo, questa tesi - alla luce del profilo mondiale rapidamente assunto dalla crisi - viene riproposta assai più flebilmente: il che, naturalmente, non sposta di un millimetro il giudizio negativo che da tempo, ormai, circonda il governo.

A rischiarare con la giusta luce i termini - e la dimensione - del problema, ci hanno per altro pensato alcuni avvenimenti degli ultimi giorni. Due su tutti: l’effetto paradossale e addirittura controproducente avuto sui mercati dal vertice Merkel-Sarkozy (presentato alla vigilia come quasi risolutivo degli affanni europei) e il paio di capitomboli in cui è incappato Barack Obama, prima nel suo braccio di ferro con Standard&Poor’s e poi con l’annuncio di un piano di rilancio dell’economia americana (accolto da Wall Street con una serie di cali memorabili). Si può seriamente sostenere, allora, che alcune delle più forti e riconosciute leadership mondiali abbiano improvvisamente cominciato a soffrire dello stesso deficit di credibilità di Silvio Berlusconi? Dando per scontato che è dalla politica - e non dalla sola economia - che possono e devono arrivare risposte alle drammatiche difficoltà attuali, andrebbe forse modificato il «capo d’imputazione» da contestare alle classi governanti: la questione, insomma, forse non riguarda la loro credibilità tout court quanto la loro lungimiranza, la capacità di ragionare in maniera più «generosa», globale e solidale. L’approccio alle nuove e indispensabili regole da ricontrattare, insomma, non dovrebbe continuare ad esser condizionato da interessi esclusivamente nazionali, quando non addirittura - e peggio - elettoralistici.

Giunti sull’orlo del baratro, occorrerebbe prender consapevolezza del fatto che altri passi nella stessa direzione potrebbero esser esiziali. E’ un segnale di questo tipo che attendono i «cittadini del mondo», sulle cui spalle sta gravando il grosso della crisi. Dall’ultima querelle europea sugli eurobond, in verità, non arrivano messaggi incoraggianti. Ma si può ancora sperare. Nella forza delle cose, prima di tutto. E nel fatto che raramente il «vecchio ordine» ha lasciato campo al nuovo tra brindisi e tappeti rossi...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9106
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« Risposta #155 inserito:: Agosto 23, 2011, 10:10:16 am »

Politica

23/08/2011 - INTERVISTA

Bersani: sulle pensioni sono pronto a discutere

Il segretario del Pd: ascolto Napolitano, ma noi siamo alternativi a Berlusconi

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Ne ha per il tandem Berlusconi-Tremonti, rei «di aver disseminato il Paese di macerie»; e ne ha - naturalmente - per la Lega, perché «è un anno che denuncio le loro contraddizioni, e ora osservo l’effetto della crisi strategica in cui sono caduti». Ma Pier Luigi Bersani commenta anche l’ultima uscita (lunedì a Cortina) di Luca Cordero di Montezemolo, prendendosela con «un certo terzismo che attacca destra e sinistra ma non dice mai da che parte sta». Interrotte le vacanze (in realtà mai cominciate) per tornare a Roma e definire gli emendamenti pd alla manovra-bis del governo, il leader democratico accoglie con cortesia la richiesta di intervista. Che non può che cominciare dall’intervento pronunciato dal Capo dello Stato l’altroieri a Rimini.

Il Presidente Napolitano è parso avercela anche col Pd, colpevoli di far risalire a Berlusconi qualunque problema investa il Paese.
«Noi ripassiamo sempre due o tre volte, nella nostra testa, quello che dice il Presidente. Lo ascoltiamo. Io rivendico al Pd di aver fin dal primo giorno, inascoltato, descritto la situazione per quel che era: inascoltato sia da chi raccontava le favole sia da chi faceva finta di crederci. La crisi è stata sottovalutata e tenuta nascosta: è un’accusa che teniamo ferma e che siamo pronti a documentare. Mi pare che il Presidente riconosca che sia andata così. Mi piacerebbe un riconoscimento anche da parte di altri...».

Quanto al resto?
«Quale resto?».

Chiamiamolo un presunto eccesso di antiberlusconismo.
«Il Presidente, come tutto il Paese, sa che noi intendiamo essere un’opposizione di governo assolutamente responsabile: ma alternativa. Ripeto: alternativa. Perché la cura berlusconiana cui è sottoposta l’Italia, è un assoluto disastro».

Il Quirinale insiste nel chiedere a tutti coesione e senso di responsabilità. Dopo il varo della manovra di luglio e poi le mancate dimissioni del governo, lei disse: la nostra responsabilità si ferma qui. E oggi, dunque?
«Intendevo ed intendo che la nostra responsabilità si ferma alla soglia del merito delle scelte. Noi ci prendiamo come sempre la responsabilità di cercare soluzioni, garantiamo il saldo di bilancio e perfino i patti con l’Europa fatti da Tremonti (sui quali avremmo molto da dire). Però le ricette no: la nostra collaborazione si ferma davanti a un merito che non condividiamo. Perché non ci possono raccontare, per esempio, che in un momento così non si può far pagare chi non ha mai pagato».

Raccontano questo?
«Da molte parti sta venendo fuori questa favola: che non è possibile, non è mai possibile far pagare chi non ha mai pagato. E’ vergognoso. E noi su questo ci impuntiamo con tutti e due i piedi».

Si riferisce al “no” ricevuto all’idea di prelievo sui capitali cosiddetti “scudati”?
«Non solo a quello. La nostra proposta di articola su pochi punti. Primo: una terapia choc contro l’evasione. Proporremo l’uso di sette o otto grimaldelli che, se utilizzati, possono aiutare a cominciare a vincere la battaglia. Secondo: una imposta sui patrimoni immobiliari rilevanti. Terzo: un ridimensionamento drastico di pubblica amministrazione, istituzioni e costi della politica. Quarto: un contributo di solidarietà che finalmente gravi non sui tassati ma sui condonati. A questo aggiungiamo liberalizzazioni, dismissioni ragionevoli del patrominio pubblico, e un po’ di politica industriale e di sostegno all’economia. Per l’amor di Dio: si può non essere d’accordo, ma non si snobbi questo piano. Perché non ci faremo intimidire da chi dice semplicemente che non si può».

E le pensioni, scusi?
«Le pensioni sono un discorso serio, ed è ora di smetterla di tentare di cavar soldi da lì, per coprire il buco del giorno, per non toglierli agli evasori o a chi è sempre al riparo. E’ insopportabile. Comunque, se dopo tutto quello che ho elencato si vuol parlare di evoluzione del sistema pensionistico a favore dei giovani, si ricordi che noi siamo i primi ad aver fatto la riforma. Io sono per discutere, dunque. Abbiamo sempre detto che per noi la messa a regime del sistema consiste nell’individuare una fascia di anni nella quale ci sia flessibilita di uscita in ragione di meccanismi di convenienza. Parliamone. Quel che non accetto è che per colmare il buco degli enti locali si vogliano toccare le pensioni: si facciano pagare i condonati e si metta una tassa sui patrimoni rilevanti. Se non sanno come si fa, glielo spieghiamo noi».

Magari lo sanno ma non vogliono farlo...
«Possibile. Allora, però, non accusino noi di chiusura. Della flessibilità di cui dicevo, per altro, avevamo parlato già nella nostra conferenza sul lavoro, mesi fa. Altro che chiusura».

Anche Montezemolo, però, critica il presunto silenzio del Pd sulla manovra e dice che il poco che avete proposto la ritassazione dei capitali “scudati” non si può fare.
«Devo dire la verità: a me le sue dichiarazioni non sono piaciute. Nel merito: si limiti a dire se sia più giusto chiedere solidarietà ai condonati o ai tassati, perché siamo grandi e non siamo nati ieri, a renderla praticabile ci pensiamo noi. Più in generale - e alludo a Montezemolo e non solo - è uno sport antico di certo terzismo cercare di farsi largo semplicemente criticando a destra e a manca: ma sono cose, diciamo così, da precampionato... Noi siamo in un sistema ormai radicalmente bipolare: e oltre a dire cosa si vuol fare, bisogna anche spiegare da che parte si sta. Perché finché c’è il precampionato, va tutto bene: ma quando si arriva al dunque, bisogna scegliere. Chiunque entra in politica con obiettivi positivi, naturalmente, è sempre benvenuto: ma scelga e spieghi da che parte sta. Perché l’Italia, al punto in cui è, per i precampionati davvero non ha più tempo».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/416553/
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« Risposta #156 inserito:: Settembre 07, 2011, 05:37:07 pm »

7/9/2011

Gli effetti del voto blindato

FEDERICO GEREMICCA

Aveva utilizzato perfino un incontro mattutino col ministro degli Esteri, sperando che Frattini potesse fare in qualche modo da ambasciatore nei confronti del presidente del Consiglio.

E il titolare della Farnesina - in verità - non è venuto meno all’impegno: così, lasciato il Quirinale e utilizzando un post sul proprio blog, ha auspicato che la manovra venisse approvata attraverso un confronto con l’opposizione e senza la «blindatura» del voto di fiducia. Silvio Berlusconi ha invece deciso di battere un’altra via, diciamo pure la solita via: e basterebbe questo per intendere qual era l’aria che si respirava ieri sera nelle stanze ordinatamente frenetiche del Quirinale.

Uno stato d’animo scisso: forse l’umore di Giorgio Napolitano potrebbe esser descritto così. Da una parte, la consapevolezza - e la soddisfazione - per il fatto che l’appello lanciato lunedì sera («Si è ancora in tempo per introdurre misure capaci di rafforzare l’efficacia e la credibilità della manovra») alla fine fosse stato raccolto dall’esecutivo; dall’altra, un malcelato disappunto per la scelta del governo di soffocare ogni possibilità di confronto con l’opposizione, ricorrendo al voto di fiducia.

Non solo: bisogna infatti aggiungere che permane una certa circospezione nella valutazione delle scelte effettuate dall’esecutivo, visto che il testo - a ora tarda - non era stato ancora trasmesso al Colle. E se è vero che al capo dello Stato non compete certo un giudizio di merito del provvedimento, è altrettanto vero che i tecnici del Quirinale non di rado hanno scovato in questo o quel decreto norme relative a materie che non c’entravano affatto con i provvedimenti in questione...

Al di là delle non sindacabili scelte di merito del governo, insomma, quel che certamente non è stato apprezzato dal capo dello Stato è il ricorso alla solita «tagliola» del voto di fiducia. Il governo ha motivato tale scelta con ragioni quasi tecniche: la necessità, cioè, di approvare il provvedimento in almeno una delle due Camere prima dell’importante riunione del board della Banca centrale europea previsto per domani. Non è escluso, naturalmente, che vi siano anche altre motivazioni dietro la scelta compiuta da Berlusconi (per esempio le crescenti fibrillazioni all’interno della maggioranza di governo): quel che è sicuro è che le opposizioni hanno preso assai male l’annuncio dell’ennesima fiducia. E questo, in qualche modo, rappresenta un problema anche per il capo dello Stato.

Nel suo continuo lavoro di cucitura e stimolo, infatti, Napolitano ha sovente fatto appello al senso di responsabilità delle forze di opposizione, reclamando coesione e chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Il Pd - e Bersani in particolare - non si sono sottratti all’invito del Quirinale, pur chiarendo che l’invocato senso di responsabilità si fermava, naturalmente, sulla soglia delle scelte di merito che l’esecutivo andava compiendo. E’ evidente che il ricorso al voto di fiducia - annullando ogni possibilità di confronto - non solo vanifica i ripetuti inviti alla coesione lanciati dal Capo dello Stato, ma fornisce un potente alibi a chi ritiene che anche in momenti tanto delicati - l’opposizione debba scindere nettamente le proprie responsabilità da quelle dell’esecutivo (per esempio Di Pietro, che ieri ha annunciato l’ostruzionismo dell’Italia dei Valori nei confronti del provvedimento del governo).

Non è un buon viatico per il futuro: e considerando che è da escludere che l’emergenza economica venga risolta con la semplice approvazione del decreto in discussione, la scelta del governo di ricorrere alla fiducia rischia di render più difficili o addirittura compromettere i passi che si renderanno necessari dalla settimana prossima in poi. Per ora, in ogni caso, quel che conta più di ogni altra cosa è la risposta che arriverà stamane dai mercati. Tutta l’attenzione sarà per la Borsa e l’andamento dei listini: sperando che, fiducia o non fiducia, la manovra annunciata dal governo riesca almeno ad arginare un declino che ancora ieri sembrava inarrestabile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9169
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« Risposta #157 inserito:: Settembre 09, 2011, 05:50:37 pm »

Politica

09/09/2011 - NAPOLITANO: SULLA COSTITUZIONE TROPPA APPROSSIMAZIONE

Napolitano, il presidente supplente e quelle sollecitazioni irricevibili

"Sulle modifiche alla Costituzione troppa improvvisazione e approssimazione"

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A PALERMO

Se ne sta finalmente lì, con la moglie Clio, un momento tranquillo a guardare il vuoto oppure il mare dai giardini di Villa Igiea, splendido albergo circondato da ficus, oleandri e palme africane.È ora di pranzo, la Bce a Francoforte sta benedicendo la manovra faticosamente varata dal governo e questo 8 settembre, allora, non è precisamente il giorno di un’altra resa: eventualità pure concretissima fino a non troppe ore fa. Non lo è: e se non lo è, molto lo si deve proprio a lui, Giorgio Napolitano, cioè il presidente che Gianfranco Pasquino - in un dialogo pubblico nell’aula magna di Ingegneria - definisce con bella immagine «predicatore dei valori costituzionali».

E sarebbe stato assai più riposante, per il presidente, esser questo e solo questo, nell’ultimo paio di anni. E’ un compito, certo, cui ha dovuto assolvere, perchè ancora oggi - dice nel suo colloquio con Pasquino - «con molta improvvisazione e molta imprecisione, ci si sveglia una mattina e si propone di cambiare questo o quell’articolo della Costituzione, magari solo perchè non piace più». Ma non è toccato solo questo, a Napolitano: tanto che spesso ha dovuto interrompere il suo pellegrinare per l’Italia - in questo anno di anniversario dell’unità per rimettere ordine, richiamare, svelenire contrapposizioni e frenare pericolose tracimazioni. «Ormai non è solo il capo dello Stato - si legge o si sente dire - ma fa anche il capo del governo». E come se non bastasse, c’è chi vorrebbe che ora vestisse addirittura i panni di capo dell’opposizione: che, certo con quale azzardo, tra i tre ruoli si potrebbe forse definire quello che gli si addice meno...

Si è molto raccontato, negli ultimissimi giorni, di un intenso lavorìo del Quirinale - di sponda con Mario Draghi - per la definizione di una manovra che avesse finalmente un senso e fosse accettata in Europa: non ce ne è prova, ma probabilmente è vero. E’ invece sicuramente vero che al suo indirizzo vengono rivolte di sovente sollecitazioni non ricevibili: soprattutto da un presidente come lui. Non troppi giorni fa, in un cordiale ed importante incontro al Quirinale, Napolitano ne ha fatto cenno al suo interlocutore: «C’è chi chiede a me - ha spiegato - di dare una spallata al governo, fingendo di ignorare che questo è impossibile, e che è impensabile che un presidente si avventuri lungo una via che potrebbe portare a tremendi scontri istituzionali. Lo smottamento del partito di maggioranza - che molti pronosticavano - non c’è stato. I segnali e le defezioni annunciate sono state poca cosa... Il governo ha una maggioranza, di alternative all’orizzonte non se ne vedono e dunque la mia preoccupazione principale è la tenuta e la credibilità del nostro Paese in Europa. Al resto pensino altri, non è compito mio».

Il suo compito, accettando la definizione offertagli da Pasquino, ma poi spiegando di preferire quella di Calamandrei («viva vox Costituzionis»), è tener salda l’unità del Paese, rappresentarlo all’estero, predicare non solo i valori costituzionali ma - dati i tempi - a volte i valori e basta. Nel suo dialogo con Pasquino, che gli chiedeva degli errori commessi dall’unità in poi e delle difficoltà a stare in Europa, Napolitano ha ripetuto per due volte una frase che a molti è parsa rivolta al presidente del Consiglio, a certi suoi modi di fare, a certe sue abitudini: «Io speravo, pensavo, che la celebrazione del 150˚ anniversario dell’unità, favorisse un esame di coscienza collettivo del lavoro fatto da quella data ad oggi. Dobbiamo interrogarci su quali comportamenti
- comportamenti anche individuali - occorra cambiare per andare avanti e stare al passo con l’Europa».

E’ stato, se si vuole, uno dei pochi accenni polemici di Napolitano in una giornata - in una fase - nella quale non è lo scontro quel che secondo il presidente serve, bensì quell’unità, quella «coesione» così spesso invocata. Pasquino ha provato a provocarlo: ti pare valorizzato il ruolo del Parlamento (49 voti di fiducia da inizio legislatiura a oggi)? «Ho trascorso 43 anni netti in Parlamento: dunque per me il suo ruolo è fondamentale, irrinunciabile». Risposte indirette, prudenza e attenzione a non surriscaldare il clima in una fase tanto delicata. Ma chi conosce la storia politica e personale del capo dello Stato, non fa fatica a immaginare il disappunto e lo scoramento di Napolitano di fronte a scelte e decisioni delle quali non afferra l’utilità. Della manovra, come è ormai noto, non ha apprezzato tutte le scelte: alcune gli sono parse inique, altre poco comprensibili. Si è detto, per esempio, dei suoi dubbi rispetto alla modifica dell’articolo 8: da ieri si sussurra addirittura di una iniziativa che - a manovra approvata - il presidente intenderebbe assumere per spingere il governo ad un ripensamento. «E’ un problema che si pone - spiegavano i suoi collaboratori -. Ma non è l’unico, e forse non è nemmeno il primo...».

Il primo impegno, per dirla come l’ha detta Gianfranco Pasquino, è continuare a predicare il rispetto dei valori, dei ruoli, dare con l’esempio il senso di un Paese che non si arrende e recupera l’antico orgoglio. Battere l’Italia per dare lustro a mostre e iniziative che festeggiano i 150 anni dall’unità e restituiscono quel senso d’appartenenza colpevolmente dilapidato. E’ un’opera non facile per quest’uomo che fu delfino di Giorgio Amendola, che incontrava a cena Zaccagnini e Lama, che fu amico di Pertini e De Martino e che dal palco, assieme a Pasquino, confessa che «alcuni mi consideravano addirittura una quinta colonna di Altiero Spinelli dentro il Pci».

Però non si arrende, e dialoga con chi c’è e con quel che c’è. E poiché c’è poco - e negli ultimi tempi anche meno di poco - a volte lo scoramento è grande. «Mai il livello di apprezzamento per un capo dello Stato ha raggiunto vette così alte - lo incoraggia Pasquino -. In qualunque altro Paese si parlerebbe di rielezione...». Giorgio Napolitano glissa, lascia cadere. Ci sono certe telefonate e un tal Lavitola di cui forse occuparsi. Ne farebbe a meno, è chiaro. Ma che predicatore sarebbe se rinunciasse a dire quel che è necessario?

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419338/
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« Risposta #158 inserito:: Settembre 30, 2011, 03:40:34 pm »

30/9/2011

Terzo polo una chimera per il Pd

FEDERICO GEREMICCA

Si sente ripetere spesso - e la tesi non è infondata - che il fatto che il grosso della polemica politica resti tutta ancora incentrata sulle vicende giudiziarie del premier, in fondo, per l’esecutivo non sia un male.

Avrebbe di certo più difficoltà, infatti, a trovare argomenti e reggere il confronto sulle riforme promesse e non realizzate o sulle ricette, per esempio, messe in campo per l’uscita dalla crisi. Fatte tutte le differenze (e la principale sta nelle responsabilità che riguardano chi governa) analogo ragionamento sembra valere anche per l’opposizione: unitissima nell’attacco a Berlusconi ma pronta a dividersi su quasi qualunque altro tema.

La vicenda del non-voto della pattuglia radicale sulla mozione di sfiducia al ministro Romano o le profonde differenze intorno al modello di legge elettorale (ipoteticamente) da adottare sono solo alcuni esempi recenti di tali divisioni. In verità, non sono nemmeno i più preoccupanti, considerato che, col gran parlare che si fa di elezioni anticipate, due questioni stanno riemergendo con irrisolvibile nettezza: le alleanze con le quali andare al voto e il leader chiamato a guidare la coalizione nella sfida al centrodestra.

Negli ultimi giorni, diciamo a partire dalla presenza contemporanea di Bersani, Vendola e Di Pietro alla festa dell’Idv di Vasto, le due questioni si sono fuse dando il via ad un fuoco di fila che ha per bersagli il modello di alleanza prefigurato nel raduno abruzzese (che ha fatto evocare la «gioiosa macchina da guerra» di occhettiana memoria) e la circostanza che il candidato premier del centrosinistra debba inevitabilmente essere Pierluigi Bersani, qualunque sia il tipo di alleanza con il quale il Pd affronterà le elezioni. La polemica contro la «triade di Vasto» è stata cavalcata soprattutto dall’area cattolica del partito democratico, che non fa mistero di considerare irrinunciabile un’alleanza col Terzo polo di Pier Ferdinando Casini; a non dare per scontata la candidatura a premier di Bersani, invece, sono i cosiddetti veltroniani - animati ancora da un qualche spirito di rivalsa - oltre che Vendola stesso, naturalmente.

Si tratta di questioni certamente non facili da risolvere, tanto è vero che sono lì del tutto aperte. Ma, giunti a questo punto, non è forse azzardato ipotizzare che una soluzione - in fondo - sia già nelle cose: e che non venga accettata (riconosciuta) perché forse dolorosa e sgradita ai più. Intendiamo dire che la posizione ripetutamente espressa da Pier Ferdinando Casini (mai con Di Pietro e Vendola) andrebbe, a questo punto, presa per quel che è: cioè una seria dichiarazione di intenti. E che l’eclissi di Berlusconi e le grandi manovre in corso nel centrodestra rendono certamente più allettante - oltre che più naturale - per il leader dell’Udc un patto con un centrodestra libero (se sarà libero...) dalla presenza di Silvio Berlusconi.

Le difficoltà dell’area cattolica del Pd a «digerire» una tale soluzione sono del tutto comprensibili: la caccia al sempre inseguito «voto moderato» (se non proprio cattolico) si farebbe infatti assai difficile. Eppure, se la scelta del Terzo polo va maturando nella direzione che si diceva, forse converrebbe prenderne atto per tempo, provando almeno a valorizzarne le conseguenze. La prima è certamente una maggior chiarezza strategica da trasmettere agli elettori: fine, insomma, dell’imbarazzante ritornello «vi diremo poi con chi ci alleiamo», che è uno dei limiti maggiori delle forze oggi all’opposizione. La seconda potremmo definirla un atto di fiducia (in condizioni di necessità, certo) verso quello che viene di solito chiamato il «popolo di sinistra».

Pochi mesi fa, dopo l’esito delle primarie in città come Milano e Cagliari (dove i candidati cosiddetti «radicali» sconfissero gli alfieri del Pd) o dopo il risultato del primo turno a Napoli (con De Magistris al ballottaggio al posto del favorito Morcone), vennero intonati molti «de profundis», perché le partite sembravano inevitabilmente perse. Fu invece un trionfo, col centrodestra scompaginato nelle sue roccaforti (Milano) e battuto in città già date per conquistate (Napoli). Ora, naturalmente, una cosa è vincere (per di più delle elezioni amministrative) e un’altra è riuscire a governare, come testimoniò l’ultimo esperienza di Romano Prodi. Ma intanto, banalmente, è sempre meglio vincere che perdere. E soprattutto, se la via dell’alleanza elettorale col Terzo polo si va tramutando sempre più in una chimera, tanto vale - forse - prenderne atto, smetterla di inseguire fantasmi e rimboccarsi le maniche, piuttosto, in vista di quel che sarà...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9261
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« Risposta #159 inserito:: Ottobre 12, 2011, 11:13:36 am »

12/10/2011
Dove sono i giovani del Pdl?

FEDERICO GEREMICCA

Nell’ennesima giornata crepuscolare per il governo guidato da Silvio Berlusconi, due notizie - una senz’altro di rilievo, l’altra magari minore - hanno contribuito a dare il senso di quel che si muove - in quest’epoca di crisi - nei due partiti maggiori degli opposti schieramenti.

La prima è il lungo faccia a faccia tra il presidente del Consiglio e l’«eterno» Scajola, portavoce di un dissenso non solo suo ma anche del vecchio e saggio Beppe Pisanu; la seconda è il piccolo dispetto fatto da Pier Luigi Bersani a Matteo Renzi, chiamando a raduno duemila giovani democrats del Sud proprio nei giorni in cui il sindaco di Firenze riunirà per la seconda volta i suoi agguerriti «rottamatori».

Le due notizie illuminano, in qualche modo, il carattere ed il profilo della discussione (diciamo pure della battaglia interna) che sta scuotendo Pdl e Pd. E c’è un dato che balza agli occhi, un dato naturalmente anagrafico: Scajola e Pisanu, assieme, assommano a poco meno dell’età dei quattro «giovani leoni» che stanno agitando le acque nel Pd, e cioè Renzi, Serracchiani, Civati e Zingaretti. Non è la giovane età da sola - come dovrebbe esser chiaro da sempre - a garantire della bontà di un progetto politico o di una leadership: ma della vitalità di un partito, invece, molto probabilmente sì.

Alcuni osservatori hanno ironizzato intorno alla circostanza che in questa metà di ottobre saranno addirittura tre i raduni organizzati dai giovani «irrequieti» del Partito democratico: è un’ironia che può esser condivisa limitatamente al fatto che fa sorridere (e dà modo di pensare) l’esistenza di solchi già così profondi (profondi fino al punto da ricordare le «correnti» degli adulti) all’interno di una generazione relativamente nuova alla politica. Ma detto questo, sarebbe forse più utile domandarsi - alla luce del venerando pressing del duo Scajola-Pisanu - dove sono, che fine hanno fatto e che progetti hanno i giovani del Popolo della libertà: partito germinato da Forza Italia, che proprio dell’immissione di nuove leve nell’agone della politica fece un suo tratto distintivo (e interessante).

Nel campo del centrodestra, infatti, non manca certo una generazione di trentenni-quarantenni che era parsa - a un certo punto - davvero in grado di lasciare un segno. Dalla Geminino alla Meloni, da Fitto alla Carfagna, passando per Alemanno, Brambilla, Ravetto e Prestigiacomo - solo per fare alcuni nomi - era stata messa in campo una squadra sulla quale non solo Berlusconi ma il «popolo del centrodestra» erano parsi puntare con decisione. Di questa squadra faceva parte lo stesso Alfano, poi cooptato e «comandato» dallo stesso premier a sostituirlo alla guida del partito: dove piuttosto che promuovere il rinnovamento di una affaticata classe dirigente, si è dovuto dedicare (con scarso costrutto) a sbrogliare vecchie matasse e mediare tra stagionati «capibastone» e antichi padroni delle tessere.

Quel che sorprende (oppure che la dice lunga intorno a certe qualità e certi metodi di selezione) è che, nemmeno nella fase declinante del berlusconismo, dai più giovani siano arrivati segnali di insofferenza e iniziative propedeutiche ad una sempre possibile riscossa. Tutti lì, fermi, obbedienti, forse sgomenti e sorpresi dal crepuscolo del leader: tanto che la fronda - e in taluni casi la rottura - è dovuta arrivare da sessanta-settantenni come Fini, Tremonti, Scajola e Pisanu. Il tutto, se si riuscisse a guardare lontano, non rappresenta affatto un’assicurazione sul futuro del Popolo delle libertà, o come si chiamerà in futuro il nuovo partito del centrodestra.

Ci sono molti rischi, è vero, in certe forme di giovanilismo e - a volte - perfino nell’affidare a dei «non anziani» responsabilità di guida politica. Ma il Pdl, a guardarlo ora, non sembra aver più molto da perdere. Sarebbe tempo che i giovani del centrodestra battessero un colpo. E così come Pippo Civati ripete «vorrei un Parlamento senza D’Alema e senza Veltroni», sarebbe un segno di vita e di novità sentir dire da qualche giovane leader del centrodestra «e io ne vorrei uno senza più Bossi e nemmeno Berlusconi»...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9311
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« Risposta #160 inserito:: Ottobre 15, 2011, 05:31:50 pm »

15/10/2011

Opposte debolezze

FEDERICO GEREMICCA

Silvio Berlusconi e la sua maggioranza esultano per la cinquantatreesima fiducia incassata, che stavolta ha significato davvero portare a casa la pelle; Pier Luigi Bersani e le opposizioni parlamentari, invece, sono soddisfatti per aver dimostrato al Paese che il governo è debole ogni giorno di più. E così, alla fine di una giornata nient’affatto edificante, può perfino accadere che tutti - o quasi tutti - abbiano un buon motivo per festeggiare. È qualcosa di diverso e di peggio dell’eterno «chi si contenta gode»: è il prodotto di un ormai lungo ed estenuante braccio di ferro tra due debolezze che da un anno e mezzo, di fatto, tengono praticamente in ostaggio il Paese.

Quel che è accaduto ieri nell’aula di Montecitorio assediata da Indignati, Draghi Ribelli e Popolo viola, non ha bisogno di molte spiegazioni, trattandosi del triste ed identico copione che va in scena dall’aprile dell’anno scorso: da quando, cioè, Fini e la sua pattuglia abbandonarono Silvio Berlusconi lasciandolo in balia di un drappello di cosiddetti «responsabili». Da allora, ogni voto di fiducia è al cardiopalma, preceduto da ricatti e minacce, e seguito da ringraziamenti e prebende ai dubbiosi e agli incerti: ieri, con la nomina fulminea di due nuovi sottosegretari e di due viceministri, il ringraziamento è stato tempestivo come mai. Non si è badato nemmeno a salvare l’apparenza: ma il punto, ormai, non è più nemmeno questo.

Quel che infatti comincia seriamente a preoccupare - anche per le prospettive che apre: altri mesi di paralisi in attesa di elezioni la prossima primavera - è il totale smarrimento del bandolo della matassa, l’assenza di qualunque strategia politica, nella convinzione che prove muscolari - da una parte - o semplice attesa della consunzione del nemico - dall’altra - siano sufficienti ad assolvere ed a legittimare i rispettivi ruoli. Il drammatico declino economico - e ormai perfino etico - lungo il quale si è incamminato il Paese, dovrebbe dimostrare che non è così: ma le locomotive sono lanciate l’una contro l’altra, e fermarle si sta rivelando ormai impossibile.

Un po’ di «politica all’antica» (detto senza nostalgia) e un briciolo di lungimiranza, avrebbero forse fatto intendere a Berlusconi, già un anno fa, che la via del governo del Paese - non della sopravvivenza: perché in quella è riuscito - non poteva passare da un patto/ricatto con gruppi di transfughi in cerca di fortuna. E’ a quell’epoca che andava offerta un’intesa al Terzo Polo di Casini, un patto proposto oggi in maniera affannosa e non credibile. Non averlo fatto ha condotto il governo sulle secche che lo bloccano da mesi. Oggi una soluzione non appare più possibile: e quel che per Berlusconi è peggio, è che questa sorta di muoia Sansone con tutti i filistei non ha solo paralizzato l’esecutivo in un momento difficilissimo, ma ha anche - secondo qualunque sondaggio - compromesso ogni possibilità di alleanza e di vittoria del centrodestra alle prossime elezioni.

Fatte molte differenze (e la fondamentale attiene alle diverse responsabilità di chi governa e di chi è all’opposizione) anche il Pd - perno dell’alternativa - dovrebbe interrogarsi circa il fallimento della propria strategia (caduta del governo Berlusconi a vantaggio di un esecutivo di responsabilità nazionale). Considerata l’aria che tira - e non da oggi - non ha senso sorprendersi delle fiducie incassate dal premier, se l’alternativa è il puro e semplice scioglimento delle Camere: i fatti continuano a dimostrare (ieri qualche «responsabile» l’ha perfino detto in chiaro) che molti parlamentari non intendono «tornare a casa», e che difenderanno stipendio e vitalizio con le unghie e con i denti.

Come mai e perché - in una legislatura che ha visto scissioni, rotture e nascita di nuovi gruppi parlamentari - il tandem Bersani-Casini non è riuscito a catalizzare consensi e voti nelle aule parlamentari, così da render credibile (e possibile) la nascita di un governo diverso, che costituisse per incerti e dubbiosi un’alternativa al bivio «o Berlusconi o il voto»? Cos’è che ha frenato un’iniziativa politica capace di sbloccare la situazione, offrendo perfino qualche margine d’azione in più allo stesso Quirinale?

Le risposte possono essere molte, e vanno cercate. Un partito-calamita come vuol essere il Pd, infatti, non può rassegnarsi a questa apparente incapacità di costruire e allargare le sue alleanze. E’ un tema ineludibile, visto che condiziona anche linea e strategia con le quali affrontare le future elezioni. Se la storia insegna qualcosa, verrebbe da dire che puntare solo sulla crescente debolezza di Silvio Berlusconi, potrebbe essere fatale. Come rischiò di esserlo nelle elezioni del 2006, considerate una passeggiata e vinte, alla fine, per la miseria di 20 mila voti...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9322
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« Risposta #161 inserito:: Ottobre 20, 2011, 09:26:48 am »

20/10/2011

L'operazione verità del Colle

FEDERICO GEREMICCA

L'ultimo braccio di ferro, per fortuna, non attiene alle sue responsabilità, né dirette né indirette: ma potesse dir qualcosa sulla sconcertante vicenda della nomina del Governatore di Bankitalia, Napolitano non nasconderebbe delusione e disappunto.

Di quel che si è mosso e si muove intorno alla sostituzione di Mario Draghi, non gli è piaciuto probabilmente niente: non le sponsorizzazioni politiche di questo o quel candidato e nemmeno certi comportamenti personali - diciamo talune impuntature - che hanno ulteriormente complicato la ricerca di una soluzione.

Del resto, non è che manchino campi e questioni sulle quali il Presidente sia da tempo costretto a manifestare la propria combattiva amarezza: e ieri, intervenendo alla tradizionale cerimonia per la nomina dei nuovi cavalieri del lavoro (con al fianco un Berlusconi stanco e sonnecchiante) ha appunto rielencato questi campi e queste questioni. Aggiungendovene un paio del tutto nuove: la preoccupazione che il clima sempre più preelettorale peggiori ulteriormente le cose, e poi quella che ha definito «la frustrazione giovanile», andata in piazza sabato a Roma e deturpata dall’azione irresponsabile di frange estreme.

Al Quirinale, qualcuno dei collaboratori del Capo dello Stato, si spinge a paragonare l’intervento di ieri del Presidente a una sorta di «operazione verità». Una verità che le forze politiche annusando aria di elezioni anticipate probabilmente non possono o non vogliono più dire. E la verità, secondo Napolitano, è che in una situazione così difficile per il Paese non si scorgono né il clima né l’impegno e nemmeno le misure adatte a fronteggiare l’emergenza.

Ognuno dovrebbe fare la sua parte, e questo non accade: il richiamo è «in primis» per il governo, inevitabilmente, mentre - annota Napolitano - «molto sta facendo il mondo delle imprese». E’ qualcosa, ma certo basterà: soprattutto se non si mette con urgenza mano a quel «pacchetto crescita» per il quale, invece - secondo il premier una volta non ci sono i soldi, un’altra non c’è fretta ed una terza «qualcosa ci si inventerà». Non è così che si riuscirà a tirar fuori la testa dall’acqua: a maggior ragione se, come sottolineato, maggioranza e opposizione dovessero cominciare a torcere questioni e soluzioni in rapporto alle rispettive convenienze elettorali.

Un’ultima annotazione, facilmente comprensibile da chi ha seguito da vicino l’evolversi degli sforzi e degli appelli del Capo dello Stato. E’ dall’apparire all’orizzonte della crisi che Giorgio Napolitano ripete incessantemente il suo invito all’unità e alla coesione sociale: bene, da questo punto di vista, l’ultimo mese viene definito - al Quirinale - un mese «gonfio di amarezze». Infatti, non c’è settore nel quale - piuttosto che al crescere della coesione non si sia assistito al moltiplicarsi delle divisioni e delle spaccature.

Diviso il sindacato, divisa Confindustria, divise - perfino al loro interno - le forze di maggioranza e di opposizione. E per finire, drammatiche divisioni in piazza: novità che sembra avere scalato molte posizioni nella graduatoria delle preoccupazioni del Presidente. La frase pronunciata ieri di fronte ai cavalieri del lavoro è di quelle forti, e nient’affatto dettate dal caso: «La questione della disoccupazione e della frustrazione giovanile - ha annotato Napolitano - deve essere al centro delle nostre preoccupazioni. E parlo di preoccupazioni per la coesione sociale e anche per l’equilibrio democratico e la convivenza civile».

E’ perfino questo che si rischia, lasciando senza risposte una generazione che non può continuare a fare della precarietà l’unica propria certezza. Presidente dalla lunga esperienza politica e parlamentare, Napolitano ha già visto le terribili degenerazioni che si possono strumentalmente innescare a partire dalla «frustrazione giovanile». E’ per questo che lancia il suo allarme. Sperando che non segua sorte identica agli appelli alla coesione, applauditi da tutti ma ascoltati - in verità - quasi da nessuno...

DA - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9342
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« Risposta #162 inserito:: Novembre 01, 2011, 11:46:32 am »

1/11/2011

L'anomalia Renzi, il Pd che piace a destra

FEDERICO GEREMICCA

È possibile che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, abbia ragione, e che le idee proposte da Matteo Renzi all’adunata della Leopolda siano (magari non proprio tutte...) roba «da Anni 80».

Ciò, però, non risolve affatto - e anzi in qualche modo appesantisce - il vero problema che sembra esser oggi di fronte allo stato maggiore del Pd: l’interpretazione, cioè, del consenso crescente che accompagna l’azione del giovane sindaco di Firenze. È evidente, infatti, che quanto più si sminuisce quel che Renzi dice (e quel che propone), tanto più diventa complicato spiegarne il successo. A meno di non volersela prendere con il comprensibile disorientamento che da tempo, ormai, attraversa il Paese: tesi certo possibile, ma assai simile all’anticamera di una resa.

Ovviamente - e invece - Pier Luigi Bersani non ha alcuna intenzione di arrendersi e lasciare il passo a Renzi: rivendica le prerogative garantite dallo Statuto del Pd al segretario del partito in caso di primarie per la scelta del candidato premier; insiste (come domenica a Napoli) sul profilo di un Pd certo responsabile ma «da combattimento»; prepara (sabato a Roma) una manifestazione di piazza per esporre le sue ragioni politiche e programmatiche. Va tutto bene: se non fosse che ognuna di queste contromosse appare (o rischia di apparire) vecchia e vana di fronte al caleidoscopio di idee (certo non tutte convincenti) e di emozioni che il sindaco di Firenze maneggia con spregiudicata maestrìa.

Dunque, piuttosto che una reazione dettata da una sorta di antico riflesso condizionato (il richiamo alla disciplina, l’anatema nei confronti dell’avversario, il declassamento delle idee proposte) sarebbe forse più utile interrogarsi davvero sulle ragioni del consenso conquistato da Renzi, ed anche - se non soprattutto - sulla «spendibilità» di quel consenso. Un sondaggio reso noto ieri, infatti, conferma un fenomeno del quale molti osservatori si dicevano già certi: il sindaco di Firenze raccoglie più favore a destra (48%) o al centro (47%) piuttosto che nel centrosinistra (44%) o a sinistra (addirittura 25%). Si tratta di dati sui quali non sarebbe male ragionare, visto che segnalano una situazione certamente inedita e che però potrebbe paradossalmente rappresentare una soluzione ad un antico problema del centrosinistra in tutte le sue versioni (dall’Ulivo all’Unione e via dicendo).

Per dirla in estrema sintesi: Matteo Renzi sembra esser di quei candidati capaci di vincere delle elezioni alle quali però non arriverebbero mai, visto che prima perderebbero (stando al sondaggio in questione) il test delle primarie. Si tratta di una circostanza, di un profilo che - fatte tutte le differenze - ricorda non poco la vicenda di Tony Blair, più amato fuori che dentro il Labour party. E’ una situazione appunto inedita: che contiene, però, la parziale soluzione di uno dei più irrisolvibili rovelli del centrosinistra, la sua difficoltà (incapacità) ad intercettare voti moderati e di centro. Ora, l’interrogativo è: esiste un modo per rendere spendibile e produttiva l’anomalia costituita dalla qualità del consenso che va cementandosi intorno a Matteo Renzi?

La risposta non è certamente facile, ma la soluzione non pare però raggiungibile attraverso i toni aspri e la chiusura a riccio che contraddistinguono da sempre la reazione del vertice del Pd alle iniziative del sindaco di Firenze. Contestargli un eccesso di populismo o un uso strumentale del dato anagrafico, non paiono infatti argomenti capaci di arrestare una parabola che porta in sé - comunque la si giudichi - il segno della novità. Le vie da battere, evidentemente, sono altre. Pena un rischio che, per il leader e il gruppo dirigente del Pd, potrebbe davvero farsi concreto e quindi mortale: che di qui a qualche tempo, per il «popolo del centrosinistra» l’alternativa non sia più rappresentata dalla scelta tra Bersani e Renzi, ma tra Vendola (l’altra novità) e Renzi. Se questo accadesse - in una situazione nella quale la pazienza nel Paese è al limite e la voglia di rinnovamento e cambio sempre crescente - nessuno, alla fine, potrebbe considerare un tale epilogo una sorpresa...

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« Risposta #163 inserito:: Novembre 06, 2011, 11:55:30 pm »

6/11/2011

Attaccare Renzi, corteggiare Casini

FEDERICO GEREMICCA

Una bella manifestazione. Pacifica, prima di tutto: e con i tempi che corrono, non è poco. Affollata, poi: e anche questo, vista la dilagante disaffezione verso la politica, sarebbe un aspetto da non sottovalutare. Con poche novità, certo: ma col premier asserragliato nel bunker, neanche dall’altra parte ce ne sono, e dunque niente da dire. Però con una contraddizione che è tutta dentro una domanda: ma come fa il Pd a inseguire Casini e a contestare Matteo Renzi?

Il battibecco tra il sindaco di Firenze e la militante democratica mandato ieri in onda da tutte le tv, dà forse il senso del punto cui è giunta la tensione. «Stai facendo del male al Paese e al partito», accusa lei. «Il Pd è la mia casa, e spero di poter continuare a dire quel che penso», ribatte lui. Perché Renzi starebbe facendo male «al Paese e al partito»? Le risposte - ammesso che la si pensi così - possono essere molte. Ma resta comunque assai poco comprensibile il rigurgito settario (parola d’altri tempi, è vero) che è alla radice della contestazione (piccola, a dirla tutta) riservata al sindaco di Firenze.

E’ vero: forse stampa e tv, sempre alla ricerca di novità (e meno male), stanno enfatizzando il ruolo che Renzi può giocare dentro il Pd, e magari anche fuori di esso. Non è affatto detto - per altro - che questo sia un bene, per lo stesso Partito democratico: ma quando si arriva a indire una manifestazione come quella di ieri con una parola d’ordine (Ricostruzione) che non a caso è giusto l’opposto di quella che ha portato alla ribalta Renzi (Rottamazione), con chi vogliamo prendercela? A volte viene da pensare che abbia davvero ragione il sindaco di Firenze quando confessa agli amici che metà del suo successo lo deve all’irrigidimento (quando non peggio) dello stato maggiore democrats. E’ questione sulla quale riflettere.

Resta la contraddizione, il corto circuito di cui si diceva all’inizio: si può «corteggiare» Casini (per un governo di transizione oggi e un’alleanza elettorale e di governo domani) mettendo all’indice uno degli esponenti moderati e con maggiore appeal (piaccia o non piaccia) di cui il Pd dispone? Parrebbe una follia. A meno che, naturalmente, quella sorta di rigetto che pare in atto nei confronti del sindaco di Firenze non nasconda qualcosa di più profondo: e cioè il prevalere - al vertice e alla base - di un’anima movimentista e radicale durissima a morire. Ma questo, come è chiaro, sarebbe tutto un altro discorso...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9402
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« Risposta #164 inserito:: Novembre 09, 2011, 05:55:20 pm »

9/11/2011

La strada obbligata della chiarezza

FEDERICO GEREMICCA

Adesso, naturalmente, ci si potrebbe chiedere quanto tempo è stato perso invano: e soprattutto quanto è costato, questo tempo, in termini economici e di credibilità politica. Di fronte a una situazione che appariva compromessa da un paio di mesi almeno, sono state fatte trascorrere inutilmente settimane e settimane, in attesa di un miracolo che non era ormai più possibile e che infatti non è arrivato. Dopo la Spagna e perfino dopo la Grecia, il governo italiano buon ultimo - si è dunque arreso di fronte ad un dato che gli stessi mercati, negli ultimi giorni, avevano evidenziato in maniera perfino impietosa.

Il nostro Paese ha certo problemi - e non tutti recenti - di conti e di crescita, ma ha anche (se non soprattutto) un gap di autorevolezza e credibilità politica, accentuato dall’attuale esecutivo e dal suo premier in particolare.

Silvio Berlusconi ha testardamente negato fino all’ultimo che fosse così. Lo ha negato di fronte ai richiami ripetuti e severi dell’Unione europea, di fronte agli allarmi di Mario Draghi e perfino dopo aver osservato in tv gli offensivi sorrisetti della Merkel e di Sarkozy. Ha sperato troppo a lungo di poter sopravvivere grazie a un qualche nuovo Scilipoti o inscenando, magari, processi preventivi al Pd, ai suoi alleati e alle loro divisioni (del tutto irrilevanti, nel caso in questione). Alla fine, ma solo alla fine, ha dovuto arrendersi di fronte all’intransigenza del Presidente della Repubblica ed alla scelta delle opposizioni, capaci di far emergere in Parlamento - grazie ad una giusta scelta tecnica - l’inesistenza di una maggioranza di governo. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire...

Ciò nonostante, non siamo ancora di fronte alle dimissioni dell’esecutivo (anche se il capo dello Stato considera tale la comunicazione ricevuta ieri al Quirinale dal premier) ma solo all’annuncio che esse arriveranno una volta approvata la legge di stabilità: presumibilmente, dunque, entro la fine del mese. Queste dimissioni «postdatate» non sono in assoluto una novità per il nostro Paese (la storia repubblicana segnala qualche precedente) ma sono accompagnate - stavolta - da un grande rischio: che di qui al giorno dell’abbandono ufficiale si tenti ancora di cambiare le carte in tavola, si provi l’ennesimo gioco di prestigio, si avvelenino i pozzi, rendendo irresponsabilmente teso - ed in una situazione economica così drammatica - il clima politico nel Paese.

Silvio Berlusconi, del resto, ha già fatto sapere di non considerare percorribile l’idea di un governo diverso rispetto al suo, e che l’unica via che ritiene praticabile sia quella che porta alle elezioni anticipate. Al contrario, molti (anche nel Pdl) continuano ad insistere per la formazione di un governo di transizione e larghe intese che traghetti il Paese al voto, fronteggiando la fase più acuta dell’emergenza e riformando - magari - l’attuale legge elettorale. Entrambe le ipotesi, naturalmente, hanno un fondamento ed una loro legittimità democratica. Quel che però va reclamato, dopo tanti mesi di confusione e patti oscuri, è che la via maestra dei giorni che ci attendono sia la più assoluta chiarezza.

E’ possibile affidare la formazione di un nuovo esecutivo ad una personalità dall’indiscusso prestigio interno e internazionale? Se ne discuta con trasparenza, senza frapporre ostacoli preventivi: e se la possibilità esiste, si provi a tradurla in intese politiche con rapidità. Al contrario: non c’è una maggioranza parlamentare disposta a sostenere un tale governo? Bene, se ne traggano le conseguenze e si permetta al Paese di rieleggere Parlamento e governo. Quel che non sarebbe accettabile, è menare ancora troppo a lungo il can per l’aia, confondere le acque, perdere tempo prezioso mentre i mercati continuano a fare, in modo impietoso, il loro lavoro. Non è questo, in tutta evidenza, quel che a Bruxelles ora attendono dall’Italia. Ma soprattutto non è questo quel che chiedono a maggioranza e opposizione i cittadini di un Paese stremato dalla crisi, dall’arroganza e da troppi bizantinismi.

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