LA-U dell'OLIVO
Aprile 23, 2024, 09:15:43 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 2 3 [4] 5 6 ... 18
  Stampa  
Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 125855 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #45 inserito:: Dicembre 20, 2008, 12:14:21 pm »

IL CASO NAPOLI:L'INCHIESTA

Il sistema Roma e Alfredo l'«amico di tutti»

L'avvocato Pellegrino jr: «Feci ricorso contro di lui, mi dissero di essere prudente»


Questa finora è una Tangentopoli senza tangenti, un'inchiesta penale sul malcostume politico e non sul malaffare. Il rischio quindi è che in assenza di prove e di reati finisca per andare assolto anche il malcostume. Perché non era certo virtuoso il «sistema» che ruotava attorno all'imprenditore Alfredo Romeo, e che da Napoli si è espanso fino a Roma. A Roma quel «sistema» c'è chi l'ha visto da vicino, come Gianluigi Pellegrino, figlio dell'ex senatore Giovanni Pellegrino, che negli anni di Mani pulite fu uno dei pochi, sinceri garantisti del Pci-Pds. Del padre Gianluigi avrebbe desiderato seguire le orme politiche, ha invece preso le redini dello studio legale. E da avvocato si è imbattuto in Romeo, difendendo una società concorrente nella gara da 576 milioni decisa dalla giunta di Veltroni per la manutenzione delle strade capitoline.

LE «SQUADRE» - «A questo tipo di gare - spiega Pellegrino - si partecipa di solito in squadra, in modo che le imprese si dividano i ruoli. Nella squadra di Romeo c'era un imprenditore, Luigi Bardelli, che era stato consigliere d'amministrazione di una società pubblica, "Risorse per Roma". Cioè proprio l'ente che aveva predisposto gli atti per il bando della gara su incarico del Comune. Denunciai la cosa per conto della Manital, la società che assistevo, e decidemmo di ricorrere al Tar, chiedendo che la squadra di Romeo venisse esclusa, perché in potenziale conflitto d'interessi». Fu allora che l'avvocato iniziò a capire chi fosse l'immobiliarista arrestato giorni fa a Napoli: «Non l'ho mai incontrato, ma mi sembra di conoscerlo. Perché dopo il ricorso molte persone iniziarono a parlarmi di lui, a invitarmi alla prudenza. "Sai, è un tipo dinamico e anche molto potente". Di più "è un intoccabile"». Pellegrino sostiene che «nessuno mi ha fatto nomi dei suoi amici. Forse perché era amico di tutti. Se posso chiosa giocando sul nome dell'imprenditore - direi che il Romeo aveva molte Giuliette in politica».
È ormai noto che il Tar diede ragione alla Manital, ma quello che Pellegrino contesta è il modo in cui è stato raccontato il resto della storia: «Non è vero che il Consiglio di Stato diede poi ragione a Romeo. Disse piuttosto che la Manital, per ragioni di forma, non poteva partecipare alla gara e dunque non poteva presentare il ricorso. Insomma, non sentenziò che l'aggiudicazione dell'appalto a Romeo fosse legittima». Il dettaglio non è di poco conto, se è vero - come sottolinea l'avvocato - che «il Comune non ha mai firmato il contratto con Romeo, ma gli ha assegnato i lavori per la manutenzione della rete viaria con un affidamento provvisorio». Grazie a questo escamotage «ancora oggi, dopo che il nuovo sindaco ha revocato l'incarico, ci sono i cantieri di quella società per le strade di Roma. E l'atto di revoca resta un passaggio delicato: se venisse redatto male, Romeo potrebbe impugnarlo e citare per danni il Comune».

PARADOSSO ALL'ITALIANA - Sarebbe davvero clamoroso, un tipico paradosso all'italiana, l'effetto perverso dei bizantinismi giuridici che consentono di trovare scappatoie. Sia chiaro, non c'è una prova del malaffare, almeno non c'è ancora. Tuttavia è evidente il segno di un malcostume politico «gravissimo e diffuso», per certi versi ancor più pericoloso del reato. «In effetti - commenta Pellegrino - se è condannabile solo ciò che è reato, c'è il rischio che il malcostume dilaghi. D'altronde chi, volendo trarre profitto e sapendo di non pagar dazio, resisterebbe a continuare nella pratica? Perciò chi si è macchiato di queste colpe dovrebbe fare un passo indietro». Il dito è puntato contro l'ex amministrazione romana, contro «il muro di gomma della burocrazia che si faceva forte degli appoggi politici, nel silenzio dei media. Alcuni giornali di destra, a dire il vero, ci diedero voce». Per il resto fu una battaglia combattuta con la carta bollata, «presentammo molte diffide chiedendo che venisse revocata l'aggiudicazione dell'appalto. Fu tutto vano. Eppure il sistema di controllo c'era, se solo la giunta comunale avesse voluto ascoltarci». Perché nessuno lo fece? «È la domanda che mi faccio da tempo e alla quale non so dare risposta», sospira Pellegrino. Come il padre è di centrosinistra, «lo sono per convinzione prima ancora che per filiazione », per questo è amareggiato dai segni di degrado politico della sua parte. Ed è preoccupato dall'inchiesta giudiziaria, «temo che l'elefante partorisca un topolino». Come il padre è un garantista, e sa che non spetta alla difesa dimostrare l'innocenza cristallina. Tocca all'accusa l'onere della prova. Epperò fuori dalle aule di giustizia resta il problema del malcostume, di quel «legame forte e diffuso tra politici e imprenditori » che ha avuto nell'«intoccabile » Romeo uno dei protagonisti. Uno, non l'unico.

Francesco Verderami
20 dicembre 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #46 inserito:: Gennaio 15, 2009, 12:23:27 am »

Il retroscena

Gianfranco e il premier

L'ultima lite è sul Pdl

E la nascita del nuovo partito rischia di essere posticipata


ROMA — Non si parlano. Non si vedono. Non si sentono. E soprattutto non si sopportano. Ma le differenze di carattere non c'entrano: lo scontro tra Berlusconi e Fini è politico, è la manifestazione di profonde divergenze sul modo in cui sta nascendo il Pdl, «e siccome le tensioni si stanno riverberando sul governo, c'è il rischio — ammette il forzista Valducci — che la nascita del nuovo partito sia posticipata». Eppure il premier aveva già fissato la data delle assise: il 27 marzo, giorno della vittoria elettorale nel '94. Perciò La Russa, plenipotenziario di An, non crede ad un rinvio, «anche perché se ci fosse un ritardo, non si tratterebbe di un ritardo». Diverrebbe un problema serio.

Tuttavia che esista l'ipotesi di un «rinvio» lo s'intuisce dal vertice che Berlusconi ha convocato oggi con i ministri azzurri e lo stato maggiore di Forza Italia. Si parlerà anche di Pdl, «ed è evidente — sussurra uno dei partecipanti — che siamo in presenza di una crisi di rigetto, per quanto piccola. Si tratta di mettere insieme due modi di far politica. Anzi, due mondi». Il Cavaliere resta legato all'idea che tempo addietro il suo amico Confalonieri raccontò così: «Sarà un'autentica rivoluzione culturale. Nascerà un partito un po' lasco, senza le caratteristiche di un partito tradizionale ma — confidò il patron di Mediaset — strutturato in modo tale da sopravvivere comunque a Berlusconi. Sarà il suo lascito: un partito conservatore italiano». È nella «struttura» che le idee del presidente della Camera divergono da quelle del premier, «e c'è un solo modo perché il Pdl veda la luce», dice il segretario del Pri Nucara: «I due si devono parlare e mettere d'accordo. Altrimenti il progetto non reggerà ».

È vero che tanto il Cavaliere quanto il leader di An sono determinati ad andare avanti. «Indietro non si torna», precisa Berlusconi. Anche Fini è dello stesso parere. Lo spiegò alcune settimane fa, in un colloquio riservato in cui si intravedevano già le avvisaglie della tempesta: «La situazione è difficile ma non cambierà nulla. Berlusconi ha intenzione di continuare a governare a colpi di decreti e fiducia. Tremonti decide tutto di testa sua. Bisognerebbe invece muoversi in altro modo. Io farò il presidente della Camera. E poco importa se di volta in volta scriveranno che faccio il ventriloquo di Napolitano, che miro al Colle o a sostituire Berlusconi. Non ci faccio più caso. La verità è che non perdo di vista il Pdl. Quello è un grande obiettivo».

L'obiettivo è comune, però il crescendo degli scontri rischia di danneggiare il progetto. Perché non c'è dubbio che alle Europee ci sarà la lista unica, ma in quale contesto? I contrasti tra Berlusconi e Fini tolgono energie che servirebbero a contenere l'offensiva leghista, sempre più «partito di lotta e di governo», come lo definì Matteoli, sempre più orientato a una logica di «mani libere » nell'alleanza: i casi Alitalia e tassa per gli immigrati lo dimostrano. «In effetti — dice La Russa — negli ultimi tempi la Lega va a caccia di consensi nel nostro elettorato. In una coalizione esiste un dovere di lealtà tra alleati e il diritto di ogni singola forza a preservare il proprio patrimonio elettorale. Noi dovremo iniziare a esercitare con maggior vigore il nostro diritto». Berlusconi continua a ripetere che «con Bossi non ci sono problemi», ma dopo il vertice del lunedì Castelli ha costretto Gianni Letta a smentire pubblicamente di aver tifato per Air France nella partita Alitalia, e Maroni ha rilanciato la tassa per gli immigrati, preannunciandone l'inserimento nel ddl sicurezza.

Tra il premier e il ministro dell'Interno si è infine trovata un'intesa che sa però di vittoria per la Lega: non si chiamerà tassa ma «contributo» per rilasci e rinnovi dei permessi di soggiorno, simile a quanto previsto in molti Paesi europei. Anche Fini sarebbe d'accordo. Rimangono i contrasti tra il leader di An e il Cavaliere. «Devono parlarsi », sospira il forzista Lupi. Anche perché la situazione sarà pure diametralmente opposta rispetto alla scorsa legislatura — per numeri e stabilità politica — ma l'immagine di rissa continua che da tempo offre l'esecutivo all'opinione pubblica fa tornare in mente il governo Prodi.

Francesco Verderami
14 gennaio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #47 inserito:: Gennaio 17, 2009, 03:08:55 pm »

Sette giorni. I lumbard si preparano a «battere cassa» alle amministrative

Voto locale, la Lega pensa allo strappo

E fa un sondaggio per «misurarsi»

Sospetti nel Pdl, mentre nel Carroccio cresce la voglia di andare da soli


MILANO - Berlusconi e Umberto Bossi non si erano già messi d'accordo? Non avevano già deciso di andare insieme al voto alle prossime Amministrative? Invece no, l'intesa non c'è. Almeno non c'è ancora. Così il documento che il Cavaliere aveva fatto predisporre rimane senza firma.

«L'intesa si farà, Umberto l'ha promesso», ha detto il premier al recente vertice forzista. A parte il fatto che c'è una certa differenza tra un'affermazione di principio e un accordo elettorale, cosa ne è stato del patto stipulato dal Cavaliere e il Senatùr a settembre, durante la cena a palazzo Grazioli alla quale partecipò anche Renzo Bossi? Le Amministrative erano ancora lontane, eppure Berlusconi volle sincerarsi di «certe voci che arrivano dalle regioni»: «Sento troppa confusione, Umberto». «C'è qualche rompiballe, ma non ti preoccupare». «Niente scherzi, eh?». «Tranquillo, si va insieme dappertutto». Ora, siccome quel copione si ripetè in Consiglio dei ministri, quando il governo approvò il testo sul federalismo, ci sarà un motivo se ieri il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto ha pubblicamente chiesto alla Lega di «prepararsi per tempo» in vista delle Amministrative, «dove andranno presentate liste unitarie»: «Perché l'alleanza va rispettata. Non possono pensare di andare da soli al primo turno».

Invece nel Carroccio si accarezza questa ipotesi. Emanuela Dal Lago, ex presidente della provincia di Vicenza e attuale vice capogruppo dei deputati leghisti, avvisa intanto che «prima di definire le intese c'è da aspettare il voto sul federalismo. Poi, personalmente non credo che sul territorio ci sia bisogno di alleanze fotocopia rispetto a quella nazionale o a quelle regionali. La decisione spetta a Bossi, tuttavia ritengo che la Lega per le Amministrative dovrebbe essere più libera, più se stessa, assumere il rischio di correre da sola al primo turno. In fondo con il Pdl non ci siamo mica sposati».

Il segnale arriva dal Veneto, dove i «padani » sono ormai il primo partito, e nei sondaggi vengono accreditati di percentuali che nemmeno la Dc dei tempi d'oro. In Veneto cinque province andranno al voto. In Lombardia otto. In Piemonte sei. E Bossi — lasciando liberi i suoi di minacciare il Pdl — si prepara a batter cassa. Di più: la Lega ha commissionato un sondaggio per verificare quanto prenderebbe se corresse da sola, per esempio nelle regioni rosse. Un modo per alzare ulteriormente il prezzo, sapendo che Berlusconi dovrà concedere. Perché il premier non può permettersi gli «scherzi», perché il 6 e 7 giugno non solo si terrà il più importante test di elezioni locali, con il rinnovo di 73 province e oltre 4000 comuni, ma ci sarà anche il voto europeo. Se la Lega si slegasse, l'effetto trascinamento potrebbe essere devastante per il Pdl nella competizione per Strasburgo. Secondo i calcoli del professor Paolo Natale, pubblicati da Europa, il Carroccio raddoppierebbe la rappresentanza: da 4 a 8 seggi. Il fatto è che ne sottrarrebbe un paio a Berlusconi. È al primato nordista che punta il Senatùr, in vista della trattativa per le Regionali.

Tra gli uomini del Cavaliere c'è grande allarme. Il problema è stato affrontato al vertice forzista presieduto da Berlusconi, che ha definito «indispensabile » l'intesa al primo turno con il Carroccio: se i leghisti avessero «mani libere», potrebbero forzare sulle loro parole d'ordine: federalismo, immigrazione, patto di stabilità dei comuni, versione moderna di «Roma ladrona». Con danni elettorali ma anche di governo. Raccontano che il Cavaliere si sia infuriato scorrendo i sondaggi locali: «Hanno gente brava. Hanno giovani. Hanno la base. Controllano il territorio. Noi dove siamo? ». Bossi c'è. E nei comuni con meno di 15 mila abitanti è pronto ad annunciare che la Lega correrà da sola. Berlusconi sarà costretto ad accettare, nonostante i dirigenti locali del Pdl siano già in rivolta, perché è proprio da quei comuni che il Carroccio prende la sua forza. Fossero tutti questi i problemi del premier...

Francesco Verderami

17 gennaio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #48 inserito:: Gennaio 23, 2009, 01:04:08 pm »

Il retroscena

E Bossi dà i «due mesi» a Giulio

«A marzo voglio i conti».

Spuntano vecchie stime: per il federalismo fiscale non bastano 100 miliardi
 
 
ROMA — «Fino a marzo. Tremonti ha chiesto tempo fino a marzo, e noi gli daremo tempo fino a marzo». E Bossi, mentre parlava attorniato dai deputati leghisti, continuava a scrivere una ruvida lettera che di lì a poco avrebbe inviato al ministro dell’Economia. Una settimana fa le tensioni tra il senatur e l’«amico Giulio» erano arrivate all’apice: l’emendamento che consentiva a Roma di sforare i limiti di spesa regolati dal patto di stabilità per i comuni, aveva scatenato la polemica dei sindaci nordisti del Carroccio.

Quel giorno, dinnanzi alla rivolta dei suoi parlamentari, Bossi aveva convocato il gruppo della Camera e aveva esortato Tremonti a partecipare alla riunione per spiegare la questione. Ma il titolare di via XX settembre aveva declinato l’invito, facendo per di più sapere che il patto di stabilità non andava toccato, altrimenti non solo sarebbero saltati i conti ma prima ancora si sarebbe dimesso lui.

Chissà se la mossa del leader leghista, quella lettera, sia stata dettata da un sincero moto di stizza o se invece sia stato un colpo di teatro inscenato per placare gli animi dei suoi e convincerli a votare la fiducia al decreto anti-crisi. È certo che Bossi ha parlato di «marzo» come di una sorta di tempo limite: «Tremonti dice che deve fare i conti, che sta cercando di risparmiare i soldi per il federalismo fiscale. Staremo a vedere». Quella sorta di time-out serve al ministro dell’Economia, in attesa di nuovi appuntamenti europei, e soprattutto della trimestrale di cassa: perché c’è più di un timore sul crollo degli introiti derivanti dall’Iva, «e noi—ripete ogni volta Tremonti — dobbiamo stare attenti alle agenzie di rating: se declassassero il nostro debito sarebbe un disastro», vista la concorrenza dei titoli di Stato tedeschi e francesi. A marzo forse la situazione sarà più chiara, sebbene nessuno ne abbia certezza. Quando Tremonti dice che «si naviga a vista», è perché finora ogni previsione è saltata: l’anno scorso, a governo appena insediato, si riteneva che l’impatto della crisi in Italia sarebbe avvenuto in settembre, poi si spostò tutto a dicembre, e ora al primo semestre del 2009.

A marzo forse il ministero dell’Economia fornirà alla Lega ciò che chiede da tempo, e cioè una proiezione dei costi del federalismo fiscale, che ancora non c’è. «Eppure qualche dato ci dev’essere», andava ieri a memoria il sottosegretario Crosetto: «Se non ricordo male, durante il passato governo Berlusconi venne fatto uno studio. Il costo della riforma calcolato allora era superiore ai cento miliardi». Un’enormità di questi tempi. Perciò Tremonti invita gli alleati a un sano realismo. L’ha fatto capire ieri in Aula al Senato, svelando una verità che tutti già conoscevano: «Nell’attuazione del federalismo fiscale terremo in considerazione il vincolo esterno, cioè fare la riforma in un contesto di crisi. E l’obiettivo del governo è evitare che l’attuazione del federalismo finisca per intensificare e prolungare la crisi». Traduzione: non possiamo appesantire i conti pubblici.

Rispetto alla scorsa settimana le tensioni con la Lega sono diminuite, ma restano latenti. Lo testimoniano alcune battute salaci su Tremonti fatte da Bossi con autorevoli esponenti del Pdl. Ne sono prova i brusii dei senatori leghisti quando ieri il titolare dell’Economia ha detto all’Assemblea di palazzo Madama che «non è ancora possibile stimare i costi della riforma», elencando così tante variabili da prefigurare la difficoltà dell’operazione. Le parole di Tremonti hanno creato un problema al Carroccio, che attraverso il ministro Calderoli ha lavorato all’intesa con il Pd. Ora i democratici sono invece propensi a votare contro la riforma. Rischiano di spaccarsi, è vero. Ma non appoggiando il provvedimento metterebbero in crisi il progetto leghista, che mirava a una riforma condivisa con l’opposizione.

La partita sarà comunque lunga e complessa. Il momento della verità arriverà con i decreti attuativi, quando il ministro dell’Economia dovrà fornire i soldi per la riforma. Sarà allora che «Giulio» e «Umberto» metteranno alla prova il loro rapporto. Nessuno dei due intende anticipare i tempi: Tremonti perché confida in una situazione economica migliore, Bossi perché vuole che il federalismo venga varato definitivamente a ridosso delle Politiche del 2011. Avrebbe la campagna elettorale già fatta.

Francesco Verderami
22 gennaio 2009

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #49 inserito:: Gennaio 23, 2009, 01:17:35 pm »

Retroscena

E Silvio ruppe gli indugi «Serve un miliardo»


Prima dell'annuncio il premier non ha avvisato nessun rappresentante del governo. Nemmeno Gianni Letta. E sono molte le ragioni che l'hanno spinto a ufficializzare proprio ieri un vertice per interventi a sostegno del settore automobilistico. Perché proprio ieri Confindustria ha chiuso la trattativa sui contratti, ennesimo segnale di un rapporto di collaborazione con l'esecutivo.

Dopo aver risposto agli appelli del premier anche sulla salvaguardia dell'«italianità» di Az, il mondo delle imprese chiedeva a Berlusconi di non far cadere nel vuoto la richiesta di aiuto. E il Cavaliere ha risposto, mettendo dinanzi al fatto compiuto Tremonti. Il titolare dell'Economia è chiamato a un ruolo difficile in questo tornante della crisi, e sa di trovarsi nel centro del mirino. L'ha confidato lunedì scorso, durante la riunione dell'Aspen che si è tenuta a Milano: «Mi pressano tutti, e tutti chiedono solo una cosa. Soldi. Ma i soldi non ci sono». Dovrà trovarli per il comparto auto, così ha deciso Berlusconi, convinto che - dopo la compagnia di bandiera - si debba salvaguardare «un altro importante asset italiano». Il premier si sarebbe rafforzato nelle proprie certezze dopo alcune chiacchierate con Alfredo Cazzola, il suo candidato sindaco per Bologna, l'inventore del Motorshow. E comunque erano chiari i messaggi che gli erano giunti da Confindustria, e che ieri sera la Marcegaglia ha esplicitato all'incontro tra governo e parti sociali: «È necessario un intervento a favore del settore automobilistico, se si vuole salvaguardare il sistema Paese». Perché Tremonti ha ragione a temere la concorrenza dei titoli di Stato di Parigi e Berlino, ma Berlusconi teme che la concorrenza di francesi e tedeschi in alcuni settori industriali possa mettere in ginocchio l'Italia.

Ci sarà un motivo se per la prima volta ieri il premier ha evocato il rischio di un «nuovo Ventinove», se dopo aver fatto pubblicità ai titoli Eni ed Enel, ieri ha esortato a non cambiare tenore di vita così: «Se una famiglia aveva programmato l'acquisto di un'auto, e se la può ancora permettere, perché non deve farlo?». Si vedrà se l'aiuto pubblico sarà sotto forma di incentivo per la rottamazione o di un fondo a favore dell'innovazione tecnologica. Fonti autorevoli del governo, sulla base di conti ancora molto sommari, stimano un intervento dello Stato tra gli ottocento milioni e il miliardo. «Quando sono in ballo quasi cinquecentomila posti tra dipendenti e indotto - dice il presidente della commissione Lavoro della Camera, Saglia - non si può parlare di favori alla Fiat, ma di sostegno al sistema». Berlusconi non sente ragioni. Toccherà a Tremonti verificare come reperire nuove risorse. In un momento assai delicato per il governo, raccontano che il titolare dell'Economia si stia impegnando in un lavoro di squadra con i colleghi, «è simpatico persino con Brunetta», sorride un ministro. Ieri alcuni rappresentanti delle Regioni hanno testimoniato che per la prima volta si è avvertita durante l'incontro con il governo «una forte sintonia tra Letta, Sacconi, Fitto e Tremonti». È attraverso l'intesa con le Regioni che l'esecutivo vorrebbe reperire gli 8 miliardi necessari per gli ammortizzatori sociali. Ora serve un altro miliardo per l'auto. Anche perché le trattative riservate sui contratti, che per mesi Gianni Letta ha condotto con Epifani, sono fallite ieri sera. Il democratico Damiano da tempo aveva detto a esponenti della maggioranza di «non farsi illusioni». Così è stato. E ora che la Cgil è fuori dall'accordo, con la crisi economica che entra nella fase più acuta, Berlusconi teme una stagione di forti tensioni sociali. La preoccupazione è visibile. Per questo il premier ha modificato i toni nelle sue esternazioni: «Essere ottimisti non significa non essere realisti». Per questo vuole soldi da Tremonti.

Francesco Verderami

23 gennaio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #50 inserito:: Gennaio 29, 2009, 06:24:03 pm »

Ancora incognite sull'entità degli stanziamenti per gli aiuti al settore

La mossa di Letta e la tregua dei ministri

Equilibrio precario nell'esecutivo diviso tra chi si sostiene gli interventi per il settore auto e chi invece li osteggia


Il primo brivido l'ha procurato Gianni Letta. Sembrerà incredibile ma il braccio destro di Berlusconi — aprendo il vertice sulla crisi dell'auto a palazzo Chigi — ha voluto togliersi un sassolino dalla scarpa con Epifani: «Mi spiace rilevare che certe ricostruzioni di stampa sull'accordo per i contratti non sono state veritiere». Così dicendo Letta ha rivolto lo sguardo verso il capo della Cgil, che aveva scaricato sul governo la responsabilità di averlo messo dinnanzi al fatto compiuto: «Non è così», ha chiosato Letta, che per mesi e a più riprese ha tenuto colloqui riservati con il leader sindacale.

È stato un modo per «ristabilire la verità dei fatti». D'altronde era l'unico modo per il sottosegretario, visto che dal giorno dello «strappo» sui contratti Epifani si nega al telefono con tutti: siano esponenti del governo o di Confindustria.

Nel vertice delle puntualizzazioni, anche Scajola ha voluto precisare che «gli interventi saranno rivolti a favore dei settori produttivi».
«Ministro», è stato interrotto: «Ha detto "settori" e non "settore"». «Ho inteso misurare le parole», ha risposto il titolare per lo Sviluppo economico. Una conferma che il governo non limiterà il piano anti-crisi al comparto auto. Sulle risorse da investire, invece, Scajola non ha anticipato nulla, sebbene prima dell'incontro abbia voluto puntualizzare (appunto) che le voci circolate sui 300 milioni «sono infondate». Una versione edulcorata dello sfogo al quale il ministro si era lasciato andare in mattinata: «Che ci facciamo con 300 milioni, quando la Francia ha investito 5 miliardi?». Chi fosse il destinatario della sua arrabbiatura, è facile capirlo: il titolare dell'Economia. Epperò all'ora di pranzo, alla riunione interministeriale che ha preceduto l'incontro con le parti, le tensioni sembra si siano dissolte.

I due fronti che finora si erano osteggiati nel governo - Tremonti, Sacconi e Calderoli da una parte; Letta, Scajola e Prestigiacomo dall'altra - avrebbero raggiunto un'intesa, di sicuro hanno siglato una tregua. Se ciò sia dovuto alle pressioni del premier, intenzionato a sostenere il settore auto, è tutto da verificare. È certo che il progetto di stampo europeo al quale si sta lavorando, sarebbe più simile al modello francese che a quello tedesco, e verrebbe esteso ad altri settori. In questo quadro Scajola avrebbe trovato il consenso della Lega e quello del ministro di via XX Settembre. All'incontro di martedì con i vertici Fiat, Tremonti aveva assicurato il pieno appoggio del Tesoro per i finanziamenti della Banca europea per gli investimenti. Il resto compete alle Attività produttive, e le eventuali risorse andranno trovate nei bilanci di quel dicastero. Dunque, le casse dell'Economia non verrebbero intaccate.

L'accordo (o la tregua) nel governo regge su equilibri precari. Sindacati e industriali ieri l'hanno capito quando Scajola ha chiesto «dieci giorni» per presentare il piano. Perché le divisioni sotto traccia restano. Cosa pensi degli aiuti all'auto, Calderoli l'ha confidato al vicepresidente di Confindustria Bombassei: «Io ce l'ho solo con la Fiat». Cosa dica Sacconi, lo sanno quegli industriali veneti che a Treviso hanno osannato il ministro del Lavoro per il suo attacco alle «logiche assistenzialiste delle grandi imprese». Ma dopo che Berlusconi ha raccolto il grido di dolore del settore auto, e ci ha messo la faccia, è impensabile una retromarcia. E il Pd è pronto a sostenere il piano, sebbene confidi non si tratti di pochi spiccioli: «Trecento milioni - spiega il sindaco di Torino, Chiamparino - non possono bastare. Eppoi, posso capire il problema dei conti per Tremonti, ma il riflesso pavloviano del Carroccio contro la Fiat è incomprensibile. A parte il fatto che con Marchionne le cose sono cambiate, Calderoli sa che la Brembo sta fra Milano e Bergamo, che l'Iveco è a Brescia, e che non pochi di quegli operai votano Lega». Ora però il governo si è compattato. Su cosa non si sa, visto che al vertice delle puntualizzazioni, non è stato rivelato il piano né l'ammontare delle risorse.

Francesco Verderami

29 gennaio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #51 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:45:22 pm »

Scajola: «I padri costituenti chiari, nessun diritto di veto sui provvedimenti del governo»

L'accusa di Berlusconi: grave errore del Colle

Il premier ai suoi: atto figlio di un cupo armamentario culturale
 

«Napolitano ha commesso un errore grave». E le parole pronunciate da Berlusconi alla notizia della morte di Eluana Englaro innescano immediatamente l'offensiva del Pdl contro il Colle, riecheggiano nei comunicati dei parlamentari del centrodestra, diventano un esplicito atto d'accusa verso il Quirinale con il capogruppo Gasparri: «In questa vicenda peseranno le firme messe e quelle non messe ». Quella che Napolitano ha rifiutato di apporre al decreto, e che a detta del premier ha «reso impossibile l'azione del governo per salvare una vita».

In quell'atto del capo dello Stato, il Cavaliere ha visto «tutta la cupezza di un armamentario culturale figlio di una stagione che non è ancora tramontata». Non usa il termine comunista, Berlusconi. O meglio, quel termine giurano che non l'abbia usato ieri sera. La morte della Englaro spezza l'afflato trasversale di quanti — anche nel Pd — erano pronti a votare il provvedimento voluto dal premier, e apparecchia il tavolo di una polemica politica che è già scontro istituzionale. Il ministro Scajola lo spiega con l'accortezza tipica di un diccì, ma lo spiega: «Mi auguro che la vicenda possa servire a fare una legge, e che la legge porti il nome di Eluana. Purtroppo il Parlamento è stato lento nel legiferare. Il governo ha tentato di rimediare, e sarebbe stata cosa buona se il decreto avesse avuto il corso che non ha avuto».

Dinnanzi al rischio di un'escalation della tensione tra Palazzo Chigi e il Colle, Scajola sottolinea come «i padri costituenti avessero chiarito senza alcun fraintendimento le prerogative del governo. Non ci può essere un diritto di veto sopra i provvedimenti dell'esecutivo. Spiace che il problema sia emerso su un tema così delicato e proprio ora che al Quirinale siede un presidente della Repubblica di grande equilibrio ». L'equilibrio su cui aveva retto la coabitazione tra Napolitano e Berlusconi è saltato. Il capo dello Stato aveva avvertito immediatamente l'accerchiamento, non a caso ieri pomeriggio ha invitato Casini al Colle per capire quale fosse la posizione del leader centrista, dopo che l'Udc si era schierato a favore del decreto. E ieri sera il presidente della Repubblica ha chiamato Fini, furibondo per le parole pronunciate da Gasparri. Quale fosse il suo pensiero, il presidente della Camera l'ha fatto sapere subito: «Gasparri è un irresponsabile». Si ripropongono così le posizioni di venerdì scorso, quando era scoppiato lo scontro istituzionale. È tutto da vedere se il Cavaliere, come temono nel Pd, miri al bersaglio grosso. È certo ormai il muro contro muro tra Quirinale e Palazzo Chigi, sta tutto nel ragionamento pronunciato dal premier in queste ore: «Davvero Napolitano dice che si metterà di traverso sulla riforma della giustizia? Ma non è solo lui che controfirma i provvedimenti del governo. Anche il governo controfirma gli atti del presidente della Repubblica. E se finora l'ho fatto senza nemmeno vedere di cosa si trattava, ora ci metterò più attenzione».

Prossimamente Napolitano sarà chiamato a nominare un giudice della Corte costituzionale. Così il «caso Englaro», con tutta la sua drammaticità, scolora e lascia spazio a uno scontro tra cariche dello Stato che ruota attorno a una questione politica di prima grandezza posta da Berlusconi: «In Italia chi comanda?». Nei suoi conversari, tempo addietro, affacciava l'interrogativo con la «storiella delle sedie»: «Quando c'è un evento pubblico, il cerimoniale stabilisce che la prima sedia spetti al capo dello Stato. Poi c'è la sedia per il presidente del Senato, poi c'è quella per il presidente della Camera, poi quella per il presidente della Consulta. Infine, se ne rimane ancora una, c'è anche quella per il presidente del Consiglio. Altrimenti si può sempre arrangiare con uno strapuntino».

La rupture berlusconiana potrebbe portare allo «scontro finale» con Napolitano, come sostiene Cossiga, oppure — come immaginano i più fedeli collaboratori del Cavaliere — a un «chiarimento» sulla linea di demarcazione dei rispettivi ruoli istituzionali. Di sicuro il premier ha colto l'occasione del «caso Englaro » per mettere la parola fine alla prassi avviata da Oscar Luigi Scalfaro ai tempi di Tangentopoli, quando — in quella fase emergenziale — l'allora capo dello Stato chiese e ottenne che ogni atto di governo fosse sottoposto al vaglio preliminare del Quirinale sulla base del principio della «co-decisione». Un principio che persino autorevoli esponenti del Pd considerano «estraneo» alla Costituzione, e che oggi il premier definisce «una prassi inaccettabile ». Il braccio di ferro è appena iniziato.

Francesco Verderami

10 febbraio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #52 inserito:: Febbraio 15, 2009, 03:07:25 pm »

IL RETROSCENA

L'avviso di Rutelli e degli ex Dl: avanti così e ci sarà la scissione

Il presidente del Copasir: non accetteremo il ruolo di «partito contadino» alla polacca né un derby tra Ds
 

ROMA — Sono soci fondatori del Pd e non intendono diventare quello che furono gli indipendenti di sinistra ai tempi del Pci. Non vogliono cioè morire da «indipendenti di centro » in una forza egemonizzata dagli ex Ds. Insomma, non accettano il ruolo del «partito contadino polacco», per usare l'espressione di cui Rutelli si serve per esorcizzare il rischio. Ma il rischio è altissimo, almeno così è avvertito dagli esponenti democratici di area moderata, dopo l'investitura di Bersani fatta ieri da D'Alema. Con la sua mossa l'ex ministro degli Esteri ha reso pubblica un'operazione di cui tutti erano a conoscenza. E infatti non è da ieri che si respira un clima di scissione nel Pd. Da giorni, per esempio, nei suoi colloqui riservati l'ex leader della Margherita osserva sconsolato l'orizzonte: «Abbiamo faticato tanto per dar vita a una cosa nuova e ora dovremmo andare alle primarie per la segreteria con due candidati dei Ds? È impensabile. Basta. Così non si va da nessuna parte». Rutelli non riduce il problema a una questione nominalistica, «non è solo l'infinita lotta tra Walter e Massimo, a cui ora si aggiunge Pier Luigi. E non si può nemmeno ridurre tutto allo scontro fra centristi e sinistristi. Qui — ha spiegato ad alcuni colleghi — c'è la difficoltà di un partito che fa fatica su tutto, fatica a parlare con il Paese, e si rifugia magari nelle piazze, negli slogan, oppure dietro la Cgil. O ancora nel laicismo. E appena provi a esprimere una tesi, c'è chi dà una lettura caricaturale del rapporto tra i cattolici e la Chiesa. Come fossimo teleguidati dai cardinali. Mi chiedo, allora, cos'è il Pd se non possono avere patria i contributi di idee di quanti militavano nella Margherita? Non è un caso infatti se un terzo degli elettori dei Dl se n'è andato».

Sono rimasti loro, quelli del gruppo dirigente, i nuovi «indipendenti di centro», ridotti al ruolo di spettatori nella sfida tra post-diessini. Una sfida che si preannuncia cruenta e che li vede peraltro divisi. Lunedì scorso le crepe sono diventate ancor più evidenti durante una discussione avvenuta nello studio di Castagnetti e voluta da Marini. Eluana Englaro non era ancora morta, e l'area cattolica tentava di arrivare a una linea condivisa sul provvedimento del governo. Tranne Rutelli, escluso, c'erano (quasi) tutti: Franceschini, Fioroni, la Bindi, Follini, Lucà, Zanda, e anche Tonini. Ma siccome un punto di vista comune non si trovava, la discussione si è accesa. Finché — durante l'intervento della Bindi che invitava a non votare il ddl — Fioroni è sbottato: «Parla, Rosi, parla. Vai avanti così che ci rimani solo tu a portare la bandiera dei cattolici nel Pd dopo le Europee ».

Si sarà trattato di uno sfogo dettato dalla concitazione del momento, ma è indicativo della situazione. Fioroni è preoccupato che l'offensiva di D'Alema «cambi il progetto del Pd». Quale sia il progetto dalemiano è chiaro agli «indipendenti di centro»: Bersani alla guida del partito che aggreghi pezzi di sinistra radicale e in prospettiva lanci un candidato- premier espressione del mondo cattolico o comunque moderato. «Ma noi non potremmo fare gli indipendenti di centro in un partito troppo di sinistra», commenta Follini: «Se fossimo costretti ad assistere dalla tribuna al derby tra Veltroni e Bersani, vorrebbe dire che il Pd ha preso la deriva della "Cosa 4". E noi lì non potremmo approdare». Più o meno quanto avrebbe spiegato a D'Alema giorni fa con una battuta: «Massimo, non è pensabile che noi stiamo in Italia con la Cgil, in Europa con il Pse e in Medio Oriente con Hamas». Tra i democrats la parola «scissione » non è più un tabù, ma un'eventuale prospettiva da analizzare. «E D'Alema — secondo Lusetti — ha messo in conto una scissione dal centro nel Pd. Se ha lanciato un'Opa sul partito è colpa della debolezza di Veltroni. Ma se i post-comunisti pensano di rimettere una "S" alla sigla del Pd, un pezzo di noi se ne andrà». È da chiarire dove. E comunque non tutti prenderebbero questa decisione. Marini potrebbe restare. Certo, in caso di una transumanza di cattolici, non gli sarebbe facile accettare una soluzione Bersani, sebbene abbia stretto di nuovo con D'Alema e giudichi «disastrosa» l'attuale gestione. Perciò ha ripreso a dire «mo' vediamo » e invita i suoi alla «prudenza »: «Niente cedimenti di nervi». I nervi sono invece a fior di pelle, e ognuno si muove in proprio. Fioroni ha serrato ancor di più l'asse con Veltroni, testimoniato dal rimpasto nella giunta del Lazio che garantisce al leader del Pd la maggioranza regionale del partito. L'operazione è stata fatta ai danni di Enrico Letta, davanti al quale Veltroni ha recitato la parte di chi cadeva dalle nuvole: «La giunta del Lazio? Non ne so niente. Vado a informarmi». Letta attenderà le Europee per informare delle sue mosse il segretario, intanto ha divorziato da Bersani, con il quale per anni aveva fatto coppia fissa. Il progetto di «Pier Luigi» non gli piace: «Per uscire dall'isolamento non ci si può rinchiudere a sinistra». Nel tempo le cose cambiano. È solo questione di tempo.

Francesco Verderami
15 febbraio 2009

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #53 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:35:57 am »

Il Cavaliere: «Franceschini è meno moscio di Veltroni». E il «giuramento sulla Costituzione» è stato efficace

Berlusconi avverte: non sottovalutate Franceschini

Primi test sul rivale numero 9: «Con quella faccia da bravo ragazzo in tv funziona»


Avrà pur «fatto fuori» otto rivali, e il «Signor nove» sarà pure un «reggente», un «vice disastro» come l’hanno definito i suoi stessi compagni di partito. Ma c’è un motivo se Silvio Berlusconi ha invitato i dirigenti del Pdl a non sottovalutare Dario Franceschini: «Non sottovalutatelo, in tv funziona».

Il Cavaliere ha iniziato a studiare il segretario del Pd come un allenatore studia gli avversari prima di una sfida: ne ha fatto testare le potenzialità, ha analizzato le sue prime uscite pubbliche, e soprattutto l’ha osservato in televisione. Non è che il premier nutra dubbi sull’esito dello scontro elettorale di giugno, le vittorie alle Europee e alle Amministrative non sono in discussione, «non ci sfuggiranno, perché la crisi del Pd è profonda. Lì dentro c’è gente abituata solo a vivere di rendita con i voti del territorio. E quei voti si vanno esaurendo». Nonostante queste certezze, Berlusconi ha deciso di adottare con Franceschini gli stessi metodi che l’hanno portato a competere con gli altri otto rivali. La prova tv è stato il primo step, perché il modo in cui un politico si propone davanti alle telecamere rappresenta per il premier un discrimine. E a suo avviso il «Signor nove» funziona «con quella faccia da bravo ragazzo »: «Eppoi è meno moscio di Veltroni ».

Nei test demoscopici ha poi letto quanto già intuiva, e cioè che il capo del Pd sconta un basso livello di notorietà. Ma paradossalmente la sua debolezza è al momento la sua forza, perché nell’opinione pubblica la scarsa conoscenza del leader democratico viene interpretata (per ora) come un segnale di novità, di ricambio generazionale. È da vedere se Franceschini riuscirà a consolidarsi e ad affermarsi. Le prime mosse sono state «scolastiche», il Pdl infatti aveva messo nel conto che si sarebbe presentato brandendo la bandiera dell’antiberlusconismo. Invece il giuramento sulla Costituzione è stato ritenuto un gesto a suo modo innovativo, un’operazione di marketing politico per acquisire notorietà e farsi riconoscere dal suo mondo di riferimento. In questo senso, e fatte le debite proporzioni, per il popolo di centrosinistra il «giuramento di Ferrara» vale quel che valse il contratto degli italiani di Berlusconi per l’elettorato di centrodestra. Per questo il Cavaliere lo tiene sotto osservazione, sapendo che i dati dei sondaggi vanno interpretati, che i numeri possono riflettere verità contrapposte.

Per esempio, il «Signor nove» piace alla gente che potenzialmente potrebbe votare per il centrosinistra, ma non piace alla gente di sinistra, se è vero che più del 50% dei democratici provenienti dal Pci-Pds-Ds preferirebbe un post comunista al suo posto. Ma Franceschini è l’antidoto alla scissione del Pd, infatti il Cavaliere ritiene «altamente improbabile» l’addio di Francesco Rutelli e l’esodo degli ex Popolari verso altri lidi: «Se ne andrà qualcuno, ma saranno piccoli spezzoni». Dunque il nuovo segretario è considerato un collante. Per quanto «reggente», la sua elezione è vista da Franco Marini - almeno così hanno raccontato al premier - «come quella che portò Bettino Craxi alla guida del Psi»: al Midas doveva essere di passaggio, poi non se ne andò più. Berlusconi ha ascoltato, ma pare che sentendo il nome dell’ex premier e suo grande amico sia sobbalzato.

Avrà considerato eccessivo il paragone. È certo che - provando a interpretare la strategia di Franceschini - ci ha visto il tentativo di riprodurre «la strategia di Romano Prodi»: «Lui mira a ricostruire il vecchio centrosinistra, con l’aggiunta dell’Udc». Oltre non il Cavaliere non è andato, in attesa del voto di giugno quando si capiranno le sorti del Pd. Fossero domani le elezioni, i suoi avversari non avrebbero scampo, ridotti come sono al 23%, a due punti cioè da quello che viene considerato lo «zoccolo duro» dei democratici, statisticamente la loro soglia minima. Il nuovo segretario dovrà arrestare l’erosione di consensi, visto che l’Idv è all’8% e il Prc ha raggiunto il 4%. E il premier prevede che, per riuscirci, Franceschini proverà a coinvolgerlo in uno scontro diretto durante la campagna elettorale. Ma Berlusconi ha già deciso che non gli replicherà mai in prima persona, per non dargli sponde.

Il guaio per il successore di Veltroni è che ha poco tempo: i tre mesi che lo separano dalle urne rischiano di non bastare per consolidare la leadership. Il Cavaliere non vuole tuttavia distrazioni nel centrodestra, «non sottovalutatelo», anche se il suo intuito gli dice che Pier Luigi Bersani è per il futuro l’avversario maggiormente accreditato. In realtà glielo dicono anche i suoi sondaggi. «Per me comunque uno vale l’altro». Fosse così, Bersani sarebbe il «Signor dieci».

Francesco Verderami

28 febbraio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #54 inserito:: Marzo 07, 2009, 10:44:53 am »

Gli obiettivi: evitare che il Pdl sfondi e porsi come riferimento del partito nel Sud

La trincea sudista di D'Alema

La strategia del «deputato di Gallipoli» dietro il dialogo con Lombardo e Tremonti
 

Massimo D'Alema ha spostato la «linea del Piave» centinaia di chilometri più a sud, a delimitare Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, regioni governate ancora dal centrosinistra. Se il Cavaliere dovesse sfondare quella linea, il Pd non avrebbe perso una partita. Non ci sarebbe più partita. È vero che le elezioni regionali si terranno l'anno prossimo, ma il voto di giugno — quello europeo e soprattutto quello per le amministrative — farà capire se è possibile organizzare una resistenza all'offensiva di Silvio Berlusconi. Perché se anche il Sud dovesse capitolare, i democratici perderebbero un pezzo determinante del loro insediamento territoriale, «e senza il Sud — teorizza D'Alema — non esiste un partito di massa. Che faremmo a quel punto, il partito dei salotti?». Ecco cosa l'ha spinto a chiedere la detassazione per cinque anni delle imprese che operano nel Mezzogiorno, ecco cosa l'ha indotto al confronto con Giulio Tremonti sul progetto di una nuova Banca del Sud, ecco spiegato il tentativo di aprire un dialogo con l'Mpa di Raffaele Lombardo: «Caro Raffaele — gli ha detto l'altra settimana — sentiamoci ogni tanto.

E dopo le Europee, quando ci sarà da votare in Parlamento su questioni che riguardano il Sud, guardiamoci negli occhi». Il meridionalista D'Alema vuole rafforzare le trincee della sua «linea del Piave», tentando di incunearsi nelle contraddizioni di un governo «che sottrae i fondi al Mezzogiorno per darli al Nord». Lui che fu il primo a tentare l'approccio con quel «baluba» di Umberto Bossi, lui che definì la Lega «una costola della sinistra», da tempo si è messo a sconfessare «certe verità rivelate», spiegando che «al Nord ci saranno pure dei problemi ma la questione settentrionale non esiste, è un falso storico. Esiste semmai la questione meridionale». «Numeri alla mano» sottolinea come la spesa pubblica pro capite al Sud sia più bassa rispetto al Nord. E che, certo, al Nord — a fronte di un sistema produttivo avanzato — c'è una pubblica amministrazione poco efficiente, ma al Sud è ancor più inefficiente e dunque le tasse che si pagano sono eccessive rispetto al Settentrione. Non c'è congresso o convegno dove manchi di denunciare il «falso storico » della questione settentrionale, sebbene un pezzo rilevante del Pd al Nord — da Sergio Chiamparino a Massimo Cacciari, da Filippo Penati a Mercedes Bresso — si esprima e agisca in modo completamente diverso, tentato com'è dal rapporto con la Lega, e intenzionato a non rompere con il Carroccio sul federalismo fiscale. L'idea federalista non dispiace a D'Alema, è l'impianto della riforma che però non lo convince, perché — a suo avviso — non funziona e rischia di spaccare il Paese. C'è da difendere il Sud, e già prima del cambio della guardia al vertice dei Democratici aveva detto che «il loft è troppo distante dalla trincea» per capire cosa stava accadendo nel Meridione

. Ecco perché si è intestato la battaglia, che già alle elezioni del 2008 aveva visto schierati dirigenti del Pd come Nicola Latorre. A quei tempi il vice capogruppo al Senato, avvertendo forti resistenze nel partito, scrisse un articolo sull'Unità per sottolineare che «la questione meridionale non poteva essere scambiata solo per una questione criminale». D'Alema si muove senza perdere di vista una visione unitaria del Paese (e del Pd). D'altronde, spiega oggi Latorre, questa sfida «si muove nel filone del riformismo meridionalista che ha nutrito la grande stagione del primo governo di centrosinistra». Per rafforzare la tesi si getta nel passato citando nomi illustri, «da Salvemini a Saraceno », e si proietta sul futuro: «È chiaro che la questione meridionale è legata all'idea complessiva di sviluppo dell'Italia. Perché l'Italia non può più sopportare il divario crescente tra Nord e Sud. Il punto è che se non si invertisse la tendenza anche il Nord ci rimetterebbe, perché il Paese perderebbe la sfida della competitività. E siccome la sfida si riaprirà una volta superata l'emergenza della crisi, se non ci riorganizzassimo perderemmo il passo rispetto agli altri stati». D'Alema si propone come azionista di riferimento del Pd nel Mezzogiorno, chiama alla resistenza i dirigenti locali del partito, raccontano stia impegnando anche le risorse intellettuali della fondazione Italianieuropei. Sa che sarà difficile reggere all'offensiva berlusconiana, specie in Campania dove la situazione è molto compromessa. Conosce i piani del Cavaliere, e i ragionamenti che svolge nelle riunioni riservate, e cioè che il Pd «sul territorio andrà incontro a una pesante sconfitta». I «recenti scandali» e il «logoramento del partito dei sindaci», a detta del premier «stanno allontanando il loro elettorato»: «La forza della sinistra risiedeva negli amministratori. Dopo quanto è accaduto, è stata colpita la rappresentazione più vicina all'opinione pubblica». Perciò il «deputato di Gallipoli» prova a organizzare una difesa, consapevole che su quella «linea del Piave », spostata centinaia di chilometri più a sud, si giocheranno le sorti di un'intera classe dirigente.

Francesco Verderami
07 marzo 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #55 inserito:: Marzo 12, 2009, 11:47:41 am »

IL DIALOGO

Lega, quota 10% a rischio

E il Senatur «cerca» il Pd

Il Carroccio punta al loro sì al federalismo per evitare il referendum
 

ROMA - Berlusconi lancia il piano casa? Bossi dice: «Voglio vederci chiaro». Berlusconi propone di ridurre i parlamentari? Bossi dice: «Voglio capire meglio». Berlusconi incontra il gotha delle banche? Bossi dice: «Caccino fuori i soldi per le imprese». Berlusconi è in corsa per il Quirinale? Bossi dice: «Viviamo alla giornata ». Franceschini chiede di tassare i redditi più alti? Bossi dice: «Può andar bene». E meno male che per citare i problemi nel centrodestra il Cavaliere usa il nome di Gianfranco Fini. In realtà il premier non è solo chiamato a gestire un rapporto difficile con il presidente della Camera.

Deve fronteggiare anche il Senatur, che è in sofferenza: le sue esternazioni lo testimoniano, e i sondaggi evidenziano che da alcune settimane il Carroccio è in flessione, ha perso un punto percentuale, è tornato sotto «quota 10%» dove ormai stazionava stabilmente. Soprattutto — come evidenzia senza mezzi termini il forzista Napoli — «la Lega ha perso l'iniziativa, non detta più i temi e i tempi della politica, costretta com'è a inseguire Berlusconi, che dal giorno dopo la vittoria in Sardegna ha in mano l'agenda e il pallino». C'è dunque un motivo se il capo del Carroccio fa il contropelo al premier e apre al segretario del Pd. Anzi, i motivi sono due. Intanto la trattativa sulle Amministrative con il Pdl non è chiusa: Bossi non intende accontentarsi solo di Sondrio e Bergamo, pretende Monza, e per ottenerla si è messo a fare la guerriglia sulla Provincia di Milano. La disponibilità verso Franceschini è legata invece all'esigenza di ottenere almeno l'astensione dei Democratici alla Camera sul federalismo fiscale. Bossi non può permettersi un voto contrario del Pd, e le posizioni «meridionaliste » di D'Alema hanno messo in allarme i dirigenti del Carroccio, specie dopo la riunione di due giorni fa al gruppo dei deputati democratici. In quella sede si è fatta strada la tesi dalemiana, sono emerse forti perplessità sulla riforma. Ecco perché Calderoli si sta prodigando per rassicurare l'opposizione, ecco perché l'altra notte in commissione il ministro del Carroccio ha accettato alcuni emendamenti del Pd al testo. Le dimissioni di Veltroni hanno senza dubbio penalizzato la strategia del dialogo impostata da Bossi, che sta tentando di costruire un rapporto con i nuovi vertici del Pd. Un voto contrario sul federalismo fiscale, esporrebbe la riforma al rischio del referendum e condannerebbe il Senatur a un ruolo subalterno al Cavaliere.

L'astensione sarebbe invece un successo nel merito e nel metodo su Berlusconi, garantirebbe una maggiore autonomia dall'alleato. Perciò ieri sera anche Maroni ha fatto eco al Senatur sulla proposta di Franceschini, «per questo — spiega Bersani — ma anche per altro. Perché Bossi con un occhio è attento al federalismo, e con l'orecchio ascolta i suoi sindaci, che dal territorio segnalano i problemi ». È al Nord che la crisi si fa maggiormente sentire. Come spiega infatti il sottosegretario al Commercio estero Urso, «la grave contrazione dei mercati internazionali ha colpito le nostre esportazioni. Pertanto, le aziende italiane più colpite dalla crisi sono quelle settentrionali». Bossi e Maroni dicono dunque sì a un «contributo in tempi di crisi da parte di chi ha di più», mentre Berlusconi fa mostra di non curarsene, bolla l'idea come «populista», e lascia che siano i suoi dirigenti ad attaccare il leader del Pd.

Il Cavaliere aveva messo in guardia lo stato maggiore del Pdl sulle capacità «movimentiste e demagogiche» di Franceschini, avversario che certo non lo preoccupa, non può preoccuparlo, ma che — sondaggi alla mano — è comunque riuscito ad arrestare l'emorragia di consensi dei democratici, risaliti di un punto questa settimana, tra il 23 e il 24 per cento. È da vedere se il successore di Veltroni riuscirà davvero a risalire la china, è certo che è riuscito finora a imporre i suoi temi. Questo non vuol dire che nel Pd siano tutti entusiasti dell'ultima proposta, perché in molti sottovoce lamentano una «deriva populista e di sinistra». Nessuno al momento intende esporsi, ma a leggere bene il commento di Bersani non è che il candidato alla segreteria dei Democratici si sia spellato le mani per applaudire la mossa dell'attuale leader. Bersani ha definito «realistica e utile» la proposta di Franceschini, ma ha aggiunto che andrebbe «agganciata alla lotta contro l'evasione fiscale ». Traduzione: altrimenti a pagare sarebbero sempre e soltanto i soliti noti. E addio voti. Bossi non si cura dei dettagli, per il Senatur il federalismo val bene appoggiare una tassa che tanto non si farà mai.

Francesco Verderami

12 marzo 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #56 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:46:24 pm »

Torna la sintonia in vista del congresso

Silvio, Gianfranco e la fusione dolce

Per Berlusconi l'obiettivo è «quota 40%» alle Europee.

Per Fini è un investimento sul «dopo»
 
 
ROMA — Forse davvero ieri è nato il Pdl, perché la presa di distanze del premier dalla Lega riflette per la prima volta l'immagine di Berlusconi e di Fini in sintonia, alla vigilia delle assise che uniranno Forza Italia e An. Sarà stato perché Berlusconi è stanco della liaison di Bossi con i Democratici sul federalismo, saranno stati i sondaggi che preannunciano uno sfondamento elettorale del Carroccio al Nord, o le rimostranze del mondo cattolico, tuttavia che il premier e Fini si ritrovino su un tema delicato come quello della sicurezza, rappresenta una novità. Perché finora il Pdl è stato descritto come una proiezione del «discorso del predellino», un partito a immagine e somiglianza di Berlusconi, privo di regole e senza una vera piattaforma programmatica. D'altronde il Cavaliere ancora in questi giorni continua a ripetere che «ogni qualvolta rileggo il mio discorso del '94, lo considero così attuale che mi verrebbe voglia di riproporlo al congresso». Un modo per dire che la nuova formazione è il proseguimento del suo progetto iniziale. Ma il premier non può né vuole forzare la mano. L'assemblaggio di FI e An è passaggio difficile quanto indispensabile, sta a cuore tanto a Berlusconi quanto a Fini. Il primo perché ne ha bisogno subito, visto che a giugno sarà chiamato al test delle Europee dove intende raggiungere «quota 40%».

Il secondo perché sul Pdl ha investito tutto, «è un progetto strategico» spiega il presidente della Camera, che ragiona in prospettiva. Questo «progetto strategico», in fondo, lo coltiva da dieci anni, da quando ci provò con l'Elefantino alle Europee del '99: «Ma in politica i tempi sono fondamentali per la riuscita di un'operazione. E se quell'esperimento fallì, non fu perché l'idea era sbagliata, bensì perché non era ancora il momento. Ora il momento è arrivato». Domenica parlerà al popolo di An, svestirà per un giorno i panni istituzionali e farà un discorso politico, a braccio, senza testo scritto, con pochi appunti per fissare i passaggi chiave. E sarà — così scommettono i fedelissimi — un discorso «conciliante» verso il Cavaliere, consapevole del ruolo di co-fondatore di una forza che al momento è certamente legata a una leadership indiscussa, ma che potrà esistere ancora solo se «sarà aperta, dialettica, plurale, inclusiva, animata da una vera democrazia interna». Sono parole di Alessandro Campi, intellettuale molto vicino a Fini.

E sono parole che Fini condivide «pienamente». «Non dobbiamo avere paura oggi, se vogliamo disegnare il nostro futuro»: così il leader di An chiederà al gruppo dirigente della destra di condividere il progetto. «Nel Pdl porteremo i nostri valori», ma per avere «un futuro», Fini ritiene necessario sciogliersi dal legame delle correnti, «non mi preoccuperò di essere in minoranza, perché nel nuovo partito sarà indispensabile far convivere idee differenti». Una corrente lo consegnerebbe a un ruolo minoritario, perciò fa mostra di non curarsi delle battute di Berlusconi, secondo il quale «sono cambiate le cose con quelli di An da quando hanno scoperto il rapporto diretto con me». Ma il punto non è se il Cavaliere ha strappato dei colonnelli a Fini. La partita per il presidente della Camera si aprirà in seguito, semmai. Almeno così s'intuisce dai ragionamenti che ha svolto tempo addietro durante alcuni colloqui riservati. Fini ritiene che il centrodestra ha davanti a sé «una lunga stagione di governo», ben oltre quindi l'orizzonte dell'attuale legislatura. Se così fosse, per Berlusconi arriverebbe «il momento delle scelte». Traduzione: a quel punto dovrebbe decidere se puntare al Quirinale o restare a palazzo Chigi. In quel momento si aprirebbe una nuova fase, e sarebbe allora che Fini potrebbe giocare o meno le carte in mano. Una partita lunga e complessa, comunque l'unica possibile per chi ha rifiutato il ruolo di delfino, consapevole che quel ruolo non esiste. Per ora il Pdl è una scommessa, e in questa scommessa Fini si muove sfidando il Cavaliere sul terreno dei contenuti da «destra repubblicana».

Certo che era «soddisfatto» ieri per la posizione assunta dal premier sulle ronde e sulla norma che riguarda la denuncia degli immigrati clandestini da parte dei medici. «Non si può fare la battaglia sul caso Englaro — si sfogò Fini ai tempi del famoso decreto — pensando così di intestarsi un ruolo con il Vaticano. Perché poi, quando da Oltre Tevere ti chiedono conto di certe norme che rischiano di alimentare fenomeni razzisti, non si può rispondere con un "ah ma quelle cose le vuole Bossi"». Sarà stata un'esigenza tattica quella di Berlusconi, sarà stato un segnale inviato a Bossi e al Paese, il primo assaggio di una competizione elettorale che lo preoccupa. Ma il risultato è che il Cavaliere e Fini si sono ritrovati per la prima volta dalla stessa parte della barricata. E ieri anche i toni del presidente della Camera erano assai diversi rispetto al passato: «A Silvio la "lettera dei 101" è venuta utile. Ed è un bene che si sia espresso in quel modo. In fondo gli servirà per avere margini di mediazione con la Lega». Berlusconi e Fini d'accordo è una notizia. Poi magari riprenderanno a litigare. Nel Pdl.

Francesco Verderami

20 marzo 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #57 inserito:: Marzo 28, 2009, 03:51:58 pm »

SETTEGIORNI

SuperSilvio tra discoteche e libri di storia

Il Silvio del '94 non c'è più: era fuori dai salotti, ora il salotto è lui


L'uomo di lotta è diventato uomo di governo, e della rivoluzione liberale è rimasto solo il discorso con cui scese in campo. Perciò è falsa l'iconografia che in questi giorni lo raffigura sempre simile a se stesso, perché se è vero che dal '94 il Paese è cambiato, è cambiato anche Silvio Berlusconi.

Marco Follini, che per anni l'ha visto da vicino, sostiene che il Cavaliere «oggi ha più velluto nel guanto e più ferro nel pugno ». Il senatore del Pd, che di Berlusconi è stato vice premier, ne sottolinea l'evoluzione, spiega che «è cambiato a tal punto da esser più efficace nella sostanza e meno suadente nella forma. Ora sta più attento al risultato, e più misurato negli eccessi, tende a controllarsi e a fare meno errori». Perché di errori ne fece quindici anni fa, quando arrivò a Palazzo Chigi. Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, ricorda come nel '94 «dileggiò lo sciopero generale» con il quale le organizzazioni del lavoro si scagliarono contro la riforma delle pensioni varata dal primo governo Berlusconi: «Andò dritto per la sua strada e perse». E nel 2001 «tentò ancora la prova di forza» con la riforma dell'articolo 18. «Adesso non è più così, sa distinguere nel pluralismo tra sindacato e sindacato. Negli anni ha capito l'importanza di stare al centro ed è più incline alla mediazione ».

Si presentò agli italiani brandendoL'elogio della follia di Erasmo da Rotterdam come fosse il suo libretto rosso e non c'è dubbio che quella furia iconoclasta colpì l'immaginario collettivo. In molti, specie tra i suoi oppositori, dissero che era tutto studiato, come la calza sull'obiettivo della telecamera. Gianfranco Pasquino rigetta questa tesi, ritiene che «nel '94 Berlusconi si gettò davvero nell'impresa con la straordinaria incapacità di valutare quanto stava facendo». Roberto Maroni rammenta quella breve esperienza, quando il Cavaliere «arrivava in Consiglio dei ministri con i sondaggi sui provvedimenti che dovevamo varare. Sondaggi che erano stati sfornati alle sette del mattino e che influivano sulle sue scelte. Ricordo come Giuliano Ferrara, allora titolare dei Rapporti con il Parlamento, provava a dissuaderlo: "Presidente — gli diceva — non dia retta e non stia nemmeno appresso alle giornalate. Vada avanti". Oggi invece c'è nelle riunioni di governo la consapevolezza di un progetto. E la forza politica porta il resto dei poteri a seguire, perché c'è il consenso».

Come non vedere dunque la mutazione di Berlusconi? «Infatti — prosegue Pasquino — il premier è diventato istituzionalmente consapevole della complessità della situazione. Ora sa trattare con gli alleati, li blandisce e li critica. Poi, certo, ha sempre delle urgenze che sfociano in intemperanze. Infatti si irrita per gli intralci del Parlamento, considera ingombrante il Quirinale. Perché lui si sente un uomo del fare e a volte tende a strafare. Per fortuna il sistema democratico prevede pesi e contrappesi. Tuttavia — conclude il politologo — è evidente che Berlusconi è entrato nella storia e che gli studiosi dovranno occuparsi di lui, mentre a Romano Prodi dedicheranno appena un rigo». Agli studiosi però, secondo il direttore del Riformista Antonio Polito, toccherà anche spiegare «come sia possibile che il Cavaliere quindici anni dopo appaia ancora "il nuovo". Perché in quindici anni Margaret Thatcher rivoltò il Regno Unito ed Helmut Kohl riunificò le Germanie, prima che entrambi fossero consegnati alla pensione. La rivoluzione promessa da Berlusconi invece non si è inverata eppure l'Italia continua ad attendere, quasi aspettasse l'avvento del messia». La forza del Cavaliere sta proprio nella capacità di essere cambiato, «dal '94 — aggiunge infatti Polito — ha capito come muoversi. Intanto ha capito che non poteva governare con Pier Ferdinando Casini e che a Umberto Bossi va posto un freno. Ma soprattutto ha capito che doveva vincere la battaglia con l'establishment. Quell'establishment che per anni ha praticato l'indipendenza e coltivato il sogno di scalzarlo e che oggi è dovuto scendere a patti.

E Berlusconi, un tempo tenuto fuori dai salotti, è diventato salotto esclusivo. C'è da vedere se riuscirà ad essere magnanimo ed ecumenico ». Il Cavaliere è diventato un potere forte perché è mutato mentre il Paese gli mutava intorno. Ai giovani leoni che sta svezzando, è rimasta impressa una lezione politica fatta dal premier tempo addietro, appena rientrato da una nottata in discoteca: «La società non siete voi che vivete di politica. Tre ore in balera — così l'ha definita — valgono più di un trattato di sociologia. E lasciate pure che ironizzino sul mio conto». Il contatto diretto è lo strumento di cui si è servito per salire sul predellino di un'auto e sollevarsi dalla sorte a cui l'avevano già consegnato gli alleati. E i sondaggi restano ancora l'arma da cui non si separa, li adopera per prepararsi al confronto, persino nelle relazioni con i capi di Stato e di governo stranieri. In passato ha fatto testare Bill Clinton, George W. Bush, Jacques Chirac, Vladimir Putin e oggi continua con Barack Obama e Nicolas Sarkozy, «perché quando ti relazioni con loro — è la tesi del Cavaliere— devi capire con chi hai a che fare e come comportarti. E devi sapere cosa pensa la gente di loro». In questo Berlusconi non è cambiato.

Francesco Verderami
28 marzo 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #58 inserito:: Marzo 29, 2009, 11:34:55 am »

Il rilancio della consultazione è un'arma politica che il premier può usare con la Lega

E Fini aspetta Bossi sulla linea del Piave

L'ex leader di An pensa al 7 giugno per l'accoppiata con amministrative, data di cui il Senatur non vuole discutere


ROMA - C'è una linea del Piave che il Pdl deve difendere per impedire alla Lega di dilagare al Nord. Ed è su quella linea che Fini ieri si è schierato a fianco di Berlusconi, sebbene il presidente della Camera abbia gettato nello sconcerto i maggiorenti del partito quando dal palco del congresso ha pronunciato la parola «referendum». Perché tutti sanno che di referendum elettorale Bossi non vuol sentir parlare, e dunque la citazione è sembrata una sorta di provocazione, il tentativo di mettere in difficoltà il premier con l'alleato. E invece no. Fini l'ha fatto per dare al Cavaliere un'arma politica da usare con il Carroccio per frenarne le pretese, sapendo che Berlusconi è indispettito con i leghisti. «Ora stanno chiedendo davvero troppo e senza dare nulla in cambio», ha detto l'altra sera il capo del governo davanti ad alcuni ministri, dopo l'approvazione del federalismo alla Camera e il contemporaneo stop al «piano casa».

Fini ieri gli ha dato manforte, ha finto addirittura un lapsus freudiano parlando del «referendum del 7 giugno», siccome sa che la data non è stata ancora definita, e che sul «7 giugno» il Senatùr non ci sente: «Per noi è impercorribile ». È chiaro il motivo: unendo il voto di Amministrative ed Europee alla consultazione popolare, il referendum raggiungerebbe il quorum e la Lega sarebbe spacciata. Il Pd infatti sarebbe pronto a un sostegno bipartisan dei quesiti che disegnerebbero un sistema bipartitico e non più bipolare. Ed è al Pd che Quagliarello si rivolge, «la sinistra non ci può accusare di non voler stravincere. Perché se passasse il referendum, altro che 51% prenderemmo». Il vice capogruppo del Pdl parla all'opposizione perché Fini ascolti. Più diretto è il ministro degli Esteri Frattini, contrario alla data del 7 giugno, «e non solo per le fibrillazioni che una simile decisione provocherebbe nel governo»: «Non possiamo essere alleati con la Lega alle Amministrative e lo stesso giorno scontrarci sul referendum». In realtà Fini ha voluto consegnare nelle mani di Berlusconi non un problema ma un'opportunità: «Gli organismi dirigenti del Pdl decidano quale posizione assumere». Carta bianca, insomma. L'obiettivo del presidente della Camera è piuttosto garantire al premier una «nuova centralità » nei giochi di maggioranza. D'altronde l'antico asse con il Carroccio non gli serve più, nel senso che non ne ha più bisogno per farsi scudo con An: la competizione è finita, ora c'è il Pdl. E il nuovo partito per forza di cose dovrà entrare invece in competizione con la Lega.

Berlusconi è il primo ad esserne convinto, non vuol perdere la sfida elettorale in Veneto e Lombardia. Nel caso in cui alle Europee il Carroccio sorpassasse il Pdl nelle due regioni, l'anno prossimo chiederebbe almeno il candidato governatore di Venezia. E il premier non vuole nemmeno pensarci: «Formigoni e Galan non si toccano. Discutiamo al massimo del Piemonte». «Il 7 giugno conteremo i voti», ripete all'unisono l'intero stato maggiore di Bossi, rimandando alle urne la trattativa sulle Regionali. E non è un caso se ieri, dopo Fini, anche Formigoni ha affondato il colpo contro il Carroccio. Toccherà oggi a Berlusconi sfruttare lo spazio politico che il congresso gli ha offerto. Deve porre dei paletti alla Lega e garantirsi dei successi di qui a giugno, a partire dal «piano casa ». Per quanto possa apparire paradossale, sarà più facile per il premier muoversi nel Palazzo. Elettoralmente, invece, sarà assai più complicato: al Nord, il 7 giugno, Bossi sarà il suo più grande alleato alle Amministrative e il suo più temibile avversario alle Europee. In che modo il Cavaliere potrà farlo capire agli elettori? C'è da difendere la linea del Piave. E Fini, che sta nel Pdl, sta con Berlusconi.


Francesco Verderami
29 marzo 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #59 inserito:: Aprile 05, 2009, 11:13:27 am »

Sette giorni La strategia per non apparire algido al suo elettorato

Il premier e quei gesti pop : «Sembra un amico tra amici»

Le scelte mediatiche di Berlusconi durante i vertici internazionali


Come si fa a stringere la mano di Obama senza dare le spalle alla casalinga di Voghera? Come si fa a discutere con Sarkozy senza smettere di parlare con il pensionato di Palermo? Questo è il problema di Berlusconi, muoversi tra i potenti della terra e al tempo stesso restare sul predellino dell’auto in mezzo ai suoi elettori, «il mio popolo».
 Ecco l'origine delle ormai famose gaffe che il premier ripete ad ogni appuntamento internazionale: un misto di spontaneità e di strategia mediatica elaborata da diabolici spin doctor. Il Cavaliere si fa «pop» per scongiurare il rischio di apparire algido, per evitare che si crei una cesura con l'opinione pubblica, una distanza che per uno come lui - in campagna elettorale permanente - potrebbe ripercuotersi sugli amatissimi sondaggi. Eccolo, allora, adoperare al G20 le battute di Gigi Proietti per definire l'inquilino della Casa Bianca «un tipo con lo sguardo acchiapponico», eccolo stringere a sè in un abbraccio il presidente americano e quello russo, e addirittura gridare «mister Obamaaa...» alla photo-opportunity con la regina Elisabetta.

Così il Cavaliere interpreta se stesso: resta un potente, sì, ma da bar sport. «E non so se ci sia intenzionalità nei suoi gesti - dice Nando Pagnoncelli - però non c'è dubbio che gli effetti siano quelli. L'idea cioè di trasmettere un messaggio molto semplice al suo elettorato». L'ad di Ipsos sottolinea «suo elettorato» perché «le reazioni che Berlusconi suscita non sono univoche»: «Nella pubblica opinione di centrosinistra, infatti, provocano alzate di sopracciglio. Nell'area di centrodestra sono accolte con benevolenza». È da ricercatore che esamina «quelle che passano comunemente per gaffe», e che invece «interpretano l'umore popolare, e si saldano con un sentire diffuso»: «Tutti, per esempio, ricordano la sua frase sulla "superiorità della civiltà occidentale" che suscitò grandi polemiche. Ebbene, numeri alla mano quel concetto è largamente pensato dagli italiani».

Il Daily Telegraph definisce il Cavaliere «il giullare» dei vertici, il democratico Bersani ironizza sul «ruolo da intrattenitrice» che ha avuto la delegazione italiana a Londra. Ed è vero che l'Italia non ha tenuto il banco al risiko del G20, e che il G8 della Maddalena rischia di non essere un appuntamento decisivo, come spera il premier. «Ma la sua foto con Obama e Medvedev - secondo Pagnoncelli - ha una potenza enorme»: «Quel gesto giocoso di Berlusconi ha trasferito l'idea che lui è un amico tra amici, che conta, e che perciò il nostro Paese conta». Berlusconi interpreta se stesso, «e noi vecchietti - sorride Giampaolo Pansa - passata la barriera dei settanta un po' sbrocchiamo. Tuttavia il rapporto che Berlusconi ha con l'opinione pubblica è fortissimo, la sinistra non se n'è ancora resa conto fino in fondo. Lui ha un solo nemico: la crisi economica. Per il resto è ormai un professionista della politica».

Un professionista anomalo. Lo scandalo provocato a corte con il «mister Obamaaa...», si è rivelato uno spot, e non solo perché Buckingham palace ha smentito che Sua Maestà si sarebbe offesa, anzi si è divertita. Tutti i potenti, specie di questi tempi, hanno bisogno del consenso popolare. E con la sua trovata il premier ha offerto l'immagine di chi non adotta lo stile delle legazioni diplomatiche, ma fa discendere i suoi ragionamenti dalla digestione del linguaggio dei passanti incrociati per strada. Raccontano che dopo il siparietto fosse festante per aver strappato una citazione al presidente americano: «Mi ha detto di non avermi chiamato "Berlusconi" perché ancora non sa pronunciarlo. Dovrò educarlo a fargli dire "Silvio"». Invece Obama ha già imparato, perché l'ha cercato senza trovarlo, mentre si metteva in posa per un'altra foto: «Where is Bierluscone?». Ecco la vittoria del gaffeur di professione. «Ma quale gaffe...», tuona divertito Giuliano Ferrara: «Ma se Michelle Obama ha abbrancato la regina come fosse una vecchia compagna di scuola. La verità è che quel bauscia del Cavaliere ha fatto saltare il protocollo. È la vittoria sul perbenismo e sull'establishment. Così ha fregato tutti. Lo dico io che gli voglio bene, rischiamo di tenercelo per troppo tempo».

Francesco Verderami
04 aprile 2009

da corriere.it
Registrato
Pagine: 1 2 3 [4] 5 6 ... 18
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!