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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 134381 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Luglio 14, 2010, 10:35:47 am »

La strana coppia - Il presidente della Camera: quadro cambiato alla fine della legislatura

Fini-Casini, dopo lo strappo torna l'asse Uniti dal «subgoverno», si allontanarono nel 2008

Ora si telefonano quasi ogni giorno


ROMA — Sei anni fa furono sul punto di ribellarsi, sei anni fa furono tentati di rovesciare Berlusconi colpendolo dritto al cuore del suo potere: quello televisivo. Sei anni fa Fini e Casini discussero se affondare in Parlamento la riforma che più stava a cuore al Cavaliere, e dare così inizio alla sua fine. Chissà quale corso avrebbe preso la storia politica italiana se «Gianfranco» e «Pier» avessero spinto fino alle estreme conseguenze il loro intendimento, coltivato a lungo e maturato segretamente in una serata d'inverno, dopo che Ciampi — da capo dello Stato — aveva rinviato la legge Gasparri alle Camere. Nessuno dei due se la sentì di affossare il provvedimento con un colpo di mano, a scrutinio segreto. Fini, che allora era vice premier, dovette invece dare il via libera alla riforma e potè solo scherzare durante il Consiglio dei ministri che gli toccò presiedere, siccome Berlusconi dovette allontanarsi dal salone di palazzo Chigi insieme a Gianni Letta per una questione di forma, visto l'evidente conflitto d'interessi.

Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini (LaPresse)
Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini (LaPresse)
ILARITÀ - «Ora chiamiamo Silvio e lo avvisiamo che abbiamo bocciato la legge. Gli prenderà un colpo», disse l'ex leader di An suscitando l'ilarità dei colleghi dell'esecutivo. In realtà quella battuta nascondeva un desiderio represso. Sei anni dopo non c'è più il famoso «sub-governo» che tra il 2001 e il 2006 tentò di contrastare l'«asse del Nord» nel centrodestra. Ma nonostante uno strappo che ha segnato i rapporti tra Fini e Casini, i due ultimamente hanno ripreso a dialogare. Si vedono e si aggiornano, quasi ogni giorno, per telefono. A giugno hanno viaggiato in aereo verso Genova. Giovedì scorso, prima di andare a cena da Vespa con Berlusconi, «Pier» è passato a prendere un aperitivo da «Gianfranco». Insieme analizzano la situazione e discutono di un futuro senza il Cavaliere. «Di qui alla fine della legislatura — teorizza ormai da un anno il presidente della Camera — cambierà radicalmente il quadro politico». Ma il futuro non ha la forza di imporsi, almeno non per ora, altrimenti sarebbe già successo. È sempre «Silvio» il capo, è lui che continua a dettare il ritmo degli eventi, malgrado abbia il fiato grosso e in molti pensino che con questo passo non potrà reggere fino al 2013. Non è chiaro se Fini e Casini abbiano questo schema in mente, è certo che hanno smesso di illudersi anni fa, quando Berlusconi li gabbò entrambi, annunciando ad Aznar — in occasioni diverse — che «lui sarà il mio successore».

TURBOLENZE - Naturalmente non se ne fece nulla. E oggi Fini e Casini non solo sanno che il Cavaliere non darà loro il testimone, sono anche consapevoli del rischio che corrono: quello di essere travolti, per motivi diversi, dalla fine di Berlusconi. Ecco perché hanno bisogno di stare insieme, per affrontare la turbolenta stagione del «dopo». Per quanto, a vario titolo, abbiano preso le distanze dal premier, sono comunque legati al suo destino. Alla vigilia del voto nel 2008, era stato proprio l'alleanza con Berlusconi la causa del loro divorzio politico e soprattutto della rottura personale. «E se è vero che in politica può succedere di tutto — spiegò in quei giorni Casini — umanamente non mi sarei mai aspettato certe cose da Gianfranco. Mi sono sentito ferito». Il capo dei centristi non salì sul predellino e per più di un anno rimuginò sugli incontri con Fini, sull'idea di costruire insieme un'alternativa moderata, magari aiutati nel progetto da Montezemolo. Il risentimento fu reciproco e profondo, è stato un vecchio dc come Pisanu a impegnarsi per farli ritrovare. Forse è rimasta un'ombra tra i due, ma è tornata la complicità, segnata da qualche diffidenza e da una naturale rivalità.

STORIA VIRTUALE - Era il 2006, vigilia di elezioni, quando Landolfi — allora ministro uscente delle Comunicazioni — fece un discorsetto al leader di An, davanti a una pizza: «Gianfranco, l'hai capito che il tuo competitore non è Berlusconi ma Casini?». «Mario, lo so. Il problema è che Berlusconi si crede immortale». Sempre Landolfi, pochi mesi fa, è andato a stuzzicare Casini dopo la clamorosa rottura tra il Cavaliere e Fini alla direzione del Pdl: «Pier, si sta per liberare un posto di delfino nell'acquario di Silvio...». «Scuuusa caaaro, cosc'è che sta succedendo?», sorrise il capo dei centristi. Sta succedendo che Fini è pronto a far la guerra a Berlusconi «se tra agosto e settembre» non si arriverà a un'intesa. L'ha comunicato a Cicchitto: «Guarda», ha detto al capogruppo del Pdl aprendosi la giacca e mimando di essere un kamikaze: «Sono imbottito di tritolo. Se salto io, salta anche lui. Dillo a Silvio». Il cofondatore del Pdl è pronto a verificare se il Cavaliere saprà gestire un'eventuale crisi di governo in autunno: «E se per caso si andasse al voto dopo una rottura, ci andremmo separati. Ne farei un punto d'onore». Lavorerebbe cioè per farlo perdere. Al momento però è solo un gioco virtuale, come la storia di un allargamento della maggioranza all'Udc. Berlusconi vorrebbe Casini ma è bloccato dal veto della Lega, che teme per sé e teme anche per le sorti di Tremonti, costretto nel 2004 alle dimissioni da Fini e dai centristi. Casini a sua volta non vuol fare «la parte del figliol prodigo» e chiede a Berlusconi ciò che il Cavaliere non intende dargli: l'apertura formale di una crisi di governo, che si sa come inizia ma non come finisce. «Gianfranco» vorrebbe riunirsi a «Pier», fosse per lui l'intesa sarebbe già fatta, perché - come racconta Follini, che li conosce bene - «c'è una forte affinità politica tra i due e perfino di carattere. È vero che di questi tempi è più facile litigare con i propri simili, ma scommetto che loro eviteranno di farlo. L'interesse reciproco è mettere il sigillo sulla fase che si aprirà dopo Berlusconi». Certo, sarà complicato mettere insieme dei politici abituati ormai a partiti leaderistici, dunque a comandare: è come far convivere più di un gallo nello stesso pollaio. Per il futuro la soluzione sarebbe quella di tornare al passato, allo schema della Dc, dove erano tanti i capi che si contendevano il potere dentro un sistema di regole condivise. Casini - come Fini - a questo pensa: «Dopo Berlusconi il problema si porrà. Sarà questa la strada».

Francesco Verderami

13 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_13/09_PRIMO%20PIANO_VERDE_7d9de54a-8e36-11df-864f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Luglio 29, 2010, 11:45:25 am »

Il retroscena

I timori del premier sul legittimo impedimento

«Dopo un anno parole senza senso»

Il vertice Pdl tiene la linea dura


ROMA — Si poteva davvero «resettare tutto»? Berlusconi avrebbe mai potuto accettare la mano che Fini gli ha teso in extremis, dopo aver «resistito ad attacchi e critiche»? L’intervista concessa al Foglio dal presidente della Camera ha dapprima colto di sorpresa lo stato maggiore del Pdl, a partire dal Cavaliere, che leggendo il testo ha commentato: «Queste non sono parole di Fini, questa è farina del sacco di Giuliano Ferrara». Poi comunque la mossa dell’ex leader di An è stata giudicata dal premier «tardiva, senza senso e difensiva». Perciò non pare intenzionato a voltarsi indietro, perché a suo modo di vedere l’ex leader di An ha già superato il punto di non ritorno. Un conto erano infatti i contrasti sulle questioni politiche, «lo stillicidio durato un anno», altra cosa è stato il salto di qualità che si è avuto quando l’inquilino di Montecitorio ha sollevato la questione morale, tema che solitamente segna in modo irrimediabile i rapporti politici.

Il Cavaliere l’ha vissuto come un affronto, «perché nessuno può fare il moralista, nè può ergersi a moralizzatore, nemmeno Fini». Ecco cosa divide i cofondatori del Pdl, ecco perché tutto si è complicato, sebbene ieri Gianni Letta abbia tentato di aprire un varco su un sentiero ormai ostruito. È il «giustizialismo» che separa Berlusconi da Fini, siccome — ha detto il Cavaliere in mattinata a un suo ospite — «questo cancro non appartiene al mio dna, né al dna del partito che voglio costruire. Ed èmia intenzione portare a compimento una battaglia per fare dell’Italia una democrazia liberale compiuta, non più prigioniera di una magistratura politicizzata».

Già in quelle ore Fini gli appariva distante, metabolizzato come «un avversario »: «Al contrario di lui non sono un professionista della politica. Potrei andarmene e lasciare le cose come stanno. Se resto è perché penso che non sia più tollerabile la situazione». È stato il preludio alle dichiarazioni pubbliche, all’annuncio che «nei prossimi tre anni libererò l’Italia dall’oppressione giudiziaria, legislativa, burocratica e fiscale». Rilanciando la stagione delle riforme costituzionali, a partire — guarda caso — dalla giustizia, il Cavaliere ha lanciato la sfida a Fini, e non solo a lui. Dietro la «tentazione» di ritirare il provvedimento sulle intercettazioni - «massacrato da tutti gli interventi che non restituiranno il diritto alla privacy agli italiani» - si celava un duro messaggio rivolto al Quirinale.

D’altronde Berlusconi si è convinto che la battaglia in cui le inchieste giudiziarie incrociano settori politici «che stanno dentro il centrodestra» è molto più violenta del passato. La decisione della Consulta di anticipare l’esame del legittimo impedimento è stata per lui la conferma. Come spiega Vizzini, «la Corte è un arbitro, perciò l’accelerazione sorprende. Perché dovrà essere esaminata una legge che ha una durata limitata, ed è il prologo di un intervento costituzionale. Vorrei sbagliarmi, ma se l’arbitro si prepara a fischiare il fuorigioco prima ancora che inizi l’azione, vuol dire che intende mettere intenzionalmente in fuorigioco il giocatore. Cioè Berlusconi».

Il Cavaliere sa che non c’è tempo per attivare lo «scudo» del lodo Alfano costituzionale e sa dunque di essere esposto nei processi a suo carico. Ogni escamotage in sede dibattimentale potrebbe rivelarsi un rischio che non può permettersi. Perciò servirebbe una nuova «legge ponte», a meno di non riesumare il processo breve, l’arma di fine mondo che giace alla Camera. La posta è alta, e in questa posta vanno considerati i pro e i contro dello showdown con Fini. Già ieri pomeriggio esponenti del governo facevano mostra di alcune paginette in cui il premier aveva stilato la road map, che comprendeva l’espulsione dal partito di Fini e dei suoi fedelissimi, oltre il ritiro delle deleghe ai ministri e sottosegretari vicini al presidente della Camera.

L’ex capo di An terrebbe di riserva l’opzione di fondare un nuovo partito, Destra Nazionale, ma intanto ha cercato di sparigliare il gioco. Al vertice del Pdl, riunito in serata dal Cavaliere, c’è chi ha spinto per chiudere subito il conto, chi ha evidenziato che —dopo l’appello di Fini al «patto con gli elettori» — sarebbe un errore espellerlo, «ne faremmo un martire». Così ha preso corpo una nuova soluzione, che poi è la vecchia idea di Berlusconi: accettare la mano destra del cofondatore, «che viene a Canossa», e amputare la sua mano sinistra, attivando «i «provvedimenti» contro i finiani per «incompatibilità». Ecco come il premier isolerebbe il presidente della Camera. Ma quali saranno i «provvedimenti»? Si arriverà all’espulsione? La sfida non è terminata. Mancano ancora delle mosse al finale di partita. La prossima è l’ufficio di presidenza del Pdl di stasera.

Francesco Verderami

29 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_29/verderami-pdl-linea-dura_c04bcdb0-9ad1-11df-ad9d-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Luglio 31, 2010, 09:03:21 am »

«Nazione» per i gruppi

Fini resiste: «Berlusconi lancia anatemi, ma non decide lui»

«Scelta maldestra, non mi dimetto: la carica non è nelle sue disponibilità. E parlerò agli italiani»


«Siamo all’anatema», dice Gianfranco Fini, evocando lo strumento che veniva usato per risolvere le controversie teologiche e di potere, quando due Papi erano troppi per guidare una Chiesa. Insomma più che un traditore, il presidente della Camera si sente un eretico al cospetto di Berlusconi, del suo «strano modo di concepire un partito liberale di massa», del metodo «assai maldestro» adottato per disfarsi di quello che il Cavaliere considerava ormai un anti-papa. «Parlerò agli italiani», annuncia Fini, che non ha intenzione di lasciare lo scranno di Montecitorio, come il premier gli ha chiesto, imponendo all'Ufficio di presidenza del Pdl di inserire «due righe» nel documento che ha sancito lo scisma. «Va scritto che se ne deve andare dalla Camera», ha intimato ieri mattina Berlusconi. «Ma presidente, non si può fare», lo ha supplicato Ghedini. Niente da fare. «Dica quel che vuole», ha sorriso Fini: «Non mi dimetto. Questo incarico non è nelle sue disponibilità». Ora che il divorzio si è compiuto, ora che il premier parla di «incompatibilità», per l'ex leader di An «non c'è più possibilità di recuperare alcun tipo di rapporto»: «Quello che si poteva fare l'ho fatto».

L'intervista al Foglio è stato l'ultimo gesto, che non è piaciuto a molti dei suoi, e che il presidente della Camera ha spiegato così: «Dovevo evitare che passassi per quello che vuole rompere. Ora però continuare oltre non avrebbe senso, non si farebbero passi avanti. Bisogna pensare a qualcosa di diverso». Perciò sono in gestazione i gruppi parlamentari autonomi che avranno l'inquilino di Montecitorio come punto di riferimento. E siccome nessuno ci aveva pensato prima, ieri sera è iniziato tra i finiani una sorta di referendum sul nome da dargli: «Italia nazione», «Nazione e libertà». La definizione sarà un dettaglio ma i gruppi saranno per Fini una sorta di linea Maginot, molto consistente se è vero che i futuri componenti sono più di trenta: «Berlusconi ha sbagliato i suoi calcoli. Pensava fossimo in pochi. D'ora in avanti — ha avvisato i suoi — vedrete che tenterà di aggredirci, di accerchiarci e poi lentamente di assorbirci, eliminando quella che considera un'anomalia».

Questa linea Maginot andrà vigilata e rinforzata. Per evitare crepe, in un fronte non del tutto coeso, Fini ha ribadito ciò che il fedele Ronchi aveva pubblicamente anticipato: «Saremo leali al governo». Certo c'è una contraddizione tra lo strappo con il premier e la «fedeltà al centrodestra», ma se il presidente della Camera si appella al «patto stipulato con gli elettori», è perché non può permettersi operazioni trasformistiche, non intende farlo, dato che il bipolarismo resta la sua stella polare: «Infatti non ci sarà nessun ribaltone», sottolinea. La sua forza sta oggi nei numeri del gruppo, che soprattutto alla Camera «sarà decisivo, anzi determinante. E condizionerà l'azione di governo. Si tratta di un segnale molto forte, alla faccia di chi sosteneva che contiamo appena l'1,4%... Ma noi non siamo nè saremo mai dei traditori». Così rispedisce al Cavaliere l'accusa, sebbene debba ancora valutare «le conseguenze politiche» della rottura, quali scenari cioè si apriranno di qui in avanti. Perché tra i finiani c'è chi — come il senatore Augello — ritiene che il premier punti alle elezioni anticipate: «Gianfranco, è a questo che mira Berlusconi. La sua maggiore preoccupazione oggi è bloccare le operazione di Tremonti. Se ha deciso di drammatizzare lo scontro con te, lasciando tutti i nodi politici aggrovigliati, è perché pensa di tagliarli con un colpo d'accetta al momento opportuno. In fondo, attaccandoti così, sa che gli renderai la pariglia. E quindi...».

Fini al voto anticipato non ci crede, almeno non ancora. Molte sono poi le variabili da calcolare, i boatos da verificare. Per esempio l'atteggiamento dell'Udc verso il governo, le voci secondo le quali Berlusconi sarebbe pronto a fare una nuova offerta a Casini già a settembre. E ancora l'ipotesi che — in caso di ritorno alle urne — il Cavaliere offra ai centristi un'alleanza «tra partiti», riconoscendogli l'autonomia decisa nel 2008. Inizia per il presidente della Camera una nuova era, piena di incognite e con un fallimento che peserà anche sulle sue spalle. È da vedere se potrà mai riconciliarsi con il premier, che ancora l'altra sera ha confidato: «Quando si tornerà a votare magari lo riprendo, ma ora lo caccio». L'ex leader di An non mai ha digerito questo atteggiamento, però siccome ognuno è un po' berlusconiano a casa propria, ieri Fini ha avvisato tutti i suoi uomini: «D'ora in avanti se qualcuno dice una parola di troppo, lo caccio».

Francesco Verderami

30 luglio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_30/verderami_fini_resiste_7bad0ffe-9b9c-11df-8a43-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Agosto 25, 2010, 03:59:15 pm »

25/8/2010 (7:Fico  - CENTROSINISTRA. OPPOSIZIONE AL BIVIO

Cambio di rotta: il Pd si converte al "voto subito"

Cresce la voglia di elezioni il prima possibile, anche senza accordo sul candidato premier

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

A volerla prendere così, cioè con una battuta, si potrebbe arrivare a dire, come nell’antico proverbio, «quando troppo e quando niente». Nel senso che, dopo settimane di incertezza di fronte alla decomposizione della maggioranza di governo - e di qualche evidente (e giustificato) timore di elezioni anticipate già in autunno - il Pd ha cominciato a riscaldare i motori e a battere un colpo. Anzi, due. O forse addirittura tre: cioè probabilmente troppi. E troppi, per altro, su una coppia di temi delicatissimi e potenzialmente deflagranti: e cioè la futura candidatura a premier e le alleanze elettorali.

Nel giro di una decina di giorni, infatti, il drappello di aspiranti candidati alle primarie si è assai infoltito. Alle possibili candidature quasi «istituzionali» di due leader di partito come Bersani e Di Pietro, infatti, si sono via via aggiunte (per ora) quelle di Nichi Vendola, di Sergio Chiamparino e - secondo alcuni osservatori - quella non impossibile di Walter Veltroni, tornato ieri a esporre il proprio punto di vista in una lunga e impegnata lettera al Corriere della Sera. Quattro o cinque candidature - a elezioni nient’affatto scontate e a primarie del tutto incerte (se si votasse già a dicembre, sarebbe arduo organizzarle...) - sono probabilmente troppe: e a volerla dire tutta, rischiano di apparire non solo spia di confusione, ma anche possibile premessa di forti tensioni all’interno del campo delle opposizioni.

Né è più chiara la situazione sul fronte delle possibili alleanze elettorali con le quali andare alla sfida con Berlusconi. Qui si fronteggiano, in maniera via via più agguerrita, due linee di fatto contrapposte: potremmo definirle quella della «Santa alleanza» (tutti assieme contro Berlusconi, dai comunisti di Vendola fino ai moderati di Casini) e quella delle origini, la cosiddetta «vocazione maggioritaria» (poche alleanze e solo tra forze programmaticamente omogenee). E’ la linea - quest’ultima - che Walter Veltroni ha riproposto ieri sul Corriere della Sera in maniera molto netta, registrando consensi e dissensi tutto sommato prevedibili. Tutti prevedibili meno, forse, uno: il no di Dario Franceschini, prima vice e poi erede di Veltroni alla guida del Pd, «co-fondatore» con lui di Area Democratica (la minoranza interna del partito) ma ora su posizioni assai diverse in tema di alleanze. Non è questione da poco, come è evidente: ad esso, infatti, sono strettamente legati il tipo di legge elettorale verso il quale spingere e, addirittura, l’assetto maggioritario e bipolare del sistema politico del nostro Paese.

«Resto dell’idea che le uniche alleanze credibili siano quelle fondate su una reale convergenza programmatica e politica», ha scritto Veltroni. E Franceschini ha replicato: «Durante la Resistenza i nostri padri non persero tempo a domandarsi se erano liberali, comunisti, per la monarchia o per la Repubblica, per la legge proporzionale o maggioritaria, ma decisero di iniziare a discuterne dopo la Liberazione». E’ una disputa che rischia di crescere di tono. E di non esser risolta tanto in fretta, visto che chiama in causa non soltanto la capacità del Partito democratico di raggiungere un punto di mediazione al proprio interno, ma anche le opzioni strategiche e la disponibilità ad allearsi delle altre forze dell’opposizione (da Casini a Di Pietro, per finire a Vendola).

Ma che il Pd abbia cominciato a entrare nell’ordine di idee che forse alle elezioni - Bersani volente o nolente - ci si potrebbe arrivare davvero in fretta, è comunque un segno. Per settimane e settimane, infatti, l’ipotesi è stata respinta come il peggiore dei mali possibili. E’ già stato autorevolmente detto e scritto che, di fronte allo sfarinamento della maggioranza di governo, era lecito attendersi dalle opposizioni la richiesta di scioglimento del Parlamento e di nuove elezioni, come accade in larga parte delle altre democrazie europee. E del resto, perché mai temere il voto di fronte alla cupa parabola berlusconiana?

Invece, a torto o a ragione, è proprio questo il sentimento dominante che sembra esser «passato» nell’opinione pubblica a proposito dell’opposizione tutta e del suo maggior partito in particolare, cioè il Pd: timore. Il timore, cioè, che la crisi politica della maggioranza sfociasse in crisi di governo e in elezioni immediate. Da qui, come si è visto e letto, il fiorire di definizioni di ogni genere per governi che impediscano un tale epilogo: dal governo tecnico a quello costituzionale, dal governo di scopo a quello a tempo, per la sola riforma della legge elettorale.

Ipotesi suggestive ma, onestamente, poco credibili e poco praticabili. Ed è il crescere di questa consapevolezza che ha spinto molti esponenti del gruppo dirigente democratico a scendere finalmente in campo. Ora si attende una parola da Pier Luigi Bersani. Ma il tempo stringe. «Quando si è cominciato a parlare di crisi - lamenta il giovane Pippo Civati - avevo proposto ai colleghi di partito di non andare in vacanza. Ma guardando la situazione mi pare che il partito in vacanza ci è andato eccome...». Poco male. Settembre è in arrivo, la danza può ricominciare...

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57912girata.asp
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« Risposta #124 inserito:: Settembre 09, 2010, 09:03:20 pm »

Centrodestra |

Gli scenari «Gruppo di responsabilità»

L'ultima carta anti-crisi

Il Cavaliere ricorda la sconfitta del '96 e frena l'alleato


«Tenere saldo l’asse con Bossi e costruire l’intesa con Casini». Ecco la strategia di Berlusconi, giocata sul presente con la Lega e proiettata sul futuro anche con l’Udc, non per ottenere il sostegno dei centristi all’attuale governo ma per strutturare un’alleanza che possa risultare vincente se e quando si tornerà alle urne. Non ora, certo. Il Cavaliere ha fatto di tutto per scongiurare le elezioni.

Berlusconi ha spiegato la scelta richiamandosi al «senso di responsabilità che ci impone di fare le riforme, governare il Paese, rassicurare i mercati finanziari dove sono in scadenza titoli di Stato italiani per centinaia di miliardi». In realtà il premier non vuole andare al voto adesso anche perché teme di esporsi ad una crisi al buio, ai rischi connessi di un governo tecnico—per quanto ipotetico — che porterebbe con sé «il tentativo di modificare la legge elettorale». Ma c’è di più: i suoi amatissimi sondaggi rilevano «la contrarietà del Paese alle elezioni anticipate, un crescente astensionismo. E questo per noi non è un buon segno».

Niente urne, dunque. Così si è aperta una faglia nel rapporto con Bossi, che ieri ha minacciato pubblicamente di votare «contro il governo» pur di tornare al corpo elettorale già a novembre. Il Cavaliere ritiene che quella del leader leghista sia «una delle sue solite tirate, per dare un segnale di forza al suo popolo e mobilitarlo», siccome per il fine settimana è prevista la manifestazione dell'ampolla sul Po. In parte Berlusconi dice il vero, d'altronde il capo del Carroccio sa che non è più possibile andare alle urne a novembre. È stato Maroni a spiegarlo l'altra sera al vertice di Arcore: «Per riuscirci, il governo si dovrebbe dimettere entro la prossima settimana. Altrimenti non ci sarebbero i tempi tecnici».

Insomma, Bossi è consapevole che quella data è sfumata, che è costretto a sfruttare solo mediaticamente il 15% di cui lo accreditano oggi i sondaggi: magari se ne servirà per ottenere altro, «la candidatura di un leghista a sindaco di Milano», sussurra andreottianamente un autorevole ministro del Pdl. Sarà, ma c’è dell’altro. Perché il capo del Carroccio aveva fatto più di un pensierino alle elezioni in autunno, al punto che tre giorni fa ha rimproverato il premier di non aver fatto precipitare la crisi a fine luglio, nei giorni dello strappo con il presidente della Camera: «Così saremmo andati al voto a ottobre, prendendo Fini e l’opposizione di sorpresa. E avremmo vinto, Silvio».

«Silvio» però non si è fidato (e non si fida) di tornare così davanti al Paese. È «il mio sesto senso», cioè i sondaggi, che l’hanno trattenuto, facendogli tornare alla memoria come «nel ’96 fui costretto da Fini alle elezioni, mentre io dicevo che avremmo perso. Infatti...». Il Cavaliere non vuole commettere lo stesso errore, perché «è vero che la sinistra non potrà mai battermi», ma è altrettanto vero che al Senato potrebbe non ottenere la maggioranza: «Non è in questo modo che voglio giocarmi la mia ultima partita». Perciò ha fatto resistenza passiva alle pressioni di Bossi: a luglio come adesso. E se in piena estate gli bastò spiegare al Senatùr che non c’erano ancora le «condizioni politiche» per ripresentarsi alle urne, ora ha dovuto escogitare altri stratagemmi.

È stato Berlusconi infatti, dinnanzi alle insistenze del leader del Carroccio, a proporgli di salire al Colle per parlare con il capo dello Stato. Il Senatùr, e con lui i suoi uomini, pensavano che l’appuntamento sarebbe servito per concordare con Napolitano una sorta di road map di fine legislatura, cioè tempi e modi per andare alle elezioni. Peccato che il Cavaliere li abbia spiazzati, annunciando che al Quirinale sarebbe stata sollevata la questione dell’inquilino di Montecitorio e della sua «incompatibilità istituzionale»: «Umberto, sei stato tu a dirmi che Fini può restare nella maggioranza con il suo partito solo se lascia prima la Camera. E con chi ne possiamo parlare se non con il presidente della Repubblica?». Il diversivo ha funzionato, nonostante sia costata al premier una figuraccia e un’ulcera perforante a Gianni Letta. E giusto per evitare sorprese, ha deciso di andare in Parlamento a fine mese, ben oltre il tempo massimo per le elezioni in autunno.

Berlusconi ha bisogno di tempo per sviluppare la strategia che gli impone di non rompere con Bossi e di aprire a Casini. Già sa che l’operazione è ad alto rischio, se poi anche Tremonti si mette di traverso... Il ministro dell’Economia infatti ha un ruolo importante in questa partita, il Cavaliere ritiene che faccia «dieci parti in commedia» e che «aizzi la Lega»: c’è chi nell’inner circle berlusconiano ipotizza addirittura che a «Giulio» il pareggio alle elezioni potrebbe anche star bene, perché sarebbe lui poi il candidato a palazzo Chigi in un governo appoggiato giocoforza dall’opposizione. Cattivi pensieri, che nella corte di «Silvio» fanno presa, ma senza prove. Solo qualche indizio a sostegno della tesi che il titolare di via XX settembre spingerebbe per il voto: nei giorni scorsi, dopo che Napolitano aveva parlato della crisi economica, il superministro ha spiegato che per l’autunno non serve una manovra correttiva. Quasi a dire che un eventuale ritorno alle urne non confliggerebbe con la tenuta dei conti pubblici.

L'unico dato certo è che ieri Bossi ha scatenato il putiferio con la sua esternazione dopo aver parlato con Tremonti. Sarà stato un caso. Ma non è un caso che all’Ufficio di presidenza del Pdl tutti i dirigenti abbiano criticato la sortita del leader leghista, che «ha sbagliato tempi e modi». La linea era stata concordata, manco a dirlo, con Berlusconi. Mentre il Cavaliere annuiva è stato notato il volto rabbuiato del ministro dell’Economia che non ha preso la parola al vertice del partito. Assicurano che non fosse mai accaduto.

Non rompere con Bossi oggi e legare domani con Casini. Così il premier vuole andare avanti, partendo dal voto di fiducia alle Camere, dove confida che «la maggioranza sarà più ampia di prima». Giura Berlusconi che l’obiettivo non verrà raggiunto con una «compravendita » di deputati, ma ritiene che - sulla base del suo discorso - si formerà in Parlamento «un gruppo di responsabilità, pronto a sostenere il governo». Il Cavaliere sa, l’ha detto ieri al vertice del Pdl, che «l’allargamento della maggioranza a Umberto non piace». Ma è questo il suo primo obiettivo: garantirsi una piattaforma di sicurezza con almeno 316 voti a Montecitorio, che rendano ininfluenti quelli del gruppo dell’Fli. Al tempo stesso Berlusconi non ha alcuna intenzione di rompere con i finiani, almeno non ora, anche perché ieri si è aperta una trattativa sullo «scudo giudiziario». Ghedini, sherpa del premier, al termine di un colloquio con un ambasciatore del presidente della Camera ha riferito a Berlusconi sulla bontà del progetto. Bossi, diventato guardingo e sospettoso, ha chiesto garanzie all’alleato: «Fini non dovrà mai diventare la terza gamba della coalizione». E il Cavaliere l’ha promesso, in cambio di una non ostilità della Lega verso l’operazione che mira a costituire quel «gruppo di responsabilità » in Parlamento. È il passaggio obbligato per il presente, in attesa di tornare a lavorare per il futuro, per costruire l’intesa con Casini in vista delle elezioni, se e quando ci saranno. Con Fini fuori dall’alleanza, Berlusconi sa che sarebbe impossibile rivincere al Senato senza i centristi. «E sul fatto che l’Udc arrivi dopo, Bossi è d’accordo», giura il ministro Matteoli. Sarà, intanto il Cavaliere è pronto sul trapezio: lo attende un duplice salto mortale, stavolta senza rete.

Francesco Verderami

09 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_09/verderami-ultima-carta-anti-crisi_4d68f3a4-bbd3-11df-8260-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #125 inserito:: Settembre 25, 2010, 05:02:31 pm »

Settegiorni - L'ira verso i finiani

Amarezza e solitudine di Letta il mediatore: «Non so quanto resisto»

Letta ritiene «dissennato» il modo in cui si sta muovendo il Cavaliere.

L'affondo contro chi diffonde «false» voci, «ben sapendo che non hanno fondamento»

Settegiorni - L'ira verso i finiani


L'ultimo che cercava di dividerli ha fatto un passo indietro, perché mai Gianni Letta si sarebbe aspettato di finire coinvolto nella rissa tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Perciò ha vissuto come un attacco personale l'estrema difesa praticata alcuni giorni fa dal presidente della Camera, che ha consentito ai suoi seguaci di addossare ai servizi segreti la responsabilità di una manovra tesa a screditarlo con l'affaire della casa di Montecarlo. Gianni Letta si è sentito «preso di mira» e «usato strumentalmente», siccome dell'intelligence italiana ha la delega a palazzo Chigi. Né gli è bastata la precisazione di rito il giorno dopo, quella cioè che permette di togliersi dall'imbarazzo, scaricando sui «servizi deviati» ogni responsabilità.

Il suo umore tracimava dalla nota della presidenza del Consiglio, che si era incaricato di scrivere di persona con espressioni che non gli appartengono e con un messaggio in fondo al comunicato, che aveva nell'inquilino di Montecitorio il destinatario: una denuncia di «totale irresponsabilità» verso chi diffonde «false» voci, «ben sapendo che esse non hanno il minimo fondamento». Sta in quel «ben sapendo» il riferimento a Fini, un modo per ricordargli quanto già aveva avuto modo di spiegargli.
Insomma, se i due ex alleati hanno deciso di usare le istituzioni come armi per distruggersi l'un l'altro, sarà pure affar loro. Ciò che il sottosegretario alla Presidenza non accettava (e non accetta) è che il presidente della Camera avesse dimenticato l'impegno profuso dall'«uomo delle eterne mediazioni» per tentare di arrivare, se non a una nuova intesa tra i cofondatori del Pdl, quantomeno a un compromesso, a un «modus vivendi», per evitare il disastro.

«Non consentirò a nessuno di farmi trascinare in questa storia» urlava Letta tra lo stupore di quanti nella sede del governo assistevano alla scena, e che sapevano quanto il braccio destro del Cavaliere fosse contrariato per quel tramestio che sentiva salire da palazzo Grazioli, per quel via vai di personaggi equivoci che avevano (e hanno) accesso alla corte di Berlusconi. Anche Fini conosceva l'opinione di Letta, «ben sapendo» - gli era stato garantito dal sottosegretario - che i servizi non c'entravano nulla con le rivelazioni sulla casa di Montecarlo pubblicate dai giornali.
Ed è vera, non un gioco delle parti, la divergenza di opinioni tra il premier e Letta che ritiene «dissennato» il modo in cui si sta muovendo il Cavaliere, disposto a pagare un prezzo politico altissimo pur di chiudere i conti con il presidente della Camera. Un prezzo così alto da mettersi personalmente a repentaglio. Perché se la strategia di Berlusconi è garantirsi a breve termine uno scudo giudiziario e andare avanti con la legislatura finché sarà possibile, la tattica dello show down con Fini lo danneggia, mette a repentaglio l'esecutivo e non consente di trovare un compromesso sulla giustizia. E non è il solo Letta che si dispera, persino Nicolò Ghedini si è arreso dinanzi alla furia del premier: «È inutile. Berlusconi non ci sente, non ci sente».

La politica ormai non c'entra più, tra ex alleati è diventato un fatto personale. E se il presidente della Camera dice con tono minaccioso che «Silvio non ha ancora visto nulla», il presidente del Consiglio dice con tono divertito «qui si vede tutto», motteggiando su una foto di Fini senza veli. Abituato com'è alle tonache dei cardinali, Letta non ci sta, non ci può stare, allo sventolio delle mutande. Né può sopportare i novelli cortigiani del premier che provano a inventarsi strateghi della politica. Ecco spiegata la battuta con la quale negli ultimi tempi ha accolto i suoi ospiti: «Resisto. Non so fino a quando...». Ecco perché non ha accettato di venir coinvolto nello scontro tra Berlusconi e Fini, perché ha apprezzato le parole usate ieri da Pier Ferdinando Casini, la «sincera fiducia» espressa dal leader dell'Udc verso Letta: «Mi fido di lui e della istituzione dei servizi segreti guidati da Gianni De Gennaro». E nonostante la distanza che li separa, lo scontro che divide i centristi dal premier, il sottosegretario ha voluto chiamare l'ex presidente della Camera per ringraziarlo.

Il punto è che Letta vede ormai un Paese politicamente capovolto, appeso alla conferenza stampa di un ministro di un'isola caraibica, e teme che i duellanti - un tempo alleati - non si rendano conto del rischio a cui si sono esposti. È vero che anche lo scontro tra Chirac e Sarkozy non si limitò alla politica, che in Francia la guerra nel centrodestra arrivò a utilizzare anche la contestazione dei rimborsi chilometrici per le auto di servizio, ma il sottosegretario alla presidenza del Consiglio confida ancora che in Italia non si arrivi al cupio dissolvi. Spera che Berlusconi per una volta lo senta e in Aula la prossima settimana non chieda le dimissioni di Fini da presidente della Camera. Anche se con Fini è calato il gelo.


Francesco Verderami

25 settembre 2010
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http://www.corriere.it/politica/10_settembre_25/letta-verderami_b46780f6-c872-11df-9516-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #126 inserito:: Settembre 26, 2010, 11:23:19 am »

Il caso montecarlo

Le parole sui Servizi, il primo passo per riaprire il dialogo

Il colloquio tra Fini e Gianni Letta

   
ROMA - Sarà per ragioni di realpolitik, per tatticismo o per reciproco interesse personale, ma il dialogo tra Berlusconi e Fini riparte, attraversando una fragile passerella sospesa nel vuoto, che al Guardasigilli Alfano - fedelissimo del premier - richiama alla mente «il ponte sul fiume Kwai»: «E su quel ponte bisognerà muoversi con attenzione, sapendo che dovremo tenere l'equilibrio e che mentre lo attraverseremo si sentiranno i colpi di mortaio». Il dialogo tra (ex) alleati è ripreso dopo il videomessaggio serale di Fini. Anzi, è ripreso prima che il filmato andasse in onda. Tutto è iniziato ieri mattina, quando il presidente della Camera ha avuto un colloquio con Gianni Letta, irritato per gli attacchi agli 007 italiani, mossi in questi giorni dai finiani nel tentativo di difendere l'immagine del loro leader colpita dall'«affaire Montecarlo». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio riteneva che la terza carica dello Stato non potesse permettersi di attaccare direttamente o indirettamente i servizi segreti, ed è partendo da quel chiarimento che il dissapore ha lasciato spazio al confronto tra i due.

Così Fini ha mosso il primo passo sul «ponte Kwai». E senza fare alcun cenno all'«allarme democratico», ha riconosciuto «la lealtà istituzionale» dell'intelligence, concludendo il suo discorso con quel «fermiamoci pensando al futuro del Paese» indirizzato al presidente del Consiglio. Toccava all'ex leader di An dare un segnale, che Letta ha riferito al Cavaliere, invitato a raccogliere l'appello: «Sarebbe irresponsabile fare altrimenti». Raccontano che Berlusconi non abbia visto il filmato di Fini, d'altronde non ne aveva bisogno dato che il suo braccio destro a palazzo Chigi l'aveva decrittato per lui: il «richiamo» agli interessi nazionali, l'«impegno» a riprendere il confronto, la «volontà» di far proseguire la legislatura, e in più quell'«ammissione di leggerezza» commessa nel «caso della casa» monegasca, erano un messaggio chiaro. Sfrondato il discorso da alcuni passaggi che Letta ha riferito al Cavaliere come «asprezze», mentre altri berlusconiani hanno bollato come «provocazioni», il premier ha accolto il giudizio positivo espresso dal sottosegretario alla Presidenza, e la linea che - insieme all'ala trattativista del Pdl - gli è stata consigliata: si può tornare a discutere, «su basi serie» e per di più da una posizione tattica di forza.

L'analisi infatti è che Fini sia consapevole delle difficoltà in cui si trova per la faccenda di Montecarlo. E se non si è assunto la responsabilità di rompere, bruciando l'ultimo vascello alle sue spalle, è perché teme che l'Fli si sfaldi, che una parte dei suoi gruppi parlamentari - già in fibrillazione e ostile alla linea dura - si dissoci. Sarà tatticismo, realpolitik o interesse personale, di certo il presidente della Camera è salito sul «ponte Kwai». E anche Berlusconi deve farlo, non solo per andare a vedere il gioco dell'ex alleato. Anche il Cavaliere - per quanto detesti Fini e sia ricambiato - ha necessità di irrobustire quella fragile passerella. Il premier non può consentire all'opposizione di sfruttare lo scontro tra «cofondatori», lanciando all'opinione pubblica il messaggio che «quei due perdono tempo a farsi la guerra dimenticando i problemi del Paese», come ha iniziato a fare Casini. Né può prestare il fianco ai leghisti, che proprio su questa falsariga continuano a fagocitare il consenso del Pdl nei sondaggi, rimarcando la litigiosità dell'alleato a fronte della loro operosità. Eppoi Berlusconi deve ricostruire al più presto uno «scudo giudiziario» che lo metta al riparo dalla sentenza della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento. Ha bisogno del Fli per disinnescare il timer, altrimenti il lodo Alfano costituzionale rischia di restare bloccato in commissione al Senato. E ormai manca poco al 14 dicembre...

Quel «ponte sul fiume Kwai» serve insomma anche al Cavaliere, che non può né vuole andare subito alle urne. Bossi invece - che mira al voto anticipato - osserva con sospetto l'ultimo tentativo di compromesso, e non a caso ieri sera ha provato a far saltare la passerella attaccando Fini, «che se dice basta al gioco al massacro, significa che si dimette». Saranno tanti i «colpi di mortaio» che attendono quanti vorranno saggiare la solidità del ponte, ma ieri da Bondi a Cicchitto a Gasparri, gli uomini del premier hanno provato a rinforzarne i canapi. Come spiega il vice capogruppo del Pdl al Senato, Quagliariello, «alcune cose dette da Fini continuano a essere inaccettabili, come l'equiparazione tra giudizio etico e giudizio penale, che è come far coincidere la moralità con la questione morale. Ma rispetto al discorso di Mirabello i toni sono completamente cambiati. E l'appello a pensare ai problemi del Paese va accolto». Tutti pronti a salire sul «ponte». Reggerà?

Francesco Verderami

26 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_26/le-parole-sui-servizi-il-primo-passo-per-riaprire-il-dialogo-francesco-verderami_f18c5a26-c93d-11df-9f01-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #127 inserito:: Novembre 08, 2010, 12:33:44 pm »

Il retroscena

D'Alema scettico: non è pronto nulla.

E Casini prepara il «Patto per la nazione» con Fini e Rutelli

La strada difficile del «governo d'emergenza»


A Bastia Umbra si è prodotto uno sbrego istituzionale al cospetto del quale impallidisce perfino quello che a suo tempo provocò la marcia su Roma. Gaetano Quagliariello, PdlFli e Udc trattano con il Pd.

Finanziaria e legittimo impedimento gli scogli per il Cavaliere


Chi ha l'asso in mano? Perché il gioco al rilancio sta per finire, e si vedrà se Berlusconi - grazie al sostegno della Lega e di Tremonti - eviterà l'Opa di Fini e di Casini, o se la legislatura sopravviverà a se stessa con un governo tecnico, fantasma che in queste ore viene evocato o temuto da quanti vedono avvicinarsi comunque lo spettro delle elezioni anticipate.

Si può vivere da separati in casa, così hanno fatto per mesi il premier e il presidente della Camera, ma è impossibile restare sotto lo stesso tetto da divorziati. E ieri l'ex leader di An ha sancito lo strappo, sebbene abbia tentato di non assumersi la paternità della crisi, lasciando a Berlusconi la scelta di dimettersi prima di ritirare la delegazione di Fli dal governo. Era chiaro che il Cavaliere avrebbe respinto la proposta avanzatagli da Fini e da Casini: «Quei due pretendono le chiavi di casa, ma io non sono disposto a dargliele». È chiaro che toccherà ai futuristi l'ultima mossa.

Il tema è cosa accadrà dopo. Sarà allora che si vedrà chi ha l'asso in mano. Il premier si mostra sicuro dopo essersi garantito la fedeltà di Bossi e di Tremonti, l'anello debole della sua linea di difesa fino a un mese fa, perché il ministro dell'Economia era considerato il potenziale successore del Cavaliere a palazzo Chigi. Ma Tremonti ha voluto per tempo allontanare da sé ogni sospetto: «È vero che io sarei l'unico a poter guidare un governo tecnico. Ma non intendo vivere il resto dei miei giorni passando per un traditore».

Perciò Berlusconi sostiene di non temere un cambio in corsa, «e se in questa fase la mia irrisolutezza è percepita come debolezza, poco importa. Sto solo recitando una parte». Sarà, ma nel giro stretto dei suoi fedelissimi c'è chi teme che la «permeabilità» dei gruppi parlamentari possa portare a un drammatico smottamento, nel caso in cui si andasse alla prova di forza del voto anticipato per chiudere la partita con Fini. Anche perché il suo rilancio viene interpretato da una parte del Pdl come il gioco di chi può contare sul sostegno di Napolitano.

Ecco quale sarebbe l'asso del leader di Fli, che ieri non solo ha rivelato di avere in mano già una coppia, cioè l'intesa con Casini, ma ha fatto pure intuire il possibile arco di forze politiche e sociali che starebbero nel mazzo per un possibile nuovo governo: oltre a un patto con Udc e Pd per modificare la «vergognosa» legge elettorale, non è un caso se Fini si è attardato a illustrare una sorta di piattaforma programmatica mutuata dall'accordo Confindustria-sindacati «per un nuovo patto sociale».

Ma è un asso ancora ballerino, quello di Fini, se è vero che ancora giorni fa D'Alema spiegava a un compagno di partito che «non c'è nessun governo tecnico all'orizzonte, perché non è pronto nulla». E come D'Alema è scettico anche Casini. Non solo il leader centrista scommette da mesi con i dirigenti del suo partito che «se cade Berlusconi si voterà in primavera», ma si sta attrezzando alla bisogna, e ha già trovato persino il nome per il famoso terzo polo da tenere a battesimo con Fini e Rutelli: «Lo chiameremo Patto per la nazione». Chissà se ha cambiato idea da giovedì, da quando - appena rientrato dagli Stati Uniti - ha avuto un colloquio riservato con il capo dello Stato...
Ma nel Pdl c'è chi ritiene che Fini bluffi, che l'asso non sia nelle sue mani, che il Colle voglia star fuori dal gioco del governo tecnico, a cui in queste ore vengono affibbiati tanti nomi pur di vestirlo di dignità politica: esecutivo di «emergenza nazionale», gabinetto «del presidente», governo di «responsabilità istituzionale», di «maggioranza per le riforme». A parte il fatto che non basta un nome a tramutare una carta in asso. Il gioco prevede che qualcuno chiami il banco.

Potrà apparire surreale, ma da ieri le parti si sono rovesciate: per un presidente della Camera che in modo irrituale apre la strada a una crisi extraparlamentare, c'è un presidente del Consiglio che invoca il rispetto delle regole. Non gli bastano le eventuali dimissioni dal governo dei futuristi, vuole il voto di deputati e senatori: «E non avranno il coraggio di sfiduciarmi».

Il vice capogruppo del Pdl a Palazzo Madama, Quagliariello, anticipa come si andrà a vedere il gioco di Fli: «Se Fini chiedesse ai suoi di lasciare l'esecutivo, Berlusconi li rimpiazzerebbe e verrebbe subito in Parlamento a chiedere la fiducia. Al Senato il voto è scontato. Se la Camera gli votasse contro, non credo che Napolitano si prenderebbe la responsabilità di far nascere un governo tecnico senza il Pdl e la Lega». È un bluff o un rischio calcolato?

E se Berlusconi passasse indenne il voto di fiducia, con l'appoggio esterno di Fli, su quale provvedimento potrebbe cadere?
Sgombrato il campo dalla giustizia, di qui a dicembre restano la Finanziaria e il decreto sullo sviluppo. Tremonti ha già dato la propria disponibilità al confronto con Fli sulla legge di Stabilità, pronto però a piazzare la fiducia se iniziasse l'assalto alla diligenza del partito della spesa: «Non permetterò che passi un solo euro senza copertura».

Giocare l'asso mettendo a repentaglio i conti pubblici è cosa assai rischiosa, a meno di non porre proprio sull'economia le basi di un nuovo governo. Resta da capire chi ha quella carta in mano. Di sicuro nessuno la mostrerà prima di dicembre, quando la Consulta farà il suo gioco sul legittimo impedimento e la Lega si farà i conti sul federalismo.

FRANCESCO VERDERAMI

08 novembre 2010
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http://www.corriere.it/politica/10_novembre_08/verderami_trattatifa_difficile_04a212f8-eaff-11df-bbbd-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #128 inserito:: Novembre 09, 2010, 05:59:58 pm »

Retroscena - LA LINEA CONTRO IL GOVERNO TECNICO

Bossi e Berlusconi: resistere un mese

Il Senatùr «esploratore» per sondare Fini


ROMA - Di Fini e di Casini non si fidano, «il gatto e la volpe» li chiamano Berlusconi e Bossi.
Perciò è praticamente impossibile che il Cavaliere e il Senatur scendano davvero a compromesso con il presidente della Camera e il leader dei centristi. Ma è utile alla causa mostrarsi oggi disponibili al confronto, serve a scongiurare un'immediata crisi di governo, a prender tempo perché la strategia che hanno stabilito possa risultare vincente. Devono resistere fino a dicembre, è questo il patto che hanno sottoscritto nel reciproco interesse: e non solo perché per quella data Berlusconi attende la sentenza della Consulta sul legittimo impedimento e Bossi conta di ottenere l'ultimo decreto sul federalismo.

Il timing va rispettato soprattutto se «Silvio» e «Umberto» vogliono evitare di soccombere ai loro avversari, dediti a quello che il Guardasigilli Alfano definisce «il gioco di Palazzo, la nascita cioè del cosiddetto governo tecnico, o del presidente, o di transizione, o di scopo, o di responsabilità nazionale. Tanti nomi per evitare che venga usato quello vero: il governo del ribaltone». Per ogni definizione c'è un candidato, Draghi e Monti sono i più citati tra i dirigenti del centrodestra, che ne parlano come a voler esorcizzare l'eventualità, confidando nel ruolo di Napolitano.

Intanto devono resistere Berlusconi e Bossi, che ieri si è inventato il ruolo di «esploratore» alla bisogna, e per sondare Fini ha mandato in avanscoperta Maroni, lo stesso che due settimane fa - al Federale della Lega - aveva indicato ai colleghi di partito la data più probabile delle elezioni nella prossima primavera: «La settimana dopo la pasqua ebraica», che cade nella seconda decade di aprile. È vero che il Senatur era parso frenare sul ricorso alle urne, giorni fa, vigilia della convention dei finiani. «Questo non è il momento di andare al voto. Sarebbe sbagliatissimo», aveva lasciato filtrare in via confidenziale, per poi dire in pubblico: «Berlusconi e Fini si devono vedere». Voleva vedere l'effetto che la mossa avrebbe fatto sul presidente della Camera e anche sul presidente del Consiglio, al quale chiedeva di accelerare i tempi sul federalismo.

Incassate la rassicurazioni sulla riforma che gli sta a cuore, è scontato immaginare che Bossi starà al fianco del Cavaliere, e non accederà alla richiesta di Fini, l'apertura cioè della crisi per arrivare a un Berlusconi bis con l'ingresso dell'Udc nel governo. A parte i rischi che la trattativa porta con sé, è evidente che un simile accordo non potrebbe limitarsi al solo organigramma del nuovo esecutivo e al suo programma, ma conterrebbe le clausole sugli assetti futuri dell'alleanza: dal prossimo candidato premier, al prossimo candidato al Colle. Nel primo caso certamente non sarebbe Berlusconi. Nel secondo caso quasi certamente non sarebbe Berlusconi. Ed è chiaro a chi non starebbe bene un simile patto.

Ecco su cosa hanno davvero rotto il Cavaliere e Fini. E se un'intesa del genere non è stata chiusa in un anno e passa di trattative tra il premier e il presidente della Camera, è pensabile che venga chiusa adesso in una settimana? Per quanto Berlusconi e Bossi abbiano nel loro orizzonte le elezioni, il timing va rispettato, e al momento devono fronteggiare il pressing del presidente della Camera che è pronto a ritirare la delegazione del Fli dal governo se non riceverà subito risposta alla sua proposta. Il premier però non può muoversi, non adesso, sebbene a sua volta minacci di chiedere a Ronchi le dimissioni in una prossima riunione del Consiglio dei ministri. Ma la crisi al momento non va formalizzata in Parlamento, dove Casini dice che «Pisanu si metterà alla testa di un pezzo del Pdl» se il Cavaliere deciderà di andare alle elezioni. In realtà il governo non esiste più, alla Camera non ha maggioranza nelle commissioni. E se la legge di Stabilità non verrà toccata, è perché Napolitano si è pubblicamente premurato di «coprirla», per evitare i gravi riflessi che una bocciatura del provvedimento finanziario provocherebbe sui mercati.

Resistere, resistere, resistere: è questo oggi il motto di Berlusconi e Bossi, in attesa di dicembre. Non è dato sapere come andrà a finire la sfida della crisi, anche se il premier avrebbe rassicurato il capo della Lega su un nutrito gruppo di parlamentari dell'opposizione che al momento opportuno verrebbe in loro soccorso. Ma dopo quello che successe mesi fa, il Senatur a questa sorta di «gladio berlusconiana» crede poco.

Francesco Verderami

09 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_novembre_09/verderami-bossi-berlusocni_07095d0c-ebc8-11df-8ec2-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #129 inserito:: Novembre 13, 2010, 10:20:56 pm »

Gli scenari

Ribaltone mai, prova in Aula

Il piano anti Silvio di Fini

L'obiettivo: un altro governo sostenuto dal centrodestra


ROMA - Ha l'ambizione di porre termine all'era berlusconiana, ma con una sfida a viso aperto non con un colpo a tradimento, perciò Fini non è intenzionato ad appoggiare un ribaltone.
Se il presidente della Camera non riuscirà a piegare il Cavaliere in Parlamento, costringendolo a passar la mano ad un altro premier «sostenuto dal centrodestra», ci proverà allora nelle urne, e al più presto. Il duello sta per iniziare, se è vero - come raccontava ieri Gianni Letta - che Berlusconi torna in Italia «con spirito agguerrito e battagliero», deciso a contrastare quanti vorrebbero disarcionarlo, e pronto a riesumare il discorso con cui nel '95 denunciò «le trame di Palazzo» che lo costrinsero a dimettersi da capo del governo. Si tratterebbe per l'occasione di sostituire solo il nome di Bossi con quello di Fini.


COERENZA - Ma nonostante le accuse di «tradimento» e di «intendenza con il nemico», la magistratura, c'è una coerenza nella linea del capo dei futuristi che una lettura deformata della recente storia politica disconosce. È da quattordici anni infatti che «Gianfranco» è in competizione con «Silvio», è dal '96 che prova a strappargli il primato del centrodestra: fu lui che nel '96 costrinse Berlusconi al voto, mirando al sorpasso di Forza Italia con An; fu lui che giocò la carta dei referendum elettorali e quella dell'Elefantino alle Europee; e sempre lui - «pentito del Pdl» - due anni fa entrò alla Camera dicendo che «la legislatura non finirà com'è iniziata». Ora la contesa si rinnova, e per quanto il conflitto non preveda una riconciliazione, Fini intende muoversi sempre «nel recinto di centrodestra», così ha detto a Bastia Umbra e così ha ripetuto a Bossi. Forzerà la mano, lo sta già facendo, per dar corso al «ricambio generazionale» in questa legislatura. Se però l'impresa non gli riuscisse, se nel Pdl come nella Lega non prevalesse questo tentativo, tanto varrebbe - è suo convincimento - andare subito al voto, da una posizione tattica di forza, sicuramente migliore rispetto al Cavaliere. Perché l'uomo che parlava agli elettori ha smarrito la magia di un tempo, e le urne potrebbero consegnargli un risultato amaro al Senato, costringendolo al passaggio di consegne.


CONTROINDICAZIONI - Ma per «incarnare il moderatismo italiano», per intercettare e non alienarsi quella larga parte di consenso, Fini sa di non poter commettere «un errore storico», quello citato dal pdl Giuliano Cazzola, che ieri ha ricordato come «i comunisti riuscirono a liquidare il craxismo, ma non furono in grado di annettersi i voti socialisti». Ecco perché l'idea della scorciatoia - un governo cioè con una maggioranza risicata e sostenuto solo dal Fli e dalle opposizioni - non lo convince: intanto consegnerebbe la pattuglia dei futuristi ostaggio della sinistra, in virtù dei rapporti di forza in Parlamento, eppoi offrirebbe il fianco a Berlusconi. Sono troppe le controindicazioni, anche rispetto all'ipotesi di un esecutivo che in tre mesi dovrebbe modificare il sistema di voto e portare il Paese alle urne. Il presidente della Camera è stato chiaro, «l'attuale legge è vergognosa, perché toglie ai cittadini il diritto di scegliersi un candidato».


BIPOLARISMO DA DIFENDERE - Ma sarebbe possibile varare una riforma senza il consenso del Pdl e della Lega, senza cioè le forze che hanno vinto le ultime elezioni? E soprattutto, che ne sarebbe del bipolarismo che è stato il tratto distintivo di Fini, e che lui stesso a Bastia Umbra ha definito «un valore»? Riuscirebbe a difenderlo nel gioco delle trattative da quanti vorrebbero seppellirlo insieme alla Seconda Repubblica?
Un conto è la sfida al Cavaliere, «e su questo - ripete il presidente della Camera - non torno indietro». Un conto è smentire la propria storia, le battaglie referendarie e l'idea di un sistema che quelle battaglie si portavano appresso. Per raggiungere l'obiettivo di «andare oltre il berlusconismo», il leader del Fli sta tentando di vincere le resistenze del premier in Parlamento, e come confermava ieri il leghista Calderoli - presente all'incontro di Montecitorio tra Fini e Bossi - «nessuno pensa o ha mai pensato a maggioranze diverse da quella attuale per uscire dalla crisi».


LE URNE - Se il premier invece dovesse insistere, «o me o le elezioni», allora si torni alle urne, cancellando - come ha scritto ieri il Secolo - «l'inaccettabile tentazione di un piazzale Loreto». Il Cavaliere sarà l'avversario da battere e non da abbattere, e nell'impresa Fini si alleerà con Casini e Rutelli, sebbene ancora non sia chiaro il patto: un'alleanza organica o un'intesa tecnica per colpire Berlusconi sul suo tallone d'Achille, cioè al Senato.
Il resto del copione va ancora scritto, la rottura tra gli (ex) alleati sarà ufficializzata lunedì, quando il Fli farà uscire la propria delegazione dal governo. L'ultimo scontro avverrà nelle Aule parlamentari, nei giochi delle mozioni, nelle ultime trattative per anticipare la fine di un'era. Se così non fosse, Fini vuol portare l'ultima sfida a Berlusconi a viso aperto e non con un colpo a tradimento.

Francesco Verderami

13 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_novembre_13/verderami-fini-ribaltone-mai_6a8223d2-eef7-11df-979e-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #130 inserito:: Dicembre 09, 2010, 10:56:28 am »

Il premier vorrebbe l'astensione dei futuristi per arrivare al massimo a un rimpasto

Quella bozza d'intesa nelle mani di Letta

Ma rimane il nodo delle garanzie. Fini: deve fidarsi


Non è solo l'ottimismo della volontà che porta Gianni Letta a essere «molto fiducioso» sulla mediazione con il Fli, per evitare quel voto di fiducia del 14 dicembre che - a suo dire - «va scongiurato».
Se il braccio destro del Cavaliere confida in una soluzione a tempo ormai scaduto ci sarà un motivo.

Se per Letta il nodo della vertenza tra Berlusconi e Fini è «sulle garanzie» reciproche, vuol dire che il negoziato si è spinto molto avanti, nonostante i duellanti si mostrino ancora la faccia feroce. E in effetti la bozza d'intesa - di cui è custode il sottosegretario alla presidenza - è già zeppa di appunti: passa da un accordo sulla politica economica, tiene dentro l'approvazione del federalismo fiscale e la riforma del sistema elettorale.

Tutto fatto, dunque? Niente affatto. Perché sull'iter della crisi non c'è intesa. L'ipotesi caldeggiata dal Fli è che il premier presenti in Parlamento il suo programma, recepisca nel corso del dibattito l'apertura dei finiani, e prima del voto di fiducia salga al Colle per dimettersi, in modo che - come diceva ieri Bocchino - «entro 72 ore» riceva il reincarico. Il Cavaliere però non fa mostra di recedere, vuole il voto delle Camere e la «prova di fedeltà» del Fli, «almeno l'astensione», così da passare dopo dal Quirinale e avviare un «rafforzamento del governo». Niente Berlusconi bis, insomma. Al massimo un rimpasto.

D'altronde sulle «garanzie» non c'è convergenza. Letta aveva sondato Fini in tal senso, perché - in caso di dimissioni - ci fosse già una rete di protezione, un documento sottoscritto da i due (ex) alleati che garantisse il percorso della crisi. Ma il presidente della Camera ancora ieri sera resisteva: «La precondizione è che Silvio si dimetta. Per il resto, niente documenti, deve giocare a fidarsi. Altrimenti il 14 si vota. E se non ha i numeri, o riesce ad ottenere le elezioni o si va a un nuovo governo». È chiaro che se Fini facesse oggi un passo indietro, darebbe di sé e del suo gruppo l'immagine dei soldati iracheni che ai tempi di Desert Storm si arrendevano alle troupe televisive. Ed è altrettanto chiaro che nemmeno il premier ci pensava (e ci pensa) a consegnarsi.

Tuttavia Letta continua a essere «fiducioso», e chissà se il suo ottimismo si fonda sulle vistose crepe che appaiono nel Fli, nelle parole pronunciate dal finiano Moffa, secondo cui «non è indispensabile che Berlusconi si dimetta» per dar vita a «un patto che porti l'Italia fuori dalla crisi». Il dirigente futurista da mesi manifesta il suo dissenso interno, al pari di altri sostiene di aver firmato la mozione di sfiducia contro il governo solo come «strumento di pressione negoziale per arrivare a un accordo prima del voto». Ma non è disposto ad andare oltre, non crede all'opzione del terzo polo, e dice apertamente di interpretare «il sentimento di molti» nel gruppo.

Se l'argine del Fli dovesse cedere, se Fini si accertasse in queste ore che non tutti i suoi sono disposti a seguirlo nello show-down con il premier, allora sì che cambierebbe tutto, non solo i numeri alla Camera che il Cavaliere dice già di avere. Muterebbe il quadro politico, obiettivo al quale Berlusconi ha lavorato nelle ultime settimane. «Con l'Udc si è capito che si perde tempo», ha sentenziato due sere fa, dopo che Casini aveva rifiutato un invito a cena organizzata dal capo del governo per il suo compleanno. Il capo dei centristi non sta al gioco, a suo avviso «nemmeno Fini»: «Se poi Gianfranco volesse davvero riformare l'alleanza con Silvio, che sarebbe per lui un suicidio, io comunque non ne farei parte».

Casini puntava (e punta) al superamento del berlusconismo, ha lavorato di sponda con il presidente della Camera perché il premier si dimettesse prima del voto di fiducia e passasse la mano, ma proprio Letta - a cui avrebbe dato il suo sostegno per un nuovo esecutivo - ha criticato la sua tattica: «Pier, state sbagliando tutto. Berlusconi non si dimette. Inutile insistere, lui è irremovibile». Che il premier sia indebolito non c'è dubbio, ma a quanto pare non è imbolsito, se è vero ciò che ha raccontato il leader della Cisl ad un amico, dopo aver incontrato il Cavaliere. «Meno male che lo facevano giù di tono e privo di idee», ha commentato Bonanni al termine di un colloquio al quale ha partecipato anche il presidente di Confindustria, Marcegaglia: «Lui dice di avere i numeri alla Camera».

Bonanni appartiene alla schiera di chi considera «una iattura» le elezioni anticipate, e in tal senso si è adoperato con gran riservatezza. In fondo nemmeno Berlusconi vuole le urne, «se c'è una soluzione sono disponibile, perché per me il voto è solo l'extrema ratio». Ma dell'opzione si è servito (e ancora si serve) come arma difensiva contro gli avversari. E se non ha ceduto alle pressioni per dimettersi è perché «bisognava tenere la posizione per far esplodere le contraddizioni nel Fli, e far saltare sul nascere il terzo polo». La crepa nel gruppo futurista è un indizio che avvalora le confidenze del premier: «Con i finiani il dialogo non si è mai interrotto. Mai».

Passa allora di qui la mediazione di Letta? Di sicuro sulla legge elettorale il negoziato è in fase avanzata. È a Scajola che Berlusconi ha affidato il compito, è lui che ha preso in considerazione le proposte per riformare l'attuale sistema di voto: la soglia al 45% per ottenere il premio di maggioranza alla Camera; l'introduzione del premio calcolato su base nazionale al Senato; il ritorno della preferenza. L'opzione non piace all'ex ministro come al Cavaliere, perché consegnerebbe le coalizioni nelle mani dei partitini, custodi del «voto di utilità marginale».

Piuttosto viene preferito il ritorno al Mattarellum, con una nuova mappa dei collegi elettorali, così da consentire un più stretto rapporto tra elettori ed eletti.
Scajola conferma che la trattativa è in atto: «Modificare il sistema di voto non è un tabù per il premier». Che intanto si è premunito, facendo simulare ogni tipo di riforma e traendo da quei report riservati buoni auspici.

Chissà se la bozza di accordo curata da Letta tornerà utile prima o dopo il voto del 14, se non si arriverà cioè allo scontro in Aula tra Berlusconi e Fini. Difficile. E tuttavia quelle carte tornerebbero comunque utili dopo, perché il Cavaliere è consapevole che - anche se ottenesse la fiducia alla Camera - non potrebbe andare avanti con questo governo. I numeri sarebbero troppo risicati per sopravvivere nella gestione quotidiana del Parlamento. Ma il premier non vuole passare come chi ha accettato il gioco di Palazzo, bensì come chi - dopo aver vinto la sfida dei numeri - è costretto per ragioni di realpolitik a trovare un accordo per guidare il Paese nel bel mezzo della crisi economica: «Il governo di responsabilità nazionale lo faccio io». Oggi sarà una delle tante giornate decisive della crisi, i vertici del Pdl e del Fli si riuniranno per decidere cosa fare. Poi resterà solo la roulette dei numeri alla Camera.

Francesco Verderami

09 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_09/fini-intesa-letta-vederami_96f86162-0359-11e0-8ee8-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #131 inserito:: Dicembre 19, 2010, 06:42:01 pm »

Il retroscena - Il pressing del mondo berlusconiano

Un piano per spingere il leader di Fli a lasciare la presidenza della Camera

Dopo lo strappo «politico» quello «istituzionale»


Non si era mai visto un premier annunciare una visita al Quirinale per mettere in mora un presidente della Camera. Né si era mai visto un presidente della Camera convocare un'assemblea di partito per chiedere le dimissioni di un premier.

Ecco cosa ha innescato lo scontro tra Berlusconi e Fini, protagonisti di una crisi politica tracimata in una crisi istituzionale, che ha costretto ripetutamente Napolitano a intervenire persino sul calendario dei lavori parlamentari. E c'è un motivo se, ignorando i maldipancia delle opposizioni, il Quirinale impose a suo tempo che il dibattito sulla fiducia si svolgesse dopo l'approvazione della legge di Stabilità, per salvaguardare così i conti pubblici e l'interesse nazionale.
Il fatto è che nel duello con il Cavaliere, il presidente della Camera ha finito per esporre anche il ruolo che ricopre. E ora che il premier ha vinto la sfida con il voto di fiducia, il centrodestra ha accentuato la pressione sull'inquilino di Montecitorio. Senza mai chiederne formalmente le dimissioni, ha iniziato ad appellarsi al «senso di opportunità», e siccome non esistono strumenti parlamentari per sfiduciarlo, starebbe approntando un'iniziativa per indurre Fini al passo indietro. Non è dato sapere quale possa essere lo strumento, è certo che lo «strappo istituzionale» resta uno dei fattori della crisi. E sarà destinato ancora a pesare.

Perché con le sue mosse da leader di partito, Fini ha rotto «la prassi», così scriveva Giuliano Ferrara ieri sul Foglio, invocando l'intervento del presidente della Repubblica, la sua capacità di persuasione «privata e pubblica» presso la terza carica dello Stato, in modo da rendere «indisponibile la presidenza della Camera per giochi politici hard core». In realtà Napolitano è già intervenuto, in forma «privata» e anche «pubblica».

Accadde il tre dicembre, quando Fini - nei panni di capo del Fli - disse che le elezioni sarebbero state scongiurate anche se Berlusconi fosse caduto: «Il capo dello Stato sa cosa fare, di più non posso dire». Con una nota non ufficiale, qualche ora dopo, il Colle sottolineò che nessuna presa di posizione politica, di qualsiasi parte, poteva oscurare le prerogative di esclusiva competenza del presidente della Repubblica. Ma quella sera, rivolgendosi al Quirinale con un greve «noi ce ne freghiamo», il coordinatore del Pdl Verdini spostò interamente su di sé i riflettori.

Dall'inizio il doppio ruolo di Fini è parso a Napolitano «una novazione» istituzionale, sebbene abbia tenuto a difenderne la figura dagli attacchi scomposti del Pdl. Ma nell'escalation del conflitto con Berlusconi, lo stesso Casini ha avuto modo di confidare le proprie perplessità su alcune sortite dell'inquilino di Montecitorio: specie alla vigilia del voto di fiducia, quando - nel corso di un'intervista tv - anticipò che il Fli avrebbe «comunque» votato contro il premier, «a prescindere» dal discorso che si apprestava a fare davanti alle Camere. Così, paradossalmente, Fini aveva colpito se stesso, il ruolo di custode solenne del confronto nelle Aule parlamentari.
Dopo averlo battuto, il centrodestra pare abbia intenzione di chiudere il conto con l'ex alleato. Nelle argomentazioni - che sono giunte anche al Quirinale - viene fatto notare come si sia creato a Montecitorio un «pericoloso precedente» da sanare per evitare che il successore di Fini possa avvalersi della «novazione» istituzionale.

C'è anche questo nodo nel complesso negoziato in corso tra la maggioranza e il leader centrista, Casini, interessato a usare il mese e mezzo di tregua con il Cavaliere per evitare le elezioni anticipate. Ogni possibile elemento di conflitto va depotenziato, con beneficio reciproco per le parti. Così la mozione di sfiducia contro il ministro Bondi, già posticipata, potrebbe non avere impatto sul governo al momento del voto grazie a un atteggiamento di «responsabilità» del terzo polo. E nel frattempo la maggioranza al Senato potrebbe accettare la delibera della Camera sull'interpretazione della legge elettorale europea, dando il via libera all'udc Trematerra per il seggio a Strasburgo. Non solo. Un clima rasserenato, senza più la presidenza della Camera al centro del conflitto, potrebbe consentire di discutere sulle norme da adottare nel caso in cui la Consulta a gennaio dovesse bocciare la costituzionalità del legittimo impedimento, legge che fu ideata proprio dai centristi. Ma la tregua regge su fondamenta instabili. Dovessero cedere, il presidente della Camera tornerebbe nel mirino della maggioranza. A quel punto, a fine gennaio, con le elezioni ormai certe, Fini potrebbe lasciare Montecitorio: magari a Milano, proprio nel giorno in cui Futuro e libertà diventerà ufficialmente un partito.

Francesco Verderami

18 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_18/fini-piano-pressing-berlusconi_d1342c22-0a6f-11e0-b99d-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #132 inserito:: Dicembre 23, 2010, 05:39:53 pm »

Dietro le quinte Il Carroccio cerca di far saltare i giochi e guarda al voto anticipato

Telefonata a Casini, la mossa del premier

L'obiettivo: separare l'Udc da Fli. La risposta del leader centrista: ne riparliamo a gennaio


A Bossi il presepe non gli piace, la storia di Casini vestito da re magio non lo convince affatto. Ma se il capo del Carroccio lascia a Berlusconi l'ultima parola è perché sa che «Silvio si sta giocando la partita della vita».

E Berlusconi ha bisogno di tempo per capire se il tempo gioca a suo favore o a favore dei suoi avversari, se l'idea cioè di andare avanti con il governo finirà per rafforzarlo o invece consentirà agli altri di strutturarsi e di batterlo prima nel Palazzo e dopo nelle urne. E' questo il dilemma del premier: intuire a chi giova la prosecuzione della legislatura, e scegliere una strada o l'altra del bivio dinnanzi al quale si trova, conscio che un errore gli sarebbe fatale.

Bossi è convinto che il voto di fiducia sia servito solo per impedire che un altro premier possa gestire le elezioni. Nulla più.
Per il resto, i numeri alla Camera impediscono qualsiasi agibilità politica a Pdl e Lega, anzi li ingabbiano nella logica dei «governi di minoranza», garantendo a Casini la golden share: perché con l'offensiva del dialogo il capo dei centristi da un lato rende complicata la strada delle urne, e dall'altro rafforza la sua leadership nel terzo polo, in vista - magari - di un'alleanza elettorale con il Pd. Questo è il convincimento di Berlusconi, che D'Alema abbia offerto a Casini Palazzo Chigi prenotandosi il Quirinale, secondo lo schema caro all'ex segretario dei Ds: l'accordo Dc-Pci.

L'offensiva della Lega contro Fini è un modo per far saltare il gioco. Già la scorsa settimana il capogruppo del Carroccio Reguzzoni aveva anticipato agli alleati del Pdl che avrebbe chiesto un dibattito in Aula sul «ruolo e l'imparzialità» del presidente della Camera. Dopo che l'inquilino di Montecitorio ha ribadito pubblicamente di non volersi dimettere, la Lega ha reagito per non dare l'idea del silenzio assenso, per tenere sotto pressione il leader del Fli, schiacciarne l'immagine sulle forze di opposizione, e soprattutto verificare le reali intenzioni di Casini.

Ieri sera, dopo il vertice con Bossi, il premier ha contattato il capo dei centristi per saggiarne il polso. L'obiettivo del Cavaliere è chiaro: portare a compimento la «caccia grossa» tra i futuristi - affidata all'ex finiano Moffa - e dopo aver ingrossato le file della maggioranza, premere sull'Udc, separarla da Fini e farla rientrare a pieno titolo nel centrodestra, minacciando altrimenti le elezioni. È vero che Casini non vuol correre il rischio, ma c'è un motivo se al telefono è stato evasivo: «Ne riparliamo a gennaio, Silvio. C'è tempo».

È il tempo che serve a Berlusconi per capire se il tempo gioca a suo favore o contro. Se non ha ancora deciso è perché non ha ancora calcolato benefici e rischi. Nella sua mente aleggia infatti il fantasma della trappola, il sospetto che Fini abbia stretto un'intesa con i magistrati per impedire al Parlamento di varare norme simili al legittimo impedimento, qualora la Consulta bocciasse l'attuale legge: se così fosse il processo sul caso Mills potrebbe arrivare a sentenza nel giro di tre mesi, con effetti devastanti sul quadro politico.

Il tempo è decisivo in questa sfida, come il copione che ogni protagonista deve tenere. Al premier è stato chiesto di non esporsi su Fini, nel gioco delle parti tocca alla Lega muovere contro il presidente della Camera, lasciando che dalla corte berlusconiana filtri l'irritazione del Cavaliere per la mossa del Carroccio, così da non mettere a rischio l'operazione «caccia grossa» nel Fli.

È vero che il capogruppo del Pdl Cicchitto aveva inizialmente espresso delle perplessità sull'iniziativa del Carroccio, ma è altrettanto vero che Berlusconi vuole la testa dell'ex alleato, e intende tenerlo sotto pressione in attesa di un suo passo falso. Cosa che dall'altra parte della trincea preoccupa Casini, in vista del congresso fondativo del Fli: «Gianfranco - ha confidato - deve stare attento a come si muove, perché quando ero presidente della Camera non è che fossi estraneo alle scelte del partito e del governo, ma lasciavo che a occuparsene fosse Follini», allora segretario dell'Udc.

A gennaio Berlusconi dovrà sciogliere la riserva, per allora dovrà aver deciso se stipulare la pace o muovere guerra. Intanto ammassa truppe alla frontiera, asseconda silenziosamente la costruzione di piccoli e grandi gruppi - da Forza Sud di Miccichè al Pid di Romano - su cui fare affidamento nel caso di elezioni, per tentare di conquistare la maggioranza anche al Senato. Ha bisogno di tempo il Cavaliere. Peccato che nel frattempo gli siano scoppiate nel partito le peggiori grane, dal «caso Prestigiacomo», all'attacco di Brunetta contro «il tremontismo che non basta più». Perciò ieri sera era furente. Ma se alla vigilia dello scontro decisivo un condottiero perde il controllo del proprio esercito, di chi è la colpa?

Francesco Verderami

23 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_23/verderami_telefonata-casini-mossa-premier_420e6678-0e5e-11e0-bf2d-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #133 inserito:: Gennaio 22, 2011, 05:47:32 pm »

CASO RUBY E GRADIMENTO

Il Cavaliere in affanno regge nei sondaggi

I «sismografi» degli istituti hanno registrato più variazioni per la vicenda Mirafiori


Ammonito dalla Chiesa, bacchettato dal Quirinale, pressato dal Parlamento, criticato dal Csm e inseguito dalla Procura di Milano, Silvio Berlusconi appare ancora una volta circondato. Ma ci sarà un motivo se il Cavaliere — isolato nel Palazzo — non sembra perdere consensi nel Paese, se tra i cittadini «la rivolta non scatta», come riconosceva ieri in prima pagina il quotidiano del Pd, Europa.

Perché non c’è dubbio che il «caso Ruby» abbia esposto il premier alla berlina mediatica oltre che ai rischi giudiziari, e che «tutti sono contro Berlusconi, manca solo l’Onu», come con un paradosso sarcastico annotava la Jena sulla Stampa. Ma prima o poi bisognerà capire il motivo per cui «l’elettorato si mostra del tutto impermeabile » alla vicenda. I dati Ipsos che il professor Paolo Natale pubblica su Europa, testimoniano infatti che sebbene «oltre il 70% dell’opinione pubblica» non consideri il Cavaliere vittima di una persecuzione giudiziaria e ne «censuri» il comportamento, non intende poi «punirlo». Lo scandalo insomma «non fa presa sul livello di fiducia che il governo e la maggioranza hanno da parte degli italiani». Gli elettori sono «disposti a sostenere ancora » il Cavaliere: un atteggiamento che — secondo il docente alla Statale di Milano—è dovuto alla «mancanza di una credibile alternativa».

Mai come in questi giorni gli istituti di ricerca concordano sul fatto che il trend politico resta inalterato, che il caso giudiziario in cui è coinvolto il premier non ha provocato variazioni nelle intenzioni di voto e negli indici di fiducia. Ed è vero che le rivelazioni sulle notti hard di Berlusconi hanno destato sconcerto soprattutto nell’elettorato cattolico. Ma come il premier ha potuto riscontrare nei suoi amatissimi sondaggi, se le critiche più severe gli giungono proprio dai cattolici praticanti e dalle donne, sono proprio queste due fasce elettorali a garantirgli ancora il consenso più stabile. È un paradosso a cui si aggiunge un altro paradosso, perché il 2% degli italiani esprime «invidia» verso il Cavaliere.

E certo nel Palazzo Berlusconi è in grave difficolta, la sua situazione si è fatta assai delicata. Ma fuori dal Palazzo la realtà che i numeri riflettono sembra diversa, e non per un diverso approccio ai temi etici o agli stili di vita. Semmai—come spiega Nando Pagnoncelli — «dopo vent’anni viene al pettine il nodo del rapporto tra potere e cittadini, che ormai sovrappongono totalmente il concetto di politica con il concetto di governo. Rispetto al passato— traduce il capo di Ipsos—l’orientamento che guida l’opinione pubblica non è più l’idealismo di partito ma il pragmatismo dell’amministrazione. E infatti il premier non paga dazio sulle ultime vicende, rischierebbe però di pagare anche queste se in futuro si aggravassero i problemi della crisi economica».

Non è un caso che i sondaggisti abbiano visto oscillare il pennino dei loro sismografi durante la vertenza di Mirafiori. In quei giorni lo scontro tra la Fiat e la Fiom ha provocato un sensibile calo di consensi per il Pd, registrato da tutti gli istituti demoscopici: si è trattato di un travaso di circa due punti, a favore di Nichi Vendola. «Sono questi i problemi che stanno a cuore dei cittadini », secondo Alessandra Ghisleri di Euromedia research: «È su questi temi che si confrontano i lavoratori, divisi tra l’affermazione di alcuni diritti e il desiderio di avere un maggior benessere economico».

Così il «caso Ruby» sembra (per ora) non avere impatto sul premier e sul governo. E il fatto che la «rivolta non scatta» è forse dovuto anche da un altro aspetto, citato nell’articolo di Natale, che ha evocato la stagione di Tangentopoli. L’idea è che sia svanito anche il mito della rivoluzione giudiziaria e della catarsi nazionale che avrebbe portato al cambiamento. Ce n’è riscontro nei sondaggi, lo rileva Pagnoncelli, quando racconta che «ai tempi di Mani pulite i magistrati erano visti come dei Robin Hood. Negli anni però l’indice di fiducia verso la magistratura è sensibilmente calato».

Oggi l’attenzione dei cittadini è concentrata sulla gestione del governo, e l’opinione pubblica non è solo disillusa dalla stagione delle toghe. Anche il sogno berlusconiano è finito, il premier ha avuto modo di constatarlo nei numeri riservati di cui è in possesso. La mancanza di alternativa lo rende però inattaccabile, sebbene non si capisca per quanto tempo ancora.

A destare qualche preoccupazione, per esempio, sono stati i dati recentemente pubblicati dal Sole 24 Ore sulla grande distribuzione: per la prima volta dopo trent’anni i supermercati hanno subìto infatti una flessione nelle vendite dell’1,6%. Un campanello d’allarme per uno come il Cavaliere, che spesso fa visita ai centri commerciali come testimonial subliminale del consumo. Ecco perché aminacciare il consenso di Berlusconi non è (per ora) il «caso Ruby».

Francesco Verderami

22 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/11_gennaio_22/verderami-cavaliere-in-affanno-regge-sondaggi_eaecaa9a-25ef-11e0-8bad-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Febbraio 04, 2011, 06:04:52 pm »

GLI SCENARI

La partita finale per evitare le elezioni

Il governo regge ancora.

Ma spuntano voci di un patto premier-Bossi sul voto a maggio


ROMA — Rivelazione o disinformazione? Strategia o tatticismo? Insomma cosa c’è di vero nella confidenza fatta dal leghista Maroni al democratico Castagnetti, che ieri sera ha raccontato il contenuto del colloquio ad alcuni colleghi di partito? «Guardate che Berlusconi e Bossi si sono messi d’accordo per andare alle elezioni a maggio» , così ha esordito Castagnetti. Che per superare lo scetticismo e le perplessità di quanti lo stavano ad ascoltare ha citato la sua fonte: «Me l’ha detto il ministro dell’Interno» .

Silenzio gelido. «Se vi dico che me l’ha detto Maroni, potete crederci. Vogliono andare al voto in primavera. Il loro problema è trovare il modo per provocare la crisi e arrivare alle urne» . Questa storia per molti versi non torna, e tuttavia descrive il clima del Palazzo, dove tutti sono in attesa di un evento, di qualcosa che spezzi i fragili equilibri politici di una legislatura data già tante volte morta. Ancora l’altra sera sembrava dovesse celebrarsi il de profundis, dato che sulla riforma cara alla Lega la maggioranza non aveva i numeri nella Bicameralina per il federalismo fiscale. E quando ieri in commissione Bossi ha dovuto subire l’onta del pareggio, a un passo dal baratro ha chiesto e ottenuto da Berlusconi la prova fedeltà: «A me delle questioni interpretative frega niente, qui c’è una questione politica. E questo è il momento di vedere se abbiamo le palle» . Il Senatur non ha dovuto spiegare quale fosse la subordinata, il Cavaliere si è detto subito d’accordo nel forzare procedure e tempi per varare il decreto attuativo con un Consiglio dei ministri straordinario. E poco importa se Gianni Letta avesse chiesto tempo per negoziare con il Quirinale: «Non si rallenta, si va avanti» , ha tagliato corto il premier. In ballo c’era l’alleanza con la Lega e la legislatura, e sebbene i primi contatti con il Colle non promettessero nulla di buono, Berlusconi contava sul fatto che Napolitano— piuttosto di firmare il decreto di scioglimento delle Camere — avrebbe accettato di firmare il decreto sul federalismo. Magari facendolo precedere da un tira e molla, «ma vedrete che non ci dirà di no. Anche perché non deve promulgarlo, deve solo emanarlo».

Sta nelle pieghe delle forme giuridiche la sostanza politica. Così Berlusconi sembra smentire la voglia di urne, nonostante siano gli stessi suoi alleati a dubitarne: «Non ti dico che non dici la verità, presidente. Ti dico che non ti credo» , ha detto giorni fa al Cavaliere il segretario del Pri, Nucara. Eppure anche le opposizioni dopo il voto con cui l’Aula di Montecitorio ha rimandato alla Procura di Milano gli atti dell’inchiesta sul caso Ruby, ritengono che le elezioni — se non scongiurate — si siano quantomeno allontanate. «Tireranno a campare» , ha commentato Casini. «Significa che avremo il tempo per costruire il nuovo polo» , ha aggiunto Rutelli. Per quanto possa apparire paradossale, proprio nel momento di maggiore difficoltà, Berlusconi vede infatti allargarsi alla Camera la propria maggioranza, e in Consiglio dei ministri in molti si sono felicitati con il premier, secondo il quale «a Montecitorio siamo già 320» . Sotto questo aspetto, insomma, per il Cavaliere il peggio è ormai alle spalle: la tenuta in Parlamento pare assicurata dai nuovi arrivi. «E più avanti si andrà — pronostica Frattini— più deputati verranno con noi» . Nell’area del terzo polo si avvertono in effetti sinistri scricchiolii, ed è lì che Berlusconi può ancora attrarre a sé qualche deputato. Ma allora cos’è che rende instabile un quadro politico che pare stabilizzarsi? Perché l’ipotesi di una crisi a breve continua ad aleggiare nel Palazzo? Con una battuta il democratico Fioroni lascia intuire quale possa essere il punto di rottura: «A me non piacciono le spallate» .

È chiara l’allusione a una possibile «spallata» giudiziaria che cambierebbe radicalmente la situazione. Non a caso un dirigente del Pdl che ha partecipato al vertice di ieri tra Berlusconi e Bossi, sostiene che il premier è determinato a governare, e tuttavia un conto è lo stato delle cose oggi, «altra cosa la valutazione della contingenza politica» . La «contingenza politica» è un’eventuale onda d’urto giudiziaria. Resta da capire se l’appello per un nuovo clima nel rapporto tra istituzioni, lanciato da Napolitano, sarà una rete sufficientemente forte per reggere. Perché forse è vero che il Cavaliere vuole andare avanti, ma sente il «rumore dei nemici» che lo minacciano, con Ruby e anche con il pentito Spatuzza. Le elezioni a maggio sono escluse. Forse...

Francesco Verderami

04 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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