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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 126034 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Gennaio 19, 2014, 06:12:39 pm »

Il retroscena
Il leader di Ncd sa che dovrà sacrificare le preferenze
Le telefonate tra Angelino e Matteo che ora si scoprono mediatori
Oggi incontro tra i due sull’ipotesi di compromesso

ROMA - Il «triangolo» si sta realizzando. Per quanto l’accordo sul sistema elettorale non sia ancora chiuso, il compromesso tra i leader del Pd, di Forza Italia e di Ncd sembra davvero prendere corpo. Tutti sapevano che nessuno avrebbe vinto qualora la trattativa fosse fallita. Tutti invece possono ritenersi per la loro parte soddisfatti: Renzi e Berlusconi si sono presi la scena sulle riforme, Alfano insieme a Letta ha guadagnato la stabilizzazione del governo. Certo, fino alle 16 di domani - dead line per presentare il testo di legge - «saranno le carte scritte a parlare», come sottolinea il leader del Nuovo centrodestra. Ma c’è un motivo se ieri il vice premier e il segretario del Pd si sono lasciati al telefono in modo assai diverso da come si erano congedati giovedì notte dopo il vertice a palazzo Chigi, se Renzi si è costantemente tenuto in contatto con Alfano, chiamato venti minuti prima dell’incontro con Berlusconi e subito dopo la fine del colloquio con il Cavaliere.

Non è stato un atto di cortesia, quello del leader democratico, ma un gesto politico, a riprova che la base di trattativa sulla legge elettorale è stata frutto di un’intesa maturata prima nell’area della maggioranza, forgiata nel tesissimo colloquio di tre giorni fa tra Alfano e Renzi davanti a Letta, e nel successivo rendez vous di Lupi con il segretario del Pd: la verità sta nell’impianto del testo, che - se avessero potuto far da soli - il sindaco di Firenze e Berlusconi avrebbero ricopiato integralmente dal modello spagnolo. Se non è andata così, è perché serviva il «triangolo», e i «giovanotti» hanno saputo gestire la mediazione, ognuno con il proprio stile, la propria indole e i rispettivi obiettivi. Ma il risultato sembra potersi realizzare. E perché l’opera si completi, i due si sono dati appuntamento per oggi.

Ovviamente serviva e serve l’assenso e l’immanenza del Cavaliere, che - consapevole del gioco - «non è per nulla contrario al fatto che tu sia nella squadra dell’accordo», ha raccontato Renzi ad Alfano ieri sera, nel corso di una conversazione punteggiata da battute distensive alla vigilia del passaggio più delicato. Ora la trattativa entra nella fase più complessa, dopo che ognuno ha già dovuto cedere qualcosa agli altri. Il leader di Ncd sa che dovrà sacrificare le preferenze, «materia teologica di chi non vuol fare scegliere le persone», ma ha conquistato la ripartizione nazionale dei collegi e vigilerà perché il premio di maggioranza sia dato alla coalizione vincente, così da garantirsi la presenza del simbolo nella scheda elettorale: «Siamo nel centrodestra ma non torneremo indietro. Non torneremo all’ovile nemmeno se cercassero di imporcelo per legge. D’altronde, senza di noi il centrodestra diventerebbe il terzo polo».

Richieste e concessioni stanno alla base della mediazione. Alfano non si opporrà a una soglia di sbarramento alta per l’accesso in Parlamento, «quattro o cinque percento si vedrà. Di sicuro non faremo patti di sindacato con i partitini», ha garantito. Quanto alla soglia per ottenere il premio di maggioranza, fissata al 35%, non ha avuto da obiettare, sapendo che già il Colle si sta muovendo, perché la quota - ritenuta bassa - potrebbe entrare in contrasto con la sentenza della Consulta. «Conteranno le carte», ripete il leader del Nuovo centrodestra, cioè il testo scritto. Per il resto, ognuno potrà chiamare la riforma come gli pare: «spagnolo modificato» come dicono a Forza Italia, «sindaco d’Italia modificato» come sostiene Alfano o «Porcellum modificato» come lo definisce il ministro Quagliariello. Comunque il termine «modificato» è sinonimo di compromesso.
E il compromesso è la pietra angolare per un processo ambizioso di riforme che il leader del Pd vuole intestarsi e per un rilancio del governo che Alfano non vuol farsi sfuggire, consapevole che il destino del suo partito è legato all’azione dell’esecutivo. Ma un anno di tempo sembra ormai esser stato conquistato, e per quanto possa apparire paradossale il proseguimento della legislatura viene garantito anche dal Cavaliere, che si inserisce nel processo costituente e opera quello che il leader di Ncd definisce «un ravvedimento operoso». L’ex premier che dopo essere passato all’opposizione si era detto indisponibile alla stagione delle riforme, «rientra in un gioco in cui c’era già e avrebbe potuto starci dal fronte della maggioranza».

Nel ragionamento svolto da Alfano ieri sera con i dirigenti del suo partito si avvertiva una nota di amarezza «per gli errori compiuti a causa della linea estremista» maturata in Forza Italia, «e che è stata alla base della nostra separazione». Ma al tempo stesso ha avuto la conferma che - a suo avviso - «noi avevamo ragione su tutta la linea. E se il presidente Berlusconi allora ci avesse dato ascolto sarebbe rimasto nel gioco senza doverci rientrare solo sulle riforme». Il «triangolo» sta per realizzarsi, e per quanto la sfida sia ancora complicata, il vice premier guarda al percorso con «moderato ottimismo».

19 gennaio 2014
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_19/alfano-renzi-verderami-eadb0512-80df-11e3-a1c3-05b99f5e9b32.shtml
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« Risposta #211 inserito:: Febbraio 09, 2014, 05:52:08 pm »

Sette giorni

Il patto stracciato
L’avvertimento di Letta ad Alfano: le sirene di Matteo portano al voto

Stracciato il patto di governo per il 2014, smarrito il foglio excel su cui andavano scritti programma e tempi di attuazione, riposti il jobs act, la riforma della Bossi-Fini, le unioni civili, al dunque Renzi sfodera la «staffetta». All’alba della Terza Repubblica torna di moda un arnese della Prima, che annuncia un cambio in corsa alla guida del governo. Segno che i riti della politica non cambiano mai. E c’è un solo modo perché il segretario del Pd succeda al vicesegretario del Pd a Palazzo Chigi: deve togliergli la fiducia. La mossa compete a lui e a nessun altro, «non apriremo noi la crisi», gli va ripetendo infatti Alfano in questi giorni segnati da incontri e telefonate, avances ed emoticon. È evidente l’accerchiamento a Letta, la manovra in atto per scalzarlo. Talmente rapida da aver sorpreso il capo del governo, che pure se l’aspettava e che però non voleva crederci quando - durante la direzione del partito - ha sentito il segretario rivolgersi a lui in modo algido, chiamandolo «presidente del Consiglio». D’altronde c’è qualcosa che il leader del Pd può promettere e che il premier non può invece garantire: stabilizzare la legislatura fino al suo naturale compimento, riformare la legge elettorale e le istituzioni. Durare, insomma, fino al 2018.

È il sogno di (quasi) tutti i partiti e di (quasi) tutti i parlamentari, ma che secondo Letta nasconde un inganno: «Non fidatevi di Renzi. Vi porterebbe presto al voto», continua a dire a ogni interlocutore, in specie ad Alfano, che si è stancato di questa patologica architettura della coalizione, dove i ruoli si sono rovesciati. Ncd, che doveva essere la forza corsara, si trova costretta a reggere il peso del governo, mentre il Pd si tiene le mani libere. «Questo derby mi ha stufato», ha spiegato il vicepremier, pronto in settimana a presentare le sue proposte di programma che giacciono in attesa del duello in casa altrui: «L’Italia non può più aspettare».

Invece aspetterà ancora due settimane. La prossima sarà impiegata per l’esame a Montecitorio della legge elettorale, in quella successiva andrà in scena lo show down in casa democratica. Ma è chiaro che - siccome tutto si tiene - il passaggio alla Camera per la riforma del sistema di voto sarà preludio dell’intesa di governo. Perciò non sono previsti scossoni, «l’Italicum non sarà terreno per ricatti o minacce», ha assicurato il vicepremier a Renzi, anche perché - a quanto pare - i due hanno concordato altri «miglioramenti» al testo. E comunque, se qualcosa andasse storto, ci sarebbe sempre il passaggio al Senato.

Il nodo resta però l’esecutivo, e nelle consultazioni informali il segretario democratico ha fatto capire all’«alleato» di Ncd di non credere alla capacità dell’attuale gabinetto di rilanciare l’azione programmatica, men che meno alla forza di dar vita a un Letta bis. A fronte di questo modo obliquo di avanzare la propria candidatura, Alfano ha messo l’interlocutore sull’avviso: «Non intendo prestarmi al gioco, e non puoi porre a me la domanda. Semmai sono io a essere creditore di una risposta. Posto che sto sostenendo un governo a guida Pd, tu che hai deciso di fare?».

La mossa tocca a Renzi, che una risposta l’ha già data, quando ha avvisato che «io non governerò mai con Forza Italia». Nel Nuovo centrodestra c’è però chi ritiene che l’avvertimento di Letta abbia un fondamento, non a caso Lupi continua ad attaccare il leader dei democratici, nel timore di vedere il suo partito eclissarsi nel cono d’ombra del Pd. Il punto è - come ha spiegato Alfano ieri in una riunione riservata - che «per quanto noi siamo leali con Enrico, e lo siamo, non siamo il partito del presidente del Consiglio. È il Pd che deve riconoscerlo come tale, ed Enrico deve porre la questione di fiducia al suo partito».

Quanto al tema se fidarsi o meno, non è categoria della politica. Sono gli interessi a muovere le convergenze e i patti. E gli interessi di Renzi e Alfano sembrano convergere. Nel breve termine sono agonisticamente concentrati sulle Europee, dove Ncd si giocherà la partita della vita e dove il segretario del Pd - per non perdere l’allure - dovrà dimostrare di non essere da meno del 26% preso cinque anni fa da Franceschini. Perciò l’idea di sfruttare la luna di miele con il Paese, appena arrivato al governo, lo attizza.
Sul lungo termine, invece, è una risposta che Renzi dovrà anzitutto a Napolitano. Ecco il vero scoglio di un’operazione complicata. Se è vero che l’attuale premier può garantire un orizzonte limitato al 2015, Renzi è in grado di assicurare riforme e stabilità fino al 2018 con la stessa formula politica del governo Letta? Dopo una prima fase assai ruvida, i rapporti tra il segretario del Pd e il capo dello Stato sono cambiati, il centralino del Colle squilla in continuazione fin dalla trattativa sulla legge elettorale, tanto da aver provocato in quelle settimane l’irritazione del Cavaliere: «Napolitano, Napolitano, sempre Napolitano...».
E Napolitano, che ancora tre giorni fa ha difeso Letta, avrà un ruolo decisivo. Certo, più i partiti prendono forza, più il Quirinale deve assecondare i processi politici. Ma la «staffetta» è gara tremenda. Nella corsa bisogna non far cadere il testimone.

08 febbraio 2014
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Francesco Verderami

DA - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_08/patto-stracciato-letta-alfano-9282db1a-9089-11e3-85e8-2472e0e02aea.shtml
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« Risposta #212 inserito:: Febbraio 17, 2014, 07:18:24 pm »

Il retroscena
La telefonata tra i due leader
Parte una trattativa difficile
La settimana chiesta da Ncd sarà utile anche al segretario Il primo problema da affrontare è quello dell’organigramma

Angelino Alfano durante le consultazioni al Quirinale, sabato (Ap/Riccardo De Luca)Angelino Alfano durante le consultazioni al Quirinale, sabato (Ap/Riccardo De Luca)

Il programma da stilare, l’organigramma da concordare, il pacchetto dei primi cento giorni da scrivere, la legge elettorale, le riforme istituzionali, e poi ancora i decreti di Letta da convertire, la corsia preferenziale in Parlamento da trovare, la missione europea da elaborare, l’intesa con i partiti di maggioranza, l’accordo con le forze d’opposizione... Benedetta sia la trattativa e i giorni che serviranno a completarla, per Renzi: perché se il leader del Pd avesse dovuto presentarsi stamattina da Napolitano già con i compiti fatti - come aveva in principio ipotizzato - si sarebbe trovato impreparato. A partire dallo schema approssimativo dei ministri, dove risalta la riga vuota dell’Economia che il premier in pectore starebbe pensando di riempire con l’ex capo di Eni e Telecom, Bernabè. La rapidità con cui il segretario democrat ha deciso di puntare a Palazzo Chigi non si combina con la natura e la complessità dei problemi da risolvere. Perciò la settimana di tempo chiesta da Alfano per chiudere l’accordo di maggioranza è un ritardo salvifico per Renzi. E chissà se i due hanno affrontato l’argomento ieri sera al telefono, dopo aver deciso di posticipare l’incontro, in attesa che Napolitano conferisca oggi l’incarico al sindaco di Firenze.

Sebbene una trattativa portata troppo alle lunghe - come spiegano autorevoli dirigenti del Pd - si porti appresso il rischio della paralisi, non c’è dubbio che il futuro presidente del Consiglio abbia bisogno del time out, primo assist fornitogli dal Quirinale. È evidente infatti che qualcosa si è inceppato nell’ingranaggio renziano, prima ancora della trattativa con le forze che dovranno sostenerlo. I «no» ricevuti per le poltrone ministeriali dal manager di Luxottica Guerra, dall’inventore di Eataly Farinetti e dallo scrittore Baricco appaiono al momento solo come sbavature mediatiche prima della partenza ufficiale del mandato.
Ma da oggi non saranno consentiti a Renzi ulteriori passi falsi, che potrebbero indebolire la sua immagine e anche la sua forza politica. E il diario è zeppo di compiti. Quello sull’organigramma è un problema da affrontare anzitutto con Alfano. Il braccio di ferro che si è innescato sui media attorno al peso di Ncd e al ruolo del suo leader nel governo, è una sfida che il Nuovo centrodestra non può né vuole perdere. E che si incastra dentro un altro problema: se è vero che Renzi lavora a una squadra più corta rispetto ai ventuno ministri di Letta, e se è vero che punta ad avere un gabinetto formato per metà di donne, con l’innesto di alcuni esterni, il premier in pectore si trova davanti a «un cubo di Rubik», come sottolineano nella maggioranza. E l’affaire Economia è emblematico. È risultato finora difficile trovare un politico che abbia i requisiti per rivestire quel ruolo. Ancora l’altro ieri Letta ha risposto no all’appello: «Sono in partenza per una vacanza. Non sarò in Italia nei prossimi giorni».

Si tratta però del primo step. Quello successivo - e che per Ncd sarà «determinante» - riguarda il programma. «Noi saremo rivoluzionari», ha detto ieri Alfano. E siccome anche Renzi vuole esserlo, bisognerà capire quale sarà il punto di compromesso. Sullo Ius soli e sui diritti per le coppie di fatto riuscirà quella che già viene chiamata la «necessaria transazione»? E sulle politiche economiche, fino a che punto la linea della «libertà fiscale» chiesta da Ncd sarà assecondata da Renzi, che deve fare i conti con l’ala sinistra del Pd? Per non parlare del tema lavoro, su cui è tutta da costruire la mediazione tra i principi di Job act proposti dal leader democrat e la proposta di legge già presentata dall’ex ministro pdl, Sacconi.
Al momento le carte dei partiti di maggioranza sono coperte, ma nella maggioranza ci si interroga su uno dei più importanti obiettivi che si è posto il futuro premier: la missione in Europa per negoziare lo sforamento dei parametri, su cui c’è grande attesa. Nei colloqui informali di questi giorni è emerso un problema: l’incognita sulla (possibile) assenza di interlocutori. Si può porre infatti la questione a una Commissione ormai in scadenza? Perché, se si dovesse attendere il varo del nuovo governo europeo, il timing slitterebbe al prossimo autunno. Ma la vera sfida è il piano dei primi cento giorni del governo, quelli della «luna di miele» con il Paese, su cui Renzi fa affidamento per lanciare la volata del suo Pd alle Europee. Ed è chiaro che quel piano interesserà anche Alfano, perché - superata l’attuale fase di reciproca diffidenza - se l’esecutivo dovesse partire, anche il leader di Ncd lavorerebbe a testa bassa per strappare consensi per la propria parte. Il piano però - raccontano esponenti democratici - non sarebbe ancora pronto.

E anche se lo fosse, andrebbe risolto un altro problema, che Del Rio e Franceschini hanno sottoposto a Renzi: il Parlamento è intasato da quattro decreti, e sarà complicato fargli spazio. Così sarà difficile tenere alla Camera il timing fissato con Forza Italia sulla riforma elettorale. A nome del Cavaliere, Toti ha messo il leader del Pd sull’avviso: «Se i patti non verranno rispettati, ci sentiremo sciolti dall’accordo». Brunetta a Montecitorio non vedrebbe l’ora di iniziare il filibustering. E il governo non è ancora nato...

17 febbraio 2014
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_17/telefonata-due-leader-parte-trattativa-difficile-91d2f4f6-979c-11e3-910c-771d54eec810.shtml
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« Risposta #213 inserito:: Febbraio 22, 2014, 08:02:22 am »

Retroscena.

L’incontro fra i due leader. Ncd: su Fisco, diritti e lavoro non torniamo indietro
Il difficile confronto nella notte
Il primo scoglio è il programma
Alfano: ci sono colonne d’Ercole che non possiamo superare. Il nodo dell’Italicum

ROMA - Renzi freme per cominciare la navigazione e anche Alfano sarebbe pronto a sciogliere le vele, ma senza aver concordato prima la rotta non lascerà il porto, perché «ci sono delle colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo andare». Sono bastioni invalicabili che rischiano di far fallire altrimenti la missione, costringendo Ncd a restare a terra. E non è tatticismo. Perciò si tratta nel cuore della notte, perciò il capo del Pd e il leader del Nuovo centrodestra si sono incontrati.

Nulla era scontato, tranne la volontà di arrivare a un compromesso. Ma certo ieri non potevano bastare degli scarni sms tra «Matteo» e «Angelino» per colmare il buco che rischiava di far precipitare la crisi. Il colloquio è andato abbastanza bene, anche se non ancora risolutivo.

Nei brevi messaggi del pomeriggio, ognuno aveva fatto valere le proprie ragioni: Renzi riteneva che alzare la tensione «non contribuisce a risolvere i problemi», Alfano era convinto che il suo partito avesse «esigenze sulle quali non posso tornare indietro». A Ncd serve il patto alla tedesca sul programma, che al vertice di maggioranza non era stato siglato: serve l’accordo sulla norma per legare la legge elettorale alla riforma del Senato - una sorta di «salva vita» della legislatura - che va messa nero su bianco, non affidata a un gentlemen agreement; e serve infine l’intesa sulla squadra dei ministri, che non può essere lasciata a giochi mediatici e a boatos di Palazzo.

Sono nodi che non sono stati ancora del tutto sciolti, ma il primo passo di stanotte è significativo. D’altronde, la novità,rispetto alle precedenti trattative di governo, è che per la prima volta il programma ha la stessa valenza dell’organigramma.

E c’è un motivo se Ncd batte su questo tasto, perché - come dice Sacconi - «è in gioco la constituency del Nuovo centrodestra», la sua ragione sociale, il suo stesso nome. Sui temi del lavoro, del fisco, dei diritti - Alfano l’ha spiegato a Renzi - «non possiamo tornare indietro», conscio che Berlusconi avrebbe gioco facile a massacrarli, bollandoli come «ruota di scorta» del Pd: «E noi, che abbiamo l’ambizione di costruire un moderna coalizione moderata, non lo consentiremo».

Per questo motivo la trattativa è entrata in una fase delicata, e un passo falso potrebbe davvero far saltare tutto. È una partita doppia con il Cavaliere nei panni del convitato di pietra, vissuto dentro un pezzo di Pd come un potenziale alleato che «potrebbe regalarci la sorpresa di un appoggio esterno», e visto dentro Ncd come un temibile avversario. Ed è in un clima di tensioni e di sospetti che si è dipanata la giornata. Ogni dettaglio ha alimentato reciproche diffidenze. Perché Del Rio, al tavolo del programma, quando i centristi hanno chiesto garanzie sulla legge elettorale, ha scartato dicendo che «non è questa la sede per discuterne?». E perché dalla sede del Pd, in testa il portavoce della segreteria Guerrini, per tutto il giorno sono rimbalzate sui siti e sulle agenzie voci sull’assenza prima di Alfano poi di Lupi dalla lista dei ministri?

«Sono espedienti tattici», aveva commentato il leader di Ncd, riunendo il suo partito. La stessa «estenuante» tattica adottata da Renzi con Letta e applicata ora per chiudere la vertenza di governo: stressare la trattativa sull’organigramma, per poi fare cedere l’alleato sul programma. E magari coprire mediaticamente il problema che in queste ore affligge il presidente del Consiglio incaricato sul ministero dell’Economia. Perché il leader del Pd sa che se dovesse assegnare a un tecnico come Padoan la poltrona di via XX Settembre, si porterebbe appresso l’immagine di un premier «commissariato» e non darebbe quel segnale di discontinuità a cui tiene prima di ogni cosa.

Alfano è pronto a collaborare, a cercare soluzioni condivise, ma non può né vuole superare le «colonne d’Ercole», come gli impone il nome del suo partito. «E Renzi - attaccava nel pomeriggio Quagliariello - non può immaginare che la discontinuità sia fare da solo il programma senza concordarlo con chi dovrebbe dargli la fiducia, non può ipotizzare da solo appoggi esterni che magari in futuro diventano interni, nè può pensare di fare da solo una squadra con ministri diversi o comunque da assegnare a dicasteri diversi».

Il leader del Pd a un certo punto ha compreso la portata della reazione del Nuovo centrodestra, i rischi che si portava appresso, aggravati da un sospetto che nel pomeriggio aveva preso corpo dentro Ncd, e cioè che l’idea di togliere Alfano dal Viminale fosse un segnale lanciato dai democratici a Forza Italia, un modo per consentire a Berlusconi di offrire qualcosa di più di un’«opposizione costruttiva» a fronte di un processo di «de-lettizzazione» della squadra di governo. Le ombre stavano per prendere il sopravvento, quando la trattativa è iniziata nella notte. Renzi non vede l’ora di partire, se è vero che sta già lavorando al discorso per la fiducia. E Alfano è pronto a salpare con lui, ma a patto di non superare le «colonne d’Ercole».

21 febbraio 2014
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_21/difficile-confronto-notte-primo-scoglio-programma-b6a6a3be-9ac0-11e3-8ea8-da6384aa5c66.shtml
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« Risposta #214 inserito:: Aprile 23, 2014, 01:21:51 pm »

Il retroscena
La via obbligata delle primarie per il prossimo leader del centrodestra
Le Europee del centrodestra, prima divisi e poi le primarie

di Francesco Verderami

Le Europee segneranno l’epilogo di una stagione, «saranno -per dirla con Casini - l’ultimo fotogramma di un vecchio film». Da quel momento nulla sarà più come prima, ed è un problema che riguarderà tutti. Soprattutto quell’area che fino a oggi è stata chiamata centrodestra, e che per venti anni ha formalmente rappresentato la casa dei moderati. Cosa rimarrà di un’epoca lo si scoprirà il giorno delle urne, ma è ormai evidente «il rischio che il nuovo bipolarismo passi dal duello tra Grillo e Renzi, alle cui capacità taumaturgiche la classe dirigente dovrebbe poi affidarsi nel tentativo di rinnovarsi», cioè di salvarsi. È un esito che l’ex presidente della Camera spera non si avveri, perché vorrebbe dire che un patrimonio politico è stato dilapidato. E in fondo quel patrimonio un po’ gli appartiene, compresa una quota parte di errori che non dimentica di addossarsi.

Il cantiere dell’area moderata
Proprio per questo motivo Casini confida che, passati i titoli di coda, una nuova generazione inizi a scrivere «un copione nuovo», con i vecchi leader pronti a dare una mano, a svolgere il compito dei «facilitatori» a cui si è già iscritto. Non è chiaro se ci sia ancora tempo e spazio per l’impresa, di certo «o si darà vita a un’area popolare di centrodestra o il futuro sarà un futuro da vassalli», senza più un corpo elettorale da rappresentare, «perché l’area moderata è già minata sotto il profilo politico dal tramonto di Berlusconi e dagli scontri tra le varie forze del centrodestra, ma è minata anche sotto il profilo sociale, siccome la crisi economica spinge verso posizioni estreme».

Per evitare di diventare «vassalli» di Renzi o Grillo è necessario quindi aprire un «nuovo cantiere», e il fondatore dell’Udc considera «positiva» l’alleanza tra il suo partito e l’Ncd di Alfano, «che è un primo tentativo di ricomposizione» di un mondo che «deve coinvolgere Forza Italia», soggetto imprescindibile per l’intrapresa. L’auspicio è che il Cavaliere sia partecipe della nuova sfida, che anche lui vesta i panni del facilitatore, «a meno che non decida di rassegnarsi al ruolo dell’opposizione a sua maestà». Già questa è una pesante incognita, sebbene l’idea di una riaggregazione - secondo Casini - «accomuni molti rappresentanti» della diaspora, e sarà tema della convention che presiederà il 9 maggio, unica tappa italiana di Juncker, candidato del Ppe alla guida della Commissione europea.

Il «plebiscito democratico»
Il nuovo film del centrodestra italiano, semmai vedrà la luce, si dovrà imperniare - a detta di Casini - su un copione originale: via il vecchio canovaccio, la nuova generazione dovrà sfidarsi per la leadership. Perché, come gli raccontò Sarkozy, «le leadership si rubano non si ereditano». Insomma, la futura classe dirigente e chi se ne intesterà la guida dovrà passare attraverso «un plebiscito democratico», che poi sono le primarie dette in altro modo: «Di sicuro non servirà convocare un conclave a porte chiuse dove scegliere un papa, che sarebbe sconfitto prima ancora di presentarsi alle elezioni». L’esempio è Renzi, quello che fa accendere e disperare al tempo stesso Berlusconi, convinto che il premier sia «un problema, ci sottrae i voti. Ma fa le cose che volevamo fare noi».

Forse Renzi si è imposto in politica grazie alla sua forza, o forse ha solo raccolto ciò che restava della politica a un’asta fallimentare. Il punto è se il centrodestra si vorrà condannare al vassallaggio, o cercherà di riscattarsi senza tentare furbizie e scorciatoie. Perché se è vera l’idea che circola in Forza Italia, di attendere cioè le Europee per modellare poi l’Italicum in base al risultato delle urne, vorrebbe dire che la storia recente non ha insegnato nulla. Giusto venti anni fa, gli eredi della Dc e del Pci provarono a dividersi le spoglie della Prima Repubblica cucendosi su misura la legge elettorale: si fecero il Mattarellum, ma vinse Berlusconi.

«I processi politici non si possono ingabbiare dentro degli schemi», riconosce Casini, che visse anche quel passaggio d’epoca. Ora che si approssima un altro tornante, serve «coraggio e freddezza, o il centrodestra sarà destinato alla parcellizzazione». Insomma sarà condannato a scomparire. Già nei sondaggi si nota il disorientamento di una parte considerevole di quell’elettorato, propenso a disertare le urne: è lo stesso disorientamento che colse venti anni fa gli elettori democristiani. Le categorie della politica che fino a oggi sono servite a muovere il bipolarismo sono saltate, e non è dato sapere se il governo Renzi sia la causa o l’effetto di quanto sta accadendo. Di certo quella che fu la casa dei moderati non potrà essere ristrutturata. Ne andrà costruita una nuova. O resteranno solo macerie.

19 aprile 2014 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_19/via-obbligata-primarie-prossimo-leader-centrodestra-c226b922-c77f-11e3-98e6-75c21d6c5e5d.shtml
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« Risposta #215 inserito:: Aprile 23, 2014, 01:24:41 pm »

Il retroscena
Così il sindaco prova a smarcarsi da Letta e Alfano
Legge elettorale, lo scenario di un accordo di maggioranza allargato a Forza Italia

Si è condannato al movimentismo, perché convinto che sia l’unico modo per non finire logorato da quei due «vecchi democristiani» seduti a palazzo Chigi. Perciò ieri Renzi ha aperto formalmente il confronto con gli altri partiti sulla legge elettorale. Ma il rischio che corre il leader del Pd è di rimanere vittima delle sue stesse manovre, finendo incastrato nel gioco dei veti incrociati. Se l’abbia messo nel conto o più semplicemente si senta costretto a farlo non è chiaro, di sicuro è consapevole del pericolo, e con lui i suoi più fidati consiglieri.

L’accelerazione impressa sulla riforma del Porcellum è un modo per tenere fede alla promessa sottoscritta alle primarie: il punto è che da questo momento il segretario democratico diventa il regista dell’operazione e non potrà scaricare su altri un eventuale fallimento.

Perciò Letta e Alfano lo attendono al varco, certi che alla fine l’intesa sul nuovo sistema di voto dovrà partire - come sostiene il leader del Nuovo centrodestra - «dall’alveo della maggioranza», per essere poi «allargata a Forza Italia». L’abbrivio sembra questo, e questi almeno sono i calcoli dei vertici di governo, disposti ad assecondare il timing dettato Renzi. È una convergenza di cui c’è traccia nei colloqui di ieri tra i rappresentanti dell’esecutivo e il capo democrat, è una tesi caldeggiata dal ministro Franceschini con il premier e il vicepremier, e che solo all’apparenza è paradossale: «Se la legge elettorale non venisse approvata rapidamente, allora sì che il fallimento farebbe saltare la legislatura, non viceversa».

D’altronde, se per un verso lo schema di Renzi delle tre proposte - che sono altrettante offerte distinte ad Alfano, Berlusconi e Grillo - spettacolarizza la sfida, dall’altro lascia intuire come la «rosa» presentata ai suoi interlocutori sia destinata a perdere ben presto due petali. Il primo è già caduto, e non tanto perché il «comico» ha già risposto con il solito «vaffa», ma perché in realtà il sindaco di Firenze più che a un’intesa con i Cinquestelle mira a quella cassaforte di consensi. È un progetto ambizioso, che nella strategia renziana garantirebbe la vittoria del Pd alle Politiche. Le avances a Berlusconi hanno invece un diverso obiettivo. Siccome il segretario democratico non si fida di Letta e Alfano, e teme un loro gioco di sponda, intende presentarsi al tavolo della trattativa minacciando l’asse con il Cavaliere, così da togliere al leader di Ncd la facoltà di porre veti. Di qui l’apertura di Renzi al modello spagnolo, caro a un pezzo di Forza Italia, e a cui il Cavaliere ha subito risposto mostrandosi disponibile all’intesa. L’ex premier è desideroso di partecipare alla sfida, «sono pronto a incontrare Renzi e ad accordarmi con lui», ha infatti detto, «ma a patto di ottenere le elezioni anticipate», accorpando a maggio Politiche ed Europee.

Ecco le avvisaglie dei rischi che corre il leader democrat, semmai iniziasse il gioco del cerino sulla legge elettorale: il movimentismo di cui è protagonista oggi, gli si potrebbe ritorcere contro domani. Perché un conto sono i desiderata di Renzi, che se potesse andrebbe alle urne anche domani, un conto sono gli spazi di manovra. E il voto anticipato non è nelle sue disponibilità. Non a caso lo stato maggiore del Pd ieri ha subito frenato dinnanzi alle richieste del leader forzista, che a sua volta si tiene le mani libere, e lascia i suoi dirigenti dividersi sul sistema di voto. Se Brunetta è favorevole al Mattarellum e Verdini propende per lo spagnolo, c’è chi - come il capogruppo al Senato Romani - sottolinea come «noi siamo fermi sulla difesa del bipolarismo, sapendo però che in Italia non c’è il bipartitismo». Traduzione: va privilegiata la logica di coalizione, e dunque un sistema che non uccida gli alleati ma li riunisca.

È un ponte verso Alfano che Berlusconi non ha mai fatto saltare, anzi. E c’è un motivo se il vicepremier intende tenerlo solido, se ribadendo la linea di un’intesa preventiva nella maggioranza, parla esplicitamente di un successivo «allargamento a Forza Italia». Dal ginepraio di mosse e contromosse, emerge il fatto che nella «rosa» delle proposte già una raccoglie il consenso dell’area di governo: il modello del «sindaco d’Italia», che è stato offerto da Renzi nel pacchetto, che non è inviso agli azzurri - visto come la Gelmini ieri ha evidenziato la «nostra disponibilità a discutere su qualsiasi sistema» - e che è stato preso al volo dal leader del Nuovo centrodestra: «Noi siamo pronti, e siamo pronti a fare in fretta».

A fronte della mano tesa da Alfano, come potrebbe il leader del Pd ritrarre la propria? Anche perché, se davvero vorrà portare a casa «entro gennaio» il primo voto della Camera sulla riforma, non ha molto tempo a disposizione. Il presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, Sisto, ha spiegato ai dirigenti del Pd che è possibile stare nei tempi, «a patto però che ci sia un accordo su un testo». Appunto.

03 gennaio 2014
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_03/cosi-sindaco-prova-smarcarsi-letta-alfano-e82e00c8-744e-11e3-90f3-f58f41d83fbf.shtml
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« Risposta #216 inserito:: Aprile 28, 2014, 12:07:34 pm »

Un TESTO corretto per disinnescare il fronte di Chiti
E Renzi prepara la strategia estrema
Il premier prepara una campagna in piazza e in tv

Di Francesco Verderami

«Se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto, i Cinquestelle oggi sarebbero il primo partito», dice Renzi, che ha un modo tutto suo per compiacersi senza giustificarsi della strategia con la quale tiene a bada Grillo nella sfida elettorale e Berlusconi sulle riforme. «Quel che abbiamo fatto» è una sequenza di mosse predeterminate che sfocia nella presa di palazzo Chigi ma parte fin dalle primarie: fu Renzi infatti - da candidato alla guida del Pd - a premere perché il Senato votasse subito la decadenza di Berlusconi; fu Renzi - da leader del Pd - a voler incontrare al Nazareno un Cavaliere ormai «dimezzato»; e fu sempre Renzi - vincolata ormai Forza Italia al patto sulle riforme - a spiazzare tutti, sostituendo Letta alla guida del governo.

La ricostruzione serve al premier per spiegare che solo così il Partito democratico può proporsi oggi come alternativa a M5S e può gestire senza contraccolpi i contorcimenti di Berlusconi sulle riforme. Ma «se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto», se cioè ci fosse ancora il governo Letta, Grillo non avrebbe rivali alle Europee e il Cavaliere avrebbe gioco facile a far naufragare il percorso costituente senza pagar dazio.

Invece il capo di Forza Italia non ha margini, stretto com’è in una morsa nel Palazzo e nel Paese: se da un lato Berlusconi non vuole dare a Renzi il voto sulla modifica del bicameralismo prima delle urne, perché teme di consegnare al leader del Pd tutto il dividendo elettorale, dall’altro non può né vuole offrire alla pubblica opinione l’immagine di chi ostacola un percorso di riforme che incrocia l’assenso popolare, perché rischierebbe di perdere ulteriore consenso.

È un azzardo a cui si aggiungerebbe un altro azzardo, l’extrema ratio che Renzi minaccia sapendo di usare l’arma come deterrente. Se davvero il Cavaliere si ponesse di traverso, gli lascerebbe la responsabilità dello strappo e a quel punto proporrebbe come unica alternativa il ritorno alle urne in autunno con una riforma della legge elettorale «varata a maggioranza». L’eventualità è vissuta con terrore da Forza Italia e dal suo leader, che vincolato dalla sentenza sul caso Mediaset sarebbe definitivamente fuori gioco.

Ecco perché l’opzione non esiste, Berlusconi non se lo può permettere. E comunque non glielo permetterebbe un pezzo consistente del suo stesso partito, se è vero che autorevoli esponenti azzurri sono convinti della necessità di non interrompere ora la legislatura. Ed è chiaro che una diversa decisione farebbe implodere Forza Italia. Il Cavaliere ne è consapevole, non a caso ieri prima ha seppellito in tv la riforma del Senato e l’Italicum, poi si è precipitato a rettificare. La verità è che l’ex premier cerca di proporsi come l’unico garante del processo costituente, tentando di evidenziare la «debolezza di Renzi nel Pd».

E non c’è dubbio che il presidente del Consiglio debba affrontare un passaggio complicato sulle riforme, siccome la commissione Affari costituzionali del Senato è vissuta dai renziani come la commissione Lavoro della Camera: una sorta di casamatta degli oppositori interni. Ma il premier è fiducioso: «E se la prossima settimana il nostro disegno di legge sulla modifica del bicameralismo verrà adottato come testo base, sarà game over». Secondo Renzi la spinta a trovare l’intesa nel Pd è data (anche) dai sondaggi, dall’aumento considerevole di consensi accreditato ai Cinquestelle: «C’è qualcuno di noi che ha istinti suicidi?»

Nemmeno Berlusconi li ha, solo che proprio i rilevamenti demoscopici lo inducono a chiedere una modifica dell’Italicum: altro che i costituzionalisti, è Grillo che lo preoccupa, è il timore di rimanere escluso dal ballottaggio e di riscoprirsi come capo di un terzo polo. Perciò il patto «va rivisto». Su questo punto Renzi non ha fretta, se ne riparlerà dopo le Europee. Per ora è concentrato a mostrarsi capace di centrare gli obiettivi prefissi. Sui contenuti lascia fare agli sherpa, convinto com’è che «gli italiani sono allergici alle discussioni sui dettagli».

Ma è nei dettagli che si annidano i rischi, i dettagli lo hanno costretto a fare l’alba insieme a Padoan, Delrio e Lotti, dopo aver presentato in conferenza stampa il decreto sull’Irpef: quei dettagli che la struttura del ministero dell’Economia poneva «come ostacoli», e che hanno spinto il premier fino a via XX Settembre per protestare con i tecnocrati del dicastero. Renzi non vuole «ostacoli» perciò fa mostra di non vederli. E se ci prova Berlusconi, non si scompone. A rispondergli ci pensa Schulz, il candidato del Pse alla guida del Commissione europea, che certo non avrà attaccato il Cavaliere senza prima aver informato palazzo Chigi...

25 aprile 2014 | 09:05
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_25/renzi-prepara-strategia-estrema-122a13f8-cc47-11e3-bd55-1293c86c2534.shtml
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« Risposta #217 inserito:: Maggio 10, 2014, 06:57:17 pm »

Sette giorni

Quel discorso per Marina

Di Francesco Verderami

C’è la figlia, poi ci sono i figli. E per la figlia già sette mesi fa aveva organizzato la discesa in campo: «Mai avrei immaginato di trovarmi su questo palco», è l’incipit del discorso scritto per Marina, che Silvio Berlusconi ha riletto nei giorni scorsi, trovandolo ormai superato. A logorare quel testo è stato il radicale cambio di scenario, in base al quale l’erede - se per davvero decidesse di misurarsi con il consenso - dovrebbe fare i conti con gli altri figli del Cavaliere, «perché Renzi e Grillo sono figli di Berlusconi», secondo l’ex ministro Matteoli. «Di Berlusconi, Renzi a suo modo ripropone l’epopea della rivoluzione liberale per il cambiamento dello Stato. Mentre Grillo - a detta del dirigente forzista - ha ereditato il profilo antipolitico», compresa la prosa iconoclasta, la stessa che venti anni fa contraddistingueva il Cavaliere, impegnato a bonificare la «cloaca romana».

Non è un caso, quindi, se l’ex premier aveva tentato di avvicinare i leader del Pd e dei Cinquestelle, perché in entrambi aveva rivisto un pezzo di se stesso. Ora che i due sembrano avergli strappato ruolo e primato, offrendosi agli elettori come i capi di un nuovo bipolarismo, Berlusconi si rammarica per quello che considera un suo errore: «Ho sbagliato e mi morderei la lingua», ha ammesso il Cavaliere, quando alcuni dirigenti gli hanno rimarcato i «troppi endorsement» a favore del premier democratico.

Ma le difficoltà non possono essere ridotte a questo passo falso. È vero, inseguendo l’abbraccio con Renzi, Berlusconi ha disatteso una regola aurea della politica, che ha sempre ripetuto ai suoi adepti e che lo ha reso vincente: «Non c’è grande partito senza un grande nemico». Ma il leader del Pd, non avendo l’imprinting comunista, impedisce oggi di riproporre il vecchio schema. C’è invece un altro problema, di cui il Cavaliere è consapevole, e che di fatto è stato evidenziato con il rilancio del marchio Forza Italia: un’operazione simile a quella decisa agli inizi degli anni Novanta dalla Dc, che ripropose il simbolo del Ppi perché sperava con un ritorno alle origini di rigenerarsi.

L’idea del futuro incarnato dall’eventuale discesa in campo di Marina resta così all’orizzonte per esorcizzare il declino, sebbene sia ancora legato a molte, troppe variabili. Di certo quel discorso - preparato lo scorso autunno - prefigurava la fine immediata della legislatura e il ritorno alle urne. Adesso tutto è cambiato, e c’è un motivo se il possibile «sacrificio» della figlia non pare aver acceso l’immaginario di quella parte dell’elettorato azzurro che - a detta dei rilevamenti demoscopici - sarebbe per il momento intenzionata a disertare il voto.

Il fatto è che gli «altri figli» di Berlusconi stanno cannibalizzando la competizione, come si fossero divisi l’eredità politica e mediatica del Cavaliere. Anche se nulla è scontato, visto che ieri non c’è stato sondaggista a non aver preso le distanze da se stesso e dai propri numeri. Diamanti su Repubblica ha esortato i lettori alla «prudenza», D’Alimonte sul Sole li ha invitati alla «cautela». L’unica certezza è «l’incertezza», per dirla con Pagnoncelli sul Corriere. Ma è evidente che Forza Italia non decolla, se Berlusconi ha già cambiato comunicazione in campagna elettorale. All’inizio c’era la sfida con Grillo per il secondo posto, ora - come se avesse già metabolizzato il terzo posto - cerca di invogliare l’elettorato, puntando al superamento di una certa «quota».

Già, ma quale? Se fosse «quota 20%» si tratterebbe del peggior risultato mai ottenuto da Berlusconi in undici competizioni dal ‘94 ad oggi. Perciò da ieri ha preso a parlare del 25%. Resta la preoccupazione di ritrovarsi il giorno dopo le urne dietro Renzi e Grillo, inseguito dalla profezia di Alfano che - dopo la separazione - disse che «senza di noi Forza Italia sarà un terzo polo». Il fatto è che la disgregazione del centrodestra potrebbe anticipare una crisi di sistema, che le ultime inchieste rischiano di accelerare. Infatti il leader di M5S - come nel ‘94 fece Berlusconi - vellica il giustizialismo, perché nel fuoco purificatore in cui si vedono bruciare gli altri è più facile pensare di purificare se stessi.

«O noi o loro», dice Grillo: un concetto semplice e rivoluzionario, con cui prova ad accomunare tutti gli avversari. E Renzi, l’altro «figlio» di Berlusconi, prova ad evitare l’equiparazione con il Cavaliere, e contrappone alla «rabbia» del capo dei grillini la «speranza» del suo esecutivo. Perché, ecco la novità, dai sondaggi è emerso che una parte consistente di elettori considera Renzi il leader di un «partito del governo». La partita elettorale dunque è vista come una sfida a due, e sembra al momento oscurare il ruolo dell’ex premier.

Gli effetti di questo nuovo scenario saranno chiari solo all’apertura delle urne, ma la morsa in cui si trova Berlusconi fa capire che sono pochi i margini di azione. Per questo motivo ha frenato i propri istinti e ha evitato la rottura sulle riforme con Renzi, per non consegnarsi a Grillo. Il Cavaliere, che sette mesi fa aveva preparato il discorso per la figlia, deve vedersela con i suoi «figli».

10 maggio 2014 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_10/quel-discorso-marina-7934d9dc-d80b-11e3-8ef6-8a4c34e6c0bb.shtml
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« Risposta #218 inserito:: Maggio 26, 2014, 06:17:55 pm »

Ora il premier è un uomo solo al comando
Un risultato senza precedenti Nuovi equilibri per fare le riforme
L’unica incognita per la maggioranza è il risultato di Ncd
Di Francesco Verderami

ROMA — È un mondo nuovo, una vera e propria cesura con il passato: di qua un Renzi dominus di un risultato senza precedenti, di là un Grillo assai ridimensionato nelle mire, in mezzo il tramonto di Berlusconi e del berlusconismo, con Forza Italia che assiste alla propria disfatta e il Nuovo centrodestra che lotta per la sopravvivenza. Così il Cavaliere, che pensava di poter ipotecare il successo del leader democratico — tenendo la golden share sulle riforme e una spada di Damocle sul governo — deve invece decidere come investire quel che resta del suo consenso, per contribuire a rifondare quella che fu la coalizione dei moderati. O consegnarla al tribunale fallimentare della politica.

Una cosa è certa, al di là della vittoria del Pd: è in atto una rivoluzione che può travolgere il sistema oppure rinnovarlo e fortificarlo. È un passaggio infatti che potrebbe spazzar via le ultime macerie della Seconda Repubblica o dar vita a un nuovo «arco costituzionale» attorno al presidente del Consiglio, un ombrello sotto il quale le forze che si contrappongono ai Cinquestelle decidono di mettere davvero mano alla Costituzione per non soccombere.

Ecco a cosa è servito il voto per l’Europa: a decidere le sorti dell’Italia. È stato allo stesso tempo un sondaggio sull’esecutivo, un referendum sulle riforme, uno stress-test sulla futura legge elettorale, una sfida tra le tre coalizioni: insomma è stato tutto fuorché un voto per Strasburgo, verso cui è aumentata l’ostilità del Paese, visto come è aumentato l’astensionismo. E non c’è dubbio che Renzi è da considerarsi l’unico vincitore, il punto di riferimento di chi nel Paese chiedeva la stabilità. Ma il risultato rischia di passare per una «vittoria dimezzata» per il suo governo, se il Nuovo centrodestra non superasse la soglia del 4%, perché il partito di Alfano è stato fino a oggi il «perno» della strana maggioranza: qualora non dovesse superare la prova, si aprirebbe un grave problema per Ncd e in quota parte anche per il premier.

Certo, Renzi ha oggi in mano la carta per «cambiare verso» al sistema e prendere l’abbrivio per arrivare fino al 2018. Le urne d’altronde parlano chiaro: è un affidavit per varare le riforme, non per passare subito all’incasso con il voto anticipato. Anche perché oggi manca la metà dell’elettorato all’appello, e l’esito della sfida potrebbe ribaltarsi. Ma è chiaro che per andare avanti servirà «un cambio di passo, per la ripartenza»: così lo definisce un autorevole dirigente del Pd, che ipotizza «di qui all’autunno» un «rimpasto» con cui «adeguare l’esecutivo al nuovo quadro politico», un riequilibrio «dettato dal riassetto dei rapporti di forza». Con Scelta civica cannibalizzata, e Ncd che balla sulla soglia del 4%, questa è l’opzione.

Insomma, non c’è la prospettiva di allargare i confini dell’area di governo a Berlusconi. I Democratici, con il loro leader in testa, si sono sempre detti contrari all’ingresso di Forza Italia nell’area di governo. Renzi, nei colloqui riservati delle settimane scorse diceva che «un conto è se i gruppi parlamentari di Alfano si allargano un po’, un’altra cosa è se cambiasse la composizione della maggioranza». E allora bisognerà verificare cosa vorrà fare il Cavaliere, a urne chiuse. Sulle riforme, dovrà stabilire se far da «padrino» a un nuovo «arco costituzionale» o consegnarsi a un ruolo marginale. Resta da capire quali contropartite potrà ora chiedere al capo dei democrat, e se Renzi sarà disposto ad accettarle.

Il «bipolarismo sbilenco» che si delinea, una riedizione del duello tra Dc e Pci, con M5S nel ruolo di forza alternativa al sistema, cambia i termini dei patti finora stipulati: per il governo, per le riforme e anche per la legge elettorale. Era evidente che le Europee sarebbero state un test per l’Italicum, e il test non è stato superato. Il rischio è che questo modello di voto venga accantonato, di sicuro andrà modificato. È vero che il centrodestra — sommando i consensi ottenuti da tutti i partiti che facevano parte della vecchia Casa della libertà — potrebbe tentare di competere con il Pd per la conquista di Palazzo Chigi, ricacciando indietro Grillo, al ruolo di leader di un terzo polo. Ma l’area berlusconiana — in crisi dopo la fine del Pdl — sembra aver perso spinta propulsiva, e comunque si appresta ad affrontare una cruenta resa dei conti tra Forza Italia e Ncd.

Il destino del Nuovo centrodestra si riflette sul destino del governo, e viceversa. Nel senso che — in prospettiva — questo partito potrebbe venire risucchiato nell’orbita renziana a meno di un cambio di linea che i suoi dirigenti già mettono nel conto. Ma la forza del premier non lascia molti margini agli alfaniani e nemmeno a Berlusconi. Il premier è il nuovo magnete, la zattera a cui le stesse forze di centrodestra sembrano doversi aggrappare per non soccombere. È un’alleanza di necessità, che attorno al segretario del Pd potrebbe coagulare quel nuovo «arco costituzionale» chiamato a varare le riforme e portare il sistema verso la Terza Repubblica. Ma non dovevano essere elezioni Europee?

26 maggio 2014 | 06:50
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2014/elezioni-europee/notizie/risultato-senza-precedenti-d4faffda-e490-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml
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« Risposta #219 inserito:: Maggio 28, 2014, 12:19:40 pm »

Il partito democratico
Il premier e i primi effetti del voto sulla coalizione
Cosa potrebbe cambiare negli equilibri interni al governo
E se Lupi optasse per Strasburgo, Renzi dovrebbe cambiare una casella

Di Francesco Verderami

Forte in Europa e senza avversari in Italia, da oggi ricomincia la luna di miele tra Renzi e il Paese, perché il risultato delle Europee ha di fatto resettato il suo rapporto con l’opinione pubblica che tre mesi di governo sembravano aver logorato: d’altronde non era mai accaduto che il voto decretasse un solo vincitore. Ma c’è un motivo se il premier ha scelto di non enfatizzare la vittoria, se ha detto che «Grillo non va sottovalutato». È vero che il tramonto del berlusconismo e il netto ridimensionamento dei Cinquestelle gli offrono la chance di aprire un lungo ciclo politico, ma la «febbre» del malcontento potrebbe tornare a salire rapidamente se non ottenesse al più presto dei risultati a Roma come a Bruxelles.

Non c’è dubbio quindi che il leader del Pd voglia accelerare sulle riforme, ed è consapevole che i suoi competitori non abbiano la forza né la voglia di cambiare la sua agenda, però sa di dover attendere che la polvere della competizione elettorale si posi, così da capire gli effetti del voto sugli equilibri delle forze alleate e avversarie. Effetti che potrebbero già modificare la squadra di governo e imporre a breve dei «cambi in corsa», al di là del rimpasto ipotizzato dopo il semestre europeo: se Lupi decidesse infatti di lasciare il ministero delle Infrastrutture per sedere a Strasburgo, Renzi sarebbe chiamato a operare una sostituzione di peso nel suo gabinetto.

È impensabile che Alfano, in tal caso, non chieda per un rappresentante del suo partito la guida di quel dicastero, cosi come è presumibile una trattativa con il premier. Certo, nessuna altra forza potrà vantare pretese, visto che Scelta civica è ridotta a prefisso telefonico, ma è anche vero che i rapporti di forza tra Pd e Ncd da domenica sono mutati e i Democratici potrebbero tentare di forzare la mano. Renzi tuttavia non ha interesse a rompere l’incantesimo nella sua coalizione, le parole di «gratitudine» rivolte ieri al Nuovo centrodestra dimostrano che il suo intento è di rassicurare l’alleato, unico «superstite» della mattanza elettorale, ma che - uscito debole dalla prova del voto - teme in prospettiva di venire soffocato dall’abbraccio. Non a caso Alfano ha provato a divincolarsi, dicendo che «il governo non è un monocolore Pd».

In ogni caso, ecco un primo effetto del test europeo, perché è evidente che se Lupi optasse per l’Europa, lo farebbe con l’intento di dedicarsi a tempo pieno di Ncd e del processo di ricostruzione del centrodestra. Un processo nel quale - per quanto possa apparire paradossale - Renzi è parte attiva. Abile nel tenere un piede nel campo di Agramante, il leader dei democrat si è finora garantito il rapporto con Berlusconi sulle riforme, garantendo così al Cavaliere una centralità nell’area moderata che al momento impedisce il progetto di ricostruzione. È un’Opa camuffata, quella di Renzi, mentre tra la «generazione dei quarantenni» di quel che fu il Pdl, si lancia i primi segnali. Tra le invettive reciproche degli esponenti forzisti e di Ncd dopo il voto, non è sfuggita l’apertura di Fitto - autentico acchiappa preferenze azzurro - alle primarie. «Almeno una cosa concreta», ha commentato Alfano. Il resto si vedrà, le Regionali saranno fra un anno...

La lunga marcia nel deserto che attende il centrodestra si fa più complicata proprio per la presenza sul sentiero di Renzi, che per un verso tiene nella maggioranza di governo Ncd e per l’altro tiene nella maggioranza per le riforme Forza Italia, alle prese con un dilemma: se assecondasse il premier nel progetto di revisione istituzionale, gli consegnerebbe almeno il successo alle prossime elezioni politiche; se rompesse, se ne assumerebbe la responsabilità, offrendo al capo del Pd la possibilità di denunciare chi vuole far restare l’Italia «nella palude» e di andare al voto anticipato nel ruolo della «vittima».

Sia chiaro, il premier mira a durare sfruttando la propria capacità attrattiva, e punta a costituire quel nuovo «arco costituzionale» di cui sarebbe l’artefice. Anche la manovra di accostamento ai grillini va letta in questo senso, in attesa di vedere come reagiranno i gruppi parlamentari dei Cinquestelle, dove il malcontento finora era stato tacitato dalla campagna elettorale. Al momento è necessario che la polvere della competizione si posi, prima che Renzi acceleri di nuovo, con un occhio alle riforme e uno alle manovre per il Colle, argomento affrontato nelle segrete stanze e tenuto al riparo per non bloccare la stagione costituente. Ma se il Parlamento dovesse davvero far sul serio e modificare la Carta, la corsa per il Quirinale (già iniziata) si aprirebbe ufficialmente.

27 maggio 2014 | 08:16
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http://www.corriere.it/politica/14_maggio_27/premier-primi-effetti-voto-coalizione-3d0e5c0a-e565-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml
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« Risposta #220 inserito:: Maggio 31, 2014, 10:28:17 pm »

SETTEGIORNI

Forza Italia e i rischi dell’asse con la Lega. Il piano di Alfano
L’obiettivo è tornare uniti con una coalizione. Lupi resta nell’esecutivo ma spiega che l’Ncd ora ha l’obiettivo di ricostruire il centrodestra
Di Francesco Verderami

Il centrodestra è un fortino in macerie e senza più difesa, che solo un nuovo esercito e una rinnovata alleanza potrà salvare dal rischio delle invasioni, delle annessioni, dell’irrilevanza e dell’oblio, che sono ben peggiori della fine.

Alle viste c’è l’armata di Renzi, che ha già varcato la frontiera e mira a insediarsi definitivamente su un territorio mai conquistato dal Pd. Il «partito della nazione» non è uno slogan rubato al centrodestra, è l’annuncio di un’invasione del centrodestra che il premier prepara in vista delle prossime elezioni, dove si presenterà con «volti nuovi e di provenienza moderata», quegli stessi volti che Berlusconi non è riuscito ad avere tra le sue file, e che invece stanno riservatamente accettando l’offerta del leader democratico.

Potrà quindi bastare al Cavaliere offrirsi al dialogo con Salvini, pur di salvare il suo castello? Anche perché il Carroccio vuole il suo castello: «Puntiamo a egemonizzare il centrodestra», spiegava il giorno dopo le Europee il leghista Fedriga. L’intesa con Berlusconi serve per far calare il ponte levatoio di Forza Italia e occuparne poi la piazza d’armi. D’altronde, cosa pensi Salvini dell’ex premier è presto detto: «È un bollito», commentò dopo averlo incontrato ad Arcore un paio di mesi fa, senza esser mai riuscito a parlargli in privato. E quando il Cavaliere intuì lo stato d’animo dell’ospite, a disagio per l’incombente presenza della senatrice Rossi, gli disse: «Lo so, è peggio di Rosi Mauro», famosa per esser stata la «badante» di Bossi e l’artefice di un altro cerchio magico.

Altri tempi, altra storia, altri giudizi sul «vecchio Umberto», a cui pure Berlusconi diede talvolta del «mascalzone», ma non con il tono sprezzante usato l’altro giorno per Salvini: «Non fatemi parlare di lui. Si è permesso di darmi dell’ottantenne e di dire che vorrebbe rottamarmi». E allora, è questo il prezzo da pagare per non mostrarsi solo e finire isolato? Oltre le differenze (sostanziali) tra una forza che milita nel popolarismo europeo e un’altra che ora è alleata con il Fronte lepenista, è possibile che il leader storico del centrodestra stia consegnando il segno del primato a chi finora ha capitanato l’intendenza?

«È una follia», sostiene Fitto insieme a molti dirigenti azzurri. «È una follia», sostiene Alfano insieme a tutto Ncd. E c’è un motivo se pezzi importanti di ciò che è stato il Pdl si esprimono allo stesso modo, pur restando ognuno nel proprio accampamento. Non è un caso se pensano e propongono a Berlusconi l’idea di un nuovo esercito e di una rinnovata alleanza di centrodestra. Ma è bastata l’idea delle primarie per far scattare in Forza Italia l’accusa di «lesa maestà», di «tradimento», epiteti accompagnati il giorno dopo dalla solita smentita. «È un metodo che ha già danneggiato la nostra comunità politica e umana», commenta la Carfagna, che così dicendo tocca le proprie ferite e ricorda le ferite di chi ha scelto un’altra strada.

Eppure proprio quei segni della divisione diventano ora i segni di una vecchia appartenenza. Ecco perché Lupi si offre al dialogo: «Quando decidemmo di restare al governo, lo facemmo per senso di responsabilità per la ricostruzione del Paese. Ma il nostro impegno politico è per la ricostruzione del centrodestra». Non chiede abiure il ministro, e certo non è pronto a farne: «Resto nell’esecutivo», dice. E il caso del rimpasto è chiuso. Almeno per ora il premier non potrà procedere all’ingresso del capogruppo democratico Speranza nel suo gabinetto. Si apre invece un’altra fase nei rapporti tra Pd e Ncd, che vorrà caratterizzare la sua presenza a palazzo Chigi, lasciando aperto qualsiasi scenario futuro.

Nel frattempo propone a Forza Italia la nascita di quel cantiere necessario a riedificare i contrafforti del fortino diroccato e minacciato dal «partito della nazione», e che non può essere lasciato in dote al Carroccio. Per riuscire nell’intento «bisognerà che tutti si rimettano in gioco», ha detto Alfano riunendo l’altro giorno i gruppi parlamentari del suo partito. E se la Lega lo immaginava già pronto a intrupparsi con Renzi, il ministro dell’Interno ha inteso smentirlo: «Il centrodestra è nel nostro DNA, è nel nostro nome. È la nostra missione, il nostro orizzonte, la nostra prospettiva». Ognuno con le proprie insegne, però, «perché il progetto di Ncd va avanti. Occorreranno battaglie forti e visibili, al governo e nel Paese. Non sarà un compito facile né breve. Chi ha paura lo dica. Ma non si crea un partito in pochi mesi». Né si ricrea una coalizione in poche settimane.

I modelli da cui trarre spunto sono tanti. Ncd ipotizza quello della Coalicion popular, che in Spagna avrebbe nel tempo dato vita al partito popolare. Dentro Forza Italia si pensa all’Ump francese, che garantì al gollismo di sopravvivere a De Gaulle. In un caso come nell’altro, è chiaro il messaggio rivolto a Berlusconi. Perché tutti sono pronti a competere, senza sconfessare il proprio ceppo d’origine. Ma nessuno vuole rassegnarsi alle invasioni, all’irrilevanza, all’oblio. Cose ben peggiori della fine.

31 maggio 2014 | 11:04
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_31/forza-italia-rischi-dell-asse-la-lega-piano-alfano-b2bb1b4e-e8a0-11e3-8609-4be902cb54ea.shtml
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« Risposta #221 inserito:: Luglio 07, 2014, 12:23:43 am »

Sette giorni
Così cambia la strategia sui trattati Ue
I consigli del Colle e il piano da 10 miliardi

Di Francesco Verderami

Dovrà trasformare il prossimo autunno in una nuova primavera per evitare un rapido inverno a se stesso e al suo governo: il rilancio dell’economia sarà per Renzi una sfida da «dentro o fuori». Nel puzzle che in parte ritiene di aver completato con l’intesa bipartisan sulle riforme istituzionali, è questo il tassello mancante. E anche il più importante. Non basta infatti saper gestire in equilibrio l’accordo (vero) con Berlusconi, il dialogo (finto) con Grillo e l’alleanza con Alfano, a cui ha promesso che «non farò patti assassini contro di te» sulla legge elettorale.

È sulla crescita che il Paese attende Renzi alla prova: da settembre non gli sarà più consentito scaricare la crisi italiana sugli «ultimi inconcludenti venti anni», né potrà bastare il fatto che «l’Italia è uscita dalla depressione» se continuerà a galleggiare ai margini della recessione. Manca un tassello al premier, o gli salta il puzzle. Ed è in Europa che vincerà o si perderà, entro dicembre. La legge di Stabilità - «il mio biglietto da visita» - si preannuncia come un difficile banco di prova, che in molti - nell’opposizione ma anche nella maggioranza - ritengono dovrà essere preceduta da una manovra correttiva. «Si sbagliano», assicura Renzi: «D’altronde sono gli stessi che non ne hanno mai azzeccata una». La sfrontata determinazione con cui confuta le tesi dei «gufi di destra e di sinistra», si combina con un approccio diverso alla soluzione del nodo economico che rischia di strangolarlo.

E se ancora pochi mesi fa, da leader del Pd, attaccava palazzo Chigi e il «rigorista» Enrico Letta, sostenendo che «il vincolo europeo del 3% è anacronistico e si può sforare», da capo del governo ha accolto i suggerimenti di Giorgio Napolitano, con il quale si è confrontato prima dell’inizio del semestre di presidenza italiano: «Matteo, non è opportuno chiedere la modifica dei Trattati. È preferibile lavorare sulle clausole dei Trattati». Quel giorno al Quirinale, accompagnato da una delegazione dell’esecutivo e dal titolare dell’Economia, Renzi si rese conto che non avrebbe abbattuto l’ostacolo europeo, «andresti incontro a una sconfitta», e che al massimo avrebbe potuto aggirarlo.

Padoan, d'intesa con Napolitano, spiegò che nelle pieghe delle norme «c’è spazio» per recuperare soldi alla bisogna: «Dieci miliardi», da trattare a Bruxelles. Attorno a questa complessa mediazione è in corso la battaglia, su questo si regge il rapporto con la Merkel, che alla riunione del Ppe si è spesa per il premier italiano, «su cui possiamo puntare». Perciò Renzi non si è curato degli attacchi che gli ha rivolto nell’Europarlamento il capogruppo popolare Weber, «che non è della Cdu, il partito della cancelliera, ma della Csu bavarese. E anche in Germania si fa politica mica solo in Italia...». Così come non gli ha fatto velo l’offensiva della Bundesbank, che a suo giudizio era «un siluro lanciato contro Draghi», e che in Italia gli ha fatto gioco, perché lo propone come difensore degli interessi nazionali. Ma al dunque, c’è da completare il puzzle, e c’è intanto da fare affidamento sul ministro dell’Economia, che dopo una fase iniziale di (reciproca) diffidenza ora Renzi chiama «il mio capo».

Sono due i fronti, uno è posto sulla trincea della «flessibilità» per ottenere intanto qualche margine, l’altro sulle riforme da varare: fisco e lavoro, che è carne viva per il Paese. Riuscirà il premier nell’impresa? Ieri ha annotato con una punta di soddisfazione come «per la prima volta questo mese c’è un segno positivo sull’occupazione». Poca cosa però, e il flebile segnale di luce si unisce all’ombra sugli 80 euro, che ha garantito a Renzi un ritorno elettorale ma non un ritorno sui consumi. La sfida si gioca su ben altri livelli, e Renzi confida di riuscirci. Presentando a Barroso la sua squadra di governo, l’ha rappresentata in scala come la maggioranza in Europa: «Ci siamo noi socialisti e democratici, c’è una forte presenza popolare con Alfano, e poi - ha concluso volgendosi verso la Giannini - ci sono anche i liberaldemocratici, che non hanno ottenuto un buon risultato alle elezioni, ma lasciamo stare...».

Sulle battute non ha cambiato verso, bisognerà vedere se ha cambiato atteggiamento. Cosa farà se non riuscirà a completare il puzzle? Prima di dimettersi da premier, Enrico Letta si congedò dagli alleati di Ncd con una profezia: «Vedrete. Renzi rilancerà e poi rilancerà ancora. Finché alla prima occasione vi porterà al voto». Anche questa è la scommessa.

5 luglio 2014 | 10:41
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_05/cosi-cambia-strategia-trattati-ue-1e319ce8-041e-11e4-80b4-bb0447b18f3b.shtml
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« Risposta #222 inserito:: Agosto 02, 2014, 10:07:11 am »

Sette giorni

Renzi, la doppia maggioranza e il «settembre nero» da superare
L’asse con il partito e la strategia con Forza Italia.
Il premier ai suoi: «Autunno difficile, ci aiuterà fare cose nuove»

Di Francesco Verderami

Tra soglie di sbarramento e parametri economici, tra legge elettorale e legge di Stabilità, Renzi si appresta ad affrontare un settembre che rischia di esser nero. «È da giugno che in troppi preparano un settembre nero contro il governo e per gli interessi più svariati», dice Alfano per spiegare come dietro la sfida dei numeri si celino gli avversari dell’esecutivo, che a vario titolo - dentro e fuori il Palazzo - proprio a quei numeri si affidano per veder saltare il banco. Nell’attesa c’è chi si predispone già al soccorso: «Se avrai bisogno di una mano...», ha lasciato cadere Berlusconi l’altro giorno al telefono con il premier. Accadde più o meno la stessa cosa quattro anni fa, quando il Cavaliere ospitò ad Arcore l’allora sindaco di Firenze, offrendogli il potere. Ma l’altro, piuttosto che ottenerlo (forse) per delega e (sicuramente) ad interim, rispose: «Grazie, faccio da me».

È successo anche stavolta, Renzi vuole ballar da solo. «Con Forza Italia non ci sono le condizioni per una comune responsabilità sulle questioni di governo», ripete il vice segretario del Pd Guerini. Ma non c’è dubbio che la fase sia «molto delicata», è stato lo stesso presidente del Consiglio a riconoscerlo ieri, al pranzo con i capigruppo di maggioranza del Senato. Un incontro che di per sé è una notizia, perché segnala una svolta nelle relazioni del capo del governo con la sua rappresentanza parlamentare, guardata finora con sospetto e perciò tenuta a debita distanza. Ma la battaglia al Senato sulle riforme istituzionali ha cambiato verso al rapporto, e il rendez vous a palazzo Chigi è servito a Renzi per consolidare il legame, per rendere tutti partecipi della sua strategia: «Forza Italia resta un interlocutore privilegiato sulle riforme ma non è un alleato, non è condizionante».

Insomma, schema che vince non si cambia. Il leader del Pd intende proseguire «fino al 2018» con la tattica della «doppia maggioranza» che gli sta per garantire al Senato il primo voto sulla modifica del bicameralismo. Ma in vista del «settembre nero» rafforza intanto l’argine della maggioranza di governo, consapevole che «l’autunno sarà difficile»: «Tuttavia, proprio le difficoltà ci aiuteranno a fare cose nuove». Non è dato sapere quali saranno le «cose nuove» che dovrebbero trovar spazio nella legge di Stabilità, e che sarebbero alla base di certe frizioni con il ministro dell’Economia. C’è un motivo però se giovedì, in Consiglio dei ministri, il premier ha voluto rassicurare la sua squadra di governo: «Piano piano ce la faremo. E supereremo le critiche attraverso la ripresa dell’occupazione. Perché assieme ai dati negativi, ci sono anche dei dati positivi».

Quei centomila occupati in più sono per Renzi un fragile germoglio da coltivare nel deserto dello scetticismo che lo circonda. Basterebbe infatti una manovra per bruciarlo. Ecco il punto. Per questo annuncia il decreto «sblocca Italia» e intanto prova a diffondere ottimismo nel Paese, perché - come evidenzia il ministro Lupi - «l’economia può ripartire anche se gli italiani riacquisiscono fiducia». Nel salone del governo, l’altro giorno, parlava Renzi ma sembrava Berlusconi: «...Eppoi, certo, se Ballarò ogni giorno descrive l’Italia come un Paese dove va tutto male, è chiaro che gli italiani si deprimono». E allora via all’abbattimento dei tabù della sinistra, compresa l’autorizzazione alle trivellazioni in Sicilia e Basilicata per garantirsi l’energia: «Non si capisce perché - dice il premier - dobbiamo comprare all’estero quello che abbiamo in casa, e che non viene sfruttato a causa di burocrati impegnati solo a bloccare tutto».

La battaglia contro la nomenklatura e l’establishment è un chiodo fisso di Renzi, un filo rosso accompagna le critiche ai sindacati «che rischiavano di mandare a monte l’accordo su Alitalia», lo scontro con le Sovrintendenze «che vorrebbero gestire a loro piacimento i musei», e per ultimo il ben servito a Cottarelli sulla spending review: così facendo, cavalcando l’anti-politica, Renzi pensa di riaffermare il primato della politica. Il rischio è di ritrovarsi da solo, quando gli servirà un sostegno. E il rischio si avvicina, è il «settembre nero».

Il problema sono i numeri: quelli del bilancio dello Stato e quelli sulle soglie per la legge elettorale. Sono due fronti diversi e insieme minacciosi. Il premier però confida di arrivare all’appuntamento con l’autunno politicamente rafforzato se - come sembra - palazzo Madama darà il via libera alle modifica del bicameralismo prima della pausa estiva. Anche in questo caso, Renzi non ha accettato i suggerimenti di quanti lo esortavano alla prudenza sulle riforme istituzionali: no, voleva vincere prima di mediare. E adesso, dopo giorni di baraonda, sgombrato il campo dall’ipotesi del Senato elettivo - attorno a cui ruotava la sfida con le opposizioni - si appresta a un fine settimana di trattative su alcuni punti del provvedimento: è un modo per smentire quanti lo accusavano di una «deriva autoritaria».

Sulla legge elettorale invece la mediazione sarà più lunga e faticosa per far accettare a Berlusconi le preferenze e un abbassamento della soglia di accesso al Parlamento, che dovrebbe calare fino al 4%, come per il sistema delle Europee.

La «doppia maggioranza» finora ha garantito al premier il gioco al rilancio a Roma. Ma un conto sarà mediare con il Cavaliere sui numeri del sistema di voto, altra cosa sarà patteggiare con Bruxelles sui numeri del bilancio pubblico. Per settembre le previsioni non annunciano tempo sereno su palazzo Chigi. Basterà l’ombrello a Renzi?

2 agosto 2014 | 07:16
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_02/renzi-doppia-maggioranza-settembre-nero-superare-45c0ff06-1a03-11e4-8091-75f99d804c44.shtml
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« Risposta #223 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:39:05 pm »

La linea garantista che agita il Pd

Di Francesco Verderami

Tenere una linea sulla giustizia può essere difficile per Renzi quanto tenere a posto i conti pubblici. Prima da leader del Pd e poi anche da presidente del Consiglio, Renzi ha vissuto finora pericolosamente la sua stagione, oscillando sulle questioni da codice penale tra gesti intransigenti ed enunciati garantisti. Il modo in cui ieri ha difeso l’ad di Eni - accusato di una presunta tangente per una concessione petrolifera in Nigeria - è parsa una svolta, perché è stata insieme la rivendicazione della scelta fatta cinque mesi fa con la nomina di Descalzi, e la difesa di un principio costituzionale: «Rispetto le indagini e aspetto le sentenze».

Insomma, è una posizione coraggiosa, che rompe con gli atteggiamenti a volta farisei del passato e tende a restituire alla politica i suoi spazi e il suo primato. Il fatto è che Renzi non si è sempre mosso così da quando è balzato sulla scena. È vero che c’è una differenza tra un manager e un rappresentante del popolo. È vero che nel mondo del business internazionale il confine tra lobbismo e «stecca» è assai labile. Ed è vero infine che certe inchieste si portano appresso il rischio di quei «danni collaterali» - come li definisce il Giornale - a causa dei quali famose aziende di Stato italiane hanno perso commesse multimilionarie all’estero.

Tuttavia l’approccio del premier non fu lo stesso quando non era ancora premier. Ai tempi del «caso Fonsai» - che portò all’arresto dei Ligresti - il rottamatore chiese infatti le dimissioni del Guardasigilli del governo Letta. Secondo Renzi, la Cancellieri si sarebbe dovuta dimettere per via di quella telefonata con i familiari degli arrestati, durante la quale il ministro della Giustizia aveva criticato la decisione dei magistrati: «Indipendentemente se abbia ricevuto o meno un avviso di garanzia, sono per le sue dimissioni. Non è un problema giudiziario, questo. È un problema di opportunità politica».

L’«opportunità politica» fu lo scudo dietro cui Renzi protesse il suo garantismo e iniziò a picconare #enricostaisereno. Fu infatti per «ragioni di opportunità politica» - fresco vincitore delle primarie nazionali - che risolse con una telefonata il «caso Barracciu», la dirigente democratica vincitrice delle primarie in Sardegna e finita nell’inchiesta sulle spese pazze del Consiglio regionale. Lei era solo indagata, lui allora era solo segretario del Pd. Lei fece un passo indietro nella corsa da governatore, lui - appena diventato premier - le diede un posto nel governo. Fu un cambio di rotta tanto brusco quanto incomprensibile. Accusata di peculato, la Barracciu fu difesa dalla Boschi: «Non è nostra intenzione chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia». Una posizione garantista, non c’è dubbio: ma perché non venne adottata prima?

Sarà stato per ragioni di «opportunità politica», le stesse che indussero Renzi ad avallare il voto a scrutinio palese della Camera sulla richiesta d’arresto - avanzata dalla procura di Messina - del deputato pd Genovese, che era solo indagato e non condannato. Fu una scena raccapricciante agli occhi di molti dei parlamentari dem. E la scelta iper giustizialista - non contrastata dal premier - più che una ragione di opportunità politica si rivelò un caso di opportunismo elettorale, visto l’approssimarsi delle Europee e la battaglia con il Movimento 5 Stelle. Lo si capì dal tweet di Renzi, qualche minuto dopo il voto (favorevole all’arresto) di Montecitorio: «Ora Grillo si asciughi la bava alla bocca».

Tenere parametri garantisti è complicato quanto restare dentro i parametri europei. Eppure il premier sembra stavolta intenzionato a non deflettere, e così come si è mosso a difesa di Descalzi, non si è mosso - almeno così pare - per invitare al passo indietro il compagno Bonaccini, in corsa per le primarie del Pd in Emilia Romagna e accusato dalla Procura bolognese dello stesso reato che impedì alla Barracciu la candidatura in Sardegna. Una svolta che sconta le contraddizioni del passato, perché mentre Renzi non intervenne a difesa di Genovese per risparmiargli la galera preventiva, si è esposto con l’ormai ex governatore emiliano Errani, che pure era stato condannato in secondo grado e al quale però aveva chiesto di restare al suo posto.

L’applauso per «Vasco», strappato domenica scorsa a Bologna dal segretario del Pd al popolo della festa dell’Unità, ha coinciso con l’offensiva riformista del premier sulla giustizia, con il tweet sulla responsabilità civile dei magistrati («chi sbaglia paga»), con il taglio delle ferie ai togati, con quel «brrrr che paura» con cui ha risposto agli attacchi dell’Anm. Renzi, che dismesso il vecchio Cda della «ditta», sembra volerne dismettere anche la linea politica. A questo punto resta da capire se si tratta solo di un caso di «annuncite», o se davvero il premier vorrà rottamare il giustizialismo insieme allo Statuto dei lavoratori. E se così fosse, bisognerà vedere se reggerà il Pd. A meno dell’ennesima correzione di rotta per ragioni di «opportunità politica».

13 settembre 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_13/linea-garantista-che-agita-pd-26f992aa-3b0e-11e4-9b9b-3ef80c141cfc.shtml
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« Risposta #224 inserito:: Settembre 27, 2014, 04:08:07 pm »

SETTEGIORNI

Berlusconi, il governo Renzi e l’idea di sostituire Ncd nell’esecutivo
Finora l’«operazione Lassie» per togliere ad Alfano la golden share della maggioranza in Senato, non ha sortito effetti

Di Francesco Verderami

Berlusconi vuole allearsi con Ncd per i governi regionali o vuole sostituirsi a Ncd al governo nazionale? Ultimamente pensieri parole opere (e omissioni) del Cavaliere - assai contraddittori - hanno alimentato il dubbio sul suo reale intento: cerca Alfano o aspira a Renzi? Vuole ricostruire una coalizione di centrodestra per battere poi Renzi nelle urne o pensa piuttosto di asfaltare il Nuovo centrodestra per poi allearsi con Renzi in Parlamento? È una domanda che ormai si pongono apertamente anche dentro Forza Italia, siccome gli indizi sono numerosi, tanti quante le impronte che Berlusconi ha lasciato sul telefonino nel corso dell’estate, passata a corteggiare i senatori transitati con Alfano: per Schifani e Bonaiuti - visti i rapporti di un tempo - non ha avuto bisogno di intermediari. Mentre a Verdini, Tajani, Ghedini e Romani ha lasciato il compito di saggiare la disponibilità degli altri a tornare insieme.

Il Cavaliere, si sa, è abile nel toccare le corde giuste, e per ogni interlocutore - da Colucci a D’Alì, da Viceconte a Gentile - ha usato il tasto dei ricordi, il tono struggente dell’amarcord. Peccato che la cordialità (ricambiata) non abbia fatto breccia, per ragioni politiche e interessi personali. D’altronde quale senso avrebbe avuto - vista l’offerta che veniva avanzata - lasciare Ncd, passare un paio di giorni all’opposizione e poi tornare per una via diversa di nuovo in maggioranza? E in più, con Forza Italia in «overbooking» e la vecchia guardia azzurra minacciata dal ricambio generazionale, chi mai tornerebbe in Parlamento?

Così l’«operazione Lassie», voluta da Berlusconi per togliere ad Alfano la golden share della maggioranza in Senato, non ha sortito effetti. E visto che non riusciva a superare l’ostacolo, il Cavaliere - come raccontava ieri Libero - ha provato ad aggirarlo, puntando a costruire un altro gruppo, nel quale far confluire pezzi di Ncd e di centristi, da unire ad altri parlamentari che militano nel gruppo delle Autonomie. Ma anche questa iniziativa non è decollata, e Schifani - stufo di vedersi tirato in ballo - spiega che «c’è piena sintonia con Alfano» e che «questi malevoli rumors sono finalizzati a ostacolare l’unificazione di Ncd con l’Udc e i Popolari di Mauro».

Strana storia, quella del centrodestra: di giorno si riuniscono per stabilire come andare insieme alle Regionali, e la sera c’è chi si adopera per soffiare l’argenteria in casa altrui. Il «caso Bugaro» - l’ormai ex coordinatore ncd delle Marche - è emblematico. Non è certo un «selfie» che ha indotto Alfano a porsi l’interrogativo: «Berlusconi vuole ricostruire o vuole vendicarsi?». Domanda retorica, visti gli indizi, disseminati dal leader di Forza Italia. Dell’offerta di alleanza fatta in agosto a Renzi, per esempio, c’è traccia nei sondaggi che il Cavaliere aveva commissionato prima dell’incontro, e che pare abbia lasciato in copia sulla scrivania del premier.



È un lavorio frenetico, quello di Berlusconi, che continua a ripetere di aver fatto la «cosa giusta» rompendo le larghe intese con il governo Letta. Però, mentre le sue parole provano a giustificare quella scelta, le sue azioni rivelano che sta tentando di rimediare all’errore. Non si spiega altrimenti il modo in cui ha argomentato le sue avances ad alcuni alfaniani, l’idea cioè - in prospettiva - di «farmi promotore di un partito popolare. Capisci, così sarebbe più facile avere un rapporto con Renzi, piuttosto che chiamarci Forza Italia».

È un ripensamento strategico che sta dietro il sostegno al Jobs act e che cova sotto la cenere della riforma elettorale. Sull’Italicum infatti il Cavaliere tentenna, e coltiva intimamente il sogno di tenersi il proporzionale. Renzi ha fiutato puzza di bruciato. Così si torna alla domanda: Berlusconi vuole allearsi con Ncd alle Regionali o vuole sostituirsi a Ncd al governo? Tutto non può avere.

27 settembre 2014 | 09:38
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_27/berlusconi-governo-l-idea-sostituire-ncd-7c9ae7ba-4610-11e4-a490-06a66b2e25ed.shtml
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