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« Risposta #90 inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:53:35 am » |
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Il retroscena
Il patto Fini-Bossi per evitare le urne
L'ipotesi dell'intervento con procedura d'urgenza sulla riforma penale per ritardare i processi
È accaduto poco prima che la sentenza sul Lodo Alfano provocasse il sisma, prima che d’un colpo il Quirinale, la Consulta e palazzo Chigi finissero inghiottiti nella voragine. E non è un caso se l’incontro tra Fini e Bossi a Montecitorio ha preceduto il terremoto, la loro intesa è servita per mettere in sicurezza il centrodestra, per arginare la controffensiva di Berlusconi e porre un confine invalicabile: il voto anticipato.
Così è nato l’accordo tra il «cofondatore » del Pdl e il capo del Carroccio, al quale Fini ha garantito il proprio benestare per una candidatura leghista in Veneto alle Regionali, ricevendo in cambio un patto di consultazione permanente e la garanzia che «d’ora in poi quando si dovrà discutere lo faremo in tre». E sarà infatti dopo un incontro a tre che verrà ufficializzato il patto sul governatore leghista nel Nord-est.
Ecco la svolta, l’idea di un ponte proiettato verso il futuro, la garanzia che l’alleanza Pdl-Lega resisterà anche al cambio degli uomini e delle stagioni. L’accordo non mira a dimezzare il Cavaliere, perché è evidente che il centrodestra sia ancora oggi a forte trazione berlusconiana. Bossi l’ha sottolineato, dichiarando pubblicamente la propria fedeltà all’alleato, ma scartando le elezioni anticipate che bloccherebbero l’iter della riforma federalista: «E senza quella riforma scoppia la guerra». Siccome il Senatùr sapeva che la Consulta avrebbe bocciato lo scudo giudiziario, poco prima che accadesse ha trasformato le Regionali in un «referendum » sul presidente del Consiglio.
Il punto è: come arriverebbe Berlusconi a quell’appuntamento? Il Cavaliere sa che — al momento — la strada delle elezioni gli è preclusa, per questo non le evoca. Ma il logoramento a cui è sottoposto rischia di schiantarlo, di non farlo arrivare in sella al «referendum» di primavera: la sentenza civile sul lodo Mondadori è un cavallo di Troia che di fatto anticipa la sentenza penale sul caso Mills, e ora che la Consulta ha bocciato il lodo Alfano, il premier è esposto anche al processo sui diritti tv, che potrebbe portare all’interdizione dai pubblici uffici. Berlusconi ieri non usava il condizionale nei suoi colloqui con ministri e dirigenti del Pdl: «Le sentenze contro di me sono già scritte».
Se così fosse sarebbe difficilissimo resistere a palazzo Chigi, «già me li vedo quelli della sinistra che disertano le sedute in Parlamento, chiedendo le mia testa prima di tornare in Aula». Perciò serve un meccanismo legislativo che blocchi quei processi, che li prolunghi nel tempo. I tecnici sono già all’opera e non si esclude che alcune norme contenute nel ddl di riforma del processo penale — fermo al Senato — possano essere varate anche con procedura d’urgenza. È la prova-fedeltà che il Cavaliere chiede agli alleati, «serve maggiore unità e massima compattezza» ha detto a Bossi che ieri è andato a trovarlo alla vigilia del terremoto.
Fini invece gli aveva parlato per telefono, intrecciando sentimenti di personale «solidarietà», a ragionamenti politici condivisi con il Senatùr nel colloquio a Montecitorio. «Andiamo avanti», aveva concluso il presidente della Camera: «E mi raccomando, Silvio. Usa toni pacati nel commentare la sentenza». Le ultime parole famose: «Evidentemente — ha commentato Fini dopo l’attacco di Berlusconi a Napolitano — ha scelto un’altra strada rispetto a quella che gli avevo consigliato » .
Il «cofondatore» del Pdl può essere rimasto sorpreso, ma fino a un certo punto. Doveva ricordare cosa aveva detto il premier alla vigilia: «A sentenza politica risponderò politicamente». E dunque era scontato che il Cavaliere avrebbe innescato con fredda lucidità quello che lo stesso Fini definisce un «conflitto istituzionale ». Il fatto è che ieri, in un sol colpo, la Corte Costituzionale ha azzoppato il premier ma ha anche colpito il presidente della Repubblica, «perché lui — secondo Berlusconi — aveva promulgato la legge. E quello non è un semplice atto formale».
Il conflitto serve al Cavaliere per chiamare alla prova di fedeltà gli alleati nel tornante più delicato della storia politica repubblicana. L’Mpa gli ha subito offerto la propria solidarietà, il repubblicano Nucara l’aveva anticipato ieri mattino in Aula alla Camera, prima della sentenza, «a nome del Pri». Ora però Berlusconi presenta il conto: è d’accordo ad «andare avanti», come gli chiedono Fini e Bossi, «ma non intendo restare a guardare mentre cercano di farmi fuori». Perciò chiede di seguirlo, in una battaglia che si preannuncia durissima. Ma che rischia di iniziare fuori tempo massimo. Berlusconi ne è consapevole: «Abbiamo perso un anno e mezzo», ha urlato ieri. Un anno e mezzo in cui ha accantonato il progetto di rifondare la giustizia, ha bloccato la legge sulle intercettazioni, e ha accettato «il compromesso» con il Quirinale.
Ecco cosa significava quel «mi sento preso in giro», sibilato ai cronisti. Era Napolitano il bersaglio, ma c’era anche Gianni Letta, l’uomo delle mediazioni con il Colle, il braccio destro delle cui strategie si fidava. Così è chiaro il motivo dello scontro con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, al quale nei giorni scorsi — vedendo approssimarsi la bocciatura del lodo Alfano — si sarebbe rivolto a muso duro: «Tutto mi sarei aspettato, tranne che essere deluso da te».
E allora basta con gli infingimenti, «Napolitano avrebbe dovuto garantire». Siccome non è andata in questo modo, che guerra sia. Ieri pomeriggio nell’ inner circle berlusconiano si ipotizzava la strategia d’attacco con il varo di una leggina: nel caso in cui il Quirinale dovesse rigettarla, si tornerebbe in Parlamento per un nuovo voto, magari anticipato da una manifestazione di piazza. Erano queste le «armi radioattive» che il Guardasigilli — prodigandosi con il Lodo — sperava non si dovessero mai usare?
Il conflitto era nell’aria, ma c’è una novità rispetto al passato, perché stavolta il Cavaliere intende sfruttare la forza del consenso per scagliarla contro il Palazzo delle istituzioni, che è fragile dopo la sentenza di ieri. Come se non bastasse, l’opposizione è debolissima e divisa, e il Pd — in questa battaglia — rischia l’Opa di Di Pietro. Resta da capire se e fino a che punto Bossi e Fini — pur di evitare le elezioni — asseconderanno il premier. Perché stavolta non si tratterà di mediare sulle candidature alle Regionali o sul programma di governo. Stavolta l’alleanza avrà un prezzo altissimo. Alla vigilia della battaglia decisiva Berlusconi ha iniziato la conta tra chi starà con lui e chi starà contro di lui. Perché lui rischia tutto.
Francesco Verderami
08 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #91 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:02:35 pm » |
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E ai suoi chiede di abolire la legge sulla par condicio prima delle Regionali
Berlusconi e il giorno dei sospetti: se chiedo le urne mi danno un Dini-bis
Il retroscena: primi dubbi sull'attacco frontale a Napolitano. «Ma Fini ha esagerato»
ROMA — Silvio Berlusconi si sente davvero un Cavaliere dimezzato, perché malgrado goda di un forte consenso popolare, «se oggi chiedessi le elezioni, invece delle urne avrei in cambio un Dini-bis». E se chiede — come ha fatto ieri — di modificare una legge, «voglio l’abolizione della par condicio prima delle Regionali », è costretto a constatare che «in Parlamento non ci sono più i tempi per modificare la legge in tempo», come gli ha spiegato il vicecapogruppo alla Camera, Italo Bocchino.
Il senso d’impotenza che lo tormenta è pari alla consapevolezza di aver sbagliato nell’attaccare frontalmente Giorgio Napolitano. Certo fatica a riconoscerlo, e lo ha irritato il modo in cui Fini l’ha bacchettato con una nota, invitandolo «al suo preciso dovere costituzionale»: «Gianfranco ha esagerato». Però sotto sotto forse conviene con il presidente della Camera, secondo il quale «Silvio non ha tutti i torti a lamentarsi» per la sentenza della Consulta sul lodo Alfano, «ma la reazione è stata eccessiva, perché tirando in ballo il capo dello Stato si è messo dalla parte del torto». Il fatto è che il Cavaliere si sente stretto in una morsa, e c’è tutto il suo disappunto nella frase pronunciata davanti all’ufficio politico del Pdl: «Un premier eletto dal popolo va rispettato ».
È come volesse spezzare le catene senza riuscirci. Osserva le mosse degli alleati con sospetto. Non accetta di subire il gioco di chi assiste al suo indebolimento in attesa di spartirsi il patrimonio politico che ha costruito. Mai convegno è stato metafora del tempo, come quello che l’Aspen ha organizzato ieri, con casuale coincidenza: «Costruire il dopo e rinnovare la leadership del Paese» era il titolo dell’incontro a porte chiuse, al quale ha partecipato anche Gianni Letta, che — racconta l’agenzia Dire — se n’è andato prima delle conclusioni. «Vado via», ha detto a Giulio Tremonti e a Massimo D’Alema: «Devo andare al lavoro, altrimenti rischiamo che il dopo arrivi prima » .
È questo movimentismo che spinge Berlusconi alla reazione e che ieri mattina l’ha indotto ad attaccare nuovamente Napolitano dai microfoni del Gr1. Lo scontro istituzionale è solo sopito, non si è concluso, lo intuisce Fini quando nei suoi colloqui riservati continua a pronosticare il prosieguo naturale della legislatura, ma non esclude del tutto soluzioni traumatiche: «Perché a forza di tirar la corda, c’è il rischio poi che la corda si spezzi». L’incontro sul Colle delle tre più alte cariche istituzionali testimonia il clima, se è vero che il presidente del Senato — a fronte dell’irritazione del capo dello Stato per «le offese ricevute » da Berlusconi — ha prima chiesto che al premier venisse riconosciuta un’attenuante «per il suo stato d’animo», poi ha fatto a brandelli la Consulta per la sentenza sul lodo Alfano, per quel richiamo all’articolo 138 della Carta, «ché se c’era bisogno di una legge costituzionale, avrebbe dovuto eccepirlo già nel 2004». La nota che viene diramata al termine dell’appuntamento, è frutto di un lungo braccio di ferro, ed evidenzia punti di vista profondamente diversi. C’è in un passaggio — chiesto da Renato Schifani — il riferimento alla «volontà del corpo elettorale»: segna una svolta, perché riconosce un mutamento nella Costituzione materiale, e non c’è dubbio che si tratti di un punto a favore di Berlusconi. È una scossa di assestamento dopo il terremoto di mercoledì sera, che ha tenuto l’inquilino di Montecitorio al telefono fino a notte fonda, con un Napolitano furibondo e intenzionato a convocare il vertice con i presidenti delle Camere per il giorno seguente, così da farsi scudo dinnanzi agli attacchi. Da come si è concluso l’incontro si capisce che lo sciame sismico proseguirà. Perché a Berlusconi non basta, non può bastare, un riconoscimento su un comunicato. Però fatica a dispiegare la forza politica che ha ricevuto dagli elettori e che — a suo dire — s’impantana nelle trattative tra alleati e nei «giochi di Palazzo».
Ecco perché spinge il coordinatore del Pdl Sandro Bondi a replicare con durezza alla nota di Fini della mattinata: «Il presidente della Camera — sostiene il ministro — appare incapace di comprendere la sostanza dei problemi storici e politici che stiamo vivendo da oltre un decennio». Traduzione: Berlusconi dal ’94 è vittima degli attacchi portati da apparati dello Stato e da pezzi di magistratura militante. Se è vero che per le elezioni oggi non c’è spazio, allora per rompere l’assedio e verificare «la lealtà» di Fini, Berlusconi punta a usare la riforma della giustizia che ha tenuto ferma per un anno e mezzo, in nome del «compromesso » che era stato raggiunto con il Colle. A suo tempo il Cavaliere aveva dovuto frenare il Guardasigilli e smentire se stesso, quando — nei giorni dell’intesa con Umberto Bossi sul federalismo fiscale — aveva detto che «le due riforme marceranno di pari passo». «È ora di muoversi. Vedremo chi ci sta e chi non ci sta». Se così fosse, sarebbe inevitabile una nuova scossa con la magistratura e probabilmente anche con il Quirinale. Perché magari Berlusconi non attaccherà più Napolitano con i toni dell’altro ieri, ma vorrà far pesare la forza del consenso. Difficile dire se ci riuscirà, se gli alleati glielo consentiranno. Una cosa è certa: anche questa legislatura passerà senza riforme condivise.
Francesco Verderami
09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #92 inserito:: Ottobre 10, 2009, 04:23:32 pm » |
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Settegiorni
Il Cavaliere con Casini.
E nel Pdl il 56% dice sì al matrimonio d’interessi
Il leader udc al premier: parliamone dopo il congresso pd
Lo fa per necessità, non per scelta, perché già a suo tempo Berlusconi aveva scelto di rompere con Casini, e dunque se potesse si risparmierebbe l’intesa con i centristi. «Ma per le Regionali l’accordo con l’Udc ci serve», dice il Cavaliere. Ed è per questo che il premier corteggia l’ex alleato, gli telefona, e con lui addirittura si sfoga contro quelli che gli stanno attorno in attesa di succedergli, per gli oltraggi di cui si sente vittima da mesi con una «campagna d’odio» che riempie anche le tv di Stato: «Ma l’hai visto Annozero?». Sembra non abbiano mai smesso di stare insieme, se è vero che Casini lo conforta e gli consiglia di calmarsi, «tanto Santoro non sposta voti, Silvio. Come il Tg4 ... ». Poi però, quando si passa a parlar di affari, quando cioè il premier prova a sondare il terreno per un patto elettorale in vista delle Regionali, il capo dell’Udc ripete quello che i dirigenti del Pdl si sono sentiti dire dai loro parigrado centristi: «Nessuna alleanza su base nazionale. Ma localmente si può trovare un accordo. Comunque ne parleremo dopo il congresso del Pd». Entrambi chiudono la conversazione con la certezza che sia «andata bene».
Così spiega Casini ai suoi, confidando sull’intesa «a macchia di leopardo», così ripete Berlusconi all’ufficio politico del Pdl, annunciando che «in alcune zone si può andare insieme». È un matrimonio d’interessi, sta scritto nei sondaggi che entrambi conoscono, e che garantiscono perciò una discussione sgombra da finzioni. Per vincere nelle urne in primavera, il Cavaliere deve conquistare almeno tre regioni del Centro-Sud: Lazio, Campania e Puglia, oltre ovviamente al Lombardo-Veneto. Insieme alla Sicilia potrebbe infatti dire che il centrodestra governa «la stragrande maggioranza degli elettori italiani». È lì, nel Mezzogiorno, che il premier gioca la sua sfida. Ed è lì che l’Udc è determinante. Basta leggere i dati demoscopici, che come segni zodiacali predicono una buona sorte all’alleanza, se si realizzasse. Intanto il 56% dell’elettorato berlusconiano vede con favore un accordo con l’Udc, e gran parte della percentuale si forma al Sud.
Eppoi è soprattutto grazie al Sud che i centristi oggi arrivano nei loro sondaggi al 6,8%, un tesoretto che il Cavaliere valuta addirittura oltre il 7%, e che sarebbe determinante per farlo gridare alla vittoria. Ma non è tutto così semplice e per questo non c’è nulla di scontato. Casini costa, politicamente parlando, e il suo prezzo lievita di settimana in settimana, se è vero che nei report riservati ottiene un giudizio positivo dal 50% dell’opinione pubblica, ed è secondo solo a Berlusconi, che sta al 52,8%. Questo consenso — sostiene nelle riunioni di partito — è frutto della mossa di un anno e mezzo fa, «quando scegliendo di andar da soli abbiamo fatto un investimento politico, per essere determinanti nel gioco del dopo-Berlusconi. Se oggi cedessimo alle sue lusinghe, accettando un accordo nazionale con il Pdl, dopo avergli regalato la vittoria alle Regionali ci tratterebbe come camerieri». Casini è abile e sfuggente, non aspira alla candidatura di un governatore centrista appoggiato da destra o da sinistra, e non solo perché non vuole che qualcuno gli faccia ombra nel partito, ma perché intende tenersi le mani libere. Ieri a Torino ha detto che non starà mai «nè con la Lega né con la Bresso», presidente uscente del Pd. Poi a Roma si è smarcato da quanti premevano per una manifestazione contro Berlusconi: «Se ne dovessi fare una, la farei contro Di Pietro». Bacchetta il Cavaliere per i suoi attacchi a Napolitano e «da amico », con le mani giunte come ha fatto l’altra sera a Porta a Porta , lo esorta a cambiar registro: «Perché vedi Silvio... Posso darti del tu, vero?».
E dire che appena due settimane prima, nello stesso salotto, si erano mandati a farsi benedire: «Auguri», aveva detto liquidatorio il premier, chiudendo la telefonata. Invece ne ha fatta un’altra, riservata. «Casini mi ha chiesto di aspettare che si tenga il congresso del Pd», ha riferito ai dirigenti del Pdl: «Penso che un’intesa, per quanto limitata, debba farsi». La pensano così anche i capigruppo parlamentari Gasparri e Cicchitto, che da un anno e mezzo fa il «pontiere» con l’Udc e ritiene «utile» la ripresa dei rapporti, «dato che è pure cambiato lo scenario, e si preparano tempi duri in Parlamento». Concordano i vice capogruppo Quagliariello e Bocchino, il primo in nome della «casa comune europea», il secondo per realismo politico: «Se le Regionali si profilano come un referendum su di te, Silvio, è opportuno allargare il più possibile l’alleanza. Tenendo però presente che Casini fino al 2012 sceglierà di non scegliere, in attesa di decidere quel che gli fa più comodo». E Fitto, che conosce i democristiani per averli frequentati dall’infanzia, proprio su questo punto mette in guardia il Cavaliere, gli chiede di chiedere «chiarezza» ai centristi, «non possiamo dar l’immagine che il Pdl dipenda dalle scelte altrui e si faccia dettare i tempi». Chissà il maldipancia del premier a sentire queste parole, perché non c’è dubbio che — se potesse — dell’Udc farebbe a meno, e che condivida in cuor suo la tesi del ministro Ronchi, contrario all’accordo per «fedeltà al bipolarismo », per «coerenza», e per non dare alla Lega «una campagna elettorale già fatta ». «Mi rendo conto delle perplessità di alcuni di voi», ha concluso l’altra sera Berlusconi: «Ma a noi l’accordo con l’Udc serve». E serve anche a Casini.
Francesco Verderami
10 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #93 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:28:19 pm » |
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IL GOVERNO
Berlusconi-Tremonti e quelle tensioni sui leader futuri
Il caso dopo un invito al convegno Aspen
ROMA - Hanno litigato anche ieri, «abbiamo litigato» ha confidato Berlusconi dopo il colloquio con Tremonti. E dal modo spazientito in cui il premier ha raccontato la faccenda s’intuisce che la conversazione dev’esser stata accesa, e che anche ieri il titolare dell’Economia deve aver minacciato le dimissioni: «Giulio minaccia di dimettersi ogni giorno». Ragioni politiche e personali s’intrecciano nell’ultimo episodio di una saga che sta creando tensioni nel governo e nella maggioranza, e che rischia di trasformarsi in qualsiasi momento in scontro aperto. Basta poco. Basta, per esempio, che non venga disinnescata la mina della Banca del Sud, progetto tremontiano già attaccato in Consiglio dei ministri dalla Prestigiacomo e da Fitto, senza che il premier intervenisse. Ma se il solco tra il Cavaliere e Tremonti si va allargando non è tanto per contrasti su un singolo provvedimento o sulla linea di politica economica. C’è qualcosa di più profondo. Il fatto è che Berlusconi non intende assistere passivamente alle mosse di quanti vorrebbero raccoglierne l’eredità. Insomma è una questione che non riguarda il presente, ma il futuro.
«Il dopo», per usare il titolo del recente convegno organizzato dall’Aspen, di cui il Professore è presidente. Se è vero che la sentenza della Consulta sul Lodo Alfano ha alimentato i sospetti del premier, in quel convegno, nella sua lettera di presentazione, laddove c’era scritto che per «il dopo» va creata «una leadership basata su un consenso non solo immediato e mediatico», il Cavaliere ha visto incarnarsi i fantasmi che lo tormentano. Ed è da allora che non si dà pace. «Leggete, leggete», ha detto Berlusconi a Frattini e Maroni, come cercasse solidarietà: «Leggete cosa mi tocca sopportare. Come posso accettare che si lavori contro di me?». Tremonti non c’era in quel momento a palazzo Chigi, ma è difficile immaginare che non sia venuto a conoscenza dello stato d’animo del Cavaliere. E comunque ieri ci ha pensato il Giornale a informarlo, pubblicando in prima pagina «la lettera della discordia tra Silvio e Giulio». Con tanto di titolo all’interno: «Carta canta». Il colloquio tra il premier e il suo ministro è stato aspro: a fronte di un Berlusconi che sosteneva di non essere stato informato anzitempo dell’articolo, Tremonti opponeva la tesi del «non potevi non sapere». Sono molte le ragioni che li dividono, sono tanti gli strappi che si susseguono, e sono alcuni dettagli che rendono manifesta la crisi del rapporto. Il Cavaliere combatte contro «il dopo».
E siccome sono già tanti i fronti aperti, vuole evitare che se ne aprano di nuovi, che si ritrovi infine circondato per effetto di manovre altrui. Quella frase con cui l’altra sera si è rivolto alla Marcegaglia, «mi piacerebbe averti come vice premier», è interpretata nel Pdl come un segnale contro Tremonti e di apertura alla linea confindustriale che chiede maggiori aiuti alle imprese. Eppoi certi incontri a due di Berlusconi con autorevolissimi banchieri, le relazioni non conflittuali con il governatore di Bankitalia, sono la prova che il premier su questioni strategiche non intende delegare. C’è poi la politica, l’asse con la Lega che fa muro a difesa di Tremonti, i sondaggi che danno il ministro dell’Economia in testa negli indici di gradimento insieme a Brunetta e Maroni: di tutte queste implicazioni il Cavaliere tiene conto, in attesa di trovare una strategia che lo tiri fuori dalle secche. Ma dalla scorsa settimana ha tirato una riga, per verificare chi sta con lui e chi contro. Sono giorni feroci nell’inner circle berlusconiano dopo la sentenza della Consulta. Gianni Letta era pronto a dimettersi, «sono pronto a fare un passo indietro», ha commentato il sottosegretario quando ha sentito venir meno la fiducia del premier. Eppure, nonostante l’ira, Berlusconi dice di lui: «Gianni è l’unico insostituibile ». L’unico.
Francesco Verderami
14 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #94 inserito:: Ottobre 17, 2009, 04:45:45 pm » |
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Settegiorni
Il nemico in casa a sindrome che dilania il Pd
Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi»
Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta colonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Specie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversario è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tutti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vecchio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segreteria, senza aver definito ancora le alleanze.
E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fossero al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democratici avevano lanciato il tema della riforma degli ammortizzatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sanatorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifonico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al confronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — commenta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centralismo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una cosa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».
Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaffezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «partito mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una volta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi mali. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il dopo chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizione al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».
Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va messa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il direttore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvivranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riaccenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavaliere.
Francesco Verderami
17 ottobre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #95 inserito:: Ottobre 22, 2009, 10:21:55 am » |
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Centrodestra / gli scenari
Fini, gelo su Tremonti e il posto fisso
«Il premier? Apprezzo il suo impegno»
Il nodo Regionali: Lega, la doppia candidatura in Veneto e Piemonte crea problemi. «Galan? Caso delicatissimo»
ROMA - Solo alla politica è consentito trovare la quadratura del cerchio e Gianfranco Fini vede Silvio Berlusconi impegnato nel tentativo di farlo quadrare, «cosa non facile» e tuttavia «necessaria ». Non a caso il presidente della Camera apprezza il modo in cui il premier «sta cercando di farsi carico delle richieste di tutti, fortemente intenzionato com’è a tenere insieme l’alleanza». Non è il tempo dei distinguo e dello scontro, semmai quello della collaborazione. E da ciò che il «cofondatore» del Pdl dice nelle sue conversazioni riservate, si intuisce che il passaggio è complicato. Perché sono molti i fronti aperti, a partire dalle tensioni che si concentrano sulla politica economica e sul suo ministro. A Fini non è piaciuta la sortita di Giulio Tremonti sul «posto fisso», «forse non si è reso conto degli effetti che avrebbe determinato, e poi ha voluto lo stesso tenere il punto, ridimensionandone comunque la portata». Ma non è quello il problema, quanto le divergenze che nota nel governo e nella maggioranza. L’ex leader di An riconosce che «la linea di contenimento della spesa è dettata dal fatto che l’Italia rischia il patatrac. Perciò il ministro non prende per ora in considerazione costi aggiuntivi».
Per quanto possa apparire paradossale, la strategia decisa da Tremonti incide sul lavoro istituzionale di Fini. L’inquilino di Montecitorio se n’è reso conto durante un incontro con i presidenti delle commissioni parlamentari della Camera: «Se il Parlamento non ha argomenti da discutere, deriva anche dal fatto che i lavori in commissione spesso vengono bloccati dal Bilancio. Basta infatti che un provvedimento preveda una sia pur minima copertura economica e l’ultima parola spetta al governo. E siccome senza copertura non va avanti... ». Dal suo scranno sente l’eco che arriva dal Tesoro dove chiedono di «pazientare » in attesa di sapere quali effetti produrrà lo scudo fiscale sul gettito - e al contempo percepisce l’impazienza di Berlusconi, «che sottolinea sempre come la sua sia la politica del fare, e però non riesce a fronteggiare tutte le richieste che vengono dai settori produttivi del Paese». L’economista Mario Baldassarre gli ha fatto pervenire uno studio sulla «politica inerziale» - così viene definita - di Tremonti, che produrrebbe una ripresa «troppo lenta» per l’Italia, se è vero che servirebbero sette anni per recuperare la ricchezza perduta con la crisi, che i consumi tornerebbero in linea con il 2007 solo nel 2012, che il rapporto debito-pil rientrerebbe sotto il 3% nel 2015, che intanto la pressione fiscale resterebbe elevata... «Sarà, ma qual è la ricetta alternativa?», ha sospirato Fini chiudendo il dossier. Gli è chiaro che l’economia resta il tornante decisivo, ma rispetto agli anni in cui sedeva al governo è intenzionato a restare un passo indietro.
Da «cofondatore» del Pdl è invece impegnato a trovare una soluzione sulle Regionali. Osserva le mosse di Pier Ferdinando Casini, «che da politico avveduto fino al 2012 resterà alla finestra», e scommette che l’Udc «in alcune aree» farà intese con il centrodestra. Per il resto, il patto con il Cavaliere e Umberto Bossi regge, solo dopo un incontro a tre verrà infatti sciolto il nodo delle candidature. Le scelte più «impegnative» riguardano il Nord. Perché Fini riconosce che nel Settentrione il Carroccio «ha un forte consenso popolare», e sa bene che «la Lega è indispensabile alla tenuta del governo »: «Ma la doppia candidatura in Veneto e Piemonte di esponenti leghisti crea problemi oggettivi». Che poi è quanto aveva già detto a Bossi due settimane fa: «Umberto, scegli». A parte il fatto che per ora il Senatùr ha scelto di non scegliere, è da vedere cosa farà Berlusconi, se e in che modo cioè il capo del Carroccio riuscirà eventualmente a strappare le due candidature, magari allettando il Cavaliere con una contropartita politica. Nel Pdl c’è comunque da risolvere il «caso Galan». E poco importa stabilire se ieri Fini ha davvero incontrato il governatore veneto o se ha avuto solo un colloquio telefonico. Il punto è che i vertici del partito dovranno dare risposte ai quesiti che Galan ha ripetuto al presidente della Camera: «Ho svolto male il mio compito da presidente della Regione? Se non è così, quali sono i motivi per cui dovrei farmi da parte? E perché devo lasciare io e non Formigoni?».
Il «cofondatore» parla di un caso «delicatissimo», anche se non crede che Galan lascerebbe il partito qualora non fosse più candidato, «penso di no, almeno me lo auguro». Così come si augura che il «caso Campania» venga risolto «con il buonsenso ». Come per il Lazio, Fini è convinto che «si troverà una soluzione all’interno del partito. E sarà indolore se si ragionerà con la logica di selezionare il nome migliore, e non in base alla provenienza». Non è indifferente dinnanzi alla polemica su Nicola Cosentino, sulle ombre giudiziarie che si addensano sul sottosegretario e che rischiano di minarne la candidatura in Campania. «Cosentino è il segretario regionale del Pdl, ed è chiaro che una decisione non può essere presa contro di lui», ha fatto sapere il presidente della Camera: «Ma lui deve capire che c’è un problema di opportunità». Come dire che sarebbe preferibile se Cosentino facesse un passo indietro, «anche se è chiaro che - visto il suo ruolo - andrà coinvolto nella scelta». Ancora una volta politica e giustizia si incrociano. E sono giorni feroci di polemiche e veleni. Raccontano che Fini abbia avuto un moto di fastidio leggendo sui giornali della presunta trattativa tra lo Stato e la mafia, e che dopo aver scorso il decalogo contenuto nel «papello», avrebbe commentato: «Manca l’undicesima richiesta, il Palermo campione d’Italia... Sono richieste folli, ammesso che sia vero il documento. Non vorrei si trattasse dell’ennesima bufala». E discutendo di giustizia con alcuni interlocutori, il ragionamento è precipitato sulle riforme. Ha sorriso quando gli hanno fatto notare che - come prima cosa Berlusconi vorrebbe riformare la par condicio: «Ma se in Parlamento non ci sono nemmeno i tempi tecnici per modificarla, di che parliamo?».
«Invece i tempi per una riforma della Carta costituzionale ci sono», ha rilanciato il presidente della Camera. Per capire le ragioni dei suoi interventi pubblici a favore di un’intesa bipartisan sulla riscrittura delle regole, basta sbirciare la bozza del libro «Il futuro della libertà» - edito da Rizzoli - che Fini presenterà in concomitanza con il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. È lì che Fini scrive come «una riforma 'a colpi di maggioranza' servirebbe solo a sancire la divisione del Paese e a rinfocolare le vecchie pulsioni alla faziosità, che sono purtroppo un passo costante del costume italiano e che riemerge frequentemente». Se da «cofondatore» del Pdl sta collaborando con Berlusconi sulle questioni di partito, da presidente della Camera si oppone all’intransigenza del Cavaliere sulle riforme, perché - sottolinea nel libro - «il cambiamento delle regole riguarda tutti, non solo una parte. Perché la Costituzione segna il perimetro della casa comune degli italiani. Perché è necessario riscoprire il patriottismo costituzionale come valore che cementa la coesione sociale non meno che quella politica ». Quella che servirebbe, secondo Fini, «è una grande stagione costituente». Roba da quadratura del cerchio.
Francesco Verderami
22 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #96 inserito:: Ottobre 24, 2009, 06:21:45 pm » |
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Quel documento anti-Tesoro sulla scrivania del Cavaliere
Il Cavaliere tende sempre a sdrammatizzare nei passaggi delicati. E se arriva a evocare Dino Grandi per allentare le tensioni con il suo ministro dell’Economia, se sorridendo cita il gerarca fascista — autore dell’ordine del giorno che segnò la fine di Mussolini — vuol dire che stavolta non è come le altre volte, che la lite con Giulio Tremonti è cosa seria.
C’è un motivo se ieri Silvio Berlusconi ha disertato il faccia a faccia con il titolare di via XX Settembre, se dalla Russia è volato fino a Milano senza atterrare nella Capitale dov’era atteso per il «chiarimento» con Tremonti. «Avevo detto che sarei tornato nella serata di venerdì senza passare da Roma. E non cambio programma », ha fatto sapere a Gianni Letta, cui è toccato inventarsi la storia della nevicata che impediva al jet del premier di decollare. In realtà il Cavaliere voleva evitare che l’incontro sancisse la rottura, perché la battuta scherzosa sul Gran Consiglio del fascismo non basta a celare l’irritazione: «Sono stanco della situazione».
Non è dato sapere se davvero abbia confidato il proprio stato d’animo direttamente a Gianfranco Fini, è certo che Letta ne ha parlato con il presidente della Camera, riferendogli lo scontento di Berlusconi. Il dettaglio svela la delicatezza del momento e segnala una novità politica rispetto al 2004, quando Tremonti fu dimissionato sotto la spinta dell’allora leader di An, nonostante il Cavaliere opponesse resistenza. D’altronde il malumore di Berlusconi era già emerso, dopo il burrascoso Consiglio dei ministri sulla Banca del Sud. «Qui non ci vengo più», si era sfogato: «D’ora in avanti lascerò che le riunioni le presieda Gianni». Non ne può più di essere solo il «primus inter pares» nel governo, che sulla linea di politica economica «nemmeno io possa dire nulla altrimenti Giulio minaccia di dimettersi », che «quotidianamente » debba dirimere le controversie tra il superministro e gli altri esponenti dell’esecutivo: «È come se non contassi nulla». Invece il premier vuol contare. La sortita sull’Irap segue imessaggi lanciati a Confindustria e l’apertura sulla riforma della previdenza, invocata dal Governatore di Bankitalia. Raccontano non l’abbia presa bene nei giorni scorsi, quando un dirigente leghista gli ha riferito una battuta di Tremonti: «Se Silvio si fa convincere da Draghi sulle pensioni, dovrà poi convincere Draghi a fare il ministro dell’Economia». Nel frattempo «Silvio» è andato avanti. Da due settimane il documento di politica economica che circolava nel Pdl, e che è rimasto senza paternità, stava sulla scrivania di Berlusconi.
E insieme ad altri appunti, frutto di riunioni riservate, sul suo tavolo c’era anche lo studio di Mario Baldassarri, critico verso la «politica inerziale» di Tremonti, sostenitore del taglio dell’Irap e di altre iniziative, «ma senza aggravio di deficit, perché su questo Giulio ha ragione». «Caro Mario, come stai? Ho letto la tua analisi, è interessante. Ci dobbiamo vedere appena torno dalla Russia ». Clic. Chissà se il ministro dell’Economia sia a conoscenza di questo colloquio, di sicuro sabato scorso non ha gradito la presenza di Claudio Scajola al vertice dei coordinatori e dei capigruppo pdl con il Cavaliere: «Che ci fa lì, quello?». Sia chiaro, Berlusconi non vuole fare a meno di Tremonti, gli chiede però maggior duttilità e collegialità, «non può accentrare tutto»: in Consiglio dei ministri non può presentarsi con le copertine dei provvedimenti su cui chiede voto favorevole a scatola chiusa, «nè può sempre dire "o così o lascio"». Invece non c’è riunione senza scontri, anche ieri in pre-consiglio gli sherpa della Presidenza hanno litigato con i colleghi dell’Economia sul provvedimento taglia-enti che cassa altri 400 milioni. Mentre Mariastella Gelmini si è sentita dire di «ripassare» per i fondi sulla riforma dell’Università, dopo che Tremonti aveva fatto un filtro preventivo persino sui risvolti non economici del disegno di legge.
«Eppoi basta con la storiella che nel governo ci sarebbe un partito della spesa opposto al partito del rigore », si è infuriata Stefania Prestigiacomo: «Semmai si dovrebbe far squadra per il partito della ripresa». Anche perché, dopo l’accordo chiuso da Tremonti con le Regioni, alcuni ministri hanno iniziato a domandarsi: «Da dove provengono quei miliardi? Ci sono quindi dei soldi nelle pieghe del bilancio? E perché tocca a lui decidere dove destinarli?». Come non bastasse, commentando l’intesa, Raffaele Fitto ha accusato Tremonti di aver concesso alle Regioni quanto avrebbe potuto concedere già sei mesi fa. È questo il clima alla vigilia del rendez-vous tra «Silvio» e «Giulio», che chiede al premier di riaffermare la bontà della linea economica e il primato del Tesoro sulle scelte. L’unica concessione del Cavaliere è stata per ora una nota di Sandro Bondi, del Pdl nessuno, nessuno si è mosso in sua difesa. Umberto Bossi, sì, ma è il capo della Lega. La situazione è pesante, Maurizio Gasparri prova a sdrammatizzare, perché «alla fine andrà tutto bene. D’altronde l’anagramma di Tremonti è Tormenti... Lo dico per scherzare, eh?». Vero, ma stavolta è Berlusconi che non scherza.
Francesco Verderami
24 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #97 inserito:: Novembre 07, 2009, 10:14:57 am » |
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IL PIANO
Il Cavaliere e le 30 bozze per riformare i processi «Tutto alla luce del sole»
Sul tavolo anche due tipi di prescrizione.
«Spiegherò personalmente al Parlamento e al Paese»
La legislatura è appena iniziata eppure sembra già il finale di partita. Perchè è chiaro che le sorti della politica sono legate al destino giudiziario di Berlusconi, e che una sentenza avversa al Cavaliere avrebbe l’effetto di una mozione di sfiducia su una stagione che dura ormai da quindici anni. Il premier è consapevole di giocarsi la sfida decisiva e pare abbia capito che per affrontarla non è più tempo di sotterfugi legislativi, di emendamenti dalla paternità incerta presentati di soppiatto in Parlamento. «Stavolta avverrà tutto alla luce del sole», così ha promesso: «Stavolta me ne farò carico personalmente, lo spiegherò al Parlamento e al Paese». Sono parole che aveva già usato nei giorni in cui stava per essere varato il lodo Alfano, e chissà se adesso terrà fede all’impegno, se si esporrà mettendo il sigillo politico sul disegno di legge a cui gli sherpa del centrodestra stanno lavorando, e che sarà pronto la prossima settimana.
Di certo a Berlusconi serve un’intesa che non può limitarsi agli alleati, ma deve coinvolgere il più possibile istituzioni e pezzi di opposizione. Perciò la trattativa si è protratta nel tempo, per questo il Cavaliere ha voluto discuterne anche (e non solo) con Casini, che ieri — durante l’incontro a palazzo Chigi — gli ha consigliato «con affetto e amicizia» di porre fine al clima di tensione con il Colle, di evitare lo scontro con Napolitano, che «è controproducente per te e ti allontana anche da me». Più chiaro di così. In ballo ci sono due tipi di prescrizione, lo spostamento di competenze a Roma per i processi che coinvolgono parlamentari, norme che hanno effetti sui giudizi tributari. Più di trenta le bozze finora elaborate, alcune prendono spunto da proposte di legge del centrosinistra, come quella presentata nella XIV legislatura da Calvi, Ayala, Brutti e Maritati, che è stata modificata dai tecnici della maggioranza fino a trasformare la prescrizione in una vera e propria estinzione dei processi. Ghedini e Bongiorno, in nome e per conto di Berlusconi e Fini si telefonano con cadenza oraria per aggiornare il testo di legge, avvisare il premier, il presidente della Camera, e anche esponenti di spicco dell’opposizione.
In ballo non c’è solo il destino del Cavaliere, anche se è lui a sentirsi «nel centro del mirino», oggetto di una manovra concentrica che per la prima volta lo colpisce sul versante economico oltre che su quello penale. Fatica a trattenersi dinnanzi alle obiezioni giuridiche degli alleati: «I processi miei sono anche processi vostri», ha urlato l’ultima volta. Fini glielo riconosce, «riconosco — dice — che Silvio è vittima di un accanimento giudiziario da quando è entrato in politica», e sta collaborando per disinnescare un conflitto che avrebbe effetti devastanti sul sistema. Chiede però che il delicato passaggio legislativo segua un corso preciso, eviti contrasti con il capo dello Stato, non confligga con la Costituzione e abbia un impatto il più limitato possibile sui cittadini.
Le tensioni tra i due alleati sull’argomento erano state messe nel conto. Non c’entrano stavolta le diversità caratteriali o le presunte strategie politiche divergenti.
Il «cofondatore» del Pdl non ha «alcun interesse» a destabilizzare Berlusconi, come ieri ha scritto il finiano Gennaro Malgieri su Libero, e poco importa se in fondo si detestano. Il presidente della Camera piuttosto è irritato per i metodi fin qui usati dagli uomini del premier, per la «logica emergenziale» — così la definisce — con cui è stata gestita l’intera vicenda, perchè già ai tempi del Lodo Alfano l’inquilino di Montecitorio invitò Berlusconi a muoversi contemporaneamente con una norma costituzionale, che intanto sarebbe andata avanti. Invece no, «ed ecco i risultati». Fini, e come lui Bossi, si è affidato a tecnici di fiducia per capire tutti i passaggi del ddl a cui sono legate le sorti del Cavaliere e della politica. Certo che gli attacchi del Giornale lo hanno messo di cattivo umore, ma non per questo ieri ha affondato il colpo nel discorso pronunciato a Pescara, al premio nazionale intitolato a Borsellino, alludendo ad alcune candidature del Pdl «inopportune» per le Regionali e all’intricata faccenda che ruota attorno alle infiltrazioni malavitose nel comune di Fondi. «Dicono sia diventato di sinistra», ha commentato ironico: «Sarà, ma legalità e giustizia sono temi di destra a cui non intendo rinunciare ».
Berlusconi sa comunque di poter contare sull’alleato e sull’opposizione «repubblicana» di Casini, che infatti ieri ha ricordato come l’Udc si astenne sul lodo Alfano: «Basta però — ha precisato — che tutto avvenga in Parlamento e alla luce del sole». Guarda caso, proprio quello che il Cavaliere ha promesso. Il resto sono schermaglie tattiche, come la minaccia di elezioni anticipate. Il primo a rendersene conto è il premier, perchè in caso di condanna le urne non sarebbero la fonte di una rinnovata giovinezza politica.
Francesco Verderami
07 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #98 inserito:: Novembre 11, 2009, 10:12:59 am » |
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Tensione per le frasi del «cofondatore» sul Pdl-caserma
Con Fini il premier evoca la slealtà.
Letta: non ci sono altre soluzioni
Vertice tra i due leader del Pdl: colloquio infuocato.
Interviene il sottosegretario alla Presidenza
ROMA - Era un vertice talmente delicato che Gianni Letta ha dovuto addirittura prepararlo. Perché lunedì il braccio destro del Cavaliere si è recato in gran segreto a Montecitorio per parlare con il presidente della Camera, e sempre lui è dovuto intervenire martedì nel passaggio più infuocato del colloquio tra Berlusconi e Fini, quando il premier — infuriato per il veto sulla prescrizione breve — è arrivato a incolpare l’alleato di «mancanza di lealtà», minacciando sfracelli in lungo e largo. E poco importa che Fini respingesse gli addebiti, siccome il premier covava ancora un forte risentimento per l’intervista televisiva del «cofondatore», per le sue battute sul Pdl ridotto a una «caserma» retta da un «monarca», per non aver pronunciato «nemmeno uno dei risultati positivi raggiunti dal governo»: «Di che caserma parla, Fini, se regolarmente ci riuniamo e discutiamo? E sarei io un monarca? O lui, piuttosto, che ai tempi di An decideva senza consultare nessuno, mettendo tutti dinanzi al fatto compiuto? E l’opera di ricostruzione in Abruzzo? E il successo della magnifica cordata di Alitalia?».
Non è dato sapere se martedì abbia rinfacciato tutto ciò al presidente della Camera, di sicuro è stato Letta a indurre Berlusconi al compromesso, «perché non c’è altra soluzione». Ed è vero che il Cavaliere vede fantasmi dappertutto, sente i cingoli della procura di Palermo, «una nuova offensiva giudiziaria contro di me e gli uomini del mio governo», con il capo della Protezione civile che a stento era riuscito a trattenere nei mesi scorsi, e che ora ha annunciato di voler andare in pensione. L’inquilino di Montecitorio ha riconosciuto a Berlusconi di esser «vittima di un accanimento», ma lo ha esortato ad accettare «l’unico accordo possibile», quello sul processo breve, che gli eviterà l’affronto dei processi Mills e Mediaset: «Così puoi andare avanti, governare. È anche nel mio interesse che tu sia forte».
Berlusconi non gli crede, ritiene che Fini stia logorando la sua immagine con quelle sortite che «ci fanno perdere consensi». Epperò «obtorto collo» — espressione del presidente della Camera — alla fine ha accettato il patto che verrà oggi presentato come disegno di legge al Senato. Si vedrà se il premier resterà fedele all’intesa o se darà retta ai «falchi», e durante l’iter parlamentare tenterà la forzatura, provando a introdurre la prescrizione breve con un emendamento. È una mossa che Letta gli sconsiglia, e alla quale Fini si opporrebbe: «Non è un problema di disponibilità personale, ma di fattibilità». C’è un ostacolo «politico», perché verrebbe messo a repentaglio l’equilibrio raggiunto riservatamente anche con il Quirinale sul processo breve, e c’è poi un ostacolo «sociale», l’impatto cioè che una simile norma avrebbe sul sistema.
Fini ha portato ad esempio il «processo Parmalat», che «con quella norma salterebbe. Immagini cosa accadrebbe se migliaia di risparmiatori, che hanno perso tutto, si vedessero cancellato il diritto alla giustizia?». «Mi pare che la Bongiorno esageri con questi effetti dirompenti», ha commentato Berlusconi riferendosi alla presidente della commissione Giustizia della Camera. «Forse è il tuo Ghedini che non li ha calcolati». Letta, come un pompiere, ha spento ogni focolaio d’incendio nelle due ore di colloquio, e ha convenuto quando Fini ha proposto a Berlusconi un’altra strategia: «Le leggine non ti mettono al riparo dagli attacchi, Silvio. Serve la politica». E allora se il «processo breve» offrirà intanto uno scudo sui casi Mills e Mediaset, la riforma della giustizia potrebbe portare con sé la reintroduzione dell’immunità parlamentare, su cui Casini è già d’accordo, in attesa che la decisione maturi nel Pd. Berlusconi ha ricomposto la giacca e la sua rabbia, e come accade sempre in questi frangenti ha offerto una battuta per stemperare la tensione: «Caro Gianfranco, ho visto che anche per il tuo libro ti sei messo con la concorrenza», ha detto alludendo al fatto che Fini non ha scelto la Mondadori per pubblicare il «Futuro della libertà». Si rivedranno al vertice per le Regionali con Bossi. Il rinvio era necessario, siccome c’è da attendere le decisioni dell’Europa, capire se D’Alema diverrà mister Pesc, prima di chiudere con le candidature. Almeno su questo Letta non ha dovuto mediare.
Francesco Verderami
11 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #99 inserito:: Novembre 13, 2009, 11:52:43 am » |
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Palazzo Chigi - Dopo la riunione di governo i chiarimenti
Lite e parole forti tra Brunetta e Tremonti
Pressing della Prestigiacomo sui fondi non dati
ROMA — Non c'era bisogno che parlasse, infatti non ha parlato. Ma l'immagine che Berlusconi ha offerto ieri in Consiglio dei ministri — lo sguardo spento, il volto sofferente, un senso di estraniamento durante tutta la riunione — rendeva l'idea del distacco del premier. Il premier aveva lasciato fuori da Palazzo Chigi i timori di quello che considera il «nuovo complotto» ordito contro di lui dalla magistratura, le tensioni familiari che «mi stanno togliendo il sonno», e l'ira verso Fini con cui si è consumato un altro strappo. Era presente, ma era come se non ci fosse, assorto fino a dare l'impressione di essersi assopito, apriva gli occhi solo quando i ministri riempivano la stanza con urla e parole grosse. Le mani sul viso o tra i capelli, solo in un'occasione ha dato voce al proprio fastidio: «Dài, rinviamo. Se c’è un problema si risolve la prossima volta».
Un problema invece andava risolto subito, perché è vero che il Consiglio aveva approvato in pochi secondi l’atteso decreto sulla riduzione delle tasse per fine anno. Il punto era che nell’esecutivo tutti pensavano si trattasse di sgravi per le imprese, del taglio degli acconti sull’Ires e soprattutto sull’Irap, balzello che Berlusconi un mese fa aveva anticipato di voler abolire. Tutto sembrava pronto, il comunicato del governo di martedì aveva preannunciato la decisione. E alcuni ministri ieri giuravano di aver letto bene il provvedimento presentato alla riunione. Invece il taglio ha riguardato l’Ire, la vecchia Irpef.
Ma allora cos’è stato votato in Consiglio? Non è chiaro se si sia trattato solo di un «misunderstandig», e se questo abbia dato origine a una commedia degli equivoci. È certo che dopo il Consiglio sono passate ore prima della nota ufficiale alla stampa. Ed è altrettanto certo che in quel lasso di tempo si è svolto un incontro riservato tra Berlusconi, Letta e Tremonti. E lì che al decreto sarebbe stata data una «registrata», e si sarebbe deciso di tagliare l’imposta sui redditi «per una ragione di giustizia e di equità sociale», come sostiene il titolare dell’Economia. Il quale ha fatto presente al premier le pressioni dei sindacati, «perché Cisl e Uil sono pronte allo sciopero generale se concedessimo sconti fiscali solo alle imprese. Invece con l’Ire ne beneficiano tutti», anche i lavoratori dipendenti che a Natale avranno più soldi in busta paga. Per l’Irap se ne riparlerà chissà quando.
Resta il resto fatto che tutti gli altri ministri avevano inteso diversamente. Chissà, forse hanno frainteso. Ma non è una novità che in Consiglio si parlino lingue diverse, e che per capirsi si ricorra a gesti e parolacce. Come è successo ieri tra Tremonti e Brunetta, che presentava un altro pezzo della riforma sulla Pubblica amministrazione. Il «professor Giulio» non ha esitato a bocciare il «professor Renato»: «Non si fa la semplificazione con una nuova regolamentazione », ha iniziato a ripetere dando sulla voce del collega. Si è scatenato il parapiglia, e per una volta Letta è intervenuto a sostegno di Tremonti. Alla fine, dopo ripetuti colpi sotto la cintura, Brunetta si è alzato e ha teso la mano al ministro dell’Economia, che non ha contraccambiato, anzi: «Non ti avvicinare, altrimenti ti prendo a calci in...».
Con la Prestigiacomo solo i toni sono stati diversi. Perché quando la titolare dell’Ambiente - dopo aver illustrato il progetto da 1.250 milioni per gli interventi a difesa del suolo - ha chiesto cinque milioni per controllare il piano di interventi con tre nuove strutture ministeriali, Tremonti si è messo di traverso: «Cara Stefania, questo modo siciliano che hai di ragionare... ». Apriti cielo, «Stefania» non ci ha visto più: «A me certe battute non le fai». Ed è scoppiata un’altra lite, che nemmeno l’intervento di Letta è riuscito a comporre. Così il decreto, che la Prestigiacomo voleva approvare prima di Natale è stato rinviato. E lei, furibonda ha lasciato il salone del Consiglio: «Me ne vado, sennò gli alzo le mani». Nemmeno Berlusconi ha salutato.
Chissà se il Cavaliere se n’è reso conto. Perché lui c’era,ma era come se non ci fosse.
Francesco Verderami
13 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #100 inserito:: Novembre 14, 2009, 10:54:22 am » |
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Berlusconi passa le notti con avvocati ed esperti di finanza
«Contro di me un sistema ostile» Crescono i sospetti del Cavaliere
Rapporti inesistenti con il Colle e il gelo con Fini
Chi è oggi Silvio Berlusconi: il dodicesimo uomo più potente della terra o il premier che in Italia si sente «ingabbiato e accerchiato da un sistema che mi è stato sempre ostile»? È una domanda che si è posto anche il Cavaliere, dopo aver scorso la classifica stilata dalla rivista Forbes sui personaggi più influenti del mondo. E la difficoltà di darsi una risposta ha amplificato in lui la percezione dello sdoppiamento. Il pessimismo con cui riempie in questi giorni i suoi ragionamenti, tracima nell’umore della cerchia più stretta, riempie di stupore misto a preoccupazione quei ministri che gli sono stati accanto in altre stagioni, altrettanto difficili, ammirandone lo spirito combattivo, la capacità di parlare al Paese e di farsi scudo con il consenso popolare. Ora che lo scudo giudiziario gli serve per non venire inghiottito dalle sentenze, misura con una dose sempre maggiore di diffidenza i suggerimenti e le promesse. Perché Giorgio Napolitano gli aveva fatto a suo dire «una promessa » ai tempi del lodo Alfano, e lo stesso - sostiene - aveva fatto Gianfranco Fini la scorsa settimana, invitandolo ad accettare la mediazione sulla legge per i processi brevi.
Con il Quirinale i rapporti sono ormai inesistenti, Gianni Letta pare addirittura aver esaurito la funzione di mediatore, e non c’è dubbio che Berlusconi ormai incontri più spesso Gheddafi del capo dello Stato. Con il presidente della Camera è saltata la consuetudine di parlarsi quotidianamente, ritrovata appena un mese fa.
I rapporti sono consumati al punto che l’altro giorno Massimo D’Alema ha chiamato Fini, chiedendogli la cortesia di non sponsorizzarlo più in pubblico per non irritare il Cavaliere, che lo sta sostenendo nella corsa all’incarico di ministro degli Esteri europeo. Se il sonno lo sorprende durante il giorno è perché passa le notti insieme ai suoi avvocati ed esperti di finanza, siccome la causa di divorzio espone l’impero berlusconiano a rischi finora non calcolati. Da quindici anni vive il conflitto con la giustizia sempre in emergenza, ma stavolta è un’emergenza diversa che deve fronteggiare. Questione di mesi. E non c’è dubbio che il disegno di legge approntato dopo un braccio di ferro con Fini gli serviva (e gli serve) per prendere tempo, per guadagnare un altro anno, perché nel centrodestra tutti mettono nel conto la ghigliottina della Corte Costituzionale se la procura di Milano nel processo Mills impugnasse il provvedimento. Lo stesso presidente della Camera teme che il ddl contenga elementi di incostituzionalità. Il problema adesso non è legato alla nuova trattativa che si sta per aprire nella maggioranza, così da modificare alcune norme del testo appena presentato al Senato. Per certi versi è secondario anche il contrasto che si è riaperto tra Berlusconi e Fini a causa della Lega, che ha ottenuto di escludere il reato di clandestinità dai processi brevi, facendo saltare i nervi all’inquilino di Montecitorio.
Il rischio è che la legge salti prima di veder la luce sulla Gazzetta ufficiale per il veto del Quirinale, lasciando senza scudo il premier. Ecco il punto. Da due giorni i berlusconiani danno voce ai sospetti di un Cavaliere senza voce, si chiedono maliziosamente quale sia stato allora il ruolo del presidente della Camera sul provvedimento nel rapporto con il Colle, e con quali obiettivi. A Montecitorio contemporaneamente si attende di capire se Berlusconi davvero intenda forzare la mano, magari con l’obiettivo di provocare l’incidente e far precipitare la legislatura. Ma a parte il fatto che la via per le elezioni è impervia, quali costi sarebbe pronto a pagare il premier per arrivarci? Eppoi il risultato non sarebbe affatto scontato, non a caso Fedele Confalonieri - l’amico di «Silvio» da una vita - ogni volta che si affronta l’argomento cita il caso francese di Jacques Chirac, «che andò alle urne certo di vincere e fu costretto poi alla coabitazione con il socialista Lionel Jospin». Tutto vero, ma il tempo stringe e il Cavaliere si sente sempre più solo.
Il modo in cui ieri Pier Ferdinando Casini ha bocciato il ddl sui processi brevi - definito «una porcheria» - e ha proposto in cambio la strada del «lodo» costituzionale, non risolve il problema immediato. Perché in prospettiva l’idea piace ai berlusconiani, più dell’immunità parlamentare, però diverrebbe legge a processi già chiusi per il premier. Ieri il leader dei centristi si è sentito al telefono con il Guardasigilli, che aveva dato il proprio nome al «lodo» e dopo la bocciatura della Consulta aveva commentato: «Finiranno per rimpiangerlo». Chissà se anche ad Angelino Alfano, Casini ha spiegato il motivo della sua mossa sul ddl: «È una partita tra Berlusconi e Fini. Se la sbrigassero loro». Un altro indizio che porta Berlusconi a essere pessimista: teme la manovra di accerchiamento, e accecato dall’ira si rifiuta di ammettere i propri errori nella partita. Ritiene che tutti vogliano riformare la giustizia, «ma dopo». Dopo di lui, il dodicesimo uomo più potente della terra che in Italia si sente «ingabbiato dal sistema» .
Francesco Verderami
14 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #101 inserito:: Novembre 17, 2009, 10:41:47 am » |
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Il retroscena
Elezioni e carta a sorpresa del premier
Un emendamento sul processo breve per aprire la crisi
Se persino Gianni Letta arriva a dire che «non si può escludere nulla», allora davvero Berlusconi sta valutando tutte le opzioni, compresa quella del voto anticipato. Obiettivo già difficile da raggiungere e dall’esito tutt’altro che scontato. Ma c’è un motivo se il braccio destro del premier non se la sente di scartare alcuna ipotesi, perché è vero che in passato ha vissuto molti altri momenti drammatici al fianco del Cavaliere, «ma in tanti anni non l’ho mai visto così». L’accerchiamento ha portato Berlusconi a isolarsi, tuttavia non c’entra l’umor nero verso Fini, «che ormai si è fatto tutti i programmi televisivi di sinistra ».
È piuttosto l’assenza di una strategia che lo porta a questa scelta mediatica, e che rimanda a un solo precedente: la vigilia del predellino. Allora come oggi stava nell’angolo. Oggi come allora, se resta in silenzio è perché non ha ancora preso una decisione. L’idea delle urne — suggeritagli da Cossiga e ipotizzata da due fedelissimi come Quagliariello e Valducci — è nel novero delle possibilità, per quanto remota. A parte l’altolà del presidente della Camera, che ha evocato la scissione del Pdl, sarebbe complicato arrivare al voto. Per riuscirci servirebbe una crisi parlamentare, «un incidente», e non certo sulla Finanziaria ma sulla giustizia. Al momento il nodo che divide la maggioranza sul «processo breve» è il reato di immigrazione clandestina. L’intesa appare nell’ordine delle cose. Se però Berlusconi decidesse di far precipitare tutto, la forzatura — secondo i finiani — si verificherebbe con un emendamento su un tema ben più spinoso: la «prescrizione breve», considerata dal presidente della Camera «inaccettabile» e che invece ieri Ferrara ha definito sul Foglio un «fondamento del diritto alla difesa ». D’altronde è noto che la legge sul «processo breve» lascerebbe ugualmente esposto il Cavaliere alle intemperie delle procure.
Il fatto poi che da Fini a Rutelli, passando per Casini, gli giunga l’esortazione ad andare «comunque avanti» anche «in caso di condanna», insospettisce il premier. Perché sarebbe difficile «andare avanti» se a gennaio fosse raggiunto da un avviso di garanzia dalla procura di Palermo, come raccontano insistentemente voci di Palazzo. E guarda caso il «timing» per andare alle Politiche il 28 marzo, insieme alle Regionali, scatterebbe proprio tra metà gennaio e gli inizi di febbraio. Il punto è che la decisione di sciogliere le Camere è «prerogativa del capo dello Stato», come a più riprese ha ripetuto l’inquilino di Montecitorio. Un modo per dire che — aperta la crisi di governo — Berlusconi dovrebbe lasciare il pallino del gioco al Quirinale. Il Cavaliere correrebbe il rischio? Ed è certo che gli alleati lo seguirebbero? La posizione contraria del presidente della Camera è nota, ma anche Bossi — il giorno in cui la Consulta bocciò il «lodo Alfano » — uscì da un colloquio con Fini e disse: «Niente elezioni. Avanti con le riforme». La Lega oggi sarebbe disposta a cambiare posizione? Basterebbero Veneto e Piemonte a compensare la perdita del federalismo fiscale? È una variabile di non poco conto. Allora, sarà pure un bluff quello di Casini, secondo cui «se cade il governo un’altra maggioranza in Parlamento si forma in un minuto». Ed è certo che la prospettiva elettorale atterrisce Pd e Udc, così com’è certo che Fini non si presterà a fare il Dini, perché la sua storia sta dentro l’accusa lanciata contro «i puttani della politica», che consentivano al centrosinistra di formare governi diversi da quelli voluti dagli elettori.
Ma le forche caudine della Costituzione potrebbero trasformare l’eventuale progetto del premier in una disfatta. Anche ammesso che riuscisse nell’intento, è chiaro che al voto si arriverebbe attraverso un passaggio traumatico, e che Berlusconi non potrebbe ripresentarsi agli elettori con la stessa squadra e lo stesso schema di alleanze. Oltre al fatto che è impossibile valutare quale peso avrebbe nelle urne un’ipotetica sentenza di condanna per un Cavaliere senza «scudo giudiziario», nulla garantirebbe il successo al centrodestra. È vero che per ora tutti gli analisti lo pronosticano, ma ieri proprio la Ghisleri — sondaggista di fiducia di Berlusconi — ha detto che un tale scenario viene valutato «a bocce ferme», perché andrà prima capito «cosa faranno Rutelli, l’Udc e la sinistra», ammettendo che «il quadro politico potrebbe presentare alcune differenze rispetto al 2008». C’è una grande differenza tra l’immagine fissata in un fotogramma e un film di cui non si conosce il finale. Di certo nelle analisi di Euromedia research per il premier sarà stato evidenziato ciò che alcuni ministri sussurrano, e cioè che il centrodestra — con gli stessi voti del 2008 — perderebbe il Senato qualora l’Udc si alleasse al Pd. Come non bastasse, lo scontro nella maggioranza sulla giustizia sta producendo danni. I sondaggi che Ipsos ha appena sfornato per i Democratici raccontano che in una settimana il giudizio sull’operato del governo è calato di un punto, al 55,3%. E soprattutto che nelle intenzioni di voto per la prima volta si è ridotta la forbice tra il Pdl (sceso al 38,7%) e il Pd (salito oltre quota 31). È un segnale d’allarme per il Cavaliere silenzioso.
Francesco Verderami
17 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #102 inserito:: Novembre 18, 2009, 04:34:07 pm » |
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IL RETROSCENA
Il premier: verrebbe voglia di dimettersi
Lo sfogo: «Messa quotidianamente alla berlina l’immagine del presidente del Consiglio»
ROMA - «Verrebbe voglia di dimettersi», e ieri mentre lo diceva Berlusconi si svestiva del sorriso con cui aveva appena salutato Erdogan per indossare una smorfia di disgusto. Era imbarazzato per quei rumori di protesta saliti dalla strada che avevano accompagnato il pranzo a palazzo Chigi con il primo ministro turco, per quella voce amplificata dal megafono che si era accomodata a tavola tra loro, e che lui aveva riconosciuto: la voce di Di Pietro. Il «senso di vergogna» che ha confidato di provare era un misto di indignazione per l’ospitalità violata e per veder «messa quotidianamente alla berlina l’immagine del presidente del Consiglio». In quella scena che il Cavaliere ha visto rappresentata l’azione di accerchiamento di cui si sente vittima. «Non basta il consenso popolare», ha commentato. È vero che in altre stagioni aveva già sfidato quel sistema ritenuto «ostile». Oggi però è alle prese con il tornante più difficile della sua carriera politica, imprenditoriale e soprattutto personale. Non ci sono più alleati e tanto meno amici, se ha scelto l’isolamento è anche per verificare come agiranno gli avversari.
Il silenzio del premier è riempito dalle parole altrui, e nella maggioranza si assiste a un’escalation dello scontro, quasi fosse un’anticipazione di quanto accadrà «dopo» Berlusconi. Chissà se è anche questo che il premier vuole dimostrare, è certo che da ieri si è superato persino il limite del conflitto istituzionale. Perché ormai i presidenti delle Camere hanno assunto un ruolo politico: l’ha fatto prima Fini, ora lo fa Schifani, che in aperto ed evidente contrasto con il collega di Montecitorio ricorda come senza una maggioranza compatta è necessario tornare al corpo elettorale. Il nodo era e resta lo scudo giudiziario per il Cavaliere, attorno a questo nel Pdl si è aperto un braccio di ferro dalle conseguenze al momento inimmaginabili, se il problema non venisse risolto. Ma a forza di giocare al rilancio tutti hanno smarrito il controllo della situazione che ora rischia di diventare ingovernabile. Le comunicazioni ai vertici sono interrotte, resta Gianni Letta a far da tramite. E ieri sera il telefono del sottosegretario alla presidenza è squillato di continuo.
Perché Berlusconi non poteva non sapere cosa avrebbe detto nel pomeriggio il presidente del Senato, un’esternazione che Fini ha interpretato come una sfida. E il titolare della Camera vuole capire cosa intende davvero fare il premier: «Se non vuole le elezioni si può aggiustare tutto, altrimenti si sfascia tutto». Ci sarà un motivo se Letta si è affannato a spiegare ai suoi interlocutori che «Berlusconi non vuole il voto anticipato», frase però dalla doppia interpretazione: non voler andare alle urne potrebbe anche significare che il premier ne farebbe a meno, ma che non le esclude. Fosse il braccio destro del Cavaliere a dover decidere, lui le escluderebbe: «Il voto sarebbe un errore. Eppoi c’e il Quirinale che lo impedirebbe». Proprio per questo Fini ritiene quella minaccia un’arma scarica, a meno che la Lega non si schierasse con il premier. Matteoli, una vita a fare il pompiere anche dentro An, teme disastri: «La ripresina dopo la crisi economica deve indurre tutti al senso di responsabilità. Il voto sarebbe un dramma per il Paese. Così come sarebbe drammatico se al premier non fosse consentito di governare. Perciò sulla giustizia va trovata una soluzione politica ». Manca la voce di Bossi, che ha convocato per venerdì un vertice del partito. Un solo punto all’ordine del giorno: «Comunicazioni del segretario». Il Carroccio non mostra le sue carte, e ieri Maroni al Tg1 le ha volutamente tenute coperte. «Noi siamo impegnati a fare le riforme... », ha esordito il ministro dell’Interno, «... ma le riforme che vogliamo, richiedono una maggioranza coesa». Nulla oggi è più certo dell’incertezza.
Francesco Verderami
18 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #103 inserito:: Dicembre 07, 2009, 04:03:24 pm » |
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Ricostruzioni
Il Cavaliere e l’assedio «partito dopo il 25 aprile»
Lo sfogo: ero troppo forte nel Paese e cominciò la macchinazione
C'è un motivo se nel giorno in cui Gaspare Spatuzza lo affilia alla mafia, il premier avvia i preparativi per trascorrere a Onna la notte di Natale. È nell’Abruzzo terremotato che tenterà di riprendersi l’onore, tra le macerie e i segni della ricostruzione, metafora della parabola berlusconiana dal 25 aprile ad oggi. Cos’è rimasto infatti del «partigiano Silvio»? Dov’è finito il Cavaliere che nell’anniversario della Liberazione riceveva in dono il fazzoletto dell’Anpi e nei sondaggi sfiorava il 70% dei consensi?
È in quel periodo che, secondo il premier, «è partita contro di me la macchinazione »: «Ero troppo forte nel Paese », e per la prima volta anche nel Palazzo. Più volte il Cavaliere ha raccontato la sua verità per quanto è accaduto a cavallo tra la primavera e l’estate scorsa. Non ha mai ammesso colpe negli scandali sui festini e le donnine, tantomeno nelle vicende giudiziarie che l’hanno di nuovo coinvolto con il caso Mills. Ma non c’è dubbio — come racconta Nando Pagnoncelli — che «da quel momento è stato sottoposto a una serie di attacchi che nulla hanno a che vedere con l’azione di governo». E scorrendo i sondaggi come fosse un film, il patron di Ipsos rileva infatti che «da allora è tutto sommato stabile l’opinione dei cittadini sull’esecutivo, mentre è calato il gradimento del presidente del Consiglio. Nella memoria collettiva è rimasto poco del Berlusconi del 25 aprile».
È da vedere se la voce senza volto del mafioso sanguinario avrà dei riflessi sul consenso elettorale, piuttosto sono le ricadute politiche, anzitutto quelle internazionali, a tenere in allarme il Cavaliere. Perché ha ragione Francesco Cossiga quando sostiene che «non è importante se Spatuzza ha detto o meno il vero. Il fatto grave è quel che ha detto, e l’impatto che provocherà nelle cancellerie di tutto il mondo». Già l’altro ieri, vigilia della deposizione a Torino del pentito, l’ Economist chiedeva le dimissioni di Berlusconi. Raccontano che l’articolo abbia suscitato l’ironia indignata di Fedele Confalonieri, secondo il quale «le analisi di quel giornale dall’Italia sono gracili, sebbene la lettura dell’ Economist resti utile per conoscere vocaboli inglesi nuovi».
Ma anche il presidente del Biscione — che difende a spada tratta l’amico dalle «accuse folli» di essere il mandante di una strategia stragista — si rende conto del problema. Il primo a rendersene conto è Berlusconi, costretto anche ieri a spendere parte del suo tempo e dei suoi averi per difendersi. «Il presidente non può rispondere al telefono, è impegnato con gli avvocati». Per ore ha dovuto sopportare il loro bla-bla-bla, «non vedo l’ora che finisca per andare a cena con il mio amico Tarek Ben Ammar». Quanto sia frastornato e seccato, lo si intuisce dalla battuta fatta nei giorni scorsi. Quel «me ne andrei a Panama» ricorda tanto la frase con cui nel 2004 licenziò gli alleati che chiesero e ottennero la crisi di governo e il Berlusconi- bis: «Quasi quasi me ne vado alle Bahamas. E siccome sono una persona educata, vi manderò una cartolina».
A Natale invece sarà a Onna, e nel frattempo continuerà a inaugurare fiere, tagliare nastri, cercando così di parlare senza dire nulla a un Paese che comunque è «disorientato » per l’ultima accusa rivolta al premier. Il Cavaliere ieri ha valutato anche l’ipotesi di rivolgersi con un messaggio alla nazione, ma ha soppesato anche le controindicazioni. Che sono tante: negare collusioni con la mafia sarebbe un’ovvietà e avrebbe il valore di una smentita, che in fondo è una notizia data due volte. Il tutto mentre la crisi economica è in atto, e c’è il rischio che l’opinione pubblica lo veda impegnato a risolvere solo i suoi problemi personali. Fu l’immagine di Berlusconi che il Paese percepì tra il 2001 e il 2004, e il Cavaliere non ha dimenticato l’aggressione con il cavalletto a piazza Navona.
Con il ritorno a Onna la notte di Natale proverà a liberarsi dal fardello che gli pesa, dal probabile «regalo» di un avviso di garanzia che certo provocherebbe ripercussioni politiche, anche se si tratterebbe di un atto dovuto. Presentandosi in Abruzzo Berlusconi vorrà rammentare, non solo all’Italia, che quello è il luogo dove portò i Grandi della Terra, e che resta senza dubbio il suo più importante successo da presidente del Consiglio. Tuttavia è passato molto tempo dal 25 aprile, ed è difficile sapere se la ricostruzione delle zone terremotate consentirà al Cavaliere di ricostruire anche la sua immagine, se mai — come dice Pagnoncelli — «Berlusconi tornerà ad avere quel profilo da statista che si era conquistato anche con il discorso di fiducia alle Camere, o se resterà invece il leader che divide», l’uomo del muro contro muro, da ieri inseguito da un’accusa «infamante».
Francesco Verderami
05 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #104 inserito:: Febbraio 23, 2010, 02:54:18 pm » |
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Il retroscena
Ma per il premier c'è prima la giustizia
Nuovo fronte con il cofondatore
Il presidente della Camera irrita Berlusconi, la strategia resta opposta.
Bondi: rimuovere macigno della giustizia
ROMA - Non devono essersi capiti. E l’ennesima incomprensione rischia di aprire una nuova e pericolosa conflittualità tra Berlusconi e Fini. Perché l’ultima volta che si sono trovati a discuterne, i cofondatori del Pdl hanno convenuto sulla necessità di aprire una «fase costituente» dopo le Regionali, così come ha detto ieri il presidente della Camera e come a più riprese ha annunciato il presidente del Consiglio. Peccato che i due siano divisi sulla strategia da adottare. E il loro ultimo colloquio ha misurato la distanza che li separa. In quell’occasione il presidente della Camera aveva invitato il premier a iniziare la stagione delle riforme dai temi sui quali sarebbe più facile trovare l’intesa con le forze di opposizione: da un clima di confronto - a suo dire - non solo ne trarrebbe beneficio il governo, che avrebbe garantita una navigazione meno perigliosa in Parlamento, ma si aprirebbe anche la strada a un’intesa bipartisan sul nodo più spinoso, la giustizia. Il Cavaliere aveva rigettato la tesi, convinto invece che sulle riforme si debba partire proprio dalla giustizia, e non solo per ristabilire subito i confini costituzionali tra il potere politico e la magistratura, ma anche perché - memore di quanto accaduto in Bicamerale - non si fida delle promesse della sinistra.
Insomma, non devono essersi capiti. O forse ieri Fini ha voluto far capire per tempo a Berlusconi che su questo punto è intenzionato a far valere le proprie ragioni, quando verrà il momento. Ed è vero che da trent’anni la retorica delle riforme riempie i volumi degli atti parlamentari, che ogni legislatura è segnata dai buoni propositi di maggioranza e opposizione, ma - così come in passato - la sola evocazione del tema rischia di compromettere gli equilibri politici. Così è bastato che ieri la terza carica dello Stato auspicasse «subito dopo le Regionali » l’avvio di un confronto sui temi che registrano «larga condivisione», per provocare l’aumento del moto ondoso nel Pdl. Fini ha ripetuto in pubblico quanto aveva detto al premier in privato: «Cominciamo dalla riforma delle Camere, che comporta anche la riduzione del numero dei parlamentari », per passare poi alla revisione dei poteri del presidente del Consiglio. La giustizia in coda. Ecco, proprio l’esatto contrario di quello che vuole fare il Cavaliere. Lo dice senza mezzi termini Bondi, che certo spera dopo le elezioni in un «confronto positivo con il Pd, così come ha sempre desiderato Berlusconi. Ma», appunto, «ma è indispensabile sciogliere subito il nodo della giustizia ». Il fedelissimo del Cavaliere ne fa una questione pregiudiziale, «è fondamentale » avvisa, siccome «il sistema è inchiodato da quasi venti anni su questo problema, a causa di quella parte politicizzata della magistratura che condiziona la politica, provocando uno scontro permanente».
Bondi è il pennino del sismografo berlusconiano, ed è evidente che le parole di Fini abbiano fatto registrare una scossa a palazzo Chigi. È all’inquilino di Montecitorio che il ministro dei Beni culturali infatti si rivolge, quando sottolinea che «se non si togliesse il macigno della giustizia dal sentiero, il rischio sarebbe quello di affidare al vento tutti i buoni propositi, e al contempo di infastidire i cittadini, stanchi di sentir parlare a vuoto di riforme». Bondi espone la linea del premier, irritato per la sortita del presidente della Camera, ma intenzionato a non aprire questo fronte alla vigilia delle urne. Sarà il risultato delle Regionali a dettare di fatto l’agenda di governo e delle riforme, e da unmese i sondaggi segnalano un trend negativo per il Pdl, che nei report riservati di Ipsos è sceso dal 37,8% al 36,4%, a fronte di un’avanzata della Lega ben oltre il 10%, e con il Pd che viene valutato al 29,8%. Perciò Berlusconi preferisce glissare, affidando ad altri il proprio verbo. Non è un caso se dieci giorni fa il Guardasigilli ha annunciato la presentazione della riforma costituzionale della giustizia «al primo Consiglio dei ministri dopo le elezioni». Se il titolare della Farnesina, Frattini, ha rilanciato a ruota il tema del «presidenzialismo » che sembrava accantonato, se ieri un altro «azzurro», Valducci, ne ha fatto cenno replicando a Fini: «Ben vengano le riforme condivise, ma non saremo ostaggio dei veti».
I «cofondatori» del Pdl non devono essersi capiti, o forse ieri il presidente della Camera ha fatto capire quel che il ministro Rotondi rivela candidamente, e cioè che «le agende di Fini e Berlusconi sulle riforme sono inconciliabili. Basti pensare che il primo sulla legge elettorale vorrebbe tornare ai collegi uninominali, mentre il secondo vorrebbe blindare e santificare il modello attuale. La verità è che ognuno canta il proprio spartito, e se si mettessero a farlo in pubblico si rischierebbe di sentire un coro stonato». Non è dato sapere se riusciranno ad accordarsi, è certo che nel Pdl non è il momento di verificarlo, almeno così la pensa La Russa, che si traveste da capo della protezione civile di partito e si adopera per puntellare l’edificio: «Fini è presidente della Camera - minimizza il coordinatore in quota An - e nel suo ruolo istituzionale non poteva che appellarsi alle riforme condivise per far partire il dialogo. Va bene così?». Se va bene a Berlusconi...
Francesco Verderami
23 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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