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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 126066 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:05:24 am »

Il retroscena Il veto del nuovo legale su qualsiasi iniziativa pubblica di «sostegno» organizzata dal popolo del Pdl

Il Cavaliere torna a sperare (anche) nel modello Milan

I fedelissimi dell'ex premier rievocano il destino rossonero per alleggerire l'attesa


ROMA - Non è solo questione di giurisprudenza e di ragion di Stato, di diritto e di politica. Alla fine Berlusconi spera di cavarsela grazie anche al «fattore c». Perché la fortuna serve, in tutti i campi, tanto che ieri l'argomento è stato servito alla tavola rotonda del Cavaliere, per sostituire il solito menù a base di codici. D'altronde negli ultimi tempi il leader del Pdl ha spesso evidenziato nelle discussioni una insopprimibile esigenza di cambiar discorso, per evadere dalla stressante attesa del verdetto della Cassazione e per trovare nei suoi trascorsi vincenti un appiglio positivo. Certo, evocare la buona sorte per vicende passate è - inconsciamente - una sorta di consuntivo, di fine bilancio.

Ma i commensali l'hanno assecondato, ripescando dal passato un evento in cui il «fattore c» è stato senza dubbio un decisivo fattore di svolta. Senza l'aiuto della dea bendata, infatti, probabilmente non ci sarebbe stata l'epopea rossonera, quella che ha portato Berlusconi a diventare il presidente della società di calcio più titolata al mondo. Se a Belgrado non fosse calata una fitta nebbia la sera del 9 novembre 1988, il Milan - sotto nel punteggio e inferiorità numerica a mezz'ora dalla fine - sarebbe stato eliminato dalla Stella Rossa in Coppa dei Campioni. L'assenza di visibilità mutò il corso degli eventi, perché costrinse l'arbitro a sospendere il match. E il giorno seguente - quando venne rigiocata la partita - il risultato consentì al Milan di passare il turno e di vincere il torneo.

Quel ricordo ha imposto la fortuna (definita in termini prosaici durante il pranzo) come elemento da tenere in debito conto nella valutazione che oggi farà la Corte. O quantomeno è stato questo il divertito convincimento di chi, a tavola, ha cercato insieme a Berlusconi di esorcizzare il giorno del giudizio e la sentenza. Chissà come l'avrebbe presa il professor Coppi, che in quelle stesse ore si preparava alla difesa in Cassazione. Di sicuro l'ha presa male quando ha saputo che altri stavano preparando per l'indomani una manifestazione di sostegno al Cavaliere davanti palazzo Grazioli.

E poco importa quali siano state le argomentazioni del suo cliente, se è vero che ha fatto finta di cadere dalle nuvole, sebbene sapesse tutto. L'avvocato ha urlato che «non esiste» e Berlusconi - che avrebbe tanto desiderato consolare il proprio ego - ha dovuto assoggettarsi ai voleri del legale, l'unico che oggi riesce a gestire (faticosamente) il Cavaliere. Perché il leader del Pdl - sperando di cavarsela - può anche confidare nel «fattore c», ma un conto è immaginare la riedizione della partita di Belgrado, altra cosa è pensare di farla franca con l'espediente di Marsiglia, dove il suo Milan - sempre in Coppa dei Campioni - cercò ignominiosamente di sfruttare la rottura di un riflettore dello stadio per evitare la sconfitta sul campo. Con Coppi in panchina «non esiste», appunto.

Così a Berlusconi non è rimasto che far ritirare striscioni e claque, per aspettare il risultato di oggi. Nel frattempo la vecchia guardia aveva già lasciato la tavola rotonda del Cavaliere, da ore Confalonieri (a pranzo insieme a Gianni Letta) si era congedato dal leader del Pdl, forzandosi a ridere e a pensare positivo. Un modo anche per contrastare il clima funereo che sta ammorbando l'aria dell'amico di una vita, quella sequenza interminabile di telefonate dei pidiellini che sanno di condoglianze preventive, e a cui scaramanticamente il capo risponde dall'altro capo del telefono toccando ferro e facendo le corna: «State tranquilli, sono tranquillo. Al massimo, vorrà dire che presiederò le riunioni di partito dagli arresti domiciliari. Condannato o assolto, per me non cambia nulla».

Ecco, è sul «non cambia nulla» che in molti dubitano. Lo s'intuisce dal volto segnato dei ministri berlusconiani, dall'opinione - per una volta unanime nel Pdl - che una sentenza avversa non potrà essere politicamente gestita. Non solo perché non sono prevedibili le reazioni del Cavaliere, che pure fa sfoggio di saggezza patriottica, ma perché non sono nemmeno governabili le sette tribù democratiche, sette correnti già sul piede di guerra per il prossimo congresso del Pd. Perciò, pur di aggrapparsi a qualcosa, persino il premier (tifoso milanista) si è messo a confidare anche sul «fattore c». Ma siccome in serata i rossoneri ne hanno presi 5 dal Manchester City, tra i suoi ministri c'è chi ha preferito appellarsi ai santi. Il più citato è San Giorgio.


1 agosto 2013 | 7:40
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_01/il-cavaliere-torna-a-sperare-anche-nel-modello-milan-francesco-verderami_9de6a7aa-fa63-11e2-9aaf-71b689b7d489.shtml
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« Risposta #196 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:12:51 am »

Il retroscena La figlia Marina pronta a raggiungerlo

Il Cavaliere resta solo con Gianni Letta «Cambio tutto se mi assolvono»

La battuta sull'ipotesi di condanna: in quel caso vi darò l'indirizzoa cui mandarmi le arance


Francesco Verderami

ROMA - Se è vero che davanti alla Suprema corte si sta consumando una normale causa di Cassazione, è altrettanto vero che la causa contro «Berlusconi e altri» è un affare di Stato. Ecco perché attorno al processo si affannano vertici istituzionali e politici, che da tempo vegliano e per tempo hanno operato con discrezione in modo da evitare il collasso del sistema. E non c'è dubbio che se i giudici decidessero per il rinvio in Appello con annullamento della sentenza, l'esito della causa verrebbe accolto con un sospiro di sollievo in gran parte dei palazzi della politica, di sicuro in quelli che contano, compreso Palazzo Chigi.

È assai probabile che ieri l'argomento sia stato affrontato da Berlusconi con Gianni Letta, l'unico che - dopo l'incontro della sera prima con Alfano - abbia avuto accesso alla residenza del Cavaliere fino al tardo pomeriggio. L'isolamento dell'ex premier, voluto anzi desiderato, è stato violato solo dai suoi legali che dalla Cassazione lo tenevano informato sullo svolgimento della causa. L'intervento del relatore aveva fatto ben sperare Berlusconi. La requisitoria del pg invece è stata vissuta in modo assai pesante, specie per quel passaggio in cui l'accusa lo ha definito «l'ideatore del meccanismo di frodi fiscali»: «Su questa frase i giornali mi massacreranno», ha commentato il Cavaliere, che tuttavia non ha smarrito la speranza infusagli dal professor Coppi.

Come un leone in gabbia, il leader del centrodestra ha continuato a tormentarsi. Un sentimento condiviso con la figlia Marina, pronta a raggiungerlo a Roma per la sentenza, e che - al pari del padre - è stanca delle tante interpretazioni, delle tante conclusioni a cui potrebbe giungere il processo e di cui ha sentito discutere negli ultimi tempi: che facciano presto, non se ne può più di questa attesa snervante. È evidente che la componente umana in questo affare di Stato ha un peso, e Berlusconi (Silvio) ne porta il carico maggiore, sebbene gli effetti si riprodurrebbero sull'intero sistema. Un verdetto che riportasse il caso Mediaset in Appello, garantirebbe a Letta (Enrico) una navigazione relativamente più tranquilla alla guida del governo, una condanna del Cavaliere gli spalancherebbe invece sotto i piedi le porte dell'inferno.

Politicamente, in caso di sentenza avversa, il capo del Pdl ha più volte detto che terrà «fede alla parola data», che cioè non farà mancare l'appoggio all'esecutivo di «larghe intese». Per certi versi sarebbe una mossa obbligata, siccome la crisi porterebbe al caos e spetterebbe al Cavaliere pagarne il conto. Ma a Pa alazzo Chigi come nel partito di Berlusconi si rendono conto che una cosa è ragionare a freddo, un'altra è affrontare la questione dopo un verdetto che espellerebbe il leader del centrodestra dal Parlamento. I ministri del Pdl devono aver intuito che il Cavaliere non chiederebbe mai le loro dimissioni, che forse (forse) si aspetterebbe da loro un gesto. A meno che...

A meno che proprio Berlusconi, tenendo a freno l'istinto, decidesse di non mollare la presa sul governo, impedendo mosse avventate come ha fatto in questa ultima fase: così toccherebbe sempre e solo a lui l'ultima parola. D'altronde, se ai tempi di Monti il saldo politico è stato negativo, con Letta (Enrico) il saldo per ora è positivo, come testimoniato dai sondaggi. Se questa fosse la decisione, qualora si avverasse la peggiore delle ipotesi, il Cavaliere manterrebbe il profilo «responsabile» che si è dato, scaricando sul Pd l'eventuale responsabilità dello strappo. E Letta (Enrico) sa che il suo partito difficilmente potrebbe reggere: come farebbe infatti la «ditta» ad andare a congresso mentre è ancora alleato con un Pdl il cui capo è stato condannato? Come potrebbe gestire allo stesso tempo l'assedio di Renzi e l'accerchiamento di una base già in rivolta, senza correre il rischio della spaccatura?

Ecco perché la causa in Cassazione contro Berlusconi è un affare di Stato. Il resto è attesa, e nell'attesa il Cavaliere ha già anticipato le sue prossime mosse ai dirigenti del Pdl. «Se mi assolvono, facciamo Forza Italia. Se mi condannano, vi darò l'indirizzo a cui mandarmi le arance». Comunque vada cambierà tutto. Berlusconi è pronto a cambiar tutto, nel partito, nell'entourage, nello staff legale. Lo ha deciso da quando davanti a lui il professor Coppi ha fatto il Bartali, e gli ha detto che era tutto sbagliato tutto da rifare, nell'approccio processuale come in quello politico.

31 luglio 2013 | 9:32
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_31/cavaliere-resta-solo-letta-cambio-tutto-se-mi-assolvono_eed571e4-f9b1-11e2-b6e7-d24d1d92eac2.shtml
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« Risposta #197 inserito:: Settembre 07, 2013, 07:30:01 pm »

Sette giorni

Il Cavaliere e la grazia.

I figli: la chiediamo noiLa strategia dell'isolamento

Il Cavaliere congela i video messaggi agli italiani e rinuncia alle uscite pubbliche. La figlia Marina guida i fratelli



Per anni gli hanno detto che era entrato in politica per salvarsi, ora gli dicono che deve uscire dalla politica per salvarsi. Lui forse lo farebbe. O forse no. Di certo Berlusconi resiste ancora all'idea di chiedere la grazia, e medita di scontare una pena che considera ingiusta.
Se il Cavaliere recalcitra, è un po' perché non vorrebbe sottomettersi a un atto che sa di contrizione, un po' perché vorrebbe che la clemenza si estendesse all'interdizione, che lo atterrisce quanto la decadenza da parlamentare e l'ineleggibilità. Riottoso e volubile nell'umore, non riesce a trovare una via d'uscita e si dimena. Marina, preoccupata per i contorcimenti del padre, vorrebbe che il supplizio finisse, perciò ha riunito fratelli e sorelle in modo da convincere il genitore: «Se non vuoi firmarla tu la grazia, lo facciamo noi. Siamo pronti».

Un moto filiale, una forma di pressione che accomuna la famiglia e gli amici più intimi, preoccupati che Berlusconi possa infine accettare i suggerimenti di quanti in queste ore spingono il leader del Pdl a rompere gli indugi e a non cedere, «perché così ti fai fregare, Silvio». Suggerimenti «interessati» secondo la primogenita del Cavaliere, che tuttavia non intende invadere la sfera decisionale del padre e resta (per ora) un passo indietro.
Il fatto è che Berlusconi teme di rimanere senza scudo giudiziario ma anche senza voce, «e io voglio poter parlare ancora agli italiani». È un'angoscia, la sua, pari quasi alla perdita della libertà personale e alla prospettiva di finire nel mirino di una nuova offensiva giudiziaria appena fuori dal Parlamento. È un'ansia claustrofobica, è la paura dell'isolamento, in parte mitigata dalle telefonate che ha ricevuto negli ultimi giorni da parte di esponenti politici europei, rappresentanti di quel mondo che ha frequentato per venti anni, e che si complimentano con lui per il modo in cui ha sostenuto la nascita delle larghe intese e lo esortano a non far saltare il governo.


Saranno stati anche gli effetti di questi colloqui, fatto sta che nell'ex premier sta iniziando a prevalere l'idea di restare fermo alla parola data, di mantenere la linea di sostegno al gabinetto Letta, di separare insomma il proprio destino da quello dell'esecutivo. Così ha deciso per il momento di chiudere nel cassetto il video messaggio che aveva già registrato, di annullare gli appuntamenti pubblici che aveva già in programma. L'ha fatto come si fa con una pistola nella fondina, con il dito sempre pronto sul grilletto.
Perché come sostiene Brunetta - che ieri è andato ad Arcore a trovarlo insieme all'altro capogruppo Schifani - se lunedì in giunta al Senato il Pd facesse precipitare la situazione, allora sarebbe il finimondo. L'auspicio nel Pdl è che il Colle si adoperi per agevolare non un'intesa ma quantomeno la disponibilità dei Democratici all'ascolto delle motivazioni in base alle quali, il centrodestra contesta l'applicazione della legge Severino al «caso Berlusconi». Il punto è che il Cavaliere vivrebbe come un'onta la decadenza prima dell'inizio della pena e si trattiene dall'esternare l'indignazione che cova dentro di sé verso tutto e verso tutti: «Perché al di là delle inimicizie politiche, dovrebbe essere la sinistra a impedire che si consumasse questo delitto giuridico».

La politica sta navigando pericolosamente tra Scilla e Cariddi e, mentre l'ex premier aspetta di vedere se il Pd cederà alle sirene del giustizialismo, intanto resiste alle sirene di chi gli consiglia l'apertura del conflitto, la resa dei conti in Parlamento, la mossa per andare subito alle elezioni. «Ma mi conviene rompere?» riflette il Cavaliere dopo aver ascoltato i suggerimenti di Confalonieri, che ha visto aprirsi «una breccia» e confida si possa trovare un'onorevole soluzione. Come un paziente a cui viene controllata continuamente la pressione, così i Berlusconi e i berlusconiani verificano ora per ora l'umore del Cavaliere, i suoi ultimi convincimenti.
Attorno a lui si muovono gli avvocati che studiano i ricorsi del cliente, i figli che sorvegliano le mosse del padre, i dirigenti di partito che si alimentano delle parole del leader e ne alimentano le diverse tendenze. Il bollettino viene aggiornato senza sosta. Un po' come è stato aggiornato quel videomessaggio che nella prima stesura era dirompente e nella seconda salvaguardava sì il governo ma conteneva un attacco forsennato a Magistratura democratica insieme alla nascita del nuovo partito: «È come se Forza Italia alle elezioni dovesse battersi contro Md e non contro il Pd» racconta chi l'ha visto.
La prossima settimana si capirà se il nastro sarà mandato al macero o verrà utilizzato, con quel che ne conseguirebbe. Tutti sono in attesa e circondano il Cavaliere, che in fondo vive già da sorvegliato.

7 settembre 2013 | 8:12
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_07/cavaliere-grazia-figli_078f65d6-1777-11e3-8a00-11cf802b0067.shtml
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« Risposta #198 inserito:: Settembre 20, 2013, 04:50:55 pm »

Dietro le quinte

Il Cavaliere: «Non ho ricevuto la solidarietà che mi aspettavo»

I sospetti e l'amarezza per la diplomazia con il Colle.

La scelta di Berlusconi: restare in trincea


ROMA - «Non ho ricevuto la solidarietà che mi aspettavo», dice il Cavaliere nel giorno in cui la Giunta del Senato innesca l'inesorabile procedura che lo porterà a decadere da parlamentare. La telecamera è spenta, l'ennesima e ultima versione del videomessaggio è già stata registrata. Ed è chiaro a chi si riferisce Berlusconi, che si mostra assai avvilito quando confida la propria amarezza a consuntivo di una trattativa finita come già pensava che finisse prima che iniziasse. Un mese e mezzo di diplomazia con il Colle - partita l'indomani della sentenza che l'ha definitivamente condannato - non ha prodotto gli esiti da lui sperati. L'assenza di «solidarietà» diventa così agli occhi di Berlusconi un ulteriore indizio che si assomma ad altri vecchi indizi, un castello di congetture che nella sua mente sono infine diventate la prova della «congiura» orchestrata ai suoi danni.

Una tesi che più volte Gianni Letta ha provato a smontare, confutando l'esistenza di una regia istituzionale volta ad accompagnarlo alla porta della politica. Insieme all'ex sottosegretario anche altre personalità hanno cercato di dissuadere il Cavaliere, spiegandogli come il meccanismo giustizialista che si è innescato da anni non è più ancillare alla sinistra ma si è messo in proprio, fino ad avere ormai un radicamento sociale autonomo. E per convincere il leader del Pdl sono state prodotte prove che dimostrerebbero la conflittualità di questo contropotere nei riguardi di chi tenta di arginarlo: dal trattamento mediatico riservato a Napolitano, fino alle recenti contestazioni subite da Violante alle feste del Pd.

Tutto inutile, Berlusconi è rimasto fermo nei suoi convincimenti se è vero che il videomessaggio è stato un modo per parlare a nuora perché suocera intendesse. Stavolta infatti la citazione delle toghe rosse braccio armato dei comunisti era un artificio retorico per celare il vero destinatario del suo discorso. In questa chiave assumono quindi un altro significato le parole del Cavaliere, dal ricordo di aver «bloccato nel '94 la strada alla sinistra», al passaggio in cui sostiene che «insistono nel togliermi di mezzo con un'aggressione scientifica attraverso il loro braccio giudiziario», fino a quella sorta di avviso al navigante: «Si illudono di essere riusciti a escludermi dalla vita politica. Non è un seggio che fa un leader».

La decadenza si approssima. Da ieri si è fatta di un giorno più vicina. Ma c'è un motivo se il capo del centrodestra non può né vuole fare un passo indietro, se non accetta la strada dell'esilio politico che gli è stata offerta - a suo giudizio - da chi «sta tentando di annientarmi»: è convinto che deve restare in trincea in nome della sua famiglia, delle sue aziende e del suo partito, dunque di se stesso. Berlusconi lo spiega senza veli quando la telecamera è ormai spenta: «Ho settantasette anni, e quelli che hanno la mia età hanno più vita alle spalle che vita davanti. Ma per uno come me non conta la qualità della vita che si ha davanti, conta quello che si è fatto nella vita che si ha alle spalle. Se ora mollassi lascerei distruggere tutto quello che ho costruito». Per l'imprenditore, l'uomo di sport, il leader politico che diceva di cercare «il giudizio della storia», è una fine «inaccettabile».

Così l'amaro consuntivo, l'avvilimento per la «solidarietà che non ho ricevuto» viene spazzato via da una battuta, innescata da una discussione sul suo prossimo futuro, sui mesi di pena che a breve dovrà iniziare a scontare. «Sette mesi e mezzo passeranno in fretta», dice sorridendo, in attesa di venire contraddetto. Infatti: «Dottore, in verità sono nove». E il Cavaliere di rimando: «Eh no, sono chiuso in casa dal primo agosto. Questo mese e mezzo me lo devono scontare». Risate. E la consapevolezza che la prigionia estiva di Arcore è stata solo un assaggio di ciò che lo attende, perché non sono gli arresti domiciliari o i servizi sociali ad angosciarlo, ma l'interdizione che Berlusconi vorrebbe trasformare in un pulpito da cui difendersi.

Lo scudo tornerà a chiamarsi Forza Italia. Ma il problema per il Cavaliere sarà trovare chi possa dar corpo alla sua voce, chi possa sostituirlo fisicamente sulla scena politica. Ed è lì che non riesce a trovare una soluzione, infastidito per di più dalla rissa di quanti sgomitano nel partito. Non trova un sostituto, perciò evita di impugnare la durlindana elettorale, attestandosi (per ora) nella trincea del governo delle larghe intese. Da dove continuerà a parlare a nuora perché suocera intenda, «perché io non me ne vado».

19 settembre 2013 | 8:26
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_19/non-ho-ricevuto-solidarieta-che-mi-aspettavo_83c970c2-20ed-11e3-abd6-3cb13db882d4.shtml
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« Risposta #199 inserito:: Settembre 22, 2013, 04:37:28 pm »

SETTE GIORNI

Registrazioni e sondaggi: Berlusconi già studia tutte le mosse di Renzi

Il leader pdl prepara la campagna elettorale: è un battutista, alla lunga stanca.

Il timore che sfondi nel centrodestra



Lo osserva, lo compulsa, lo vede e lo rivede nelle sue performance in tv. E naturalmente lo testa, in modo maniacale. Forse avrà commissionato più sondaggi lui su Renzi dello stesso Renzi. E sebbene il sindaco di Firenze svetti nei report di ogni istituto di ricerca, Berlusconi è convinto che non vincerà: «L'ho studiato, è solo un battutista che alla lunga stanca». Sarà perché l'hanno preso per matto molte volte nel suo partito prima di doversi ricredere, sarà perché alla fine il capo è sempre il capo, ma nel Pdl in molti iniziano a credere all'ultima profezia del Cavaliere, secondo cui per Renzi il destino si è ribaltato, e al contrario di un anno fa stavolta trionferà nel Pd ma perderà nel Paese. Forse servirebbe Esopo per raccontare questa conversione di Berlusconi, che pure era rimasto colpito dal giovanotto, capace di sbaragliare nella sua città il potente apparato della «ditta» e conquistare la poltrona di palazzo Vecchio. In effetti un principio di infatuazione ci fu, lo riconosce il Cavaliere, ricostruendo la storia del famoso pranzo di Arcore con l'esponente democratico: «Lo volli incontrare perché mi aveva incuriosito, e pensavo potesse essere una persona su cui investire. Scoprii invece che era solo un ambizioso».

MINACCIA - O forse l'uva era posta troppo in alto, se è vero che - subito dopo la vittoria di Bersani alle primarie del Pd - il leader del centrodestra disse che «la porta per Matteo è sempre aperta». Di certo la versione dell'appuntamento offerta da Berlusconi è diversa da quella che a suo tempo fornì Renzi, crocifisso per anni dai suoi stessi compagni di partito per il rendez vous riservato con «il nemico», che pure a maggio gli sbarrò la strada per palazzo Chigi, preferendogli Enrico Letta per le larghe intese. E ora che il governo inizia a vacillare, e tutti si tengono pronti in vista eventualmente delle urne, l'ex premier è tornato ad applicarsi sul rottamatore che promette di asfaltare il centrodestra e intanto cerca di asfaltare i suoi rivali nel Pd. Renzi è più di una minaccia, è un pericolo, il timore nelle file dei berlusconiani è che davvero riesca a sfondare nel loro territorio. E chissà se Berlusconi dissimuli per nascondere la sua preoccupazione, visto che persino Signorini - potente direttore del mondadoriano Chi - si è invaghito del sindaco di Firenze. In pubblico, cioè nelle riunioni riservate, il Cavaliere invita però alla calma, perché - a suo dire - «per ogni voto che Renzi cercherà di prendere al centrodestra ne perderà due a sinistra».

NUMERI - La sua tesi sarà il frutto dei sondaggi, magari confortati da una chiacchierata con D'Alema, comunque il capo del Pdl ritiene di essere nel giusto. La sua analisi si fonda sul fiuto ma anche - così dice - sui numeri, parte dal presupposto che il potenziale candidato premier sia vissuto nella pubblica opinione come una personalità divisiva, «anche nel suo stesso campo», e che la campagna elettorale - quando sarà - lo costringerà a muoversi nel recinto retorico della sinistra, vincolato dalla base e dalle strutture che sono la cinghia di trasmissione del consenso democratico. A quel punto - secondo Berlusconi - Renzi dovrà scegliere se indossare il giubbotto di Fonzie o la tuta di Cipputi. La cosa curiosa è che ne parla e si comporta come dovesse essere ancora lui a sfidare l'avversario, un dettaglio che non è sfuggito ad alcuni dirigenti del Pdl, preoccupati che i falchi si trasformino in sirene e lo convincano di potersi ancora presentare all'appuntamento delle urne. Non è dato sapere se davvero il Cavaliere coltivi questa idea, sicuramente non sottovaluta il competitore, tanto da avere portato avanti un piano in gran segreto, per porre un argine al tentativo di invasione del suo campo.

UOMINI DEL FARE - Così, oltre alle centinaia di pagine che fotografano Renzi e il suo rapporto con gli italiani, Berlusconi sta facendo testare una serie di personalità esterne alla politica, da lanciare quando verrà il momento delle urne, così da dimostrare che il centrodestra non è solo composto dall'apparato di partito, ed è capace di attrarre i famosi «uomini del fare». Nel frattempo tiene Renzi nel mirino, e ripete che «è solo un battutista». Chissà se in cuor suo teme di dover assaggiare l'uva e di scoprirne il sapore aspro della sconfitta. Per ora osserva le mosse del Pd, il modo scomposto con cui si approssima al congresso, e che - secondo i suoi amatissimi sondaggi - sta dando agli elettori l'impressione di un partito dove si litiga per spartirsi un bottino che si ritiene già dato per scontato, come se stessero già apparecchiando il pranzo per palazzo Chigi. Dimentica le risse nel suo partito Berlusconi, che è stato costretto a parlare (anche) per non far sentire i piatti che si rompono nel retrobottega del Pdl.

21 settembre 2013 | 8:36
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_21/berlusconi-renzi-sondaggi_676d9006-227e-11e3-b502-24e91794bc4d.shtml
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« Risposta #200 inserito:: Settembre 26, 2013, 05:00:30 pm »

Il Cavaliere non intende far cadere l'esecutivo ma va all'attacco dei Democratici

E si riapre la diplomazia tra Colle e Arcore

Berlusconi resiste all'idea della grazia considerata come un atto di sottomissione

 
ROMA - È vero, c'è da trovare oltre un miliardo e mezzo per tener fede al patto di stabilità sottoscritto con l'Europa. È vero, c'è da varare la legge di Stabilità per rinnovare il patto delle larghe intese. È vero c'è da garantire la stabilità di governo per rassicurare i mercati internazionali. Ma c'è un motivo se ieri Napolitano ha invitato Alfano al Quirinale, se il Cavaliere ha cambiato l'agenda degli appuntamenti a Milano e si è precipitato nella Capitale insieme alla figlia Marina, se Enrico Letta dagli Stati Uniti si è esposto sul «caso Berlusconi» anticipando che «alla fine si troverà una soluzione nel rispetto della legge».

Il fatto è che nel fine settimana le urla del Cavaliere avevano di nuovo profanato l'austero silenzio dei palazzi romani: «Viviamo in una democrazia dimezzata, il potere appartiene ormai a un manipolo di magistrati, e qui si discute di un punto di Iva?». L'approssimarsi della sua decadenza e il rischio che da Napoli o da Milano le procure possano chiederne l'immediata custodia cautelare, avevano portato il leader del Pdl a risalire sulle barricate contro «l'attacco delle toghe politicizzate». L'eco era giunta anche al segretario del Pd Epifani, che aveva chiesto notizie sul «nervosismo» dell'«alleato»: «Si sta preparando per caso ad aprire la crisi?».

Lo stesso interrogativo se l'era posto il capo dello Stato, che si è incaricato di ripristinare le comunicazioni ormai interrotte con il centrodestra, dopo un silenzio che si protraeva ormai da tempo e che era il segno evidente dello strappo consumatosi tra il Cavaliere e il Colle, ritenuto da Berlusconi la vera centrale dell'offensiva contro di lui. Se Napolitano ha mosso il passo, e se a sua volta Berlusconi ha evitato di farne altri, significa che qualcosa si sta muovendo. Ed è chiaro che il presidente della Repubblica vorrebbe stendere un cordone sanitario a difesa del governo e della legislatura.

Ma per quanto le diplomazie si adoperino, il tempo passa e tutto è ancora fermo al punto di partenza: Berlusconi non vuol saperne di chiedere la grazia, vissuta come un atto di sottomissione, e al tempo stesso dice di non voler fare cadere il governo, che però è minacciato - a suo avviso - dall'atteggiamento del Pd: prima con il voto sulla sua decadenza, e ora con altre scaramucce di confine, come lo scontro sulla legge per l'abolizione del finanziamento ai partiti e quello sulle presidenze delle commissioni bicamerali. «Se le prendano tutte quelle commissioni, e si votino da soli i presidenti», commentava ieri il capogruppo del Pdl Schifani, che alla delegazione democratica ha detto: «Non cadremo nelle provocazioni, facendo cadere il governo».

Ma l'«irrigidimento delle posizioni», per dirla con Epifani, non aiuta ad assecondare l'operato di Napolitano, al quale Alfano ha messo in evidenza le accelerazioni di un Pd che si avvicina al congresso. «E siccome nessuno di loro vuole andare a congresso alleato con me - è la tesi di Berlusconi - è chiaro che di qui all'otto dicembre cercheranno di rompere». Nella maggioranza, anche tra i centristi, si tenta di capire quale strada prenderanno i democratici, che si troverebbero - secondo le informazioni in possesso degli «alleati» - a un bivio: proporre a Renzi un accordo per farlo eleggere segretario, a patto che garantisca il governo Letta fino al 2015, con l'obiettivo così di logorarlo per riprendersi la «ditta» nel giro di due anni; oppure puntare subito alle urne, candidando Renzi a premier ma non da segretario, perché il congresso verrebbe nel frattempo rinviato.

Si comprende allora l'irritazione crescente del Colle, e si capisce meglio la mossa di Letta, la proposta del patto di semi-legislatura, che è un modo non solo per costringere il Pdl al chiarimento ma anche per depotenziare le manovre nel Pd, circoscrivendo gli effetti delle assise democratiche sul governo, fino quasi a parlamentarizzarle sulla legge di Stabilità, dove il premier si gioca il tutto per tutto. Insomma, i casi di un eventuale crac delle larghe intese potrebbero essere tanti, ma si riducono ad uno: il voto dell'Aula del Senato che estrometterà il Cavaliere dal Parlamento. Quel giorno quale sarà la reazione del Pdl?

L'incontro tra Napolitano e Alfano non ha sciolto il vero nodo politico. Perché in fondo un'intesa per evitare l'aumento dell'Iva fino a dicembre sembra a un passo, e così potrebbe essere anche per la legge di Stabilità, se la stabilità non fosse compromessa, e se - come chiede Epifani - «sui numeri, cioè sui conti dello Stato, ci fosse quella chiarezza che non c'è». Non è casuale la sottolineatura del segretario democrat, che pungola Saccomanni a «farsi carico di un problema finora sottovalutato: qual è il dato tendenziale per il 2014? Il 2,5 o il 2,8? Non è questione di poco conto per decidere come muoversi».

Sarebbe questo il vero problema, se non ci fosse l'altro, che tiene appeso tutto e tutti. E mentre l'Italia perde con Telecom un altro pezzo di argenteria, mentre nel Pd va in scena il gioco dello scaricabarile sul modo in cui ai tempi del centrosinistra venne privatizzato il colosso telefonico, Berlusconi aspetta di sapere quale sarà il suo destino. E intanto lavora a una grande convention per presentare i «volti nuovi» che sul territorio incarneranno la «nuova Forza Italia», e per rilanciarsi mediaticamente prepara un road show in giro per il Paese. Come se il 15 ottobre non dovesse accadergli nulla...

25 settembre 2013 | 7:17
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_25/e-si-riapre-la-diplomazia-tra-colle-e-arcore-francesco-verderami_8007c9b2-25a1-11e3-baac-128ffcce9856.shtml
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« Risposta #201 inserito:: Settembre 26, 2013, 05:15:02 pm »

IL COLLOQUIO

Quella telefonata tra il premier e Alfano

La complicata partita del Quirinale

Il presidente del consiglio Letta dagli Stati Uniti fa sapere: «Se scoppia il caos sono pronto a dimettermi anche da qui»


Non è uno strumento di pressione né tantomeno un'arma di ricatto, perché a Berlusconi era chiaro che il Pd non avrebbe mosso un dito per salvarlo dalla decadenza, tanto più ora che prepara l'Aventino. Più banalmente la decisione presa ieri è il riflesso istintivo di chi si sente perso e finisce per perdere anche quel che aveva conquistato nelle durissime sfide del Quirinale e del governo: il centro del ring politico. Ora dal ring il Cavaliere ha deciso di scendere, scorgendo proprio in Napolitano il suo più acerrimo nemico - così lo definisce - «perché è lui che mi vuol fare condannare». Ormai senza più freni inibitori, si trascina appresso un partito dilaniato dagli appetiti di potere, e dove - pur di non perdere posizioni - sono state le colombe a trasformarsi in falchi nell'ultimo vertice di palazzo Grazioli, precipitando una decisione che sarebbe dovuta maturare dopo il voto del 4 ottobre con cui il Senato accompagnerà il leader del centrodestra alla porta del Parlamento.

Eppure era stato Berlusconi, ancora fino alla scorsa settimana, a frenare l'impeto di chi voleva far saltare subito il banco, spiegando che «se facessi cadere il governo mi metterei contro il Quirinale, i poteri forti con i loro giornali, il Wall Street Journal , il Financial Times . E pure quelli del Ppe direbbero che avevano ragione a non fidarsi di me». Ma i fantasmi che non lo fanno dormire di notte hanno preso infine il sopravvento, e le ombre di nuovi provvedimenti giudiziari avversi si sono fatte carne quando gli hanno riferito che la procura di Milano avrebbe pronte numerose richieste di misure cautelari contro le «Olgettine», che si sarebbero macchiate di falsa testimonianza al processo Ruby pur di salvarlo dalla condanna. È stato a quel punto che non ci ha visto più. E ha tratto il dado. Il modo in cui l'ha fatto è stato se possibile più dirompente della stessa decisione, perché - scardinando le regole istituzionali - non ha preannunciato la scelta nemmeno al Quirinale. D'altronde, con il capo dello Stato - considerato il regista della congiura - i rapporti si erano ormai interrotti, e il tentativo di Napolitano di riavviare il dialogo, chiamando Alfano al Colle, non ha avuto effetto. Un indizio si era potuto cogliere già ieri mattina, alla festa organizzata in Rai per i novanta anni di Zavoli, e dove è stato notato come il presidente della Repubblica - premuroso con tutti gli ospiti - si è scambiato solo un gelido saluto con Gianni Letta.

Il botto ha preso alla sprovvista anche la delegazione dei ministri del Pdl, se è vero che Alfano ha saputo dell'accelerazione a cose fatte, di ritorno dalla sua visita in Piemonte al cantiere dell'Alta velocità. E il colloquio con Enrico Letta - dall'altra parte dell'Atlantico - è stato quasi una sorta di commiato. Perché il premier sa di non avere margini di manovra, sa che i falchi che militano nel Pd si accingono a chiedergli un gesto «per salvare l'onore tuo e del tuo partito». È un gioco scoperto, l'ha spiegato al suo vice prima di prendere la parola all'Onu, confidando che la riunione dei gruppi parlamentari del Pdl non ufficializzasse la decisione: «Angelino, se scoppia il casino io mi dimetto anche ad qui». Un'estrema forma di pressione, questa sì, che non poteva produrre effetti. E così è stato. Di qui la scelta del presidente del Consiglio di far finta di nulla, in attesa degli eventi. Perché ora bisognerà capire quanto potrà andare avanti la messinscena, ché di questo sotto il profilo tecnico si tratta, se è vero che le dimissioni dei parlamentari non provocano la crisi di governo né producono vuoti nelle Camere, siccome è previsto il subentro dei primi non eletti. Perciò Napolitano - che è il destinatario dell'offensiva politica - vuole smascherare i berlusconiani, caricati ieri sera da un capo che ha evocato il voto e la vittoria, sebbene tutti in quella sala - tra applausi e dimostrazioni di fedeltà - sapessero che tra un paio di settimane il Cavaliere sarà fuori dal Palazzo e che non avrà le urne.
 
In realtà, il primo a saperlo è proprio il Cavaliere, e non solo perché l'assenza di una riforma elettorale è garanzia di sopravvivenza della legislatura, ma soprattutto perché glielo ripetono settimanalmente i suoi amatissimi sondaggi, a mo' di filastrocca: il Paese non vuole la crisi, il Pdl pagherebbe duramente il conto della crisi, la crisi non risolverebbe comunque i suoi problemi giudiziari mentre acuirebbe i problemi sociali. Ma non c'è verso, almeno così sembra, per placare l'ansia di chi si sente ormai braccato e vittima di una «operazione eversiva», e che - vellicato da quanti nel Pdl temono per il proprio futuro - sembra aver deciso di indossare l'armatura e teorizza una «insorgenza civile», chiama a raccolta i parlamentari e dice loro: «Servono dimostrazioni di massa, dovete pacificamente portare la gente per le strade, nelle stazioni, negli aeroporti, per denunciare la perdita della democrazia». Toccherebbe al titolare dell'Interno la gestione dell'ordine pubblico, se non fosse che Alfano - prima di questo problema - ne ha un altro, tutto politico, a lui evidente senza che Schifani ieri sera lo enunciasse rispondendo a una domanda dei cronisti: «Le dimissioni dei ministri dal governo? Chiedetelo a loro».

È scontato che il voto del Senato sulla decadenza di Berlusconi porrà i ministri dinnanzi a una scelta che appare scontata, e che stravolge lo schema fin qui previsto, quello del partito di lotta e di governo, che tiene un piede nell'esecutivo, attacca il Pd sull'economia e lo stressa per verificarne la tenuta in vista del loro congresso. Così invece il Pdl si assumerebbe la paternità della crisi. Ma tant'è. «Siamo un partito - dice Alfano - che non farà l'errore dei partiti della Prima Repubblica. Noi non ci divideremo, resteremo stretti attorno al nostro leader». Berlusconi esorta i suoi parlamentari all'«estremo sacrificio»: «Abbiamo contro tutti. Siamo solo noi e dieci milioni di elettori». Delle larghe intese restano macerie, è il Cavaliere a citare il de profundis: «Quelli del Pd dicono che l'alleanza con noi è contro natura e se ne vergognano. Ci dovremmo vergognare noi di loro». Fine.

26 settembre 2013 | 7:25
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_26/verderami-telefonata-premier-alfano_1fa5e486-2665-11e3-a1ee-487182bf93b6.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:57:49 pm »

VISTO DA ARCORE

Berlusconi: avevo pensato di mollare

Ma adesso andrò fino in fondo

Irritazione verso il Colle. «La Cassazione, un plotone contro di me».

Il Cavaliere: un progetto eversivo, vogliono cancellarmi


ROMA - «Molti nemici molto onore» sbotta infine Berlusconi, come a volersi strappare di dosso quella camicia di forza che per mesi aveva indossato controvoglia. E non è chiaro se non intende arretrare perché ormai non può più farlo, di certo - siccome considera Napolitano «il regista della congiura» - non rinnega la sua tesi sull'«operazione eversiva orchestrata ai danni del leader politico del centrodestra», anzi la sostanzia, innescando un conflitto istituzionale senza precedenti. Così, dalla barricata su cui si è posto, replica con pari durezza alle parole del presidente della Repubblica, sostenendo che è «legittimo, perché veritiero, parlare di colpo di Stato». Perciò ieri ha ordinato ai capigruppo del Pdl di rispondere alla nota del Quirinale, siccome sostiene di avere «le prove di ciò che dico»: «Mi limito per ora a ricordare solo il modo in cui è stata composta la sezione feriale della corte di Cassazione, apparecchiata come un plotone di esecuzione contro di me. Di quella sentenza tutta la magistratura dovrebbe vergognarsi».

Non è più tempo di galateo istituzionale, «basta con questa storia delle etichette», commenta il Cavaliere, che a tutti si rivolge con un moto di fastidio quando si affronta l'argomento. Ne sa qualcosa Gianni Letta, che l'altro ieri - appellandosi proprio all'etichetta e al senso dello Stato - aveva tentato in extremis di convincere Berlusconi a bloccare l'operazione delle dimissioni in massa dei parlamentari, ed è stato sbrigativamente liquidato con toni molto aspri. Il punto è che il leader del Pdl ritiene di avere avuto «fin troppo senso dello Stato», mentre veniva messa in atto l'«operazione eversiva» di cui si sente vittima. Ha il Quirinale nel centro del mirino: «Sul lodo Alfano non è intervenuto, sul legittimo impedimento non è intervenuto, sull'atto di clemenza è meglio lasciar stare. E allora poi non si può lamentare per quello che sta accadendo». Nei suoi ragionamenti, ormai senza più freni, chiama in causa anche il presidente del Consiglio: «Dice che non poteva fare nulla? Poteva almeno risparmiarsi certe dichiarazioni».

Ammette che «c'è stato un momento in cui ho pensato di ritirarmi e di trattare con il capo dello Stato. Ci ho riflettuto, poi ho deciso di non mollare, di andare fino in fondo». Chiedeva «solo» che gli venisse riconosciuta la possibilità di rivolgersi alla Consulta sulla legge Severino, si è sentito rispondere che avrebbe «evitato il carcere». Perciò ha deciso di tagliare il nodo gordiano a cui si sentiva ormai impiccato: «La verità è che vogliono cancellarmi. Ho contro tutti: la Consulta, il Csm, Magistratura democratica, i magistrati soggetti a Magistratura democratica, il Pd, Sel, Scelta civica anche se non ne capisco il motivo. Eppoi i grandi giornali, De Benedetti, alcuni poteri forti... Ma io non mollo, vado fino in fondo».

A fondo, rischia di trascinare così l'esecutivo, dove siedono esponenti di spicco del suo partito. Ed è paradossale quanto sta accadendo, perché non era mai successo di vedere dei ministri che si dimettono da parlamentari ma (per il momento) non dal governo. A parte il fatto che non tutti hanno ancora firmato quella letterina pre-stampata, c'è un problema assai più delicato: la compagine ministeriale del Pdl si mostra già scompaginata, se è vero che Lupi si è schierato in difesa di Napolitano, e Quagliariello ha ribadito la necessità di cambiare la legge elettorale, dopo che l'altra sera ai gruppi il Cavaliere si era invece espresso a favore del Porcellum.

Dettagli per Berlusconi in questa fase: tenere in piedi il governo è per lui questione secondaria rispetto alla battaglia sulla sua decadenza da parlamentare. Il suo obiettivo - dicono dal fronte democratico - sarebbe quello di puntare subito alle urne, e aggirare il problema dell'incandidabilità presentandosi da capolista in tutte le circoscrizioni, nella speranza che una delle ventisei corti di Appello accolga la sua tesi contro la legge Severino, consentendogli così di scendere ancora in campo. Ma all'accelerazione impressa dal leader del Pdl, Enrico Letta (con la regia di Napolitano) ha risposto con un'altra accelerazione, anteponendo la verifica parlamentare sul suo governo alla riunione della Giunta del Senato. Già oggi, però, la riunione del Consiglio dei ministri - semmai si terrà - potrebbe decretare la fine delle larghe intese: come farebbe infatti la delegazione berlusconiana a restar seduta allo stesso tavolo con un premier che ha appena detto di ritenere «un'umiliazione per l'Italia» il gesto delle dimissioni di massa del centrodestra?

Ecco perché c'è attesa per ciò che Enrico Letta dirà o potrà fare, perché le sue mosse potrebbero innescarne altre nella delegazione del Pdl per reazione. Un interrogativo però, il più importante, non trova per ora risposta: cosa ci sarebbe dopo il governo Letta? Questo è l'azzardo per Berlusconi, che ha innescato un gioco pericoloso. Con la sua mossa ha sì portato la nave dell'esecutivo sugli scogli, ma rischia di non riuscire ad affondarla e di restare incagliato, in balia dei flutti. Senza dimenticare che le dimissioni di massa da gesto storico potrebbero trasformarsi in farsa. Ma ci sarà un motivo se è già proiettato verso la campagna elettorale: «Non andrò in tv, in quelle trasmissioni che sembrano pollai. Solo Internet, interviste e comizi, se potrò...» .

 27 settembre 2013 | 7:22
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_27/berlusconi-no-marcia-indietro_65f1b800-2734-11e3-94f0-92fd020945d8.shtml
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« Risposta #203 inserito:: Settembre 29, 2013, 11:14:25 pm »

Il retroscena Il blitz in assenza del segretario

Ad Arcore il vertice a sorpresa con i falchi Ghedini al Cavaliere: farai la fine di Silvio Pellico

Alfano dice no a un primo documento particolarmente duro con il premier. Le critiche di Quagliariello


ROMA - È il blitzkrieg, è uno contro tutti, ed è una guerra che non contempla prigionieri. Si vedrà se quella di Berlusconi è stata davvero la mossa della disperazione, «un suicidio» come dicono nel suo stesso partito, o una scelta meditata, coltivata da tempo, e messa in atto dopo aver colto «l'opportunità» che il premier a suo modo di vedere gli ha offerto, bloccando il provvedimento sull'Iva. Di certo la decisione del Cavaliere di far saltare il banco e di ritirare la delegazione del Pdl dal governo è una scommessa giocata sul ritorno immediato alle urne. È una manovra che rischia di avere effetti devastanti non solo sui destini del Paese ma anche del suo stesso movimento. Quale sia l'arma segreta non si sa, anche perché stavolta l'uomo che per venti anni è stato il leader incontrastato del centrodestra non potrà guidare il suo esercito sul campo di battaglia elettorale. Eppure Berlusconi decide di avviare il conflitto, e questa è la storia del giorno più lungo della Seconda Repubblica.

Ore 10
Nella villa di Arcore il Cavaliere riceve alcuni dirigenti Mediaset. Nella sua residenza si trovano già la figlia Marina e Bondi, con loro discute della situazione politica. L'informativa notturna di Alfano sul Consiglio dei ministri e la lettura dei giornali gli hanno confermato ciò che già sapeva: il premier e il capo dello Stato «vogliono mettermi spalle al muro» dopo l'offensiva delle dimissioni in massa dei suoi parlamentari. Il giorno prima, al vertice del Pdl, aveva letto una sua considerazione con la quale spiegava di non avere alcuna intenzione di aprire la crisi di governo. L'accelerazione di palazzo Chigi e la richiesta di un chiarimento davanti alle Camere lo pongono dinnanzi a un bivio: votare la fiducia, senza però avere più alcun potere contrattuale, né sul versante politico né su quello giudiziario, oppure cercare attraverso un'operazione bizantina di attaccare l'esecutivo, con i suoi ministri seduti al banco del governo. «I miei elettori non capirebbero». Squilla il telefono, in linea c'è Cicchitto. «Silvio, devi fare attenzione. Rischi di apparire come il nemico del popolo». Berlusconi ripete di non volere la crisi e chiede al dirigente del suo partito di preparargli una nota, deciderà poi se farla propria con un comunicato o di trasformarla in un videomessaggio. A Roma intanto vanno avanti le trattative tra Pd e Pdl per scongiurare la rottura. L'attivismo è frenetico, Brunetta si consulta con rappresentanti del governo e con gli «alleati», e c'è ottimismo su una soluzione positiva.

Ore 12
Ad Arcore arrivano Verdini e Santanchè, formalmente per discutere della manifestazione da indire per il 4 ottobre in concomitanza con il voto della Giunta di palazzo Madama sulla decadenza del Cavaliere. Il coordinatore del Pdl ha un conto aperto con Berlusconi, perché convinto che non ci sia altra strada della crisi. Come lui la responsabile dell'organizzazione, che il giorno prima aveva tribolato sapendo dell'esito del vertice a cui non aveva preso parte. I falchi tornano a premere sul leader, comprendendo di trovare terreno fertile alle loro argomentazioni. Ma serve un innesco per dar fuoco alle polveri, ed è l'avvocato-deputato Ghedini a farlo. Ostile al governo Letta fin dalla sua nascita («sarà la tua rovina, Silvio»), torna a insistere sulla necessità di rompere gli indugi, usa per grimaldello la situazione giudiziaria del Cavaliere, ritorna sull'inconsistente aiuto giunto dal Quirinale ai suoi guai, e gli prospetta «nel giro di venti giorni» un finale drammatico: «Farai la fine di Silvio Pellico». Quella parole incendiano il Cavaliere, la brace torna a farsi fiamma, ed è allora che viene messo a punto il blitzkrieg . Le linee nemiche hanno lasciato un varco in cui infilarsi: la decisione di non varare il decreto economico e di lasciar partire l'aumento dell'Iva era stato un modo per Enrico Letta di vendicarsi con il Pdl dell'«umiliazione» subita con l'annuncio delle dimissioni in massa proprio mentre si trovava all'Onu. «Lui umiliato?», tuona Berlusconi: «Io fui umiliato nel '94, quando mi mandarono l'avviso di garanzia mentre presiedevo il vertice di Napoli». Per il leader del centrodestra è giunto il momento di preparare la dichiarazione di guerra: «Chiamatemi Capezzone». La missione è ancora top secret. Persino Confalonieri e Gianni Letta sono ignari di quanto sta accadendo, e come loro anche il segretario del Pdl non sa nulla.

Ore 16
Alfano - che si trova nella sua abitazione a Roma - riceve una chiamata che lo gela per i contenuti e per i modi. «Apriamo la crisi, Angelino. Ho da leggerti il comunicato che voi ministri dovrete fare vostro». Ma non c'è Berlusconi all'altro capo del telefono, bensì Ghedini, a cui il Cavaliere ha affidato il compito di avvisarlo. È chiaro il messaggio del leader verso il vicepremier, che ascolta la lettura della nota redatta dall'ex segretario radicale: un documento violentissimo nei riguardi del presidente del Consiglio, che evoca - come nella migliore tradizione stalinista - una implicita richiesta di autoaccusa della compagine ministeriale del Pdl. Alfano, stordito e addolorato, respinge il comunicato e non solo perché «ho lavorato fino ad oggi con Enrico nel governo», ma anche perché non intende politicamente suicidarsi. Si apre una trattativa che dura più di un'ora, e tocca a Bondi la stesura di una nuova bozza, quella definitiva.

Ore 18
Berlusconi dirama la dichiarazione di guerra. A stretto giro i suoi ministri si dimettono. Per Alfano c'è solo il tempo di preavvisare il premier, che trasecola: «Ma se stavamo cercando un compromesso...». Anche Napolitano viene avvisato prima che il comunicato sia reso pubblico e non capisce, visto che solo cinque minuti prima Brunetta lo aveva informato che la trattativa era a buon punto. «Non c'è razionalità in questa vicenda», commenta il capo dello Stato: «Se alla dimensione politica si privilegia la dimensione umana, non si può costruire più nulla. Sono dispiaciuto, anche per Berlusconi, ma tutto ciò con la politica non c'entra nulla». Nel frattempo Alfano si mette alla ricerca degli altri ministri. Si trovano subito la De Girolamo e la Lorenzin, che sta passeggiando in riva al mare. Quagliariello è in attesa della partita del Napoli e resta di sale: «Sono pronto a dimettermi ma non sono d'accordo. Perché questo gesto non serve né al Paese né al centrodestra né a Berlusconi. Così ci mettiamo contro quel mondo che vogliamo rappresentare». Resta da trovare Lupi, e si fatica. Il titolare dello Sviluppo economico è a messa con Carron, il leader spirituale di Cl. La scorta gli porta il cellulare in chiesa. «Maurizio ti devi dimettere», e in sottofondo sale il canto dell'Alleluja. «Maurizio, Berlusconi ha aperto la crisi», e dalla cornetta si sente il sacerdote che invita i fedeli a scambiarsi il segno della pace.

La pace non c'è più nel Pdl, che ribolle come una tonnara. Il rischio di una spaccatura è elevato e - chissà - forse messo nel conto dallo stesso Berlusconi, che un anno fa coltivò l'idea dello spacchettamento del partito. «Un partito in mano ai falchi non è il nostro partito», attacca infatti uno dei ministri, che si appresta a chiedere una «verifica interna». Ma a chi, al Cavaliere? Sembra la vigilia dell'otto settembre. Mentre a Milano Verdini e Santanchè festeggiano, a Roma la compagine di governo appena dimessasi va a casa di Alfano, che intanto ha avuto modo di sentire - brevemente - il «dottore». L'ormai ex vice premier, verso cui i suoi stessi amici muovono critiche per non aver vigilato abbastanza sul partito, si trova ora tra Scilla e Cariddi: tra Berlusconi, che comunque continua a volere accanto a sé «Angelino», e le sirene centriste che confidano cambi rotta. La guerra lampo è iniziata, lascerà molti cadaveri sul campo.

29 settembre 2013 | 17:52
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_29/ad-arcore-il-vertice-a-sorpresa-con-i-falchi-ghedini-al-cavaliere-farai-la-fine-di-silvio-pellico-francesco-verderami_b68872c6-28cf-11e3-8fff-a1e6916711a7.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Ottobre 13, 2013, 05:00:31 pm »

Il tormento del Cavaliere

Alfano a cena, il faccia a faccia più teso

Berlusconi: tranne Angelino, i ministri non li ho scelti io.

E medita di affidare ai «lealisti» un nuovo assalto al governo

 
Forse è così. Forse davvero il ventennio berlusconiano non è ancora finito, forse davvero non è in gioco la successione al Cavaliere, forse davvero - come dice la figlia Marina - il padre «non delega la leadership perché non ritiene sia arrivato il momento di delegarla». Ma se è così, allora la leadership va esercitata. E ieri Berlusconi ha iniziato a farlo per cancellare la linea ondivaga sul partito e sul governo. Perché dopo il «tribolato» voto di fiducia c’era da capire cosa stesse meditando: affidare ai «lealisti» il compito di assaltare nuovamente l’esecutivo se e quando verrà dichiarato decaduto da parlamentare? E c’era da capire in che modo volesse ricomporre la frattura in un Pdl dove i dirigenti si delegittimano a vicenda. Di certo gli strappi del Cavaliere nelle ultime settimane hanno provocato un’emorragia di consensi: non è un caso se nei sondaggi Berlusconi ha rilevato come, persi sette punti in pochi giorni per aver minacciato la crisi, ne ha recuperati più della metà in poche ore dopo aver dato la fiducia alle larghe intese.

Serviva una linea politica chiara all’ex premier, che è ancora il capo del Pdl ma doveva dimostrare di stare a capo del Pdl. Non era più tempo di applicare il vecchio schema del divide et impera e non bastava il richiamo all’unità come «bene supremo», né bastava dire che «se Alfano e Fitto si parlassero, i problemi si appianerebbero». L’aveva potuto verificare l’altra sera a cena con il frontman dei «lealisti», che contestava - sulla base di un suo conteggio interno - la richiesta di «Angelino» di prendere la guida del partito, e lo additava per la manovra di Palazzo sul voto di fiducia che «ti ha danneggiato, finendo per renderti ridicolo persino sulle vignette dei giornali».

L’ha constatato anche ieri sera a cena con il vice premier, che non solo ha confutato i numeri di Fitto - evidenziando per esempio come i campani si siano già smarcati - ma ha sottolineato soprattutto al Cavaliere che lo strappo con «Raffaele» era frutto «dei suoi veti, presidente», ai tempi degli organigrammi del partito e dei gruppi parlamentari: «E ora lei non può usare lui contro di me». Ed è stato a quel punto, dopo un lungo faccia a faccia, che Berlusconi avrebbe mosso il primo passo per consegnare ad Alfano la vicepresidenza della Forza Italia del futuro. Stretto nella morsa, per tutta la giornata il Cavaliere era parso assai contraddittorio. Per un verso aveva menato fendenti contro «i traditori» che stanno al governo, ripetendo che «tranne Alfano i ministri non li ho scelti io». Per l’altro verso però, all’incontro con gli europarlamentari, aveva accennato al fatto che lo statuto del Pdl non può essere cambiato per non avere «problemi burocratici» nel Ppe, confermando quindi indirettamente la figura del numero due, che i «lealisti» vorrebbero azzerare.

Fosse per lui, le liturgie interne andrebbero ridotte all’essenziale, incardinate nei dogmi che gli suggerì Bossi molti anni fa, e ai quali vorrebbe ancora attenersi: «A me la disponibilità del simbolo e il potere di fare le liste. Poi voi fate come vi pare». Non è più così oggi che i dirigenti riconoscono a Berlusconi la leadership a patto che la eserciti. Serviva la sua mediazione, non solo l’appello a «deporre le armi» per evitare una rottura che segnerebbe «la vittoria della sinistra» e consegnerebbe gli scissionisti al ruolo di «stampella del Pd». Anche perché nessuno ha questo intendimento, neppure Quagliariello, a cui in queste ore sono fischiate più volte le orecchie. Il titolare delle Riforme, additato dal Cavaliere nei conciliaboli riservati come «il ministro che prende ordini da Napolitano», è stanco della litania sul tradimento: «Sono il primo a volere l’unità. Di cosa mi accusano?». Il Pdl vive in una dimensione kafkiana, tra richieste di repulisti e minacce di scissione sussurrate ai media da chi ormai è fuori dai giochi. Ce n’è la prova se «Raffaele» - ai ferri corti con «Angelino» - attende solo di «conoscere le decisioni di Berlusconi», così dice: «E sono pronto, se necessario, a fare opposizione durissima. Ma nel partito, non fuori». Appunto.

Solo che in attesa delle «decisioni di Berlusconi», la guerra dei nervi ha fatto smarrire i sorrisi. Nessuno più si diverte. Non si diverte Alfano, entrato tesissimo ieri sera all’appuntamento con il Cavaliere. Non si diverte Fitto, che dissimula la tensione dietro sorrisi tirati e una voce arrochita da estenuanti discussioni. Non si diverte nemmeno uno come Quagliariello, che pure ha coltivato il gusto della battuta anche nei momenti più drammatici. Come la sera in cui Berlusconi chiese davanti ai gruppi parlamentari che i panni si lavassero in famiglia. «Ci fosse almeno una lavatrice per farlo», sussurrò, provocando una grassa risata tra quanti gli stavano accanto.
Ovviamente non si diverte nemmeno il Cavaliere, che pure l’altra sera davanti alla tv aveva riso guardando «Radio Belva» su Rete4. Peccato che il giorno dopo il programma sia stato cancellato dal palinsesto per via dei turpiloqui. Lui, che tanto aveva apprezzato la performance di Paolo Villaggio, ha dovuto abbozzare: «A me la trasmissione era piaciuta».

12 ottobre 2013
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_12/tormento-cavaliere-alfano-cena-faccia-faccia-piu-teso-272add98-32fd-11e3-b13e-20d7e17127ae.shtml
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« Risposta #205 inserito:: Novembre 17, 2013, 06:37:00 pm »

L’ULTIMA TRATTATIVA FALLITA ALLA VIGILIA DEL CONSIGLIO NAZIONALE

Pdl , le quattro pagine dell’intesa saltata
Prima della spaccatura quattro fogli con le garanzie agli innovatori.
E’ sfida fra le nuove generazioni

Dove c’era il Popolo della libertà ora c’è un ground zero, e chissà in che modo rinascerà il centrodestra, quanto tempo servirà per riedificarlo e chi si intesterà il nuovo progetto, se l’architetto che per venti anni l’ha disegnato a propria immagine e somiglianza avrà ancora la forza per proporne uno nuovo. Di certo la scissione certifica l’incapacità di Berlusconi a imporsi nel conflitto interno al suo partito. È una sconfitta politica per tutti ma soprattutto per il Cavaliere, a cui il fallimento forse brucia più della stessa decadenza. Un mar Rosso lo separa ormai da Alfano che a sera si aggirava tra i brindisi degli innovatori, nella sala dove don Sturzo lanciò l’appello ai «liberi e forti», con un velo di commozione che non riusciva a dissimulare. E solo dopo, nel chiuso di una stanza, si è sciolto insieme a Lupi. Eppure i due ieri pomeriggio si ripetevano contenti di aver trovato l’intesa con Berlusconi, e anche il Cavaliere aveva partecipato alla festa con una battuta: «Ma io posso venire con voi alla riunione?».

Per la prima volta era stato scritto nero su bianco quello che Alfano e il «presidente» si erano ripetuti per settimane, apportando al progetto della nuova Forza Italia un paio di modifiche al disegno originario impostato dai lealisti. Sta nelle righe in grassetto di un documento di quattro pagine l’accordo che non è poi stato, e che avrebbe evitato la rottura. In un inciso si stabiliva che Forza Italia avrebbe continuato a dare sostegno al governo «anche nel caso in cui il Senato dovesse votare la decadenza del presidente Berlusconi». E in un altro capoverso si formalizzavano i tre coordinatori, a cui affidare la responsabilità di formare le liste «a garanzia della reale rappresentatività e del radicamento sui territori delle principali aree politiche e culturali del movimento». È vero che sul resto tutto il gruppo dirigente era concorde, ma quei passaggi mutavano il profilo del partito, come i calcoli statici di un grattacielo.

Ci ha creduto davvero Berlusconi quando in un quarto d’ora ha accettato le modifiche al progetto apportate d’intesa con il ministro Quagliariello, prima di sconfessarle? O aspettava che i lealisti gli dicessero di no per rinnegarle? In un caso come nell’altro vorrebbe dire che il Cavaliere ha già abdicato, che nel legittimo scontro tra Fitto e Alfano ha perso il potere della firma di architetto. Ecco perché i mediatori gli avevano consigliato di far saltare all’ultimo momento il Consiglio nazionale, per non sancire con il suo imprimatur la sua destituzione. Certo, a Berlusconi resta il controllo del consenso, ma la sfida delle nuove generazioni è stata ufficializzata. E c’è un momento in cui tutto ciò è avvenuto, quando ha lasciato i ministri in una stanza della sua residenza romana, per tornarci qualche minuto dopo: «Va bene, convochiamo stasera l’ufficio di presidenza per ratificare le modifiche al documento. Ho parlato con gli altri, sono d’accordo». Non era vero.

Sessanta parlamentari seguiranno Alfano nel «Nuovo centrodestra». Se sarà un progetto o solo un avventura non lo si capirà da possibili, ulteriori arrivi di deputati e senatori, o dall’aggregazione con altre forze, ma dalla capacità di dar seguito alla scelta con l’azione di governo. Dall’altra parte Fitto avrà il compito di evitare che certe pulsioni nella nuova Forza Italia non riducano il berlusconismo a una moneta fuori corso. Si preannuncia una battaglia aspra, giocata sul territorio e nelle Camere proprio su quei due passaggi del documento che sono stati al centro della contesa. «Angelino» punterà a difendere il perimetro delle larghe intese che «Raffaele» minaccerà fin da domani, e per riuscirci dovrà farsi valere sui temi sensibili del lavoro e delle tasse. Non sarà facile. Come non sarà facile il test elettorale delle Europee.

Paradossalmente, invece, il vice premier avrà più facilità di muoversi sul terreno della giustizia, dove sarà chiamato a sfidare il centrosinistra alla riforma. Alfano potrà imporre al Pd di calare la maschera e mostrarsi con il suo vero volto: se è vero che - da Bersani a Renzi, passando per D’Alema - tutti hanno sempre sostenuto la necessità di ristabilire l’equilibrio tra il potere politico e l’ordine giudiziario, senza più l’alibi di Berlusconi e delle leggi ad personam, si capirà se il garantismo prevarrà sul giustizialismo. E così il «traditore» - perché questo trattamento si aspetta oggi l’ex segretario del Pdl - potrà mostrarsi come il miglior alleato di Berlusconi, magari appoggiando anche i referendum radicali.

Non c’è il tempo di commuoversi per ciò che è stato, perché lì dove sorgeva il Popolo delle libertà e ora c’è un ground zero, le macerie non resteranno a lungo. Altri architetti potrebbero edificare con altri progetti. È la politica, bellezza.

16 novembre 2013
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_16/crisi-pdl-quattro-pagine-dell-intesa-saltata-16f37094-4e90-11e3-80a5-bffb044a7c4e.shtml
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« Risposta #206 inserito:: Novembre 28, 2013, 11:54:04 am »

La contromossa del governo: ritoccare la Carta

L’obiettivo: poche riforme ma veloci per aggirare possibili veti

Letta e Alfano (Ansa)Letta e Alfano (Ansa)La fine delle larghe intese è l’inizio di un conflitto istituzionale che contrappone Berlusconi a Napolitano, è uno scontro destinato a radicalizzarsi, è una sfida che si gioca sul terreno delle procedure parlamentari ma che origina dalla battaglia sulla decadenza del Cavaliere. Perché è vero che Forza Italia ha deciso ieri di lasciare la maggioranza per dissenso sulla legge di Stabilità, e che in virtù di un mutamento sostanziale del quadro politico ha chiesto al premier di salire al Quirinale per essere poi - eventualmente - rinviato alle Camere per ottenere una nuova fiducia. Ma è altrettanto vero che la scelta è avvenuta alla vigilia del giorno del giudizio per Berlusconi, e che la manovra mira al blocco dell’attività parlamentare, quindi anche allo slittamento del voto sull’estromissione del Cavaliere dal Senato.

La scelta dell’esecutivo di porre la fiducia sulla legge di bilancio e di blindare in un solo colpo i conti dello Stato e la nuova maggioranza è stata però condivisa e assecondata dal capo dello Stato, provocando così la reazione degli azzurri, che accusano il Quirinale di «vulnus» alle regole del gioco. Ecco il preludio del conflitto che potrebbe segnare in modo drammatico l’epilogo della Seconda Repubblica. È la prova che Berlusconi non intende arrendersi, che punta alla delegittimazione del Colle e scommette sulla debolezza del quadro politico, magari con l’«aiuto» di Renzi per una crisi a breve termine.

È il rischio del «caos» a cui ha fatto riferimento ieri Letta, che sotto il patronato di Napolitano identifica il suo governo come l’alveo dentro cui arginare le convulsioni del sistema. Ma per evitare che il sistema imploda, l’esecutivo ha una sola strada: avviare subito la revisione della Carta. Il punto è che la fine delle larghe intese si porta appresso la fine del percorso riformatore previsto con la nascita del Comitato dei saggi: senza Forza Italia non ci sono più i due terzi dei voti parlamentari necessari per evitare un referendum, che vecchi e nuovi avversari del governo potrebbero utilizzare per far saltare il banco. Per incanto si unirebbero le estreme, da Berlusconi a Grillo, dalla Fiom ai custodi dell’ortodossia costituzionale: Colle e Palazzo Chigi verrebbero stritolati.

È un azzardo che lo stesso Renzi ha suggerito a Letta di evitare, e che incrocia il parere favorevole di Alfano. È preferibile piuttosto procedere con il tradizionale meccanismo dell’articolo 138, al quale sta già lavorando il ministro delle Riforme Quagliariello, che si appresta a presentare il primo pezzo della riforma, che è il passo d’avvio e forse anche di arrivo. Con la trasformazione del Senato nella Camera delle Autonomie si otterrebbe un triplice risultato: il superamento del bicameralismo perfetto e insieme la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, visto che i 315 senatori sarebbero sostituiti (senza emolumenti) dai rappresentanti delle realtà locali.

Così si potrebbe anche evitare un «taglio» alla Camera degli attuali 630 deputati, sarebbe più semplice varare una legge elettorale e il cerchio si chiuderebbe. Tutto fatto? Niente affatto. Certo, Forza Italia e Cinquestelle faticherebbero a ostacolare un simile progetto di riforma, ma c’è da convincere i senatori ad abbandonare Palazzo Madama, impresa finora mai riuscita. Una cosa però è sicura: questo pacchetto viene sponsorizzato da Renzi, che non è ancora formalmente diventato il «player» della maggioranza ma di fatto adopera già la sua golden share sull’esecutivo.

Il futuro segretario del Pd si dispone al tavolo da gioco con due carte: potrebbe attendere che una maggioranza fragile al Senato si sfilacci, aprendo la strada alle elezioni, o - come sostiene di voler fare - mostra di dar credito a Letta, di appoggiare il percorso delle riforme che sposterebbe l’orizzonte del voto almeno al 2015. Che sia tattica o strategia, poco importa: Renzi vuole dettare l’agenda al governo, consapevole - nel caso - di poter ottenere le urne senza nemmeno lasciarci le impronte, visti i desideri di rivalsa che covano nell’area montiana...

Da ieri è cambiato tutto, e la sfida per Alfano inizia in salita: con Renzi che vuol contare e con Forza Italia che tenterà di schiacciarlo a sinistra, dovrà evitare di farsi «cespuglizzare». Tuttavia il vicepremier sa di avere una chance nel medio termine, se riuscirà a condividere con gli alleati di governo i primi refoli della ripresa economica - tutta da consolidare - e se riuscirà a intestarsi le riforme, dove peraltro potrebbe ricevere di qui a breve un prezioso contributo dalla Lega di Maroni, interessata al progetto di revisione della Carta. Sarebbe il primo passo verso un nuovo assetto del futuro rassemblement di centrodestra. Ma si fatica a scrutare l’orizzonte. Da ieri le nubi del conflitto istituzionale minacciano tempesta.

27 novembre 2013
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_27/contromossa-governo-ritoccare-carta-83ed7b28-572c-11e3-a452-4c48221dc3be.shtml
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« Risposta #207 inserito:: Novembre 28, 2013, 11:57:17 am »

Il caso Berlusconi, Gli scenari
Parte la caccia al «tesoretto» di voti

La prima vera occasione di autoriscatto del Cavaliere arriverà con le Europee


ROMA - Quel giorno, guardando dalla finestra il picchetto d’onore che lo attendeva nel cortile di Palazzo Chigi per rendergli il saluto - come si fa con ogni presidente del Consiglio dimissionario - Berlusconi si volse verso Tremonti e gli disse: «Ora come passerò le mie giornate?». Le prossime saranno ancora più difficili, sebbene la decadenza del Cavaliere abbia per ora solo svuotato uno scranno del Senato, non un patrimonio elettorale.

Ed è questo il nodo politico, l’interrogativo che si pongono tanto i partiti avversari quanto gli stessi dirigenti azzurri: Berlusconi sarà ancora protagonista nell’era del «dopo Berlusconi»? Perché è vero che il leader del centrodestra ha giurato ai suoi elettori di «non mollare» e ha dato appuntamento alla prossima sfida nelle urne, ma bisognerà vedere se il tempo corroderà quel bacino di consensi o se il leader del centrodestra riuscirà a tenere per sé quel «tesoretto» che in tanti - anche dentro Forza Italia - vorrebbero ereditare.
Per ora tutti, dall’Osservatore Romano alla senatrice del Pd Finocchiaro, sostengono che l’estromissione dal Palazzo non lo escluderà dalla politica: quasi fosse un riflesso condizionato, dovuto alle tante volte in cui il Cavaliere si è rivelato una fenice, risorgendo dalla sue stesse ceneri. Persino Renzi ha invitato i sostenitori democratici a non considerare Berlusconi già battuto, siccome teme che lo «spacchettamento» del Pdl in due partiti, uno di lotta e l’altro di governo, possa rappresentare una minaccia alla scalata verso Palazzo Chigi.

Ma stavolta l’operazione del Cavaliere appare terribilmente più complessa, perché non potrà limitarsi alla tattica che finora l’ha reso (quasi) imbattibile, quel mix cioè di Palazzo e di piazza che gli ha consentito di impattare la sfida con Bersani alle ultime consultazioni, costringendo il Pd al governo delle larghe intese: il «metodo Monti» - con cui pur stando in maggioranza è riuscito a presentarsi al Paese come capo di una forza di opposizione - non basterà più. Inoltre l’eclissi, se non totale quantomeno parziale, lo coglierà quando fra qualche mese la sentenza sul «caso Mediaset» dispiegherà i suoi effetti. E senza elezioni anticipate sarà complicato tenere i suoi elettori in perenne stato di allerta pre-elettorale.
Tuttavia Berlusconi potrebbe avere ancora una chance, sfruttando le debolezze del governo, se Letta non cambiasse passo. In quel caso le Europee potrebbero consegnargli l’occasione del riscatto, intercettando il senso di insoddisfazione crescente dell’opinione pubblica verso la politica economica di Bruxelles e di Berlino. È vero che quell’area è già coperta da Grillo, ma il Cavaliere ritiene di avere lo spazio sufficiente per prendersi la rivincita nei confronti di chi - a suo parere - due anni fa ha «cospirato» contro di lui.

Chissà se nel libro su «La vera storia dello spread» che ha promesso di scrivere, racconterà quello che tempo addietro ha confidato: «Obama, Merkel, Sarkozy mi hanno voluto far pagare l’amicizia con Putin e altro ancora...». Comunque non c’è dubbio che al test della prossima primavera sta mirando. Lo si è capito ieri quando ha iniziato a lavorare ai fianchi il Nuovo centrodestra, esortando gli elettori a non «frazionare il voto», parlando di «piccoli partiti» e «piccoli leader», mentre il suo gruppo dirigente gridava al «tradimento».
Per ora il Cavaliere non ha dichiarato apertamente guerra ad Alfano, convinto dalla famiglia e dagli amici più «fedeli» ad evitare la rottura. E c’è un motivo se - nonostante gli attacchi - il vice premier ha scelto il giorno della decadenza per impugnare la bandiera berlusconiana sulla giustizia, e dire che il tema va inserito «nell’agenda» della legislatura. Il leader del Nuovo centrodestra sa di avere un’unica strada per confutare la tesi di chi - come Brunetta - sostiene che «quelle di Angelino sono solo favole»: cercare un’intesa con Renzi, che sostiene la necessità di una riforma. Ed è proprio al futuro segretario del Pd che Alfano si è rivolto, quando ha spiegato che «ora la sinistra non avrà più alibi».

Il resto sono solo iniziative di posizionamento. Ed è evidente come il Cavaliere stia cercando di blindare il suo «tesoretto», che sente minacciato. I sondaggi sull’onda dell’emotività oggi lo premiano, ma sta nell’operazione dei circoli «Forza Silvio» la chiave per interpretare la manovra di Berlusconi, che vuole contrastare l’emorragia di quadri dirigenti sul territorio, dove molti portatori di voti vanno spostandosi verso il Nuovo centrodestra.
Così si torna all’interrogativo che nel Palazzo non trova ancora risposta: sul Cavaliere sta davvero calando il sipario? All’uomo che ha incarnato un ventennio politico, servirà il ritmo di un passista e non più quello dello scattista per smentire la sua decadenza politica oltre quella parlamentare, sapendo però che sarà una gara ad handicap e che - quasi certamente - non potrà tagliare lui di nuovo il traguardo.

28 novembre 2013
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_28/berlusconi-tesoretto-voti-verderami-47b75796-57f9-11e3-8914-a908d6ffa3b0.shtml
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« Risposta #208 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:12:46 pm »

Sette giorni

Renzi e le alleanze variabili
Doppio gioco del leader di Fi sui tempi per andare al voto


Renzi vorrebbe veleggiare lontano dalle rotte del governo: «Dovessi dire ciò che penso davvero della legge di Stabilità... Lasciamo stare». E c’è un motivo se sulla legge elettorale intende varcare le colonne d’Ercole della maggioranza. L’ignoto gli fa meno paura dell’esistente. Ma sempre ignoto resta, e la navigazione per niente facile. Il leader del Pd ne è consapevole anche quando esprime le proprie certezze nel confronto che si è aperto con Letta e con Alfano sul futuro sistema di voto. L’idea che si debba allargare il consenso sulla riforma anche alle forze di opposizione appartiene a tutti, «nessuno - spiega il ministro Quagliariello - vuol restare al di qua delle colonne d’Ercole della maggioranza. Ma il problema non è il punto di arrivo, bensì il punto di partenza». Una tesi che non convince Renzi, secondo cui questa impostazione finirebbe per «ingessare il dialogo» con Forza Italia e Cinquestelle: «Sarebbe come dividere i partiti tra serie A e serie B, ed è chiaro che gli ultimi non ci starebbero».

Così com’è altrettanto chiaro che una discussione tra sordi è sintomo di incomprensioni che rivelano strategie diverse. Allora resta da capire se «l’uomo nuovo» - così lo definiscono i fedelissimi - troverà di qui a gennaio un approdo su questa rotta, se il Cavaliere cioè sarà la sua America. «Se Renzi vuole rilegittimare Berlusconi, è un rischio che si assume», commenta il ministro Mauro: «Magari farà lo stesso errore commesso Veltroni, che poi infatti perse». Il titolare della Difesa, che lavora alla costituzione di una nuova area centrista, fa capire che le manovre del leader dei democrat mirano a rendere più difficile la ricomposizione del centrodestra, creando un fossato tra Forza Italia e Ncd.

In effetti si preannuncia un Natale durante il quale dirigenti del Pd e di FI si scambieranno auguri e sistemi elettorali, magari da girare anche agli intermediari grillini. Ma è risaputo che il Cavaliere, per accettare il patto, si aspetta come dono la caduta del governo e il voto anticipato in primavera, almeno così sostiene formalmente. Qualora vedesse esaudite le sue richieste farebbe mostra di grande gioia, ma se così non fosse - come spiega l’azzurro Rotondi - «perché Berlusconi dovrebbe regalare a Renzi lo spot per le Europee? Non ci pensa nemmeno».

Di più, l’ex premier pensa che sarebbe più vantaggioso per lui arrivare al 2015 per varie ragioni. Intanto avrebbe il tempo necessario per ricostruire il partito a sua immagine e somiglianza. Poi terrebbe in sospeso la sfida per palazzo Chigi, in attesa di conoscere l’esito del ricorso a Strasburgo per la «sentenza Mediaset», sulla quale il suo avvocato Coppi ha detto di nutrire «grande fiducia». E nel frattempo osserverebbe le manovre di Renzi, costretto a navigare nelle acque del governo Letta con il rischio di incagliarsi, mentre lui resterebbe al largo, all’opposizione.


Siccome Berlusconi ciò che pensa di solito non se lo tiene, ha pensato bene di rivelare a un interlocutore (non di Forza Italia, ovvio) il suo doppio gioco: «... Per questi motivi, se le elezioni nel 2014 non ci fossero, sarebbe alla fine preferibile». Con il Cavaliere che chiede la luna perché ha bisogno di tempo, e Renzi che la luna difficilmente può concederla ma non ha tempo, è difficile ipotizzare un’intesa. Perciò il segretario del Pd deve muoversi con prudenza, e i suoi consiglieri comprendono quanto sia delicata e complicata l’operazione: per ora solo discussioni di massima sui sistemi di voto, niente carte sul tavolo, nemmeno la calendarizzazione della riforma in Commissione alla Camera. L’alibi peraltro c’è: bisogna aspettare di conoscere le motivazioni della sentenza prodotta dalla Consulta sul Porcellum.

Sarà, ma il tempo passa. E se la Corte costituzionale dovesse davvero attendere fino a metà gennaio prima di depositare gli atti, non sarebbe facile stipulare in due settimane un’intesa sulla legge elettorale, come chiede il nuovo corso del Pd. Senza dimenticare che proprio in quel periodo la maggioranza dovrebbe stipulare il fatidico «patto alla tedesca» sul programma per il 2014. Se Renzi non si esprime sulla legge di Stabilità per evitare che le sue dichiarazioni terremotino il governo, anche nell’esecutivo ci si rende conto che una svolta è necessaria. Non a caso Lupi parla di un «nuovo inizio» riferendosi all’«agenda Italia»: «Chiuso un anno molto difficile, bisognerà dare anche psicologicamente un segno di rottura».

D’altronde o i partiti di maggioranza cambiano ritmo o ne subiranno le conseguenze alle Europee di primavera, dove il Nuovo centrodestra si giocherà tutto nelle urne, dove Berlusconi si presenterà spiazzando quanti ipotizzano una deriva anti-europeista, e dove Renzi dovrà dare una dimostrazione di forza. «Il Pd quando ero segretario prese il 26,1%», ricorda spesso Franceschini. Solo come annotazione di cronaca, ovvio...

21 dicembre 2013
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_21/renzi-alleanze-variabili-b197924c-6a0b-11e3-aaba-67f946664e4c.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:42:51 pm »

Renzi vorrebbe veleggiare lontano dalle rotte del governo: «Dovessi dire ciò che penso davvero della legge di Stabilità... Lasciamo stare». E c’è un motivo se sulla legge elettorale intende varcare le colonne d’Ercole della maggioranza. L’ignoto gli fa meno paura dell’esistente. Ma sempre ignoto resta, e la navigazione per niente facile. Il leader del Pd ne è consapevole anche quando esprime le proprie certezze nel confronto che si è aperto con Letta e con Alfano sul futuro sistema di voto. L’idea che si debba allargare il consenso sulla riforma anche alle forze di opposizione appartiene a tutti, «nessuno - spiega il ministro Quagliariello - vuol restare al di qua delle colonne d’Ercole della maggioranza. Ma il problema non è il punto di arrivo, bensì il punto di partenza». Una tesi che non convince Renzi, secondo cui questa impostazione finirebbe per «ingessare il dialogo» con Forza Italia e Cinquestelle: «Sarebbe come dividere i partiti tra serie A e serie B, ed è chiaro che gli ultimi non ci starebbero».

Così com’è altrettanto chiaro che una discussione tra sordi è sintomo di incomprensioni che rivelano strategie diverse. Allora resta da capire se «l’uomo nuovo» - così lo definiscono i fedelissimi - troverà di qui a gennaio un approdo su questa rotta, se il Cavaliere cioè sarà la sua America. «Se Renzi vuole rilegittimare Berlusconi, è un rischio che si assume», commenta il ministro Mauro: «Magari farà lo stesso errore commesso Veltroni, che poi infatti perse». Il titolare della Difesa, che lavora alla costituzione di una nuova area centrista, fa capire che le manovre del leader dei democrat mirano a rendere più difficile la ricomposizione del centrodestra, creando un fossato tra Forza Italia e Ncd.

In effetti si preannuncia un Natale durante il quale dirigenti del Pd e di FI si scambieranno auguri e sistemi elettorali, magari da girare anche agli intermediari grillini. Ma è risaputo che il Cavaliere, per accettare il patto, si aspetta come dono la caduta del governo e il voto anticipato in primavera, almeno così sostiene formalmente. Qualora vedesse esaudite le sue richieste farebbe mostra di grande gioia, ma se così non fosse - come spiega l’azzurro Rotondi - «perché Berlusconi dovrebbe regalare a Renzi lo spot per le Europee? Non ci pensa nemmeno».
Di più, l’ex premier pensa che sarebbe più vantaggioso per lui arrivare al 2015 per varie ragioni. Intanto avrebbe il tempo necessario per ricostruire il partito a sua immagine e somiglianza. Poi terrebbe in sospeso la sfida per palazzo Chigi, in attesa di conoscere l’esito del ricorso a Strasburgo per la «sentenza Mediaset», sulla quale il suo avvocato Coppi ha detto di nutrire «grande fiducia». E nel frattempo osserverebbe le manovre di Renzi, costretto a navigare nelle acque del governo Letta con il rischio di incagliarsi, mentre lui resterebbe al largo, all’opposizione.

Siccome Berlusconi ciò che pensa di solito non se lo tiene, ha pensato bene di rivelare a un interlocutore (non di Forza Italia, ovvio) il suo doppio gioco: «... Per questi motivi, se le elezioni nel 2014 non ci fossero, sarebbe alla fine preferibile». Con il Cavaliere che chiede la luna perché ha bisogno di tempo, e Renzi che la luna difficilmente può concederla ma non ha tempo, è difficile ipotizzare un’intesa. Perciò il segretario del Pd deve muoversi con prudenza, e i suoi consiglieri comprendono quanto sia delicata e complicata l’operazione: per ora solo discussioni di massima sui sistemi di voto, niente carte sul tavolo, nemmeno la calendarizzazione della riforma in Commissione alla Camera. L’alibi peraltro c’è: bisogna aspettare di conoscere le motivazioni della sentenza prodotta dalla Consulta sul Porcellum.

Sarà, ma il tempo passa. E se la Corte costituzionale dovesse davvero attendere fino a metà gennaio prima di depositare gli atti, non sarebbe facile stipulare in due settimane un’intesa sulla legge elettorale, come chiede il nuovo corso del Pd. Senza dimenticare che proprio in quel periodo la maggioranza dovrebbe stipulare il fatidico «patto alla tedesca» sul programma per il 2014. Se Renzi non si esprime sulla legge di Stabilità per evitare che le sue dichiarazioni terremotino il governo, anche nell’esecutivo ci si rende conto che una svolta è necessaria. Non a caso Lupi parla di un «nuovo inizio» riferendosi all’«agenda Italia»: «Chiuso un anno molto difficile, bisognerà dare anche psicologicamente un segno di rottura».

D’altronde o i partiti di maggioranza cambiano ritmo o ne subiranno le conseguenze alle Europee di primavera, dove il Nuovo centrodestra si giocherà tutto nelle urne, dove Berlusconi si presenterà spiazzando quanti ipotizzano una deriva anti-europeista, e dove Renzi dovrà dare una dimostrazione di forza. «Il Pd quando ero segretario prese il 26,1%», ricorda spesso Franceschini. Solo come annotazione di cronaca, ovvio...

21 dicembre 2013
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_21/renzi-alleanze-variabili-b197924c-6a0b-11e3-aaba-67f946664e4c.shtml
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