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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 134378 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Febbraio 16, 2011, 11:59:03 am »

Tenta la carta dell'«improcedibilità»

Il Cavaliere e l’incognita elezioni. Voto alla Camera per frenare il processo

Fiducia nell’alleanza con Bossi. Voci su nuove inchieste con effetti bipartisan

Tenta la carta dell'«improcedibilità»


ROMA - Subìto lo scacco, Berlusconi tenta di rifugiarsi nello stallo per evitare il matto. Perché solo ritardando lo show down giudiziario il premier potrà sperare di rilanciarsi sul fronte politico. Così l’idea di organizzare una manifestazione a sostegno del governo, e al tempo stesso procedere a un rimpasto nell’esecutivo, è legata all’estremo tentativo di bloccare il processo sul «caso Ruby», giocando alla Camera la mossa sull’«improcedibilità», l’ultima che gli è rimasta. Deve evitare una sentenza, il Cavaliere, che sancirebbe la sua fine, e confida di riuscirci, spostando di almeno un anno la resa dei conti con la procura di Milano.

È una battaglia politica che si gioca nelle pieghe delle norme giuridiche, ed è sfruttando la sentenza di ieri del gip che il premier conta di passare attraverso un delicato voto segreto a Montecitorio, facendosi scudo dell’articolo 96 della Costituzione, eccependo un «difetto di competenza» del tribunale di Milano portando a sostegno della tesi alcuni precedenti. E lasciando che sia poi la Consulta a dirimere la questione. Sembrano cavilli, in realtà sono cavalli di frisia in un conflitto che consegnerà Berlusconi vincitore o vinto. Serve tempo al Cavaliere, che posto dinnanzi al bivio vuole evitare la strada elettorale e imboccare quella parlamentare, conscio che altrimenti nelle urne rischierebbe di trovarsi davanti un fronte eterogeneo eppure forte, che andrebbe da Vendola a Fini passando per Bersani, e che - ne è sicuro - avrebbe in Casini «il nuovo Prodi». «La sinistra non è più l’armata Brancaleone finora conosciuta», ammette il ministro Matteoli: «L’antiberlusconismo è tornato a essere il loro collante, e accomuna oggi anche i leader del terzo polo».

Gli ultimi sondaggi hanno certificato a Berlusconi che un conto sarebbe sfidare il centrosinistra (su cui resta in vantaggio), altra cosa sarebbe sconfiggere questo tipo di schieramento avverso. Ma resistere a Palazzo Chigi non basta, non può bastare. Il premier deve trovare il modo di dare una «frustata» al suo governo per rinvigorire anche la propria immagine, gravemente segnata a livello internazionale, e logorata nel Paese dalle storie di donnine e festini in cui è coinvolto. Epperò un Berlusconi bis, un’autentica rifondazione del governo, non può permetterselo: l’apertura formale di una crisi nelle attuali condizioni non avrebbe nulla di pilotato, avverrebbe al buio. Con tutti le incognite che l’operazione porterebbe con sé. Come non bastasse, un valzer di poltrone potrebbe far saltare i fragili equilibri nello stesso Pdl. Il Cavaliere può insomma solo allargare l’esecutivo, assegnare gli incarichi lasciati dai finiani, magari chiedere ad alcuni fedelissimi di fare un passo indietro per garantirgli maggiore manovrabilità.

Su questo è impegnato, e - pare - con successo. Perché, per quanto sia paradossale, il premier sotto scacco sembra in grado di allargare la propria maggioranza, complice la grave crisi che sta minando il Fli. Il gruppo futurista a Palazzo Madama è in rivolta contro l’organigramma del partito deciso da Fini, e il fatto che ieri sera il senatore Menardi fosse a colloquio da Berlusconi fa capire quale possa essere l’esito. Anche a Montecitorio il Cavaliere prevede di rinforzarsi e arrivare a «quota 320», e la contabilità politica ha valore quanto la «lealtà e solidarietà» che Bossi gli ha manifestato già prima del vertice notturno a Palazzo Grazioli. Il premier deve allargare la maggioranza in Aula per riconquistare la maggioranza nelle commissioni, dove invece — com’è accaduto ieri alla Bilancio — il centrodestra è diventato minoranza.

Quanto alla Lega, è certo della fedeltà del Senatur, che sa come gestire le tensioni all’interno del gruppo dirigente e ha ancora presa sulla base, per quanto scalpitante. Il federalismo fiscale è l’obiettivo di Bossi, ma non di solo federalismo vive la Lega e il Cavaliere dovrà politicamente ricompensarla. Ma non c’è dubbio che, fra i tanti fronti aperti, il più pericoloso per il premier resta quello giudiziario, che sta avendo effetto sull’umore dei parlamentari del Pdl. Ieri alla Camera lo sconforto dei deputati berlusconiani era superiore a quello testato tra gli elettori berlusconiani, sebbene gli ultimi report riservati abbiano confermato al Cavaliere quanto già immaginava. Più del calo nell’indice di fiducia a destare preoccupazione è il trend negativo che da alcune settimane non si arresta. Non è un crollo, è un lento logoramento del consenso, attratto dall’area del «non voto», una sorta di buco nero che — a seconda degli istituti di ricerca— va dal 32 al 45%.

Le difficoltà di Berlusconi eccitano gli animi nell’opposizione, dove già si disegnano nuovi organigrammi, compreso il prossimo inquilino al Quirinale. Diceva ieri in Transatlantico il centrista Lusetti: «Il futuro presidente della Repubblica sarà Prodi. Scommettiamo?». E il capogruppo del Pd Franceschini, con un silenzio-assenso, alzava il pollice prima di stringergli la mano. Ma a poca distanza si avvertiva un refolo di vento giudiziario, boatos che preannunciano nuove e clamorose inchieste, da Napoli e dalla Puglia, per vicende assai diverse in cui il Cavaliere non sarebbe coinvolto e che colpirebbero in modo bipartisan la nomenklatura della Seconda Repubblica. Altro che scontro finale. Con le toghe è uno scontro senza fine.

Francesco Verderami

16 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #136 inserito:: Aprile 02, 2011, 06:11:05 pm »

Settegiorni | Il colloquio

Berlusconi: dal Colle nessun ultimatum

«Il presidente della Repubblica non si sarebbe mai permesso di minacciare lo scioglimento delle Camere»

«Si va avanti con la legislatura fino al 2013», e così dicendo Berlusconi sembra smentire Napolitano ed entrare in rotta di collisione con il Quirinale.

Se non fosse che il premier si incarica di smentire le intenzioni attribuite al capo dello Stato, «perché il presidente della Repubblica non si sarebbe mai permesso di minacciare lo scioglimento delle Camere. Piuttosto Napolitano si è mosso pienamente in armonia con i poteri che la Costituzione gli assegna». Sta in questo gioco di parole lo spazio entro cui si muove il Cavaliere per depotenziare il rito delle consultazioni dei capigruppo al Quirinale, che da sempre evoca una situazione di crisi.

Per Berlusconi infatti «non c'è alcuna crisi all'orizzonte», e non solo perché «il governo può contare su una maggioranza solida» ma anche perché «non è in discussione la funzionalità delle Camere». Il presidente del Consiglio fa riferimento al «dettagliato resoconto» ricevuto dai capigruppo del Pdl che sono saliti giovedì al Colle, «e l'intervento di Napolitano è stato contenuto, felpato. Certo preoccupato per quel che è accaduto a Montecitorio. Ma non ha rivolto nessun ultimatum, è stato invece premuroso e pieno di sollecitazioni, affinché in Parlamento si possa creare una migliore atmosfera politica».

«Non solo, il presidente della Repubblica è stato sollecito e generoso di consigli perché ci sia un normale svolgimento dell'attività delle Camere». «Sollecito», appunto. Particolare che Berlusconi non può celare e nemmeno derubricare, così come deve convenire sugli «effetti negativi» determinati dal clima di rissa, quella che definisce «una contrapposizione accesa», determinata «da contrasti personali, dalle diaspore che ci sono succedute» nei vari partiti: «Parlamentari che prima stavano insieme si sono poi separati. Penso alla rottura tra noi e il Fli, a quella che è capitata anche nell'Udc...».

Ma tutto ciò non può giustificare gli episodi che hanno gettato discredito sul Parlamento. «Eccesso chiama eccesso. E questo è un male», riconosce il premier riferendosi all'alterco che mercoledì ha visto protagonista il ministro La Russa nell'Aula di Montecitorio: «Ma non era mai accaduto che dei manifestanti arrivassero fin sulla porta della Camera, suscitando poi reazioni che comunque sono andate al di là della norma». E che si sono ripetute il giorno dopo nello stesso emiciclo.

Il Cavaliere non pronuncia mai il nome di Fini, tuttavia critica la sua gestione dei lavori d'Aula: «Non capisco come si possa accettare una simile situazione. Avevamo interrotto la riunione del governo per consentire ai ministri di andare a votare il processo verbale alla Camera. Chi è in Aula ha il diritto di esercitare il proprio voto. Così finora era stato assicurato. E i ministri erano in Aula quando era stata aperta la votazione. Ma proprio mentre stavano per inserire la loro scheda, la votazione è stata chiusa. E se persino una persona mite come il ministro della Giustizia Alfano ha avuto un moto di stizza...».

La ricostruzione puntigliosa degli eventi serve a Berlusconi per scaricare sul presidente della Camera il malfunzionamento di quel ramo del Parlamento, per richiamare indirettamente l'attenzione del Colle sull'imparzialità della terza carica dello Stato, e per confutare la tesi secondo cui è colpa della maggioranza se quell'organismo non è più funzionale. Di più, il premier rivendica il «diritto» della maggioranza a proporre disegni di legge, e annuncia che la prossima settimana verrà chiesto a Montecitorio il voto sul «processo breve»: «Noi lo chiamiamo processo europeo, perché è un provvedimento che ci chiede l'Unione e che siamo obbligati a tradurre in legge». Un «obbligo» che consentirebbe al Cavaliere di evitare la sentenza del processo Mills: «A parte il fatto che quel processo è una farsa - sorride Berlusconi - visto il centinaio di provvedimenti a mio carico, non c'è norma in materia di giustizia che non mi coinvolga».

L'approvazione del processo «breve» o «europeo» è comunque decisiva per le sorti del Cavaliere, del governo e della legislatura. Si capisce dunque la determinazione del premier sul provvedimento. Non è chiaro invece come possa pensare di arrivare al 2013, se la maggioranza non riesce nemmeno a garantire i voti per il processo verbale. «Invece sono convinto del contrario», ribatte Berlusconi: «E sono certo che andrà tutto benissimo, perché saremo pure numericamente di meno, ma siamo più coesi. E abbiamo intenzione di rendere fruttuosi i prossimi due anni, incardinando in Parlamento la riforma della giustizia, la revisione dell'architettura dello Stato, e a breve anche la riforma del sistema tributario, alla quale stiamo lavorando».

Così il Cavaliere invia un altro messaggio al Colle, e motiva la volontà del governo di andare avanti. Eppure sono evidenti le difficoltà nella maggioranza e persino nel Pdl, «tensioni» che il premier definisce «comprensibili dopo tre anni di legislatura»: «In passato i governi duravano in media sedici mesi e c'era sempre una turnazione tra ministri. Perciò capisco... Ci sono aspettative che finora non hanno trovato esito positivo. Ed è chiaro che non si potranno accontentare tutti». È ai fedelissimi in sofferenza che si rivolge quando racconta che «alcuni si vedono passare davanti i nuovi arrivati», i Responsabili: «Ma sono loro che hanno garantito al governo una maggioranza in Parlamento e che in futuro ci consentiranno di varare le riforme».

Se così stanno le cose, per quanto tempo i berlusconiani resteranno responsabili? Berlusconi dice di non essere «preoccupato, non lo sono affatto», nemmeno degli avvertimenti di Scajola: «Claudio è leale e mi vuole bene. Sta cercando di tornare a svolgere un ruolo nel partito o in Parlamento, si vedrà. Stiamo considerando varie ipotesi». Il Cavaliere ha bisogno di stabilità e per ottenerla non si cura nemmeno di smentire l'immagine di un partito dove si fa a gara per posizionarsi in vista del «dopo», in attesa di contendersi un pezzo di eredità. Ma è chiaro a chi vorrà affidare il testimone: «Poco a poco si stanno facendo strada giovani personalità, di valore. Mi sembra ce ne siano. Nomi? Non ne faccio. Tanto per ora ci sono io». E chissà per quanto ancora. Vecchia storia...

Francesco Verderami

02 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #137 inserito:: Aprile 12, 2011, 06:38:00 pm »

LA MAGGIORANZA

Tremonti e i sospetti anti-Berlusconi: «Il complotto? È inesistente»

Il titolare dell'Economia: «Il Cavaliere vuole durare e senza di lui non c'è il Pdl»

ROMA - Non c'è rovescio politico o ribaltone economico in cui non venga chiamato in causa e additato come regista occulto di un complotto, ovviamente contro Berlusconi. E visto che vive ormai da tempo la condizione di indiziato, con ironia Tremonti anche stavolta smonta gli indizi a suo carico. Perché per uno che viene da un vertice a Pechino e sta per andare a un altro a Washington «non c'è tempo per organizzare un complotto».

È una battuta di cui il titolare dell'Economia si è servito in questi giorni per smontare la tesi di una nuova fase difficile nelle relazioni con il premier, sebbene il rapporto tra i due si regga da sempre su equilibri fragili. Ma accreditare l'idea che abbia tenuto il Cavaliere all'oscuro del cambio ai vertici di Generali non regge, se è vero che Gianni Letta da un mese sarebbe stato a conoscenza delle difficoltà crescenti di Geronzi. Di conseguenza non regge l'ipotesi di un'imminente macchinazione politica che la svolta di Trieste si porterebbe appresso.

Certo, l'indiziato resta tale agli occhi dei suoi avversari, che sono poi i suoi stessi colleghi di governo e di partito. Tuttavia ci sarà un motivo se Tremonti sfugge al gioco dei palazzi (quelli romani), e resta un passo indietro sostenendo di avere «difficoltà a capire il momento politico, complicato da decifrare». Potrà destare sospetto anche la più semplice delle considerazioni, e cioè che non vede una crisi dell'esecutivo all'orizzonte: «E chi la provocherebbe, se non c'è nemmeno l'opposizione?». Di una cosa è convinto, il premier «vuole durare». E se il Cavaliere non ha intenzione di passar la mano, a fronte della debolezza dello schieramento avverso, non c'è chi potrebbe intestarsi un clamoroso colpo di mano.

Tutto perciò resta com'è, nonostante il caos che regna nel Pdl, e che sembra da un momento all'altro far implodere tutto. «Fibrillazioni del nulla», così le derubrica Tremonti, convinto che se c'è Berlusconi non c'è il partito, e se non ci fosse più Berlusconi non ci sarebbe più il partito: «Non c'è eredità da dividersi», lo ripete ormai da anni. E ora inizia a credere che nemmeno con una squadra si potrà gestire il dopo, quando sarà.

Ecco il motivo per cui annota con algido distacco i conversari dei ministri suoi colleghi di partito, che in nome della realpolitik il Cavaliere sarebbe pronto a sconfessare se ce ne fosse la necessità. Pare l'abbia già fatto, confidando a Tremonti la propria irritazione. Il titolare di via XX settembre ne ha preso atto, dire che ci abbia creduto è esagerato. Anche perché sa che non si è trattato di una sola cena, e che da tempo gli incontri conviviali vanno avanti: all'ultimo, per esempio, c'era la Carfagna (assente la volta precedente) e non Galan (presente la settimana scorsa).

L'antitremontismo che ha innervato quelle discussioni non lo fa scomporre, almeno non ha fatto mostra di turbarsi quando ha raccontato che «quanto dicono di me non mi tocca. Io rispondo solo delle cose che faccio. E quando faccio qualcosa, prima mi preparo, poi espongo le mie idee e le difendo pubblicamente». Un messaggio rivolto a chi - in vista della manovra economica - attende di capire se «Giulio sarà dalla nostra parte», o se bisognerà difendersi da nuovi tagli ai bilanci dei dicasteri, che «impediscono qualsiasi azione politica».

La seconda opzione è la più probabile. Ecco cosa provoca «alcune fibrillazioni», secondo Verdini. L'ammissione del coordinatore del Pdl testimonia le tensioni interne, che difficilmente possono essere ridotte a «una questione di famiglia». E comunque, se voleranno i piatti, «Giulio» ha già pronto lo scudo per proteggersi: la firma di Berlusconi agli accordi sottoscritti in Europa. Traduzione: se qualcuno ha da porre obiezioni, si rivolga al premier.

E il Cavaliere non sembra per ora in grado di alzare la voce. Nelle ultime settimane ha provato a farlo, rilanciando sulla riforma fiscale. Ma il titolare dell'Economia avvisa che «la riforma non può significare la riduzione delle tasse. Non esiste, e Berlusconi lo sa». Né ha fondamento la storia che il premier volesse il progetto sulla propria scrivania prima delle Amministrative. A parte il fatto che le commissioni di studio istituite al Tesoro termineranno i loro lavori solo a fine maggio, la revisione del sistema tributario - secondo Tremonti - «non può essere piegata ai giochi elettorali. Anche perché, se la sbagli, poi le elezioni le perdi. Pure questo Berlusconi sa». Il punto è che il Cavaliere non sa nemmeno quando la legge delega per la riforma sarà presentata in Consiglio dei ministri. «Ci vuole tempo», dice Tremonti: «Negli anni Sessanta per cambiare il fisco ci misero sei anni». Sei anni? E Berlusconi?

Francesco Verderami

12 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #138 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:37:10 pm »

IL RETROSCENA

Il Cavaliere e il gelo con «Giulio»

Il sospetto: sta prendendo tempo

La linea di Tremonti: la riforma la faremo, ma non sarà certo una passeggiata


ROMA— Vivono ormai da separati in casa, e Berlusconi non si cura più nemmeno di celare l’umor nero verso Tremonti: «La via per la ripresa è quella che ha indicato Draghi» diceva ieri il premier furibondo. Peccato per lui che Draghi non sia il suo ministro dell’Economia e che Tremonti viva le citazioni del governatore di Bankitalia come una sorta di mozione di sfiducia. Non è quindi un caso se nella tarda serata il premier sia dovuto ricorrere a una nota ufficiale per evitare un clamoroso divorzio con il titolare di via XX Settembre. Ma è evidente che la situazione sia diventata insostenibile, che le posizioni siano ormai quasi inconciliabili, specie adesso che il Cavaliere ha bisogno della riforma del fisco, definita «prioritaria», per rilanciarsi e rilanciare il proprio governo.

Quanto sia logoro il rapporto tra i due l’hanno potuto constatare ieri gli invitati alla festa della Repubblica, nei giardini del Quirinale, dove Berlusconi e Tremonti si sono ostentatamente ignorati. E sarà pur vero che il superministro ha promesso la riforma, ma la preoccupazione del premier è che «Giulio» vesta di qui in avanti i panni dell’imperatore Fabio Massimo, che si metta a fare il Temporeggiatore, che prenda cioè tempo così da allentare la pressione. D’altronde agli interlocutori che riservatamente gli chiedono conto dello stato dell’arte, Tremonti offre sì assicurazione sulla volontà di portare a termine il progetto, «la riforma la faremo», ma aggiunge che «non sarà certo una passeggiata», che «il problema è trovare le risorse per finanziarla», che ha in mente «varie opzioni», ma che «al momento» non c’è la soluzione. Lo scontro è nelle cose: perché Berlusconi sostiene che al ministro dell’Economia «non spetta decidere ma proporre». Giusto. Il problema è, appunto, che manca «al momento» la proposta. Se e quando arriverà, non è poi detto che l’iter sarà rapido, perché Tremonti— temono i fedelissimi del Cavaliere— potrà dilatare a proprio piacimento i tempi per scrivere la legge delega, e — dopo l’approvazione delle Camere — potrà dettare sempre lui il timing per redigere i decreti legislativi.

L’idea che le sue sorti personali e quelle del suo governo siano nelle mani del ministro dell’Economia, che tutto passi insomma per Tremonti, aveva indotto ieri il premier a reagire pubblicamente. Berlusconi confida di avere stavolta l’appoggio della Lega, dove Maroni ha dato voce al malcontento per la gestione della linea di politica economica che avrebbe inciso sul risultato elettorale. Quando il ministro dell’Interno ha spiegato che «non è Tremonti sotto attacco ma l’intera maggioranza», non ha fatto che rinnovare le critiche del suo partito, riflettendo gli umori della base, dei piccoli imprenditori che stavolta non hanno votato per il Carroccio in segno di protesta per le «vessazioni» subite da Equitalia e dall’Inps. Un malumore che si è avvertito ieri in Consiglio dei ministri tra i rappresentanti leghisti quando si è trattato di rinnovare i vertici dell’Agenzia delle entrate, additata come «la struttura che ci ha fatto perdere alle Amministrative».

Ma le esigenze di Berlusconi non collimano del tutto con quelle di Bossi, ed è in questo spazio che trova riparo Tremonti. Almeno per ora. Il superministro è nervosissimo, avverte l’assedio di Berlusconi e del mondo delle imprese, che usano la ricetta di Draghi— diminuzione del carico fiscale e tagli selettivi di bilancio— per indurlo a cedere. Perciò Tremonti reagisce ogni qualvolta sente citare il Governatore e ricorda che l’esecutivo è atteso a una manovra da 40 miliardi per tenersi in linea con i dettami dell’Europa sui conti pubblici. Una manovra che si preannuncia «impopolare», come lo stesso ministro dell’Economia ha spiegato a colleghi di governo del Pdl e della Lega. Ecco il motivo per cui Bossi si interroga su cosa fare, perché ripresentarsi dinnanzi al Paese con un simile provvedimento dopo la sconfitta elettorale non lo convince. Sta in queste contraddizioni il rischio per la tenuta del governo, le tensioni che attraversano la maggioranza: da una parte c’è il pressing di Berlusconi che vuole a tutti i costi la riforma tributaria, dall’altra c’è la volontà di Tremonti di onorare gli impegni sul bilancio dello Stato.

Così l’esecutivo rischia lo stallo, anzi il conflitto. Perché i fedelissimi del Cavaliere nell’esecutivo sostengono che si tratti di un falso problema e guardano con sospetto gli atteggiamenti di Tremonti. «I governi hanno ragione di esistere se governano» attacca Brunetta: «E senza le riforme un governo va in crisi. Ma in questa situazione, le ipotesi di esecutivi tecnici o di elezioni anticipate sono solo mosse avventuriste» . «La verità— prosegue il titolare della Pubblica amministrazione — è che per curare l’economia italiana non possono bastare gli antibiotici, cioè i tagli, che servono all’opera di risanamento per bloccare l’infezione del debito. Al Paese è necessario dare anche le vitamine, cioè le misure per lo sviluppo, necessarie per garantire la crescita. Lo dice anche Draghi» . E ci risiamo...

Francesco Verderami

01 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_giugno_01/
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« Risposta #139 inserito:: Giugno 09, 2011, 12:09:06 pm »

   
Il retroscena

La linea (dura) di Tremonti

Lite per le tasse con il Cavaliere

Scontro al telefono con il premier: basta parlare di riforma fiscale, aspettative deluse e si perde consenso


I sogni per Berlusconi tremontano all'alba. Perché lunedì sera, dopo il vertice di Arcore, il premier si era presentato raggiante alla festa dell'Arma. «Finalmente l'abbiamo stretto», aveva sussurrato ad alcuni ministri incrociati a piazza di Siena: «Vedrete che stavolta riusciremo a farla».
Il Cavaliere non aveva avuto bisogno di specificare a chi si riferisse e a che cosa: era chiara l'allusione a Tremonti e alla riforma del Fisco.

Il fatto che Bossi si fosse inserito nell'alterco tra lui e il titolare dell'Economia, senza però prenderne le difese, aveva rincuorato Berlusconi. «Giulio, qui nessuno vuole rompere. Però fatti venire un'idea». Ma già martedì mattina per il premier le cose si erano nuovamente complicate. Sul tavolo Tremonti, dopo aver battuto i pugni, aveva sbattuto anche una pila di carte alta così, per far capire che è «impensabile» intervenire sul fronte delle tasse. Un concetto che in nottata - all'incontro da Berlusconi con Bossi e Calderoli - aveva ribadito, dando origine all'ennesima rissa verbale con il Cavaliere.

E pensare che l'appuntamento a tarda ora era stato preso per placare l'ira del Senatùr, almeno così aveva anticipato il ministro della Semplificazione al capo del governo: «Silvio, guarda che sulla storia del trasferimento dei ministeri al Nord, Umberto si è arrabbiato. Si sente preso in giro da te». Poco importa se davvero a Bossi interessasse la questione. Una volta appianata, Berlusconi e Tremonti hanno ripreso a litigare sulla revisione del sistema tributario.

E non è finita lì. Il terzo atto è andato in scena ieri mattina, quando il ministro dell'Economia ha chiamato al telefono il premier, e gli ha parlato con toni (quasi) ultimativi: «Non devi più parlare di riforma fiscale, così si creano aspettative. Poi le aspettative vengono deluse e si perde consenso. In questa situazione, meglio sarebbe andare alle elezioni». «In questa situazione, se andiamo alle elezioni le perdiamo», ha urlato Berlusconi in viva voce: «Bisogna prima intervenire sulle tasse».
Raccontano di aver visto il Cavaliere digrignare i denti, mentre dall'altro capo si sentiva ripetere da Tremonti che un minor gettito sul fronte delle entrate, «perché di questo si tratterebbe», manderebbe il Paese gambe all'aria sui mercati: «Bisogna tagliare, invece. Per esempio, l'Ice...». Il premier per un attimo ha pensato all'Ici. «No, no, l'Ice, i fondi per l'Istituto del commercio estero. Sono un sacco di soldi». «E le province allora? E tutti i finanziamenti inutili?».

Un prolungato dialogo tra sordi, concluso da un commento del Cavaliere che il ministro dell'Economia non ha sentito: «Non so come faccio ancora a sopportarlo». In realtà i due non fanno ormai più nulla per celare il grande freddo, alimentato da battute del titolare di via XX settembre (non si sa quanto veritiere) riferite a Berlusconi, che a sua volta provvede a divulgarle. L'ultima risale alla scorsa settimana e narra di un colloquio tra Tremonti e «un comune amico», così l'ha definito il Cavaliere. «Giulio, ma davvero sei caduto in disgrazia con Silvio?». E «Giulio», di rimando: «Veramente è Silvio che è caduto in disgrazia presso di me».

Quanto ancora possa durare questo rapporto non si sa, come non si sa quanto possa reggere ancora il governo in queste condizioni. Perché Berlusconi è consapevole del logoramento, preoccupato per le crepe nella maggioranza, timoroso persino dei numeri alla Camera per la fiducia. E osserva guardingo le mosse di Tremonti, che ieri è stato ricevuto da Napolitano, a cui ha illustrato le linee guida della manovra triennale, così da mettere al riparo i conti pubblici e al tempo stesso cercar riparo sotto l'ala protettiva del Colle.

Il capo dello Stato formalmente resta un passo indietro, ma segue le vicissitudini della maggioranza e ne è informato. Doveva sapere qualcosa del vertice di Arcore, e dello scontro che c'era stato, se la sera stessa - incontrando Maroni alla festa dei Carabinieri - si è rivolto al ministro dell'Interno con una battuta: «Non vedo ferite...». Maroni però è convinto che l'opinione pubblica possa nel prossimo futuro «ferire» politicamente la maggioranza, più di quanto non abbia già fatto alle Amministrative: «Se andiamo dietro la linea di Tremonti - ha sussurrato a un collega di governo - andremo presto tutti quanti a fondo. E nel Paese ci prenderanno a calci nel sedere».
Anche Bossi se n'è convinto, anche lui - al pari del Cavaliere - crede che l'emorragia di consensi sia avvenuta soprattutto a causa della linea di politica economica. Ed è vero che il Senatùr intende tenere saldo il legame con il superministro, era sincero quando gliel'ha detto mentre era in corso la zuffa con Berlusconi: «Giulio, qui nessuno vuole rompere. Però fatti venire un'idea». «L'idea» dovrà arrivare immancabilmente prima dell'appuntamento di Pontida, è questa la dead-line imposta dal capo del Carroccio, che vuole (anzi deve) dare risposte al «popolo padano», per invertire la linea di tendenza del partito.

In questo confida Berlusconi, certo terrorizzato per quanto potrebbe accadere sulla spianata sacra alla Lega, ma al contempo fiducioso che la pressione dell'alleato possa aiutarlo nell'assedio a Tremonti e fare infine breccia. Bisogna trovare al più presto «l'idea», e per quanto possa apparire paradossale ora è il Cavaliere a dire che «la politica degli annunci non basta più per rilanciare il governo. Servono misure che incidano». Altrimenti, sa che il suo destino - già compromesso - potrebbe essere segnato: «A forza di risanare solo i conti, facciamo la cura dimagrante al Paese e anche ai nostri voti».

Berlusconi contro Tremonti, il sogno contro la realtà, la riforma del fisco per il rilancio dell'economia contro la manovra europea per il risanamento del bilancio dello Stato: dove possa trovarsi un punto di compromesso non si sa, e non è detto che si trovi. Per ora è muro contro muro, e il Cavaliere spera di abbattere quello del suo superministro: «Bisogna lavorare per piegare le sue resistenze. Mi sono rotto le scatole». Fuori i secondi. Anche Gianni Letta è stato visto scendere precipitosamente dal ring.

Francesco Verderami

09 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_giugno_09/
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« Risposta #140 inserito:: Luglio 13, 2011, 04:15:08 pm »

E tornano le voci di dimissioni di Tremonti

Governo al rimpasto

L'idea del Cavaliere

Il presidente del Consiglio vuole rafforzare l'esecutivo: il mio orizzonte era e resta il 2013


MILANO - Non basta porre al riparo l'economia italiana perché il governo possa sentirsi al riparo da un logoramento già in atto.
Perciò, dopo la manovra sui conti pubblici, Berlusconi dovrà procedere alle manovre per il riassetto dell'esecutivo.

All'emergenza dei mercati si affianca infatti l'emergenza di una compagine ministeriale da ristrutturare, se davvero il centrodestra vuole completare la legislatura senza inciampi, senza essere cioè costretto a passare la mano. L'idea è che il Cavaliere attenda l'autunno per un rimpasto, così da realizzare il suo obiettivo, siccome ripete sempre che «il mio orizzonte era e resta il 2013». E tuttavia già lo attende una prova che si è resa inevitabile dopo l'elezione di Alfano alla segreteria del Pdl: la nomina di un nuovo Guardasigilli. A Mirabello, venerdì scorso, il ministro della Giustizia aveva annunciato che si sarebbe dimesso entro questa settimana. Così sarà: con ogni probabilità venerdì prossimo lascerà l'incarico per dedicarsi esclusivamente al partito.

A Berlusconi serve un sostituto, quindi, e serve subito. Ma soprattutto gli serve un nome su cui poter incrociare il gradimento del capo dello Stato, che - guarda caso - ha accorciato la visita programmata in Croazia. Venerdì, invece di recarsi a Pola, Napolitano tornerà infatti a Roma «per impegni riconducibili alla manovra e alla complessiva situazione che ne deriva». Il lessico quirinalizio lascia intuire che il presidente della Repubblica rientrerà in Italia non solo per la firma del decreto economico.

E chissà se il capo dello Stato, sull'aereo che lo riporterà nella Capitale, siederà accanto a chi di lì a poco sarà il prossimo Guardasigilli. Chissà se chi lo avrà accompagnato nel viaggio cambierà nel giro di poche ore incarico: l'attuale ministro degli Esteri. È su Frattini che le voci si sono fatte insistenti, è lui il più accreditato e probabile successore di Alfano alla Giustizia. Dopo un mese la rosa dei nomi ha perso (quasi) tutti i petali: constatata l'indisponibilità di Cicchitto a lasciare la guida del gruppo Pdl alla Camera, messa agli atti la volontà di Lupi di restare alla vice presidenza di Montecitorio, si è tornati su Frattini, che pure era stato in precedenza contattato e aveva declinato l'offerta. Ora però Berlusconi sarebbe tornato a premere, chiedendo «un sacrificio» al titolare della Farnesina, che si trincera dietro un «no comment».

Se così fosse, risolto il problema del Guardasigilli si porrebbe però subito il problema del sostituto di Frattini. E qui si entra nel campo delle ipotesi, siccome le variabili sono numerose. Non c'è dubbio che Berlusconi avrebbe un po' di tempo per trovare un nome gradito al Colle. Al contrario della Giustizia, infatti, il premier potrebbe assumere l'interim della Farnesina. A meno che le voci di Palazzo non trovino poi clamorosa conferma, e davvero Tremonti lasci il dicastero dell'Economia appena il Parlamento avrà dato via libera alla manovra. Da giorni se ne parla nei pissi pissi del Transatlantico, anche se l'inquilino di via XX settembre aveva smentito proprio al Corriere l'intenzione di dimettersi.
È vero che nell'ultima settimana le cose sono precipitate, che nel frattempo i contrasti con il Cavaliere hanno toccato l'acme, che le vicende giudiziarie legate al «caso Milanese» - come testimoniavano ieri quanti lo hanno incontrato - lo hanno provato, e che le speculazioni finanziarie hanno intaccato l'immagine di chi era considerato uno «scudo» per l'Italia sui mercati. Ma se così fosse, se davvero Tremonti si dimettesse, accetterebbe poi di trasferirsi alla Farnesina?

È certo che «il rapporto fiduciario con Berlusconi si è rotto»: i ministri più vicini al Cavaliere non ne fanno più mistero. Così com'è vero che il premier in queste settimane ha svolto un sondaggio a Bruxelles per verificare l'impatto nell'Unione di un cambio della guardia all'Economia. Fonti qualificate del governo raccontano che nel colloquio avuto con il capo dell'eurogruppo Juncker, Berlusconi abbia affrontato l'argomento, parlandone come di una «ipotesi», e abbia accennato a un «autorevolissimo economista» come possibile sostituto di Tremonti. Ma senza fare nomi.
Un simile cambio della guardia, però, non potrebbe essere derubricato a semplice rimpasto, si tratterebbe infatti di una autentica rifondazione dell'esecutivo, che avrebbe bisogno di un nuovo battesimo parlamentare: si tratterebbe di un Berlusconi-bis. E il Cavaliere non sembra avere oggi la forza per procedere a un'operazione del genere, nonostante circolino voci sulla sua volontà di «valorizzare» alcuni ministri, come Sacconi, e di spostarne altri, come Brunetta. Senza dimenticare che resta da assegnare l'incarico delle Politiche comunitarie, lasciata vacante da Ronchi.

Insomma, dopo aver portato a casa la manovra economica, servirà del tempo al premier per prepararsi politicamente alle manovre di governo. Perciò, nell'eventualità, l'appuntamento è spostato per l'autunno, quando anche le inchieste giudiziarie potrebbero avere un ruolo nelle scelte. Ma nella Lega c'è chi - come Maroni - ritiene che il rilancio non possa limitarsi a un valzer delle poltrone, bensì passi attraverso l'azione di governo. Iniziando ad esempio dall'approvazione della legge delega per la riforma del fisco già prima della pausa estiva, come Bossi ha chiesto a Pontida.

L'autunno sarà caldo per il Cavaliere, malgrado anche stavolta abbia passato indenne l'«ora x» che prevedeva in prossimità della manovra economica una manovra di Palazzo per disarcionarlo: a parte i nomi dei possibili successori, mancano i numeri e le condizioni politiche in Parlamento. Perciò anche ieri il premier si è fatto forte, ribadendo la compattezza e la coesione della sua maggioranza. È stata la risposta a chi voleva spodestarlo. Ma senza un rilancio dell'esecutivo, Berlusconi rischia di trasformarsi in Pirro.

Francesco Verderami

13 luglio 2011 07:19© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_luglio_13/governo-rimpasto-idea-berlusconi-verderami_297ab4cc-ad0f-11e0-83b2-951b61194bdf.shtml
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« Risposta #141 inserito:: Settembre 03, 2011, 11:36:34 am »

Settegiorni

Silvio e Giulio al duello finale

La frattura tra Berlusconi e Tremonti è di visione strategica, collegata alla linea economica

C' è il capo d'azienda Berlusconi Silvio che si vanta di non aver mai licenziato nemmeno uno dei suoi cinquantamila e passa dipendenti. E c'è il capo di governo Silvio Berlusconi che se potesse avrebbe già licenziato il titolare dell'Economia, ma si lamenta di non poterlo fare, «perché non ho il potere di revoca, dovrei chiedere le dimissioni di tutti i ministri per riuscirci. E figurarsi se in un momento come questo...» .

Non è più una questione di rapporti personali, non è più nemmeno un problema di contesa per la leadership. La frattura tra Berlusconi e Tremonti è di visione strategica, collegata alla linea economica. È come se militassero in coalizioni contrapposte, «perché non esiste - si lamenta il Cavaliere - che in questi anni Giulio sia passato per il capo del partito del rigore e io per il capo del partito della spesa. Io sono il capo del partito della crescita». Perché «a forza solo di tagli», è la sua tesi, si finisce per «ammazzare il Paese».

Di screzi e battute dissacranti tra i due c'è una vasta antologia, pari solo a quella tra il premier e il presidente della Camera. Negli anni, Tremonti ha paragonato Berlusconi a un «nonnetto», e Berlusconi ha visto in Tremonti un «cospiratore». Ora invece c'è solo spazio per elogi e lodi: il titolare di Via XX Settembre sottolinea infatti come «Silvio sia l'unico capace di raccogliere ancora consensi», mentre il Cavaliere vede nel suo ministro «un tecnico con capacità fuori dall'ordinario». Ma è proprio questo reciproco riconoscimento delle doti altrui che fa capire come la storia sia davvero arrivata al capolinea.

Sul resto il disaccordo è totale, e gli interventi sul decreto hanno reso incolmabile la distanza. L'ultima querelle è figlia del diverbio sull'aumento dell'Iva. «L'avessimo fatta subito, saremmo stati tranquilli», impreca sottovoce Berlusconi, che ha visto convalidata la sua tesi dopo la difficile giornata di ieri, segnata dalle critiche di Bruxelles sui contenuti della manovra, e dall'impennata dello spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi. «Con l'Iva - secondo il premier - avremmo dato un segnale chiaro ai mercati e all'Europa», senza peraltro avere problemi con gli altri Paesi dell'area dell'Euro, «visto che la Germania, per esempio, ha un'imposta più alta».

Ed è vero che ieri il ministro dell'Economia si è affannato a spiegare agli uomini della commissione e ad alcune cancellerie la bontà della manovra e la validità dei suoi obiettivi, ma anche in questo caso Berlusconi ritiene che vada smentita «la storiella in base alla quale Giulio conterebbe più di me in Europa. È il contrario». A parte il fatto che all'estero c'è un deficit di credibilità dell'intero sistema politico, non c'è dubbio che l'uomo dei «conti in ordine» qualche colpo ultimamente l'abbia perso. Fino a qualche mese fa Tremonti era in cima alle simpatie del Paese, corteggiato dall'opposizione, indicato come possibile presidente del Consiglio, primo nella classifica dei ministri con un indice di gradimento oltre il 50% che faceva ingelosire il premier. Se in men che non si dica è precipitato di circa venti punti, c'è un motivo. A danneggiarlo nei sondaggi pare sia stato il modo in cui la crisi economica si è di colpo avvitata, costringendo così il governo a intervenire per fronteggiare l'emergenza.

Per questo Tremonti è finito nel mirino della pubblica opinione. Più che per il «caso Milanese», che pende comunque come una spada di Damocle sul capo del ministro e rischia di azzopparlo definitivamente se la Camera accogliesse la richiesta d'arresto per il suo ex consigliere politico. Anche se nel Pdl si chiedono quanto a lungo potrebbe resistere Tremonti a fronte di nuove rivelazioni provenienti dall'inchiesta giudiziaria, non è così che Berlusconi vorrebbe sciogliere il rapporto con il titolare di Via XX Settembre.

Eppoi «non è il momento», prima è necessario che si fermi o quantomeno rallenti l'ottovolante della crisi, prima serve che il governo porti a compimento la manovra. Poi, semmai il Cavaliere fosse ancora in sella, si renderebbe necessario discutere con la Lega un piano che consenta al centrodestra di rilanciarsi in vista delle elezioni. E siccome serviranno quasi certamente altri interventi, ci sarà un nodo da sciogliere: chi gestirà l'economia?

«Non possiamo affidare una nuova manovra a chi finora le ha sbagliate tutte», hanno sussurrato alcuni esponenti di governo all'orecchio del premier. E non c'entrano gli ultimi tagli ai dicasteri che hanno mandato su tutte le furie ministri come Maroni, La Russa e la Gelmini. Il nodo è politico, ed è stato posto pubblicamente dal responsabile del Viminale, secondo cui «l'Economia va spacchettata, perché non possiamo avere due presidenti del Consiglio». Quel messaggio è stato colto da Berlusconi, che - grazie anche ad Alfano - ha riaperto un canale di dialogo con Maroni...

Francesco Verderami

03 settembre 2011 09:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_03/silvio-e-giulio-al-duello-finale-francesco-verderami_eb0be96a-d5f7-11e0-a2ab-ce11126458a9.shtml
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« Risposta #142 inserito:: Settembre 10, 2011, 05:59:24 pm »

Settegiorni

Berlusconi, le voci e i timori sul "colpo finale" dei magistrati

Il retroscena

Passerà la mano, ma non ora.

Perché non intende sottomettersi ai «diktat» della politica e delle procure, «che dal '94 sono all'opera per togliermi di mezzo».

Ma dopo diciassette anni di conflitto con la magistratura, Berlusconi teme ciò che in pubblico dice di non temere affatto. E l'immagine che consegna ai fedelissimi è quella di un uomo provato da una lunga guerra di trincea.

I segni degli scontri risaltano sul volto del Cavaliere e ne minano la voce, che trasmette l'inquietudine di chi mette nel conto un'ipotesi estrema, un evento che cambierebbe il corso della storia politica italiana e marchierebbe quella personale di Berlusconi. I suoi uomini non osano nemmeno pensare ciò che il premier - abbandonato su un divano - arriva invece a dire, come a voler esorcizzare un traumatico finale di partita.

Il timore di un provvedimento restrittivo della libertà personale lo accompagna da giorni e non lo abbandonerà fino all'appuntamento di martedì con i magistrati napoletani, titolari al momento dell'inchiesta sul «caso Tarantini», una faccenda di presunti ricatti che ruota attorno all'ennesima storia di festini e di donnine in cui è coinvolto il Cavaliere. Nel modo in cui protesta la «libertà di fare ciò che voglio nella mia sfera privata», nel modo in cui rivendica «un diritto che andrebbe tutelato», si avverte come Berlusconi sia consapevole del danno che si è arrecato lasciandosi andare a «certe leggerezze», che non sono contemplate tra i suoi «fioretti» e che però nulla hanno a che vedere con «i reati».

All'esame di coscienza prevale tuttavia l'indignazione verso il sistema giudiziario, un potere che secondo il premier si fa gioco di ogni altro potere, e che nella fattispecie dell'inchiesta ha disseminato una tale serie di indizi da rendere manifesto - a suo giudizio - «l'intento politico e persecutorio». Del «caso Tarantini» Berlusconi contesta infatti la competenza della Procura di Napoli, le procedure usate dagli inquirenti e anche - anzi soprattutto - le modalità dell'interrogatorio a cui si dovrà sottoporre.

Perché passi che «Napoli non c'entra nulla» con reati che si sarebbero consumati tra Roma e Bari. Passi che «se io sono vittima di un'estorsione, vengo interpellato per capire se così stanno le cose, e non si arrestano le persone per fare trapelare le intercettazioni sul mio conto». Ma è il rendez-vous di martedì che - agli occhi del Cavaliere - rappresenta la vera insidia, e che gli fa capire come i magistrati abbiano studiato l'ultimo affondo nei suoi confronti. È nel faccia a faccia con i pubblici ministeri, da persona informata dei fatti, che Berlusconi intravvede la prova di come stiano preparandosi a infliggergli «il colpo di grazia».

Senza l'assistenza di un legale, solo davanti all'emblematico e storico «nemico», il premier scorge la minaccia, la contestazione della ricostruzione dei fatti, l'accusa di falsa testimonianza, e il conseguente e clamoroso provvedimento. Se così fosse, il fantasma che lo insegue dal '94 si farebbe carne. Se così fosse, per il Cavaliere sarebbe «un colpo di Stato». Non è dato sapere se abbia esplicitato i propri timori per alleggerirsi da un presentimento che lo opprime. Oppure se si sia mosso da abile regista della comunicazione per bloccare anzitempo una simile conclusione dell'interrogatorio.

Di sicuro il palazzo della politica ne è stato messo a parte, avversari e alleati sanno dell'ansia di Berlusconi. Tra i primi c'è chi gli ha proposto maldestramente uno «scambio», che al Cavaliere è parso «un ricatto». Tra i secondi c'è chi si defila per celare il proprio imbarazzo, sebbene i giudizi severi sui costumi di Berlusconi non cancellino i giudizi altrettanto severi sui metodi di certe procure.
Nel Pdl invece la solidarietà pubblica verso il premier è stata accompagnata da un senso di stordimento e di incredulità che in privato è tracimata fino a diventare rabbia. Perché davvero stavolta il Cavaliere «non poteva non sapere» che sarebbe stato intercettato, e l'imprudenza è arrivata così a sconfinare nell'impudenza. Per un Gianni Letta provato e senza più parole, c'è un partito preoccupato per le proprie sorti politiche, che inevitabilmente coincidono con quelle di Berlusconi.
Ma al destino del Cavaliere è accomunata un'intera classe dirigente: «Quando crollerà lui - disse Casini in tempi non sospetti - c'è il rischio che sotto le macerie ci si finisca tutti». Ecco perché tutti stanno con il fiato sospeso. Dopo diciassette anni di conflitto, Berlusconi si prepara alla sfida finale con la magistratura. Almeno, così sembra...

Francesco Verderami

10 settembre 2011 12:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_10/verderami-magistrati-berlusconi_885c2236-db78-11e0-b2c4-3586dc7a9584.shtml
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« Risposta #143 inserito:: Settembre 16, 2011, 11:57:20 am »

Il retroscena

Il Pdl e il dubbio che cresce: c'è un problema di credibilità

La linea è «resistere». Ma la sortita di Pecorella segnala le prime crepe

ROMA - Finché a schierarsi contro Berlusconi sono stati l'establishment politico, le Procure e quella sorta di complesso finanziario-industriale che va sotto il nome di poteri forti, il centrodestra si è vantato di esser sempre riuscito a rompere l'assedio. Ma ora che contro Berlusconi è entrato in campo Berlusconi, tutto si è fatto maledettamente complicato. Perché è vero che l'eventuale declassamento del rating per l'Italia preoccupa più delle inchieste giudiziarie, ma è altrettanto vero che per il gruppo dirigente del Pdl e della Lega è diventato difficile difendere in pubblico lo stile di vita privato del Cavaliere e le sue frequentazioni.

Certo non è in questo modo che cadrà il premier, capace di sovvertire le leggi della fisica in politica e di rafforzarsi in Parlamento con nuovi arrivi, proprio nel momento di maggior debolezza. Ma la navigazione a vista cui il governo e la coalizione sono costretti permette così solo di sopravvivere, non di ipotecare il futuro puntando alla vittoria nelle urne. Perciò nel Pdl si affannano a cercare di invertire la tendenza, e il vertice di partito tenuto ieri senza Berlusconi è stato il tentativo - come dice il capogruppo Gasparri - di «costruire il futuro viste le difficoltà del presente».

Non c'è dubbio che tutti siano solidali con il premier, vittima di un'«offensiva giudiziaria perpetrata con ogni mezzo», però le carte delle inchieste consegnano un Berlusconi che scredita Berlusconi. Sarà pure «il reale obiettivo delle indagini», come sostengono i fedelissimi del Cavaliere, ma tutto ciò sta determinando un problema di «credibilità» per l'esecutivo e la maggioranza, perché impedisce al centrodestra di intestarsi i risultati dell'azione politica e di governo: ad esempio il varo della manovra economica. E di questo ai vertici del Pdl sono tutti consapevoli.

Lo stato dell'arte e la prospettiva di una débâcle elettorale accrescono lo sconcerto e il malcontento, che covano da tempo nella maggioranza. Non sono una novità le critiche verso Berlusconi di Salvini, leghista di rito maroniano, secondo cui il Cavaliere «ha esaurito il suo mandato, la voglia, la possibilità e la forza». I ripetuti affondi, l'ha spiegato ieri il sindaco di Verona Tosi - altro dirigente leghista vicino al titolare del Viminale - «non sono delle critiche all'alleanza, quindi al Pdl, ma a qualche scelta del premier». Traduzione: la coalizione sopravvivrebbe al Cavaliere.

Va messa quindi nel conto la possibilità che l'area della Lega fedele al ministro dell'Interno possa sfruttare il «caso Milanese» per sparigliare i giochi, utilizzando l'eventuale voto segreto alla Camera per la richiesta di arresto dell'ex consigliere politico di Tremonti. Ed è in questo filone che viene inserito il fantomatico progetto di sostituire in corsa Berlusconi con Alfano a palazzo Chigi, operazione che sarebbe coltivata dal leader dell'Udc Casini, dal dirigente cattolico del Pd Fioroni e dal segretario della Cisl Bonanni, con la complicità proprio di Maroni. Un'ipotesi a cui il coordinatore del Pdl Verdini non dà credito e che interpreta come «l'ennesimo tentativo di golpe, in tono minore, dopo quello fallito il 14 dicembre».

In effetti ancora ieri, Alfano e i vertici del partito hanno concordato sulla necessità di arrivare fino al 2013 con Berlusconi alla guida del governo, sapendo che allora il Cavaliere passerà la mano. La parola d'ordine dunque è «resistere», per evitare di offrire a Casini la possibilità di accaparrarsi pezzi del Pdl e della coalizione che, in caso di crisi dell'esecutivo, salterebbero. L'obiettivo è semmai quello di rafforzarsi sul territorio con i congressi, e al tempo stesso di aprire una trattativa con il capo dell'Udc, così da giungere in vista delle urne a un'intesa, ma da una posizione di forza e non di debolezza. Il terreno per coltivare l'accordo sarebbe stato trovato: il quoziente familiare sul versante economico e la legge elettorale sul versante politico.

Paradossalmente, proprio ciò che arrecava (e arreca ancora) fastidio al Cavaliere, cioè il partito, si è trasformato in un indispensabile strumento di difesa, l'ultimo che gli è rimasto insieme ai numeri in Parlamento. Ma il Berlusconi che scredita Berlusconi sta arrecando danni a Berlusconi. Al punto che un parlamentare finora legatissimo al premier, come il suo ex legale di fiducia, Pecorella, si è convinto che «in questa fase di emergenza» serva «un nuovo governo, di larghe intese, anche senza Berlusconi». Nel Pdl non è l'unico a pensarlo. Il malumore si manifesta in vari modi: è stato notato, per esempio, come mercoledì gli scaioliani abbiano votato tutti insieme la fiducia sulla manovra solo alla seconda «chiama». Riti da Prima Repubblica che si rinnovano nel finale della Seconda. Anche se non è così che cadrà il Cavaliere.

Francesco Verderami

16 settembre 2011 09:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_16/verderami_dubbio_cresce_adb019da-e027-11e0-aaa7-146d82aec0f3.shtml
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« Risposta #144 inserito:: Settembre 24, 2011, 11:42:18 am »

IL RETROSCENA

La cabina di regia anti-Tremonti

Letta media: se cade lui, cade il governo

Prima di partire per gli Stati Uniti, Tremonti ha tolto tutte le carte dalla scrivania del ministero. Berlusconi vorrebbe che svuotasse anche i cassetti e togliesse il disturbo dal governo. Il titolare dell'Economia è però convinto di restare, non solo perché non si dimetterà ma anche perché «non hanno strumenti per cacciarmi». In realtà, il Cavaliere aveva pensato addirittura a una mozione di sfiducia individuale pur di chiudere il rapporto, e c'è voluto del tempo prima che Gianni Letta lo riportasse alla ragione.

«Silvio, non hai capito che se cade Giulio, cade anche il governo?». «Gianni, non hai capito che quello vuol far precipitare tutto». «Ho capito, ma un conto è se fossi tu a provocare lo scontro, altra cosa è se lui si dimettesse». Così è nata l'idea del direttorio a Palazzo Chigi, una task force economica sotto l'egida di Letta da contrapporre al titolare di via XX settembre. Più che spacchettarlo - come voleva Maroni - si pensa almeno a impacchettare Tremonti, a svuotarne i poteri, costringendolo alla collegialità, alla mediazione su ogni provvedimento, fino a metterlo in minoranza nelle riunioni del Consiglio dei ministri. «E vedremo quanto a lungo resisterà».

L'operazione tuttavia non è facile, e in più è Berlusconi ad avere fretta, perché deve dare un segnale al Paese sul versante economico prima di muovere guerra alla magistratura sul fronte giudiziario. Perciò il premier era deciso a sostituire subito Tremonti con Grilli, riproponendo il copione di sei anni fa: anche allora infatti era stato un direttore generale del Tesoro (Siniscalco) a subentrare al «genio». L'idea del cambio in corsa resta, ma per il momento il Cavaliere ha dovuto ripiegare su una struttura, il direttorio, tutta da costruire e che evoca la famosa «cabina di regia» chiesta nel 2002 da Fini proprio per contenere lo strapotere del superministro: fu quello il primo passo verso il «dimissionamento» di Tremonti.

Rispetto ad allora però Tremonti non ci pensa nemmeno a fare un passo indietro, e per quanto indebolito politicamente, si dice pronto ad affidare a Berlusconi la regia: «Si assuma lui la responsabilità di stabilire i tagli ai ministeri, i tagli alle pensioni. Faccia lui, insieme a Letta». Più che un segno di disponibilità sembra una sfida, a difesa delle proprie idee che - a suo modo di vedere - erano vincenti. L'uomo del «rigore» respinge infatti la tesi di aver «sbagliato quattro manovre», come gli contestano i suoi accusatori nel governo e nella maggioranza: «La verità è che fino a quando ho gestito io la situazione, lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi era molto basso. Poi...».
E qui comincia l'arringa difensiva di Tremonti, una storia che parte dalla sconfitta alle Amministrative, «quando Berlusconi non accettò l'idea che il risultato fosse stato causato dal bunga-bunga e non dalla linea di politica economica». In quel periodo il Cavaliere provò a rilanciarsi parlando di riforma del Fisco e di un possibile taglio delle tasse, «e da quel momento i mercati iniziarono a punirci». Fino ai giorni drammatici di agosto, quando il governo si trovò costretto alla manovra d'emergenza e il premier - secondo Tremonti - «provò a fare di testa sua».

In effetti fu del Cavaliere l'idea di chiamare il presidente della Bce per avere idee alternative a quelle del superministro, «e se chiamò Trichet, lo fece perché con lui poteva parlare in francese», sottolinea con una punta d'agro: «Ma la famosa lettera l'hanno scritta a Roma, mica a Francoforte. Figurarsi se lì gli veniva in mente l'abolizione delle Province, per esempio...». È a Draghi che allude Tremonti, all'«agente tedesco che fa gli interessi di Berlino», come una volta ha definito il governatore uscente di Bankitalia: «E quando Berlusconi ricevette la lettera si mise ad urlare dalla rabbia, perché aveva capito di esser stato ingannato».

Insomma, l'imputato scarica ogni responsabilità sul suo accusatore: sarebbe stato il Cavaliere a «organizzarsi da solo la trappola in cui poi è caduto». Così Tremonti si discolpa, e aspetta di conoscere le mosse del nuovo direttorio, vuole capire quale sarà il piano per la crescita. Perché di soldi non ce ne sono, «a meno che non si intenda contravvenire al patto del pareggio di bilancio per il 2013», né si può procedere con le dismissioni: «Lo Stato non può svendere gioielli di famiglia come l'Eni o l'Enel ora che le azioni in Borsa sono così basse». Resta l'altra strada, quella di operare «a costo zero, procedendo con le liberalizzazioni. Ma il Pdl lo accetterebbe? Perché ogni volta che ci ho provato, gli interessi corporativi hanno trovato udienza da Berlusconi...». Se c'è una cosa che manda in bestia i dirigenti del Pdl è l'aura di infallibilità che si è creata attorno a Tremonti. «Non passa riunione in cui non dica di aver previsto tutto», si lamentava tempo fa Verdini durante una riunione di partito: «E quanto ce l'ha tirata con la storia del suo libro, in cui sosteneva di aver previsto la crisi mondiale. Io l'ho letto quel libro. C'è scritto che la crisi sarebbe partita dalla Cina. Invece è scoppiata negli Stati Uniti...». Ecco qual è il livello delle relazioni. E non c'è dubbio che la situazione sia davvero imbarazzante.

Berlusconi e Tremonti continuano a non parlarsi, ma se le mandano a dire, come fossero acerrimi avversari. «Mai però ho parlato male di lui all'estero», sottolinea il superministro: «Non fosse altro perché avrei indebolito la mia posizione negoziale». Così dicendo sembrerebbe aprirsi uno spiraglio, ma è solo un abbaglio: «Io non ho mai parlato male di Berlusconi. Altra cosa è che di lui parlino male all'estero...».

L'incompatibilità è caratteriale oltre che politica. A tenerli insieme è solo il reciproco (e contrapposto) interesse alla sopravvivenza. Eppoi c'è Bossi. È lui che può decidere le sorti della contesa. Il Senatur sta facendo molto per il Cavaliere, «andremo avanti insieme, Silvio, fino in fondo», ma resta amico di Tremonti, «a lui gli voglio bene». È l'ultimo rimasto però nella Lega, insieme a Calderoli: oltre Maroni, anche nel «cerchio magico» monta l'ostilità verso il superministro, convinto però che sia tutta tattica e che «Umberto tra qualche mese saluterà Berlusconi e porterà tutti al voto l'anno prossimo».

Francesco Verderami

24 settembre 2011 09:18© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_24/cabina-regia-tremonti-verderami_ea718142-e66c-11e0-93fc-4b486954fe5e.shtml
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« Risposta #145 inserito:: Settembre 28, 2011, 09:57:03 am »

Il match settimanale tra Berlusconi e Tremonti se l'è aggiudicato il ministro dell'Economia

Le tensioni sulla nomina per Bankitalia

L'attenzione del Quirinale per salvaguardare l'indipendenza dell'autorità


ROMA - Lo scontro tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti ha ormai travalicato il perimetro politico, invadendo i confini istituzionali: è ormai evidente infatti che nella contesa tra il presidente del Consiglio e il titolare dell'Economia c'è anche la nomina del nuovo Governatore di Bankitalia. Così una pericolosa mano di Risiko a Palazzo Chigi si è trasformata in un rischioso giro di Monopoli che coinvolge Palazzo Koch. Non è un caso infatti se il dossier sul successore di Mario Draghi è stato oggetto del colloquio tra il Cavaliere e il superministro, se Berlusconi - pur di garantirsi una tregua - per la guida dell'Istituto di via Nazionale ha riaperto uno spiraglio alla candidatura di Vittorio Grilli, sostenuto da Tremonti.

Nulla è stato ancora deciso, «ne parleremo in Consiglio dei ministri», ha detto il premier al responsabile dell'Economia. Ma già in Italia rimbalzano le voci provenienti dall'Europa, e accreditano l'ipotesi che il direttore generale del Tesoro sia in corsa, al punto che tanto il presidente dell'Ue Herman Van Rompuy quanto il presidente della Commissione Josè Barroso sarebbero stati informalmente avvisati. Eppure una settimana fa, dopo l'incontro al Quirinale tra il capo dello Stato e il capo del Governo, sembrava fatta per la «promozione» di Fabrizio Saccomanni, attuale direttore generale di Bankitalia, che resta comunque accreditato.

In realtà il saliscendi nel borsino di Palazzo Koch è solo un espediente tattico del Cavaliere, un modo per prendere tempo in attesa della scelta definitiva. Non c'è dubbio infatti che questo passaggio garantisca ancora a Berlusconi un peso politico, la possibilità cioè di avere una interlocuzione istituzionale e di fissare una linea di politica economica. Il problema è che lo stallo politico nel governo finisce per riflettersi sulle cariche istituzionali. E se il Colle non si è intromesso, né intende farlo, nelle questioni interne all'esecutivo e alla maggioranza, non accetta però che la nomina del nuovo Governatore venga politicizzata. E vuole sottrarla all'immagine di una transazione politica.
A giugno Giorgio Napolitano si era mosso pubblicamente, auspicando che il passaggio fosse gestito seguendo le «regole procedurali», «senza forzature politiche e contrapposizioni personali», per tenere Palazzo Koch e il futuro presidente della Bce «al riparo da laceranti dispute». Di più, il capo dello Stato si era mosso anche riservatamente, inviando una lettera personale a Berlusconi, sottolineando che è «prerogativa esclusiva» del premier indicare il nome del candidato da proporre al Consiglio superiore della Banca d'Italia, e che solo dopo - previa concertazione con il Quirinale - tocca al governo la ratifica.

S'intuisce perciò l'irritazione del Colle in queste ore, dato che il presidente della Repubblica attende da quattro mesi la valutazione del Cavaliere, e che a novembre Draghi si insedierà alla Bce. Il tempo passa. La logica del rinvio e l'irritualità nelle procedure allarmano sia il capo dello Stato sia Bankitalia, e al contempo disorientano e sconcertano le istituzioni europee. Segnali in tal senso arrivano da Bruxelles e da Francoforte. Per questo Napolitano aveva richiamato sulla nomina a un «clima di discrezione», che invece lascia il posto a un evidente conflitto all'interno del governo tra il premier e il titolare dell'Economia: una impropria mediazione che mette a repentaglio l'indipendenza dell'Istituto di via Nazionale, lesiona il prestigio della carica e di chi finora l'ha occupata, e offre ai mercati un'immagine negativa delle istituzioni nazionali.

Nonostante le preoccupazioni del Colle e le pressioni perché si operi al più presto, non sembra però arrestarsi il braccio di ferro nel governo. E Tremonti non si arrende all'idea che Saccomanni succeda a Draghi. A suo giudizio, Grilli a Bankitalia sarebbe «la migliore soluzione per il Paese e per il governo»: sarebbe «un argine alla tecnocrazia europea». La scorsa settimana si è speso perché Berlusconi non chiudesse il dossier, dando il via libera alla «soluzione interna», cioè alla nomina dell'attuale direttore generale di Palazzo Koch. Un'estenuante trattativa tra il premier e il ministro dell'Economia aveva portato alla «fumata nera», tanto che il Cavaliere - salendo in serata al Quirinale - non si era sbilanciato sul nome del nuovo Governatore. Raccontano che Gianni Letta fosse furibondo: «Siamo ormai alla circonvenzione», aveva commentato. Tuttavia Saccomanni restava e resta in pole position.

Ora che il giro di Monopoli sta diventando il gioco dell'oca, ora che il nome di Grilli torna alla ribalta, nessuno però nel Pdl scommette che Berlusconi compia l'ultimo passaggio e acceda alla richiesta di Tremonti, siccome «non ha alcuna intenzione di mettersi contro il presidente della Repubblica e il futuro presidente della Banca centrale europea». Piuttosto il Cavaliere ha bisogno di tempo, «una decina di giorni» prima di sciogliere la riserva. Non è dato sapere se ieri ne abbia informato il Quirinale, è certo che - per quanto sia supportato in questa partita da Umberto Bossi - il ministro dell'Economia difficilmente la spunterà: è nel mirino del premier.

La tregua di queste ore appare fragile e non sarà facile cancellare i segni dello scontro tra i duellanti. L'attacco portato la scorsa settimana dal Cavaliere al titolare di via XX settembre non è stato casuale, e il suo giudizio sul superministro resta scolpito in una battuta fatta al vertice del Pdl dopo il voto alla Camera su Milanese, al quale Tremonti non ha partecipato. Quando il premier è entrato nella sala della riunione e ha visto i dirigenti del partito sedersi, ha sibilato: «Lasciate un posto libero. Pare che Giulio stia tornando...».

Francesco Verderami

28 settembre 2011 07:48© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_28/verderami-bankitalia-tensioni_e90b9634-e992-11e0-ac11-802520ded4a5.shtml
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« Risposta #146 inserito:: Ottobre 08, 2011, 11:03:19 am »

Il retroscena

Ancora scontro su Bankitalia

Berlusconi-Tremonti, tregua già in bilico

L'allarme nel Pdl: se cede a Giulio sul Governatore, il cavaliere firma la sua definitiva Caporetto


Prima di capire chi sarà il governatore di Bankitalia, c'è da capire chi è il presidente del Consiglio. Perché il braccio di ferro tra Berlusconi e Tremonti sul successore di Draghi segnala come lo scontro tra i due non sia cessato, e che - nonostante l'appello di Napolitano a tenere l'Istituto di via Nazionale fuori dalla disputa politica - attorno al nome del prossimo inquilino di Palazzo Koch si sta giocando l'ultima partita tra il Cavaliere e il superministro.
Il danno che si sta arrecando al prestigio di Palazzo Koch non è tanto causato dalle divergenze sulla scelta, quanto dal modo in cui il premier e il responsabile dell'Economia si stanno muovendo. Talmente plateale è il duello, infatti, da aver costretto Bankitalia a uscire allo scoperto per difendere la propria autonomia. Anche su questo si è soffermato Draghi durante l'incontro con Berlusconi a palazzo Chigi. E dinnanzi alle preoccupazioni espresse dal futuro presidente della Bce, il premier avrebbe inteso dare un segnale, anticipando la volontà di sciogliere presto - forse già oggi - le proprie riserve a favore di Saccomanni, attuale direttore generale della Banca d'Italia, definito «persona preparata, seria e posata».

Così si porrebbe fine alla disputa tra Berlusconi e Tremonti, che tuttavia non demorde e continua a sostenere la candidatura a via Nazionale del direttore generale del Tesoro, Grilli. Nel corso della cena a casa del Cavaliere, l'altra sera, il suo pressing sembrava avesse fatto breccia sul premier. Pur di riuscire nell'intento il superministro si era portato appresso Bossi e quasi tutto lo stato maggiore della Lega, mettendo di fatto in minoranza il segretario del Pdl Alfano e costringendo al silenzio Gianni Letta.
«C'è una qualche opposizione al nome di Grilli», aveva esordito a tavola Berlusconi. «Non ne vedo le ragioni», aveva replicato Tremonti. «Giulio, cerca di capire. Dobbiamo pensare ai mercati». «E perché mai i mercati dovrebbero prenderla meglio se ci fosse Saccomanni e non Grilli alla Banca d'Italia?». «Alla fine della cena - raccontava ieri il ministro della Lega, Calderoli - per Grilli era praticamente fatta. Poi...».

Poi è partita la controffensiva nel Pdl. Dalle più alte cariche fino all'ultimo parlamentare, passando dai ministri e dai dirigenti di partito, si è scatenata un'autentica rivolta. Quando Bossi ha dato pubblicamente il suo sostegno al nome di Grilli, una sorta di cordone sanitario è stato steso attorno a Berlusconi. E (quasi) tutti ripetevano lo stesso concetto: «Se Silvio cede a Tremonti sul Governatore, sarà la sua definitiva Caporetto».

In quel momento è parsa visibile la frattura insanabile tra il Pdl e il titolare di via XX settembre, frattura che oggi dovrebbe essere sancita da un vertice, dove (informalmente) verrà dato sostegno alla scelta di Berlusconi. Ma ieri, in quel frangente, la partita su palazzo Koch non era ancora chiusa, e nelle pieghe di un governo in difficoltà fiorivano le tesi più disparate, dall'idea di un «terzo uomo» con cui superare lo stallo tra Saccomanni e Grilli, all'ipotesi irrealistica che Berlusconi proponesse entrambi i nomi al Consiglio superiore della Banca d'Italia.

E nella battaglia non era coinvolta solo la politica, se è vero che a favore del direttore generale del Tesoro si sarebbe mossa la finanza internazionale, comprese alcune importanti società di rating. Così come si sarebbe mosso il Vaticano, promotore di una discreta (e insistente) attività di sponsorizzazione a favore di Anna Maria Tarantola, membro cattolico del direttorio di Bankitalia.

Il faccia a faccia tra Berlusconi e Draghi ha rimesso ordine alla vicenda, diventata ormai imbarazzante per le istituzioni. Il successivo colloquio avuto dal Cavaliere con Tremonti non ha però quietato il superministro, durissimo nel commentare la scelta di Saccomanni e soprattutto l'attivismo del futuro presidente della Bce: «Non è pensabile che Draghi faccia il giro delle sette chiese per imporre il nome del suo successore. Cedere ai suoi voleri è follia». Secondo Tremonti, Grilli sarebbe il Governatore che «serve al Paese» per «fronteggiare gli euroburocrati» e per non darla vinta al «nemico» che nei suoi ragionamenti ha le sembianze di Draghi, «l'agente tedesco».

Parole pesanti in un clima pesante nel governo, con i ministri sul piede di guerra con il titolare dell'Economia ma anche con Berlusconi. Perché se è vero che Tremonti sembra sul punto di perdere il duello su Bankitalia, è altrettanto vero che ieri l'inquilino di via XX settembre ha presentato al premier il decreto con i tagli ai dicasteri, costringendolo a firmare. Altro che cabina di regia, altro che collegialità: si tratta di un provvedimento «chiavi in mano» sul quale i colleghi di Tremonti non hanno potuto mettere il becco. Prendere o lasciare. E il Cavaliere ha dovuto prendere. I responsabili di quasi tutti i dicasteri, sbigottiti, sono saliti subito sulle barricate.

È tale lo scompiglio che il Consiglio dei ministri non è stato ancora convocato. Gianni Letta sta cercando di porre riparo allo sbrego, sebbene lui stesso sia irritato con il Cavaliere, perché costretto ieri mattina a partecipare al tavolo delle infrastrutture organizzato all'Economia, «mentre si sarebbe dovuto tenere a palazzo Chigi». Questa sarebbe la «tregua operosa», come la definisce Tremonti, che osservando il gran da fare dei colleghi sul decreto per lo sviluppo ha commentato: «Stanno facendo solo casino».

Francesco Verderami

29 settembre 2011 15:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_settembre_29/berlusconi-tremonti-la-tregua-gia-in-bilico_b468e486-ea69-11e0-ae06-4da866778017.shtml
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« Risposta #147 inserito:: Ottobre 08, 2011, 09:52:00 pm »

Settegiorni

La mossa di Casini: alle urne così

Il "corteggiamento" alla Marcegaglia


A lle urne, e senza cambiare la legge elettorale: non è Silvio Berlusconi a dirlo, è Pier Ferdinando Casini ad auspicarlo. Perché il leader dell'Udc non crede fino in fondo alle manovre in corso nel centrodestra per spodestare il Cavaliere, teme piuttosto un pasticciaccio brutto sul sistema di voto, un «porcellissimum» con cui Pdl e Pd farebbero fuori il Terzo polo.

Se così stanno le cose, meglio pararsi il fianco e puntare alle elezioni nel 2012. Nell'Udc già si scommette sulla data: il 15 e 16 di aprile. Non è dato sapere su cosa riponga tanta sicurezza Casini, se abbia preso per buone le confidenze di Giulio Tremonti, secondo cui «il governo non potrà arrivare al 2013, viste le scelte economiche impopolari e pesanti» che ha dovuto fare. Di certo il capo dei centristi si sta attrezzando già per la bisogna, siccome è scettico sulla possibilità che si arrivi a un cambio di governo nel finale della legislatura.

A suo modo di vedere, infatti, «non ci sono le condizioni politiche» per realizzarlo. E tuttavia attende che si consumi l'ultima possibilità, affidata a due «vecchi amici» che militano nel fronte berlusconiano. Beppe Pisanu e Claudio Scajola hanno dna democristiano come il suo, ma ciò non basta a rassicurarlo: «Avranno i numeri e la forza di staccarsi dal Pdl e di costituire gruppi parlamentari autonomi? E soprattutto saranno pronti a votare la sfiducia al governo? Perché questo dovranno fare, altrimenti il premier non si dimetterà per un incidente di percorso».

Sono domande che restano per ora appese, ma per le quali Casini attende risposta a stretto giro, «entro una settimana, dieci giorni al massimo», ha spiegato ai suoi interlocutori. Evocando le elezioni anticipate, il capo dei centristi prova a esercitare una pressione sugli «indignados» del centrodestra, e cerca di capire se è sincera la loro volontà di porre fine alla stagione del Cavaliere o se è un escamotage per concludere una trattativa interna al Pdl, garantendosi posti e ruoli nel partito: «E fino a prova contraria...».

I dubbi di Casini sono gli stessi di Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, secondo cui «non accadrà purtroppo nulla». Mai dire mai in politica. Però è sempre meglio non farsi trovare impreparati. E il leader dell'Udc si sta muovendo come fosse già in campagna elettorale, punta sull'attuale sistema di voto, dopo che Silvio Berlusconi «non ha accettato la nostra proposta», togliere cioè il premio di maggioranza e introdurre le preferenze: «Se fosse stato intelligente...». Questione di punti di vista.

E comunque, piuttosto di ritrovarsi con un «porcellissimum» che spazzerebbe via il terzo polo nelle urne, è preferibile il «porcellum», con cui scegliersi candidati fedelissimi e puntare a conquistare al Senato i seggi necessari per essere determinanti nella formazione di qualsiasi maggioranza di governo. I sondaggi in tal senso sono al momento confortanti: la coalizione di Casini viene quotata appena sotto il 13%. D'altronde con Berlusconi a palazzo Chigi non c'è possibilità che il terzo polo si allei con il Pdl, ma nemmeno con il Pd. Anche i sondaggi sconsigliano al capo dei centristi un abbraccio con i Democrat: secondo i test che ha commissionato, finirebbe addirittura per perdere dal Cavaliere.

«Meglio soli», dunque. Anzi, meglio scegliersi la compagnia. E da tempo il capo dei centristi corteggia Emma Marcegaglia, nella speranza che - lasciata Confindustria - accetti di essere lei la leader del terzo polo alle urne. È vero che i test sono favorevoli a Casini, insieme a Di Pietro «il leader più apprezzato», come sostiene l'ultimo report dell'Osservatorio politico nazionale: è lui infatti a trainare il terzo polo che «continua a soffrire l'effetto Fini».

La candidatura della presidente uscente degli industriali sarebbe però un modo per dirimere la questione del candidato premier con i leader di Fli e dell'Api, e consentirebbe a Casini di non compromettersi troppo nella competizione elettorale. È preferibile mantenere un profilo istituzionale per chi vuole in prospettiva gareggiare per la presidenza della Camera, e poi per quella della Repubblica...

Casini è così convinto dell'idea da aver fatto testare la Marcegaglia, e secondo alcuni istituti di ricerca una donna imprenditrice sarebbe una novità che raccoglierebbe voti dal serbatoio degli indecisi e drenerebbe consensi dagli schieramenti avversari. In più sarebbe una candidatura ideale «in funzione anti montezemoliana», si è detto nelle riunioni riservate del terzo polo, dove sono stati analizzati anche dei sondaggi sull'attuale presidente della Ferrari, che «in questa fase di nuovismo» incontra «i favori dell'opinione pubblica», e vanta - secondo la Lorien Consulting - il 26,9% dei giudizi positivi. Appena quattro punti in meno di Casini.

In campagna elettorale non bisogna lasciare nulla al caso e il leader dell'Udc si sente già in competizione, al punto che starebbero decidendo anche le candidature, e il presidente della Camera avrebbe deciso di optare per il Senato. Formalmente Casini aspetta di sapere come si concluderà l'operazione frondista nel Pdl. In cuor suo però ha deciso: preferisce le urne l'anno prossimo e con questa legge elettorale, avendo in tal caso chiara la strategia dopo il voto. Vuol costringere all'accordo di governo il centrosinistra e provare a disarticolare il centrodestra, con il Pdl in rotta e orfano del Cavaliere. Lo schema è semplice in questo quadro politico bloccato: se cambiasse il governo, invece, cambierebbe lo scenario. E Casini vuole giocarsi la partita in proprio, piuttosto che condividerla con altri, fossero anche dei «vecchi amici».

Francesco Verderami

08 ottobre 2011 16:16© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_08/la-mossa-di-casini_d85b25dc-f178-11e0-8be4-a71b6e0dfe47.shtml
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« Risposta #148 inserito:: Ottobre 12, 2011, 10:19:09 pm »

La maggioranza: gli scenari

Un incidente. Con complotto

E il Cavaliere: alle urne nel 2012

La «road map»: caduta a gennaio e elezioni anticipate in primavera


ROMA - Come una stella che si trasforma in buco nero, Berlusconi si rende conto di aver inghiottito ormai anche se stesso.
Perciò dà per scontate le elezioni anticipate: «Si voterà l'anno prossimo», pronosticava infatti prima che alla Camera succedesse il patatrac. Non è il voto sul rendiconto dello Stato che decreterà la crisi di governo, nonostante il groviglio giuridico sul disegno di legge bocciato rischi di diventare un nodo scorsoio per l'esecutivo. Il punto è che il clamoroso tonfo del centrodestra a Montecitorio ha fatto scattare un'ora x a cui tutti giungono impreparati: lealisti e frondisti, maggioranza e opposizione. E ha ragione quindi il coordinatore del Pdl Verdini, quando sostiene che «a buttar giù Berlusconi non saranno né Pisanu né Scajola, ma la legge del caos», suprema ordinatrice di un sistema dove regna il disordine.

Visto che così stanno le cose, ogni teoria sul disarmante fallimento di ieri del governo può essere considerata valida. Si è trattato di un complotto, anzi di un incidente. Eppure una settimana fa l'ex capogruppo dei Responsabili, Sardelli, aveva inviato al Cavaliere una mail con la quale lo avvisava testualmente: «Presidente, attento che la prossima settimana andremo sotto. Ti consiglio di cambiare tattica, e di passare dal catenaccio al possesso palla». E ancora qualche minuto prima del fatidico voto, era squillato il cellulare di Scajola: «Claudio affrettati, anche il capo sta arrivando in Aula». «Il capo» c'era ad assistere alla propria sconfitta, Scajola è arrivato qualche minuto dopo.

Siccome sospetti e liste di proscrizione accompagnano ogni disfatta, nell'elenco di Berlusconi sono finiti anche Bossi e Tremonti, che tuttavia persino Crosetto - suo acerrimo censore nel Pdl - per una volta ha teso a discolpare: «Non ha fatto in tempo a votare, stavolta non c'entra nulla. Non è per questo che se ne dovrebbe andare». Il paradosso è che Tremonti e Scajola, uniti nell'assenza, sono divisi su tutto il resto. Tanto che - nel corso del rendez-vous con Berlusconi a palazzo Grazioli - tra le varie richieste l'ex titolare dello Sviluppo economico avrebbe inserito anche la testa del superministro. Potesse, il Cavaliere lo avrebbe già accontentato.

Complotto, o peggio ancora incidente di percorso, il voto di Montecitorio è comunque il segno di una legislatura ormai morente, e la fiducia a cui intende ricorrere il Cavaliere appare come un pietoso lenzuolo per coprire la realtà dei fatti. Ma potrebbe trasformarsi in un rischio, che a quel punto certificherebbe la fine del governo. Verdini finora ha sempre azzeccato i numeri, è stato lui d'altronde ad assicurare a Berlusconi la fiducia il 14 dicembre, e anche stavolta è convinto che il premier supererà la prova: «Alla Camera prenderemo 322 voti. Facciamo 320, non di meno».

Sarà, ma il Pdl deve fare attenzione al malcontento che è montato nella Lega e che Bossi fatica a gestire. Le avvisaglie di una rivolta si scorgevano ieri tra i deputati veneti, stanchi di appoggiare l'esecutivo. A calmare le acque ci ha pensato Maroni, secondo cui la fiducia accompagnerebbe «un programma aggiornato di fine legislatura», dall'orizzonte dunque limitato: gennaio 2012. Insomma, «si voterà l'anno prossimo» come lo stesso Berlusconi aveva detto l'altro ieri. Un'opzione che trova favorevoli i leader delle maggiori forze di opposizione, a partire da Bersani e Casini.

Ma per arrivare a gennaio il Cavaliere dovrà intanto risolvere il rebus della legge bocciata ieri alla Camera e che in qualche modo va approvata. È probabile che l'esecutivo, per superare l'ostacolo prodottosi dal voto di Montecitorio tenterà di passare attraverso il Senato, alla fine di una disputa che si preannuncia durissima e che sarà giocata in punta di Costituzione e di precedenti.

Rien ne va plus. Non sembrano esserci più margini politici per altre soluzioni di governo in Parlamento. Non c'è più spazio nemmeno per l'approvazione di provvedimenti come la riforma sulle intercettazioni, che Berlusconi aveva ripreso a brandire come una bandiera. In realtà sono altre le norme a cui tiene maggiormente: per esempio quelle inserite nel ddl sulla «prescrizione breve», che sono all'esame del Senato, e che in due settimane - se venissero approvate - consentirebbero al premier di evitare la sentenza di primo grado sul «caso Mills».

È una corsa contro il tempo con il tempo che per il governo è già scaduto. L'orizzonte del 2013 era svanito già prima del voto di ieri, il Cavaliere se n'era reso conto, e poco importa se le sue recriminazioni ora si concentrano anche su Bossi. Resta da capire quali saranno le ripercussioni in un Pdl che ora sarà chiamato a scelte difficilissime: lo scontro è iniziato e passerà dalle primarie. D'altronde nessuno tra i maggiorenti del partito ha più intenzione di attendere che il premier ufficializzi il passo indietro. Il dopo-Berlusconi è praticamente iniziato.

Francesco Verderami

12 ottobre 2011 07:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_12/un-incidente-con-complotto-e-il-cavaliere-alle-urne-nel-2012_cc19b1d6-f492-11e0-a9a5-9e683f522ea7.shtml
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« Risposta #149 inserito:: Ottobre 22, 2011, 06:10:20 pm »

Settegiorni

Il premier: pronto a reagire con durezza

Un'eventuale «aggressione politica personale» diventerà una «difesa degli interessi nazionali»


È pronto a trasformare un'eventuale «aggressione politica personale» in una «difesa degli interessi nazionali», così il premier si prepara al vertice europeo. L'ansia della vigilia attanaglia Berlusconi, consapevole che è complicato rompere l'accerchiamento quando non si hanno armi, quando cioè un governo non dispone dei fondi necessari per predisporre un piano di sviluppo degno di tale nome. Ma il Cavaliere non intende cedere alle pressioni che vengono da Roma e da Bruxelles, non si presenterà da imputato politico dinnanzi ai partner europei. Insomma, non accetterà di fare da capro espiatorio, da vittima sacrificale su cui «scaricare i dissidi franco-tedeschi sulla gestione della crisi».

E semmai la Merkel e Sarkozy dovessero tentare l'affondo, il premier si dice «pronto e determinato a reagire in maniera dura»: «Non devono spiegare a me come fare. Ho creato dal nulla un'azienda con decine di migliaia di dipendenti», si impunta come per farsi forza. Per una volta Gianni Letta annuisce e non ammonisce, siccome il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sa che passa da Bruxelles la linea del Piave dell'esecutivo, e che non c'è un unico colpevole per la situazione in cui versa l'economia dell'Unione.

Scagli il primo bilancio chi è senza peccato. Certo, il peccato originale dell'Italia è il debito pubblico che rischia di inghiottirla, «un mostro che - prosegue Berlusconi - abbiamo ereditato dal passato, dalle maggioranze delle ammucchiate», giusto per ricordarlo a quanti auspicano un governo di grande coalizione «o di responsabilità nazionale, come lo chiamano oggi»: «E comunque, per quanto il nostro debito sia elevato, siamo sempre riusciti a onorarlo. E continueremo a farlo».

Perché non solo «l'Italia non è la Grecia», «la verità - quella che racconta il Cavaliere - è che finora abbiamo fatto fronte a tutte le richieste, e in poco tempo, anche davanti alle emergenze. Tutto ciò che era possibile fare, questo governo l'ha fatto: abbiamo i fondamentali in ordine, saremo il primo Paese che arriverà al pareggio di bilancio, i dati economici smentiscono le tesi decliniste».
All'irritazione per le pressioni di Confindustria, si è aggiunta ieri per il premier una forte arrabbiatura dovuta alla frustata dell'Unione Europea, che con linguaggio spiccio e poco diplomatico ha chiesto al governo «nuove e urgenti misure per la crescita». Più che un biglietto d'invito al vertice di Bruxelles, è parso un avviso di mora verso un socio di club inadempiente. Non che Berlusconi sia stato colto di sorpresa, dopo certe «singolari telefonate» ricevute da alcune cancellerie europee. Con la Merkel, per esempio, in questi giorni ha avuto almeno due colloqui. Perciò è falso - almeno così sostiene il premier - che si sia contrariato per la conversazione tra il capo del governo tedesco e Napolitano.

Il punto è un altro, è il gioco politico che si muove attorno al capezzale dell'Europa. «In giro per le capitali è tutto un pianto», racconta il titolare delle Infrastrutture, Matteoli: «C'è una gara ad autoconsolarsi. I tedeschi dicono che i francesi stanno messi peggio. I francesi dicono che stanno messi peggio gli italiani. Noi italiani diciamo che stanno messi peggio gli spagnoli... E così via, fino alla Grecia». Ma il gioco dello «scaricabarile» di Germania e Francia sull'Italia, per Berlusconi è inaccettabile. Di questo ha discusso con i suoi ministri, mentre esaminava il decreto sviluppo. E sottolineando la propria «esperienza» di vertici europei, «dove sono il più anziano tra i partecipanti», ha ricordato quando accanto a lui «c'erano personaggi come Kohl e Mitterrand». È stato un modo per innescare il paragone con i loro successori, tra chi «gira l'Europa quasi fosse il presidente del Consiglio dell'Unione», e chi vorrebbe trasformare il proprio Paese da «locomotiva economica» a «guida politica» dell'Ue.

Tutti comunque nel Vecchio Continente (e anche nel Nuovo) sono accomunati dalle stesse difficoltà, dal rischio concreto di scontare la crisi nelle urne. In questo c'è un filo rosso che lega Berlusconi a Sarkozy e Merkel, sebbene il premier si senta da qualche giorno un po' sollevato: non si sa come, il Pdl è rimbalzato nei sondaggi, mentre il Pd è calato. Lo dicono anche i test commissionati da Bersani. E per chi sta a capo di un governo boccheggiante, ogni decimale in più è ben accetto. Ma servirebbe altro per rilanciarsi nel Paese, per esempio un po' di soldi da iniettare nel circuito economico. Invece il decreto sviluppo sarà figlio del «costo zero», e Berlusconi non vede «un'idea forte» con cui riacchiappare la pubblica opinione. «Certo lo sviluppo non si lo può fare per decreto», il Cavaliere lo rimarca: «In una fase come questa, i governi non possono far crescere l'economia più di tanto. Obama ci ha messo dei mesi per varare un piano che alla fine si è rivelato insoddisfacente».

Però qualcosa vorrebbe farla il Cavaliere, quei fondi sarebbero un'arma con cui rompere l'assedio di Roma e di Bruxelles. Invece è accerchiato anche da Tremonti, che gli dice sempre e solo «no», che gli rammenta - prendendone le distanze - l'ultima manovra e «come avete pasticciato». Il ministro dell'Economia ha preso l'impegno di lavorare a un accordo con la Svizzera sui capitali italiani depositati nelle banche elvetiche, e che potrebbero fruttare 25 miliardi: «Ma ti avviso Silvio, ci vorrà tempo». E «Silvio», che di tempo non ne ha, deve recuperare subito altri 4 miliardi per coprire le misure varate nell'estate, e deve scegliere se prelevarli dalle agevolazioni fiscali o dai fondi per il sociale: «Il sociale no, non si tocca». È tutto un colpo di forbice, il resto sono idee che a breve termine appaiono irrealizzabili. La sburocratizzazione non fa sognare gli italiani e nemmeno il Cavaliere, che avverte l'assedio a Roma come a Bruxelles, e vorrebbe avere al proprio fianco gente fidata: «Ma da presidente del Consiglio non ho nemmeno il potere di cambiare un ministro. Se volessi sostituire, facciamo un nome a caso, Tremonti, non potrei farlo».

Francesco Verderami

22 ottobre 2011 09:17© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_22/verderami-premier-pronto-a-reagire_a18730f8-fc79-11e0-92e3-d0ce15270601.shtml
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