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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 157994 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Luglio 20, 2010, 10:25:54 am »

20/7/2010 (7:32)  - RETROSCENA

Intercettazioni, il Colle è pessimista

Il Presidente rimane sereno nonostante non siano arrivate aperture sulle criticità già espresse sul diritto di cronaca

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Se non si trattasse del presidente della Repubblica - poco avvezzo allo scontro ed ai toni alti, prima di tutto per dettato costituzionale e poi per inclinazione personale - potremmo dire: Giorgio Napolitano infila l’elmetto e si prepara.

L’immagine, seppur forzata, renderebbe bene l’idea della difficile settimana (l’ennesima...) che pare attendere il Quirinale. La spina delle spine resta il disegno di legge sulle intercettazioni. Oggi, infatti, la Commissione giustizia della Camera inizia l’esame e il voto dei molti emendamenti presentati: e dalle scelte che verranno fatte, il Colle potrà capire se e quali risultati avrà prodotto la moral suasion esercitata nelle settimane passate.

Al momento, in verità, sarebbe azzardato dire che al Quirinale regni l’ottimismo. Uno degli ultimi contatti tra la presidenza della Repubblica e l’esecutivo - nelle persone del segretario generale del Quirinale e del ministro di Grazia e Giustizia - non ha fatto registrare (la settimana scorsa) novità incoraggianti. Nessuna apertura, in particolare, sarebbe arrivata su una delle «criticità» segnalate per tempo dal dibattito parlamentare, da costituzionalisti e da addetti al settore: e cioè il fatto che il disegno di legge limiti pesantemente e in maniera non accettabile il diritto di cronaca.

È un tema delicatissimo per molti aspetti. É questo, infatti, il terreno sul quale va trovato il giusto equilibrio tra il diritto alla privacy e il diritto dei cittadini ad essere informati. Un emendamento al disegno di legge presentato dalla stessa presidente Bongiorno (più alcuni sub-emendamenti delle opposizioni) potrebbe permettere di giungere ad un testo più equilibrato: il punto è vedere se la maggioranza lo accetterà, decidendo di percorrere una via che sgombrerebbe il campo da molte tensioni, rendendo probabilmente più agevole l’approvazione del ddl. Si capirà oggi qual è la scelta che farà il governo. Quel che è certo è che l’esecutivo sa - e da tempo - che il presidente della Repubblica ritiene che su questo punto occorra intervenire, così come segnalato da più parti, dentro e fuori il Parlamento. Non modificare la norma in questione - che secondo molti presenterebbe evidenti profili di incostituzionalità - potrebbe insomma portare alla mancata firma della legge da parte del capo dello Stato.

L’aria che si respira al Colle, dicevamo, non pare improntata a particolare ottimismo. Il clima, però, è di grande serenità: la serenità - in fondo - di chi ha per tempo e con chiarezza raccolto e segnalato le «criticità» emerse nelle ultime settimane, suggerendo di intervenire per rimuoverle. Tocca ora al governo decidere la via da imboccare: assumendone - naturalmente - l’esclusiva responsabilità.

Ed è stato proprio questo terreno - quello della responsabilità delle scelte - il campo sul quale per settimane (soprattutto le ultime) si è combattuta una aspra anche se silente battaglia. In ogni modo, infatti - con dichiarazioni del premier ed esplicite richieste di qualche ministro - il governo ha provato ad ottenere dal Quirinale quasi un elenco delle modifiche da apportare al testo, concordando con il Colle le soluzioni possibili. A queste richieste Napolitano si è sottratto da subito - senza comunque riuscire ad arrestare del tutto il pressing - richiamando il ruolo assegnatogli dalla Costituzione e i diversi ambiti di responsabilità.

Inoltre, considerato il clima non proprio sereno all’interno della maggioranza di governo, al Colle si è avuta spesso la sgradevole sensazione che una eventuale intesa del governo con la presidenza venisse inseguita per esser poi giocata dentro il Pdl contro il presidente della Camera, Fini, ed i suoi seguaci. Un pasticcio, insomma, che ha reso il terreno ancor più scivoloso e la ricerca di un accordo assai più complicata. Ma trucchi, giochini e mosse tattiche hanno ormai le ore contate. Come si dice in questi casi, è giunta l’ora della verità e delle scelte. Al Quirinale attendono solo di conoscerle. Per poi regolarsi di conseguenza...

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56869girata.asp
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« Risposta #106 inserito:: Agosto 19, 2010, 03:18:12 pm »

19/8/2010 (7:9)  - INTERVISTA

"Il mio patto segreto con Natta Ma poi Francesco mi deluse"

De Mita: Cossiga un grande, però alla fine dal Colle consumò solo vendette

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Di Cossiga bisognerebbe conoscere e raccontare l’intero percorso politico, non solo gli ultimi due anni al Quirinale. Invece è stata creata una figura quasi mitologica, completamente alterata». E infatti, se potesse, Ciriaco De Mita li tirerebbe via con un colpo di spugna, quegli ultimi due anni: non solo perché li considera i peggiori, ma anche in ragione dei tanti rimproveri che dovette subire in quei quasi 24 mesi. «Bel colpo aver mandato questo matto al Quirinale», gli dicevano mentre le picconate del Presidente sgretolavano la Dc.

E non avevano tutti i torti ad avercela con lui, visto che fu appunto De Mita - a quel tempo potentissimo segretario Dc - il gran regista dell’ascesa di Cossiga al Colle: unico Presidente della storia repubblicana eletto al primo scrutinio. È anche per questo (oltre che per la storica rivalità che ha sempre diviso tutti i grandi capi democristiani) che oggi parla con qualche difficoltà dell’«amico Francesco»: quegli ultimi due anni al Quirinale, infatti, hanno rischiato di cancellare per sempre oltre mezzo secolo di impegno comune. Ma è una testimonianza, quella di De Mita, che (anche se non autorizzata) vale la pena di riportare.

Cossiga dunque la deluse, Presidente?
«La delusione non è una categoria della politica. Così come il pentimento. Il pentirsi delle cose avvenute, è inutile: ha senso pentirsi se puoi in qualche modo correggere quel che hai fatto».

E l’elezione di Cossiga non la si poteva correggere.
«Per rispetto della verità e di Francesco stesso, bisognerebbe parlare di lui senza ipocrisie. Io lo conobbi nel 1954 e posso dire di lui che è stato un cattolico e un democristiano perbene, colto, moderno, attento alle novità. Una figura che resterà per sempre nella storia della Democrazia cristiana e del Paese».

Quegli ultimi due anni, però...
«Quegli ultimi due anni li passò, purtroppo, a consumare vendette. Essendosi fatto l’idea che il popolo lo seguisse nelle sue esternazioni, si lasciò andare. E diventò di una cattiveria a volte insopportabile. Ogni giorno ne aveva per qualcuno. Pensi che una volta mi incontrò e mi disse “Certo non dormirai la notte per quel che hai fatto in Irpinia col terremoto...”. Sono passati vent’anni ma ancora me lo ricordo».

Eppure, dicevamo, fu lei a costruirne l’elezione, no?
«In verità il mio candidato era Andreotti. Ma i comunisti mi dissero no, e poiché il cosiddetto “metodo De Mita” prevedeva un’intesa larghissima sul nome del nuovo presidente, rinunciai».

E puntò su Cossiga.
«Spadolini mi disse che a Craxi stava bene. E quando ne parlai a Natta, allora segretario Pci, mi disse che si poteva tentare. Ma ad una condizione: che tenessi segreto il nostro accordo. Cosa che fece anche lui, naturalmente: non si fidava, e temeva problemi nel partito. Pensi che fino all’ultimo tenne all’oscuro del patto anche Chiaromonte e Napolitano, i capigruppo di allora, che intanto - con mio grande imbarazzo - insistevano perché prendessi contatto con Natta...».

Comunque l’operazione andò in porto. Che Presidente è stato poi Cossiga?
«Un buon Presidente, per i due terzi del suo mandato. Poi, un Presidente incommentabile».

Con il merito, però, di aver intuito in anticipo i problemi che la fine del comunismo avrebbe creato alla Dc.
«E questa è un’altra panzana, parte di quella mitologia di cui le dicevo all’inizio. Tutti noi, nell’89, sapevamo che le cose sarebbero cambiate. Alla conclusione della Festa dell’Amicizia dissi testualmente “la caduta del Muro complicherà i nostri problemi, piuttosto che risolverli”».

Dunque non fu un anticipatore?
«Per certe cose senz’altro sì. Anche lui, per dire, avvertì in tempo la necessità di riformare il nostro sistema istituzionale. E da Presidente, nella seconda metà degli Anni 80, pose apertamente il problema. Solo che non fu conseguente».

In che senso?
«Nel senso che in occasione di una delle crisi del governo Andreotti (1989-1992, ndr) fu proprio lui a chiedere che i partiti la risolvessero trovando, però, un accordo anche sulle riforme da varare. Solo che poi diede ugualmente il via libera al governo, anche se nel programma di riforme non si parlava affatto».

E perché, secondo lei?
«Non saprei. Sulle ragioni della mutazione di Cossiga nella parte finale del settennato, ne girano tante...».

Una, per dirla fuori dai denti, è il manifestarsi di una vena di ironica follia.
«Cosa alla quale non saprei se credere. Altri, per esempio, sostengono che temesse certe minacce di Bettino Craxi».

Addirittura?
«Pare per certi rapporti con Licio Gelli. Mai dimostrati».

Una leggenda.
«Che nacque, credo, alla fine degli Anni 70, all’epoca della tentata nomina di Cesare Golfari a presidente della Cassa di Risparmio delle province lombarde. Cossiga era capo del governo, e poiché c’erano resistenze sulla nomina di Golfari, qualcuno dice che gli consigliò di andare a parlarne con Gelli».

Episodio credibile?
«Non so. Ma Golfari non fu nominato e il suo nome, invece, comparve poi nella lista P2, con la quale non c’entrava niente».

Uno dei tanti misteri che hanno circondato la figura di Cossiga, insomma.
«Che Francesco stesso, nell’ultima fase, alimentò. Del resto, c’era poco da fare».

In che senso?
«Non ascoltava nessuno, ce l’aveva con noi della Dc e ci attaccava sempre, in ogni modo, a torto o a ragione. Anche a me fece passare una brutta mezz’ora...».

Perché?
«Un giorno mi chiamò dal Quirinale e mi disse che voleva nominare uno dei miei fratelli giudice della Corte Costituzionale. Io gli spiegai che non mi pareva il caso, immaginando le polemiche che si sarebbero scatenate. Allora Cossiga scelse Giuliano Vassalli, che però era ministro in carica. Io feci una nota per avanzare qualche perplessità, visto che si indeboliva la compagine di governo. Cossiga se la prese e, per tutta risposta, fece sapere che ero arrabbiato perché volevo la nomina di mio fratello! Ma ormai lasciamo stare... Meglio ricordare il resto. E cioè la storia di un grande democristiano sardo, onesto, moderno e colto. Un pezzo di Italia da non dimenticare».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57758girata.asp
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« Risposta #107 inserito:: Agosto 26, 2010, 03:15:19 pm »

26/8/2010 (7:41)  - RETROSCENA

Marchionne scrive al Colle "Ecco le nostre ragioni"

Il numero uno del Lingotto: rispettiamo le decisioni dei magistrati

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Una telefonata di John Elkann e una lettera di Sergio Marchionne indirizzata al presidente Napolitano.

Ecco la via scelta ieri dalla Fiat per chiarire la propria posizione al Presidente della Repubblica che, in una lettera inviata martedì ai tre operai dello stabilimento di Melfi sospesi dall’azienda e reintegrati dal Tribunale di Potenza, aveva espresso «il vivissimo auspicio - che spero sia ascoltato anche dalla dirigenza della Fiat - che questo grave episodio possa esser superato, nell’attesa di una conclusiva definizione del conflitto in sede giudiziaria».

Nella lettera «personale» inviata ieri a Giorgio Napolitano, Sergio Marchionne - nella sostanza - ha ricapitolato i termini della delicata questione aperta, motivando le ragioni dell’azienda e rassicurando il Capo dello Stato circa il fatto che la Fiat non ha né intenzione né interesse al permanere di uno stato di tensione in fabbrica.

L’amministratore delegato di Fiat - che farà rientro oggi in Italia da Detroit - ha anche illustrato a Giorgio Napolitano la linea alla quale si atterrà l’azienda da qui in avanti: massimo rispetto, naturalmente, per le decisioni della magistratura, qualunque esse siano; ma anche difesa della scelta fatta con il tipo di reintegro adottato nei confronti di Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, che è nel solco della prassi solitamente seguita da ogni azienda in attesa del pronunciamento finale dei giudici.

Invece John Elkann ha parlato direttamente con Napolitano, e lo ha chiamato al Quirinale per un colloquio che si è poi rivelato cordiale e chiarificatore. Il presidente della Fiat non ha nascosto al Capo dello Stato una certa sorpresa per come giornali e tv hanno interpretato la lettera del Presidente della Repubblica: e cioè un prender parte delle ragioni dei lavoratori contro quelle dell’azienda. «Cercare e trovare soluzioni di lungo periodo di fronte alle difficoltà del momento e alle tensioni che talvolta ne derivano - ha spiegato Elkann al Capo dello Stato - è l’auspicio di tutti, Fiat in testa». Ed è appunto a questo obiettivo che l’azienda orienterà i propri comportamenti nella nuova fase apertasi.

Un chiarimento, se vogliamo dir così, lo ha fornito anche il Presidente della Repubblica: l’intenzione del Quirinale, ha spiegato Napolitano, non era certo quella di scender in campo a favore dell’una o dell’altra parte in causa (per di più mentre sulla vicenda è atteso il pronunciamento definitivo della magistratura). La questione cruciale, ha ribadito il Presidente a John Elkann, resta quella di superare non solo nel modo meno traumatico possibile il caso apertosi tra la Fiat di Melfi e i tre lavoratori, ma di farne l’occasione e il punto di partenza per il recupero di più serene relazioni sindacali. E intorno a tale esigenza, l’intesa registrata tra Quirinale e Fiat è stata assoluta.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201008articoli/57949girata.asp
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« Risposta #108 inserito:: Settembre 14, 2010, 05:50:29 pm »

14/9/2010 (7:26)  - DEMOCRATICI. IL SINDACO DI FIRENZE

"I dirigenti hanno fallito Basta, vadano a casa"

Renzi: proporre alleanze che vadano da Fini alla estrema sinistra allunga la vita a Berlusconi

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Quando un paio di settimane fa Pier Luigi Bersani lanciò la proposta di un “nuovo Ulivo”, Matteo Renzi - giovane sindaco democratico di Firenze - fu quasi sprezzante: «Uno sbadiglio ci seppellirà - disse -. E’ venuta l’ora di rottamare i nostri dirigenti»... Ora che il segretario pd, chiudendo la festa di Torino, ha rilanciato la formula del “nuovo Ulivo”, Renzi - che tutto è meno che un ingenuo - non ci casca. Dice: «Un discorso perfino apprezzabile, quello di Bersani: almeno c’è stato lo sforzo di uscire dal politichese...».

E noi, signor sindaco, che immaginavamo dicesse “stavolta doppio sbadiglio”.
«Così che mi si incolli addosso per sempre la figura del Pierino che ha sempre qualcosa da ridire o - peggio ancora - dello sfasciacarrozze? E’ un giochino vecchio, troppo semplice, non mi presto».

Beh, è lei che aveva parlato di dirigenti da rottamare, per la verità...
«E ci hanno detto che siamo maleducati, che non si parla così e che critichiamo ma non proponiamo. Falso».

Cosa falso?
«Intanto, che non proponiamo nulla. Vedrete, per esempio, nell’iniziativa - praticamente autoconvocata - che terremo qui a Firenze con Civati e altri dal 5 al 7 novembre. E poi quelle obiezioni sul linguaggio... Rottamare ha offeso qualcuno e non va bene? Guardi che la stessa cosa la so dire anche in un altro modo, in politichese, appunto: molti dei nostri dirigenti sono una risorsa, sono delle “riserve della Repubblica”, come si dice. Ma intanto lascino la prima linea...».

La sostanza è la stessa.
«Certo che lo è, perchè è il problema a essere reale: intendo il ricambio dei nostri gruppi dirigenti. E non è che uno pone la questione per simpatia o antipatia: sono le mancate risposte alla crisi del Partito democratico e del centrosinistra a reclamare un rinnovamento generale».

Quindi, nessuna marcia indietro.
«Per carità. Marcia avanti, al contrario. A partire dai gruppi parlamentari: fatte tre legislature, che sono tante, si va a casa. Noi del Pd lo abbiamo scritto anche nello Statuto: e ho pronto un ordine del giorno per la prossima Assemblea nazionale così da capire se crediamo almeno in quello che abbiamo scritto nello Statuto del Partito democratico».

Continua a non esser convinto di come vanno le cose, vero?
«Continuo a pensare che più che le alleanze e le geometrie politiche contino le identità: a partire dalla nostra. Il Pd è ancora una cosa troppo vaga e indefinita, nella testa della gente. E non è che il problema si risolve - e lo dico io che non sono certo veltroniano - continuando semplicemente a demolire la piattaforma del Lingotto».

E come si risolve?
«Intanto cercando di non essere noi, con la nostra politica, l’assicurazione sulla vita per Berlusconi».

In che senso, scusi?
«Nel senso che proporre alleanze che vadano dall’estrema sinistra fino a Gianfranco Fini, rappresenta l’unica vera chanche di sopravvivenza per il premier: tutti assieme contro di lui, così da farlo rivincere per l’ennesima volta».

E invece?
«E invece andrebbe cambiata del tutto l’ottica. Basta polemizzare col premier per quello che fa: bisogna attaccarlo su quello che non fa, dal milione di posti di lavoro mai visti alla riduzione delle aliquote fiscali mai realizzata. Bersani insiste su una grande campagna porta a porta in autunno. Può anche andare, ma dovremmo avere qualcosa da dire: perchè non è che il porta a porta lo possiamo fare contro Minzolini. Alla gente di Minzolini non frega niente».

Alla gente importano le cose concrete, no? Dicono tutti così...
«Lo dico anch’io. Ma provo a esser conseguente. Pensi all’istruzione e al disastro che c’è nel Paese. Pensi allo scandalo della scuola con i simboli leghisti di Adro, una cosa che nemmeno nella Corea del nord... Dovremmo montare una rivoluzione e invece siamo quasi silenti. A Firenze - per restare alla scuola - il Comune non ha tagliato ma ha aumentato gli investimenti. E questo non riguarda solo me o Firenze, naturalmente».

Che vuol dire? Pensa al lavoro dei Chiamparino, dei Vendola e degli Zingaretti?
«Penso al fatto che sul territorio ci sono amministratori di centrosinistra che fanno, operano e provano a risolvere problemi. E se non ci riescono, vanno a casa».

Normale, no?
«Normale fino a un certo punto. Io non ho nulla di personale contro D’Alema, Bindi, Veltroni e gli altri: ma non ce l’hanno fatta. E allora lo dico, col massimo rispetto e col massimo dell’umiltà, però lo dico: adesso basta, tocca ad altri. Il loro tempo è davvero finito».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58523girata.asp
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« Risposta #109 inserito:: Settembre 16, 2010, 10:22:22 am »

16/9/2010 (7:33)  - INTERVISTA

"Deve essere il segretario a sfidare il centro-destra"

D'Alema: Vendola alle primarie? Ma se fu tra i problemi maggiori di Prodi...

FEDERICO GEREMICCA

Dev’essere la giornata che celebra i buoni sentimenti, questo 15 settembre. Perché Massimo D’Alema, dal suo ufficio di presidente del Copasir, ci tiene a dirlo quasi subito: «Se la preoccupazione di Walter è che qualcuno pensi che piuttosto che rafforzare il Pd si possa aggirare il problema con alchimie sulle alleanze, allora Veltroni sappia che la sua preoccupazione è anche la mia». Si dirà: quando l’uno si dichiara d’accordo con l’altro, di solito c’è qualcosa che non quadra. E in genere o si è alla vigilia di grandi rivolgimenti interni oppure la situazione è così difficile da suggerire una sospensione delle ostilità. Stavolta conviene propendere per la seconda ipotesi. L’ultima riunione del “caminetto” dei capi pd è filata via senza scontri; e le dichiarazioni rese dai leader alla fine sono tutte rasserenanti. Ma l’offerta di pace avanzata da D’Alema, ha un paio di condizioni: il rafforzamento della leadership di Bersani e uno spirito più unitario all’interno del Pd.

Scusi, presidente, e tutte le polemiche dei giorni scorsi?
«Nel nostre partito le polemiche hanno spesso una tonalità superiore a quella che dovrebbero avere. Ma nella sostanza credo la stragrande maggioranza del popolo del Pd si riconosca nelle parole e negli impegni annunciati da Bersani a Torino».

Sarà anche così, ma alcuni “giovani leoni” del Pd - da Renzi a Civati, ma non solo - continuano a chiederle di farsi da parte...
«Ma io ormai lavoro in Europa. Torno da Bruxelles, prima ero in Russia. Tra qualche giorno parto per New York, poi Manchester per il Congresso del Labour, quindi Washington e Berlino... Mi occupo dell’elaborazione della cultura politica dei progressisti. In ogni caso sono soddisfatto di come è andata la riunione del nostro Coordinamento proprio perché ha affrontato la questione di fondo che abbiamo davanti, piuttosto che polemiche inutili».

E quale sarebbe la questione di fondo?
«E’ tutta in un interrogativo. Berlusconi certo non è finito, reagirà e avremo ancora delle fasi aspre: ma perché, di fronte alla evidente crisi della destra, il Pd non riesce a crescere? Al di là delle polemiche - perché naturalmente le risposte possono essere diverse - questo è un problema. Che Bersani, però, con l’importante discorso di Torino, ha affrontato nel modo giusto».

Applaude a Bersani per smentire le voci che la vorrebbero insoddisfatto del segretario?
«Questa non l’ho mai sentita. Non riesco neppure a immaginare come possa nascere una voce del genere. Applaudo Bersani perché ha fatto un discorso rivolto al Paese e ai suoi problemi; e perché, cosa che noi sapevamo, sta venendo fuori alla distanza, con concretezza e ragionevolezza, secondo le sue caratteristiche».

Smentita, quindi, ogni freddezza verso il segretario...
«Non solo: l’appello è a rafforzare la sua leadership. Noi siamo un partito democratico, non abbiamo un padrone che si aiuta a restare in sella con molti quattrini e molte tv: ma proprio perché siamo democratici, la forza della nostra leadership è data dall’investimento che su di essa fa il gruppo dirigente. Abbiamo scelto un leader nemmeno un anno fa: indebolirlo, magari mentre si è in vista di possibili elezioni, non mi pare una mossa geniale».

Invece, c’è una piccola folla che intende sfidarlo alle primarie per la candidatura a premier: da Vendola a Chiamparino, fino a Veltroni, secondo alcuni...
«Ma perché, partecipano tutti alle primarie?».

Almeno Vendola di sicuro.
«Credo che prima occorra vedere se c’è intesa sulle basi politiche e programmatiche necessarie a stringere una alleanza non scontata. Vendola fa parte di quella sinistra che ha costituito il problema maggiore per Prodi, fin dal primo governo. Ha fatto i conti con questo? Sa che gli italiani non vogliono che quanto accaduto si ripeta?».

E se l’intesa fosse raggiunta?
«Che si candidi. Anche se trovo singolare questa agitazione autopromozionale che utilizza - per altro - le primarie: strumento di un altro partito - il Pd - verso il quale non ha mai avuto parole di apprezzamento».

E che dire, invece, dei possibili altri candidati pd?
«Che considererei la loro scelta legittima ma sbagliata».

Addirittura sbagliata?
«Un aspetto costitutivo del Pd è aver guardato ai grandi partiti riformisti europei: e i grandi partiti europei candidano il loro leader alla guida del governo. E’ un principio che abbiamo perfino inserito nel nostro Statuto».

Quindi?
«Quindi troverei ragionevole che, se vi sono dirigenti del Pd che intendono candidarsi alla guida del governo, si candidassero prima alla segreteria del partito».

Ma avete fatto un Congresso pochi mesi fa...
«Appunto. Ed è per questo che suggerisco di impegnarci prima di tutto sulla proposta da fare al Paese, piuttosto che continuare in polemiche dannose e infondate».

Pensa a qualcosa in particolare?
«Penso a certi postulati che accompagnano la polemica, del tutto legittima, sui possibili modelli di riforma elettorale. Anche qui: vorrei rassicurare Veltroni e dirgli che non è vero che pensare a sistemi diversi da un certo maggioritario significa voler “uccidere” il Pd. Non siamo nati per l’esigenza di adattarci a una nuova legge elettorale: e non saremmo messi in crisi nè da un sistema che si ispirasse a quello tedesco né dalle difficoltà - evidenti - del “partitone” di Berlusconi. Insomma, possiamo sopravvivere anche alla crisi del bipolarismo berlusconiano... Il Pd, infatti, non nasce da una legge elettorale, ma dalla convergenza politica, ideale e culturale tra le grandi tradizioni del riformismo e del progressismo italiano. Queste sono le basi del partito che stiamo costruendo».

Perché tiene a questa rassicurazione?
«Perché è caricaturale la divisione tra chi vorrebbe un Pd forte e chi lo vorrebbe debole ma con più alleati. Se questa fosse la discussione, io starei di certo con i primi».

Non avete molto tempo per mettervi d’accordo
«Vedremo se e quando si faranno le elezioni. Ma la cosa peggiore, cone ha denunciato Bersani, sarebbe un governicchio che tirasse a campare. Continuiamo a essere un Paese strano, dove si taroccano le cifre economiche per nascondere la crisi; dove se un deputato passa dalla maggioranza all’opposizione è un golpe, mentre è tutto normale se accade il contrario; un Paese nel quale il ministro dell’Economia fa una impegnata intervista per dire che entro l’anno bisogna approntare un piano economico che ci porti al 2020, e vorrei sapere di questo piano dove si sta discutendo. Qui l’unico piano che interessa a Berlusconi è come aggirare la sentenza Mills. Lo so che è da inizio legislatura che va così. Ma che vuole, non mi ci sono ancora abituato...».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58584girata.asp
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« Risposta #110 inserito:: Settembre 17, 2010, 02:22:41 pm »

17/9/2010

Bipolarismo malato

FEDERICO GEREMICCA

Gli ultimissimi sondaggi elettorali - sostanzialmente univoci nel loro responso - consolidano e confermano un dato difficilmente contestabile.

La crisi di consenso dei partiti maggiori non solo continua, ma sembra subire addirittura una accelerazione. Le cifre, nella loro crudezza, parlano chiaro. Se si tornasse oggi alle urne, Pd e Pdl assieme assommerebbero a poco più del 55 per cento dei consensi. Appena due anni fa, alle elezioni politiche del 2008, erano riusciti a superare la soglia del 70 per cento (70,6).

E’ evidente che un calo di quasi 15 punti percentuali in poco meno di 30 mesi, è difficilmente considerabile fisiologico: se non altro perché, a differenza di quel che si potrebbe normalmente supporre, della flessione dell’uno non si avvantaggia affatto l’altro. La crisi di consensi, infatti, è parallela e contemporanea: e si può anzi ipotizzare che essa sia in qualche modo perfino contenuta dal sistema elettorale vigente, visto che alle elezioni europee del 2009 (sistema elettorale proporzionale) Pd e Pdl già andarono ben al di sotto (quasi 10 punti percentuali) dei consensi ottenuti alle politiche di appena un anno prima.

Il dato è lì, e pare meritevole di analisi magari un po’ più sganciate dal contingente. Considerate le dimensioni della crisi, infatti, spiegazioni che risolvono il tutto richiamando l’effetto-delusione sugli elettori di pur evidenti conflitti personali (l’eterno duello D’Alema-Veltroni da una parte o la più recente frattura tra Berlusconi e Fini, dall’altra) cominciano a rivelarsi parziali e forse insufficienti. Del resto, il fatto che i sondaggi segnalino la contemporanea crescita di quasi tutti i partiti “minori” (dall’Idv alla Lega fino all’ipotetico “terzo polo”) aggiunge al quadro un dato impossibile da ignorare. E’ dunque già finita - e perché - la capacità di attrazione, sul modello europeo, di un sistema fondato su due grandi partiti che si confrontano e magari si alternano alla guida del Paese?

Mettiamo assieme alcuni fatti. I cosiddetti parlamentari teodem che lasciano il Pd, preferendo la più piccola Udc; Francesco Rutelli che abbandona il partito che ha co-fondato con Piero Fassino; Veltroni che lancia un suo movimento, anche se per il momento all’interno del Pd; Gianfranco Fini che abbandona la “casa madre” del Pdl; lo stesso Pdl che si frantuma in Sicilia (la regione del famoso 60 a 0...) e attraversa difficoltà evidenti tanto al Sud (eroso dagli uomini di Fini) quanto al Nord (accerchiato dai leghisti di Bossi)... Ce n’è forse a sufficienza per dire che i «partitoni»-calamita attraggono sempre meno, e che la forza che sprigionano pare trasformarsi sempre più da centripeta in centrifuga.

La questione, in fondo, sarebbe provare a capire se tra le due crisi esiste un rapporto diretto - cioè se l’una influenza l’altra, e perché - o se le difficoltà in cui si trovano Pdl e Pd hanno origini autonome e diverse. Fu abbastanza evidente - e del resto fu ammesso dallo stesso Berlusconi - il fatto che l’«invenzione» del Popolo della Libertà fu una conseguenza praticamente diretta e una risposta alla nascita del Partito democratico. Esiste lo stesso rapporto - oggi - tra la crisi dell’uno e le difficoltà dell’altro?

E’ fuori di dubbio che il bipolarismo sia considerato dai cittadini-elettori un dato ormai acquisito. Decine di sondaggi, però, informano che è un bipolarismo che piace - e che funziona - soprattutto a livello locale (e lo dimostra, a parte la stabilità delle giunte, l’alta popolarità di cui godono sindaci, governatori e - talvolta - perfino presidenti di Provincia). Assai più discussi, invece, sono gli effetti a Roma (ed i risultati) del cosiddetto bipolarismo all’italiana: un sistema che ha ormai trasformato il confronto politico in un perenne muro contro muro, in uno scontro continuo nel quale perfino alle parti «terze» (dal Quirinale agli organi di garanzia, fino alla Corte Costituzionale) è spesso chiesto di schierarsi dalla parte del vincitore in nome di una presunta ma proclamata «Costituzione materiale».

Difficile dire se Pd e Pdl stiano pagando appunto questo - e cioè un bipolarismo trasformato in una sorta di insopportabile camicia di forza - oppure se, cacciata dalla porta, stia rientrando dalla finestra la storica predisposizione italiana al particolarismo e alla frammentazione (sentimenti che avevano nel sistema proporzionale lo strumento per realizzarsi). Che sia una la causa oppure l’altra (o ancora una terza o una quarta...) sarebbe però opportuno cominciare a rifletterci. Molti, infatti, affermano che la situazione è ormai a livello di guardia, e che la Seconda Repubblica dovrebbe presto cedere il posto alla terza. Nessuno, però, o quasi nessuno, indica soluzioni e vie da seguire. Si litiga sul «porcellum» e sul sistema tedesco, ci si chiede se è meglio tornare al Mattarellum o provare il doppio turno alla francese. Ci si azzuffa e non si sceglie. Intanto la disaffezione verso la politica cresce, e l’astensionismo tocca punte mai raggiunte prima...

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« Risposta #111 inserito:: Ottobre 03, 2010, 12:09:26 pm »

2/10/2010 (7:25)  - RETROSCENA

Tra Cavaliere e Napolitano scetticismo reciproco

Incontro di routine tra Berlusconi e Napolitano

Mezz'ora di colloquio, ma il Capo dello Stato resta freddo

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Una mezzoretta, non di più. Ma mezz’ora, a volte, è meglio di niente: meglio, per esempio, del niente al quale si erano ridotti i rapporti e gli incontri tra il Presidente della Repubblica e il capo del governo.

Silvio Berlusconi è dunque salito ieri al Quirinale - che lo attendeva da settimane, in verità - per riferire a Giorgio Napolitano dello stato di salute della sua maggioranza e informarlo delle prossime mosse che ha in calendario. Il capo dello Stato ha ascoltato, ha dato qualche consiglio, ma è rimasto scetticamente silenzioso di fronte alle ripetute assicurazioni circa il fatto che «la maggioranza è unita, e oggi è anche più ampia di quella su cui potevo contare ad inizio di legislatura».

Scetticismo: reciproco e ormai perfino malcelato. Il capo del governo non ha infatti dimenticato la lunga serie di stop subiti dal Quirinale in questi primi due anni e mezzo di legislatura, ed è ormai graniticamente convinto che - in caso di difficoltà - una mano tesa dal Colle non gli arriverà mai; e il Presidente della Repubblica, del resto, ha memorizzato e rimuginato a sufficienza la sequela di accuse e attacchi di cui è stato fatto oggetto, fino ad ora, dal partito del presidente del Consiglio e dal premier stesso. Rinfocolare vecchie polemiche o aprirne addirittura di nuove in un momento così delicato, ieri sarebbe stato irresponsabile: ed è per questo, in fondo - per gli obblighi del ruolo che ricopre - che Napolitano si è limitato ad ascoltare il capo del governo senza quasi intervenire.

Ha più o meno dato l’impressione di credere, per esempio, che la crisi politica che ha scosso il centrodestra sia stata davvero ricomposta, e che la maggioranza sia oggi più solida e ampia di prima. Naturalmente, per un Presidente dal lungo corso politico è difficile immaginare che le cose stiano davvero così. «Il Capo dello Stato prende atto che il governo va avanti, avendo ancora una maggioranza in Parlamento», è la sintesi più o meno ufficiale che vien data della posizione del Quirinale alla fine del colloquio; meno ufficialmente, il Presidente - che ha assistito in passato alla conclusione di cicli politici storici, dal centrismo al centrosinistra - si chiede come il premier speri e intenda andare avanti, di fronte ad una maggioranza preda di una crisi che al Colle si considera nient’affatto risolta.

L’incontro è avvenuto proprio mentre le agenzie di stampa cominciavano a dare notizia delle dichiarazioni del premier diffuse da un video di Repubblica.it. Paradossalmente, si può considerare perfino una fortuna il fatto che l’ultima «esternazione privata» del premier - a base di barzellette, bestemmie e attacchi alla magistratura - non abbia fatto parte del colloquio tra i due presidenti, che avrebbe rischiato di assumere (come già diverse altre volte in passato) il profilo dell’ennesimo aspro faccia a faccia. Su al Colle, infatti, si considerano già sufficienti i motivi di tensione e preoccupazione esistenti, per doverne aggiungere degli altri (per di più, su questioni nient’affatto nuove).

Non che il breve colloquio non abbia comunque riservato nuovi motivi di amarezza e perplessità a Giorgio Napolitano. E’ accaduto quando la discussione è inevitabilmente scivolata sulla nomina del nuovo ministro dello Sviluppo economico. Nei mesi passati il Presidente della Repubblica aveva più volte sollecitato il premier a compiere una scelta, vedendo puntualmente vanificati i suoi appelli. Poi, quando parve che il prescelto fosse stato individuato in Paolo Romani, il Quirinale fece sapere al premier di considerare quella scelta inopportuna, in ragione di possibili conflitti di interesse dell’onorevole Romani e perfino di qualche vicenda giudiziaria in divenire. Ieri Berlusconi ha spiegato al Capo dello Stato di aver tentato in ogni modo di trovare altre soluzioni ma di non esserci purtroppo riuscito...

Sarà dunque quello di Romani il nome che Berlusconi indicherà (forse già a inizio settimana) a Napolitano e che Napolitano nominerà ministro. La scelta non è apprezzata, ma non ci saranno bracci di ferro da parte del Colle. La situazione è già abbastanza difficile - e all’orizzonte già si intravedono nuove polemiche su questo o quel provvedimento in materia di giustizia - per rendere fin da ora incandescente un autunno che, a giudizio del Quirinale, si presenta già sufficientemente caldo di suo...

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« Risposta #112 inserito:: Ottobre 23, 2010, 08:44:26 am »

23/10/2010

Il ritorno "dell'uomo dei miracoli"
   
FEDERICO GEREMICCA

Il sindaco di Boscoreale, esponente del Pdl, che non ci crede e dice: «Se Berlusconi ce la fa in dieci giorni è un miracolo, e vuol dire che lo proporremo come santo»; L’Unione Europea che va su tutte le furie, annuncia «niente soldi per la Campania» e minaccia procedure di infrazione nei confronti dell’Italia; le popolazioni della zona che innalzano barricate e bruciano il Tricolore; e il Presidente della Repubblica, infine, che invita ognuno ad assumere - con chiarezza - le proprie responsabilità.

Ecco: non è precisamente uno scenario confortante. Ma è giusto in questo quadro che va in scena «il ritorno di Bertolaso»: che se fosse il titolo di un film, reclamerebbe il rassicurante lieto fine, mentre lì - tra i falò, l’immondizia, i blindati e i pianti dei bambini - di lieto non si intravede davvero nulla. Silvio Berlusconi, però, ha deciso di riprovarci così: rimettendo cioè in campo «L’uomo dei miracoli», che tanto lustro diede ai primi mesi del suo terzo ritorno a Palazzo Chigi. Solo che da allora ad oggi molta acqua (e molta immondizia) è passata sotto i ponti: e quel che apparve convincente due anni fa, oggi sembra non incantare più nessuno.

Nella torrida primavera - estate del 2008, Silvio Berlusconi era fortissimo, saldo in sella, e Guido Bertolaso il «manager dell’emergenza» reclamato qui e li praticamente a ogni cader di pioggia. Oggi le cose stanno come stanno: il premier non sa quanto ancora sopravviverà alla guerra di posizione dichiaratagli da Fini, sulle barricate di Terzigno si srotolano striscioni con su scritto «Berlusconi hai perso il Sud» e Bertolaso, come è noto, non è che abbia meno gatte da pelare, indagato a Perugia per l’inchiesta sui grandi eventi e inseguito dal fantasma di equivoche intercettazioni e belle massaggiatrici in bikini. Insomma: un tandem, quello tra B&B, stanco e affaticato, se non proprio azzoppato.

E un tandem, soprattutto, con qualche problema in più e parecchia credibilità in meno per poter ricorrere all’armamentario di due anni fa, tutto ordinanze, esercito, blindati e maniere forti: ma se quella via non fu una soluzione, come dimostrano i cumuli di immondizia per le strade, quale altro percorso è possibile oggi, tra gli altolà dell’Unione Europea e le barricate della gente di Terzigno? Lo si vedrà: e l’auspicio, naturalmente, è che un percorso lo si trovi. E lo si trovi evitando, soprattutto, allarmismi e confusioni: su quanto ci sia di disperazione nella protesta della gente - per esempio - e quanto pesi, invece, lo zampino della camorra o di movimenti anarco-insurrezionalisti.

Ieri, per dire, il sottosegretario Mantovano aveva lanciato un allarme acutissimo: non è la gente che protesta, ma personaggi che puntano all’eversione. Berlusconi ha dovuto correggerlo: «Non ci sembra che il fenomeno sia così esteso da richiedere un piano d’emergenza». E’ un chiarimento non risolutivo, certo: ma è assai apprezzabile il ritorno a parole di prudenza e di saggezza.

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« Risposta #113 inserito:: Ottobre 28, 2010, 05:17:49 pm »

28/10/2010

Pd, il ricambio non può essere dolce

FEDERICO GEREMICCA

I modi sono quelli che sono: senz’altro ruvidi, bruschi, ai limiti della scortesia. Ed anche i toni non possono esser certo definiti rituali: spicci, diretti, sovente a un passo dall’offesa personale. E i modi e i toni - per l’appunto - sono i chiodi ai quali rischiano di «finir impiccati» Matteo Renzi, Pippo Civati e il cosiddetto gruppo dei «rottamatori», ormai in apertissima polemica con lo stato maggiore del Pd. Ma se «la rivoluzione non è un pranzo di gala» (citazione ben nota, si immagina, ad almeno mezzo gruppo dirigente pd...) nemmeno il rinnovamento lo è: motivo per il quale le obiezioni che si avanzano circa i modi e i toni dei «rottamatori», appaiono - più che altro - divagazioni non ricevibili.

A Renzi, a Civati e alla folla di giovani (e meno giovani) che tra una settimana si riuniranno a Firenze, il gruppo dirigente del Pd dovrebbe - in verità - delle risposte nel merito delle questioni poste: che non sono, poi, chissà che.

Sollecitano un rinnovamento vero al vertice del partito: ed è difficile - in un Paese nel quale è invocazione quotidiana la richiesta di un ricambio delle classe dirigenti a tutti i livelli - considerare questa domanda alla stregua di una provocazione. E spingono affinché vengano rispettate - ma stavolta davvero - le regole che il Pd stesso si è dato due anni fa: per esempio, il limite dei tre mandati parlamentari, norma di fatto vanificata dalla gran quantità di eccezioni.

Modi e toni, dicevamo, sono quel che sono: ma non si ricordano, in verità, rinnovamenti «dolci», operazioni di ricambio nelle quali chi deve lasciare il posto (e il potere) offre con cortesia la propria poltrona a chi deve subentrare. Esistono rinnovamenti pilotati, questo sì: ed è un po’ la via, in fondo, che tentò Veltroni dopo la fondazione del Pd. Ma il confine tra rinnovamento pilotato e cooptazione è spesso labile: e comunque, se la questione è di nuovo d’attualità, vuol dire che qualcosa non funzionò prima, durante o dopo la messa in campo dei vari Calearo e Madìa, Sassoli o Serracchiani, per dirne solo alcuni.

E tanto non funzionò, che divenne un caso il rumoroso abbandono di Irene Tinagli (giovane ricercatrice all’epoca «emigrata» a Pittsburgh) voluta da Veltroni addirittura nel Coordinamento nazionale del Pd. Dopo non molti mesi la nomina, si dimise con una lettera intrisa di rabbia e delusione: «Mi chiedo se era necessario fare tanto chiasso sul ricambio generazionale quando basta guardare chi sta ancora in cabina di regia per capire che, in fondo, non è cambiato niente». La lettera è di due anni fa e molta acqua è passata sotto i ponti: a Veltroni sono succeduti prima Franceschini e poi Bersani, la crisi di consenso del Pd si è acuita e la questione del ricambio torna bruscamente in primo piano. Ma stavolta meno controllabile che mai.

Viene da chiedersi se, al punto cui si è giunti, il tema del rinnovamento (un rinnovamento non necessariamente legato all’età) non sia - per il Pd - addirittura una opportunità. E invece, sarà per i toni, sarà per i modi, ma Pier Luigi Bersani non ha preso affatto bene la scesa in campo dei «rottamatori». Anzi, l’ha presa così male da convocare a Roma, proprio nei giorni del «raduno» fiorentino i dirigenti di tutti i circoli Pd d’Italia. La mossa è stata intesa come il tentativo di depotenziare l’iniziativa di Renzi e Civati: può esser che sia così, ma non è detto. E comunque non è questo l’importante. Quel che sorprende, trattandosi di Bersani - uno che «uomo nuovo», in fondo, a modo suo lo è - è che al segretario del Pd non sia venuta voglia di fare un salto a Firenze per ascoltare le ragioni ed i propositi di un pezzo di «popolo Pd» ormai a un passo dalla libera uscita. A parte l’impatto politico e mediatico della scelta, ne avrebbe forse tratto stimoli e intuizioni probabilmente non inutili in una fase di perdurante difficoltà. Sarebbe bastato (basterebbe) una sola mattinata; anche solo mezzo pomeriggio. Il segnale sarebbe stato (sarebbe) assai importante e forte: la prova, tra l’altro, che il «vecchio» non solo non è indifferente ma non ha paura del «nuovo». Al «raduno» fiorentino manca ancora una settimana: c’è tempo per riflettere, ragionare e magari - perché no? - perfino cambiare idea...

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« Risposta #114 inserito:: Novembre 03, 2010, 10:05:30 pm »

3/11/2010 (7:51)  - COLLOQUIO

Bersani incalza Fini sulla crisi: "Stacca tu la spina o ci pensiamo noi"

«Berlusconi ormai è per il "muoia Sansone con tutti i filistei". Inaccetabile»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Se ne sta lì, la giacca sbottonata, il colletto della camicia aperto, appoggiato con le spalle alla grande libreria bianca nel suo ufficio al secondo piano di largo del Nazareno. Pier Luigi Bersani è teso in volto. Stavolta sembra davvero preoccupato. Tira un fiato per cacciar via la tensione della dura conferenza stampa appena terminata, e ragiona ad alta voce. Sono le quattro del pomeriggio, e Stefano Di Traglia - la sua ombra, in fondo - informa il leader Pd delle ultime novità: ce ne fosse una, dicasi una, capace di scalfire l’angoscia che pare attanagliare il segretario. «Va tutto a rotoli - mormora - e magari quel che leggiamo è niente, è solo l’inizio. Quando sarà caduto, vedrete, uscirà fuori di tutto, sarà una valanga: perché questo Paese, quando perdi il potere, sa diventare cattivo, perfino impietoso...».

Non cita la fine di Bettino, ma è chiaro che pensa a lui. Si parla - invece - di Silvio Berlusconi, naturalmente. Ma a doverla dire tutta, non pare più lui - il premier - la preoccupazione principale del leader del Pd. Magari sbaglia: ma considera il Cavaliere un uomo politicamente morto. Si tratterebbe di prenderne atto, rapidamente atto, come ha detto in conferenza stampa: «Non è questione di mesi, e nemmeno di settimane...». Non capirlo, vuol dire continuare a moltiplicare il rischio che Bersani vede chiaro come mai: lui lo chiama «il Paese che stacca la spina, anzi che l’ha già staccata». Ed è chiaro quello che vuol dire. «Per me - argomenta - siamo già ben oltre il 1992. Il discredito, il distacco della gente dalla politica oggi è maggiore. Ed è per questo che chi deve battere un colpo è ora che lo faccia». Ce l’ha con Fini, come è chiaro: è a lui che chiede la mossa capace di disarcionare il premier.

Lo chiede: ma fa sapere che non aspetterà all’infinito: «E’ incredibile, ogni volta sembriamo a un passo, a un solo passo, ma poi... Mi dicono che ora avrebbe deciso. Può darsi: però io aspetterò fino a domenica, non oltre; fino al suo discorso di Perugia, poi bisognerà muoversi. Berlusconi, ormai è chiaro, è per il “muoia Sansone con tutti i filistei”: noi non possiamo permettere al Paese di fare quella fine lì». Mezz’ora prima, in conferenza stampa, sembrava aver escluso la presentazione di una mozione di sfiducia in Parlamento: ora chiarisce. «Un momento, vedremo. Io la mozione non la escludo, perché alla fine potrebbe essere necessaria. Ci sono anche altre vie, certo: quel che è chiaro è che non possiamo starcene così, le mani in mano, mentre l’Europa ci ride dietro. Il problema non è trovare l’accordo per fare un governo; il problema è come arrivarci...». Una via potrebbe essere quella di presentare in Parlamento una risoluzione sulle cose più urgenti da fare: nuova legge elettorale, innanzitutto.

Si vota la risoluzione e le forze che la sostengono - di fronte a una maggioranza che senza i voti di Fini diventa minoranza -, si trasformano nelle protagoniste della nascita di un nuovo governo... «E’ una via, anche se so bene che la legge elettorale, per quel che rappresenta, dovrebbe essere votata dal 100 per cento dei parlamentari... Infatti, noi lavoriamo a una proposta aperta, che dovrebbe piacere anche alla sinistra, visto che rispetto allo zero rappresentanti di oggi avrebbe almeno accesso al Parlamento grazie al diritto di tribuna. Ma non è che possiamo fare un governo solo per riformare la legge elettorale. Con un’operazione simile, da Grillo alla Lega ci sparerebbero addosso tutti. E anche i nostri... col clima che c’è nel Paese, con l’economia a rotoli, verrebbero qui sotto con i forconi, se ci occupassimo soltanto delle cose che paiono interessare noi».

Bisogna impedire, certo, «che col 34% dei voti uno non solo vinca le elezioni ma possa anche farsi eleggere al Quirinale, e non so se si è capito di chi parlo», aveva detto poco prima di fronte a telecamere e tv. Ma aveva aggiunto: due cose in economia bisognerebbe pur farle: «Dipendesse da me, uno stralcio della riforma fiscale e un provvedimento per il lavoro ai giovani». Intanto, però, va sgombrato il campo dal governo che c’è: «Liberateci di Berlusconi, vedrete quanta gente - anche tra loro - sarà felice come una Pasqua. E noi potremo fare qualcosa per il Paese e poi tornare alle urne, avendo il tempo di sistemare tutte le faccende, la coalizione, le primarie e il resto». Non sarà facile, e naturalmente lo sa. Anche perché non è che questo sia l’unico fronte aperto cui badare. Ci sono le tensioni interne, lo scalpitare dei veltroniani e - prima ancora - il rumore metallico dei rottamatori del tandem Renzi-Civati. Andrà all’imminente raduno di Firenze, il segretario?

«Oggi vedo Renzi e dovrà rispondere ad una domanda: di che si parla, lì? Perché se si parla dell’Italia, di quello che vogliamo per il futuro di questo Paese, allora possiamo ragionarne. Ma se invece la questione è linciare i “vecchi” del Pd, se la vedano loro. Avendo una preoccupazione, però: Berlusconi, con i suoi tg e i suoi giornali, farà di tutto per sviare l’attenzione dai suoi guai. Offrirgli un Pd che litiga, una base “in rivolta”, sarebbe per lui un regalo insperato e inaspettato. Vogliono farlo? Decidano loro, e io mi regolerò...».

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« Risposta #115 inserito:: Novembre 06, 2010, 03:55:25 pm »

6/11/2010

Bersani e il Pd tra piazza e Facebook

FEDERICO GEREMICCA


A Roma, stamane, sarà Pier Luigi Bersani a parlare ai segretari dei circoli Pd per dir loro di tenersi pronti in vista della morte di Sansone e di prepararsi alla piazza, alla grande manifestazione - la tradizionale spallata al governo - da tenere entro la fine di novembre.

A Firenze, ieri, sono stati invece Wile il coyote e Boris (pesce rosso di una serie tv politicamente assai scorretta) a illustrare - diciamo così - il punto di vista del tandem Renzi-Civati e dei loro «rottamatori» sulla crisi del berlusconismo e sulle cose da fare.

Bersani, Renzi e Civati militano, come è noto, nello stesso partito: e messa così, verrebbe anche da ridere. In realtà, in casa democrats c’è poco da star allegri: anche se ha ragione il giovane sindaco di Firenze quando giura che «si possono dire cose terribili e serissime anche col sorriso sulle labbra». Berlusconi docet. Due grandi adunate di partito nello stesso giorno; due modi di intendere la politica assai distanti; due vocabolari così diversi da far crescere il rischio dell’incomunicabilità. Il tutto, appunto, ancora dentro lo stesso partito: e la questione, adesso, sarà capire se queste diversità possono ancora essere portate a sintesi e diventare una ricchezza o se già siano - in controluce - la premessa per altri dolorosi addii. «Noi siamo gli unici - assicura Civati - a minacciare di voler restare...».

C’è da credergli, per il momento. Ma è un momento che durerà all’infinito: come altri abbandoni e altre separazioni hanno dimostrato a sufficienza. In fondo, le adunate degli eterodossi di Firenze e degli ortodossi di Roma (è una semplificazione, ma forse aiuta a capire) mettono in piazza e sintetizzano il problema dei problemi del Pd: partito a vocazione maggioritaria, nato per unire e amalgamare, e invece alle prese con l’acutissima difficoltà a far convivere al proprio interno le sue tante diversità: i laici e i cattolici, i riformisti e i radicali, i vecchi e i giovani, gli ex comunisti e gli ex popolari e - non paia una bestemmia, perché potremmo esserci vicini - «quelli del Nord» e «quelli del Sud». Diversità che sono già state l’anticamera di dolorosi addii; e che appaiono controllabili con sempre maggior fatica, in assenza del potentissimo collante rappresentato dal potere e dal governo, e impossibili da «mettere in riga», da parte di leadership che mai potranno avvicinarsi all’onnipotenza di Berlusconi (e pure da quella parte si comincia ad apprezzare quanto anche l’onnipotenza abbia i suoi squallidi rovesci e i suoi limiti).

Tutto questo lo si vedeva bene, ieri, nella vecchia e bellissima stazione Leopolda di Firenze, dov’è in scena (e il termine è davvero appropriato) «Prossima fermata Italia», inedito raduno post-moderno di rottamatori veri e rottamatori per caso. All’appello di Renzi e Civati hanno risposto anche dirigenti dei circoli che avrebbero dovuto essere invece a Roma: non è grave, forse è addirittura utile e comunque non è questo il punto. Il punto sono la filosofia, la regia e l’anima di questa tregiorni: tutta interventi (un centinaio e più) di cinque-minuti-cinque, spezzoni di film, cartoni e gag tv, facebook e Internet dappertutto, Renzi e Civati a intervallare il dibattito da una consolle come si fosse in discoteca.

Si può storcere la bocca, come accadde di fronte ai cieli azzurri della scesa in campo di Berlusconi; si può sorridere, come ancora accade, di fronte a un certo «parlar facile», assai diretto e nient’affatto «politichese». Ma forse il Pd ha poco da ridere, da un po’ di tempo in qua. E fossimo nello stato maggiore dei democrats, forse scruteremmo nel raduno fiorentino per vedere se c’è qualcosa - un linguaggio, un’idea, uno stile - che possa esser utile alla riscossa. Quando è tempo di vacche magre, dicono nelle campagne emiliane, non si butta via mai niente. Nemmeno se a offrirti qualcosa è qualcuno del quale - a torto o a ragione - in un altro tempo non ti saresti fidato mai...

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« Risposta #116 inserito:: Novembre 07, 2010, 07:12:06 pm »

7/11/2010 (7:16)  - REPORTAGE

Renzi: nessuno ci può oscurare

In cinquemila a Firenze con i rottamatori e Civati. «Alle urla noi rispondiamo con gli applausi»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A FIRENZE

Si può cominciare la cronaca di un grande raduno politico con l’intervento di un vignettista, di un satirico, di un comico, o quasi, insomma? Si può - forse - se il suo nome è Sergio Staino, Bobo per gli amici, storico vignettista de «l’Unità». Sale alla tribuna di «Prossima fermata Italia» - la rutilante tre giorni voluta da Renzi, Civati e i loro «rottamatori» - e in cinque minuti va al cuore del problema: «Sono venuto qui con curiosità e diffidenza - dice -. Il tempo di sedermi e arriva un giornalista che mi chiede come mai sono qui. Farfuglio qualcosa.

Ne arriva un altro e mi chiede come mai sono qui. Comincio a spazientirmi. Arriva il terzo e mi chiede la stessa cosa. Allora gli dico: rispondo se lei cambia la domanda e mi chiede come mai Bersani non è qui». Ovazione. Che Staino ferma subito: «Credo sia un errore, ed un brutto segnale. Qui ho sentito testimonianze bellissime, piene di emozioni e di idee: come usciamo dalla nostra crisi senza tutto questo?». Cominciamo da Staino anche perché non è facile cominciare da altro. E poi forse perché iniziare da lui può dare il senso di cos’è questo raduno di «rottamatori» (quasi 5 mila registrati per accedere ai lavori, oltre 120 interventi, a ieri sera) fatto di democratiche giovanissime e carine, di assessori e sindaci del Pd, di ricercatori e insegnanti, condito da spezzoni di film e musica a gogò: il tutto coordinato da Civati e Renzi, dietro la loro consolle da disk jokey (lavoro che saprebbero fare alla perfezione...).

Si arriva alla tribuna e si hanno cinque minuti per dire quel che si ha da dire. Partendo da una parola e da idee e proposte relative a quella parola. Scuola. Ricerca. Immigrazione. Casa. Tasse... Michele, sindaco Pd di Sant’Anna di Strazzena, sceglie la parola pace. Giovanni, sindaco Pd di Mugnano (Napoli) naturalmente monnezza. Paola Concia, deputata, parla di diritti civili e omosessualità. E Andrea Manciulli, segretario del Pd toscano, decide - ovviamente - di parlare del partito. E’ un ortodosso, non un «rottamatore», e dice, pensando a Renzi: «Il rinnovamento ha bisogno di gruppi dirigenti nuovi, non di avventure solitarie. E noi stiamo rinnovando: in Toscana 10 segretari su 13 hanno sotto i trent’anni». Difende la ditta, come direbbe Bersani. E poi, finito l’intervento (5 minuti anche per lui) racconta: «Pier Luigi l’avevo avvisato, che sarei venuto qui.

Bene, mi ha risposto. E avete visto che anche se ho detto cose diverse da loro, mi hanno tutti applaudito?». L’entusiasmo e gli applausi, infatti, si sprecano, qui. E il più lungo e fragoroso non immaginereste mai a chi viene dedicato: all’assemblea dei segretari dei circoli Pd, riuniti a Roma con Bersani... A un certo punto, infatti, succede che a Renzi portino un’agenzia, e che lui la legga in diretta ai «rottamatori» che affollano la vecchia stazione Leopolda: a Roma fischi e ululati - dice Renzi - accompagnano ogni citazione del suo nome e di quello di Civati.
Il sindaco di Firenze si ferma e spiega: «Noi siamo quelli del sorriso: e quindi propongo di salutare gli amici e i compagni riuniti a Roma con un applauso». Quella che parte è un’ovazione. Che pare sincera. Più tardi, chiacchierando con i cronisti, il sindaco di Firenze spiegherà: «Qui nessuno ha mancato di rispetto o ha attaccato Bersani.

Noi andremo a letto col sorriso sulle labbra: se qualcun altro ci andrà accompagnato da fischi e ululati, è un problema suo». Un’ora dopo, da Roma, Lorenza Giani, segretaria del Pd fiorentino, informerà Civati e Renzi che i fischi e gli ululati erano stati niente di che: e questo, quello del ping pong Roma-Firenze, cioè, è un aspetto di questo raduno nient’affatto secondario... Al di là delle luci, dei colori, della musica e della grandinata di interventi - alcuni serissimi, alcuni un po’ così - è del tutto evidente, infatti, come dalla stazione Leopolda di Firenze sia partito un treno che prelude a una battaglia politica che potrà farsi molto dura. Spiega Matteo Renzi: «Dite che Bersani ha annunciato la manifestazione contro il governo per oscurare la nostra iniziativa? A noi non ci oscura nessuno: possiamo oscurarci solo noi. Se il segretario viene qui, ne siamo contenti.

Altrimenti vuol dire che è andata così...». Spiega Pippo Civati: «Noi siamo il Pd, precisamente come gli altri. Non è che loro abbiano il bollino di garanzia e noi no». Conclude Renzi: «Noi siamo la generazione cresciuta a pane e Tangentopoli e finita al bunga bunga. Se chiediamo che dopo trent’anni qualcuno si faccia da parte, è mancare di rispetto? Da Firenze non esce un nuovo leader ma un popolo. Noi non vogliamo né correnti né spifferi: ma nemmeno il rompete le righe».
I «rottamatori», insomma, non nascono e non muoiono a Firenze. Come dire: uomo avvisato, mezzo salvato...

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« Risposta #117 inserito:: Novembre 10, 2010, 03:20:22 pm »

10/11/2010

Napolitano il garante

FEDERICO GEREMICCA


Nel Paese dei dietrologi in servizio effettivo permanente e del «qua nessuno è fesso», l’ultima paradossale novella che fa il giro dei palazzi romani, recita più o meno così: Berlusconi salvato da Napolitano, chi l’avrebbe mai detto. Sussurrata a mezza voce, è questa - infatti - l’interpretazione maliziosa dell’appello (o meglio: dei suoi possibili effetti) rivolto dal capo dello Stato alle forze politiche affinché, nella corsa verso la crisi, non venisse travolta anche la legge di bilancio.

Un invito ad un «sussulto di responsabilità», insomma: interpretato, invece, alla stregua di una mossa tattica, del sostegno a questa o a quella parte politica. Al Quirinale - inutile dirlo - si usa un solo avverbio per commentare tali interpretazioni: avvilente. Ma non è questo il punto.

Che l’Italia sia alla vigilia di una importante emissione di titoli di Stato, poco importa: e ancor meno, probabilmente, pesa la preoccupazione che in uno scenario ulteriormente compromesso i tassi d’interesse possano schizzare alle stelle, come è accaduto in Irlanda. Irrilevante - evidentemente - deve esser considerato il fatto che la manovra di bilancio possa servire a ridare un po’ d’ossigeno a enti locali in ginocchio per i precedenti tagli o a indirizzare quel po’ di risorse disponibili verso i settori maggiormente in crisi. Niente di tutto questo è parso interessare, nel fuoco dello scontro apertosi nella maggioranza di governo. E in nome di una sorta di micidiale proprietà transitiva, tanto meno può aver interessato il Colle, del tutto estraneo a responsabilità di governo: dunque, se il Quirinale si è mosso, è per aiutare questo o quello, per allungare i tempi della crisi favorendo Silvio Berlusconi.

Si potrebbe intanto annotare come - in una crisi dai percorsi totalmente imperscrutabili - sia tutto da dimostrare il fatto che il possibile rinvio dell’annunciato show down, sia cosa più gradita al premier che ai suoi avversari. Eppure la situazione resta così confusa che il non dover decidere in 48 ore su ritiro di ministri, salite al Colle per dimissioni e valutazioni sulla possibilità del varo di governi tecnici o elettorali, è eventualità - in fondo - forse utile a tutti. Del resto, davvero nulla appare prevedibile e scontato: a maggior ragione dopo aver osservato Umberto Bossi - nemico giurato di Gianfranco Fini e accalorato sostenitore delle elezioni anticipate - vestire nientedimeno che i panni del mediatore tra i due contendenti... Ma tant’è: poiché «qua nessuno è fesso», se Giorgio Napolitano si è mosso, stavolta è stato per dare una mano a Silvio Berlusconi.

Se questo fosse vero - supponiamolo per un istante - sarebbe davvero singolare la situazione in cui verrebbero a trovarsi, in base a questo assunto, gli storici critici del Presidente (e il premier in testa a tutti) che da anni gli contestano a ogni piè sospinto di essere, di volta in volta, «un comunista» che boccia le leggi del governo, che copre le malefatte dei magistrati, che influenza la Corte Costituzionale nelle sue decisione e chi più ne ha più ne metta. Stavolta, invece, il premier dovrebbe ringraziare il «presidente comunista», che richiamando tutti alle proprie responsabilità determina l’effetto - magari - di allungare un po’ la vita ad un esecutivo la cui sorte appare già segnata.

Si tratta, come è evidente, di un modo micidiale e distruttivo di ragionare: frutto, probabilmente, perfino di genuino stupore di fronte all’evidenza che figure «terze», istituzioni di garanzia e punti di equilibrio non solo sono indispensabili alla nostra democrazia, ma esistono davvero. Che il riconoscimento di ciò abbia bisogno di malizie e grossolanità per realizzarsi, è avvilente. Quanto al fatto che si tratti, poi, di un riconoscimento definitivo e vero, lo vedremo: novembre e soprattutto dicembre, saranno mesi in cui le possibili controprove non mancheranno...

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« Risposta #118 inserito:: Novembre 15, 2010, 05:32:44 pm »

15/11/2010

Il gelo del Quirinale

FEDERICO GEREMICCA


E’ possibile, alla fine, che il Presidente della Repubblica sciolga un solo ramo del Parlamento - e cioè la Camera - se l’aula di Montecitorio, a differenza di quel che potrebbe accadere al Senato, negasse la fiducia al governo di Silvio Berlusconi?

Questo è quel che chiedono con sempre maggior insistenza il premier e lo stato maggiore del Pdl: ma sollecitare su tale questione una risposta dal Quirinale è tempo sprecato. A meno che non si mettano in fila gli scampoli di valutazioni che filtrano dal Colle e si provi a fare due più due. Un tale esercizio - rischioso, certo - conduce a un risultato univoco e, al momento, immodificabile: e cioè che è estremamente improbabile che la richiesta di Silvio Berlusconi possa essere accolta. E che se lo sviluppo della crisi dovesse mettere in chiaro l’impossibilità tanto della «ripartenza» del governo in carica quanto della nascita di un nuovo esecutivo, il Capo dello Stato scioglierà entrambe le Camere richiamando gli italiani alle urne.

E’ con crescente fastidio che dal Colle si osserva il moltiplicarsi di ipotesi fantasiose e di pressioni tese a condizionare il comportamento del Capo dello Stato. Un fastidio che rende più simile a una replica che a una semplice constatazione il richiamo all’articolo 88 della Costituzione, che attribuisce all’esclusiva responsabilità del Presidente il potere di scioglimento delle Camere. Infatti, a chi solleciti risposte alla richiesta del premier, dal Colle viene seccamente ricordato che «la materia è regolata dall’articolo 88 della Costituzione». Tradotto: il presidente del Consiglio può chiedere quel che vuole, ma a decidere su se, cosa e quando sciogliere è il Capo dello Stato.

E non basta. Infatti, se si fa notare che proprio l’articolo 88 contempla la possibilità di scioglimento di una sola delle due Camere, dal Colle giungono riflessioni il cui senso non è difficile da interpretare: ci si ricordi di quanto accaduto a Romano Prodi, sfiduciato (per una manciata di voti) solo dal Senato. E magari si vada a controllare se in quella occasione il centrodestra chiese lo scioglimento del solo Senato o, più correttamente, di entrambi i rami del Parlamento. Spiegazioni e rimandi il cui senso appare inequivoco.

E’ anche per questo, per stare alla sostanza delle questioni ed evitare confusioni, che al Quirinale nessuno pare appassionarsi più di tanto all’altra polemica divampata negli ultimi giorni: e cioè se nella cosiddetta «guerra delle mozioni» si debba cominciare dalla Camera, come chiedono le opposizioni, o dal Senato come invece reclama il governo. E’ una questione che lo staff del Capo dello Stato (che ha ricoperto anche la carica di presidente della Camera, e che quindi di regolamenti parlamentari un po’ ne mastica...) liquida come faccenda dall’esclusivo rilievo tattico-propagandistico. E’ vero, infatti, che in una guerra è sempre meglio cominciare vincendo una battaglia, piuttosto che perdendola: ma quel che conta è il risultato finale, che sarà dato dai voti espressi da entrambe le Camere. E se anche uno solo dei due rami del Parlamento negasse la fiducia al governo, la crisi sarebbe - come è evidente - inevitabile.

Una ultima annotazione. Assai meglio sarebbe - si valuta al Colle - se le forze politiche tutte (ma ovviamente quelle di governo in testa) concentrassero per ora idee e sforzi sulla legge di bilancio, piuttosto che su quel che sarà tra un mese o giù di lì. Al richiamo rivolto in tal senso da Napolitano la settimana scorsa tutti (e governo prima di tutti) risposero con applausi e rassicurazioni. Ora, invece, l’impegno di ognuno pare indirizzato quasi esclusivamente a precostituire posizioni polemiche, a lanciare ultimatum e a tentare di trarre il massimo profitto da questo o quello escamotage. Esercizi non solo inutili ma perfino dannosi, se sottraggono attenzione alle vie da battere per rilanciare l’economia del Paese.

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« Risposta #119 inserito:: Novembre 23, 2010, 10:00:50 am »

23/11/2010 - INTERVISTA

Vendola: primarie subito

«L'aggiustamento di cui parla Bersani? Se sono furbizie non portano da nessuna parte»

FEDERICO GEREMICCA

ROMA
Nichi Vendola deve averci pensato a lungo durante il suo «viaggio americano». E così, rientrato in Italia - e quasi parafrasando Primo Levi - chiede: se non ora, quando? «Questo è il momento in cui la sinistra - dice - deve smettere di percepire se stessa come un problema e non come, invece, la soluzione al problema; questo è il momento, soprattutto, in cui dovrebbe uscire fuori dal Palazzo; questo, insomma, è il momento giusto per le primarie, indipendentemente dalla vicenda del voto di fiducia e dalle sorti del governo. Infatti è ora che la sinistra alzi la testa e dica all'Italia che ha la forza per costruire una nuova speranza: e che non ha paura delle sue ragioni». E lo dica, appunto, in una grande, lunga e partecipata campagna di primarie.

L'idea farà discutere, incontrerà resistenze e naturalmente dividerà: soprattutto perché a proporla è lui, Vendola, pronto a scendere in campo contro Pier Luigi Bersani e dato in vertiginosa ascesa da ogni sondaggio. La proposta nasce da un'analisi della situazione che è assai diversa da quella del Pd: ed è argomentata con la fascinazione che ormai segna ogni ragionamento del popolare governatore di Puglia. In questa intervista, dunque, Vendola ne illustra il senso: lanciando messaggi - dalle primarie di Milano agli agognati governi tecnici - non sempre di pace verso il Pd e il suo segretario.

Lei dice: facciamo le primarie subito e comunque. Perché?

«Perché vedo una situazione che si avvita. Prima c'è stato un panico trasversale di fronte all'idea di elezioni anticipate; ora il panico riguarda la prospettiva di un Berlusconi-bis e di un galleggiamento nella melma per tre anni. La paura è nemica della sinistra: e la sinistra, allora, deve finalmente diventare nemica della paura. Per farlo bisogna uscire dalle logiche di Palazzo, riagganciare la vita della gente e i problemi veri della società: con un grande processo che è un lungo discorso, un programma partecipato sul cambiamento di questo Paese. Dico primarie perché non conosco un altro strumento. Non ho il mito delle primarie: ma in un processo di cessione di sovranità da parte dei partiti e di dissequestro della politica come bene comune, io credo che il centrosinistra possa ritrovare l'anima e la forza per vincere».

Le verrà obiettato che chiede che le primarie si svolgano subito perché teme che la sua candidatura possa «sgonfiarsi» se i tempi si allungano troppo: come risponde?

«Io non vivo questa vicenda come l'episodio centrale del mio percorso: ma quando ti accade che in ogni angolo d'Italia - e non solo d'Italia - gente di ogni ceto sociale ti indichi come una speranza, allora sento il dovere di fare la mia parte, di dare il mio modesto contributo. E vorrei chiarire una cosa una volta per tutte: non c'è nessun minoritarismonelle cose che dico e che propongo, e non sopporto più la definizione di sinistra radicale. Sono stufo di perdere bene: è venuto il momento di vincere bene».

Lei chiede primarie subito proprio mentre Bersani, dopo il voto di Milano, vede invece la necessità di un «aggiustamento» di questo strumento. Ne sapeva niente? E' preoccupato?

«Non ne sapevo niente ma non mi preoccupo. Non mi preoccupo perché può darsi che di tratti di un pensiero giusto: per esempio l'idea che, una volta in campo i candidati per una bella gara, si eviti la militarizzazione della sfida. A Milano è stato battuto chi ha dato, appunto, un carattere quasi militare alla contesa. Quando ci sono bei candidati in campo, si può puntare con serenità su quella che chiamo la saggezza della nostra gente».

E se non fosse questo l'«aggiustamento» cui pensa Bersani?

«Se si trattasse di accorgimenti e furbizie per pregiudicare il risultato, io comunque non mi preoccuperei: viviamo un'epoca in cui la furbizia non porta da nessuna parte. Ma non posso nemmeno immaginare che sia questo l'approccio a uno strumento vitale e per noi importante come le primarie».

E' chiaro, comunque, che la formalizzazione della crisi aiuterebbe non poco la sua corsa e i suoi progetti, no?

«Guardi, io sono tra quelli che non sopportano più la genericità retorica delle formule che vengono adoperate guardando alla crisi del Paese: questa crisi non può essere un pretesto per operazioni iperpoliticistiche. Non c'è una guerra tra le forze politiche: c'è una guerra tra la destra e il Paese reale. E' una guerra che si chiama povertà, precarietà, che ha il volto di provvedimenti di autentica crudeltà sociale».

Magari il quadro che lei fa è un po' drammatizzato...

«E' vero o no che la destra ha portato il Paese in una situazione di declino? Se è così, è di questo che bisogna discutere ed è su questo che bisogna schierarsi e dire una parola definitiva: non sui vizi e i vezzi di Berlusconi, ma sul ciclo del berlusconismo. E invece mentre le destre discutono di se stesse e del loro futuro e mentre il centro discute di se stesso e prova a riorganizzarsi, la sinistra discute del centro e della destra: fino a coltivare l'idea - che mi pare più frutto di disperazione che di lucidità - di un'alleanza con Gianfranco Fini. Basta. Per la sinistra è il momento di uscire dal Palazzo e smettere di percepire se stessa come un problema. Ed è per questo che insisto: il momento giusto per le primarie è arrivato. Ed è questo».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/376132/
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