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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 134067 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Ottobre 26, 2011, 04:42:09 pm »

Il retroscena

Altolà di Silvio all'amico Umberto: stavolta non c'è un «piano B»

Il Senatur conscio dei rischi: «Evitiamo troppi danni».

Con la crisi, via 80 tra deputati e senatori pdl


ROMA - «Stavolta non abbiamo un piano B» dice Berlusconi. La verità è che nessuno ha un «piano B», non solo il premier e il centrodestra. Perché in questa fase la caduta del governo - per quanto auspicata dalle opposizioni - spiazzerebbe tutte le forze politiche, presentando il conto a un Parlamento dove al momento non esiste una maggioranza numerica e politica in grado di varare provvedimenti economici draconiani. Per quanto si susseguano le suggestioni e i nomi su possibili alternative al Cavaliere, l'unica cosa certa è che una crisi farebbe coriandoli degli attuali partiti, a iniziare dal Pdl, dove si paventa un'emorragia di cinquanta deputati e trenta senatori.

Ecco lo scenario che lunedì si parava davanti al capo del governo e al suo alleato Bossi: divisi sulle misure da adottare per scongiurare la disfatta, hanno consumato un Consiglio dei ministri straordinario senza trovare l'intesa, malgrado entrambi sappiano che una rottura li separerebbe irrimediabilmente anche alle elezioni. Per questo motivo alla riunione di governo il Senatur aveva evocato la «saggezza» per «evitare di farci troppi danni». E il danno irreparabile sarebbe una mancata intesa sulle riforme strutturali.

Ma quali?
Maroni lunedì mattina aveva lavorato per smantellare le barricate issate da quanti nella Lega si oppongono al progetto di revisione del sistema pensionistico chiesto dal Cavaliere. Convinto da tempo che Berlusconi debba fare «un passo di lato» per agevolare il ricambio generazionale nel centrodestra e consentire il rilancio dell'alleanza, riteneva tuttavia che non fosse questo il momento, bensì gennaio.

Una delle possibili soluzioni nella trattativa sulla previdenza porta il suo nome. È sua infatti la riforma - varata quando era ministro del Welfare - su cui il Carroccio era parso disponibile a trattare: quello «scalone» che il governo Prodi aveva abolito quattro anni fa. La prospettiva che il piano fosse considerato insufficiente dall'Europa, ha indotto però il titolare dell'Interno a sparigliare, chiedendo a Berlusconi di spostare dalle pensioni alla pubblica amministrazione l'attenzione del governo, per risanare le casse dello Stato.

Il gioco si è così fatto pesante, fino a evocare la crisi dell'esecutivo. Certo, tocca a Bossi l'ultima parola, «tocca a te decidere Umberto», ha detto il premier al capo leghista. Nelle sue mani non ci sono solo le sorti di Berlusconi, ma dell'alleanza così come finora è stata. In caso di divorzio non resterebbe più nulla. O dentro o fuori, stavolta non ci sono alternative, «stavolta - come ha spiegato il Cavaliere - non abbiamo un piano B».

La trattativa che il Senatur ha definito «uno slalom tra i paletti», nel quale servono le doti di «quel maestro di sci che è Tremonti», si è complicata. Manca quell'unità di intenti chiesta da Gianni Letta in Consiglio dei ministri: dinanzi all'«amara medicina» da ingoiare, a fronte di «provvedimenti impopolari» da adottare, «siamo chiamati alla coerenza. Per fare certe cose bisogna essere tutti d'accordo su tutto. O dovremo essere conseguenti nelle scelte». Anche per evitare che al premier «venga addossata la crisi dell'euro, responsabilità che non è sua».

L'obiettivo era impedire che a Bruxelles Berlusconi venisse posto di nuovo al banco degli imputati, sebbene «il vero banco di prova - come sostiene Frattini - non siano la Merkel e Sarkozy e nemmeno la Commissione europea, ma i mercati». Una bocciatura del progetto di risanamento e sviluppo da parte dal circuito finanziario internazionale, equivarrebbe a una mozione di sfiducia al governo. Perciò il Cavaliere ha premuto tutto il giorno affinché Bossi aprisse alla mediazione sulla previdenza.

Il punto però non è tecnico ma politico. E quando ieri mattina Maroni ha avvisato che «sulla previdenza abbiamo già dato», il motivo era chiaro: voleva pungolare Berlusconi a non accettare passivamente i «diktat» dei partner europei. Secondo il titolare del Viminale bisognava rispondere «a muso duro» a Sarkozy, perciò è rimasto soddisfatto dalla nota con cui nel pomeriggio il presidente del Consiglio ha ricordato alle cancellerie di Parigi (ma anche di Berlino) che l'Italia «non accetta lezioni da nessuno».

Ma dinnanzi alle insistenze del Cavaliere sulla necessità di varare un intervento radicale in materia di previdenza, Maroni ha rammentato che «l'abbiamo già fatto»: «Questa estate la nostra riforma è stata certificata anche dall'Europa. Non è che adesso non va più bene, solo perché Sarkozy deve salvare settantadue banche francesi esposte ai titoli tossici».

Il fatto è che, nel gioco dello «scaricabarile» a Bruxelles, il premier italiano è più debole, e per la prima volta senza «un piano B». Resta da capire chi ne abbia uno alternativo, nella maggioranza come nell'opposizione. Se la crisi economica sfociasse in crisi politica, il conto sarebbe salato per tutti.

Francesco Verderami

25 ottobre 2011 09:05© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/economia/11_ottobre_25/verderami-berlusconi-bossi_2df3fbfc-fec8-11e0-b55a-a662e85c9dff.shtml
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« Risposta #151 inserito:: Ottobre 26, 2011, 05:09:59 pm »

gli scenari

Gli alleati frenano: nessuno romperà

Ma il governo resta appeso a un filo

Morsa Ue, inchieste, numeri in bilico.

Matteoli: un miracolo se rimaniamo in piedi


ROMA - L'unica cosa che fa sorridere Berlusconi in queste ore convulse è quando gli raccontano di un governo prossimo venturo, con un altro presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. Perché nessuno dei maggiorenti di centrodestra ha interesse a una crisi di governo, quantomeno non adesso. Non ce l'ha Bossi, che ha spiegato al premier come non ci sia «nessuna volontà di tradire il nostro rapporto e la nostra alleanza». E nemmeno Maroni, che l'altro ieri - al termine del Consiglio dei ministri - ha detto a Frattini quanto poi ha ripetuto ieri in Transatlantico ai leader delle opposizioni: «Non rompo con Silvio e figurarsi se rompo con Umberto».

Eppure è vero che il governo è appeso a un filo, «se resta in piedi sarà un miracolo», ammette Matteoli. Troppe pressioni e tutte insieme, l'accerchiamento di Bruxelles che appare più minaccioso della tenaglia romana, la questione giudiziaria che insegue il Cavaliere, la difficile sopravvivenza in Parlamento che costringe alla presenza i ministri ad ogni votazione della Camera. «Come riusciamo a resistere è un mistero», prosegue il titolare delle Infrastrutture: «Non ci sono precedenti a memoria di storia repubblicana». E nella sua ricostruzione degli eventi, Matteoli rivela che l'altra sera «il governo era praticamente morto».

Ci sarà un motivo se l'indomani Casini ha rincuorato i suoi deputati: «Ragazzi non temete, Berlusconi si salva anche stavolta». E la battuta era accompagnata da un sospiro di sollievo. Se il Cavaliere è ancora in vita, non è solo perché l'opposizione intende lasciare al centrodestra il «lavoro sporco» sul risanamento dei conti pubblici. Ma anche perché (quasi) tutti i dirigenti della maggioranza vogliono arrivare fino in fondo alla legislatura per gestire la fase elettorale. E (quasi) tutti la pensano come Maroni, che vive come una minaccia la crisi di governo prima di gennaio: un altro esecutivo porterebbe in dote una nuova legge elettorale, magari ostile alla Lega, se non anche al Pdl.

Insomma, non è all'ordine del giorno la prospettiva di una staffetta a Palazzo Chigi, «non ci sarà un altro premier del nostro partito in questa legislatura», ha avvisato Alfano a «Porta a Porta», spazzando via così le ipotesi di un governo guidato da Gianni Letta o dal presidente del Senato, Schifani. Qualche probabilità in più l'avrebbe un gabinetto tecnico, «e l'ipotesi Monti - secondo Matteoli - in questi ultimi tempi ha camminato più di quanto noi pensassimo. Se penso ai rapporti di Sarkozy con Fini, e al rinnovato interventismo del presidente della Camera...». Ma «l'ipotesi» resta sullo sfondo, come un promemoria per quanti nel centrodestra non avvertissero qual è il pericolo.

Perciò un'intesa tra Berlusconi e Bossi appare inevitabile prima della difficilissima missione europea del premier. Non c'è dubbio che il nodo della previdenza ha rischiato e rischia di strangolare il governo, e l'ultimo scontro tra i due alleati è ruotato attorno a un passaggio della lettera che il Cavaliere presenterà oggi ai partner dell'Unione, laddove si prospetta un «riassorbimento delle pensioni di anzianità». Il Senatur l'ha interpretato come un cavallo di Troia che avrebbe finito per colpire l'elettorato leghista. Un accordo sulle pensioni di vecchiaia restava più facile. Il Carroccio ha però chiesto e ottenuto che nel documento del governo fossero inserite restrizioni anche nel comparto pubblico, con una revisione del rapporto di turn over dei dipendenti statali e la possibilità che il personale venga messo in «mobilità».

Resta da capire se le misure approntate basteranno all'Unione, questo è il punto. E in molti temono che non basteranno. «Ma tu devi andare in Europa alzando la voce, Silvio», gli hanno ripetuto in coro Bossi e i ministri del Pdl, non si sa quanto convinti. La preoccupazione è concentrata soprattutto sulla risposta dei mercati al piano di risanamento e di rilancio. D'altronde, l'idea che il governo possa ricavare dalla vendita del patrimonio pubblico cinque miliardi l'anno per il prossimo triennio, non la beve neppure Berlusconi: «Chi mai potrebbe comprarsi gli immobili dello Stato? Magari io potrei permettermi l'acquisto di Palazzo Chigi».

Pur senza acquistarlo, a Palazzo Chigi il Cavaliere intende restarci per festeggiare il capodanno del 2012. Al traguardo del 2013, ormai, non ci crede: «Speriamo - aveva detto la scorsa settimana a un esponente del governo - ma la situazione è complessa». In questo contesto va inquadrato il «pessimismo» espresso ieri da Bossi, ovviamente contrario a governi tecnici, e proiettato semmai sulla scadenza della legislatura. Perché - a meno di una crisi a breve - è sulle prospettive future che i giochi sono aperti. E ai vertici della Lega resta minoritaria la pulsione di rompere con il Pdl.

Semmai c'è chi - come Maroni - ha in mente la costruzione di «un nuovo centrodestra»: l'asse con Alfano si corrobora oggi di un rapporto stretto nel governo con Sacconi. Non è un caso se il libro scritto dal ministro del Welfare, Ai liberi e forti , è stato definito dal titolare dell'Interno «un nuovo manifesto dell'alleanza». E il «ticket» per Palazzo Chigi con il segretario del Pdl pare visto in prospettiva positivamente anche dal Cavaliere. È questo il disegno che passa da un ritrovato accordo con i centristi di Casini, e punta alla riconquista di Palazzo Chigi, con l'obiettivo - per Maroni - di diventare vicepremier e di guidare la Farnesina: si tratterebbe di una novità politica, perché un leghista si assumerebbe il compito di rappresentare l'Italia all'estero.

«È giunto il momento dell'evoluzione», secondo il dirigente del Carroccio, in vista «tra non molto» di una «fase nuova, e di una rinnovata alleanza». Ma perché il processo si compia e possa misurarsi alle urne, è necessario che Berlusconi regga almeno «fino a gennaio». Sono solo due mesi. In queste condizioni sono un'eternità.

Francesco Verderami

26 ottobre 2011 08:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_26/governo-appeso-a-un-filo-verderami_86dddbf2-ff90-11e0-9c44-5417ae399559.shtml
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« Risposta #152 inserito:: Ottobre 29, 2011, 07:11:20 pm »

«C'è stato un periodo in cui era stordito, l'accerchiamento mirava a tramortirlo»

Confalonieri e la nuova metamorfosi «Silvio era accerchiato, si è ripreso»

Il presidente di Mediaset: «Berlusconi dice cose che pensano tutti, lui non è un ipocrita»


Dice Confalonieri che «Berlusconi è tornato ad essere Berlusconi». E si vede. Così com'è capace di risollevarsi quando ormai tutti lo danno per spacciato, il Cavaliere sa anche rendersi protagonista di stecche proverbiali.

L'ultima di Berlusconi è sull'euro, «moneta strana che non ha convinto nessuno». «Una cosa che pensano tutti», lo difende Confalonieri: «Solo che lui lo dice, perché non è ipocrita. O forse perché non ha la qualità dell'ipocrisia, che in politica passa per essere una dote». E non c'è dubbio che il premier con la sua battuta abbia toccato le corde di chi — per citare il patron di Mediaset — «dai tempi del cambio della lira ha sempre storto il naso». «Comunque non voleva attaccare l'Unione. Anzi, più volte ha detto che il problema della moneta unica è l'assenza di unità politica dell'Europa. Perciò il suo concetto va interpretato come un appello a costruire un'istituzione sovranazionale più forte. Altrimenti avremo sempre la Germania, la Francia, l'Italia... E la Grecia».

Ora che «Berlusconi è tornato a essere Berlusconi», l'amico di una vita si sente sollevato, perché c'è stata una fase durante la quale ha temuto, «un periodo in cui Silvio era stordito, accerchiato com'era da un'operazione politica, mediatica, economica e giudiziaria concertata, che mirava a tramortirlo. Sia chiaro, lui ci aveva messo del suo nel prestare il fianco. Ma ora si è ripreso, anche fisicamente».

Confalonieri smentisce di avere avuto un ruolo, sebbene l'abbiano sentito rincuorare e spronare lo stesso Gianni Letta. E smentisce che ci siano i suoi suggerimenti dietro la «campagna d'Europa», che sarà subito trasferita in Parlamento per rafforzare il governo: «È come nell'atto conclusivo di un film di cappa e spada, quando arriva la scena finale del duello. È il terzo tempo, e sarà un bel finale». A patto che Berlusconi «non si distragga», perché dovrà «sapersi destreggiare tra mille difficoltà», incrociando la lama con «corporazioni, sindacati, avversari e anche alleati». Se ci riuscirà, «avrà sfatato il mito dell'Italia ingovernabile» e «smentito i suoi oppositori», che gli chiedono di fare un passo indietro per mettere in ordine il Paese: «Davvero si può credere che un altro governo guidato da un Monti, un Tremonti o un Casini riuscirebbe a mantenere gli impegni assunti con l'Europa? E con l'appoggio di chi: della sinistra? Ma andiamo...».

Così dicendo, Confalonieri rovescia il ragionamento, fino a saggiare il polso di «quanti hanno invocato un esecutivo di responsabilità nazionale per varare le riforme»: «Visto che Berlusconi si appresta a presentarle in Parlamento, sono disposti a collaborare perché diventino leggi dello Stato?». Non cita Casini, ma è al leader dell'Udc che si riferisce, ed è a Bersani che fa cenno quando parla della «necessità di rendere competitivo il mercato del lavoro»: «Cosa farebbero i riformisti se si trovassero a votare delle norme ispirate da un giuslavorista come il professor Ichino?».

È questa la sfida, secondo il presidente del Biscione, «e la politica deve fare attenzione, perché gli italiani sanno capire se dietro certe formulette si cela solo l'intento di scardinare la cassaforte elettorale del premier». Confalonieri sostiene che non ci riuscirebbero, e non perché pensi che Berlusconi possa rivincere le elezioni. Anzi, «Fidel» fa capire chiaramente che per «Silvio» questo è l'ultimo giro, il «bel finale». Il punto è un altro: «Quanti mirano oggi a far cadere il Cavaliere, non capiscono che la sua uscita di scena sarà anche la loro fine. Siamo vicini al salto generazionale. Il futuro non sarà dei cinquanta-sessantenni. La prossima, sarà la stagione degli Alfano e dei Renzi, di quelli che vanno su Youtube e usano l'iPhone». Ed è un messaggio che il capo di Mediaset rivolge anche al centrodestra e in specie al Pdl, dove «c'è sempre qualcuno che scarica sul premier la propria acidità di stomaco».

È vago quando si tratta di fissare la scadenza della legislatura — «dipenderà dall'evolversi della situazione politica e dalla crisi» — ma è convinto che «Bossi non farà cadere Berlusconi, perché tra loro c'è un rapporto viscerale. Umberto è un grande politico, a cui tocca una difficile politica di confine, tra le esigenze del territorio a cui è legato e il dovere di governare a Roma». Semmai lo stupisce l'atteggiamento di Tremonti, diventato «un caso psicologico più che politico»: saranno le aspirazioni frustrate, le ambizioni malriposte, resta il fatto che Confalonieri è sorpreso, «davvero mi sorprende come una persona di valore faccia resistenza a una gestione concertata».

E non è un caso se, in questo tornante drammatico per il Paese prima ancora che per il governo, il patron del Biscione elogi Draghi, con cui «in passato ho scambiato qualche buon libro di letteratura inglese, di cui lui è ottimo conoscitore». Il presidente della Bce «non godrà delle simpatie di Tremonti ma dimostra come l'Italia abbia uomini di valore nei posti chiave, capaci di decrittare i giochi di potere e di tenerli separati dai problemi da risolvere. Ha fatto quindi benissimo il premier a sostenere la sua candidatura, così come fece bene a sostenere la candidatura di Prodi alla guida della Commissione europea, e prima ancora a indicare il professor Monti e la Bonino come commissari». «Ha fatto anche questo, il tanto deprecato Berlusconi. Gli unici a non accorgersene sono i collaboratori italiani dei giornali di lingua inglese, le quinte colonne del disfattismo nostrano che ritraggono il presidente del Consiglio nei panni di un buffone». In verità anche Sarkozy ha sorriso del Cavaliere: «Ma lui è il presidente della Repubblica francese e non ho titolo per parlarne. Me lo ricordo però quando, da ministro di Chirac, venne in Sardegna per chiedere a Berlusconi come fare per vincere le elezioni...».

Francesco Verderami

29 ottobre 2011 08:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_29/confalonieri-berlusconi-torna-ad-essere-berlusconi_724c57ae-01f7-11e1-b822-152c7b3c1360.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Novembre 05, 2011, 11:21:19 am »

Il governo - Gli scenari

E spunta un «piano B» «Pericoloso votare subito»

I timori di Frattini: rischiamo una sconfitta disastrosa


Come l’Italia, anche Silvio Berlusconi è in amministrazione controllata. Al pari del bilancio pubblico, il Cavaliere ha ormai un grave problema di contabilità in Parlamento. Ma non è più (soltanto) una questione di numeri, bensì di tenuta politica della maggioranza e soprattutto del Pdl. Perché se il governo dovesse andare in crisi, non c’è intesa sul voto anticipato.

Tanti passaggi istituzionali dovranno consumarsi prima che il centrodestra arrivi all’ultimo svincolo e decida se imboccare o meno la strada delle urne. È vero che Berlusconi sta facendo di tutto per garantirsi ancora la maggioranza alla Camera, e conta di recuperare «quelli che se ne vanno»: «Anche perché — dice — dove vanno?». In più il commissariamento economico dell’Italia deciso al vertice del G20, gli offre — per quanto possa apparire paradossale — una sorta di scudo politico, una protezione a tempo dall’offensiva degli avversari in Parlamento: c’è da votare la legge di stabilità «nell’interesse nazionale» e sarebbe «da irresponsabili » bocciarla.

Si tratta tuttavia di una linea Maginot già sgretolata, picconata dai documenti di quanti—nel suo stesso schieramento —chiedono al Cavaliere un «passo avanti», un «passo indietro», un «passo di lato», un passo insomma che lo porti a lasciare la guida del governo. Perciò non basta quello scudo, quindi nel Pdl si scruta con preoccupazione l’orizzonte e si ragiona ormai da tempo sulle prospettive future. Per quanto solo pochi giorni fa l’ufficio di presidenza del partito, all’unanimità, abbia dato mandato al segretario Angelino Alfano di tracciare una riga netta nel colloquio con Giorgio Napolitano, l’idea delle urne non convince.

«In caso di crisi bisogna evitare le opzioni estremiste che puntano allo scontro elettorale», ha spiegato Franco Frattini nel corso di una riunione riservata. La tesi del ministro degli Esteri è che «serve una rivisitazione della maggioranza. Serve per costruire una coalizione dei moderati che, prima nelle Camere poi nel 2013 al voto, risulti vincente nel Paese ». Le elezioni immediate invece segnerebbero — a suo dire—«una sconfitta disastrosa di tutto questo fronte: del nostro partito e anche dell’Udc. Saremmo responsabili di aver consegnato l’Italia non a un centrosinistra riformista ma a una sinistra radicaleggiante e giustizialista. Com’è accaduto alle Amministrative di Napoli». Il titolare della Farnesina —e come lui altri dirigenti di primo piano del Pdl—ritiene che se si arrivasse alla crisi di governo servirebbe con il Cavaliere «una chiarezza pari alla nostra lealtà nei suoi riguardi ».

Il fronte berlusconiano si mostra così segnato da una profonda crepa sulla strategia da adottare, e dietro Frattini sono in tanti a puntare su un «piano B» che non si riduca alla corsa verso le urne, ma si produca in un tentativo di agganciare in corsa l’Udc nella fase finale della legislatura, «garantendo alla nuova generazione di crescere per presentarsi poi al giudizio del Paese». Anche perché — si aggiunge a sostegno della tesi —nel caso si optasse per le elezioni, ci sarebbe il rischio «più che concreto » di uno smottamento nei gruppi di Camera e Senato: il fuggi-fuggi sarebbe l’effetto della proiezione del voto in caso di sconfitta, che annuncia una perdita di un centinaio di seggi parlamentari.

A Berlusconi toccherebbe quindi gestire il passaggio di consegne a palazzo Chigi, e appena qualcuno in questi giorni ha provato a sondare Gianni Letta, il sottosegretario alla Presidenza si è schermito: «È un’ipotesi che non prendo in considerazione ». «Per carità, per carità...». Sarà, ma non ha detto chiaro e tondo «no». Di sicuro non lo farebbe mai senza l’imprimatur del Cavaliere, che da quell’orecchio sembra non sentirci. «Per ora non se ne parla», e quel «per ora», per ora, vuol dire tutto e niente: c’è da tenere a bada Umberto Bossi, innanzitutto, e c’è da non offrire spazi alle incursioni di Pier Ferdinando Casini.

L’azione dei centristi si muove in questa fase su due piani: per un verso l’Udc mira a sottrarre parlamentari al Pdl, per un altro lancia segnali a Berlusconi. L’ultimo, offerto dal segretario Lorenzo Cesa a un emissario, è che «saremmo pronti a far passare la legge di stabilità senza problemi se Silvio preannunciasse le sue dimissioni alle Camere». Sarebbe il primo passo per poi dare il via a un governo di responsabilità nazionale «senza l’Idv». E il patto si estenderebbe anche ad alcuni provvedimenti sulla giustizia che ancora non sono diventati legge. Ma il governo di responsabilità nazionale è considerato da Alfano «niente più di uno spot elettorale», un modo per Casini di irretire quanti più deputati possibili del Pdl «prima di dare inizio alla mattanza» nelle liste, dove per loro non ci sarebbe comunque posto. Il braccio destro del Cavaliere si è convinto che il capo dei centristi punti ad affondare Berlusconi per poi andare alle urne «usando questa legge elettorale». E tuttavia gli sono chiare le difficoltà del premier e del suo esecutivo, accerchiato e con le ore che sembrano ormai contate.

Il fallimento di chi guida il governo, sta dentro il fallimento nella gestione dei rapporti del presidente del Consiglio con la sua coalizione e soprattutto con il suo ministro dell’Economia. L’atto conclusivo è stato il mancato varo del decreto, nel momento in cui Berlusconi ha chiamato al telefono Napolitano per annunciarglielo, proprio mentre Giulio Tremonti stava seduto davanti al presidente della Repubblica e scuoteva la testa in segno di dissenso. Altro che correre dietro gli «indisponibili », Bossi ha visto in quella scena la fine di una storia, e affrontando Tremonti gli ha gridato: «Che c... sei andato a raccontare per farci fallire tutti?».

Francesco Verderami

05 novembre 2011 07:19© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_05/verderami-spunta-un-piano-b_2587e82a-0774-11e1-8b90-2b9023f4624f.shtml
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« Risposta #154 inserito:: Novembre 06, 2011, 10:59:00 pm »

La crisi le scelte
 
Il Cavaliere pensa a «misure choc»
 
Tra le ipotesi, patrimoniale e prelievo forzoso
 
Scajola: «Non si può andare avanti»

 ROMA - L'unica certezza di Berlusconi è che «al Quirinale non c'è un capo dello Stato intento a ordire trappole». Tuttavia la fiducia che ancora gli accorda Napolitano è a tempo, e di tempo il Cavaliere non ne ha più. Indebolito dalle piazze finanziarie internazionali, accerchiato dalle manovre nei palazzi romani, e senza un accordo nel vertice d'emergenza convocato in serata, il premier ha trascorso la giornata meditando il varo di «misure choc» per salvare il Paese e il suo governo, entrambi a rischio default. Non c'è dubbio che gli «interventi straordinari» sui quali sta ragionando «mi fanno venire l'orticaria solo a pronunciarli». Dalla patrimoniale al prelievo forzoso, da un piano di dismissioni doloroso fino a una lunga teoria di condoni, Berlusconi valuta i provvedimenti da porre come sacchetti di sabbia sull'argine del fiume che ha già iniziato a tracimare.
 
«Mi hanno detto di fare come Amato», spiega il Cavaliere, che evoca così un'altra stagione economica drammatica, quella del '92, e le misure draconiane che vennero allora adottate per salvare la lira: guarda caso una patrimoniale sulla casa, un prelievo sui conti correnti e i depositi bancari, il blocco per un anno dei contratti del pubblico impiego e il blocco delle pensioni di anzianità. Tanto basta per far spuntare sul volto del premier una smorfia di disgusto mista a disappunto, perché ognuno di questi provvedimenti sarebbe «contrario ai miei capisaldi», al credo che ha divulgato per venti anni e che in parte ha già dovuto abbandonare con la manovra estiva.
 
Mentre i Btp continuano a cedere terreno sui listini, Berlusconi spiega alla Merkel che «farò quanto è necessario per difendere fino in fondo la credibilità dell'Italia», e con essa anche ciò che resta della sua credibilità nel consesso mondiale. Nel corso del colloquio il premier ribadisce che «il mio governo intende rispettare gli impegni», ma intanto si chiede e chiede «cosa posso fare più di quanto ho fatto». La risposta della cancelliera tedesca non si fa attendere, è un suggerimento che somiglia tanto a una perentoria richiesta: far validare intanto da un voto del Parlamento le linee guida del piano di risanamento presentato in Europa, una sorta di imprimatur preventivo in attesa dell'approvazione dei provvedimenti. La piena ha superato ampiamente i livelli di guardia quando Berlusconi accenna a Napolitano le «misure choc», prospettate ancora come ipotesi, segno della confusione che regna nella maggioranza e che viene indirettamente confermata dall'assenza di Bossi al vertice serale di Palazzo Chigi. E se è vero che la conversazione con il presidente della Repubblica convince il premier che «al Quirinale non si ordiscono trappole», è altrettanto vero che il Colle è risoluto nel chiedere atti di governo che tolgano l'Italia dal mirino della speculazione finanziaria. Il punto però non è stabilire quale sia il mezzo con cui varare i provvedimenti, poco importa se si tratti di decreti e di emendamenti da inserire nella legge di Stabilità: il nodo è il contenuto.
 
La maggioranza perde un altro pezzo: Antonione
 Ed è su questo che scoppia l'ennesimo scontro tra Berlusconi e Tremonti, considerato dal premier non più solo un «problema politico», ma un «fattore» dell'attacco speculativo all'Italia per via dell'atteggiamento assunto in questa fase: «Se un ministro dell'Economia si mostra scettico sulle misure che vengono adottate, che segnale trasmette ai mercati»? L'accusa che Berlusconi rivolge all'inquilino di via XX settembre di «tradimento». Per tutta risposta anche ieri sera, al culmine dell'ennesimo alterco al vertice, Tremonti ha invitato il Cavaliere a fare «un passo indietro», in nome «dell'interesse nazionale», delle «aste dei titoli di Stato sul mercato».
 
Ma il premier non ha intenzione di dimettersi, e ieri mattina aveva studiato una road map per resistere a Palazzo Chigi. Sul fronte istituzionale era (e al momento resta) sua intenzione convocare un Consiglio dei ministri con cui varare una prima parte di misure da presentare già ai partner internazionali del G20. Epperò sarà difficile realizzare questa parte del piano, visto che ieri sera non era stato ancora raggiunto un accordo. Sul fronte politico resta convocato l'Ufficio di presidenza del Pdl, pronto a chiedere - con un documento - che «tutte le decisioni in materia economica vengano accentrate a Palazzo Chigi». È un modo per mettere in mora Tremonti, e al tempo stesso per tenere saldo l'asse con la Lega, dato che «le misure - questo sarà scritto nella risoluzione del partito - dovranno essere coerenti con il piano preparato per l'Europa», quella sorta di programma di governo di fine legislatura firmato da Bossi, e che pertanto dovrebbe vincolare il Carroccio. Dovrebbe, visto che il Senatur con la sua assenza pare volersi tenere le mani libere. Ma non è questo il pericolo maggiore per Berlusconi, sono piuttosto le crepe nelle file parlamentari a destare allarme, l'ipotesi - fondata - che altri deputati lascino la maggioranza e lascino di conseguenza il governo senza fiducia a Montecitorio.
 
Per questo nella sua road map il Cavaliere ha previsto di presentarsi davanti alle Camere dopo il G20, non prima, come gli hanno chiesto ieri i leader del terzo polo. È evidente il motivo: il premier ha intuito il rischio dell'agguato e non intende andare al vertice di Cannes da «dimissionato». Dopo, invece, potrebbe farsi scudo dei provvedimenti per sfidare il Parlamento ad accettare il piano di risanamento «nell'interesse del Paese» o staccare la spina all'esecutivo. A quel punto - come spiegava in questi giorni il segretario del Pdl Alfano - «tutti dovranno sapere che dopo il governo Berlusconi non potrà esserci il governo dei congiurati, ma solo il voto anticipato».
 
Francesco Verderami

02 novembre 2011 17:17© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/economia/11_novembre_02/il-cavaliere-pensa-a-misure-choc-francesco-verderami_cb893d9e-0523-11e1-bcb9-6319b650d0c8.shtml
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« Risposta #155 inserito:: Dicembre 17, 2011, 11:29:04 am »

Settegiorni

Partiti e riforme - L'ultima speranza

Alfano Bersani e Casini decisi ad aprire un tavolo per una complessa ristrutturazione del sistema

Alfano, Bersani e Casini sono l'acronimo della «maggioranza», l'Abc della politica nell'era dei tecnici, e solo trovando un'intesa sulle riforme istituzionali segneranno il riscatto dei partiti.

Perciò i leader di Pdl, Pd e Terzo polo hanno intensificato i loro contatti, e con ogni probabilità si vedranno la prossima settimana: devono iniziare a discutere su un «progetto quadro» per una complessiva ristrutturazione del sistema, che dalla riforma del bicameralismo e dei regolamenti parlamentari arrivi fino al varo di una nuova legge elettorale. Solo così le forze politiche potranno tornare a legittimarsi agli occhi della pubblica opinione, altrimenti - come sostiene Bersani - «sarebbe difficile per i cittadini capire che i sacrifici producono cambiamenti». E per i partiti (tutti) sarebbe il game over.

Lo schema è chiaro al nuovo acronimo della politica, persino il percorso è per certi versi delineato. Il Senato dovrebbe occuparsi inizialmente della riforma delle Camere e della riduzione del numero dei parlamentari, mentre Montecitorio dovrebbe lavorare sulla revisione dei regolamenti. Della legge elettorale si discuterebbe solo dopo il verdetto della Corte Costituzionale sui referendum, sebbene - al pari di Bersani e Casini - anche Berlusconi sia ormai convinto che «la Consulta li boccerà». Il patto di «maggioranza» sulla revisione del Bicameralismo garantirebbe la blindatura della riforma, perché l'approvazione con i due terzi dei voti in Parlamento eviterebbe anche i referendum.

Ma serve un'intesa, serve che dalle parole si passi agli atti, così da sconfessare la tesi del «noi e voi» che fino a ieri Monti aveva applicato nei confronti dei partiti, e che alla lunga ha provocato una reazione unanime della «maggioranza». Dopo due settimane di passione, iniziate con la querelle sul taglio degli stipendi dei parlamentari e conclusa con la polemica sulle mancate liberalizzazioni, le forze politiche si sono ribellate all'andazzo. Dal Pdl al Pd, passando per il Terzo polo, tutti hanno puntato l'indice contro quella norma che era stata inserita nel decreto economico sulla decurtazione degli emolumenti di deputati e senatori. «Sapevano che era una misura inammissibile, che non era prerogativa del governo presentarla, ma l'hanno lasciata apposta», diceva ieri il democratico Gentiloni.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Catricalà ha provato a derubricare l'incidente, riconoscendo che si è trattato di una «stupidaggine». E sarà pur vero che inizialmente quella parte del decreto era stata scritta in modo differente, che sarebbe stato il ministro Patroni Griffi a modificarla. Ma a stupire tutta la «maggioranza» è stato il fatto che il Quirinale - sempre rigoroso sui testi legislativi - non è intervenuto subito per far cancellare quella misura prima che approdasse in Parlamento. «Non se ne saranno accorti», ha commentato prudente il centrista Rao, mentre l'evento ha indotto l'ex titolare della Difesa La Russa a gridare al «miracolo», ricordando come «si faticava ai nostri tempi». Sta di fatto che la norma, poi cambiata, ha suscitato indignazione nel Palazzo, non sul merito ma per il metodo. Si è trattato, a detta del leader radicale Pannella, di un «attacco al parlamentarismo, senza che si sia voluto sciogliere il nodo del finanziamento pubblico ai partiti».

L'idea di dover appoggiare un governo che con la sua mossa aveva vellicato le pulsioni dell'anti-politica non è andata giù ad Alfano, Bersani e Casini. E quando è scoppiata la polemica sulle mancate liberalizzazioni, è partita la controffensiva. Il capogruppo del Pd, Franceschini, è andato da Catricalà per avvisarlo che la misura era colma, «perché non è vera questa storia che ci saremmo opposti noi. Non è stato il Parlamento a bloccare le liberalizzazioni delle autostrade, quella parte è stata depennata con la biro del ministro Passera». Ecco cosa ha spinto l'esponente democratico a chiedere a Monti di non distinguere più tra «noi e voi», come se le cose buone fossero quelle del governo, mentre quelle cattive venissero dal sacco della politica. E Bersani, prima di intervenire in Aula, si è levato un sassolino dalla scarpa con il premier: era a lui che alludeva, infatti, quando ha definito «barocchi» gli accordi sul patto fiscale siglati in Europa che «non rassicurano i mercati».

L'umore era simile a quello di Alfano e Casini, che incontrando il capo del governo a Montecitorio lo hanno esortato a migliorare le relazioni preventive sui provvedimenti con le forze di «maggioranza». E Monti deve aver inteso il messaggio se ha dedicato buona parte del suo intervento per ringraziare del «lavoro prezioso» i gruppi parlamentari ed avvisarli che le liberalizzazioni le «faremo insieme». Il punto è che i politici sapevano - dando la fiducia ai tecnici - che avrebbero dovuto cantare e portare la croce, per espiare colpe ed errori del passato. Epperò non erano nè sono disposti a farsi dileggiare e delegittimare.

Toccherà all'acronimo della nuova maggioranza lavorare all'intesa per il riscatto. Certo non sarà facile superare le resistenze trasversali di chi - al Senato - è contrario a cambiare il sistema del bicameralismo perfetto. Così come non sarà facile trovare un accordo sulla nuova legge elettorale. Perciò Alfano, Bersani e Casini sono pronti ad incontrarsi per tentare una mediazione che al dunque porti al tavolo anche la Lega e l'Idv. Serve un compromesso, e serve che dalle parole si passi agli atti parlamentari. È l'abc della politica.

Francesco Verderami

17 dicembre 2011 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_17/alfano-bersani-casini-stretegie-verderami_a23f2f26-287c-11e1-b2e0-62df0bde9a01.shtml
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« Risposta #156 inserito:: Gennaio 21, 2012, 12:15:32 pm »

SETTEGIORNI

Il testo sull’Europa riscritto tre volte

Non stanno scrivendo una mozione parlamentare, stanno costruendo uno scudo per il governo in vista del vertice europeo di fine mese.
Perciò il ministro Moavero vigila sui partiti di «maggioranza» come fosse un ingegnere che bada ai calcoli di un progetto. E c’è un motivo se le forze che reggono l’esecutivo sono già alla terza bozza, se il responsabile dei Rapporti con l’Unione europea continua a chiedere correzioni al testo che i partiti vorrebbero inzeppare di pretese: «Non possiamo presentarci con richieste troppo stringenti», ha spiegato Moavero nei colloqui riservati di questi giorni. E non tanto perché le «richieste stringenti» — se non fossero conseguite—esporrebbero politicamente Monti, ma perché «potrebbero essere interpretate dai partner europei come un tentativo di voler diluire gli impegni presi sul fronte del rigore».

È un’impressione che l’Italia non si può permettere, «se vogliamo raggiungere l’obiettivo» in una trattativa che per il governo si preannuncia comunque «difficile». Siccome sarà sul debito pubblico che si concentrerà il braccio di ferro al tavolo europeo, Moavero ha illustrato il progetto del premier, quali saranno cioè «le richieste irrinunciabili» che verranno avanzate al vertice del 30 gennaio: avviare il piano di rientro dal debito a partire dal 2014 e non dal 2013, fare in modo che il piano sia condizionato al ciclo economico, e ottenere che nel computo dei conti vengano inseriti il sistema previdenziale e il risparmio interno, su cui l’Italia può vantare buoni numeri. Ecco su cosa verrà misurata la forza del governo italiano, «altro non potete chiedere, perché non potremmo comunque ottenerlo ».

Così la mozione andrà modellata seguendo quel disegno e quei calcoli, sebbene Pdl e Pd—come testimonia l’ex ministro Frattini — siano «sempre più desiderosi di risposte ambiziose da parte del governo, che invece frena e invita a non chiedere troppo». Ma è chiaro perché un euro-tecnocrate come Moavero, vero braccio destro di Monti, continua a marcare dei limiti, conscio di non poterli valicare. E la timidezza con cui si propone ai suoi interlocutori non gli ha fatto velo in questi giorni, quando più volte ha posto l’altolà agli emissari dei partiti di «maggioranza ».

A suo modo di vedere, infatti, il testo della mozione che verrà discussa la prossima settimana dalle Camere dovrà rispettare certi calcoli, dato che al cospetto dell’Unione ha un valore non inferiore al testo del decreto sulle liberalizzazioni. Ogni passaggio d’altronde sarà decisivo in vista del summit europeo, di cui nessuno sa anticipare l’esito. «Si cammina sulle uova», riconosce il segretario del Pd, Bersani: «Incrociamo le dita. I vertici possono essere risolutori o provocare danni gravi. E non c’è dubbio che a Bruxelles ci giocheremo tutto». Lo ha spiegato il premier ai leader di partito, invitati lunedì scorso a pranzo a Palazzo Chigi. Lo ha confidato Casini allo stato maggiore del suo partito, dopo l’incontro: «Monti era molto preoccupato ».

Il capo del governo lavora affinché — così ha detto ai suoi ospiti—«la Germania si convinca delle ragioni della solidarietà europea». «Ma i segnali che arrivano da Berlino non sono buoni », sospira Bersani. Il problema resta lo spread, e tutti tifano perché cali. «La sua diminuzione — ha commentato Monti al pranzo — è condizione essenziale per evitare il rischio che i nostri sforzi siano resi vani ». In questi giorni il segretario dei democratici ha avuto modo di guardare in faccia lo spread e di parlargli, «ha il volto di un quarantenne che muove come niente quindici miliardi per un fondo di investimento, che a bassa voce ti spiega le ragioni delle sue scelte finanziarie, scommettendo che la Germania non darà una mano in Europa. E pertanto mette i soldi del suo fondo al sicuro. Perciò — conclude Bersani — è chiaro che se in Europa non ci si metterà d’accordo, se non verranno messe subito risorse sul fondo salva Stati, avremo addosso la pressione dei mercati».

Il pericolo è di venir travolti «da un’ondata speculativa che potrebbe tramortirci», riconosce Casini. Di qui la strada obbligata della «maggioranza», costretta a seguire le indicazioni dell’«ingegner» Moavero. E tra i partiti, secondo il segretario del Pdl Alfano, «c’è una comprensione reciproca». Buttiglione, che per l’Udc segue la trattativa sulla mozione, dice che «non si può fare altrimenti», e aggiunge che «l’Italia deve proporsi ai partner europei con un atteggiamento serio, quasi noioso come Monti, ma affidabile». L’esponente centrista si dice «fiducioso »: «Il premier sta facendo bene. E, in silenzio, sta facendo bene anche Draghi». Buttiglione si riferisce a quel «marchingegno» che è stato escogitato a Francoforte e che «in cambio di misure di rigore sta difendendo per ora il nostro Paese dalla speculazione», garantendo il finanziamento delle banche: «Ma sappiamo che si tratta solo di un freno a mano di emergenza».

Il testo della mozione dovrebbe esser pronto per lunedì sera, quando Alfano sarà a Berlino insieme a Frattini: l’ex titolare della Farnesina gli aprirà le porte della fondazione Adenauer, dove la Merkel terrà un discorso. Per il segretario del Pdl sarà l’occasione di stringere la mano al cancelliere tedesco, in attesa di incontrare il giorno dopo il capo della Cdu. A Roma intanto si chiuderà l’accordo a cui lavora Moavero, e non c’è dubbio che Berlusconi darà il proprio assenso. Al di là delle minacce, il Cavaliere non ha margini di manovra né intende far saltare il banco della legislatura. Eppoi, come racconta Monti, «io e lui ci sentiamo e ci vediamo spesso»...

Francesco Verderami

21 gennaio 2012 | 7:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_21/il-testo-sull-europa-riscritto-tre-volte-francesco-verderami_2e1a3e76-43fa-11e1-8141-fee37ca7fb8c.shtml
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« Risposta #157 inserito:: Marzo 24, 2012, 03:14:40 pm »

Nuova fase

Le insidie dei partiti e in Aula il rischio pantano

Il premier che finora ha dettato il passo al Parlamento, ora potrebbe diventarne ostaggio


Non è vero che solo i bambini possono meravigliarsi. Ieri, per esempio, anche Monti si è meravigliato, è rimasto colpito dal linguaggio adottato da Bersani e da D’Alema: «Non mi sarei mai aspettato certi toni».

Ed è vero che si fa sempre in tempo ad imparare, ma il premier non immaginava tanta virulenza verbale da parte dei maggiorenti del Pd, sebbene fosse consapevole che il tema del lavoro è materiale incandescente, che dietro un numero — l’articolo 18 — ci sono persone in carne e ossa, e che la riforma da lui voluta tocca la storia e la ragione sociale di quel partito.

Epperò i limiti di una sobria dialettica politica sono stati superati, se riservatamente il segretario dei Democratici ha sentito il bisogno di chiarirsi con il premier. E in pubblico, dopo aver detto che «non si può mettere a tacere il Parlamento in nome dei mercati », ha poi spiegato che «noi immaginiamo un’alternativa alla destra populista, non a Monti». Ma l’ago della retorica non ricuce lo strappo.

Il punto tuttavia non è se oggi il Professore—manco fosse la torre di Pisa del Palazzo — ora pende a destra, se con la loro offensiva i Democrat lo hanno regalato agli avversari. Anche perché nel Pdl ieri è montata la protesta contro il premier, reo di non aver scelto per la riforma del lavoro la procedura d’urgenza, ma l’andamento lento del disegno di legge. Tutti sono rimasti colpiti dal fatto che il governo abbia adottato due pesi e due misure, rispetto all’utilizzo dei decreti per le liberalizzazioni e le semplificazioni.

È proprio l’uso reiterato di questo strumento che Napolitano ha opposto a Monti per sconsigliargli di adoperarlo anche sul tema del lavoro: «Non è possibile andare avanti solo con questa procedura». Una motivazione che il Quirinale ha ripetuto ad alte cariche istituzionali e rappresentanti di partito. Chissà se anche in questo caso il premier si è meravigliato, se è vera la sua «delusione» verso il Colle, come racconta un autorevole esponente del governo.

Di sicuro nei colloqui intercorsi ieri sera tra i dirigenti del Pdl con il loro segretario Alfano, tutti hanno convenuto che la mossa del capo dello Stato è stata una «copertura politica» offerta al Pd in vista delle Amministrative. D’un tratto la baraonda che fino a ieri regnava tra i Democratici si è spostata tra i berlusconiani. Il tramestio è destinato a proseguire anche nel rapporto con gli alleati- avversari del Pd, ed è evidente che lo scontro non giova al premier e al suo governo.

Monti, che finora aveva dettato il passo al Parlamento, ora rischia di diventarne ostaggio, di restarne prigioniero. Ripiegando sul disegno di legge, finisce infatti per infilarsi nel pantano dei regolamenti di Camera e Senato, nel ginepraio delle procedure, nei possibili agguati dei voti in commissione, nelle estenuanti trattative in cui potrebbero infilarsi altre trattative: perché non solo di lavoro si discute in Parlamento, ma anche di Rai e di giustizia...

Il Professore avrebbe volentieri optato per il decreto, ma senza la copertura del Colle non poteva forzare la mano. È vero che per questa riforma il governo chiederà la «corsia preferenziale » nei due rami delle Camere, e in tal senso Monti avrebbe ricevuto garanzie da Bersani. Peccato però che il segretario del Pd non ne abbia offerte sull’articolo 18.

Così il vecchio metodo della concertazione, che il premier aveva messo fuori dalla porta nelle trattative con le parti sociali, rientra prepotentemente dalla finestra in Parlamento. E se i Democratici possono contare sulla Lega per far saltare la nuova formulazione della norma sui licenziamenti, il Pdl ha i numeri per ripristinare una forte flessibilità in entrata. In questo caso del progetto di modernizzazione del mercato del lavoro non resterebbe nulla.

Di necessità virtù, il Professore cercherà di sfruttare a proprio vantaggio il tempo: se ne servirà per far raffreddare il clima politico e sociale, per far comprendere meglio la riforma e levigare le asprezze sull’articolo 18. Intanto confida che il disegno di legge venga interpretato a livello internazionale come un messaggio rassicurante, la garanzia che questo è lo schema su cui si muove il governo. È da vedere però se questo schema reggerà in Parlamento, o se per evitare correzioni di rotta il premier giocherà la carta della fiducia, che già aveva messo nel conto.

Il problema politico e d’immagine è comunque evidente. E se Monti è rimasto meravigliato per le sortite dei dirigenti del Pd, non si è stupito per quel che è accaduto sui mercati: «Le incertezze degli ultimi giorni si sono riflesse sullo spread, che è tornato a salire», ha ammonito. La speranza è che sia solo un avvertimento, ma sarà complicato dare garanzie sui tempi di approvazione della riforma. Chissà se davvero le nuove norme sul lavoro saranno legge prima dell’estate. La sortita di ieri del presidente del Senato non era altro che un auspicio, un modo per esorcizzare il timore dell’empasse.

Nonostante la richiesta della corsia preferenziale, agenda alla mano, il governo è consapevole che sarà difficile, se non impossibile, centrare l’obiettivo: intanto perché le Camere chiuderanno un paio di settimane per le vacanze di Pasqua e le elezioni amministrative. Contando poi i decreti, che hanno la precedenza, non c’è spazio per chiudere entro luglio. E siccome alla ripresa di settembre c’è l’appuntamento con la sessione di bilancio...

Ecco il pasticciaccio brutto che mette all’angolo Monti. La «strana maggioranza», che era la sua forza, ora rischia di trasformarsi nella sua debolezza. E quella foto che mostrava a Palazzo Chigi l’ABC della politica sbiadisce in mano a Casini. Perché con Bersani in affanno e Alfano in difficoltà, salta anche lo schema di gioco del leader centrista. Ma di questo nessuno si meraviglia.

Francesco Verderami

24 marzo 2012 | 7:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_marzo_24/le-insidie-dei-partiti-francesco-verderami_605829a0-757a-11e1-88c1-0f83f37f268b.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Marzo 29, 2012, 05:03:03 pm »

L'Intervento dal Giappone

Tensioni tra Monti e i partiti: ora il Professore pensa alla fiducia

Il premier non intende fare passi indietro sulla riforma


Il primo gancio l'avevano assorbito, anche se dopo la citazione andreottiana i leader della «strana maggioranza» si erano interrogati sulle reali intenzioni di Monti. E durante il vertice per le riforme, l'altro ieri, erano nate due scuole di pensiero.
C'era chi sosteneva che il premier avesse voluto mandare un avvertimento ai partiti, che avesse voluto cioè solo spronarli per farli riallineare alla linea del governo. E c'era invece chi riteneva che il Professore - con l'approssimarsi della fase economica più difficile per gli italiani - avesse iniziato a scaricare le tensioni sulle forze politiche. Tutti comunque immaginavano che Monti non sarebbe andato oltre, nessuno pensava all'uno-due. Perciò l'uppercut di ieri li ha colti di sorpresa.


Ma c'è un motivo se l'Abc della politica ha reagito in modo diverso all'affondo del premier contro i partiti, se l'ex ministro Brunetta - incontrando Alfano - l'ha consigliato a tenere il Pdl fuori dal ring della polemica: «Tanto Monti non ce l'ha con noi ma con il Pd». È il provvedimento sul mercato del lavoro al centro dello scontro, e il Professore - che si è sentito politicamente e istituzionalmente «abbandonato» - non intende cedere né fare passi indietro rispetto all'impianto della riforma.
E poco importa se le tensioni provocate hanno incrinato anche i rapporti con il Colle. Il premier ne fa una questione di principio e una di merito. Intanto non accetta di esser stato chiamato a far «l'aggiustatore» per poi essere scaricato alla bisogna. L'idea poi di venir additato come una sorta di dittatore al soldo dei mercati e di mancare di rispetto alle prerogative del Parlamento, lo rende meno sobrio anche nel linguaggio. È pronto infatti alla mediazione sull'articolo 18, nel senso che è pronto a discutere una diversa formulazione della norma, ed è disposto - come è successo già per altri provvedimenti - ad accettare una «soluzione alternativa che sia confacente». Se così non fosse, però, presenterebbe il testo redatto dal governo, lo sigillerebbe con il voto di fiducia, e a quel punto «ognuno ne trarrebbe le conseguenze».


Il progetto è chiaro, e per Monti anche obbligato. Il fatto è che il suo percorso entra in rotta di collisione con il Pd, dove il profilo del Professore inizia ad assomigliare a quello del Cavaliere, e non perché il premier cita i sondaggi per tenersi a debita distanza dal giudizio che i cittadini hanno nei riguardi dei partiti. Bersani non intende cedere perché altrimenti vedrebbe minacciati gli «interessi della ditta». Ed è in quel nome che non desiste, anzi rilancia: nelle parole del presidente del Consiglio scorge una «minaccia», «così si aprono dei varchi pericolosi all'anti-politica».


Di pensierini andreottiani ne fanno anche al quartier generale dei Democrat, dove c'è chi immagina addirittura una manovra internazionale tesa a impedire che il Pd possa andare a palazzo Chigi. Non è dato sapere se il segretario condivida questa analisi, è certo che Bersani non accetta di fare il cireneo e di venire anche flagellato: «Ci è stato detto che l'emergenza economica imponeva di non disturbare più di tanto il manovratore. Ma poi la gente ferma me per strada...».


Ed è questo il punto. Dopo quattro mesi di governo, i provvedimenti lacrime e sangue varati da Monti iniziano ad impattare sul Paese: in questi giorni l'addizionale regionale Irpef sta alleggerendo le buste paga dei lavoratori; prima dell'estate l'Imu appesantirà le dichiarazioni dei redditi dei possessori di case; in autunno il secondo aumento dell'Iva farà galoppare ancor di più i prezzi... Il rischio per i partiti è che si realizzi la profezia di Bossi, quel «finché la gente non s'incazza» che è vissuto come un incubo da chi oggi sostiene l'esecutivo tecnico. Il rischio aggiuntivo per Bersani è che «l'opinione pubblica possa iniziare a pensare come si stava bene prima», cioè con Berlusconi...


Così nella «strana maggioranza» è iniziata una manovra degna di un equilibrista: stare con il Professore e tenersene però a distanza, appoggiare il governo senza tuttavia assecondarlo. Il gioco si è disvelato al crocevia della riforma sul mercato del lavoro ed è così che gli equilibri sono saltati. Persino Casini - che si era sempre schierato dalla parte del premier «senza se e senza ma» - nei giorni dello scontro tra palazzo Chigi e i sindacati si è defilato, prima dicendo che «ad una nuova legge noi preferiamo un buon accordo», poi avvisando che «il Parlamento non sarà un passacarte». E ieri, dopo le parole pronunciate da Monti in Estremo Oriente, ha criticato il linguaggio del Professore, definendolo un «errore di comunicazione».


Non si era mai visto in effetti un capo di governo che attacca così la propria maggioranza, per quanto «strana». Il fallo di reazione è stato commesso da chi si è reso conto di non avere più nemmeno la totale copertura del Colle. Il problema è che anche Napolitano ora ha pochi margini di manovra, dato che il Quirinale si è trasformato a sua volta in un parafulmini. Nel braccio di ferro tra il premier e il Pd, viene lambita infatti anche la figura del capo dello Stato, che ieri aveva invitato a rinviare il giudizio sulla riforma del mercato del lavoro «quando sarà presentato il testo». Bersani invece il giudizio l'ha dato, eccome, ravvisando «elementi di incostituzionalità» nel provvedimento. Il leader democratico ha ripreso la tesi sostenuta in Consiglio dei ministri dal titolare della Salute, Balduzzi, e definita dal Pdl «un'interpretazione sovietica del diritto».


Si attende il rientro di Monti per cercare un compromesso tra le ragioni dei tecnici e quelle dei politici. Nel frattempo ieri lo spread è risalito a quota 327.

Francesco Verderami

29 marzo 2012 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_marzo_29/Monti-pensa-alla-fiducia-verderami_d5bb7fbc-795d-11e1-a69d-1adb0cf51649.shtml
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« Risposta #159 inserito:: Aprile 21, 2012, 03:49:09 pm »

Settegiorni

I test sul nuovo nome con la parola «Italia»

L'idea del Cavaliere: grande coalizione con Monti


Da tempo aveva deciso di cambiar tutto dopo le amministrative: «Serve una nuova formazione per riunire i moderati italiani», dice infatti Berlusconi, che dà l'addio al Pdl. «Non va».
E non solo perché l'acronimo non gli è mai piaciuto, ma perché non gli piace la struttura ingessata del partito.

La «cosa» che ha in mente dovrà infatti avere la forma di un «movimento». Così il Cavaliere intende traghettarsi nella Terza Repubblica, dove non sarà più un vincente, ma dove
vuol stare tra i vincenti.

«Non si può andare in pensione», sospira Berlusconi, che in realtà di andarci non ha alcuna intenzione, e aveva preso a studiare il nuovo progetto appena lasciato palazzo Chigi.
Di quei giorni tumultuosi racconta il percorso, l'intesa assunta al Quirinale «con l'impegno del Pd a votare provvedimenti che, con me al governo, non avrebbe mai votato».
E tra gli impegni c'è un accordo sulle riforme, da quella costituzionale a quella del sistema elettorale: «Noi preferivamo il modello spagnolo, ma anche il tedesco ci va bene.
A condizione che lo sbarramento sia posto almeno al 6%, altrimenti chiunque deve governare sarebbe ostaggio dei piccoli partiti». Cita il patto perché vorrebbe fosse onorato, siccome davvero è interessato a modificare il meccanismo di voto.

In quel caso, e se le urne lo rendessero necessario, il Cavaliere sarebbe disposto a una nuova «grande intesa» con i Democratici, «allora si potrebbe fare la grande coalizione con Monti» alla guida del governo. Il messaggio che Berlusconi manda al Pd, è un modo per creare un ponte diretto con gli avversari di un tempo e senza più la mediazione dei centristi.
Ed è un modo per rinnovare la fiducia al presidente del Consiglio, definito «persona seria e competente, che sa ascoltare, e che non solo è preparata ma è anche molto brava nella comunicazione, perché sa soffocare il tono di professore che ogni tanto prende il sopravvento».

L'unico appunto è sulla «operatività politica», forse retaggio dei malumori che hanno portato all'annullamento del pranzo di giovedì, e che sono stati determinati dalle mosse di alcuni suoi ministri. Il Cavaliere fa i nomi di Passera per il nodo delle frequenze tv e della Severino per certe norme in tema di giustizia. Non per questo l'appoggio al governo dei tecnici verrà meno, «Monti deve arrivare fino alla fine» della legislatura.

Ma dal Professore si aspetta un cambiamento di passo in sede europea per cercare una soluzione al problema della crescita. L'appiattimento sulla linea tedesca non gli piace, e si capisce da come ricorda i vertici internazionali ai quali ha partecipato, e dove «io insieme a Zapatero ed altri facevamo argine alla Merkel». Dalla crisi, secondo Berlusconi, si esce solo superando «l'impostazione» economica della Germania, «altrimenti sarà il disastro, perché si è innescata una spirale di recessione che sta mettendo in ginocchio l'Europa.
E l'Europa è in grado di sopportare un po' di inflazione in più».

Passato, presente e futuro s'intrecciano insieme a possibili maggioranze di governo dopo il voto e nascita della nuova casa dei moderati, il cui nome è ancora riservato.
Eppure si dice che abbia fatto testare «Nuova Italia», nostalgia canaglia... «Ma no, a Forza Italia non si può tornare», giura Berlusconi, sebbene nei mesi tormentati che precedettero la crisi del suo governo più volte si lasciò andare: «Ah, avessimo ancora il vecchio movimento». Il nuovo si dovrà dotare di una classe dirigente «credibile», fatta di persone «competenti e giovani, massimo cinquantenni», a cui affiancare «un gruppo di saggi».
Il nuovo soprattutto non sarà un partito, soltanto la parola gli provoca l'orticaria, la stessa reazione che provoca oggi nella pubblica opinione: «La fiducia degli italiani nei partiti è scesa al 2%». Nell'elettorato, invece, l'evocazione delle origini farebbe ancora breccia. Gliel'ha fatto notare la scorsa settimana un suo deputato, Moles, che gli ha portato un sondaggio da cui emerge come il 74% di quanti nel 2009 hanno votato per il Pdl sarebbe favorevole alla ricostituzione di un movimento che riprenda lo spirito del '94.
Ma il dato più sorprendente è che sarebbe favorevole il 40% della totalità degli elettori. E a Moles - che su questa linea si voleva dar subito da fare - Berlusconi aveva detto di aspettare, «dobbiamo fare le cose in grande».

Ieri ad Alfano è toccato il preannuncio dell'annuncio, per far capire che il Pdl non sta fermo davanti alle manovre di Pisanu e del Terzo polo, «dove Casini - spiegano i berlusconiani - cerca di liberarsi di Fini e di Rutelli, con cui litiga ogni giorno». Il giovane segretario non poteva che assecondare la mossa del Cavaliere, secondo il quale ad «Angelino» mancherà pur qualcosa ancora per fare il leader, forse l'esperienza. E tuttavia è l'unico del quale davvero si fida: «Quando si trattò di decidere sulla nascita del governo Monti, ci pensai due giorni prima di dire sì. E in quei due giorni parlai delle cose riservate solo con Alfano».

Dopo le Amministrative si cambia: «Serve una nuova formazione per riunire i moderati italiani». Non sarà un altro predellino, comunque non sarà il Cavaliere a guidare il movimento né a candidarsi al governo. Avanti un altro, «anche se io non vedo un altro Berlusconi», dice Berlusconi.

Francesco Verderami

21 aprile 2012 | 8:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_21/berlusconi-idea-grande-coalizione-monti_1383cb76-8b72-11e1-bdb0-bf9acf202da2.shtml
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« Risposta #160 inserito:: Luglio 08, 2012, 10:19:48 am »

Settegiorni

E la grande coalizione tenta i leader

Trattative avanzate sulla legge elettorale

Pd e Pdl restano divisi sul nodo del premio di maggioranza. Berlusconi punta a un ruolo determinante


Se si fa, non si dice. Perciò è scontato che nel Pdl e (soprattutto) nel Pd venga fermamente smentita l'ipotesi di lavorare a una grande coalizione per il 2013. D'altronde non avrebbe senso parlarne prima delle elezioni, sarebbe come invalidare anzitempo la partita.

Ma la prospettiva che il montismo succeda a Mario Monti non è sfumata, anzi. Più va avanti l'esperienza del governo tecnico, più aumentano le probabilità che la «strana maggioranza» possa ricostituirsi in Parlamento dopo la contesa nelle urne. Al momento non ci sono prove ma solo indizi, ed è attraverso l'analisi delle trattative sulla legge elettorale che si possono raccogliere degli elementi. Ecco perché è importante la mediazione in corso tra Pdl, Pd e Udc sulla riforma del sistema di voto: la tattica che stanno adottando disvela infatti dettagli sulla loro strategia politica.

Lo stallo di questi giorni non inganni, è tipico di una vertenza che sta arrivando a conclusione, tanto che gli sherpa impegneranno il weekend per lavorarci sopra. Altrimenti i leader dei tre partiti non si direbbero convinti di poter raggiungere un'intesa già la prossima settimana, Alfano non la metterebbe in conto, Bersani non sosterrebbe che «ormai dovremmo esserci», e Cesa non si farebbe scappare di essere «molto ottimista». Non c'è dubbio che i nodi ancora da sciogliere sono determinanti per disegnare il futuro sistema politico, ed è proprio dietro quei nodi che si può scorgere l'ombra della grande coalizione.

Il braccio di ferro sul premio di maggioranza ne è l'emblema. C'è un motivo se il Pd preferirebbe assegnarlo alla coalizione vincente, mentre Pdl e Udc vorrebbero affidarlo al partito vincente. Ed è chiaro come mai Bersani spinga per un premio comunque alto (15%), mentre Alfano e Casini puntino a tenerlo basso (10%). «Il 15% per noi è inaccettabile, Pier Luigi», ha detto il segretario del Pdl al capo dei democrat durante il loro ultimo colloquio. «Abbassando la soglia, si prefigura l'instabilità», è stata la risposta: «E tu, Angelino, dovresti convenire che sarebbe meglio puntare sulle coalizioni e non sui partiti. Perché se non si organizzano i due campi in contesa e andiamo in ordine sparso, Grillo potrebbe spazzarci via tutti».

Ecco spiegata l'importanza della discussione «tecnica» sul premio di maggioranza, che disegna gli scenari «politici» del dopo-voto e lascia intuire il cambio di strategia in corsa del Pdl. A dire il vero non è la prima volta che Bersani - dopo aver incontrato Alfano - ha pensato di aver chiuso il patto, rimesso poi in discussione da un vertice a palazzo Grazioli. L'opzione delle preferenze, per esempio, sembrava ormai abbandonata. E invece il Pdl ha preso a spalleggiare l'Udc, convinto - come ha spiegato Casini - che «i candidati nei collegi danno l'idea di persone paracadutate sul territorio, mentre le preferenze consentono di contrastare meglio il grillismo». «Con le preferenze - ha obiettato Bersani - aumenterebbero le spese elettorali, si aprirebbe un varco pericoloso, ci sarebbe il rischio del malaffare e ci ritroveremmo con le inchieste della magistratura».

Ma il cuore della trattativa è il premio di maggioranza. È da lì che si intuisce come il «montismo berlusconiano» abbia preso piede. Altro che elezioni anticipate, il Cavaliere vuole mantenere un ruolo determinante in un sistema dove nessuno prenda il sopravvento. E la grande coalizione è lo strumento idoneo all'occorrenza. Di più, è Monti il suo asso nella manica nonostante le tensioni del Pdl con il governo. Il rapporto riservato e preferenziale tra l'attuale premier e il suo predecessore sfugge ai riflettori e alle dinamiche di Palazzo. E Berlusconi sarebbe pronto a sconfessare anche se stesso pur di non uscire dal centro del ring. Come ricorda il segretario del Pri, Nucara, «fu Berlusconi a indicare Monti come commissario europeo, a proporlo come governatore di Bankitalia, a tentarlo con il ministero dell'Economia, e soprattutto a lanciarlo come candidato al Quirinale prima che ci arrivasse Napolitano».
Puntando su Monti, inchioderebbe Casini e manderebbe gambe all'aria ogni manovra fin qui ipotizzata.

La grande coalizione insomma è più di una suggestione. Ma per farla non bisogna dirla, e se del caso è necessario smentirla. Perciò il Cavaliere fece finta di prendere le distanze dal progetto «Tutti per l'Italia» che Giuliano Ferrara lanciò mesi fa sul Foglio . Era troppo presto. E ora che sul Giornale Vittorio Feltri evoca Indro Montanelli per scrivere che sarebbe meglio «turarsi il naso» e guidare «tutti insieme» il Paese, ecco comparire un altro indizio.

Perché non c'è dubbio che il fondatore del Pdl sia tornato a dettare l'agenda del partito, bloccando le primarie, facendo mostra di essere un allenatore che si allena per rientrare in campo. «Io rappresento tutte le anime del partito», ha detto l'altra sera davanti al suo gruppo dirigente.

E la storia che una svolta grancoalizionista possa indurre l'area degli ex An ad abbandonare il Pdl, non sta in piedi. Ci pensa La Russa a far giustizia delle voci circolate negli ultimi tempi: «Nessun tipo di riforma del sistema di voto su cui stiamo discutendo presuppone di per sé la grande coalizione. Certo, sarebbe per me e per molti di noi inaccettabile precostituire o addirittura dichiarare la grande coalizione come obiettivo. Se invece questa formula di governo venisse imposta per effetto del risultato elettorale, sarebbe un'altra cosa». Più chiaro di così.

Il «montismo berlusconiano» è ben incardinato nel centrodestra, il presidente del Senato Schifani non manca occasione nei suoi colloqui di ripetere che «l'emergenza dettata dalla crisi non cesserà purtroppo il giorno dopo le elezioni». L'idea della grande coalizione nel Pdl si alimenta anche dei segnali che giungono dal campo avverso. Pare che Berlusconi abbia letto più volte l'intervista rilasciata al Corriere da D'Alema e abbia avuto la sensazione che contenesse un messaggio subliminale.

Francesco Verderami

7 luglio 2012 | 8:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_luglio_07/grande-coalizione-tentazione-politica-legge-elettorale_ef0c944a-c7f7-11e1-9d90-c5d49ff3a387.shtml
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« Risposta #161 inserito:: Luglio 13, 2012, 10:19:55 am »

L'intervista al segretario del PDL

«Ticket? Meglio una donna»

Parla Alfano: «Berlusconi è il candidato più forte. Io alla guida del partito»


ROMA - La premessa è d'obbligo, visti i colpi di scena a cui ha abituato la politica italiana: è sicuro che il Cavaliere scenderà nuovamente in campo e non ci ripenserà? Alfano non mostra incertezze, «non siamo nella fase dei ripensamenti ma in quella dei ragionamenti. Berlusconi non ha ufficializzato la candidatura, ma noi glielo stiamo chiedendo e sono certo che lo farà. E chi ci ha guidato in tante battaglie, ci guiderà anche in questa». Già da tempo il fondatore del Pdl aveva affrontato la questione con il segretario del partito, «e c'è un motivo - racconta Alfano - che ha portato a questa decisione. È la legittima domanda di avere un giudizio popolare sugli anni più difficili della storia repubblicana. Gli anni bui della crisi economica, ingiustamente attribuita a Berlusconi. Gli anni dell'aggressione moralista tramutata in processo penale. Gli anni dei tranelli nel Pdl, dove il cofondatore ha organizzato l'opposizione interna. Alla fine di un quinquennio così controverso è giusto che il protagonista di questa storia chieda al popolo un nuovo giudizio e un nuovo mandato».

La sua versione assolutoria della caduta di Berlusconi non coincide con quella dei vostri elettori, che si sono sentiti traditi per il fallimento politico nella gestione della più grande maggioranza parlamentare della storia repubblicana.
«Alla domanda risponderanno gli elettori nelle urne. Certo in tre anni sono stati commessi errori, ma non credo che evitandoli l'epilogo sarebbe cambiato. Ci sarà però un motivo se chi è stato all'opposizione del nostro governo, e risulta ora in testa nei sondaggi, ha meno voti di quanti ne prese nel 2008».

Ma se uno come Berlusconi, che aveva annunciato di voler fare «l'allenatore», decide poi di scendere in campo, vuol dire che non è soddisfatto di come gioca la sua squadra.
«Quei giocatori saranno accanto a lui nella partita. Quanto alla ragione della sua nuova discesa in campo, è dettata dal fatto che Berlusconi ancor oggi è il più forte candidato del Pdl e che quanto accaduto nell'ultimo anno necessita, giustifica, pretende un giudizio popolare. Il fatto di aver cercato questo giudizio dopo aver sostenuto il governo Monti, e non prima, con rancore vendicativo e un'affannosa ricerca di rivalsa, avrà un peso importante e positivo».

Sta di fatto che, dopo aver lanciato il più giovane segretario di partito e dopo aver dato l'assenso alle primarie, invece di Alfano, sulla scena torna il Cavaliere.
«Berlusconi non è mai uscito di scena. E lo schema che si prefigura oggi è esattamente quello della foto scattata il primo luglio di un anno fa, nel giorno della mia elezione a segretario del Pdl: Berlusconi presidente del Consiglio e io alla guida del partito. È solo nella prospettiva di rafforzare il Pdl che ho sempre lavorato».

Veramente si parlava di lei come candidato premier. Ora spunta l'ipotesi del ticket con il Cavaliere.
«Berlusconi non ha bisogno di ticket, ha sempre vinto senza accompagnatori. Per quanto mi riguarda, se volesse farsi affiancare da qualcuno, gli consiglierei una protagonista femminile del nostro partito. Ne ho in mente più di una da suggerirgli».

Lo sa che i suoi avversari - dentro e fuori il Pdl - parlano di un suo ridimensionamento se non di un suo dimissionamento. Le rimproverano di non aver avuto il cinismo necessario per contrapporsi a Berlusconi.
«Se non ho il cinismo necessario alla politica, è colpa della politica che ne chiede troppo, e non mia che non ne ho. Comunque, è tutto messo in conto. Le leadership si costruiscono nel tempo e si forgiano nelle difficoltà».

Difficoltà in cui l'ha messa anche Berlusconi. La battuta sulla mancanza del «quid», per esempio...
«A tutti gli uomini di questa terra manca un quid. La perfezione appartiene agli dei».

... E poi il lavorio ai fianchi, i boatos sulle liste civiche, lo spacchettamento del Pdl, le voci sulle candidature di Montezemolo e Passera alla guida del centrodestra, l'idea del Cav aliere di farle da ministro dell'Economia...
«Ma non è stato Berlusconi a mettermi in difficoltà. In questa fase storica di profondi sconvolgimenti non si può pretendere di tenere la posateria in ordine su una barca che fronteggia una tempesta. C'è sempre qualcosa in disordine, l'importante è la rotta. E noi la rotta l'abbiamo tenuta. Eppoi, ricordo quando da ragazzo - alla prima lezione nautica - mi insegnarono come navigare controvento. Ecco, questo è tempo di bolina».

Nel partito avete valutato i pro e i contro della candidatura di Berlusconi?
«I contro? E quali sarebbero?».

Che gli elettori interpretino questa mossa come una sorta di «operazione nostalgia», con il Cavaliere nei panni di Eltsin che cerca di tornare al potere.
«Berlusconi è ammesso di diritto alla sfida successiva come detentore del titolo, per aver vinto le ultime elezioni».

Intanto, addio al rinnovamento.
«Il rinnovamento è già in atto a livello nazionale e locale. Se poi, nella nuova legge elettorale, ci fossero le preferenze, spetterebbe ai cittadini l'ultima parola».

Dall'Udc al Pd, l'annuncio è stato accolto da battute sarcastiche e duri commenti.
«Dopo diciotto anni ci siamo abituati. Eppoi, quanti capelli grigi, quante lucine fioche stavano dietro quei commenti. La gerontocrazia che parla del nuovo...».

Non sarà Berlusconi il «nuovo»...
«È di sicuro il leader politico italiano da meno anni presente nelle istituzioni. Consiglio un po' di serietà perché questo argomento è sconveniente per tutti gli altri».

Di Pietro sostiene che, se il Cavaliere si ricandida, sarà perché ha interessi personali da difendere.
«Berlusconi ha difeso l'interesse nazionale quando ha lasciato Palazzo Chigi, sostenendo il governo Monti».

Maroni si è chiesto se «il presidente del Milan» è sceso in campo «a San Siro».
«Con il segretario della Lega a tempo debito faremo un discorso serio che riguarderà il futuro del Paese e del Nord».

Il presidente di Confindustria Squinzi, appresa la notizia, ha chiesto di parlare della tappa del Tour de France.
«Da segretario del Pdl sono certo che - quando sarà chiamato a scegliere - il mondo delle imprese ricorderà come abbiamo difeso le sue buone ragioni in Parlamento. E accoglierà positivamente il nostro programma di governo».

E il vostro programma sarà in continuità o in contrapposizione con la linea di politica economica di Monti?
«Sulle tasse e gli eccessi di Equitalia, sarà in dissenso. Sui tagli agli sprechi e gli impegni assunti in Europa, sarà in continuità».

Pensa che Monti avrà ancora un ruolo politico attivo dopo le elezioni?
«È senatore a vita. E non ha la tendenza a diventare patrimonio di una parte».

E se dal risultato elettorale dovesse emergere un verdetto di parità, sareste disponibili alla grande coalizione?
«A una squadra che sta per disputare una partita, e che punta a vincere nei tempi regolamentari, non si chiede come affronterà i supplementari».

Francesco Verderami

12 luglio 2012 | 15:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_luglio_12/berlusconi-dipietro-alfano-verderami_d6262cce-cc26-11e1-b65b-6f476fc4c4c1.shtml
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« Risposta #162 inserito:: Luglio 13, 2012, 10:21:35 am »

Retroscena - E studia i loghi dei partiti nazionalisti europei

Berlusconi, nuovo simbolo: l'aquilone tricolore

Intervista alla «Bild» sui temi dell'euro


ROMA - L'unica panchina sulla quale Berlusconi si vede seduto è quella del Milan. Ecco perché il Cavaliere faticava a immaginarsi ai giardinetti e da mesi scalpitava per rimettere gli scarpini della politica. Al punto che - ben prima di anticipare ad Alfano i suoi propositi - aveva già approntato il simbolo con cui accompagnarsi per il suo ritorno in campo: l'ultima idea è un aquilone tricolore che continua a testare senza sosta, che mostra agli ospiti chiedendone il parere, e che nell'immaginario collettivo dovrebbe trasmettere quel senso di ottimismo necessario a favorire la rinascita del Paese. La campagna elettorale vorrebbe giocarla facendo leva su uno spirito fortemente patriottico, che lo avrebbe indotto a prendere in esame anche alcuni simboli di partiti nazionalisti europei.

Epperò sul ritorno di Berlusconi ci sono delle cose che non tornano. Non si è mai visto infatti un partito ancora senza nome ma con il simbolo, e soprattutto non si è mai visto un candidato che ancora non si candida, che ieri continuava a dare segni di incertezza davanti al vertice del Pdl, che si mostrava insofferente per gli «attacchi ingenerosi» letti sulla stampa, e che prendeva tempo per ufficializzare la sfida. È vero che l'incertezza sulla riforma della legge elettorale impedisce di definire le strategie, tuttavia è impensabile tenere il partito nell'incertezza, che accentuerebbe il marasma e delegittimerebbe ulteriormente la classe dirigente.

Ecco il motivo per cui Cicchitto si è affrettato a ribadire che «Berlusconi sarà il nostro candidato premier». Resta poi da stabilire la linea che il nuovo partito senza nome ma con il simbolo vorrà assumere, quel solco programmatico che servirà a evitare il rischio di pericolose oscillazioni tra un'istintiva «deriva grillina» del Cavaliere e il più istituzionale profilo del «montismo berlusconiano».

Sui temi di politica economica il fondatore del Pdl sembra avere le idee abbastanza chiare. Le ha riversate in un'intervista alla Bild , nella quale ha parlato di euro e di Europa, spiegando che dall'avvento della moneta unica «è stata Berlino a trarre beneficio», e che «è ora di cambiare i meccanismi» così da garantire un ritorno alla prosperità per tutti i Paesi dell'Unione. Berlusconi ha respinto l'accusa di parteggiare per la reintroduzione delle divise nazionali: «Si parla più in Germania di un ritorno al marco che in Italia di un ritorno alla lira». E comunque si tratterebbe di una «soluzione molto difficile» che «segnerebbe la fine dell'Unione».

L'intervista al maggior giornale popolare tedesco è un segnale importante, sia per i contenuti «europeisti» sia perché dimostra come il Cavaliere tenti di riaccreditarsi a livello internazionale. È questa la scommessa più difficile, lo si è capito due giorni fa dall'eloquente «no comment» del portavoce della Merkel alla notizia di un ritorno in campo di Berlusconi. «Il Pdl ha solide relazioni con tutti i grandi partiti moderati europei e dell'Occidente», dice Alfano come a derubricare la portata del messaggio in codice tedesco. Intanto il Cavaliere fa le prove dell'aquilone.

Francesco Verderami

13 luglio 2012 | 7:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_luglio_13/pdl-nuovo-simbolo_fb883976-cca8-11e1-a3bf-e53ef061f69e.shtml
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« Risposta #163 inserito:: Luglio 14, 2012, 03:53:58 pm »

RETROSCENA - CRISI ECONOMICA E LE MOSSE DEL GOVERNO

Il timore per agosto: un attacco speculativo

A questo si riferiva Monti quando parlava di «percorso di guerra» per l'Italia

La bocciatura di Moody's sarà pure stata «una disgrazia», ma è un'eventuale bocciatura dei mercati ad agosto che Monti teme e purtroppo non può escludere. Ecco a cosa si riferiva quando ha parlato del «percorso di guerra». Ecco cosa ha detto ai leader della «strana maggioranza».


Il premier mette nel conto l'ipotesi che all'ombra del «generale agosto» si scateni una nuova tempesta finanziaria, un'offensiva speculativa internazionale che prenda nel mirino l'Italia a mo' di bersaglio grosso. E sebbene il professore auspichi di sbagliarsi, avverte il rischio che fra qualche settimana possa ripetersi quanto è accaduto giusto un anno fa, quando a palazzo Chigi c'era Berlusconi e lo spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi raggiunse «quota 570». Il governo ha approntato ogni misura per cautelarsi rispetto a una possibile emergenza, e la nomina di Grilli a titolare dell'Economia va letta anche in questo quadro, così da avere un ministro con pieni poteri e sempre in campo sul fronte Ecofin.

È vero che agosto è da sempre considerato il mese più pericoloso per le turbolenze sui mercati, ciclicamente scossi come fossero investiti dai monsoni, ma non c'è dubbio che Monti confidasse in un clima diverso. E invece - come spiega Bersani - c'è «nervosismo e preoccupazione»: «Il fatto che l'Italia faccia ogni sforzo e non le venga mai riconosciuto - dice il segretario del Pd - segnala qualcosa di poco chiaro, l'intenzione di attaccare l'euro usando il nostro Paese come leva per scardinare il sistema».

Trovandosi sulla linea del fuoco, Monti ha voluto mettere al corrente della situazione le forze che sorreggono il governo, ed ha affrontato il tema anche con il segretario del Pdl Alfano durante un incontro riservato avvenuto mercoledì sera. Il premier si è raccomandato con i partiti della «strana maggioranza» affinché tengano unito il quadro politico. La «frustrazione», a cui il professore ha accennato in pubblico, è uno stato d'animo che accomuna tutti i suoi partner europei, «è come se un medico - racconta un autorevole esponente dell'esecutivo - sperimentasse tutte le cure possibili ma non riuscisse a guarire un malato».

Una cura secondo Berlusconi ci sarebbe, se si trasformasse la Bce in prestatrice di ultima istanza, rompendo il muro eretto dalla Merkel che «invece ha in mente un'Europa germanizzata». Chissà se ha ripetuto questi concetti a Monti tre giorni fa, quando il premier l'ha chiamato per spiegare il senso della sua battuta sul famoso vertice di Cannes, per chiarire che quella frase sull'«umiliazione» subita dal Cavaliere al G20 non voleva esser un attacco nei suoi confronti. Il colloquio - secondo fonti del governo - è stato «cordiale», perché c'è «un humus sintonico» tra i due. Ed è un'ulteriore dimostrazione del fatto che i contatti tra l'ex presidente del Consiglio e il suo successore sono costanti e per nulla occasionali.

A rimarcare la solidarietà al professore, ieri Berlusconi ha fatto intervenire il suo portavoce, Bonaiuti, per criticare la «pesante decisione» di Moody's che - guarda caso - ha sottolineato come il downgrade «potrebbe aprire la strada alla speculazione finanziaria in agosto, quando i mercati sono più influenzabili». È il segno che il Cavaliere intende procedere sulla linea del «montismo berlusconiano», che impedisce a Pd e Udc di isolarlo dai giochi futuri. E sebbene sia convinto, «perché i fatti lo dimostrano», che «la politica del rigore non paghi», ha dismesso la logica «grillina», riconoscendo che «per ora il binario è obbligato».

Altra cosa è se Berlusconi auspichi che Monti succeda a Monti: il fondatore del Pdl attenderà l'evolversi del quadro politico ed economico prima di esprimersi. Di certo l'idea della grande coalizione resta nel novero delle opzioni, perché - come gli ha detto il suo amico, Fedele Confalonieri - «in un tempo di guerra economica servirebbe una stagione di pace politica». E se le cose dovessero andare per un certo verso, il Cavaliere non si farebbe sfuggire l'occasione di ricordare che «fui io il primo a proporre le larghe intese», dopo le elezioni vinte d'un soffio da Prodi nel 2006. Era un'altra Italia. C'è sempre Berlusconi.

Francesco Verderami

14 luglio 2012 | 8:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_luglio_14/timore-attacco-speculativo-agosto-verderami_3cd90a34-cd73-11e1-bc80-9c2657984b85.shtml
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« Risposta #164 inserito:: Luglio 28, 2012, 03:25:17 pm »

Settegiorni / Lo scenario di un altro incarico e i messaggi Usa alla maggioranza

Quel tifo dall'estero per Monti

Obama apprezza l'azione del premier e quasi ogni settimana i due si sentono.

E Putin spera nella «stabilità politica»

Come cambiano le cose e in poco tempo. Se fino a qualche mese fa Stati Uniti e Russia avevano opinioni divergenti sulla situazione politica italiana, ora Obama e Putin convergono nelle loro posizioni, e auspicano che l'esperienza Monti non si esaurisca con la fine della legislatura. Certo, non è una novità che le relazioni tra la Casa Bianca e Palazzo Chigi attraversino una fase molto positiva.

La crisi economica ha imposto a Washington di spostare l'attenzione dall'area del Pacifico verso l'Europa, riaprendo la rotta atlantica che per anni era stata quasi del tutto abbandonata, e che veniva solcata soprattutto per questioni militari. Il punto è che - a causa dell'emergenza - il ritrovato interesse per il Vecchio Continente ha prodotto anche importanti modifiche nei rapporti con le cancellerie dell'Unione.

Per Obama oggi Monti è un interlocutore importante, tanto da aver spinto l'amministrazione statunitense a rivoluzionare il tradizionale modello di relazioni bilaterali, introducendo un sistema inedito per i due Paesi. È tramite il premier italiano che il presidente americano cerca di capire lo stato dell'arte nell'area dell'euro, esortando il suo interlocutore a proseguire nell'azione politica che sta producendo al tavolo dell'Unione, apprezzandone la linea, compiacendosi anche per la cura che il suo governo pone - per esempio - rispetto a una maggiore integrazione del commercio transatlantico. Non è questione di reciproca simpatia, ovviamente, c'è sempre un interesse alla base di questi rapporti. Ma è evidente la novità segnata dall'inusuale frequenza dei contatti tra i due, che di norma si sentono al telefono con cadenza quasi settimanale. E nei momenti critici, che di questi tempi sono frequenti, la linea viene usata anche più spesso. Sarà perché fin dall'inizio Obama ha salutato la nomina di Monti alla guida del governo con toni entusiastici, sarà perché lo considera un «protagonista attivo» dell'Unione, fatto sta che l'inquilino della Casa Bianca fa il «tifo» per il professore.

È vero che il vocabolario diplomatico non contempla la parola «tifo», però è questo il messaggio che i vertici dei partiti della «strana maggioranza» hanno recepito dopo una serie di incontri riservati con emissari dell'amministrazione americana. Il linguaggio adottato dagli ambasciatori sarà stato consono al tipo di colloqui, attento a non calpestare le regole delle relazioni internazionali, a non dare l'idea di ingerirsi negli affari italiani, però il sostegno a Monti e l'auspicio che il premier non traslochi da palazzo Chigi nel 2013 è parso a tutti inequivocabile.

Di sicuro non sarà stata una sorpresa per i dirigenti politici italiani ascoltare quei ragionamenti. Più sorprendente, per lo stesso Monti, sarà stato ascoltare le parole di incoraggiamento che gli sono giunte da Putin nel corso del loro recente incontro a Sochi. Il presidente russo, a più riprese, ha sottolineato come la «stabilità politica» sia importante per favorire la stabilità economica internazionale e anche le relazioni commerciali, spingendosi fin dove si era spinto in passato solo per l'«amico Silvio». Così sono cambiate le cose e in pochi mesi: nelle valutazioni sull'Italia - un tempo divergenti - Stati Uniti e Russia finiscono ora per trovare un punto di sintonia.

È molto pericoloso monetizzare la democrazia, trasformarla in merce di scambio sui mercati finanziari, darle un valore come fosse una valuta. E mettere le mutande alle elezioni, determinare l'esito del risultato prima della sfida, sarebbe come tentare di imbrigliare la storia. Infatti il premier non fa che ripetere di esser pronto a lasciare l'incarico appena terminerà il suo mandato. «Ci tiene a far sapere che non si impegnerà», ha spiegato Casini l'altro giorno a un dirigente dell'Udc. Stesso messaggio è stato destinato alle altre forze che appoggiano il governo.

Ma ci sarà un motivo se i partiti della «strana maggioranza» discutono e si dividono sul «Monti dopo Monti», se il tema terrà banco anche la settimana prossima che il premier trascorrerà tra Madrid, Parigi ed Helsinki, se la questione si riproporrà con più vigore con l'approssimarsi delle urne, se si preparano appelli perché questa esperienza prosegua anche dopo le elezioni.

È evidente che il professore rimarrà un passo indietro rispetto al dibattito pubblico in atto, ossequioso della politica a cui spetta l'ultima parola. E se il suo lavoro verrà riconosciuto positivamente, starà ai partiti chiamarlo nel caso per rinnovargli la fiducia, dopo la sfida elettorale. Intanto dagli spalti, dentro e fuori i confini nazionali, c'è chi tifa per lui.

Francesco Verderami

28 luglio 2012 | 9:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_luglio_28/tifo-estero-per-monti_bbd81084-d875-11e1-8473-092e303a3cd5.shtml
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