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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 134153 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Marzo 05, 2010, 10:22:58 pm »

L’«errore strategico»

Il Pdl: «Un pasticcio che ci costa 3 punti»

Berlusconi addebita il calo nei sondaggi alla dispute interne: «Dovevamo attaccare avversari e giudici»


ROMA - Tre punti persi in una sola settimana. Tanto è costato al Pdl il caos delle liste. Tre punti secchi in meno su scala nazionale, come uno sbrego sul volto di Berlusconi, che ieri si è presentato così ai dirigenti del partito. Perché più dell’inchiesta sugli appalti del G8, più degli strascichi del processo Mills, più delle polemiche con l’opposizione sulle leggi ad personam, «la causa che ci ha fatto precipitare nei sondaggi » è stata la settimana di passione tra Roma e Milano, le disavventure sulle candidature, gli errori, le omissioni, «ma soprattutto il rimbalzo di responsabilità, lo scambio di accuse tra di noi», quell’immagine devastante dell’uno contro l’altro.

Tre punti, «il Pdl dal 40,8% è passato al 37,9%», secondo Berlusconi. Quella ferita è stata rimediata «perché noi non abbiamo difeso, come dovevamo invece fare, i nostri dirigenti locali», mentre c’era da scaricare ogni responsabilità «sui nostri avversari e sulla magistratura che usa ogni mezzo pur di colpirmi». Secondo il premier si è trattato di un errore di strategia comunicativa, «abbiamo fatto passare l’idea che noi, che siamo al governo, non siamo nemmeno capaci di presentare delle liste». Ma è chiaro a Berlusconi che le difficoltà mediatiche sono solo l’aspetto esteriore delle difficoltà politiche, e che non basta - come pure ha fatto - invitare i dirigenti del partito a «centrare d’ora in avanti la campagna elettorale sui buoni risultati di governo».

La decisione di alzare la posta in gioco, chiamando in causa il Quirinale per il pasticciaccio brutto delle liste, è un modo per allentare le tensioni nel Pdl e dare l’immagine di una coalizione che offre una diversa prospettiva della vicenda, non accettando passivamente quello che viene offerto ai propri elettori come «un sopruso». La riunione urgente dell’Ufficio di presidenza del partito, il vertice con la Lega e il colloquio con Napolitano servivano a questo, perché tutti sapevano che l’ipotesi del decreto per un rinvio delle elezioni non era costituzionalmente praticabile, perché era nell’ordine delle cose che nel Lazio la Polverini sarebbe tornata in gioco con il ricorso alla corte d’Appello, in attesa di buone notizie per Formigoni.

Berlusconi doveva però dare l’idea di muoversi, anche agli occhi degli elettori di centrodestra, che secondo i sondaggi mostrano segni di disaffezione e sono tentati dalla logica dell’astensionismo. Certo, ora che il Cavaliere si è esposto al punto da salire al Quirinale, soltanto una soluzione del caso Lombardia e della lista Pdl nel Lazio potrebbe garantirgli un’operazione a saldo positivo. A meno che non decida di sfruttare un eventuale insuccesso nel gioco di Palazzo per alzare il livello dello scontro elettorale e chiamare a raccolta il «popolo» del Pdl, mettendo ancora una volta nel mirino la magistratura. Berlusconi è su questo confine da ieri sera, dopo la visita al capo dello Stato, dal quale si è presentato «aperto a tutte le ipotesi» pur di risolvere il problema. A parte le resistenze di Napolitano, niente affatto convinto da un provvedimento che riapra i termini per la presentazione delle liste e consenta ai candidati pdl del Lazio di mettersi in regola, il problema politico che la vicenda rivela è lo scontro interno al partito, segnato dal duello tra il premier e il presidente della Camera.

Tutto ruota attorno al duello Berlusconi- Fini, «e se possibile bisogna che il rapporto si sani», dice il ministro Matteoli, preoccupato dalla piega degli eventi. Non sono chiari i motivi che hanno provocato una ripresa del conflitto, ma non c’è dubbio che il calo di consensi è stato determinato anche dalla rinnovata ostilità tra i due. Nell’immaginario collettivo degli elettori del Pdl resterà impresso lo scontro tra i «cofondatori » che si è giocato proprio mentre in Lazio e in Lombardia stava per scoppiare il caos delle liste: con Berlusconi da una parte, che lanciava i Promotori delle libertà, quasi un partito parallelo al Pdl; e con Fini dall’altra che - a un mese dal voto - introduceva l’idea di riformare il sistema pensionistico. Tre punti sotto. Ecco il risultato. Senza che nel Pdl si capisca fino a che punto i due vogliano arrivare. Perché il Cavaliere sostiene di non avere «intenzione di salire su un altro predellino», non se lo può permettere, dato che sta al governo.

E perché Fini ripete che «non c’è alternativa al Pdl», a meno che non intenda sconfessare il suo credo di bipolarista. Ma il conflitto resta, e non solo ha generato una lotta senza quartiere sul territorio, rischia di riflettersi sul governo. Il risultato delle Regionali influirà sul restante percorso della legislatura, ma l’impressione nella maggioranza è che - per dirla con il segretario del Pri, Nucara - «il centrodestra abbia la stessa sindrome che afflisse l’Ulivo nel ’97, quando iniziarono a litigare per il potere, pensando che Berlusconi fosse stato definitivamente sconfitto, e che loro avrebbero governato per vent’anni. Non andò così e tutti persero tutto».

Francesco Verderami

05 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #106 inserito:: Marzo 09, 2010, 02:28:47 pm »

Dietro le quinte Gianni Letta chiede agli interlocutori di pazientare

Nel partito malumore per la «norma autogol»

Tutte le speranze ora si concentrano sul Consiglio di Stato. Fini: che figura

   
Magari in extremis il Pdl riuscirà a presentare la lista nel Lazio, magari non ci sarà bisogno di ricorrere al rinvio delle elezioni, ma è proprio il ricorso all’appiglio leguleio che sta arrecando gravi danni d’immagine al centrodestra. E che l'immagine del Pdl sia compromessa lo si intuisce dal modo in cui Fini ieri ha accolto la sentenza del Tar: «Che figura». La battuta del presidente della Camera non è solo dettata dalla preoccupazione di veder compromessa in queste condizioni la corsa della Polverini nel Lazio, ma perché sa che la politica segna il proprio fallimento quando degrada ad una disputa tra azzeccagarbugli. Al pari dell'inquilino di Montecitorio anche Berlusconi ne è consapevole, lui che appena qualche giorno fa aveva avvisato lo stato maggiore del Pdl di un calo nei sondaggi, siccome nell'immaginario collettivo era passata l'idea che «non siamo nemmeno in grado di presentare delle liste». Con il decreto confidava di aver chiuso il conto, invece la sentenza del Tar non solo ha riaperto il caso ma soprattutto è stata valutata come una bocciatura dell'esecutivo, che si sarebbe fatto una sorta di «autogol». Così prende corpo un rischio ulteriore e se possibile ancor più devastante, e cioè che l'opinione pubblica si convinca dell'incapacità del governo di varare un decreto che produca effetti.

Poco importa se davvero in mattinata i cofondatori del Pdl fossero ottimisti, e se ieri sera lo scoramento misto a una forte arrabbiatura avessero preso il sopravvento. Al telefono Gianni Letta ha chiesto ai suoi interlocutori di pazientare. Bisognerà intanto capire se il provvedimento — voluto dal premier e controfirmato dal capo dello Stato — sarà in grado di reggere a fronte di un ricorso del Pd contro un'eventuale decisione della corte d'Appello di accogliere la nuova presentazione della lista del Pdl. Ma su questo nessuno fa più affidamento: la bocciatura sembra assicurata. Le speranze — a quanto si dice ben riposte — sono invece affidate al Consiglio di Stato: se annullasse la sentenza del Tar, la Bonino e il Pd non potrebbero presentare ulteriore appello. E il Pdl potrebbe vincere la sfida nel Lazio. Chissà se davvero stanno così le cose, in pochi sono riusciti a seguire Letta nel dedalo del ragionamento, perché nessuno si è mai trovato dinanzi a un simile caos giuridico. Figurarsi gli elettori. Il Cavaliere lo sa. Nei suoi amatissimi sondaggi ha visto crescere in una settimana il senso di disorientamento che i dirigenti locali del Pdl — così come quelli della Lega — hanno verificato sul territorio. La preoccupazione è che di questo passo la flessione nei consensi possa essere superiore ai tre punti finora registrati. Troppo forte lo «scossone» determinato anche nell'opinione pubblica di centrodestra dal braccio di ferro sul decreto, perché l'idea di modificare le regole del gioco a gioco in corso non è stata gradita, ha dato l'idea che ci sia una categoria di «intoccabili» a cui tutto è permesso. Mentre cresce l'aspettativa sull'azione di governo.

Di qui il danno d'immagine per l'esecutivo, dunque per il Cavaliere. Ma anche Fini rischia un contraccolpo, e non solo perché il presidente della Camera è stato «collaborativo» — definizione del premier — nel trovare la soluzione del caos delle liste con il decreto, ma soprattutto perché un'eventuale esclusione del Pdl nel Lazio minerebbe la roccaforte di An, con il rischio in prospettiva di un effetto domino sul Campidoglio, guidato oggi da Alemanno. C'è il futuro in ballo, insieme a un presente poco roseo per via di un incrudimento dei rapporti in Parlamento con i democratici, pronti all'ostruzionismo alla Camera sul decreto salvaliste, e intenzionati a dar battaglia in Senato sul legittimo impedimento caro a Berlusconi. È chiaro che il Pd vuole approfittare del momento. Ma «che figura» per il Pdl se il decreto che ha scatenato tutto non è nemmeno servito a nulla.

Francesco Verderami

09 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #107 inserito:: Marzo 13, 2010, 11:10:22 am »

Gli scenari - Il vecchio rito della piazza

Manifestazioni, a destra e sinistra la sensazione di un rito stanco


Scenderanno in piazza, rassegnati al rito che li accomunerà a distanza di una settimana. A colpire non è solo il senso di smarrimento e di stanchezza che i due schieramenti trasmettono alla vigilia delle rispettive manifestazioni, ma il fatto che nel Pdl come nel Pd non se ne faccia nemmeno mistero. C'è una voglia di sfuggire alla cerimonia che per una volta rompe il solito cliché. A contrapporsi non sono tanto i falchi e le colombe, i moderati e gli estremisti.

Il sentimento di stanchezza per la piazza è diffuso e trasversale, accomuna berlusconiani di provata fede come Mario Valducci ad anti-berlusconiani storici come Rosi Bindi, icona dei movimenti di centrosinistra e che certo non ha preso le distanze dalla manifestazione di oggi contro il Cavaliere. Ma ci sarà un motivo se oggi la presidente del Pd non sarà a Roma perché impegnata in un comizio a Mestre. «Tutti dovrebbero avere un altro impegno dato che siamo in campagna elettorale», afferma Fabrizio Rondolino, portavoce di Massimo D’Alema ai tempi di Palazzo Chigi: «E non sarebbe diserzione ma solo buon senso misto a un pizzico di sano pragmatismo, l’idea cioè che risorse ed energie andrebbero sfruttate in altro modo. La verità è che quanti hanno passione per la politica sono stufi della politica dell’effimero, che non porta voti».

Se è vero che la piazza è sempre stata il luogo dei comizi alla vigilia delle urne, non si capisce perché — in prossimità delle elezioni — i leader abbiano chiesto ai loro dirigenti di partito di interrompere la campagna elettorale per un giorno, per riunirsi e manifestare contro l’avversario, invece di racimolare consensi casa per casa. È la prima volta che tutto ciò accade, e forse ha ragione l’intellettuale di destra Pietrangelo Buttafuoco quando dice che «ormai la politica si divide tra chi ha il dominio dell’etere e chi il dominio del territorio. Perciò, chi campa grazie ai media cerca la piazza, mentre chi lavora sul territorio in piazza c’è sempre, sta nei bar, a conquistarsi gli elettori ». Non a caso Umberto Bossi ha accettato controvoglia l’idea del premier di trascinare tutti a Roma fra una settimana. E se la Lega mostra un profilo istituzionale, quasi di Palazzo, è perché ha l’ansia di amministrare non di protestare, ed è convinta che la piazza, quella di San Giovanni, non porterà voti. Ecco il punto. I cortei conquisteranno di sicuro le aperture dei tg e le prime pagine dei giornali, ma difficilmente la prova di forza muscolare garantirà nuovi consensi. Anzi c’è il rischio che l’opinione pubblica resti confusa dalla sovrapposizione dei messaggi dei due cortei.

Lo s’intuisce dal ragionamento di Alessandra Ghisleri, dei cui sondaggi Berlusconi si fida ciecamente: «Entrambe le manifestazioni — sostiene infatti la responsabile di Euromedia research— sembrano proporsi con gli stessi slogan. Tutti sfileranno "per la difesa della democrazia", "per la libertà", "contro la violazione delle regole"». Ieri Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro hanno persino usato le stesse parole d’ordine: «La nostra non sarà una manifestazione di protesta ma di proposta». A parte la prospettiva di sentire i rappresentanti dei due schieramenti rinfacciarsi le stesse accuse dal palco, e di vedere in televisione i soliti noti, i cittadini sono stanchi di venir precettati dalla «casta». L’interpretazione di questo stato d’animo, ormai diffuso, l’ha rilevato Nando Pagnoncelli nei suoi studi demoscopici: «La stanchezza della piazza che si manifesta adesso persino tra i politici è — secondo il capo di Ipsos — la punta dell’iceberg della stanchezza del Paese verso la politica, contro la quale gli elettori sono pronti a usare l’arma dell’astensionismo nelle urne».

L’idea della piazza mostra insomma le sue rughe, ma non è vero che la partecipazione si è dissolta, semplicemente si è trasferita altrove, sulla rete: i blog sono diventati i muri dove una volta si esprimeva il dissenso con le bombolette spray. Se di riflusso dunque si può parlare, è verso un rito che non entusiasma più nemmeno chi lo organizza. Antonio Scurati, scrittore di sinistra, scorge nella voglia di corteo del Cavaliere «il segno di un suo scendere di grado, perché il luogo della politica berlusconiana è stata storicamente la piazza mediatica. La piazza fisica apparteneva alla sinistra, che lì ha conosciuto la sua apoteosi. Oggi invece in piazza la sinistra ci va per sfinimento, quasi claudicando, per spirito reattivo. E negli anni quello che era un sentiero lastricato di successi si è trasformato in un percorso di estenuazione». Toccherà a tutti, oggi o tra una settimana. In molti parteciperanno controvoglia, stavolta senza farne nemmeno mistero.

Francesco Verderami

13 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #108 inserito:: Marzo 17, 2010, 11:53:30 pm »

Il retroscena |

Il ministro e coordinatore: Napolitano ha sempre trovato le parole giuste, necessario il suo intervento

E il Pdl compatto da Bondi a Bocchino «chiama» il Quirinale


Ora che l’offensiva del Csm contro il Guardasigilli ha innescato quello che lo stesso Alfano definisce «un conflitto devastante», è chiaro che lo scontro sull’inchiesta di Trani finirà per chiamare in causa il Quirinale. Perché è vero che il premier ha finora evitato di appellarsi al capo dello Stato.

Ma la denuncia di Berlusconi contro le «palesi violazioni» della procura pugliese è (anche) un messaggio indiretto a Napolitano, che del Csm è presidente. Il Colle si ritrova adesso in mezzo al fuoco appiccato dall’organo di autogoverno della magistratura, che ha issato le barricate contro la decisione del ministro della Giustizia di inviare gli ispettori a Trani. Ed era inevitabile che Alfano rispondesse a Mancino, intervenuto a difesa del Csm: «Se qualcuno pensa di intimidirmi e di intimidire gli ispettori - è stata la reazione del rappresentante di governo - si sbaglia».

Alla vigilia delle elezioni si rinnova così l’eterna lotta tra politica e toghe, ed è inevitabile che entri in gioco il Quirinale. Il centrodestra - per una volta compatto - attende di capire quali saranno le mosse del presidente della Repubblica, e auspica un intervento del Quirinale. «Siccome Napolitano ha dimostrato di trovare le parole giuste nei passaggi più difficili - dice il ministro Bondi - anche in questo passaggio sarebbe necessario un suo intervento presso i magistrati».

Il coordinatore del Pdl argomenta la sua tesi senza alcun accento polemico, anzi. L’invito rivolto al Colle è quello di chi si appella all’arbitro, spiegando che «dinnanzi alle anomalie dell’inchiesta di Trani è impensabile assistere silenti agli attacchi del Csm contro il titolare della Giustizia, che inviando gli ispettori ha esercitato le proprie prerogative. Perciò, in nome della Costituzione, il capo dello Stato dovrebbe chiedere spiegazioni. C’è bisogno che si fermi l’ormai chiara azione di guerra di un’ordine di pubblici funzionari contro la politica».

Stavolta non è come le altre volte, l’inchiesta pugliese non viene infatti criticata solo nel merito, ma soprattutto per i metodi adottati dalla procura. «Sono saltate le regole», dice il finiano Bocchino, che salda così le proprie critiche a quelle avanzate dal fedelissimo berlusconiano Bondi, e dà voce alle perplessità manifestate riservatamente dal presidente della Camera. Raccontano che il «cofondatore» del Pdl sia rimasto «assai colpito» dalmodo in cui la procura si è mossa nell’indagine. Fini, che ha pronunciato parole di solidarietà verso il premier, ritiene si tratti di «un’inchiesta sopra le righe », che di giorno in giorno si sta rivelando come «un’aggressione» verso il Cavaliere. È una vicenda che rischia di «minare gli equilibri istituzionali».

Secondo Bocchino quegli equilibri sono addirittura «saltati»: «Ci siamo dimenticati che il pm è arrivato persino a chiedere l’interdizione del premier, che avrebbe segnato la caduta del governo? Siamo in presenza di un’invasione di campo senza precedenti della magistratura, che ha invaso il terreno della politica alla vigilia di un delicato passaggio elettorale. La verità, purtroppo, è che una parte di magistrati politicizzati crede di non aver più nulla da temere, dato che non è stata fatta la riforma della giustizia. Quindi aggredisce. E ancora una volta disattende gli appelli del Quirinale, che si è prodigato affinché si instaurasse un clima più sereno. Perciò sarebbe auspicabile che Napolitano intervenisse adesso. Il presidente della Repubblica, che è anche presidente del Csm, dovrebbe suonare il gong, porre fine al conflitto, e attraverso la sua moral suasion fare in modo che - dopo le elezioni - in Parlamento inizi un confronto bipartisan. Vanno ristabiliti i confini costituzionali tra potere politico e ordine giudiziario».

Su questo punto è evidente una differenza di toni tra il vice capogruppo del Pdl, braccio destro di Fini alla Camera, e il premier, che mira a una «riforma radicale» della giustizia. In tempi non sospetti aveva rilanciato il progetto, e non è un caso se il mese scorso il Guardasigilli aveva annunciato l’intenzione di presentare il disegno di legge «al primo Consiglio dei ministri dopo le Regionali».

Berlusconi intende sfruttare l’occasione anche elettoralmente, ecco il motivo per cui ha invitato ieri sera Alfano ad uscire allo scoperto contro il Csm. L’inchiesta di Trani gli fa gioco: attraverso gli amatissimi sondaggi sa che la maggioranza dell’opinione pubblica considera questa vicenda l’ennesimo atto di una «giustizia ad orologeria». Proprio il concetto che il premier ha usato in televisione, dopo aver letto i report riservati che danno il Pdl in risalita, due punti appena sotto il pari delle Europee.

Il caso di Trani sta provocando (quasi) lo stesso effetto che produsse l’aggressione di Milano del 13 dicembre. Perciò il centrosinistra è in apprensione, perché l’inchiesta ha offerto il destro al Cavaliere in vista della sua manifestazione di sabato, perché il caso influenzerà l’esito del voto, e perché non saprebbe come comportarsi se nello scontro verrà chiamato in causa il Quirinale.

Francesco Verderami

17 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #109 inserito:: Marzo 30, 2010, 11:04:58 am »

Il Senatùr conferma l’asse: gli farò i complimenti

Il Cavaliere ora punta sul presidenzialismo

Ma dovrà gestire il nodo del rimpasto.

Berlusconi: Bossi amico non alternativa

   
ROMA - «Se la Lega avanza per me è la stessa cosa. Umberto è un amico, non un’alternativa». Eccolo il nocciolo duro della holding di centrodestra, è l’asse Berlusconi-Bossi che esce rafforzato dalle Regionali. E poco importa al premier se il Carroccio stacca il Pdl in Veneto e lo incalza in ogni dove al Nord. La vittoria nel Lazio porta le sue insegne, e le parole del Cavaliere confermano la strategia con la quale si è mosso e intende continuare a muoversi di qui ai prossimi tre anni, e magari anche dopo, «perché la Lega sarà sempre un’alleata affidabile, mai un’avversaria».

Era chiaro ben prima delle Regionali che Berlusconi — assecondando il Senatùr — aveva trasferito una quota del proprio pacchetto politico-azionario sul Carroccio per mettersi al riparo da qualsiasi tentativo di scalata ostile, per quanto altamente improbabile. Il «sì» alle candidature di Zaia e Cota come governatori di Veneto e Piemonte era stato un segnale inequivocabile, una scelta imposta allo stato maggiore del suo stesso partito. Si trattava di una mossa in parte difensiva - dettata dalle difficoltà di governo e dagli attacchi giudiziari e mediatici - e in parte però proiettata già sul futuro. Con il risultato ottenuto nell’arco alpino, Bossi sconfigge l’idea di un «arco costituzionale» che Pd, Udc e un pezzo di Pdl stavano studiando a Roma per sterilizzare in prospettiva il Carroccio.

Ora la Lega sarà determinante per qualsiasi alleanza di governo nazionale. In Veneto addirittura, vista la massa di consensi, potrebbe in teoria decidere se coalizzarsi con il Pdl o con il Pd. E con un alleato così forte anche il premier si sente forte. Quanto sia saldo l’asse tra Berlusconi e Bossi lo si intuisce dal modo in cui il Senatùr ha commentato a caldo la vittoria: «Chiamerò Silvio e gli farò i complimenti per come il suo partito ha retto allo tsunami della Lega». La prudenza, il profilo apparentemente basso e non di sfida verso il Pdl, serviva (e serve) al capo del Carroccio per non suscitare irritazioni nella coalizione, dato che Bossi si propone di andare all’incasso del federalismo fiscale e non vuole incidenti di percorso con i decreti attuativi. Proprio per questo ha offerto immediatamente in cambio la propria disponibilità su una questione cara al Cavaliere: «La riforma della giustizia va fatta subito».

Così il leader leghista fa anche capire che non lascerà mai Berlusconi con il fianco scoperto, qualora dovessero profilarsi nuove «scosse» giudiziarie ai danni del premier. Le parole di Bossi sulla necessità di ristabilire l’antico confine costituzionale tra il potere politico e l’ordine della magistratura sono state accolte con soddisfazione dal Guardasigilli, che discutendone con i suoi collaboratori ha sottolineato come il Senatùr «non mira a destabilizzare»: «Non è come Casini, che avrebbe già chiesto la verifica e un nuovo governo. Bossi — ha commentato Alfano — bada al sodo, vuole che si parta al più presto con le riforme». E proprio sulle riforme il rafforza mento dell’asse con il Senatùr spinge Berlusconi a prefigurare nuovi scenari, che le vittorie in Piemonte e Lazio rendono più concrete di un semplice progetto in fase di studio. Perché il federalismo — nella testa del premier — porta con sé il presidenzialismo, tema rilanciato in campagna elettorale dal Cavaliere, intenzionato a lavorare per una modifica radicale del sistema. Sarebbe il primo passo per avanzare la propria candidatura alla guida di un governo con maggiori poteri, nuova piattaforma di lancio per «completare la rivoluzione liberale».

Si tratta però di un disegno ambizioso quanto complicato, e ancora troppo lontano nel tempo. Nell’immediato invece Berlusconi dovrà gestire una fase di fibrillazione legata all’inevitabile rimpasto. E comunque sulle riforme al Cavaliere non basterà l’appoggio di Bossi, che si ritaglia fin d’ora il ruolo di «arbitro». C’è Fini nello snodo operativo, alla Camera, dove sarà importante la regia dell’inquilino di Montecitorio e dove sarà decisivo il voto di sostegno alle riforme dell’area parlamentare che si richiama all’ex leader di An. Serve dunque un compromesso tra i «cofondatori» e non sarà indolore, sebbene Fini alla vigilia delle elezioni abbia smentito l’ipotesi di un imminente e clamoroso strappo. Il risultato delle Regionali renderà meno conflittuale il negoziato, visto che il Pdl conquista tre governatori al Sud, e Berlusconi può intestarsi di fatto il successo nel Lazio dove emerge da vincitore «senza nemmeno la lista di partito». Dinanzi alla sequenza Fini riconosce che «il governo esce rafforzato dalle urne».

In fondo non è che la conferma delle previsioni fatte il giorno prima del voto, quando il presidente della Camera disse che «in Italia non si ripeterà quanto accaduto in Francia»: né per il dato dell’astensionismo né per gli effetti che il voto avrebbe determinato sull’esecutivo. Il «chiarimento» con Berlusconi sarà soprattutto incentrato sul rafforzamento del partito e sul rapporto con Bossi. Alla luce della flessione del Pdl, Fini considera necessario affrontare le due questioni. Certo non mette in discussione l’alleanza con la Lega, «che è strategica e non solo al Nord», ma non accetta che sia il partito a pagare per l’asse del Cavaliere con il Senatùr. La verità è che il test delle Regionali ha rovesciato i pronostici della vigilia, consegnando una maggioranza di centrodestra che - nonostante le difficoltà — si rafforza al cospetto di un’opposizione divisa e incapace di mostrarsi al momento come vera alternativa. Berlusconi ancora una volta - malgrado un’incerta azione di governo — è riuscito a imporre lo schema dell’«uno contro tutti», del referendum sulla sua persona. «Quando è così, Silvio vince sempre», ha commentato La Russa. Non solo, ieri «Silvio» si è rafforzato, grazie allo «tsunami» leghista. E il premier è contento, perché «Umberto non è un’alternativa, è un amico ». Di più, è la sua assicurazione sulla vita. Costa, ma è efficace.

Francesco Verderami

30 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #110 inserito:: Aprile 01, 2010, 03:04:49 pm »

La partita al rialzo

Alfano apre al dialogo sulle intercettazioni «Ecco il nuovo testo»

Il ministro: non ci impiccheremo a un aggettivo

Ma la legge va approvata entro giugno


ROMA — Il pugno duro: «Lavoreremo per fare in modo che a giugno il provvedimento sulle intercettazioni sia legge dello Stato». La mano tesa: «E siccome intendiamo verificare la reale disponibilità al confronto dell'opposizione, noi non ci impiccheremo ad un aggettivo». Angelino Alfano dà il via alla «campagna di primavera» del governo. Lo fa sulla giustizia, che da sempre separa centrodestra e centrosinistra come una sorta di «Trentottesimo Parallelo», la linea di confine dove i due schieramenti si combattono quotidianamente. Quando il Guardasigilli dice che l'esecutivo non si impiccherà «su un aggettivo», è perché proprio attorno a un aggettivo ruota lo scontro tra maggioranza e opposizione. Nel testo è scritto che le intercettazioni sono possibili a fronte di «evidenti indizi di colpevolezza». Alfano annuncia che il governo è pronto a modificare se del caso quella parola. «Non consentiremo — dice — di strumentalizzare un nostro intendimento sull'altare di un aggettivo. È troppo importante questa legge, che serve a riaffermare il diritto alla privacy dei cittadini.

È fondamentale che cessi presto l'abuso delle intercettazioni, che finisca un atteggiamento di coccole sulla fuga di notizie tenuto un po' da tutti. Perché finora si è messo nel conto solo il diritto-dovere dei magistrati a portare avanti le indagini, e il diritto di cronaca da parte degli organi di informazione». «Nessuno però si è fatto carico di un altro principio sancito dalla nostra Carta: il principio inviolabile della libertà e della segretezza nelle comunicazioni tra persone». Il ministro spiega che il governo vuol tornare a issare questa «bandiera, l'articolo 15 della Costituzione, senza voler ammainare le altre due, ma tenendole alte allo stesso livello». Perciò «chiederemo l'immediata calendarizzazione al Senato del provvedimento sulle intercettazioni. A due anni esatti dalla presentazione del disegno di legge, non si può aspettare oltre». Alfano ci tiene a chiarire che «l'impianto del testo resta comunque intatto. È chiaro che il tempo di durata delle intercettazioni deve restare limitato e che la pubblicazione di atti riservati deve essere duramente sanzionata». Ma su quell'aggettivo, che è all'origine di tensioni anche nella maggioranza, con l'area finiana che ha presentato degli emendamenti, «si discuterà». È un messaggio che travalica il confronto sul provvedimento, serve anche a rompere la cortina di ferro tra i due poli, «serve a svelenire il clima sulla strada del dialogo per le riforme», sottolinea infatti il ministro della Giustizia, che così si richiama indirettamente ai colloqui avuti con il capo dello Stato, agli inviti rivolti da Napolitano perché si svolgessero «ulteriori riflessioni» sul disegno di legge: «Ecco il motivo per cui siamo pronti a confrontarci fin dal passaggio in commissione al Senato, sul punto che più ha scatenato l'opposizione al testo. Strumentalmente si è detto che, con quel passaggio, volevamo cancellare le intercettazioni. Non è vero. Infatti sulla soluzione siamo aperti al confronto».

È una sorta di «prova del nove» per Alfano, che attende di capire quale sarà la risposta del Pd: «Vogliamo verificare se ne fanno un problema di aggettivi o se si tratta solo di una scusa per consentire che i cittadini siano ancora tenuti sotto scacco di intercettazioni a tappeto. Vogliamo capire, cioè, se da parte loro c'è l'interesse che non venga stracciato un articolo di quella Costituzione, a cui dicono di essere legati». Ecco come il governo vuole mostrare il pugno e tendere la mano, «noi vogliamo far capire all'opposizione che sulle riforme siamo intenzionati a giocare una partita al rialzo. Senza fornire alibi a quella parte della sinistra giustizialista che utilizza il tema delle intercettazioni come pretesto». È evidente che la mossa del Guardasigilli è il frutto di un'intesa della maggioranza, la dimostrazione soprattutto che nel Pdl si vanno attenuando le frizioni tra i «cofondatori», in vista di un accordo complessivo: «La verità — afferma Alfano — è che il successo del centrodestra alle Regionali ha stabilizzato il quadro politico, come ha detto anche il ministro Maroni. In più la nostra vittoria ha portato con sé il rilancio sulla ristrutturazione del sistema. E sono due le riforme che connotano l'identità della coalizione: il federalismo per un verso, la giustizia e il fisco per l'altro. Senza dimenticare il presidenzialismo, sono queste le riforme più care a Bossi e Berlusconi, che anche sul fisco ha aperto il cantiere».

Alfano sa che in Parlamento sono molti «i lavori in corso» che lo riguardano, e non a caso si sofferma sulla propria road map: «Subito dopo le intercettazioni al Senato, sarà la volta della riforma dell'avvocatura e del processo penale», altro provvedimento che ha scatenato un ulteriore conflitto al confine del «Trentottesimo Parallelo». Resta la riforma costituzionale della giustizia, la madre di tutte le leggi che il Guardasigilli si era impegnato a presentare subito dopo le Regionali: «Sarà così, il governo la presenterà, per rendere finalmente pari l'accusa e la difesa nel processo». Si intravede tuttavia il rischio che le scadenze legislative già stabilite allontanino la prospettiva del varo di una riforma così complessa, che avrà bisogno di tempo per essere approvata in Parlamento. Un ulteriore ritardo nella tabella di marcia sarebbe di fatto l'ammissione che il progetto viene abbandonato. Il ministro lo smentisce: «Mille giorni sono un tempo sufficiente per fare tutto. E con gli elettori abbiamo preso l'impegno che tutto sarà fatto». Intanto si parte «subito» con le intercettazioni, in modo che la Camera — dopo il Senato — possa trasformare in legge il provvedimento «entro il mese di giugno». La novità è quella mano tesa all'opposizione, l'intenzione di dialogare che Alfano auspica sia colta: «Da parte nostra c'è la volontà, verificheremo se esiste anche da parte loro. Noi siamo pronti, e determinati a stanare chi mira a operazioni strumentali». Se così fosse l'esecutivo andrebbe avanti «senza esitazioni». Il ministro avvisa che «niente e nessuno riuscirà a intimidirci politicamente», e che dinnanzi all'ipotesi di un referendum abrogativo «noi non avremo paura, perché la gente ha già approvato questa legge due anni fa, nel 2008, quando votò per noi, appoggiando il nostro programma di governo». Pugno duro e mano tesa. Inizia così una difficile trattativa di pace al confine di quel «Trentottesimo Parallelo» chiamato giustizia.

Francesco Verderami

01 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #111 inserito:: Aprile 04, 2010, 11:08:57 am »

Strategie

Tra Berlusconi e Fini la pace passa per il presidenzialismo

Nella «Yalta del centrodestra» il Cavaliere vuole per il cofondatore la «delega» sulla forma di governo


Dopo il successo alle Regionali si prepara la «Yalta del centrodestra». Certo, i leader di Pdl e Lega non avranno da spartirsi il mondo - come i vincitori della Seconda Guerra - ma se davvero mirano a «cambiare l’Italia» in mille giorni, devono trovare rapidamente un compromesso sulle riforme, spartendosi le aree di influenza.

Così il Cavaliere si prepara all’incontro con Fini: perché se è vero che il berlusconismo si fonda sulla «rivoluzione » del fisco e della giustizia, e se Bossi punta alla realizzazione del federalismo, resta da capire cosa intende fare l’altro «cofondatore» del Pdl con il presidenzialismo. È la domanda che Berlusconi porrà all’inquilino di Montecitorio, siccome quel sistema è sempre stato un obiettivo della destra, di cui Fini è il naturale azionista di riferimento.

Serve una «Yalta» al premier, è il metodo che ha deciso di adottare per realizzare il suo progetto e soddisfare le aspettative suscitate nel Paese. Il voto lo ha rafforzato, ma la sponda di Fini è necessaria, perciò deve capire se anche l’ex leader di An ha maturato la convinzione che una fase si è chiusa. Sciolto il nodo, chiederà al presidente della Camera di farsi «parte attiva» della stagione riformatrice, invitandolo — se crede— ad innalzare la bandiera del presidenzialismo.

Secondo il Cavaliere, Fini può farlo senza che tutto ciò confligga con il suo ruolo istituzionale e tanto meno con le sue idee.
Anzi, proprio la sua veste attuale e il suo retroterra culturale garantirebbero al presidente della Camera di ritagliarsi uno spazio politico di prima grandezza, e offrirebbero maggiori probabilità di successo nella difficile sfida.

Ecco perché Berlusconi lo vuole «parte attiva», «e Gianfranco — dice Gasparri — dovrà decidere se marcare un territorio che storicamente è della destra. Sono convinto che lo farà. Anche se sorprese un po’ tutti nelle scorse settimane, quando parve prendere le distanze da Berlusconi che aveva rilanciato il tema. Bisogna capire se si trattò di prudenza istituzionale o di freddezza politica». È quanto vuole capire il Cavaliere, che ha messo da parte l’irritazione di quei giorni, ricordata al vertice del Pdl di mercoledì: «Rimasi colpito. Almeno su questo punto non pensavo si distinguesse. Ora spero che condivida il progetto e si impegni in prima persona». Si è mostrato sincero il premier, che certo non cela la propria diversità quasi antropologica da Fini. Ma il suo intento è disinnescare ogni mina di qui in avanti, perciò si propone con spirito ecumenico: «Anche perché ci sarebbe gloria per tutti».

Nella logica di una «Yalta di centrodestra », dopo il colloquio tra i «cofondatori » è previsto l’avvio della fase successiva. Tra fine aprile e inizio maggio saranno i gruppi parlamentari di maggioranza a presentare il progetto di legge di riforma costituzionale, con annessa opzione presidenzialista. Saranno «testi aperti», spiega Cicchitto, dato che l’intento è di aprire il gioco all’opposizione: «Ma ovviamente si andrà oltre la bozza Violante—precisa il capogruppo del Pdl — nel quadro di un sistema bilanciato che contempla anche il federalismo».

Il Cavaliere è pronto. E secondo il «finiano » Bocchino «lo è anche il presidente della Camera. Lui vuole il presidenzialismo, l’otto aprile ne parlerà al convegno organizzato da FareFuturo sul sistema francese». Proprio il modello su cui sta lavorando il ministro leghista Calderoli. Insomma, l’intesa sembrerebbe— sembrerebbe—possibile, se è vero che Bocchino aggiunge: «Berlusconi dovrà far poggiare la trave del nuovo ordinamento costituzionale sui due pilastri cari alla Lega e alla destra». Il confronto con l’opposizione avverrà sul disegno di legge messo in cantiere, e che sarebbe frutto di un’operazione di ingegneria legislativa: il Pdl ha infatti recuperato dai lavori della Bicamerale guidata da D’Alema il testo su presidenzialismo e federalismo, unendolo agli articoli sulla riduzione del numero dei parlamentari e sul superamento del bicameralismo inseriti nella «bozza Violante». «Sono progetti che il centrosinistra ha già votato », dice Bocchino: «Se cambiasse posizione, allora saremmo legittimati ad andare avanti da soli».

Ma prima di muoversi Berlusconi attende che Fini garantisca di farsi «parte attiva». «Questione non irrilevante », a detta di Quagliariello: «Senza l’appoggio sostanziale del presidente della Camera, il progetto si arenerebbe ». Con il suo appoggio, però, muterebbe il rapporto del Pd con Fini. Chissà se è anche questo l’intento del premier. Ora però si tratta di capire quale sarà — se ci sarà — il compromesso tra i «cofondatori», perché più volte l’ex leader di An ha detto di essere «un convinto presidenzialista. Ma presidenzialismo non significa "un uomo solo al comando"...». Serve una «Yalta» a Berlusconi, che è convinto di arrivare allo stesso obiettivo comunque: per legge o per via elettiva. In fondo, con l’attuale Costituzione, già oggi il capo dello Stato assegna l’incarico di presidente del Consiglio, nomina i ministri, scioglie le Camere, sceglie parte dei membri della Corte Costituzionale, è capo delle Forze Armate, presiede il Csm, ne stabilisce l’ordine del giorno...

Francesco Verderami

03 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #112 inserito:: Aprile 07, 2010, 09:30:41 am »

Il retroscena | Le tappe della «rivoluzione fiscale»

E Tremonti vigilerà sui costi delle nuove regole

Solo lui può dare il via libera ai decreti attuativi

   
Tra il dire e il fare ci sono di mezzo i conti dello Stato. E se è vero che Berlusconi e Bossi saranno i primattori della nuova stagione politica, toccherà a Tremonti la parte dell’oste. Perché le riforme non saranno a costo zero.

Quale sarà l’impatto del federalismo fiscale sulla finanza pubblica, per esempio, il ministro dell’Economia non l’ha ancora detto. E solo lui può dare il via libera ai decreti attuativi della riforma cara al Senatùr. Così come spetterà a lui dar mostra della propria capacità creativa per trovare le risorse necessarie a realizzare il sogno del Cavaliere, e portare così a compimento entro la fine della legislatura la «rivoluzione fiscale», con un radicale cambio di sistema.

I conti e le riforme: ecco il dilemma, che fa del titolare di via XX settembre il crocevia di ogni progetto, se possibile ancor più decisivo di quanto non lo sia stato finora. Sia chiaro, gli obiettivi di Berlusconi e Bossi sono anche i suoi, su questo non c’è dubbio: l’ha detto. Ma è da tempo che ha scelto un profilo basso, al punto da non replicare persino quando finisce sotto attacco. Un mese fa — durante una riunione sugli incentivi —evitò di duellare con Scajola, che dinnanzi a Berlusconi e Gianni Letta aveva usato parole molto aspre nei suoi riguardi. «Claudio, non ho alcuna intenzione di polemizzare con te», rispose con voce inaspettatamente bassa: «Ti dico solo che di soldi non ce ne sono. Punto e basta». Neppure nei giorni tumultuosi che precedettero le Regionali si espose. All’ultimo vertice del Pdl, mentre il partito ribolliva come una tonnara e i pronostici sul voto preannunciavano il peggio, Matteoli provò a stuzzicarlo: «Allora Giulio, che ne pensi?». «Giulio» si volse, limitandosi a sorridere.

C’è Tremonti dunque allo snodo della sfida sulle riforme. Il resto, per ora, sono solo mosse tattiche, con il Carroccio che ha mostrato abilità e tempismo nel posizionarsi. L’intervista di Maroni al Corriere è la dimostrazione che la Lega potrà anche somigliare alla Dc per la capacità di conquistare consensi al Nord, ma politicamente ricorda il Psi di Craxi: spregiudicata come un Ghino di Tacco, è capace di spiazzare alleati e avversari, e di ritagliarsi un ruolo da protagonista nelle trattative sulla revisione dell’architettura costituzionale dello Stato. L’apertura di Maroni sul semi-presidenzialismo — che piace a un pezzo del Pd se accompagnato da una legge elettorale a doppio turno— e in più la mano tesa ai magistrati sulla giustizia, sono segnali in controtendenza rispetto alla linea fin qui adottata da Berlusconi.

E c’è più di un motivo se il premier ha preferito eclissarsi dopo il voto, se solo una volta— per commentare la vittoria alle Regionali— ha usato la parola «riforme». Intanto perché sa che l’opinione pubblica è allergica a questo termine, dopo averlo sentito pronunciare inutilmente per più di un decennio. Il Cavaliere preferirebbe muoversi in altro modo, concentrandosi su altre questioni per esaltare così il profilo di capo di un «governo del fare». Ma è consapevole di non potersi sottrarre alla sfida, e l’atteggiamento di attesa gli serve per capire come posizionarsi.

Con Fini si è sentito più volte in questi giorni, e non solo per gli auguri di Pasqua, segno di un mutamento di clima nelle relazioni tra «cofondatori», dopo il gelo degli ultimi mesi. I due dovrebbero incontrarsi nei prossimi giorni, forse già domani, comunque prima del viaggio negli Stati Uniti del premier, previsto per la prossima settimana. Il ruolo che avrà il presidente della Camera nella partita delle riforme è dettato dalla sua carica istituzionale, perciò il Cavaliere non potrà esimersi dal coinvolgerlo. Tuttavia, oltre che un interlocutore necessario, l’inquilino di Montecitorio potrebbe diventare una sponda per Berlusconi, perché — spiega il ministro Ronchi — «Fini è funzionale alla costruzione di una linea del Pdl, che non può limitarsi a giocare di rimessa rispetto alla Lega». Resta da capire se e quando il Cavaliere romperà gli indugi e aprirà davvero il gioco sulle riforme, che contempla molte varianti: compresa l’ipotesi di un asse tra Fini e Bossi sul semi-presidenzialismo, che incroci per strada un pezzo del Pd. Si tratta di scenari da verificare. Certo il premier non potrà limitarsi alla tattica: non basta, non può bastare, che i gruppi parlamentari del suo partito presentino un progetto complessivo di riforma costituzionale entro la fine del mese.

Perché ha ragione il coordinatore del Pdl Verdini quando dice che «sarà Berlusconi il regista» dell’operazione, tuttavia «l’alleato leale», cioè il Carroccio, morde il freno, creando fibrillazione nel Pdl per il suo movimentismo, sebbene il Cavaliere si mostri sicuro di gestirlo. Preme a Bossi innescare il meccanismo per completare rapidamente il percorso del federalismo fiscale. E siccome stavolta non si tratta di riforme a costo zero, ecco che torna in scena Tremonti e il suo ruolo. Tra il dire e il fare, ci sono di mezzo i conti (in continua sofferenza) dello Stato.

Francesco Verderami

07 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #113 inserito:: Aprile 13, 2010, 06:20:05 pm »

Il vero nodo resta la legge elettorale

Il presidenzialismo non piace agli elettori

Pagnoncelli: è il ricordo del fascismo a produrre questa ritrosia.

I sondaggi riservati sul tavolo del Cavaliere


Da giorni Berlusconi guarnisce i suoi colloqui pubblici e privati con la ciliegina del presidenzialismo, e dice di puntarci.

Ma è solo tattica, con cui prova a nascondere l’idiosincrasia verso questioni di ingegneria costituzionale.

Perché al Cavaliere non interessa il colore del gatto, gli importa che il gatto mangi il topo, e cioè che la riforma— semmai dovesse realizzarsi — consegni al governo la capacità di dispiegare la propria politica, e a chi è stato scelto dagli elettori di guidarne il processo. Insomma, al momento opportuno il premier non s’impiccherà al «presidenzialismo», siccome sa anche che il modello non piace agli italiani. Sono anni che li interpella a riguardo, attraverso i suoi amatissimi sondaggi, e i dati non sono sostanzialmente mai mutati. A parte il fatto che l’opinione pubblica non si appassiona alla materia, il punto è che meno di due italiani su dieci sono favorevoli al presidenzialismo, il quaranta percento è contrario, e un terzo accetterebbe il nuovo sistema solo se venissero rafforzati i poteri del Parlamento. Il capo di Ipsos, Pagnoncelli, ritiene che i numeri siano «un retaggio culturale del Paese rispetto al suo passato. E’ il ricordo del fascismo che produce questa ritrosia», la prova che gli italiani— in fondo— non accettano l’idea dell’«uomo solo al comando». Semmai a Berlusconi piace ciò che alla gente piace, «e siccome i cittadini sono interessati alla soluzione dei loro problemi — spiega la Ghisleri, titolare di Euromedia research — desiderano che chi viene eletto governi secondo il programma presentato alle elezioni». La sondaggista di riferimento del Cavaliere, attraverso le proprie analisi, fa capire anche cosa si cela dietro l’affondo «decisionista» con cui il premier da Parma ha messo a soqquadro i palazzi delle istituzioni: «Gli italiani sono stanchi delle lungaggini con cui vengono varate le leggi, e vorrebbero che fosse accorciata la filiera decisionale». Berlusconi raccoglie gli umori del Paese e compara il proprio potere rispetto a quello dei colleghi europei. Invidia, per esempio, le prerogative del governo inglese, la rapidità con cui può varare il «budget», cioè la legge finanziaria, senza estenuanti trattative sotto e sopra il banco, e senza assalti alla diligenza. Eppoi gli fa gola il potere di scioglimento del Parlamento, che è assegnato al primo ministro di Sua Maestà. Perciò prende cappello ogni qualvolta accosta quei modelli all’attuale Costituzione italiana, che «persino sugli aggettivi» concede al Quirinale di porre questioni sulle leggi. Perciò gradirebbe che la nuova Carta fosse scritta in inglese, se proprio non si dovesse scrivere in francese. Il Cavaliere sa che all’opinione pubblica— refrattaria al presidenzialismo — piace invece il «sindaco d’Italia», una formula indistinta, proiezione di un modello che i cittadini sperimentano nella quotidianità, «il meccanismo che funziona meglio— come sottolinea Pagnoncelli — grazie al sistema di voto a doppio turno». E qui si ferma il carro per Berlusconi, che su due punti non accetta compromessi: «l’indicazione diretta del popolo nei confronti della leadership», così la definisce tecnicamente Cicchitto, e la legge elettorale a turno unico. Per il premier va benissimo il «porcellum», e con lui sta (quasi) tutto il Pdl, oltre la Lega.

Ecco qual è il vero nodo, l’ostacolo alla trattativa sulle riforme: la legge elettorale. Infatti, nonostante (quasi) tutti dicano che prima va cercata un’intesa sull’architettura dello Stato, senza un accordo sul meccanismo di voto nemmeno si organizza il tavolo. Lo sa e lo dice Calderoli, che sembra un prete in confessionale per quante confidenze raccoglie nei due schieramenti: «La verità è che tutti parlano di modelli costituzionali, inneggiano alla democrazia compiuta. Poi però badano ai propri interessi, che sono gli interessi di partito». Così fan tutti, a partire da Berlusconi. E se il premier non molla il turno unico, allora — dice Gasparri — «si potrebbe riprodurre il sistema delle Regionali, con un capo dello Stato nel ruolo di garante dell’unità nazionale, vista la svolta federalista». Dal presidenzialismo via via si smotta verso il premierato, e il gioco dell’oca rischia di non aver fine, e di venir alimentato da un altro tormentone: lo scontro tra il Cavaliere e il presidente della Camera. Cicchitto prova a spezzare il meccanismo infernale, incrocia le dita sull’esito del «confronto» tra i «cofondatori» e invita a spostare l’attenzione sulle «questioni economiche e sociali»: «È su questi temi che si gioca la vera partita». Il capogruppo del Pdl non ha tutti i torti. D’altronde, nel 2005, quando Bersani non era ancora segretario del Pd e il Cavaliere invece era sempre a palazzo Chigi, disse che la sfida tra i due schieramenti alle elezioni si sarebbe giocata «sulla ripresa economica»: «Se Berlusconi non la intercetta, vinceremo con un pellegrino qualsiasi. Altrimenti non vinceremo nemmeno candidando la madonna del pellegrino». Allora Prodi se ne ebbe amale, così come i dirigenti del Pdl hanno preso male l’altro ieri le dichiarazioni di Calderoli, che ha candidato il Cavaliere al Quirinale: è parso come il tentativo di aprire con tre anni d’anticipo la corsa alla successione, e non a caso Gasparri ha annunciato che nel 2013 «sarà sempre Silvio il candidato a palazzo Chigi». Certe cose non si dicono, «intanto perché è presto — dice Cicchitto — eppoi perché porta sfiga».

Francesco Verderami

13 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #114 inserito:: Aprile 16, 2010, 09:05:34 am »

Il colloquio

Le ultime accuse: hai comprato gli ex di An e la Lega ti ricatta

«Gli parlavo dei problemi e mi rispondeva con le frasi dell’ultimo comizio»

   
«Elezioni anticipate? Ma davvero c’è chi pensa che in Parlamento non ci sarebbero i numeri per formare un altro governo?». Fini non lo pensa, così com’è altrettanto chiaro che non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi del ribaltone.

Dopo una vita passata a condannare quelli che in un discorso alla Camera additò come i «puttani della politica», non sarà certo Fini a fare il voltagabbana. Semmai la constatazione del presidente della Camera è il segno dell’escalation nello scontro con Berlusconi. E dal tono basso della voce s’intuisce lo stato d’animo dell’ex leader di An, un misto di rabbia e di determinazione, l’idea cioè che era inevitabile lo showdown con l’altro «cofondatore » del Pdl, che non fosse possibile andare avanti così, «perché per un anno ho posto i problemi con le buone, e la cosa non ha sortito effetti. Ora vedremo se Berlusconi capirà».

Durante il pranzo pare che il premier non l’abbia capito, se è vero che Fini ritorna con la mente al colloquio e lo racconta con un senso di stupore: «Io gli parlavo delle questioni e lui mi rispondeva con le frasi che aveva usato al comizio di piazza San Giovanni...». E le «questioni » sollevate sono altrettanti nodi politici, esplicitati con crudezza verbale inusitata: «Tu, Silvio, hai abdicato al tuo ruolo. E io sono stato condannato alla marginalizzazione. La Lega ti ricatta. L’economia è in mano a Tremonti. Il 30%, che era la quota di An nel Pdl, è composto da persone che hai comprato».

A Gianni Letta è toccato festeggiare il compleanno in un clima che di festa non aveva nulla, e ha constatato di persona quanto sia profonda la rottura tra i due, per quanto non ancora irreversibile. È in quegli spazi angusti che il braccio destro del Cavaliere lavora per tentare di trovare un compromesso, che Berlusconi però non vuol concedere, sebbene si sia licenziato dall’inquilino di Montecitorio, dicendo: «Diamoci tempo, almeno fino a lunedì». «Io aspetto», commenta l’ex leader di An: «Dipende da come reagirà Berlusconi, quali iniziative vorrà assumere, se si rende conto che i problemi ci sono, che non me li sono inventati. Io aspetto di sapere come pensa di affrontarli e risolverli».

«L’impegno della concertazione », per esempio, non è mai stato mantenuto dal Cavaliere, secondo Fini, che cita l’ultimo episodio, «il più eclatante»: il patto di Arcore sulla «bozza Calderoli» per le riforme, e quel che è accaduto dopo. «Non è pensabile che un ministro della Repubblica salga al Quirinale per presentare un progetto di revisione costituzionale, e che dinnanzi alle mie perplessità Berlusconi risponda: "Cosa vuoi che sia...". Cosa vuoi che sia... Ma dove siamo? Dove siamo? ». Non c’è più nulla che unisca il presidente della Camera e il presidente del Consiglio, tranne la comune appartenenza al partito che insieme hanno fondato. E anche questo punto in comune si va velocemente logorando, se è vero che ieri sera i coordinatori del Pdl hanno fatto quadrato attorno a Berlusconi, ponendo l’ex capo della destra quasi fuori dalla creatura che un anno fa ha tenuto a battesimo, e definendo «incomprensibile» il suo atteggiamento.

«Un partito è un partito se si discute e ci si confronta », è la tesi di Fini: «Un partito non può servire solo a cantare "Meno male che Silvio c’è"». Il punto è che «Silvio» ha vinto le elezioni, ribaltando da solo i pronostici che lo davano per sconfitto. Fini lo sa, lo ha detto all’indomani del voto nei suoi colloqui riservati: «Ha vinto lui. Si è preso sulle spalle anche la Polverini ». E il risultato della Lega al Nord ha contribuito a saldare un asse che fa di Berlusconi e Bossi i titolari della ditta, lasciando il presidente della Camera senza ruolo. Il «tridente », che sinora non c’è mai stato, difficilmente potrebbe nascere oggi.

Per conquistarsi lo spazio Fini è pronto al gesto dirompente, alla nascita dei gruppi parlamentari del «Pdl-Italia». Introduce l’argomento ricordando che «all’Assemblea regionale siciliana esiste il gruppo del Pdl e quello del Pdl-Sicilia. Lì Berlusconi non è intervenuto per risolvere il problema, dando l’impressione che del partito non gli freghi nulla, considerandolo poco più di una corte di laudatores. Perciò aspetto, confido in una svolta, altrimenti—come in Sicilia—anche a Roma nasceranno gruppi parlamentari autonomi, pronti a sostenere lealmente il governo, ma ponendosi degli obiettivi politici».

Evocando la Sicilia, Fini sa di lanciare una dichiarazione di guerra, p e r c h é n e l l ’ i s o l a r e g n a l’ingovernabilità. Dunque il problema non è se davvero il presidente della Camera possa contare su una settantina di parlamentari, con una cinquantina di deputati e venti senatori. Il problema è politico: semmai si dovesse riprodurre a Roma la spaccatura del Pdl siciliano, il premier non sarebbe più leader ma diverrebbe «ostaggio», posto al centro di una tenaglia con la Lega a far da contrappunto ai finiani. Nel gioco al rialzo dell’inquilino di Montecitorio è intervenuto il presidente del Senato, chiedendo piatto: «Quando la maggioranza si divide, la parola torna al corpo elettorale». Ed è evidente quale sia lo scopo: minacciando il ricorso alle urne, si vuole evitare che Fini possa infoltire i propri gruppi, posti al riparo dal voto anticipato.

La verità è che nessuno pensa a ribaltoni e ad elezioni. Non ci pensa il premier, non ci pensa il presidente della Camera e non ci pensa tanto meno Bossi. Anzi, proprio il Senatùr è il più fiero avversario della fine traumatica della legislatura, perché in quel caso sfumerebbe il federalismo fiscale, dato che i decreti attuativi non sono stati ancora varati. Di più. Il giorno in cui la Consulta bocciò il lodo Alfano, Fini e Bossi si incontrarono, sottoscrivendo un comunicato in cui escludevano il ritorno alle urne e proponevano di andare avanti con le riforme. Ecco l’incastro, tutti i leader del centrodestra sono vittime e carnefici dello stallo che si è verificato. Non è dato sapere quanto potrà durare la prova muscolare, né se cesserà e quale sarà l’eventuale compromesso. Anche perché Berlusconi giura di non aver capito cosa vuole Fini, «non l’ho capito», ha confidato al termine del vertice: «Gliel’ho anche chiesto». E lui? «Mi ha risposto che il suo pensiero è noto, che l’ha espresso pubblicamente. Mah...». Possibile che il Cavaliere non l’abbia intuito? Perché Bossi, che pure non partecipava a quel colloquio, l’ha spiegato: «Non sono a pranzo con loro perché sarei il terzo incomodo».

Francesco Verderami

16 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #115 inserito:: Aprile 17, 2010, 04:38:11 pm »

E Confalonieri consiglia la mano tesa

«Non credo che il presidente della Camera sia un autolesionista e voglia tornare a un partito dell’8%»


E’ l’amicizia che lo lega a Silvio Berlusconi, perché da sempre è un’altra Lega che lo attrae, e infatti politicamente si definisce un «cripto-leghista», aggiungendo «cripto» solo per pudore. Perciò in questa «lite familiare» tra i «cofondatori» del Pdl la posizione di Fedele Confalonieri potrebbe essere scontata, visto da che parte gli batte il cuore. Invece no, il patron di Mediaset confida che l’«amico Silvio» tenda la mano al presidente della Camera.

Per quanto la vertenza tra Berlusconi e Gianfranco Fini si sia fatta complicata, il capo del Biscione lascia intravedere quale possa essere l’epilogo, che pure nessuno nel Palazzo dà per scontato. Non è un commento il suo, ma una sorta di racconto, una fessura dalla quale è possibile scorgere la scena. Parla Confalonieri, e mentre parla prendono forma i profili dei due protagonisti, i loro stati d’animo. «Al di là delle insofferenze psicologiche, il premier ha molto buon senso. Perciò sono sicuro che agirà da pater familias, anche con Fini, dato che ha a cuore la famiglia Italia».
Semmai servisse una traduzione, è chiaro cosa intende dire: il Cavaliere è stanco di litigi e polemiche, ma non ha interesse a rompere con l’inquilino di Montecitorio, non gli conviene. E da leader gli offrirà un compromesso per l’intesa, dato che ha vinto le elezioni e ora deve governare. «Di Fini, Silvio deve comprendere le impazienze, le delusioni e le insofferenze», ed è così che Confalonieri offre un’interpretazione psicologica dello scontro, invitando entrambi ad un’assunzione di responsabilità, «perché non si può tornare indietro», è impensabile cioè divorziare appena un anno dopo aver fondato il Pdl: «Così la penso, ma...».

Ma non basta che il Cavaliere tenda la mano, anche l’altro «cofondatore» deve farlo: «Se davvero Fini vuole fare un proprio gruppo in Parlamento, lo faccia. A volte è preferibile contarsi, serve la chiarezza. Però, se ripenso alla Dc, che è stato un grande partito, ricordo che la conta si faceva ai congressi, tra correnti e non tra gruppi separati. Quella era politica. Una cosa sono infatti le correnti, altra roba sono i partitini, che è peggio. Perché è chiaro che un gruppo parlamentare porterebbe, inevitabilmente, alla nascita di un’altra formazione. E io non credo che il presidente della Camera sia un autolesionista che voglia tornare a un partito dell’8%». Se per questo Berlusconi valuta la forza elettorale dell’ex leader di An la metà di quanto gli accrediti Confalonieri. Ma non è il momento delle polemiche, «sarebbe ora di finirla, non vorrei che si combattesse con i fantasmi».

Ecco la frase chiave del suo racconto, l’esortazione a sbarazzarsi dei soliti sospetti: «Basta con queste storie che Berlusconi è un dittatore, Fini un cospiratore e Umberto Bossi un barbaro». Il politico Confalonieri - ché di politico si tratta anche se lo smentisce sempre - torna a vestire i panni dell’elettore che fa l’imprenditore, e attende le «leggi» dal governo: «Non dico riforme perché mi viene l’orticaria ogni volta che sento questa parola. Anche la mia nipotina di nove anni ha capito di cosa si tratta. Allora avanti: c’è da rifare lo Stato? Basta parlarne, si avvii il processo. Ci si provi. Non sarà facile, ma il governo ha questo compito. E sono convinto che sotto la ragionevole spinta riformatrice di Berlusconi ci riuscirà».

Da «cripto-leghista», poi, chiede che il federalismo non resti confinato a un voto (quasi) bipartisan del Parlamento: «Il federalismo è una legge - appunto, legge - indispensabile. E al contrario di quanto scrivono alcuni intellettuali un po’ retrò, sarà una svolta positiva, un bene per l’Italia, che si sta meridionalizzando in tutto. Paradossalmente è più importante per il Sud, infatti i politici locali l’hanno capito. Ed è arrivato il momento di smetterla con la storiella che il federalismo spaccherà il Paese, che Bossi ha in mente questo progetto. Intanto l’Umberto non è più il secessionista della prima ora. È un uomo, un politico diverso. E nessuno mette in dubbio l’unità nazionale, di cui non si può fare a meno».

Secondo Confalonieri non si potrà fare a meno neanche di Berlusconi, «ancora per molto tempo». Perciò derubrica a gioco di Palazzo le voci sull’inizio di una corsa alla successione, lo scenario di una guerra in corso tra Fini, Giulio Tremonti e un «terzo uomo», che sarebbe all’origine del parapiglia: «Silvio non ha successori. Il suo erede - risponde tranciante con una citazione - è nel ventre di una vedova che deve ancora partorire». Se così stanno le cose, «e così stanno», se il Cavaliere è destinato a restare a lungo ancora in sella, tutti dovrebbero darsi una calmata. E Berlusconi dovrebbe accettare il consiglio che spesso «Fidel» gli ha rivolto, e che è il senso di una storia «raccontatami da Indro Montanelli»: «Francisco Franco era solito tenere i dossier più scottanti sulla sua scrivania. Giorno dopo giorno quei dossier aumentavano di numero, e lì restavano impilati. Finché una volta al mese, chiamava il suo uomo di fiducia e gli diceva: "Al fuego"».

Francesco Verderami

17 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #116 inserito:: Aprile 22, 2010, 09:14:22 am »

Il presidente del Senato e la sfida nel Pdl

Schifani: Fini? Se fa politica deve lasciare la Camera

«Per avere le mani libere entri nel governo Il ruolo istituzionale impone dei limiti»


ROMA — «Con Gianfranco Fini mantengo un ottimo rapporto personale e istituzionale», ma non è da presidente del Senato che Renato Schifani si rivolge al presidente della Camera, è da dirigente del Pdl che confuta le tesi del collega di partito, lo mette in guardia dagli effetti che la sua iniziativa potrebbe provocare. «Perché confido ancora che non si apra la strada del correntismo nel Pdl, una deriva che più volte Fini criticò, parlando di "metastasi". Appena un anno fa, al congresso di scioglimento di An, disse infatti che nel nuovo partito non ci sarebbe stata correntocrazia, e all’atto fondativo del Pdl ribadì il concetto. Ora purtroppo registro un’inversione di pensiero da parte sua. Tuttavia attendo, spero non accada. Altrimenti...». Ed è così che Schifani introduce un tema delicatissimo, lo fa ricordando che «nell’ultimo periodo Fini ha assunto posizioni e iniziative politiche. Sarà pure "cofondatore" del Pdl ma è anche presidente della Camera. E dinnanzi alla prospettiva di un sistema correntizio nel partito, non vedrei male l’ipotesi che lasciasse Montecitorio ed entrasse nel governo, per avere mani libere e libertà di azione politica rispetto ai limiti che il ruolo istituzionale impone ». Un nodo che - svestendo i panni di presidente del Senato - avrebbe affrontato oggi in direzione, alla quale però non parteciperà. Schifani nega si tratti di una provocazione ai limiti del conflitto tra cariche dello Stato, «non lo è, lungi da me l’idea. Peraltro Fini sta svolgendo il suo compito con autorevolezza e prestigio. È un ragionamento politico, il mio, svolto in chiave costruttiva e non polemica. Altri hanno fatto polemiche, e anche peggio».

Il presidente del Senato si riferisce alla minaccia dei finiani di far nascere nuovi gruppi parlamentari, «un’opzione da un lato insostenibile, alla luce del risultato elettorale che ha premiato il governo e la maggioranza, e dall’altro incompatibile con gli equilibri del centrodestra. Semmai si fosse realizzato un simile scenario, resto dell’idea che la conseguenza inevitabile sarebbe stata il ritorno alla urne, fatte salve le prerogative del capo dello Stato. Ora l’ipotesi è che si vada verso la nascita di una corrente, che a mio avviso farebbe subire un processo involutivo al Pdl. Perché se il correntismo, legato a schemi da Prima Repubblica, divenisse uno strumento per logorare l’azione di governo, ognuno poi dovrebbe assumersi le proprie responsabilità. Sia chiaro, considero positiva la richiesta di un maggior dibattito all’interno del partito. Ma mi auguro che tutto resti dentro un quadro unitario». A detta di Schifani è lo stesso auspicio di Silvio Berlusconi, «che è contrario al correntismo e non lo condividerà mai. Non appartiene alla sua storia politica, alla storia cioè di chi proviene da Forza Italia. So che dentro An era diverso, e comunque - come in ogni partito democratico - le regole sono chiare: le decisioni - tranne sui temi eticamente sensibili - vengono prese a maggioranza, e tutti devono poi adeguarsi.

Diversamente sarebbe un modo surrettizio di costituire gruppi autonomi senza dichiararlo. Ma gli effetti sarebbero gli stessi: chi lo facesse si porrebbe fuori dal Pdl e il voto anticipato tornerebbe ad essere a mio avviso ineluttabile». La direzione di oggi sarà un tornante per molti aspetti decisivo, «e sono certo che Berlusconi si aprirà al dialogo, l’ha sempre fatto. Vorrei ricordare che sulle candidature per le Regionali ha accettato soluzione diverse dalle sue proposte. Perciò penso che dipenda più da Fini l’esito del confronto, e mi auguro che da una fase acuta, da uno sfogo spontaneo, si ritorni alla politica e si trovino i giusti rimedi».

«Dipende da Fini», secondo Schifani, che non condivide l’analisi dell’ex leader di An. A iniziare dalla tesi secondo la quale Berlusconi l’avrebbe isolato. «Intanto è stato lui a scegliere il ruolo di presidente della Camera, che ingessa politicamente. Altrimenti non si sarebbe verificato questo isolamento, che poi è solo apparente. Quali sono stati gli strappi da parte del premier? Non c’è stata scelta priva dell’assenso di Fini: dai candidati alle Regionali, alle leggi sulla giustizia, al federalismo fiscale, ai provvedimenti finanziari. Sulle future riforme nessuno ha preso decisioni. Anch’io non ho condiviso l’iniziativa del ministro Roberto Calderoli di portare al Quirinale la bozza sul semi-presidenzialismo, ma ci sarà tempo perché Fini sieda al tavolo con Berlusconi e Umberto Bossi per arrivare a una sintesi condivisa anche in Parlamento. Preferibilmente non solo dalla maggioranza». Quanto all’accusa lanciata verso il premier di aver consentito che il Senatùr diventasse il «dominus» della coalizione, «è infondata»: «Se una trazione leghista c’è - dice Schifani - è figlia di un’azione politica e programmatica, frutto dell’azione di governo a Roma e soprattutto sul territorio. Non mi pare che la Lega faccia una politica delle poltrone: ha solo tre ministri su ventitrè. Vogliamo parlare del lavoro di Roberto Maroni al Viminale? Dei risultati ottenuti nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata e sull’immigrazione clandestina? Del lavoro di Calderoli, che - tranne lo scivolone sulla bozza di riforme - è stato abile a trovare un compromesso con l’opposizione sul federalismo fiscale? Della capacità di Bossi che - abbandonata l’idea della secessione - è stato capace di costruire una nuova classe dirigente giovane e preparata?».

Così parte un’altra pesante critica all’ex capo della destra, «che parla a nome della destra spendendo posizioni e valori che di destra non sono». Di più: «Penso che proprio le sue posizioni su sicurezza, immigrazione, famiglia, hanno determinato al Nord il passaggio di molti elettori di An verso la Lega. È più che lecito cambiare idea, ma occorre poi fare i conti con le conseguenze di questo cambiamento. Non so quanti dei finiani su questi temi siano d’accordo con Fini». Schifani non lo è, «come non sono d’accordo con la tesi che la trazione leghista stia spaccando il Paese e provocando danni al Sud. Di quale Sud parliamo? Perché io sono stanco di un meridionalismo piagnone, assistenziale e clientelare. La sfida federalista, lo dico da parlamentare del Sud, ci impone una svolta culturale. Il federalismo fiscale dev’essere solidale, e su questo siamo tutti d’accordo. Però basta con l’andazzo, per anni nel Mezzogiorno sono arrivati flussi ingenti di danaro, ma è mancata la qualità della spesa. Mi conforta comunque che stia crescendo una nuova classe dirigente che invertirà questa tendenza. C’è un deficit infrastrutturale, certo, infatti spero che il governo presenti presto un piano straordinario, lo deve fare. Ma è impensabile, per esempio, che ancora oggi si assista a quanto accade in Sicilia, dove la spesa della regione è superiore a quella della Lombardia, che ha quattro milioni di abitanti in più».

Erano i temi che Schifani si era appuntato per l’intervento, se oggi fosse andato in direzione. Con un’annotazione finale, «l’auspicio che prevalga il senso dell’unità, che sia tutelato il patrimonio storico del Pdl, nato in nome del bipolarismo. Mi auguro che Fini collabori a preservare tutto ciò, perché le scelte della politica sono irreversibili. Rammento quando nel 1996 disse no alla nascita del governo Maccanico pur di andare al voto, e il centrodestra senza la Lega venne sconfitto». Per il resto non crede alle dietrologie, all’ipotesi che Fini si muova per avviare la fase post-berlusconiana, «non ci credo. Anche perché da sedici anni se ne parla nel Palazzo, ma non sarà il Palazzo a decidere chi succederà a Berlusconi. Saranno gli elettori. Quando arriverà il momento».

Francesco Verderami

22 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #117 inserito:: Aprile 24, 2010, 10:31:31 am »

Settegiorni

Dopo i fuochi d'artificio l'ora dei «Pontieri»

Pdl, il retroscena


Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini sono alla ricerca del bandolo perduto, non per passione né per volontà, ma per ragioni di reciproca necessità. Ed è vero che di margini non ce ne sono (quasi) più, che si sono consumati anche i «pontieri» oltre le parole.
Eppure c’è un motivo se ieri dinanzi al bivio hanno deciso entrambi di fermarsi. Il Cavaliere sarebbe istintivamente ancora tentato di chiedere la testa e la poltrona del presidente della Camera, «ma non ascoltare chi ti consiglia certe cose », gli ha sussurrato Gianni Letta, frenandone le pulsioni in Consiglio dei ministri: «Non otterresti nulla e romperesti tutto. Non avrebbe senso ». E anche Fini, dopo l’alterco in direzione, ha frenato se stesso e la sua pattuglia: «Basta con gli incendiari adesso. Non avrebbe senso».
Tutti cercano di dare un senso a quel che è accaduto, per primo Umberto Bossi, sebbene la sua intervista alla Padania somigliasse al preavviso della fine. Invece no, il Senatùr - che mai mollerà «l’amico Silvio», non gli conviene - ha voluto a suo modo offrire solidarietà al premier, accompagnandola però con una imprecazione per com’è stata gestita la vertenza: «Non si può avere il presidente della Camera messo di traverso, con il federalismo fiscale esposto al rischio. Non ha senso».

Tutti sono fermi al bivio, perché tutti per la loro parte sono responsabili del clamoroso tonfo, provocato paradossalmente dalla vittoria nelle urne. La Lega infatti si è lasciata prendere dall’ebbrezza del successo: prima si è intestata la mediazione sulle riforme, presentando persino la bozza al Quirinale, poi ha annunciato l’ingresso nelle banche manco le avesse già scalate, e infine ha posto l’ipoteca sulla futura presidenza del Consiglio, da affidare «a un amico» dopo Berlusconi. Fini - che si sentiva già stretto e che dopo il voto aveva dovuto constatare la superiorità del Cavaliere nel raccogliere il consenso - ha capito di esser tagliato fuori e ha provato a sparigliare il gioco, sbagliando tempi e modi. E Berlusconi si è trovato a quel punto nelle pesti, siccome ha vestito in ritardo il ruolo di regista, incombenza che gli spetta da leader della coalizione.
Tutti sono fermi anche perché nessuno ha chiaro quale possa essere l’approdo. Così, dopo i toni melodrammatici di due giorni fa, Berlusconi e Fini hanno avvertito la necessità di retrocedere dal davanzale sul quale - per dirla con Giuliano Ferrara - «hanno fatto la figura delle lavandaie». Ed ecco allora i primi segnali concilianti, con il presidente della Camera che inneggia alla «conquista del bipolarismo» ed elogia l’intenzione del presidente del Consiglio di voler procedere sulle riforme «dialogando con l’opposizione ». Ecco Berlusconi che fa sapere di aver chiamato l’ex capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, promettendogli di proseguire in parole e opere la sua missione per festeggiare degnamente i centocinquanta anni dell’unità d’Italia, dopo che l’ex leader di An aveva denunciato il las sismo del governo. Ecco infine Bossi, che si dice pronto alla «mediazione » e convinto che «il governo andrà avanti»: ma quali elezioni?

Nessuno oggi è disposto a fare marcia indietro, sia ben chiaro, ma star fermi serve per vedere come passerà la nottata, se e come decanterà la situazione. È ancora troppo presto per far altro, sebbene tutti sappiano che sarà utile, anzi necessario trovare un modus vivendi, a meno di non voler portare i libri (politici) della coalizione al tribunale del popolo, dichiarare insomma il fallimento della legislatura e consegnarsi poi al responso delle urne. Meglio di no. Anche perché il Cavaliere sa - gliel’hanno detto i suoi amatissimi sondaggi - che la gente è infuriata per l’andazzo. Tuttavia al premier non gli basterà una tregua, non può bastargli.
Nessuno gli leva ancora dalla testa che Fini lavori per lavorarlo ai fianchi. È ancora adirato per «l’insolenza » con cui l’altro «cofondatore » del Pdl ha pronunciato il suo nome in direzione. Ma la rottura totale non ha senso, e non solo perché lo consegnerebbe mani e piedi alla Lega, lo esporrebbe anche in Parlamento sulle leggi che gli sono più care: quelle sulla giustizia, per esempio. Stringe calorosamente la mano al finiano Andrea Ronchi in Consiglio dei ministri, ma vuole garanzie da Fini, perciò si valuteranno i suoi atteggiamenti. In attesa di trasformare la tregua in un nuovo e duraturo patto.

Nessuno può garantirglielo se non il presidente della Camera, che vive «un momento difficile», così ha detto. L’ex leader di An in fondo pensa ciò che alcuni suoi fedelissimi dicono. Ed è dall’altro ieri, appena un’ora dopo la plateale lite, che Roberto Menia dice: «Fini e Berlusconi sono condannati a stare insieme per una pluralità di ragioni». Il presidente della Camera deve spezzare l’isolamento, e non basta (anche se serve) discutere senza scatti d’ira al telefono con un coordinatore berlusconiano del Pdl. Deve togliersi di dosso l’etichetta che si è trovato appiccicato dal dibattito in direzione, l’accusa che in modo sottile gli ha lanciato Angelino Alfano: «Questo è un copione scritto per la sconfitta».

Francesco Verderami

24 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #118 inserito:: Giugno 12, 2010, 11:13:14 am »

Politica e giustizia «Ci siamo fatti del male da soli»

Ma Fini: sì possibile entro agosto

Il confondatore del Pdl: «Testo necessario, ma non è certo il migliore»


Sulle intercettazioni Gianfranco Fini si tura il naso. Sebbene critichi il merito e il metodo con cui si è proceduto con la legge, non pare intenzionato a rompere il compromesso politico con il premier. Al momento non è dato sapere quale sarà l'esito del percorso di riavvicinamento tra i cofondatori del Pdl, è certo però che questa strada, ancora lunga e accidentata, passa dal prologo sulle intercettazioni. Una legge su cui il presidente della Camera continua a esprimere ruvidamente delle perplessità, lasciando al premier la paternità politica della scelta e avvisando dei rischi a cui il provvedimento può comunque ancora andare incontro.

Sull'aereo che lo riportava in Italia da una missione all'estero, ha confidato ieri le proprie riserve ad alcuni suoi interlocutori. Il consuntivo di due anni di discussione parlamentare è «sotto gli occhi di tutti». E ci sarà un motivo se la riforma «viene presentata come una legge liberticida, senza che davvero lo sia», se ha «provocato la sollevazione di tutto il mondo dei media », se «è criticata dai quattro quinti del mondo del diritto», se «ha innescato tensioni nella maggioranza». Nel metodo l’esito non lo convince affatto, «non mi pare sia stato un capolavoro politico, bensì la dimostrazione di come ci si possa far del male da soli». Sia chiaro, Fini ritiene «necessaria» la legge, perché «l’uso distorto» dello strumento investigativo e «l’abuso» mediatico delle intercettazioni «impongono di mettere un freno». Ma è «il metodo pasticciato con cui si è proceduto » che addita: «Si è andati avanti a zig-zag, senza una stella polare. Ho perso il conto delle fiducie che sono state poste dal governo in Parlamento. E il risultato? Un compendio di quanto in politica non si deve fare».

Esaurite le obiezioni sul «metodo», ora che il Senato ha licenziato il provvedimento, per l'inquilino di Montecitorio è più facile esprimersi sul «merito » della legge. Il suo è un giudizio pieno di luci e ombre, perché «non c’è dubbio che il testo sia stato ampiamente migliorato, ma non è certo il miglior testo possibile», eppoi «non è detto che se superasse l’esame della Camera, si concluderebbe» la vicenda. Fini ricorda, in modo notarile, che la riforma dovrà prima passare alla firma del capo dello Stato, poi dovrà superare il vaglio della Consulta, senza dimenticare l’eventualità di un referendum: «Mi auguro che quando si terrà quella consultazione il clima sia diverso rispetto ad oggi. Ma se si respirasse la stessa aria di questi giorni, allora non scommetterei sull’esito». Non è il «compagno Fini» che rileva le difficoltà, quasi ad accanirsi, è il dirigente del Pdl che invita a ragionare sui problemi, sapendo al tempo stesso «come va il mondo» e «cosa vuole» il premier. Ecco lo snodo del suo ragionamento, poggia su una constatazione che sta nelle pieghe del regolamento della Camera: «Se il governo e la maggioranza, alla conferenza dei capigruppo di Montecitorio, dovessero chiedermi di calendarizzare subito la riforma, non potrei non tenerne conto». Ecco la prova che il patto tra cofondatori regge, che la lealtà da parte di Fini non viene messa in discussione. «Ma, onori e oneri», avvisa: «Chi si assumesse questa scelta, se ne assumerebbe poi anche la paternità». Insomma, se Berlusconi mira a far approvare le nuove norme sulle intercettazioni entro l’estate, «dovrà farsene carico politicamente », non potrà «nascondersi dietro il voto di astensione» con il quale il Cavaliere ha preso le distanze dalla legge al vertice del Pdl.

Fini non intende far saltare il compromesso, ma pretende chiarezza da Berlusconi. Poi, da presidente della Camera, si atterrà al suo ruolo: «Il tempo per esaminare il provvedimento e votarlo prima della chiusura estiva c’è. Di sicuro la commissione Giustizia avrà la garanzia di valutare approfonditamente il nuovo testo». «Il tempo c’è», è la frase chiave, sebbene l’ex leader di An inviti il premier a prendere in esame i suoi suggerimenti: «Buon senso vorrebbe che si procedesse in modo diverso. Se sono stati impiegati due anni per discutere la legge, non sarebbe un errore sfruttare un po’ di tempo in più, qualche mese, per ridurre il dissenso che c’è attorno a queste norme. Perché non cambiare prima, quello che palesemente è ancora da cambiare? Si eviterebbe un atteggiamento che considero auto-lesionista, e soprattutto si eviterebbe il rischio di fare la fine di Sisifo». Sono considerazioni che Berlusconi già conosce, così come Fini conosce le intenzioni del Cavaliere, deciso ad accelerare il passo per arrivare al varo della riforma entro l’estate e senza ulteriori ritocchi. Se «così va il mondo», se «così vuole» il premier, l’inquilino di Montecitorio ne prende atto, rinnovando però le obiezioni sull’eventuale ricorso al voto di fiducia. Fini non solo è contrario per principio, aggiunge che la mossa non accelererebbe il percorso della legge ma lo rallenterebbe: «Spero che il governo ci pensi bene prima di farlo. Spero ci pensi non due, ma quattro volte». Per approvare la riforma «il tempo c’è». Tuttavia il presidente della Camera considera «prioritario» l’iter del decreto sulla manovra economica. Perciò i deputati si preparino, «si può lavorare a oltranza, e se del caso si possono sfruttare le prime due settimane di agosto». Quando l’ha detto ai suoi interlocutori, Fini ha sorriso, immaginando come verrà presa la notizia a Montecitorio. Conosce l’andazzo, i banchi vuoti della maggioranza, le votazioni in cui il governo va sotto. Ed è da dirigente del Pdl che esprime la propria amarezza: «Il disinteresse è politicamente più grave del dissenso». Ma questa è un’altra storia, o forse è figlia degli stessi problemi che da cofondatore continua a denunciare.

Francesco Verderami

12 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_giugno_12/Ci-siamo-fatti-del-male-da-soli-Ma-Fini-si-possibile-entro-agosto-verderami_f5ac4572-75ea-11df-9eaf-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #119 inserito:: Luglio 11, 2010, 06:12:25 pm »

Il personaggio -

Il presidente del Senato: è opportuno un confronto diretto

Schifani: i rapporti tra il Cavaliere e Fini? Pace strategica o c’è solo la rottura

«Se non si arrivasse a un’intesa mi aspetterei una mossa a effetto da Berlusconi»

   
ROMA— Sveste i panni del presidente del Senato per indossare quelli dell’ «osservatore», solo così Renato Schifani può addentrarsi nei casi politici più spinosi: parla della manovra economica «fatta di sacrifici che gli italiani hanno compreso», della «svolta positiva» che sta per arrivare sulle intercettazioni, di un possibile riavvicinamento tra Pdl e Udc «legati dalla casa comune del popolarismo europeo e dall’affinità di valori e programmi». Ma soprattutto si sofferma sulla crisi del Pdl, critica il nascente correntismo «che rischia di far implodere il partito». E sul difficile rapporto tra Berlusconi e Fini sostiene che «o si arriva quanto prima a una pace strategica, con un ritorno alle motivazioni dello stare insieme, o sarà rottura traumatica» tra il premier e il presidente della Camera. Schifani va per ordine, constata che «il clima avvelenato» delle scorse settimane ha lasciato il campo a «una situazione meno tesa»: «Berlusconi, tornato dal viaggio all’estero, ha dovuto fare i conti con molti fronti aperti. Il suo "ghe pensi mi" stava a significare che si sarebbe impegnato in prima persona. Il "caso Brancher" aveva determinato un clima di conflittualità eccessiva, anche nel Paese. È intervenuto, ha condiviso le dimissioni del ministro, anzi non escludo che lo abbia spinto al gesto, tanto responsabile quanto opportuno.

Sulla manovra ha smussato la durezza di Tremonti, è andato incontro ad alcune richieste del mondo imprenditoriale, del lavoro e degli enti locali. È vero, resta aperto il fronte delle Regioni, ma è stata offerta ai governatori l’autonomia di stabilire dove attuare i tagli. E mi auguro si ristabilisca presto un rapporto proficuo. Ma la crisi economica imponeva rigore». C’è poi il capitolo intercettazioni, e anche in questo caso Schifani attribuisce a Berlusconi «il cambio di rotta», sia perché si tratta di una legge «delicata» sia perché «non era utile né al premier né al Paese uno scontro con il Quirinale»: «Le ulteriori riflessioni alla Camera sono utili. Mi avevano colpito le parole del procuratore Grasso—magistrato molto competente — sul rischio che alcune norme potessero favorire la mafia. Ho voluto incontrarlo, e ritengo giusto che quelle norme vengano scritte meglio per evitare dubbi interpretativi. Ben vengano quindi nuove modifiche. Perciò penso che siamo alla vigilia di una svolta positiva, che la maggioranza voterà in modo compatto la riforma. Emi auguro che anche l’Udc possa farlo». Resta da capire perché il governo non abbia «cambiato rotta» prima, invece di farlo con le spalle al muro. L’inquilino di Palazzo Madama ribatte che «è preferibile avere una buona legge, sebbene dopo tanti scontri, piuttosto che un vuoto legislativo su una materia così sensibile». Così prepara la stoccata al mondo dei media, che ha scioperato contro un provvedimento ritenuto «liberticida»: «Se non ricordo male, la legge Mastella era ancor più rigorosa sul divieto di pubblicazione. E non mi pare ci fu una tale intensità di proteste. Ora, non vi è dubbio che vada salvaguardato il diritto all’informazione. Però serve il bilanciamento con un altro diritto costituzionale, quello della privacy. E il bilanciamento al momento non c’è».

La riforma delle intercettazioni è stato uno dei temi che ha segnato lo scontro politico tra Berlusconi e Fini. Schifani riveste per un istante i panni del presidente del Senato, gli serve per dire al collega di Montecitorio che «come il magistrato dev’essere terzo nell’applicare la legge e nei suoi comportamenti pubblici, così deve essere e apparire anche il presidente di un ramo del Parlamento». Poi, da «osservatore» e da esponente del Pdl, ritiene che nei rapporto tra cofondatori «sia opportuno un chiarimento diretto, in modo che le eventuali dissonanze vengano chiarite direttamente e non attraverso i dibattiti pubblici. Senza una pace strategica si andrebbe a una rottura traumatica. Conosco Berlusconi: denuncerebbe il tradimento del patto elettorale». A quel punto «nulla andrebbe escluso. Mi aspetterei una mossa da parte del premier dura e ad effetto». Ma le tensioni nel Pdl non si riducono al conflitto tra i cofondatori. Anche nell’area ex forzista è iniziato un duro scontro. Schifani gli dà un nome: «Correntismo ». Accusa che peraltro gli era stata lanciata tempo addietro dal finiano Bocchino, secondo il quale il presidente del Senato è a capo di una componente minoritaria in Sicilia, insieme ad Alfano. «Nessuna corrente», è la replica: «Svolgo il mio ruolo istituzionale e basta. E se qualcuno vuol fare riferimento al mio rapporto con il Guardasigilli, ribadisco che sono legato a lui da un legame di stima e amicizia del quale vado orgoglioso. Per il resto sono fuori dall’attività di partito. Accetto di partecipare ai seminari di Gubbio del Pdl, come alle feste del Pd. Detto questo, sono contro le correnti nel mio partito». Schifani ricorda la sua provenienza, Forza Italia, «che non ha mai avuto una storia correntizia. Eravamo un partito anarchico e monarchico al contempo, perché il dissenso si fermava laddove si riconosceva la leadership di Berlusconi, e nessuno pensava di risolvere i problemi territoriali attrezzandosi in corrente. Non è più così. E Liberamente non può che definirsi una corrente, al di là di quanto sostengono i suoi fondatori». Gli stessi che però dicono di essersi mossi dopo l’assenso del Cavaliere. «Io mi rifaccio alle dichiarazioni pubbliche di Berlusconi, che ha rinnegato le correnti. E c’è un motivo: sebbene in buona fede, oggi la creazione di una o più correnti rischia di far implodere il Pdl». Si spiega Schifani: «Non basta riconoscersi in Berlusconi, se poi si creano le condizioni per disaggregare il partito. L’esperienza infatti insegna che se nasce una corrente, altre ne seguiranno. Il Pdl invece deve impegnarsi per amalgamare l’area forzista con quella proveniente da An e che ha preso le distanze da Fini, anche se la storia di quanti vengono dalla destra è più strutturata. Innestando il correntismo, invece, il processo di fusione in atto sarebbe destinato a rallentare, se non ad arrestarsi».

Dilaniato dal conflitto tra Berlusconi e Fini, diviso ora dallo scontro sulle correnti, il Pdl deve fare i conti anche con la «questione morale», sollevata dal presidente della Camera ed evidenziata dai recenti casi giudiziari. Schifani ammette che «negli ultimi tempi molte inchieste hanno colpito esponenti di rilevo del partito. E tutto ciò non ha aiutato l’immagine del Pdl.Ma la mia cultura garantista mi induce ad attendere l’esito delle inchieste. Ritengo comunque esagerato parlare di questione morale nel Pdl. Ci possono essere singoli casi che hanno turbato l’opinione pubblica e che toccherà alla magistratura verificare». Il carico di tutti questi problemi è sulle spalle del premier, che stretto dalla Lega (e Tremonti) da una parte, e da Fini dall’altra, sembra cercare la sponda dell’Udc per uscire dalla morsa. A modo suo l’«osservatore» Schifani sembra dar credito all’aggancio dei centristi in maggioranza, lo fa con prudenza. Ma lo fa: «L’Udc sta con il Pdl nel Ppe. Su molti temi, quando erano alleati, avevano una visione comune: penso alla politica estera, alla politica economica, a quella per le famiglie. Poi le contrapposizioni, provocate da questioni interne, hanno pregiudicato il cammino comune. Oggi, quello che posso dire è che i due partiti continuano ad avere gli stessi valori, che sui programmi ci sono molte affinità, e che la base elettorale dell’Udc guarda più al centrodestra che al centrosinistra». Ed è osservando cosa accade nel terreno dell’opposizione che Schifani auspica un «cambio di rotta» del Pd, anche in nome delle riforme: «L’antiberlusconismo dell’Idv sta condizionando i Democratici, che invece hanno gli uomini, le intelligenze e il tempo per costruire una credibile alternativa di governo, piena di contenuti. Ritengo indispensabile che il Pd sia un partito forte, perché l’alternanza è la ricchezza di un sistema democratico. E il bipolarismo per noi è strategico, e va salvaguardato».

Francesco Verderami

11 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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