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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 134154 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:53:35 am »

Il retroscena

Il patto Fini-Bossi per evitare le urne

L'ipotesi dell'intervento con procedura d'urgenza sulla riforma penale per ritardare i processi


È accaduto poco prima che la sentenza sul Lodo Alfano provocasse il sisma, prima che d’un colpo il Quirinale, la Consulta e palazzo Chigi finissero inghiottiti nella voragine. E non è un caso se l’incontro tra Fini e Bossi a Montecitorio ha preceduto il terremoto, la loro intesa è servita per mettere in sicurezza il centrodestra, per arginare la controffensiva di Berlusconi e porre un confine invalicabile: il voto anticipato.

Così è nato l’accordo tra il «cofondato­re » del Pdl e il capo del Carroccio, al qua­le Fini ha garantito il proprio benestare per una candidatura leghista in Veneto al­le Regionali, ricevendo in cambio un pat­to di consultazione permanente e la ga­ranzia che «d’ora in poi quando si dovrà discutere lo faremo in tre». E sarà infatti dopo un incontro a tre che verrà ufficia­lizzato il patto sul governatore leghista nel Nord-est.

Ecco la svolta, l’idea di un ponte proiet­tato verso il futuro, la garanzia che l’alle­anza Pdl-Lega resisterà anche al cambio degli uomini e delle stagioni. L’accordo non mira a dimezzare il Cavaliere, per­ché è evidente che il centrodestra sia an­cora oggi a forte trazione berlusconiana. Bossi l’ha sottolineato, dichiarando pub­blicamente la propria fedeltà all’alleato, ma scartando le elezioni anticipate che bloccherebbero l’iter della riforma fede­ralista: «E senza quella riforma scoppia la guerra». Siccome il Senatùr sapeva che la Consulta avrebbe bocciato lo scu­do giudiziario, poco prima che accadesse ha trasformato le Regionali in un «refe­rendum » sul presidente del Consiglio.

Il punto è: come arriverebbe Berlusco­ni a quell’appuntamento? Il Cavaliere sa che — al momento — la strada delle ele­zioni gli è preclusa, per questo non le evo­ca. Ma il logoramento a cui è sottoposto rischia di schiantarlo, di non farlo arriva­re in sella al «referendum» di primavera: la sentenza civile sul lodo Mondadori è un cavallo di Troia che di fatto anticipa la sentenza penale sul caso Mills, e ora che la Consulta ha bocciato il lodo Alfano, il premier è esposto anche al processo sui diritti tv, che potrebbe portare all’interdi­zione dai pubblici uffici. Berlusconi ieri non usava il condizionale nei suoi collo­qui con ministri e dirigenti del Pdl: «Le sentenze contro di me sono già scritte».

Se così fosse sarebbe difficilissimo resi­stere a palazzo Chigi, «già me li vedo quel­li della sinistra che disertano le sedute in Parlamento, chiedendo le mia testa pri­ma di tornare in Aula». Perciò serve un meccanismo legislativo che blocchi quei processi, che li prolunghi nel tempo. I tec­nici sono già all’opera e non si esclude che alcune norme contenute nel ddl di ri­forma del processo penale — fermo al Se­nato — possano essere varate anche con procedura d’urgenza. È la prova-fedeltà che il Cavaliere chiede agli alleati, «serve maggiore unità e massima compattezza» ha detto a Bossi che ieri è andato a trovar­lo alla vigilia del terremoto.

Fini invece gli aveva parlato per telefo­no, intrecciando sentimenti di personale «solidarietà», a ragionamenti politici condivisi con il Senatùr nel colloquio a Montecitorio. «Andiamo avanti», aveva concluso il presidente della Camera: «E mi raccomando, Silvio. Usa toni pacati nel commentare la sentenza». Le ultime parole famose: «Evidentemente — ha commentato Fini dopo l’attacco di Berlu­sconi a Napolitano — ha scelto un’altra strada rispetto a quella che gli avevo con­sigliato » .

Il «cofondatore» del Pdl può essere ri­masto sorpreso, ma fino a un certo pun­to. Doveva ricordare cosa aveva detto il premier alla vigilia: «A sentenza politica risponderò politicamente». E dunque era scontato che il Cavaliere avrebbe in­nescato con fredda lucidità quello che lo stesso Fini definisce un «conflitto istitu­zionale ». Il fatto è che ieri, in un sol col­po, la Corte Costituzionale ha azzoppato il premier ma ha anche colpito il presi­dente della Repubblica, «perché lui — se­condo Berlusconi — aveva promulgato la legge. E quello non è un semplice atto formale».

Il conflitto serve al Cavaliere per chia­mare alla prova di fedeltà gli alleati nel tornante più delicato della storia politica repubblicana. L’Mpa gli ha subito offerto la propria solidarietà, il repubblicano Nu­cara l’aveva anticipato ieri mattino in Au­la alla Camera, prima della sentenza, «a nome del Pri». Ora però Berlusconi pre­senta il conto: è d’accordo ad «andare avanti», come gli chiedono Fini e Bossi, «ma non intendo restare a guardare men­tre cercano di farmi fuori». Perciò chiede di seguirlo, in una battaglia che si prean­nuncia durissima. Ma che rischia di ini­ziare fuori tempo massimo. Berlusconi ne è consapevole: «Abbiamo perso un an­no e mezzo», ha urlato ieri. Un anno e mezzo in cui ha accantonato il progetto di rifondare la giustizia, ha bloccato la legge sulle intercettazioni, e ha accettato «il compromesso» con il Quirinale.

Ecco cosa significava quel «mi sento preso in giro», sibilato ai cronisti. Era Na­politano il bersaglio, ma c’era anche Gianni Letta, l’uomo delle mediazioni con il Colle, il braccio destro delle cui strategie si fidava. Così è chiaro il moti­vo dello scontro con il sottosegretario al­la presidenza del Consiglio, al quale nei giorni scorsi — vedendo approssimarsi la bocciatura del lodo Alfano — si sareb­be rivolto a muso duro: «Tutto mi sarei aspettato, tranne che essere deluso da te».

E allora basta con gli infingimenti, «Napolitano avrebbe dovuto garantire». Siccome non è andata in questo modo, che guerra sia. Ieri pomeriggio nell’ inner circle berlusconiano si ipotizzava la stra­tegia d’attacco con il varo di una leggina: nel caso in cui il Quirinale dovesse riget­tarla, si tornerebbe in Parlamento per un nuovo voto, magari anticipato da una manifestazione di piazza. Erano queste le «armi radioattive» che il Guardasigilli — prodigandosi con il Lodo — sperava non si dovessero mai usare?

Il conflitto era nell’aria, ma c’è una no­vità rispetto al passato, perché stavolta il Cavaliere intende sfruttare la forza del consenso per scagliarla contro il Palazzo delle istituzioni, che è fragile dopo la sen­tenza di ieri. Come se non bastasse, l’op­posizione è debolissima e divisa, e il Pd — in questa battaglia — rischia l’Opa di Di Pietro. Resta da capire se e fino a che punto Bossi e Fini — pur di evitare le ele­zioni — asseconderanno il premier. Per­ché stavolta non si tratterà di mediare sulle candidature alle Regionali o sul pro­gramma di governo. Stavolta l’alleanza avrà un prezzo altissimo. Alla vigilia del­la battaglia decisiva Berlusconi ha inizia­to la conta tra chi starà con lui e chi starà contro di lui. Perché lui rischia tutto.

Francesco Verderami

08 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #91 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:02:35 pm »

E ai suoi chiede di abolire la legge sulla par condicio prima delle Regionali

Berlusconi e il giorno dei sospetti: se chiedo le urne mi danno un Dini-bis

Il retroscena: primi dubbi sull'attacco frontale a Napolitano. «Ma Fini ha esagerato»



ROMA — Silvio Berlusconi si sente davvero un Cavaliere dimezzato, perché malgrado go­da di un forte consenso popolare, «se oggi chiedessi le elezioni, invece delle urne avrei in cambio un Dini-bis». E se chiede — come ha fatto ieri — di modificare una legge, «voglio l’abolizione della par condicio prima delle Re­gionali », è costretto a constatare che «in Parla­mento non ci sono più i tempi per modificare la legge in tempo», come gli ha spiegato il vice­capogruppo alla Camera, Italo Bocchino.

Il sen­so d’impotenza che lo tormenta è pari alla con­sapevolezza di aver sbagliato nell’attaccare frontalmente Giorgio Napolitano. Certo fatica a riconoscerlo, e lo ha irritato il modo in cui Fini l’ha bacchettato con una nota, invitando­lo «al suo preciso dovere costituzionale»: «Gianfranco ha esagerato». Però sotto sotto forse conviene con il presidente della Camera, secondo il quale «Silvio non ha tutti i torti a lamentarsi» per la sentenza della Consulta sul lodo Alfano, «ma la reazione è stata eccessiva, perché tirando in ballo il capo dello Stato si è messo dalla parte del torto». Il fatto è che il Cavaliere si sente stretto in una morsa, e c’è tutto il suo disappunto nella frase pronunciata davanti all’ufficio politico del Pdl: «Un premier eletto dal popolo va ri­spettato ».

È come volesse spezzare le catene senza riuscirci. Osserva le mosse degli alleati con sospetto. Non accetta di subire il gioco di chi assiste al suo indebolimento in attesa di spartirsi il patrimonio politico che ha costrui­to. Mai convegno è stato metafora del tempo, come quello che l’Aspen ha organizzato ieri, con casuale coincidenza: «Costruire il dopo e rinnovare la leadership del Paese» era il titolo dell’incontro a porte chiuse, al quale ha parte­cipato anche Gianni Letta, che — racconta l’agenzia Dire — se n’è andato prima delle con­clusioni. «Vado via», ha detto a Giulio Tremon­ti e a Massimo D’Alema: «Devo andare al lavo­ro, altrimenti rischiamo che il dopo arrivi pri­ma » .

È questo movimentismo che spinge Berlu­sconi alla reazione e che ieri mattina l’ha indot­to ad attaccare nuovamente Napolitano dai mi­crofoni del Gr1. Lo scontro istituzionale è solo sopito, non si è concluso, lo intuisce Fini quan­do nei suoi colloqui riservati continua a prono­sticare il prosieguo naturale della legislatura, ma non esclude del tutto soluzioni traumati­che: «Perché a forza di tirar la corda, c’è il ri­schio poi che la corda si spezzi». L’incontro sul Colle delle tre più alte cariche istituzionali testimonia il clima, se è vero che il presidente del Senato — a fronte dell’irrita­zione del capo dello Stato per «le offese ricevu­te » da Berlusconi — ha prima chiesto che al premier venisse riconosciuta un’attenuante «per il suo stato d’animo», poi ha fatto a bran­delli la Consulta per la sentenza sul lodo Alfa­no, per quel richiamo all’articolo 138 della Car­ta, «ché se c’era bisogno di una legge costitu­zionale, avrebbe dovuto eccepirlo già nel 2004». La nota che viene diramata al termine dell’appuntamento, è frutto di un lungo brac­cio di ferro, ed evidenzia punti di vista profon­damente diversi. C’è in un passaggio — chie­sto da Renato Schifani — il riferimento alla «volontà del corpo elettorale»: segna una svol­ta, perché riconosce un mutamento nella Co­stituzione materiale, e non c’è dubbio che si tratti di un punto a favore di Berlusconi. È una scossa di assestamento dopo il terre­moto di mercoledì sera, che ha tenuto l’inquili­no di Montecitorio al telefono fino a notte fon­da, con un Napolitano furibondo e intenziona­to a convocare il vertice con i presidenti delle Camere per il giorno seguente, così da farsi scudo dinnanzi agli attacchi. Da come si è con­cluso l’incontro si capisce che lo sciame sismi­co proseguirà. Perché a Berlusconi non basta, non può bastare, un riconoscimento su un co­municato. Però fatica a dispiegare la forza poli­tica che ha ricevuto dagli elettori e che — a suo dire — s’impantana nelle trattative tra alle­ati e nei «giochi di Palazzo».

Ecco perché spin­ge il coordinatore del Pdl Sandro Bondi a repli­care con durezza alla nota di Fini della mattina­ta: «Il presidente della Camera — sostiene il ministro — appare incapace di comprendere la sostanza dei problemi storici e politici che stiamo vivendo da oltre un decennio». Tradu­zione: Berlusconi dal ’94 è vittima degli attac­chi portati da apparati dello Stato e da pezzi di magistratura militante. Se è vero che per le elezioni oggi non c’è spa­zio, allora per rompere l’assedio e verificare «la lealtà» di Fini, Berlusconi punta a usare la riforma della giustizia che ha tenuto ferma per un anno e mezzo, in nome del «compromes­so » che era stato raggiunto con il Colle. A suo tempo il Cavaliere aveva dovuto frenare il Guardasigilli e smentire se stesso, quando — nei giorni dell’intesa con Umberto Bossi sul fe­deralismo fiscale — aveva detto che «le due riforme marceranno di pari passo». «È ora di muoversi. Vedremo chi ci sta e chi non ci sta». Se così fosse, sarebbe inevitabile una nuova scossa con la magistratura e probabilmente an­che con il Quirinale. Perché magari Berlusconi non attaccherà più Napolitano con i toni del­l’altro ieri, ma vorrà far pesare la forza del con­senso. Difficile dire se ci riuscirà, se gli alleati glielo consentiranno. Una cosa è certa: anche questa legislatura passerà senza riforme condi­vise.

Francesco Verderami

09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #92 inserito:: Ottobre 10, 2009, 04:23:32 pm »

Settegiorni

Il Cavaliere con Casini.

E nel Pdl il 56% dice sì al matrimonio d’interessi

Il leader udc al premier: parliamone dopo il congresso pd


Lo fa per necessità, non per scelta, perché già a suo tempo Berlusconi aveva scelto di rompere con Casini, e dunque se potesse si risparmierebbe l’intesa con i centristi. «Ma per le Regionali l’accordo con l’Udc ci serve», dice il Cavaliere. Ed è per questo che il premier corteg­gia l’ex alleato, gli telefona, e con lui ad­dirittura si sfoga contro quelli che gli stanno attorno in attesa di succedergli, per gli oltraggi di cui si sente vittima da mesi con una «campagna d’odio» che riempie anche le tv di Stato: «Ma l’hai visto Annozero?». Sembra non abbiano mai smesso di stare insieme, se è vero che Casini lo conforta e gli consiglia di calmarsi, «tanto Santoro non sposta vo­ti, Silvio. Come il Tg4 ... ». Poi però, quando si passa a parlar di affari, quando cioè il premier prova a sondare il terreno per un patto elettora­le in vista delle Regionali, il capo del­l’Udc ripete quello che i dirigenti del Pdl si sono sentiti dire dai loro parigrado centristi: «Nessuna alleanza su base na­zionale. Ma localmente si può trovare un accordo. Comunque ne parleremo dopo il congresso del Pd». Entrambi chiudono la conversazione con la certez­za che sia «andata bene».

Così spiega Ca­sini ai suoi, confidando sull’intesa «a macchia di leopardo», così ripete Berlu­sconi all’ufficio politico del Pdl, annun­ciando che «in alcune zone si può anda­re insieme». È un matrimonio d’interessi, sta scrit­to nei sondaggi che entrambi conosco­no, e che garantiscono perciò una di­scussione sgombra da finzioni. Per vin­cere nelle urne in primavera, il Cavalie­re deve conquistare almeno tre regioni del Centro-Sud: Lazio, Campania e Pu­glia, oltre ovviamente al Lombardo-Ve­neto. Insieme alla Sicilia potrebbe infat­ti dire che il centrodestra governa «la stragrande maggioranza degli elettori italiani». È lì, nel Mezzogiorno, che il premier gioca la sua sfida. Ed è lì che l’Udc è determinante. Basta leggere i dati demoscopici, che come segni zodiacali predicono una buona sorte all’alleanza, se si realizzas­se. Intanto il 56% dell’elettorato berlu­sconiano vede con favore un accordo con l’Udc, e gran parte della percentuale si forma al Sud.

Eppoi è soprattutto gra­zie al Sud che i centristi oggi arrivano nei loro sondaggi al 6,8%, un tesoretto che il Cavaliere valuta addirittura oltre il 7%, e che sarebbe determinante per farlo gridare alla vittoria. Ma non è tutto così semplice e per questo non c’è nulla di scontato. Casini costa, politicamente parlando, e il suo prezzo lievita di settimana in settimana, se è vero che nei report riservati ottiene un giudizio positivo dal 50% dell’opinio­ne pubblica, ed è secondo solo a Berlu­sconi, che sta al 52,8%. Questo consen­so — sostiene nelle riunioni di partito — è frutto della mossa di un anno e mezzo fa, «quando scegliendo di andar da soli abbiamo fatto un investimento politico, per essere determinanti nel gio­co del dopo-Berlusconi. Se oggi cedessi­mo alle sue lusinghe, accettando un ac­cordo nazionale con il Pdl, dopo avergli regalato la vittoria alle Regionali ci trat­terebbe come camerieri». Casini è abile e sfuggente, non aspira alla candidatura di un governatore cen­trista appoggiato da destra o da sini­stra, e non solo perché non vuole che qualcuno gli faccia ombra nel partito, ma perché intende tenersi le mani libe­re. Ieri a Torino ha detto che non starà mai «nè con la Lega né con la Bresso», presidente uscente del Pd. Poi a Roma si è smarcato da quanti premevano per una manifestazione contro Berlusconi: «Se ne dovessi fare una, la farei contro Di Pietro». Bacchetta il Cavaliere per i suoi attacchi a Napolitano e «da ami­co », con le mani giunte come ha fatto l’altra sera a Porta a Porta , lo esorta a cambiar registro: «Perché vedi Silvio... Posso darti del tu, vero?».

E dire che appena due settimane pri­ma, nello stesso salotto, si erano manda­ti a farsi benedire: «Auguri», aveva detto liquidatorio il premier, chiudendo la tele­fonata. Invece ne ha fatta un’altra, riser­vata. «Casini mi ha chiesto di aspettare che si tenga il congresso del Pd», ha rife­rito ai dirigenti del Pdl: «Penso che un’in­tesa, per quanto limitata, debba farsi». La pensano così anche i capigruppo par­lamentari Gasparri e Cicchitto, che da un anno e mezzo fa il «pontiere» con l’Udc e ritiene «utile» la ripresa dei rapporti, «da­to che è pure cambiato lo scenario, e si preparano tempi duri in Parlamento». Concordano i vice capogruppo Qua­gliariello e Bocchino, il primo in nome della «casa comune europea», il secon­do per realismo politico: «Se le Regiona­li si profilano come un referendum su di te, Silvio, è opportuno allargare il più possibile l’alleanza. Tenendo però pre­sente che Casini fino al 2012 sceglierà di non scegliere, in attesa di decidere quel che gli fa più comodo». E Fitto, che conosce i democristiani per averli fre­quentati dall’infanzia, proprio su que­sto punto mette in guardia il Cavaliere, gli chiede di chiedere «chiarezza» ai cen­tristi, «non possiamo dar l’immagine che il Pdl dipenda dalle scelte altrui e si faccia dettare i tempi». Chissà il maldipancia del premier a sentire queste parole, perché non c’è dubbio che — se potesse — dell’Udc fa­rebbe a meno, e che condivida in cuor suo la tesi del ministro Ronchi, contra­rio all’accordo per «fedeltà al bipolari­smo », per «coerenza», e per non dare al­la Lega «una campagna elettorale già fat­ta ». «Mi rendo conto delle perplessità di alcuni di voi», ha concluso l’altra sera Berlusconi: «Ma a noi l’accordo con l’Udc serve». E serve anche a Casini.

Francesco Verderami

10 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #93 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:28:19 pm »

IL GOVERNO

Berlusconi-Tremonti e quelle tensioni sui leader futuri

Il caso dopo un invito al convegno Aspen


ROMA - Hanno litigato an­che ieri, «abbiamo litigato» ha confidato Berlusconi dopo il colloquio con Tremonti. E dal modo spazientito in cui il pre­mier ha raccontato la faccenda s’intuisce che la conversazione dev’esser stata accesa, e che an­che ieri il titolare dell’Econo­mia deve aver minacciato le di­missioni: «Giulio minaccia di dimettersi ogni giorno». Ragio­ni politiche e personali s’intrec­ciano nell’ultimo episodio di una saga che sta creando ten­sioni nel governo e nella mag­gioranza, e che rischia di tra­sformarsi in qualsiasi momen­to in scontro aperto. Basta po­co. Basta, per esempio, che non venga disinnescata la mi­na della Banca del Sud, proget­to tremontiano già attaccato in Consiglio dei ministri dalla Pre­stigiacomo e da Fitto, senza che il premier intervenisse. Ma se il solco tra il Cavaliere e Tremonti si va allargando non è tanto per contrasti su un singolo provvedimento o sulla linea di politica economica. C’è qualcosa di più profondo. Il fatto è che Berlusconi non in­tende assistere passivamente alle mosse di quanti vorrebbe­ro raccoglierne l’eredità. In­somma è una questione che non riguarda il presente, ma il futuro.

«Il dopo», per usare il titolo del recente convegno or­ganizzato dall’Aspen, di cui il Professore è presidente. Se è vero che la sentenza della Con­sulta sul Lodo Alfano ha ali­mentato i sospetti del premier, in quel convegno, nella sua let­tera di presentazione, laddove c’era scritto che per «il dopo» va creata «una leadership basa­ta su un consenso non solo im­mediato e mediatico», il Cava­liere ha visto incarnarsi i fanta­smi che lo tormentano. Ed è da allora che non si dà pace. «Leggete, leggete», ha detto Berlusconi a Frattini e Maroni, come cercasse solida­rietà: «Leggete cosa mi tocca sopportare. Come posso accet­tare che si lavori contro di me?». Tremonti non c’era in quel momento a palazzo Chigi, ma è difficile immaginare che non sia venuto a conoscenza dello stato d’animo del Cavalie­re. E comunque ieri ci ha pen­sato il Giornale a informarlo, pubblicando in prima pagina «la lettera della discordia tra Silvio e Giulio». Con tanto di ti­tolo all’interno: «Carta canta». Il colloquio tra il premier e il suo ministro è stato aspro: a fronte di un Berlusconi che so­steneva di non essere stato in­formato anzitempo dell’artico­lo, Tremonti opponeva la tesi del «non potevi non sapere». Sono molte le ragioni che li dividono, sono tanti gli strap­pi che si susseguono, e sono al­cuni dettagli che rendono ma­nifesta la crisi del rapporto. Il Cavaliere combatte contro «il dopo».

E siccome sono già tan­ti i fronti aperti, vuole evitare che se ne aprano di nuovi, che si ritrovi infine circondato per effetto di manovre altrui. Quel­la frase con cui l’altra sera si è rivolto alla Marcegaglia, «mi piacerebbe averti come vice premier», è interpretata nel Pdl come un segnale contro Tremonti e di apertura alla li­nea confindustriale che chiede maggiori aiuti alle imprese. Eppoi certi incontri a due di Berlusconi con autorevolissi­mi banchieri, le relazioni non conflittuali con il governatore di Bankitalia, sono la prova che il premier su questioni strategiche non intende delega­re. C’è poi la politica, l’asse con la Lega che fa muro a difesa di Tremonti, i sondaggi che dan­no il ministro dell’Economia in testa negli indici di gradi­mento insieme a Brunetta e Maroni: di tutte queste implica­zioni il Cavaliere tiene conto, in attesa di trovare una strate­gia che lo tiri fuori dalle sec­che. Ma dalla scorsa settimana ha tirato una riga, per verifica­re chi sta con lui e chi contro. Sono giorni feroci nell’inner circle berlusconiano dopo la sentenza della Consulta. Gian­ni Letta era pronto a dimetter­si, «sono pronto a fare un pas­so indietro», ha commentato il sottosegretario quando ha sen­tito venir meno la fiducia del premier. Eppure, nonostante l’ira, Berlusconi dice di lui: «Gianni è l’unico insostituibi­le ». L’unico.

Francesco Verderami

14 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #94 inserito:: Ottobre 17, 2009, 04:45:45 pm »

Settegiorni

Il nemico in casa a sindrome che dilania il Pd

Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi»


Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta co­lonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Spe­cie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversa­rio è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tut­ti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vec­chio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segrete­ria, senza aver definito ancora le alleanze.

E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fosse­ro al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democrati­ci avevano lanciato il tema della riforma degli ammortiz­zatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sa­natorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifo­nico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al con­fronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — com­menta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centrali­smo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una co­sa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».

Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaf­fezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «parti­to mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una vol­ta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi ma­li. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il do­po chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizio­ne al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».

Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va mes­sa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il di­rettore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvi­vranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riac­cenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavalie­re.

Francesco Verderami

17 ottobre 2009
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« Risposta #95 inserito:: Ottobre 22, 2009, 10:21:55 am »

Centrodestra / gli scenari

Fini, gelo su Tremonti e il posto fisso

«Il premier? Apprezzo il suo impegno»

Il nodo Regionali: Lega, la doppia candidatura in Veneto e Piemonte crea problemi. «Galan? Caso delicatissimo»


ROMA - Solo alla politica è consentito trovare la qua­dratura del cerchio e Gian­franco Fini vede Silvio Berlu­sconi impegnato nel tentati­vo di farlo quadrare, «cosa non facile» e tuttavia «neces­saria ». Non a caso il presiden­te della Camera apprezza il modo in cui il premier «sta cercando di farsi carico delle richieste di tutti, fortemente intenzionato com’è a tenere insieme l’alleanza». Non è il tempo dei distinguo e dello scontro, semmai quello della collaborazione. E da ciò che il «cofondatore» del Pdl dice nelle sue conversazioni riser­vate, si intuisce che il passag­gio è complicato. Perché sono molti i fronti aperti, a partire dalle tensioni che si concentrano sulla poli­tica economica e sul suo mini­stro. A Fini non è piaciuta la sortita di Giulio Tremonti sul «posto fisso», «forse non si è reso conto degli effetti che avrebbe determinato, e poi ha voluto lo stesso tenere il punto, ridimensionandone comunque la portata». Ma non è quello il problema, quanto le divergenze che no­ta nel governo e nella maggio­ranza. L’ex leader di An rico­nosce che «la linea di conteni­mento della spesa è dettata dal fatto che l’Italia rischia il patatrac. Perciò il ministro non prende per ora in consi­derazione costi aggiuntivi».

Per quanto possa apparire paradossale, la strategia deci­sa da Tremonti incide sul la­voro istituzionale di Fini. L’in­quilino di Montecitorio se n’è reso conto durante un in­contro con i presidenti delle commissioni parlamentari della Camera: «Se il Parlamen­to non ha argomenti da discu­tere, deriva anche dal fatto che i lavori in commissione spesso vengono bloccati dal Bilancio. Basta infatti che un provvedimento preveda una sia pur minima copertura eco­nomica e l’ultima parola spet­ta al governo. E siccome sen­za copertura non va avan­ti... ». Dal suo scranno sente l’eco che arriva dal Tesoro ­dove chiedono di «pazienta­re » in attesa di sapere quali ef­fetti produrrà lo scudo fiscale sul gettito - e al contempo percepisce l’impazienza di Berlusconi, «che sottolinea sempre come la sua sia la poli­tica del fare, e però non rie­sce a fronteggiare tutte le ri­chieste che vengono dai setto­ri produttivi del Paese». L’economista Mario Baldas­sarre gli ha fatto pervenire uno studio sulla «politica inerziale» - così viene defini­ta - di Tremonti, che produr­rebbe una ripresa «troppo lenta» per l’Italia, se è vero che servirebbero sette anni per recuperare la ricchezza perduta con la crisi, che i con­sumi tornerebbero in linea con il 2007 solo nel 2012, che il rapporto debito-pil rientre­rebbe sotto il 3% nel 2015, che intanto la pressione fisca­le resterebbe elevata... «Sarà, ma qual è la ricetta alternati­va?», ha sospirato Fini chiu­dendo il dossier. Gli è chiaro che l’economia resta il tornan­te decisivo, ma rispetto agli anni in cui sedeva al governo è intenzionato a restare un passo indietro.

Da «cofondatore» del Pdl è invece impegnato a trovare una soluzione sulle Regiona­li. Osserva le mosse di Pier Ferdinando Casini, «che da politico avveduto fino al 2012 resterà alla finestra», e scommette che l’Udc «in alcu­ne aree» farà intese con il cen­trodestra. Per il resto, il patto con il Cavaliere e Umberto Bossi regge, solo dopo un in­contro a tre verrà infatti sciol­to il nodo delle candidature. Le scelte più «impegnative» riguardano il Nord. Perché Fi­ni riconosce che nel Setten­trione il Carroccio «ha un for­te consenso popolare», e sa bene che «la Lega è indispen­sabile alla tenuta del gover­no »: «Ma la doppia candidatu­ra in Veneto e Piemonte di esponenti leghisti crea pro­blemi oggettivi». Che poi è quanto aveva già detto a Bos­si due settimane fa: «Umber­to, scegli». A parte il fatto che per ora il Senatùr ha scelto di non sce­gliere, è da vedere cosa farà Berlusconi, se e in che modo cioè il capo del Carroccio riu­scirà eventualmente a strap­pare le due candidature, ma­gari allettando il Cavaliere con una contropartita politi­ca. Nel Pdl c’è comunque da risolvere il «caso Galan». E poco importa stabilire se ieri Fini ha davvero incontrato il governatore veneto o se ha avuto solo un colloquio tele­fonico. Il punto è che i vertici del partito dovranno dare ri­sposte ai quesiti che Galan ha ripetuto al presidente della Camera: «Ho svolto male il mio compito da presidente della Regione? Se non è così, quali sono i motivi per cui do­vrei farmi da parte? E perché devo lasciare io e non Formi­goni?».

Il «cofondatore» parla di un caso «delicatissimo», an­che se non crede che Galan la­scerebbe il partito qualora non fosse più candidato, «penso di no, almeno me lo auguro». Così come si augura che il «caso Campania» ven­ga risolto «con il buonsen­so ». Come per il Lazio, Fini è convinto che «si troverà una soluzione all’interno del parti­to. E sarà indolore se si ragio­nerà con la logica di selezio­nare il nome migliore, e non in base alla provenienza». Non è indifferente dinnanzi alla polemica su Nicola Cosen­tino, sulle ombre giudiziarie che si addensano sul sottose­gretario e che rischiano di mi­narne la candidatura in Cam­pania. «Cosentino è il segreta­rio regionale del Pdl, ed è chiaro che una decisione non può essere presa contro di lui», ha fatto sapere il presi­dente della Camera: «Ma lui deve capire che c’è un proble­ma di opportunità». Come di­re che sarebbe preferibile se Cosentino facesse un passo indietro, «anche se è chiaro che - visto il suo ruolo - an­drà coinvolto nella scelta». Ancora una volta politica e giustizia si incrociano. E so­no giorni feroci di polemiche e veleni. Raccontano che Fini abbia avuto un moto di fasti­dio leggendo sui giornali del­la presunta trattativa tra lo Stato e la mafia, e che dopo aver scorso il decalogo conte­nuto nel «papello», avrebbe commentato: «Manca l’undi­cesima richiesta, il Palermo campione d’Italia... Sono ri­chieste folli, ammesso che sia vero il documento. Non vor­rei si trattasse dell’ennesima bufala». E discutendo di giu­stizia con alcuni interlocuto­ri, il ragionamento è precipi­tato sulle riforme. Ha sorriso quando gli hanno fatto nota­re che - come prima cosa ­Berlusconi vorrebbe riforma­re la par condicio: «Ma se in Parlamento non ci sono nem­meno i tempi tecnici per mo­dificarla, di che parliamo?».

«Invece i tempi per una ri­forma della Carta costituzio­nale ci sono», ha rilanciato il presidente della Camera. Per capire le ragioni dei suoi in­terventi pubblici a favore di un’intesa bipartisan sulla ri­scrittura delle regole, basta sbirciare la bozza del libro «Il futuro della libertà» - edito da Rizzoli - che Fini presente­rà in concomitanza con il ven­tesimo anniversario della ca­duta del Muro di Berlino. È lì che Fini scrive come «una ri­forma 'a colpi di maggioran­za' servirebbe solo a sancire la divisione del Paese e a rin­focolare le vecchie pulsioni al­la faziosità, che sono purtrop­po un passo costante del co­stume italiano e che riemerge frequentemente». Se da «cofondatore» del Pdl sta collaborando con Ber­lusconi sulle questioni di par­tito, da presidente della Ca­mera si oppone all’intransi­genza del Cavaliere sulle rifor­me, perché - sottolinea nel li­bro - «il cambiamento delle regole riguarda tutti, non so­lo una parte. Perché la Costi­tuzione segna il perimetro della casa comune degli italia­ni. Perché è necessario risco­prire il patriottismo costitu­zionale come valore che ce­menta la coesione sociale non meno che quella politi­ca ». Quella che servirebbe, se­condo Fini, «è una grande sta­gione costituente». Roba da quadratura del cerchio.

Francesco Verderami

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« Risposta #96 inserito:: Ottobre 24, 2009, 06:21:45 pm »

Quel documento anti-Tesoro sulla scrivania del Cavaliere


Il Cavaliere tende sempre a sdrammatizzare nei passaggi delicati. E se arriva a evocare Dino Grandi per allentare le tensioni con il suo ministro dell’Economia, se sorridendo cita il gerarca fascista — autore dell’ordine del giorno che segnò la fine di Mussolini — vuol dire che stavolta non è come le altre volte, che la lite con Giulio Tremonti è cosa seria.

C’è un motivo se ieri Silvio Berlu­sconi ha disertato il faccia a faccia con il titolare di via XX Settembre, se dalla Russia è volato fino a Milano senza atterrare nella Capitale dov’era atteso per il «chiarimento» con Tre­monti. «Avevo detto che sarei torna­to nella serata di venerdì senza passa­re da Roma. E non cambio program­ma », ha fatto sapere a Gianni Letta, cui è toccato inventarsi la storia del­la nevicata che impediva al jet del premier di decollare. In realtà il Cava­liere voleva evitare che l’incontro sancisse la rottura, perché la battuta scherzosa sul Gran Consiglio del fa­scismo non basta a celare l’irritazione: «Sono stanco della situazione».

Non è dato sapere se davvero abbia confidato il proprio stato d’animo direttamente a Gianfranco Fini, è certo che Letta ne ha parlato con il presidente della Camera, riferendogli lo scontento di Berlusconi. Il dettaglio svela la delicatezza del momento e segnala una novità politica rispetto al 2004, quando Tremonti fu dimissionato sotto la spinta dell’allora leader di An, nonostante il Cavaliere opponesse resistenza. D’altronde il malumore di Berlusconi era già emerso, dopo il burrascoso Consiglio dei ministri sulla Banca del Sud. «Qui non ci vengo più», si era sfogato: «D’ora in avanti lascerò che le riunioni le presieda Gianni». Non ne può più di essere solo il «primus inter pares» nel governo, che sulla linea di politica economica «nemmeno io possa dire nulla altrimenti Giulio minaccia di dimettersi », che «quotidianamente » debba dirimere le controversie tra il superministro e gli altri esponenti dell’esecutivo: «È come se non contassi nulla». Invece il premier vuol contare. La sortita sull’Irap segue imessaggi lanciati a Confindustria e l’apertura sulla riforma della previdenza, invocata dal Governatore di Bankitalia. Raccontano non l’abbia presa bene nei giorni scorsi, quando un dirigente leghista gli ha riferito una battuta di Tremonti: «Se Silvio si fa convincere da Draghi sulle pensioni, dovrà poi convincere Draghi a fare il ministro dell’Economia». Nel frattempo «Silvio» è andato avanti. Da due settimane il documento di politica economica che circolava nel Pdl, e che è rimasto senza paternità, stava sulla scrivania di Berlusconi.

E insieme ad altri appunti, frutto di riunioni riservate, sul suo tavolo c’era anche lo studio di Mario Baldassarri, critico verso la «politica inerziale» di Tremonti, sostenitore del taglio dell’Irap e di altre iniziative, «ma senza aggravio di deficit, perché su questo Giulio ha ragione». «Caro Mario, come stai? Ho letto la tua analisi, è interessante. Ci dobbiamo vedere appena torno dalla Russia ». Clic. Chissà se il ministro dell’Economia sia a conoscenza di questo colloquio, di sicuro sabato scorso non ha gradito la presenza di Claudio Scajola al vertice dei coordinatori e dei capigruppo pdl con il Cavaliere: «Che ci fa lì, quello?». Sia chiaro, Berlusconi non vuole fare a meno di Tremonti, gli chiede però maggior duttilità e collegialità, «non può accentrare tutto»: in Consiglio dei ministri non può presentarsi con le copertine dei provvedimenti su cui chiede voto favorevole a scatola chiusa, «nè può sempre dire "o così o lascio"». Invece non c’è riunione senza scontri, anche ieri in pre-consiglio gli sherpa della Presidenza hanno litigato con i colleghi dell’Economia sul provvedimento taglia-enti che cassa altri 400 milioni. Mentre Mariastella Gelmini si è sentita dire di «ripassare» per i fondi sulla riforma dell’Università, dopo che Tremonti aveva fatto un filtro preventivo persino sui risvolti non economici del disegno di legge.

«Eppoi basta con la storiella che nel governo ci sarebbe un partito della spesa opposto al partito del rigore », si è infuriata Stefania Prestigiacomo: «Semmai si dovrebbe far squadra per il partito della ripresa». Anche perché, dopo l’accordo chiuso da Tremonti con le Regioni, alcuni ministri hanno iniziato a domandarsi: «Da dove provengono quei miliardi? Ci sono quindi dei soldi nelle pieghe del bilancio? E perché tocca a lui decidere dove destinarli?». Come non bastasse, commentando l’intesa, Raffaele Fitto ha accusato Tremonti di aver concesso alle Regioni quanto avrebbe potuto concedere già sei mesi fa. È questo il clima alla vigilia del rendez-vous tra «Silvio» e «Giulio», che chiede al premier di riaffermare la bontà della linea economica e il primato del Tesoro sulle scelte. L’unica concessione del Cavaliere è stata per ora una nota di Sandro Bondi, del Pdl nessuno, nessuno si è mosso in sua difesa. Umberto Bossi, sì, ma è il capo della Lega. La situazione è pesante, Maurizio Gasparri prova a sdrammatizzare, perché «alla fine andrà tutto bene. D’altronde l’anagramma di Tremonti è Tormenti... Lo dico per scherzare, eh?». Vero, ma stavolta è Berlusconi che non scherza.

Francesco Verderami

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« Risposta #97 inserito:: Novembre 07, 2009, 10:14:57 am »

IL PIANO

Il Cavaliere e le 30 bozze per riformare i processi «Tutto alla luce del sole»

Sul tavolo anche due tipi di prescrizione.

«Spiegherò personalmente al Parlamento e al Paese»


La legislatura è appena iniziata eppure sembra già il finale di partita. Perchè è chiaro che le sorti della po­litica sono legate al destino giudizia­rio di Berlusconi, e che una sentenza avversa al Cavaliere avrebbe l’effetto di una mozione di sfiducia su una sta­gione che dura ormai da quindici an­ni. Il premier è consapevole di giocar­si la sfida decisiva e pare abbia capito che per affrontarla non è più tempo di sotterfugi legislativi, di emendamenti dalla paternità incerta presentati di soppiatto in Parlamento. «Stavolta av­verrà tutto alla luce del sole», così ha promesso: «Stavolta me ne farò carico personalmente, lo spiegherò al Parla­mento e al Paese». Sono parole che aveva già usato nei giorni in cui stava per essere varato il lodo Alfano, e chissà se adesso terrà fede all’impegno, se si esporrà metten­do il sigillo politico sul disegno di leg­ge a cui gli sherpa del centrodestra stanno lavorando, e che sarà pronto la prossima settimana.

Di certo a Berlu­sconi serve un’intesa che non può li­mitarsi agli alleati, ma deve coinvolge­re il più possibile istituzioni e pezzi di opposizione. Perciò la trattativa si è protratta nel tempo, per questo il Ca­valiere ha voluto discuterne anche (e non solo) con Casini, che ieri — du­rante l’incontro a palazzo Chigi — gli ha consigliato «con affetto e amicizia» di porre fine al clima di tensione con il Colle, di evitare lo scontro con Napo­litano, che «è controproducente per te e ti allontana anche da me».
Più chia­ro di così. In ballo ci sono due tipi di prescri­zione, lo spostamento di competenze a Roma per i processi che coinvolgo­no parlamentari, norme che hanno ef­fetti sui giudizi tributari. Più di trenta le bozze finora elaborate, alcune pren­dono spunto da proposte di legge del centrosinistra, come quella presenta­ta nella XIV legislatura da Calvi, Ayala, Brutti e Maritati, che è stata modifica­ta dai tecnici della maggioranza fino a trasformare la prescrizione in una ve­ra e propria estinzione dei processi. Ghedini e Bongiorno, in nome e per conto di Berlusconi e Fini si telefona­no con cadenza oraria per aggiornare il testo di legge, avvisare il premier, il presidente della Camera, e anche espo­nenti di spicco dell’opposizione.

In ballo non c’è solo il destino del Cavaliere, anche se è lui a sentirsi «nel centro del mirino», oggetto di una ma­novra concentrica che per la prima volta lo colpisce sul versante economi­co oltre che su quello penale. Fatica a trattenersi dinnanzi alle obiezioni giu­ridiche degli alleati: «I processi miei sono anche processi vostri», ha urlato l’ultima volta. Fini glielo riconosce, «riconosco — dice — che Silvio è vitti­ma di un accanimento giudiziario da quando è entrato in politica», e sta col­laborando per disinnescare un conflit­to che avrebbe effetti devastanti sul si­stema. Chiede però che il delicato pas­saggio legislativo segua un corso pre­ciso, eviti contrasti con il capo dello Stato, non confligga con la Costituzio­ne e abbia un impatto il più limitato possibile sui cittadini.

Le tensioni tra i due alleati sull’argo­mento erano state messe nel conto. Non c’entrano stavolta le diversità ca­ratteriali o le presunte strategie politi­che divergenti.

Il «cofondatore» del Pdl non ha «alcun interesse» a destabi­lizzare Berlusconi, come ieri ha scritto il finiano Gennaro Malgieri su Libero, e poco importa se in fondo si detesta­no. Il presidente della Camera piutto­sto è irritato per i metodi fin qui usati dagli uomini del premier, per la «logi­ca emergenziale» — così la definisce — con cui è stata gestita l’intera vicen­da, perchè già ai tempi del Lodo Alfa­no l’inquilino di Montecitorio invitò Berlusconi a muoversi contemporane­amente con una norma costituziona­le, che intanto sarebbe andata avanti. Invece no, «ed ecco i risultati». Fini, e come lui Bossi, si è affidato a tecnici di fiducia per capire tutti i pas­saggi del ddl a cui sono legate le sorti del Cavaliere e della politica. Certo che gli attacchi del Giornale lo hanno messo di cattivo umore, ma non per questo ieri ha affondato il colpo nel di­scorso pronunciato a Pescara, al pre­mio nazionale intitolato a Borsellino, alludendo ad alcune candidature del Pdl «inopportune» per le Regionali e all’intricata faccenda che ruota attor­no alle infiltrazioni malavitose nel co­mune di Fondi. «Dicono sia diventato di sinistra», ha commentato ironico: «Sarà, ma legalità e giustizia sono te­mi di destra a cui non intendo rinun­ciare ».

Berlusconi sa comunque di poter contare sull’alleato e sull’opposizione «repubblicana» di Casini, che infatti ieri ha ricordato come l’Udc si astenne sul lodo Alfano: «Basta però — ha pre­cisato — che tutto avvenga in Parla­mento e alla luce del sole». Guarda ca­so, proprio quello che il Cavaliere ha promesso. Il resto sono schermaglie tattiche, come la minaccia di elezioni anticipate. Il primo a rendersene con­to è il premier, perchè in caso di con­danna le urne non sarebbero la fonte di una rinnovata giovinezza politica.

Francesco Verderami

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« Risposta #98 inserito:: Novembre 11, 2009, 10:12:59 am »

Tensione per le frasi del «cofondatore» sul Pdl-caserma

Con Fini il premier evoca la slealtà.

Letta: non ci sono altre soluzioni

Vertice tra i due leader del Pdl: colloquio infuocato.

Interviene il sottosegretario alla Presidenza


ROMA - Era un vertice talmente delicato che Gianni Letta ha dovuto addirittura prepararlo. Perché lunedì il braccio destro del Cavaliere si è recato in gran segreto a Montecitorio per parlare con il presidente della Camera, e sempre lui è do­vuto intervenire martedì nel passaggio più infuocato del colloquio tra Berlusconi e Fini, quando il pre­mier — infuriato per il veto sulla prescrizione breve — è arrivato a incolpare l’alleato di «man­canza di lealtà», minacciando sfracelli in lungo e largo. E poco importa che Fini respingesse gli ad­debiti, siccome il premier covava ancora un forte risentimento per l’intervista televisiva del «co­fondatore», per le sue battute sul Pdl ridotto a una «caserma» retta da un «monarca», per non aver pronunciato «nemmeno uno dei risultati po­sitivi raggiunti dal governo»: «Di che caserma parla, Fini, se regolarmente ci riuniamo e discu­tiamo? E sarei io un monarca? O lui, piuttosto, che ai tempi di An decideva senza consultare nes­suno, mettendo tutti dinanzi al fatto compiuto? E l’opera di ricostruzione in Abruzzo? E il successo della magnifica cordata di Alitalia?».

Non è dato sapere se martedì abbia rinfacciato tut­to ciò al presidente della Camera, di sicuro è sta­to Letta a indurre Berlusconi al compromesso, «perché non c’è altra soluzione». Ed è vero che il Cavaliere vede fantasmi dappertutto, sente i cin­goli della procura di Palermo, «una nuova offen­siva giudiziaria contro di me e gli uomini del mio governo», con il capo della Protezione civile che a stento era riuscito a trattenere nei mesi scorsi, e che ora ha annunciato di voler andare in pensione. L’inquilino di Montecitorio ha riconosciuto a Berlusconi di esser «vittima di un accanimento», ma lo ha esortato ad accettare «l’unico accordo possibile», quello sul processo breve, che gli evi­terà l’affronto dei processi Mills e Mediaset: «Co­sì puoi andare avanti, governare. È anche nel mio interesse che tu sia forte».

Berlusconi non gli crede, ritiene che Fini stia logorando la sua immagine con quelle sortite che «ci fanno perde­re consensi». Epperò «obtorto collo» — espres­sione del presidente della Camera — alla fine ha accettato il patto che verrà oggi presentato come disegno di legge al Senato. Si vedrà se il premier resterà fedele all’intesa o se darà retta ai «falchi», e durante l’iter parlamentare tenterà la forzatura, provando a introdurre la prescrizione breve con un emendamento. È una mossa che Letta gli sconsiglia, e alla qua­le Fini si opporrebbe: «Non è un problema di di­sponibilità personale, ma di fattibilità». C’è un ostacolo «politico», perché verrebbe messo a re­pentaglio l’equilibrio raggiunto riservatamente anche con il Quirinale sul processo breve, e c’è poi un ostacolo «sociale», l’impatto cioè che una simile norma avrebbe sul sistema.

Fini ha porta­to ad esempio il «processo Parmalat», che «con quella norma salterebbe. Immagini cosa acca­drebbe se migliaia di risparmiatori, che hanno perso tutto, si vedessero cancellato il diritto alla giustizia?». «Mi pare che la Bongiorno esageri con questi effetti dirompenti», ha commentato Berlusconi riferendosi alla presidente della com­missione Giustizia della Camera. «Forse è il tuo Ghedini che non li ha calcolati». Letta, come un pompiere, ha spento ogni foco­laio d’incendio nelle due ore di colloquio, e ha convenuto quando Fini ha proposto a Berlusconi un’altra strategia: «Le leggine non ti mettono al riparo dagli attacchi, Silvio. Serve la politica». E allora se il «processo breve» offrirà intanto uno scudo sui casi Mills e Mediaset, la riforma della giustizia potrebbe portare con sé la reintroduzio­ne dell’immunità parlamentare, su cui Casini è già d’accordo, in attesa che la decisione maturi nel Pd. Berlusconi ha ricomposto la giacca e la sua rab­bia, e come accade sempre in questi frangenti ha offerto una battuta per stemperare la tensione: «Caro Gianfranco, ho visto che anche per il tuo libro ti sei messo con la concorrenza», ha detto alludendo al fatto che Fini non ha scelto la Mon­dadori per pubblicare il «Futuro della libertà». Si rivedranno al vertice per le Regionali con Bossi. Il rinvio era necessario, siccome c’è da attendere le decisioni dell’Europa, capire se D’Alema diver­rà mister Pesc, prima di chiudere con le candida­ture. Almeno su questo Letta non ha dovuto me­diare.

Francesco Verderami

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« Risposta #99 inserito:: Novembre 13, 2009, 11:52:43 am »

Palazzo Chigi - Dopo la riunione di governo i chiarimenti

Lite e parole forti tra Brunetta e Tremonti

Pressing della Prestigiacomo sui fondi non dati


ROMA — Non c'era bisogno che parlasse, infatti non ha parlato. Ma l'immagine che Berlusconi ha offerto ieri in Consiglio dei ministri — lo sguardo spento, il volto sofferente, un senso di estraniamento durante tutta la riunione — rendeva l'idea del distacco del premier. Il premier aveva lasciato fuori da Palazzo Chigi i timori di quello che considera il «nuovo complotto» ordito contro di lui dalla magistratura, le tensioni familiari che «mi stanno togliendo il sonno», e l'ira verso Fini con cui si è consumato un altro strappo. Era presente, ma era come se non ci fosse, assorto fino a dare l'impressione di essersi assopito, apriva gli occhi solo quando i ministri riempivano la stanza con urla e parole grosse. Le mani sul viso o tra i capelli, solo in un'occasione ha dato voce al proprio fastidio: «Dài, rinviamo. Se c’è un problema si risolve la prossima volta».

Un problema invece andava risolto subito, perché è vero che il Consiglio aveva approvato in pochi secondi l’atteso decreto sulla riduzione delle tasse per fine anno. Il punto era che nell’esecutivo tutti pensavano si trattasse di sgravi per le imprese, del taglio degli acconti sull’Ires e soprattutto sull’Irap, balzello che Berlusconi un mese fa aveva anticipato di voler abolire. Tutto sembrava pronto, il comunicato del governo di martedì aveva preannunciato la decisione. E alcuni ministri ieri giuravano di aver letto bene il provvedimento presentato alla riunione. Invece il taglio ha riguardato l’Ire, la vecchia Irpef.

Ma allora cos’è stato votato in Consiglio? Non è chiaro se si sia trattato solo di un «misunderstandig», e se questo abbia dato origine a una commedia degli equivoci. È certo che dopo il Consiglio sono passate ore prima della nota ufficiale alla stampa. Ed è altrettanto certo che in quel lasso di tempo si è svolto un incontro riservato tra Berlusconi, Letta e Tremonti. E lì che al decreto sarebbe stata data una «registrata», e si sarebbe deciso di tagliare l’imposta sui redditi «per una ragione di giustizia e di equità sociale», come sostiene il titolare dell’Economia. Il quale ha fatto presente al premier le pressioni dei sindacati, «perché Cisl e Uil sono pronte allo sciopero generale se concedessimo sconti fiscali solo alle imprese. Invece con l’Ire ne beneficiano tutti», anche i lavoratori dipendenti che a Natale avranno più soldi in busta paga. Per l’Irap se ne riparlerà chissà quando.

Resta il resto fatto che tutti gli altri ministri avevano inteso diversamente. Chissà, forse hanno frainteso. Ma non è una novità che in Consiglio si parlino lingue diverse, e che per capirsi si ricorra a gesti e parolacce. Come è successo ieri tra Tremonti e Brunetta, che presentava un altro pezzo della riforma sulla Pubblica amministrazione. Il «professor Giulio» non ha esitato a bocciare il «professor Renato»: «Non si fa la semplificazione con una nuova regolamentazione », ha iniziato a ripetere dando sulla voce del collega. Si è scatenato il parapiglia, e per una volta Letta è intervenuto a sostegno di Tremonti. Alla fine, dopo ripetuti colpi sotto la cintura, Brunetta si è alzato e ha teso la mano al ministro dell’Economia, che non ha contraccambiato, anzi: «Non ti avvicinare, altrimenti ti prendo a calci in...».

Con la Prestigiacomo solo i toni sono stati diversi. Perché quando la titolare dell’Ambiente - dopo aver illustrato il progetto da 1.250 milioni per gli interventi a difesa del suolo - ha chiesto cinque milioni per controllare il piano di interventi con tre nuove strutture ministeriali, Tremonti si è messo di traverso: «Cara Stefania, questo modo siciliano che hai di ragionare... ». Apriti cielo, «Stefania» non ci ha visto più: «A me certe battute non le fai». Ed è scoppiata un’altra lite, che nemmeno l’intervento di Letta è riuscito a comporre. Così il decreto, che la Prestigiacomo voleva approvare prima di Natale è stato rinviato. E lei, furibonda ha lasciato il salone del Consiglio: «Me ne vado, sennò gli alzo le mani». Nemmeno Berlusconi ha salutato.

Chissà se il Cavaliere se n’è reso conto. Perché lui c’era,ma era come se non ci fosse.


Francesco Verderami

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« Risposta #100 inserito:: Novembre 14, 2009, 10:54:22 am »

 Berlusconi passa le notti con avvocati ed esperti di finanza

«Contro di me un sistema ostile» Crescono i sospetti del Cavaliere

Rapporti inesistenti con il Colle e il gelo con Fini


Chi è oggi Silvio Berlusconi: il dodicesimo uomo più potente della terra o il premier che in Italia si sente «ingabbiato e accerchiato da un sistema che mi è stato sempre ostile»? È una domanda che si è posto anche il Cava­liere, dopo aver scorso la classifica stilata dalla rivista Forbes sui personaggi più influenti del mondo. E la difficoltà di darsi una risposta ha amplificato in lui la percezione dello sdoppia­mento. Il pessimismo con cui riempie in questi giorni i suoi ragionamenti, tracima nell’umore della cerchia più stretta, riempie di stupore mi­sto a preoccupazione quei ministri che gli sono stati accanto in altre stagioni, altrettanto diffici­li, ammirandone lo spirito combattivo, la capa­cità di parlare al Paese e di farsi scudo con il consenso popolare. Ora che lo scudo giudiziario gli serve per non venire inghiottito dalle sentenze, misura con una dose sempre maggiore di diffidenza i suggerimenti e le promesse. Perché Giorgio Na­politano gli aveva fatto a suo dire «una promes­sa » ai tempi del lodo Alfano, e lo stesso - sostie­ne - aveva fatto Gianfranco Fini la scorsa setti­mana, invitandolo ad accettare la mediazione sulla legge per i processi brevi.

Con il Quirinale i rapporti sono ormai inesistenti, Gianni Letta pare addirittura aver esaurito la funzione di me­diatore, e non c’è dubbio che Berlusconi ormai incontri più spesso Gheddafi del capo dello Sta­to. Con il presidente della Camera è saltata la consuetudine di parlarsi quotidianamente, ri­trovata appena un mese fa.

I rapporti sono con­sumati al punto che l’altro giorno Massimo D’Alema ha chiamato Fini, chiedendogli la cor­tesia di non sponsorizzarlo più in pubblico per non irritare il Cavaliere, che lo sta sostenendo nella corsa all’incarico di ministro degli Esteri europeo. Se il sonno lo sorprende durante il giorno è perché passa le notti insieme ai suoi avvocati ed esperti di finanza, siccome la causa di divor­zio espone l’impero berlusconiano a rischi fino­ra non calcolati. Da quindici anni vive il conflit­to con la giustizia sempre in emergenza, ma sta­volta è un’emergenza diversa che deve fronteg­giare. Questione di mesi. E non c’è dubbio che il disegno di legge approntato dopo un braccio di ferro con Fini gli serviva (e gli serve) per prendere tempo, per guadagnare un altro anno, perché nel centrodestra tutti mettono nel con­to la ghigliottina della Corte Costituzionale se la procura di Milano nel processo Mills impu­gnasse il provvedimento. Lo stesso presidente della Camera teme che il ddl contenga elementi di incostituzionalità. Il problema adesso non è legato alla nuova trattativa che si sta per aprire nella maggioran­za, così da modificare alcune norme del testo appena presentato al Senato. Per certi versi è se­condario anche il contrasto che si è riaperto tra Berlusconi e Fini a causa della Lega, che ha otte­nuto di escludere il reato di clandestinità dai processi brevi, facendo saltare i nervi all’inquili­no di Montecitorio.

Il rischio è che la legge salti prima di veder la luce sulla Gazzetta ufficiale per il veto del Quirinale, la­sciando senza scudo il pre­mier. Ecco il punto. Da due giorni i berlusco­niani danno voce ai sospet­ti di un Cavaliere senza vo­ce, si chiedono maliziosa­mente quale sia stato allora il ruolo del presidente della Camera sul provvedimento nel rapporto con il Colle, e con quali obiettivi. A Mon­tecitorio contemporanea­mente si attende di capire se Berlusconi davvero in­tenda forzare la mano, ma­gari con
l’obiettivo di pro­vocare l’incidente e far pre­cipitare la legislatura. Ma a parte il fatto che la via per le elezioni è impervia, quali costi sarebbe pron­to a pagare il premier per arrivarci? Eppoi il ri­sultato non sarebbe affatto scontato, non a ca­so Fedele Confalonieri - l’amico di «Silvio» da una vita - ogni volta che si affronta
l’argomen­to cita il caso francese di Jacques Chirac, «che andò alle urne certo di vincere e fu costretto poi alla coabitazione con il socialista Lionel Jo­spin».
Tutto vero, ma il tempo stringe e il Cava­liere si sente sempre più solo.

Il modo in cui ieri Pier Ferdinando Casini ha bocciato il ddl sui processi brevi - definito «una porcheria» - e ha proposto in cambio la strada del «lodo» costituzionale, non risolve il problema immediato. Perché in prospettiva l’idea piace ai berlusconiani, più dell’immunità parlamentare, però diverrebbe legge a processi già chiusi per il premier. Ieri il leader dei centri­sti si è sentito al telefono con il Guardasigilli, che aveva dato il proprio nome al «lodo» e do­po la bocciatura della Consulta aveva commen­­tato: «Finiranno per rimpiangerlo». Chissà se anche ad Angelino Alfano, Casini ha spiegato il motivo della sua mossa sul ddl: «È una partita tra Berlusconi e Fini. Se la sbrigassero loro». Un altro indizio che porta Berlusconi a essere pessimista: teme la manovra di accerchiamen­to, e accecato dall’ira si rifiuta di ammettere i propri errori nella partita. Ritiene che tutti vo­gliano riformare la giustizia, «ma dopo». Dopo di lui, il dodicesimo uomo più potente della ter­ra che in Italia si sente «ingabbiato dal siste­ma» .

Francesco Verderami

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« Risposta #101 inserito:: Novembre 17, 2009, 10:41:47 am »

Il retroscena

Elezioni e carta a sorpresa del premier

Un emendamento sul processo breve per aprire la crisi


Se persino Gianni Letta arriva a dire che «non si può escludere nulla», allora davvero Berlusconi sta valutando tutte le opzioni, compresa quella del voto anticipato. Obiettivo già difficile da raggiungere e dall’esito tutt’altro che scontato. Ma c’è un motivo se il braccio destro del premier non se la sente di scartare alcuna ipotesi, perché è vero che in passato ha vissuto molti altri momenti drammatici al fianco del Cavaliere, «ma in tanti anni non l’ho mai visto così». L’accerchiamento ha portato Berlu­sconi a isolarsi, tuttavia non c’entra l’umor nero verso Fini, «che ormai si è fatto tutti i programmi televisivi di sini­stra ».

È piuttosto l’assenza di una strate­gia che lo porta a questa scelta mediati­ca, e che rimanda a un solo precedente: la vigilia del predellino. Allora come og­gi stava nell’angolo. Oggi come allora, se resta in silenzio è perché non ha an­cora preso una decisione. L’idea delle urne — suggeritagli da Cossiga e ipotiz­zata da due fedelissimi come Quaglia­riello e Valducci — è nel novero delle possibilità, per quanto remota. A parte l’altolà del presidente della Camera, che ha evocato la scissione del Pdl, sa­rebbe complicato arrivare al voto. Per riuscirci servirebbe una crisi par­lamentare, «un incidente», e non certo sulla Finanziaria ma sulla giustizia. Al momento il nodo che divide la maggio­ranza sul «processo breve» è il reato di immigrazione clandestina. L’intesa ap­pare nell’ordine delle cose. Se però Ber­lusconi decidesse di far precipitare tut­to, la forzatura — secondo i finiani — si verificherebbe con un emendamento su un tema ben più spinoso: la «prescri­zione breve», considerata dal presiden­te della Camera «inaccettabile» e che in­vece ieri Ferrara ha definito sul Foglio un «fondamento del diritto alla dife­sa ». D’altronde è noto che la legge sul «processo breve» lascerebbe ugualmen­te esposto il Cavaliere alle intemperie delle procure.

Il fatto poi che da Fini a Rutelli, passando per Casini, gli giunga l’esortazione ad andare «comunque avanti» anche «in caso di condanna», insospettisce il premier. Perché sareb­be difficile «andare avanti» se a genna­io fosse raggiunto da un avviso di ga­ranzia dalla procura di Palermo, come raccontano insistentemente voci di Pa­lazzo. E guarda caso il «timing» per an­dare alle Politiche il 28 marzo, insieme alle Regionali, scatterebbe proprio tra metà gennaio e gli inizi di febbraio. Il punto è che la decisione di scioglie­re le Camere è «prerogativa del capo dello Stato», co­me a più riprese ha ripetuto l’inqui­lino di Montecito­rio. Un modo per dire che — aperta la crisi di governo — Berlusconi do­vrebbe lasciare il pallino del gioco al Quirinale. Il Ca­valiere correrebbe il rischio? Ed è cer­to che gli alleati lo seguirebbero? La posizione contra­ria del presidente della Camera è no­ta, ma anche Bos­si — il giorno in cui la Consulta bocciò il «lodo Al­fano » — uscì da un colloquio con Fini e disse: «Niente elezioni. Avanti con le riforme». La Lega oggi sarebbe dispo­sta a cambiare posizione? Basterebbero Veneto e Piemonte a compensare la per­dita del federalismo fiscale? È una varia­bile di non poco conto. Allora, sarà pure un bluff quello di Casini, secondo cui «se cade il governo un’altra maggioranza in Parlamento si forma in un minuto». Ed è certo che la prospettiva elettorale atterrisce Pd e Udc, così com’è certo che Fini non si presterà a fare il Dini, perché la sua sto­ria sta dentro l’accusa lanciata contro «i puttani della politica», che consentiva­no al centrosinistra di formare governi diversi da quelli voluti dagli elettori.

Ma le forche caudine della Costituzione potrebbero trasformare l’eventuale pro­getto del premier in una disfatta. Anche ammesso che riuscisse nell’in­tento, è chiaro che al voto si arrivereb­be attraverso un passaggio traumatico, e che Berlusconi non potrebbe ripresen­tarsi agli elettori con la stessa squadra e lo stesso schema di alleanze. Oltre al fat­to che è impossibile valutare quale pe­so avrebbe nelle urne un’ipotetica sen­tenza di condanna per un Cavaliere sen­za «scudo giudiziario», nulla garanti­rebbe il successo al centrodestra. È ve­ro che per ora tutti gli analisti lo prono­sticano, ma ieri proprio la Ghisleri — sondaggista di fiducia di Berlusconi — ha detto che un tale scenario viene valu­tato «a bocce ferme», perché andrà pri­ma capito «cosa faranno Rutelli, l’Udc e la sinistra», ammettendo che «il qua­dro politico potrebbe presentare alcu­ne differenze rispetto al 2008». C’è una grande differenza tra l’imma­gine fissata in un fotogramma e un film di cui non si conosce il finale. Di certo nelle analisi di Euromedia research per il premier sarà stato evidenziato ciò che alcuni ministri sussurrano, e cioè che il centrodestra — con gli stessi voti del 2008 — perderebbe il Senato qualo­ra l’Udc si alleasse al Pd. Come non ba­stasse, lo scontro nella maggioranza sulla giustizia sta producendo danni. I sondaggi che Ipsos ha appena sfornato per i Democratici raccontano che in una settimana il giudizio sull’operato del governo è calato di un punto, al 55,3%. E soprattutto che nelle intenzio­ni di voto per la prima volta si è ridotta la forbice tra il Pdl (sceso al 38,7%) e il Pd (salito oltre quota 31). È un segnale d’allarme per il Cavaliere silenzioso.

Francesco Verderami

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« Risposta #102 inserito:: Novembre 18, 2009, 04:34:07 pm »

IL RETROSCENA

Il premier: verrebbe voglia di dimettersi

Lo sfogo: «Messa quotidianamente alla berlina l’immagine del presidente del Consiglio»



ROMA - «Verrebbe voglia di dimettersi», e ieri mentre lo diceva Berlusconi si svestiva del sorriso con cui aveva appe­na salutato Erdogan per indos­sare una smorfia di disgusto. Era imbarazzato per quei rumo­ri di protesta saliti dalla strada che avevano accompagnato il pranzo a palazzo Chigi con il primo ministro turco, per quel­la voce amplificata dal megafo­no che si era accomodata a tavo­la tra loro, e che lui aveva rico­nosciuto: la voce di Di Pietro. Il «senso di vergogna» che ha confidato di provare era un mi­sto di indignazione per l’ospita­lità violata e per veder «messa quotidianamente alla berlina l’immagine del presidente del Consiglio». In quella scena che il Cavalie­re ha visto rappresentata l’azio­ne di accerchiamento di cui si sente vittima. «Non basta il con­senso popolare», ha commenta­to. È vero che in altre stagioni aveva già sfidato quel sistema ritenuto «ostile». Oggi però è al­le prese con il tornante più diffi­cile della sua carriera politica, imprenditoriale e soprattutto personale. Non ci sono più alle­ati e tanto meno amici, se ha scelto l’isolamento è anche per verificare come agiranno gli av­versari.

Il silenzio del premier è riem­pito dalle parole altrui, e nella maggioranza si assiste a un’esca­lation dello scontro, quasi fosse un’anticipazione di quanto acca­drà «dopo» Berlusconi. Chissà se è anche questo che il premier vuole dimostrare, è certo che da ieri si è superato persino il limi­te del conflitto istituzionale. Per­ché ormai i presidenti delle Ca­mere hanno assunto un ruolo politico: l’ha fatto prima Fini, ora lo fa Schifani, che in aperto ed evidente contrasto con il col­lega di Montecitorio ricorda co­me senza una maggioranza com­patta è necessario tornare al cor­po elettorale. Il nodo era e resta lo scudo giudiziario per il Cavaliere, at­torno a questo nel Pdl si è aper­to un braccio di ferro dalle con­seguenze al momento inimma­ginabili, se il problema non ve­nisse risolto. Ma a forza di gioca­re al rilancio tutti hanno smarri­to il controllo della situazione che ora rischia di diventare in­governabile. Le comunicazioni ai vertici sono interrotte, resta Gianni Letta a far da tramite. E ieri sera il telefono del sot­tosegretario alla presiden­za è squillato di continuo.

Per­ché Berlusconi non poteva non sapere cosa avrebbe detto nel pomeriggio il presidente del Se­nato, un’esternazione che Fini ha interpretato come una sfida. E il titolare della Camera vuole capire cosa intende davvero fa­re il premier: «Se non vuole le elezioni si può aggiustare tutto, altrimenti si sfascia tutto». Ci sarà un motivo se Letta si è affannato a spiegare ai suoi in­terlocutori che «Berlusconi non vuole il voto anticipato», frase però dalla doppia interpre­tazione: non voler andare alle urne potrebbe anche significa­re che il premier ne farebbe a meno, ma che non le esclude. Fosse il braccio destro del Cava­liere a dover decidere, lui le escluderebbe: «Il voto sarebbe un errore. Eppoi c’e il Quirinale che lo impedirebbe». Proprio per questo Fini ritiene quella minaccia un’arma scarica, a me­no che la Lega non si schie­rasse con il premier. Matteo­li, una vita a fare il pompie­re anche dentro An, teme disastri: «La ripresina do­po la crisi economica de­ve indurre tutti al senso di re­sponsabilità. Il voto sarebbe un dramma per il Paese. Così co­me sarebbe drammatico se al premier non fosse consentito di governare. Perciò sulla giusti­zia va trovata una soluzione po­litica ». Manca la voce di Bossi, che ha convocato per venerdì un vertice del partito. Un solo pun­to all’ordine del giorno: «Comu­nicazioni del segretario». Il Car­roccio non mostra le sue carte, e ieri Maroni al Tg1 le ha voluta­mente tenute coperte. «Noi sia­mo impegnati a fare le rifor­me... », ha esordito il ministro dell’Interno, «... ma le riforme che vogliamo, richiedono una maggioranza coesa». Nulla og­gi è più certo dell’incertezza.

Francesco Verderami

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« Risposta #103 inserito:: Dicembre 07, 2009, 04:03:24 pm »

Ricostruzioni

Il Cavaliere e l’assedio «partito dopo il 25 aprile»

Lo sfogo: ero troppo forte nel Paese e cominciò la macchinazione


C'è un motivo se nel giorno in cui Gaspare Spatuzza lo affilia alla mafia, il premier avvia i preparativi per trascorrere a Onna la notte di Natale. È nell’Abruzzo terremotato che tenterà di riprendersi l’onore, tra le macerie e i segni della ricostruzione, metafora della parabola berlusconiana dal 25 aprile ad oggi. Cos’è rimasto infatti del «partigiano Silvio»? Dov’è finito il Cavaliere che nell’anniversario della Liberazione riceveva in dono il fazzoletto dell’Anpi e nei sondaggi sfiorava il 70% dei consensi?

È in quel periodo che, se­condo il premier, «è partita contro di me la macchinazio­ne »: «Ero troppo forte nel Pae­se », e per la prima volta anche nel Palazzo. Più volte il Cava­liere ha raccontato la sua veri­tà per quanto è accaduto a ca­vallo tra la primavera e l’esta­te scorsa. Non ha mai ammes­so colpe negli scandali sui fe­stini e le donnine, tantomeno nelle vicende giudiziarie che l’hanno di nuovo coinvolto con il caso Mills. Ma non c’è dubbio — come racconta Nan­do Pagnoncelli — che «da quel momento è stato sottopo­sto a una serie di attacchi che nulla hanno a che vedere con l’azione di governo». E scor­rendo i sondaggi come fosse un film, il patron di Ipsos rile­va infatti che «da allora è tut­to sommato stabile l’opinione dei cittadini sull’esecutivo, mentre è calato il gradimento del presidente del Consiglio. Nella memoria collettiva è ri­masto poco del Berlusconi del 25 aprile».

È da vedere se la voce senza volto del mafioso sanguinario avrà dei riflessi sul consenso elettorale, piuttosto sono le ri­cadute politiche, anzitutto quelle internazionali, a tenere in allarme il Cavaliere. Perché ha ragione Francesco Cossiga quando sostiene che «non è importante se Spatuzza ha det­to o meno il vero. Il fatto gra­ve è quel che ha detto, e l’im­patto che provocherà nelle cancellerie di tutto il mondo». Già l’altro ieri, vigilia della de­posizione a Torino del penti­to, l’ Economist chiedeva le di­missioni di Berlusconi. Rac­contano che l’articolo abbia suscitato l’ironia indignata di Fedele Confalonieri, secondo il quale «le analisi di quel gior­nale dall’Italia sono gracili, sebbene la lettura dell’ Econo­mist resti utile per conoscere vocaboli inglesi nuovi».

Ma anche il presidente del Biscione — che difende a spa­da tratta l’amico dalle «accuse folli» di essere il mandante di una strategia stragista — si rende conto del problema. Il primo a rendersene conto è Berlusconi, costretto anche ie­ri a spendere parte del suo tempo e dei suoi averi per di­fendersi. «Il presidente non può rispondere al telefono, è impegnato con gli avvocati». Per ore ha dovuto sopportare il loro bla-bla-bla, «non vedo l’ora che finisca per andare a cena con il mio amico Tarek Ben Ammar». Quanto sia fra­stornato e seccato, lo si intui­sce dalla battuta fatta nei gior­ni scorsi. Quel «me ne andrei a Panama» ricorda tanto la fra­se con cui nel 2004 licenziò gli alleati che chiesero e ottenne­ro la crisi di governo e il Berlu­sconi- bis: «Quasi quasi me ne vado alle Bahamas. E siccome sono una persona educata, vi manderò una cartolina».

A Natale invece sarà a On­na, e nel frattempo continue­rà a inaugurare fiere, tagliare nastri, cercando così di parla­re senza dire nulla a un Paese che comunque è «disorienta­to » per l’ultima accusa rivolta al premier. Il Cavaliere ieri ha valutato anche l’ipotesi di ri­volgersi con un messaggio al­la nazione, ma ha soppesato anche le controindicazioni. Che sono tante: negare collu­sioni con la mafia sarebbe un’ovvietà e avrebbe il valore di una smentita, che in fondo è una notizia data due volte. Il tutto mentre la crisi economi­ca è in atto, e c’è il rischio che l’opinione pubblica lo veda impegnato a risolvere solo i suoi problemi personali. Fu l’immagine di Berlusconi che il Paese percepì tra il 2001 e il 2004, e il Cavaliere non ha di­menticato l’aggressione con il cavalletto a piazza Navona.

Con il ritorno a Onna la not­te di Natale proverà a liberarsi dal fardello che gli pesa, dal probabile «regalo» di un avvi­so di garanzia che certo provo­cherebbe ripercussioni politi­che, anche se si tratterebbe di un atto dovuto. Presentandosi in Abruzzo Berlusconi vorrà rammentare, non solo all’Ita­lia, che quello è il luogo dove portò i Grandi della Terra, e che resta senza dubbio il suo più importante successo da presidente del Consiglio. Tut­tavia è passato molto tempo dal 25 aprile, ed è difficile sa­pere se la ricostruzione delle zone terremotate consentirà al Cavaliere di ricostruire an­che la sua immagine, se mai — come dice Pagnoncelli — «Berlusconi tornerà ad avere quel profilo da statista che si era conquistato anche con il discorso di fiducia alle Came­re, o se resterà invece il leader che divide», l’uomo del muro contro muro, da ieri inseguito da un’accusa «infamante».

Francesco Verderami

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« Risposta #104 inserito:: Febbraio 23, 2010, 02:54:18 pm »

Il retroscena

Ma per il premier c'è prima la giustizia

Nuovo fronte con il cofondatore

Il presidente della Camera irrita Berlusconi, la strategia resta opposta.

Bondi: rimuovere macigno della giustizia

   
ROMA - Non devono essersi capiti. E l’ennesima incomprensione rischia di aprire una nuova e pericolosa conflittualità tra Berlusconi e Fini. Perché l’ultima volta che si sono trovati a discuterne, i cofondatori del Pdl hanno convenuto sulla necessità di aprire una «fase costituente» dopo le Regionali, così come ha detto ieri il presidente della Camera e come a più riprese ha annunciato il presidente del Consiglio. Peccato che i due siano divisi sulla strategia da adottare. E il loro ultimo colloquio ha misurato la distanza che li separa. In quell’occasione il presidente della Camera aveva invitato il premier a iniziare la stagione delle riforme dai temi sui quali sarebbe più facile trovare l’intesa con le forze di opposizione: da un clima di confronto - a suo dire - non solo ne trarrebbe beneficio il governo, che avrebbe garantita una navigazione meno perigliosa in Parlamento, ma si aprirebbe anche la strada a un’intesa bipartisan sul nodo più spinoso, la giustizia. Il Cavaliere aveva rigettato la tesi, convinto invece che sulle riforme si debba partire proprio dalla giustizia, e non solo per ristabilire subito i confini costituzionali tra il potere politico e la magistratura, ma anche perché - memore di quanto accaduto in Bicamerale - non si fida delle promesse della sinistra.

Insomma, non devono essersi capiti. O forse ieri Fini ha voluto far capire per tempo a Berlusconi che su questo punto è intenzionato a far valere le proprie ragioni, quando verrà il momento. Ed è vero che da trent’anni la retorica delle riforme riempie i volumi degli atti parlamentari, che ogni legislatura è segnata dai buoni propositi di maggioranza e opposizione, ma - così come in passato - la sola evocazione del tema rischia di compromettere gli equilibri politici. Così è bastato che ieri la terza carica dello Stato auspicasse «subito dopo le Regionali » l’avvio di un confronto sui temi che registrano «larga condivisione», per provocare l’aumento del moto ondoso nel Pdl. Fini ha ripetuto in pubblico quanto aveva detto al premier in privato: «Cominciamo dalla riforma delle Camere, che comporta anche la riduzione del numero dei parlamentari », per passare poi alla revisione dei poteri del presidente del Consiglio. La giustizia in coda. Ecco, proprio l’esatto contrario di quello che vuole fare il Cavaliere. Lo dice senza mezzi termini Bondi, che certo spera dopo le elezioni in un «confronto positivo con il Pd, così come ha sempre desiderato Berlusconi. Ma», appunto, «ma è indispensabile sciogliere subito il nodo della giustizia ». Il fedelissimo del Cavaliere ne fa una questione pregiudiziale, «è fondamentale » avvisa, siccome «il sistema è inchiodato da quasi venti anni su questo problema, a causa di quella parte politicizzata della magistratura che condiziona la politica, provocando uno scontro permanente».

Bondi è il pennino del sismografo berlusconiano, ed è evidente che le parole di Fini abbiano fatto registrare una scossa a palazzo Chigi. È all’inquilino di Montecitorio che il ministro dei Beni culturali infatti si rivolge, quando sottolinea che «se non si togliesse il macigno della giustizia dal sentiero, il rischio sarebbe quello di affidare al vento tutti i buoni propositi, e al contempo di infastidire i cittadini, stanchi di sentir parlare a vuoto di riforme». Bondi espone la linea del premier, irritato per la sortita del presidente della Camera, ma intenzionato a non aprire questo fronte alla vigilia delle urne. Sarà il risultato delle Regionali a dettare di fatto l’agenda di governo e delle riforme, e da unmese i sondaggi segnalano un trend negativo per il Pdl, che nei report riservati di Ipsos è sceso dal 37,8% al 36,4%, a fronte di un’avanzata della Lega ben oltre il 10%, e con il Pd che viene valutato al 29,8%. Perciò Berlusconi preferisce glissare, affidando ad altri il proprio verbo. Non è un caso se dieci giorni fa il Guardasigilli ha annunciato la presentazione della riforma costituzionale della giustizia «al primo Consiglio dei ministri dopo le elezioni». Se il titolare della Farnesina, Frattini, ha rilanciato a ruota il tema del «presidenzialismo » che sembrava accantonato, se ieri un altro «azzurro», Valducci, ne ha fatto cenno replicando a Fini: «Ben vengano le riforme condivise, ma non saremo ostaggio dei veti».

I «cofondatori» del Pdl non devono essersi capiti, o forse ieri il presidente della Camera ha fatto capire quel che il ministro Rotondi rivela candidamente, e cioè che «le agende di Fini e Berlusconi sulle riforme sono inconciliabili. Basti pensare che il primo sulla legge elettorale vorrebbe tornare ai collegi uninominali, mentre il secondo vorrebbe blindare e santificare il modello attuale. La verità è che ognuno canta il proprio spartito, e se si mettessero a farlo in pubblico si rischierebbe di sentire un coro stonato». Non è dato sapere se riusciranno ad accordarsi, è certo che nel Pdl non è il momento di verificarlo, almeno così la pensa La Russa, che si traveste da capo della protezione civile di partito e si adopera per puntellare l’edificio: «Fini è presidente della Camera - minimizza il coordinatore in quota An - e nel suo ruolo istituzionale non poteva che appellarsi alle riforme condivise per far partire il dialogo. Va bene così?». Se va bene a Berlusconi...

Francesco Verderami

23 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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