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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 125367 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 15, 2008, 04:12:19 pm »

Gli scenari

E il Cavaliere ha già pronto il governo

Letta vicepremier, Esteri a Frattini

Alla Lega due ministeri tra cui il Viminale. Formigoni, ipotesi Senato.

Il Carroccio potrebbe reclamare il Pirellone

 
ROMA — «Abbiamo fatto la rivoluzione. Merito nostro e merito anche di Veltroni». Ieri le urne non hanno solo consegnato a Berlusconi la vittoria, ma hanno cambiato anche il profilo politico del Paese. E chissà se il Cavaliere ha affrontato l'argomento al telefono con il leader del Pd, se gli ha riconosciuto il ruolo di aver contribuito a «cambiare la faccia del sistema». È certo che la sua soddisfazione per aver centrato il risultato si è unita al compiacimento per aver fatto piazza pulita degli ex alleati centristi, così da potersi concentrare sul governo. «Vorrò essere ricordato come un uomo di Stato», ha sussurrato il capo del Pdl. E per quanto possa sembrare un epitaffio su se stesso, la frase testimonia che era già proiettato sul compito che l'attende a palazzo Chigi, dando per scontato il risultato prima dell'annuncio. Lo stesso Fini era convinto del successo, tanto che venerdì aveva confidato ad un amico: «Ci prenderemo la rivincita con gli interessi». Così è stato. «E il risultato è più che soddisfacente — ha commentato il leader di An — visto che il simbolo era nuovo».

Solo che il dopo-voto si preannuncia più difficile del voto, stavolta infatti non sarà più come le volte precedenti, e l'incombenza si avvertiva ieri anche nelle parole con cui Bossi ha catechizzato i suoi: «Mi raccomando, dovremo essere governativi e responsabili». Come a voler smentire lo stereotipo di una Lega barricadera. Ciò non vuol dire che tutto è stato predisposto. Gli unici incarichi sicuri sono quelli di Tremonti all'Economia e di Frattini agli Esteri, come annunciato dal Cavaliere. Per il resto c'e lo schema che Berlusconi ha in testa per il suo governo: il gabinetto infatti sarà per metà composto da esponenti di Forza Italia e per l'altra metà da An e Lega. Ma il modulo è l'unica certezza, perché la formazione dell'esecutivo è da definire. D'altronde il futuro premier doveva aspettare il voto per verificare quali fossero i rapporti di forza nel centrodestra e il peso dei dicasteri da assegnare poi agli alleati.

Quando Berlusconi dice che la Lega avrà «due ministeri» invece dei tre preventivati, è perché — forte del risultato — Bossi può ora rivendicare con successo il dicastero pesante del Viminale e un posto di governatore in una regione del Nord. Così, se davvero Formigoni puntasse alla poltrona del Senato — bilanciando la presidenza di Fini alla Camera — la Lega reclamerebbe per sé il Pirellone. Un traguardo storico, che potrebbe raggiungere ai danni di An. Nella battaglia di posizionamento in queste settimane si sono inseriti in molti: per gli Interni, gli Esteri e anche la Difesa, con Martino sponsorizzato da alcuni ex colleghi europei e da politici americani di primo piano. Si dice che la prossima settimana Martino partirà per gli Stati Uniti, dove la madre di McCain — il candidato repubblicano alla Casa Bianca — avrebbe organizzato una cena in suo onore. «Di ministeri parleremo dopo il voto», aveva detto Berlusconi per evitare frizioni in campagna elettorale con gli alleati, e con gli stessi esponenti del suo partito.

Le pressioni dentro Forza Italia erano infatti diventate molto forti, tanto che per tamponarle il Cavaliere aveva preannunciato un incarico ministeriale «di peso» per Gianni Letta. Se si trattasse di un escamotage o di una vera mossa non è dato saperlo, di sicuro Letta — nei suoi colloqui riservati— aveva anticipato ad alcuni interlocutori dello schieramento avverso che «io non farò mai il ministro». Sarà vicepremier, che un po' è come rifare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. «In fondo — sorrideva ieri un autorevolissimo dirigente azzurro — Gianni per Berlusconi è come la coperta per Linus». Letta è insostituibile in quel ruolo. Anche per tenere i rapporti con il Pd. Perché il voto avrà pure innescato «la rivoluzione», ma è tutto da vedere se e in che modo si svilupperà il dialogo con Veltroni. L'esito del risultato è stato al centro di una prima analisi nel Pdl: «E mentre noi abbiamo vinto senza colpire a morte l'Udc — ha commentato Matteoli — dall'altra parte Veltroni ha cannibalizzato Bertinotti senza ottenere il successo. Segno che ha fatto il pieno a sinistra, non ha sfondato — anzi ha perso — al centro, e dovrà fare i conti con un'area estrema che farà della piazza il suo Parlamento. Il rischio insomma è che tutto ciò metta in difficoltà il settore moderato dei democratici. Con quali riflessi sul dialogo, non si sa».

In verità, gli interrogativi vanno allargati anche al centrodestra, visto che Lega è pronta a mettersi di traverso rispetto a ipotesi di «intese» con Veltroni. Martino ritiene che il Cavaliere ci proverà comunque, perché Berlusconi — a suo dire — «non credo vorrà abusare della vittoria, e nel caso in cui lo riterrà necessario, aprirà il confronto con il Pd per varare riforme condivise. Lui sa che i cittadini non lo hanno votato per gestire l'esistente. Altrimenti si sarebbero tenuti il centrosinistra». Le incognite sul futuro sono molte. L'unica certezza è che ieri Berlusconi ha iniziato a «sfidare» Veltroni proprio sul terreno del dialogo, prima di tornare a festeggiare con gli amici più intimi la rivincita: «L'avevo detto che Prodi sarebbe stato una parentesi». Quanti due anni fa avevano creduto alla sua «rimonta»?


Francesco Verderami
15 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Aprile 17, 2008, 12:05:07 pm »

Teatro del faccia a faccia ancora una volta la casa di Gianni Letta

Quell'incontro segreto tra Silvio e Walter

Il futuro premier e il leader del Pd hanno già avuto modo di confrontarsi su Alitalia e commissario Ue


ROMA - Il dialogo è iniziato. Berlusconi e Veltroni hanno avuto un primo colloquio riservato. Ed è un dettaglio se i due si siano visti l'altra sera a casa di Gianni Letta — come testimoniano i movimenti delle scorte addette alla sicurezza — o se si siano solo sentiti. È certo comunque che il futuro premier e il leader del Pd hanno iniziato a discutere sui rapporti tra maggioranza e opposizione.

Il rendez-vous — secondo fonti autorevoli — non è servito solo ad affrontare la questione delle «regole del gioco». Al centro del colloquio ci sono stati infatti anche altri temi: dal «caso Alitalia» — che passa nelle mani del prossimo governo — fino al sostituto di Frattini alla Commissione europea, nomina che invece Prodi rivendica e non vuol lasciare a Berlusconi. «Casa Letta» evoca la stagione della Bicamerale e dei rapporti tra il Cavaliere e D'Alema sulle riforme istituzionali. Ma il segno del colloquio dell'altro ieri tra Berlusconi e Veltroni è assai diverso rispetto a quello del '97, anche perché il tema della legge elettorale — ad esempio — sarebbe stato per ora accantonato. «È l'ultima delle nostre preoccupazioni», ha spiegato il leader del Pdl dopo il colloquio.

È vero che sullo sfondo già si staglia lo scoglio referendario del prossimo anno, ma la tesi del futuro premier è che l'attuale sistema di voto vada «difeso, magari aggiornato con alcune modifiche, perché ha dimostrato di essere valido»: «D'altronde, proprio con questa legge elettorale è stato sconfitto il disegno centrista». Insomma, una «buona azione di governo», unita a una «buona relazione con l'opposizione» e all'avvio delle riforme, a detta del Cavaliere, depotenzierebbe l'appuntamento del 2009 fino a renderlo inoffensivo.

E non c'è alcun dubbio che il rafforzamento del bipartitismo stia molto a cuore al leader democratico, convinto anche lui che non si debbano aprire varchi a eventuali terzi poli. Perciò l'incontro di ieri mattina tra Casini e D'Alema ha irritato l'inquilino del Loft, ed è parso ai dirigenti del centrodestra come «la risposta all'asse tra Berlusconi e Veltroni». Di qui l'interrogativo che si è posto Matteoli: «Il leader del Pdl è ben disposto, molto più che in passato, a dialogare con il Pd. Il punto è: con quale Pd?».

Il timore che tra i democratici sia iniziata una resa dei conti dopo la sconfitta elettorale allarma la nuova maggioranza: «Quando Prodi ufficializza le sue dimissioni da presidente del Pd — prosegue Matteoli — e quasi lega questo annuncio al fatto che sarà lui a decidere il successore di Frattini in Europa, bisogna capire se dietro c'è un disegno. Siccome circola voce che alla Commissione voglia andarci D'Alema, se Prodi nominasse il ministro degli Esteri uscente farebbe un favore a Veltroni. Perché con D'Alema a Bruxelles, il leader del Pd avrebbe campo libero in Italia. Ma io non credo al buonismo di Prodi...».

Infatti tra i possibili sostituti di Frattini si parla di Enrico Letta e soprattutto di Fassino. Una cosa però è certa: Berlusconi vuol garantirsi con il suo (ex) sfidante, quelle che proprio Veltroni chiama «le regole della buona convivenza». Raccontano che il Cavaliere abbia dato assicurazioni all'interlocutore, pronto a confrontarsi a patto che il dialogo non venga utilizzato per alimentare strumentalmente divisioni nel Pd.

L'interesse a un solido rapporto politico oggi è reciproco: per Veltroni è un modo di consolidare il ruolo di capo indiscusso dell'opposizione, per Berlusconi è l'opportunità di governare senza l'ansia di dover fronteggiare in Parlamento una controparte barricadera e pregiudizialmente ostile. Perché in agenda ci sono molte questioni: l'Alitalia, certo, ma anche riforme in materia giudiziaria ed economica, che ieri — guarda caso — l'ambasciatore americano in Italia ha definito «necessarie». E nel Pdl è opinione comune che il dialogo con il Pd sia «necessario». Il segretario del Pri Nucara lo ha ribadito a Fini: «Teniamoci stretti Veltroni, ce n'è bisogno in vista di una fase difficile. È alto il rischio che abbia ragione Cossiga e che scoppino tensioni sociali, con la sinistra radicale fuori dal Parlamento». Fini ha condiviso, ed è corso con la mente «al primo maggio», «alle piazze d'Italia piene di bandiere rosse»: «E finché sarà così, va bene...». Va bene che Berlusconi e Veltroni abbiano iniziato a dialogare.

Francesco Verderami
17 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:45:08 am »

Il retroscena - Tremonti e i sindacati

L'offerta di Giulio: noi molto ragionevoli

Il nuovo governo e i rapporti con Cgil, Cisl e Uil


ROMA - «Niente dogmatismi, niente furie ideologiche».
Persino sul fronte dei rapporti sindacali Tremonti annuncia che il governo Berlusconi del 2008 sarà diverso da quello del 2001.

Il ragionamento di Tremonti fa capire che il futuro esecutivo non avrà intenzione di sfiancarsi in battaglie simili a quella sull'articolo 18, anzi «avremo un atteggiamento estremamente ragionevole ». Certo colpisce che all'indomani dell'affondo di Montezemolo contro i sindacati, il centrodestra tenda la mano alle organizzazioni del lavoro, e le difenda come a evitare il rischio di una loro delegittimazione. Dietro i segnali distensivi, si cela in realtà una precisa strategia, lo si intuisce quando il ministro dell'Economia in pectore spiega che «proporremo la defiscalizzazione degli straordinari e dei contratti di secondo livello, così come prevede il nostro programma »: «Se poi ci dicessero di no, allora vorrebbe dire che qualcosa nel sindacato non va». Ecco il punto: il Cavaliere si appresta a usare l'arma del dialogo sulle riforme, caricando sui suoi interlocutori la responsabilità di accettare o rifiutare la proposta, sapendo che stavolta non sarà lui a correre il pericolo di venir delegittimato dal Paese. Il pericolo lo correrebbero i sindacati. Perché nel Paese — come sostiene Tremonti — «il clima è diverso»: «Fino a ieri la sinistra era considerata permanente e noi provvisori. Ora è il contrario. Si è compiuta una rivoluzione culturale copernicana».

Se nel '94 Berlusconi cadde anche per mano di uno sciopero generale sulle pensioni, «se allora — come racconta il vicepresidente di Forza Italia — eravamo fuori da tutto, oggi anche l'establishment internazionale ha un approccio completamente diverso verso di noi». Il Cavaliere vuole sfruttare il «cambio di clima ». La fine delle ostilità nei suoi confronti sembra per esempio preludere a un proficuo rapporto con «la nuova Confindustria», come la definisce Tremonti: «Sono certo che lavoreremo bene, perché non sarà un partito politico». La svolta berlusconiana è la logica conseguenza della svolta dettata una settimana fa dalle urne. È un sentimento che attraversa tutto il centrodestra. È in sintonia con «l'appello» che Confalonieri aveva lanciato dopo la vittoria elettorale del Pdl, l'idea cioè che oggi al Paese servano «riforme senza scontri». E non può essere solo una coincidenza che il presidente di Mediaset abbia inserito nel pacchetto anche la riforma dei contratti, dicendo che «i sindacati, è vero, sono diventati asfissianti, ma non si potrà agire contro di loro». Il motivo è evidente, lo sottolinea il leghista Calderoli, che per primo ha criticato l'offensiva di Montezemolo: «A parte il fatto che anche Confindustria, oltre i sindacati, dovrebbe recitare il mea culpa, non vedo perché in questa fase si debbano radicalizzare i toni. Di questo passo il prossimo governo si troverebbe a gestire una situazione molto esasperata e magari un'ondata di scioperi... Eh no». L'obiettivo del centrodestra è un altro: marcare le responsabilità delle parti sociali — come ha fatto ieri Maroni ricordando «l'ostilità dei sindacati verso la legge Biagi» — e proporre al contempo «un nuovo tavolo di trattative sulle riforme». Il muro contro muro per Berlusconi non avrebbe senso, non pagherebbe: c'è il consenso dell'opinione pubblica, c'è una netta maggioranza in Parlamento, dunque «si può fare», o almeno si può tentare di cambiare il Paese senza mettersi in conflitto con il Paese. Piuttosto verrà messo alla prova il sindacato.

Nel Pdl si interrogano sull'atteggiamento che terrà Epifani: è vero che difficilmente potrà stare sulle barricate a lungo, perché — ad avviso degli analisti berlusconiani — «farebbe la fine della sinistra radicale». Tuttavia, proprio l'assenza della Sinistra Arcobaleno in Parlamento potrebbe creare gravi problemi al segretario della Cgil. Nel frattempo i rapporti del Pdl con la Cisl si fanno sempre più stretti. Un mese fa, alla commemorazione di Marco Biagi, l'ex sottosegretario forzista Sacconi incontrò Bonanni, e giocando sul nome del paese di origine del sindacalista, lo salutò così: «Dopo che vinceremo le elezioni torneremo a... Bomba». Il Berlusconi del 2008 vuol essere diverso da quello del 2001. Dovrà esserlo, perché — come rammenta spesso Fini — «Facemmo un grave errore quando sottoscrivemmo il Patto per l'Italia con i sindacati e poi non lo onorammo». Era il 2002. Nel 2006 vinse l'Unione.

Francesco Verderami
20 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Maggio 03, 2008, 10:52:41 am »

Settegiorni

Luca, Emma e il cavaliere «concertativo»

Bonanni ai suoi: vuole l'accordo con le parti sociali. Tutte, anche la Cgil


Il Berlusconi rivoluzionario, che in passato voleva abrogare la concertazione, ha lasciato il posto al Berlusconi concertativo che a suo modo annuncia una rivoluzione. Perché davvero sembra che stia cambiando tutto e non solo nella forma. Il gesto del Cavaliere verso Luca di Montezemolo, l'accoglienza alla nuova Confindustria, i ripetuti colloqui riservati con i leader sindacali, testimoniano — per usare le parole del segretario della Cisl, Raffaele Bonanni — che «Berlusconi vuol fare le larghe intese... con le parti sociali ». Il ruolo di «ambasciatore del made in Italy nel mondo» che dovrebbe svolgere l'ex presidente degli industriali, non è solo «il segno di una linea aperta e modernizzatrice » del futuro premier, come dice il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto.

C'è anche un approccio discreto ai problemi e alle persone. Garantisce infatti a Montezemolo di tenersi a distanza dalle vicende strettamente politiche, gli permette di portare avanti il progetto di un think tank alla cui nascita collaborano da tempo politologi e professori universitari, e intanto gli consente di indossare — senza schierarsi — le vesti di «civil servant», cosa alla quale tiene ancor di più dopo aver letto sul Financial Times del «modello Ferrari per l'Italia». Il Berlusconi del '94, e anche quello del 2001, diceva «dentro o fuori», come a voler celare la propria vulnerabilità. Il Berlusconi del 2008 — sebbene abbia rovesciato i rapporti di forza — accoglie Emma Marcegaglia dicendole «collaboreremo, perché il Paese ha bisogno di un clima diverso e di una stagione nuova».

E qualche sera dopo riceve in gran segreto Bonanni e Luigi Angeletti chiedendo loro aiuto: «Aiutatemi, così ci aiuteremo. Sono preoccupato per la nostra economia, dobbiamo rilanciarla. In questo modo aiuteremo i lavoratori ». Il Cavaliere rivoluzionario del passato avrebbe scelto il ministro del Welfare come fa chi è pronto a entrare in guerra. Il Cavaliere concertativo di oggi si mostra invece disponibile ad ascoltare i suggerimenti di sindacati e Confindustria, favorevoli alla scelta di Maurizio Sacconi per il dicastero del Lavoro, scorporato se del caso da quello per la Salute, dove An vorrebbe un suo rappresentante. Forse ha ragione il segretario della Uil, quando — ricercando le ragioni della svolta — sostiene che «rispetto al '94 e al 2001, sindacati e poteri forti avevano messo nel conto la vittoria di Berlusconi. In più avevano iniziato a conoscerlo. Ora peraltro non ci sono questioni su cui si possa aprire uno scontro duro, com'è accaduto per la riforma della pensioni. Eppoi c'è un approccio maturo ai problemi da parte del leader di centrodestra. Per questo non ci sarà una stagione di conflitto».

Sembra incredibile questa triangolazione che prende corpo, e che coinvolge Confindustria e una parte del sindacato in un gioco di sponda con il Cavaliere. Ma ce n'è la prova. Alla vigilia del colloquio tra la Marcegaglia e il futuro premier, Bonanni andò a trovare la neo presidente degli industriali. Entrambi convennero su un punto: bisognava spingere perché il governo - appena entrato in carica - adottasse subito misure a favore della produttività. «Così si partirebbe con il piede giusto». Il giorno dopo la Marcegaglia chiese a Berlusconi di presentarsi all'Assemblea di Confindustria del 22 maggio con «un regalo»: il provvedimento già approvato sulla detassazione degli straordinari e sugli aumenti contrattuali di secondo livello.

Il Cavaliere ci proverà, conta su Giulio Tremonti per far bella figura. L'ha ripetuto davanti al suo futuro ministro dell'Economia e a Gianni Letta l'altra sera, discutendone con Bonanni e Angeletti. «E quando Berlusconi sostiene che sul tema bisogna agire — ha commentato il leader della Cisl con i suoi — significa che vuol far l'accordo con gli industriali e tutte le organizzazioni del lavoro. Cgil compresa». «Aiutatemi, così ci aiuteremo», ha detto il premier in pectore. Quella frase valeva anche per la vertenza Alitalia. I sindacati si sono mostrati disponibili, aspettano di sapere se Berlusconi riuscirà a trovare il partner internazionale per «Az», poi collaboreranno con lui, e lo consiglieranno, quando si dovrà discutere di esuberi. Concertazione, sinonimo di rivoluzione.

Francesco Verderami
03 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Giugno 28, 2008, 05:55:21 pm »

Retroscena

La tenaglia di luglio tra Napoli e Milano

«Una manovra giudiziaria per marchiarmi e togliermi la possibilità di arrivare al Colle»


Il luglio caldo di Silvio Berlusconi si avvicina, è segnato da scadenze istituzionali e giudiziarie che potrebbero cambiare la storia della politica. E non c'è dubbio che il 10 luglio sarà la giornata più torrida del mese, perché in quella data la corte d'Appello di Milano dovrà decidere se accogliere o meno l'istanza di ricusazione presentata dai legali del premier contro il giudice Nicoletta Gandus al processo Mills. Ma il Cavaliere in quegli stessi giorni dovrà difendersi anche su un altro fronte, dato che a Napoli rischia il rinvio a giudizio per il caso Rai-Saccà. «Da Napoli potrebbe arrivargli un brutto regalo», sussurra amareggiato Amedeo Laboccetta, deputato del Pdl che conosce persone e storie del palazzo di giustizia partenopeo.

Napoli e Milano. Come una tenaglia. Ecco il motivo per cui il premier ha scatenato l'offensiva contro le toghe «sovversive» e non accetta «transazioni», ecco perchè ieri Niccolò Ghedini era alla Camera da deputato per votare la fiducia al governo di Berlusconi, ma da legale di Berlusconi portava sottobraccio un codice di procedura penale pieno di annotazioni. «Devo portarmi il lavoro appresso», ha spiegato. «Tra il primo e il 18 luglio avrò otto udienze tra Milano e Napoli. Il presidente mi ha chiesto: "Che faccio, ti seguo? Ogni volta però dovrei impegnare un'intera giornata per prepararmi. Bloccherei l'attività di governo". Non ne può più. Continua a ripetere: "Devo andare a Napoli per l'emergenza rifiuti o per difendermi?". Noi cerchiamo di calmarlo, ma come si fa...».

Il luglio caldo del Cavaliere si avvicina, e Berlusconi ha capito che doveva giocare d'anticipo per pararsi il fianco. Perciò si è mosso con gli emendamenti bloccaprocessi al decreto sulla sicurezza, perciò ha impresso un'accelerazione allo «scudo» per le cariche istituzionali, «che non è mai stato un decreto — precisa il ministro per i Rapporti con il Parlamento — ma un disegno di legge». Ciò non toglie che il premier voglia accelerarne l'iter in Parlamento, «chiederemo che venga calendarizzato già a luglio », annuncia infatti Elio Vito. In tanto sarà diventato legge il provvedimento sulle intercettazioni. E c'è un motivo se anche su questo tema c'è stata una corsa contro il tempo. Lo lascia intuire Laboccetta quando s'indigna riferendosi al caso Rai-Saccà, quando ricorda che «l'attività di un premier non può dipendere da qualche intercettazione, magari pruriginosa, ma senza alcuna rilevanza penale. È una vergogna, è necessario reagire».

Ghedini è il depositario dei segreti del Cavaliere, «quella storia delle intercettazioni è una strana storia», commenta. Strana e insidiosa per Berlusconi, specie dopo che un magistrato napoletano ha denunciato il furto di alcune trascrizioni. «Una denuncia — precisa Ghedini — che è avvenuta dopo un nostro esposto. E il furto sarebbe avvenuto a casa del magistrato. Cosa ci fanno delle intercettazioni a casa di un magistrato?». L'interrogativo del deputato-avvocato rimanda ad altri interrogativi: di che conversazioni si tratta? E c'è qualcuno che ora ne è in possesso? Umberto Bossi avrà le sue ragioni se invita Berlusconi a «tenere un profilo più basso», «ma è comprensibile il motivo per cui il presidente morde il freno», ribatte Ghedini.

La posta in palio nel luglio caldo del Cavaliere non incrocia solo i destini della legislatura. Va oltre. Perché è evidente che il premier verrebbe azzoppato da un'eventuale richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Napoli, e sarebbe costretto a dimettersi se fosse colpito da una sentenza di condanna nel processo Mills. Ma c'è di più. E Berlusconi l'ha capito: «Con questa manovra giudiziaria mi vogliono marchiare, vogliono impedirmi in futuro di aspirare al Quirinale». Dinanzi a una sfida di tale portata che non contempla il pari, ogni altra scadenza a palazzo Chigi viene derubricata. Compresa la sentenza che proprio all'inizio di luglio giungerà dalla Consulta sul «caso Petroni», il consigliere Rai dimissionato dal ministro dell'Unione Tommaso Padoa-Schioppa, che venne poi reintegrato nel Cda di viale Mazzini. Per un paradosso politico, se la Corte costituzionale dovesse dar ragione al centrodestra che a suo tempo impugnò il provvedimento, s'incepperebbe il meccanismo del rinnovo ai vertici dell'emittente di Stato. Salterebbe così un tassello importante nel mosaico del potere. In più ci sarebbe il rischio di una messa in mora della legge Gasparri, tanto cara al Cavaliere. Pensando allo scontro istituzionale in atto sulla giustizia, il sottosegretario Alfredo Mantovano si è lasciato sfuggire un sorriso sui problemi Rai: «Tanto in estate trasmettono solo repliche...».


Francesco Verderami
26 giugno 2008

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« Risposta #20 inserito:: Luglio 05, 2008, 05:00:36 pm »

Sette giorni

«Silvio bulletto al telefono. Ma mai parlato di ministre»

«Nessuno può fargli la morale. Indecenti certe inchieste»

Confalonieri: «Non farebbe cose che non può raccontare»


Fedele Confalonieri che se si può trarre una morale da questa vicenda boccaccesca in cui è rimasto coinvolto Silvio Berlusconi, è che «nessuno può fargli la morale». Dice Confalonieri che «in questa storia nessuno può scagliare una pietra contro Berlusconi. Infatti le pietre restano ammucchiate lì per terra ». Nessuno meglio del presidente di Mediaset può spiegare il premier, descriverne l'indole, il modo di vivere, e anche il resto. E raccontando la storia del Cavaliere, arriva a identificarsi con l'amico che licenziò dall'orchestrina perché passava troppo tempo a corteggiare le signorine in sala invece di suonare. «Silvio, nonostante il peso degli anni e degli incarichi, si è portato appresso quell'aspetto goliardico e giovanilista, quell'aria da bulletto di paese che non riesce a tenersi, a restare riservato. Credo che se dovesse fare una cosa per poi non dirla, si risparmierebbe la fatica. Non la farebbe. È così, si attarda nei particolari, e non fa distinzioni se discute di questioni aziendali, politiche o private». Ma il privato di un presidente del Consiglio diventa cosa pubblica, specie se le sue conversazioni piccanti finiscono nei brogliacci delle Procure.

INCHIESTE PIÙ INDECENTI DELLE BATTUTE - «A parte il fatto che certe inchieste sono a mio avviso più indecenti di certe battute, pensare che Berlusconi dovesse chiedere favori per ottenere altri tipi di favori è un insulto alla sua intelligenza. Può capitare al telefono di parlare in modo pruriginoso. Come tutti, anch'io sono a volte un po' sboccatello. In privato succede. Ed è successo con Silvio, figurarsi. Quando parla con me, magari per rilassarsi, non si risparmia. Però questa storia di una conversazione in cui lui mi avrebbe raccontato di una neoministra... Non è vera». Proprio su «questa storia» si è concentrata l'attenzione dei media e della politica, perché non c'è dubbio che avrebbe rilevanza politica se fosse vera, se il premier fosse stato mosso da particolari virtù di una signorina per promuoverla ad incarichi ministeriali. «Non è vero», ripete Confalonieri: «Me ne ricorderei», sorride. Com'è diverso il tono Fedele Confalonieri della sua voce da quello che aveva Berlusconi giorni fa, mentre parlava con l'amico delle «vergognose insinuazioni » che iniziavano a circolare: «Vado orgoglioso dei giovani che ho portato al governo. Dovresti vederli in Consiglio dei ministri, Fedele. Mara Carfagna, per esempio, arriva sempre preparata. Discute in modo appropriato. È brava. Ma c'è chi non aspetta che gettar fango. La verità è che a sinistra vivono di invidia e si nutrono di sospetti». «Dammi retta, non te la prendere». È difficile rimaner calmi, specie quando certe storie mettono a rischio la serenità familiare.

VERONICA - Ormai tra i politici circola voce che il Cavaliere tema più Veronica Lario di Nicoletta Gandus, giudice del processo Mills. Berlusconi ha cercato di smentire anche questa: «Veronica si è calata nei panni della nonna, è sempre amorevole e presente. Di me si disinteressa». Confalonieri, da amico vero, sa essere discreto e premuroso con il premier. Raccontano che giovedì si fosse preoccupato, non vedendolo: «Silvio, ti cerco da quattro ore. Dov'eri finito?». «Stavo al telefono con mia moglie... Che casino ». «Lei dov'è, all'estero? ». «Ma quale estero, è a Macherio». Benedetto G8. Benedetto visita in Giappone. E benedetto «Fidel», per il premier, perché il capo del Biscione tenta di dare ad ogni cosa una «giusta dimensione », sdrammatizzando se necessario. Così, dopo aver paragonato il Cavaliere a figure storiche come Lenin e Mao, stavolta lo accosta a un genio della musica, o almeno questo sembra voler fare quando ricorda che «Mozart pizzicava il sedere alle cameriere». C'è una pausa tra la battuta e il resto del discorso, serve a cambiar registro di voce, ad assumerne uno più adatto all'argomento: «Non siamo quelli di vizi privati e pubbliche virtù, però credo che un po' di sana ipocrisia sia il lubrificante della convivenza. Sostenendo sempre la verità non è possibile campare». A volte Confalonieri ha scelto di «campare» anche con l'amico Silvio. Infatti ha evitato di dirgli che non era d'accordo sul modo in cui voleva affrontare il nodo delle intercettazioni, perché a suo avviso «non era giusto varare un decreto» né «prendersela con i giornalisti».

MATRIX - Invece avrebbe preferito che il premier fosse andato a Matrix, «glielo avevo consigliato, e non per trasformarsi in uno spaccamontagne ma per raccontare con toni pacati cos'ha fatto da quando è tornato al governo e cosa gli hanno fatto da quando è tornato al governo. Avrebbe potuto separare la verità dalle infamie, e non sarebbe stato un atto di guerra, un attacco alle istituzioni. Più semplicemente il presidente del Consiglio avrebbe parlato con il Paese che l'ha scelto. Ma è prevalsa un'altra idea». È prevalsa l'idea di Gianni Letta, «e siccome penso che ognuno debba fare il suo mestiere, mi attengo a questa vecchia regola. Solo mi dispiace che sia passata l'immagine di un Berlusconi messo sotto tutela, di un leader che va controllato perché incapace di andare in tv e di gestirsi, come fosse uno che è sempre sul punto di incespicare, un politico qualunque. Berlusconi è un grande comunicatore». Francesco Verderami

Francesco Verderami
05 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 13, 2008, 06:12:24 pm »

Progetti e segreti

Cossiga e le «nozze necessarie» tra Berlusconi e D'Alema

Il ruolo del presidente emerito per un nuovo incontro tra i due leader


ROMA — Se Francesco Cossiga si propone da sensale è perché davvero pensa che stavolta si possa combinare il matrimonio tra Silvio Berlusconi e Massimo D'Alema, connubio di cui si parla da più di un decennio con cadenza regolare. Perciò ha discusso con i «promessi sposi», e racconta di non averli trovati riluttanti. «Al Cavaliere ho detto che aveva sbagliato interlocutore. Si era fidato di Gianni Letta, che gli aveva apparecchiato l'intesa con Walter Veltroni, mentre dovrebbe tornare con D'Alema, lui sì che ha statura. Eppoi hanno molte cose in comune. Massimo, per esempio, è l'unico anti-giustizialista del Pd. Quando alla Camera ha riconosciuto l'esistenza del nodo politica-magistratura, si è tirato dietro persino Edmondo Bruti Liberati. E il fatto ha destato scalpore». Cossiga non dice se sia riuscito a convincere Berlusconi, «ma ci sono buone speranze. Perché durante la nostra conversazione il premier mi ha confidato che D'Alema resta a suo avviso "il migliore". Proprio così, "un vero uomo politico, uno che se prende un impegno lo mantiene sempre"». E non c'è dubbio che i due abbiano «la stessa sensibilità», almeno così sostiene l'ex presidente della Repubblica: «Sulle questioni giudiziarie, tanto per dire, solo Massimo può capire Berlusconi, perché con certi pm ha rischiato e rischia ancora di rimanere vittima di una macchinazione per il caso Unipol-Bnl. Solo D'Alema può capire cosa patisce uno come Silvio, che appena tornato a palazzo Chigi ha visto ripartire la caccia all'uomo. Ha tentato di difendersi ma lo hanno già colpito nell'immagine, tanto da esser stato sputtanato dal dossier-stampa presentato dagli americani al G8». «A Massimo ho consigliato la stessa cosa, l'ho invitato a tornare a parlare con Berlusconi. Se si fossero sentiti in questi giorni, la partita sulla giustizia l'avrebbero giocata insieme e diversamente. Sarebbe bastato un colpo di telefono. Se l'avesse fatto, se il Cavaliere avesse chiamato D'Alema, avrebbe evitato la fesseria di introdurre lo scudo per le alte cariche dello Stato. Oh, fosse venuto il morbillo a Niccolò Ghedini... A parte il fatto che i pm proveranno a friggerselo lo stesso, vorrò vedere se la Consulta non affosserà il "lodo Alfano". Perché, come all'Anm, è alla Corte Costituzionale che si annidano i peggiori nemici del Cavaliere. Dicono che Giorgio Napolitano abbia dato la parola, e che non accadrà nulla. Bene, verificheremo fino a che punto il capo dello Stato sarà in grado di far valere la sua moral suasion sui giudici antiberlusconiani». Resta da capire cosa sarebbe successo se il premier avesse alzato il telefono e parlato con D'Alema. «Massimo — prosegue Cossiga — gli avrebbe consigliato di non perder tempo e di ripristinare l'immunità parlamentare. Perché, come scriveva lo storico François Guizot, in politica l'abuso dell'immunità è meno lesivo del governo dei giudici. E non aveva visto il governo dei pm...». Sì, ma Guizot non vota in Parlamento. «D'Alema sì, e avrebbe votato a favore, lo so per certo. Lui avrebbe avuto il coraggio di farlo. Veltroni no, visto che si è legato ad Antonio Di Pietro. E uno che si è legato a Di Pietro, mi domando e domando a Berlusconi, che garanzie può dare?». D'Alema invece, «D'Alema sì. È uno serio. È con lui che il Cavaliere deve parlare». Insomma, si parlano o non si parlano? Sostiene Cossiga che «per ora non si parlano direttamente»: «Siccome Massimo è uno serio, mica si siede a discutere senza sapere su cosa si tratta». In che senso? «Beh, in tutti i sensi. Anche sulle grandi riforme, ovviamente. Lui ogni volta che ci vediamo mi racconta della Bicamerale, sospira che se non fosse fallita avremmo ora una repubblica semi-presidenziale e la separazione delle carriere per i magistrati. Vecchia storia quella, e dolorosa per D'Alema, secondo il quale sarebbe stato Berlusconi a mandare tutto all'aria. Ma questa è la versione ufficiale. L'altra, quella vera, è che fu l'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro a far saltare l'operazione. Però oggi le cose sono cambiate, dunque ci sarebbe la possibilità di arrivare al matrimonio». Piccolo particolare: in mezzo ci sarebbe Veltroni, «ecco... non so se D'Alema se lo sia già cucinato. Questo proprio non lo so. Appena ne faccio cenno, Massimo mi risponde "ma no, presidente, Walter è un bravo ragazzo..."». Vuol dire che se lo sta cucinando a fuoco lento? «Autorizzo a scrivere che Cossiga, posto dinanzi alla domanda, sorride storto, tipico di quando non vuole dissentire né apertamente assentire». E prosegue: «Il fatto è che D'Alema ha una visione politica opposta. Lui vuol portare il Pd nel Pse. Vuol tornare alla prima Repubblica, cioè ai partiti strutturati. Rivuole la proporzionale con il recupero dei resti. Vuole riformare la Costituzione che a mio avviso — e lo dico sottovoce — è la peggiore di tutte le costituzioni. E mentre Walter gioca nel loft, D'Alema gioca a tutto campo, inciucia con Bossi, aspetta la telefonata di Berlusconi. E aspetta di tornare a vincere, sapendo di contare sui buoni rapporti con gli Stati Uniti, dove ha lasciato un buon ricordo». Con Condoleezza Rice? «Macché, quand'era premier e marciò su Belgrado a fianco di Bill Clinton. Quelle sono cose che a Washington non dimenticano».

Francesco Verderami
13 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Luglio 18, 2008, 11:05:20 am »

D'Alema sarebbe pronto a avviare un confronto anche sulla giustizia

Massimo-Senatùr, è gioco di sponda

Ma l'obiettivo è premere su Silvio

Alla Lega serve l'appoggio del Pd: «Sulla devolution sbagliammo, non lo rifaremo»



Due mesi fa, quando Berlusconi dialogava con Veltroni, Bossi inneggiava all'autodeterminazione della maggioranza. Due mesi fa, quando Veltroni veniva ricevuto dal premier, D'Alema era scettico sull'eventualità di un accordo. È stato allora che il Senatùr e l'ex ministro degli Esteri hanno ripreso i contatti: il primo per non finire stritolato da un'eventuale intesa tra Berlusconi e Veltroni, il secondo per non restarne escluso. «È stato allora — secondo Cossiga — che D'Alema ha scelto Bossi, perché era l'interlocutore più diretto e immediato». Chissà se ha ragione il democratico Follini, secondo cui «pretendere di parlare con il capo della Lega invece che con il capo di tutto il centrodestra, è ingenuo in linea di fatto e disinvolto in linea di principio». È certo che il patto stretto ieri tra il Cavaliere e il Senatùr per far marciare in Parlamento sia il federalismo fiscale sia la riforma della giustizia, fa capire quanto sia difficile anche solo scalfire l'asse tra i due, nonostante le tensioni.

D'Alema però non avrebbe intenzione di riprodurre lo schema «ribaltonista» del '94, così sostiene il suo braccio destro Latorre: «Nel centrodestra sono evidenti le contraddizioni, che in autunno saranno acuite dalla crisi economica. Tuttavia — precisa il vice capogruppo del Pd al Senato — è velleitario pensare che questo preluda a una crisi di governo. Piuttosto la situazione spingerà inevitabilmente le grandi forze politiche a un confronto sui temi cruciali delle riforme, e le costringerà a ricercare una soluzione alla crisi di sistema». Traduzione: D'Alema sta forzando su Bossi per convincere Berlusconi a dialogare. E così, due mesi dopo i ruoli si sono rovesciati. Ed è chiaro che al momento si tratta di un gioco tattico, gioco nel quale il Senatùr e l'esponente del Pd sono abilissimi. Addirittura Bossi ne ha insegnato le regole ai più giovani dirigenti del partito, raccontando come si comportò dopo lo strappo con il Cavaliere nel '95: «Mentre facevo tappezzare il Nord di manifesti contro Berlusconi, restavo in contatto con Tremonti e Urbani». Quanto a D'Alema ha detto loro di «stimarlo, come stimavo Craxi. Quello sì che aveva una statura diversa...». Dietro la tattica si cela anche la strategia. Al Carroccio serve la sponda del Pd, i rapporti tra Maroni e il ministro ombra Minniti sono ottimi, così come quelli tra Calderoli e il sindaco di Torino, Chiamparino. Alla Lega serve l'intesa, «ci serve — spiega il leghista Reguzzoni — perché abbiamo visto che fine ha fatto la devolution, e con il federalismo fiscale non possiamo sbagliare. Dobbiamo dar seguito alle promesse, o il Nord che oggi è con noi potrebbe voltarci le spalle. Faremmo la fine di Bertinotti».

Così come Bossi anche D'Alema ha interesse a tener saldo il rapporto, «e Massimo è sincero quando si dice disponibile a trovare una soluzione sul federalismo fiscale e sul resto delle regole», assicura Ventura, altro dalemiano di ferro: «Ma ora Berlusconi vuole imporre la contestualità della riforma della giustizia...». Non è stata casuale la scelta di tempo del Cavaliere, consapevole della rete che si stava costruendo, delle triangolazioni tra Lega e Pd con al vertice Tremonti, con il quale D'Alema aveva intanto provveduto a ricostruire i rapporti. Ora i rapporti sono tornati ottimi, se è vero che ieri mattina alla Camera — durante il suo discorso sulla manovra — il ministro dell'Economia ha definito D'Alema (insieme a Fini) «uno statista». Introducendo il tema della giustizia, il premier ha fatto capire che resta lui il dominus del gioco, e la mossa era stata messa nel conto dal dirigente democratico che l'aveva pronosticata proprio con i leghisti: «Vedrete che non finirà con il "lodo Alfano". Questa storia andrà avanti e creerà problemi a noi e a voi». In realtà anche su questo tema D'Alema sarebbe pronto a dialogare, perché a suo modo di vedere il nodo del rapporto politica-giustizia va sciolto, «ma bisognerebbe uscire dall'emotività e dalle contingenze». E se la presidenza del «comitato» per la riforma della magistratura che Berlusconi ha affidato a Cossiga, fosse un segnale del Cavaliere a D'Alema? «Non sono così bravo a fare il mediatore», sorride l'ex capo dello Stato: «Ma siccome sono amico dei due...». Una cosa è certa, è inutile ipotizzare che la coppia «B-B» vada in crisi. Per capirlo, basta un aneddoto del passato governo Berlusconi, narrato dal repubblicano Nucara. «Durante un vertice arroventato, mi voltai verso il premier: "Hai sentito cosa dicono i leghisti?" E lui: "Non ti preoccupare, tanto stasera sento Bossi. Piuttosto, hai sentito cos'ha detto Follini?"».

Francesco Verderami
18 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Luglio 20, 2008, 09:32:07 am »

D'Alema sarebbe pronto a avviare un confronto anche sulla giustizia

Massimo-Senatùr, è gioco di sponda

Ma l'obiettivo è premere su Silvio

Alla Lega serve l'appoggio del Pd: «Sulla devolution sbagliammo, non lo rifaremo»


Due mesi fa, quando Berlusconi dialogava con Veltroni, Bossi inneggiava all'autodeterminazione della maggioranza. Due mesi fa, quando Veltroni veniva ricevuto dal premier, D'Alema era scettico sull'eventualità di un accordo. È stato allora che il Senatùr e l'ex ministro degli Esteri hanno ripreso i contatti: il primo per non finire stritolato da un'eventuale intesa tra Berlusconi e Veltroni, il secondo per non restarne escluso. «È stato allora — secondo Cossiga — che D'Alema ha scelto Bossi, perché era l'interlocutore più diretto e immediato». Chissà se ha ragione il democratico Follini, secondo cui «pretendere di parlare con il capo della Lega invece che con il capo di tutto il centrodestra, è ingenuo in linea di fatto e disinvolto in linea di principio». È certo che il patto stretto ieri tra il Cavaliere e il Senatùr per far marciare in Parlamento sia il federalismo fiscale sia la riforma della giustizia, fa capire quanto sia difficile anche solo scalfire l'asse tra i due, nonostante le tensioni.

D'Alema però non avrebbe intenzione di riprodurre lo schema «ribaltonista» del '94, così sostiene il suo braccio destro Latorre: «Nel centrodestra sono evidenti le contraddizioni, che in autunno saranno acuite dalla crisi economica. Tuttavia — precisa il vice capogruppo del Pd al Senato — è velleitario pensare che questo preluda a una crisi di governo. Piuttosto la situazione spingerà inevitabilmente le grandi forze politiche a un confronto sui temi cruciali delle riforme, e le costringerà a ricercare una soluzione alla crisi di sistema». Traduzione: D'Alema sta forzando su Bossi per convincere Berlusconi a dialogare. E così, due mesi dopo i ruoli si sono rovesciati. Ed è chiaro che al momento si tratta di un gioco tattico, gioco nel quale il Senatùr e l'esponente del Pd sono abilissimi. Addirittura Bossi ne ha insegnato le regole ai più giovani dirigenti del partito, raccontando come si comportò dopo lo strappo con il Cavaliere nel '95: «Mentre facevo tappezzare il Nord di manifesti contro Berlusconi, restavo in contatto con Tremonti e Urbani». Quanto a D'Alema ha detto loro di «stimarlo, come stimavo Craxi. Quello sì che aveva una statura diversa...». Dietro la tattica si cela anche la strategia. Al Carroccio serve la sponda del Pd, i rapporti tra Maroni e il ministro ombra Minniti sono ottimi, così come quelli tra Calderoli e il sindaco di Torino, Chiamparino. Alla Lega serve l'intesa, «ci serve — spiega il leghista Reguzzoni — perché abbiamo visto che fine ha fatto la devolution, e con il federalismo fiscale non possiamo sbagliare. Dobbiamo dar seguito alle promesse, o il Nord che oggi è con noi potrebbe voltarci le spalle. Faremmo la fine di Bertinotti».

Così come Bossi anche D'Alema ha interesse a tener saldo il rapporto, «e Massimo è sincero quando si dice disponibile a trovare una soluzione sul federalismo fiscale e sul resto delle regole», assicura Ventura, altro dalemiano di ferro: «Ma ora Berlusconi vuole imporre la contestualità della riforma della giustizia...». Non è stata casuale la scelta di tempo del Cavaliere, consapevole della rete che si stava costruendo, delle triangolazioni tra Lega e Pd con al vertice Tremonti, con il quale D'Alema aveva intanto provveduto a ricostruire i rapporti. Ora i rapporti sono tornati ottimi, se è vero che ieri mattina alla Camera — durante il suo discorso sulla manovra — il ministro dell'Economia ha definito D'Alema (insieme a Fini) «uno statista». Introducendo il tema della giustizia, il premier ha fatto capire che resta lui il dominus del gioco, e la mossa era stata messa nel conto dal dirigente democratico che l'aveva pronosticata proprio con i leghisti: «Vedrete che non finirà con il "lodo Alfano". Questa storia andrà avanti e creerà problemi a noi e a voi». In realtà anche su questo tema D'Alema sarebbe pronto a dialogare, perché a suo modo di vedere il nodo del rapporto politica-giustizia va sciolto, «ma bisognerebbe uscire dall'emotività e dalle contingenze». E se la presidenza del «comitato» per la riforma della magistratura che Berlusconi ha affidato a Cossiga, fosse un segnale del Cavaliere a D'Alema? «Non sono così bravo a fare il mediatore», sorride l'ex capo dello Stato: «Ma siccome sono amico dei due...». Una cosa è certa, è inutile ipotizzare che la coppia «B-B» vada in crisi. Per capirlo, basta un aneddoto del passato governo Berlusconi, narrato dal repubblicano Nucara. «Durante un vertice arroventato, mi voltai verso il premier: "Hai sentito cosa dicono i leghisti?" E lui: "Non ti preoccupare, tanto stasera sento Bossi. Piuttosto, hai sentito cos'ha detto Follini?"».

Francesco Verderami
18 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 03, 2008, 12:29:36 pm »

Sette giorni La «nuova vita» del sottosegretario

Silvio: stiamo vicini a Giulio.

E Letta senza più spazi si smarca anche in pubblico


Il cuore dice Gianni Letta, la mente dice Giulio Tremonti, perché è da lì che passano questioni e rapporti a cui Silvio Berlusconi tiene molto. Compreso l’asse politico con la Lega. Così ieri in Consiglio dei ministri il premier ha preferito la ragione al sentimento, elogiando il titolare dell’Economia.
Il Cavaliere doveva scegliere. E ha scelto. Non ha aperto la riunione di governo esortando i ministri alla «correttezza nel confronto con le altre istituzioni», come gli aveva chiesto il giorno prima Letta, durante il burrascoso vertice con le Regioni. Berlusconi ha invece reso gli onori a Tremonti, «con il quale ho chiacchierato a lungo l'altra sera». Gli effetti di quel colloquio si sono manifestati nell'appello all'esecutivo: «Dobbiamo stare vicini a Giulio, condividere la sua linea di rigore e tenere in ordine i conti pubblici. Perché ha ragione quando dice che in autunno la crisi potrebbe complicarsi. È inutile quindi andare a chiedergli soldi. Non è che non vuole darne, è che non ce ne sono».

È vero che appena Tremonti ha lasciato la riunione, il premier ha confortato i dolenti in processione. Ha riconosciuto per esempio che «sì, Sandro ha ragione», quando il titolare dei Beni culturali Bondi gli ha chiesto «almeno di farci decidere le riduzioni di bilancio che ci riguardano». E ha promesso a Mariastella Gelmini «una soluzione positiva», quando la responsabile dell'Istruzione ha convenuto sulla «necessità di fare sacrifici, senza dimenticare però che la scuola non è una priorità ma è la priorità. E con i tagli previsti per il 2009, rischio di non poter aprire le scuole nelle zone di montagna». Senza Tremonti, insomma, in Berlusconi il sentimento è tornato a prevalere sulla ragione, anche perché la «soluzione» che ha garantito a tutti verrà girata a Letta, «il crocevia» come lo chiama il ministro per le Infrastrutture Altero Matteoli. Ma stavolta il sottosegretario non avrà i margini di un tempo.

Il modo in cui Tremonti ha varato la manovra e strutturato la Finanziaria toglie quegli spazi di manovra nei quali Letta si muoveva con abilità, tessendo rapporti e offrendo mediazioni alle parti sociali, alle associazioni di categoria e persino ai partiti di opposizione. Molte cose sono cambiate. Anche Letta. È una nuova vita quella del sottosegretario, che aveva fatto del riserbo la sua forza. Per dire, i contrasti con Tremonti nell'esecutivo precedente furono molto più aspri degli attuali, ma mai visibili, nemmeno agli altri ministri. Invece alcune settimane fa, proprio davanti ad alcuni esponenti di governo, ha volutamente graffiato il titolare dell'Economia con un tocco d'ironia: «Dopo quello che mi hai fatto, stavo per dimettermi». E giovedì, in presenza dei governatori regionali, ha intimato maggior rispetto verso di loro «da parte di chi vuole il federalismo fiscale».

Non c'è dubbio che Letta resta il civil servant invidiato dall'opposizione a Berlusconi: «È l'uomo che manca a Romano Prodi», disse di lui Francesco Rutelli. Ma non c'è dubbio che stia interpretando il ruolo diversamente. Non è chiaro se — come raccontano — il suo disappunto sia dovuto a impegni che non è poi riuscito a mantenere, è certo che quando si distingue lo fa rimarcando la sua educazione istituzionale: «Qualsiasi linea politica si intende scegliere, va sostenuta senza mai perdere di vista la correttezza e la disponibilità al confronto verso gli interlocutori. In Parlamento, con le Regioni, con i sindacati». Il Cavaliere sa di non poter fare a meno di Letta e di Tremonti. Al primo recentemente si è riferito con affetto in Consiglio dei ministri: «Scrivono che qui si litiga ma non è vero. Io litigo solo con Gianni». Del secondo ammira la creatività, «anche se quando ci parli sembra di sentire "io Tarzan tu Jane"».

La mente di Berlusconi dice «Giulio», il cuore dice «Gianni», a cui avrebbe affidato la vicepresidenza del Consiglio se la Lega non si fosse opposta. E «Gianni» nella sua nuova vita sembra davvero un altro. Ieri doveva esserci la prima riunione del comitato per l'Expo 2015, invece è stato tutto rinviato perché il decreto istitutivo dev'essere rifatto. Pare contenesse uno strafalcione per cui i rappresentanti del comitato avrebbero dovuto rispondere anche in solido. Il premier aveva già firmato il decreto quando è arrivata l'obiezione dell'Economia: «Sì, è arrivata ieri notte...», ha spiegato Letta con un moto di fastidio.

Francesco Verderami
02 agosto 2008



da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 09, 2008, 06:02:54 pm »

Il retroscena L'offensiva lumbard sul Pdl preoccupa il Cavaliere

Sfida del Nord tra Silvio e Umberto

«La Lega non pensi di muoversi da sola»

Federalismo fiscale, il premier a Tremonti: «Approvarlo subito? Devo pensarci»

 
 
Dovrebbero vedersi stasera il Cavaliere e Bossi, in compagnia del solito Tremonti. Ma l'appuntamento ancora ieri pomeriggio non era stato confermato, perché il premier pare avesse fatto sapere di esser già impegnato. E tanto basta per capire il nervosismo che agita il centrodestra alla vigilia di un tornante decisivo nell'azione di governo. Sia chiaro, non è alle viste alcuno strappo tra il Pdl e la Lega.

Come vadano le cose nel centrodestra, l'ha spiegato il ministro Scajola a Bobo Craxi durante una chiacchierata questa estate: «Tra noi c'è chi si affatica inutilmente pensando al futuro. In realtà non ci sono alternative a Berlusconi. La storia poi che lui pensi al Quirinale non esiste: governerà più a lungo del re Sole». Se andrà così è da vedere. Quanto al presente, l'ultimo sondaggio che Ipsos ha inviato al Pd testimonia però che la «luna di miele» del Cavaliere con il Paese non è terminata, anzi. Gli italiani che «scommettono» sulla vittoria del centrodestra anche alle prossime elezioni sono saliti dal 48,4% di fine luglio al 59,8% di inizio settembre. Il giudizio positivo sull'operato del governo è passato dal 52,1% al 56,1%, con il Cavaliere che è schizzato dal 52,5% al 58,2%. E il Pdl non ha risentito per l'avanzata della Lega, progredendo nei consensi fino al 36,7%. I dati non hanno sorpreso i dirigenti del Pd: «Basti pensare - spiegava giorni fa il veltroniano Tonini - ai cavalli di battaglia di Berlusconi. I rifiuti in Campania e Alitalia sono due questioni che avremmo dovuto risolvere quando eravamo noi al governo». Ma paradossalmente, proprio il fatto di essere il dominus della politica con un'opposizione in crisi, scesa al 26,6% di giudizi positivi - si sta ritorcendo contro il premier, costretto a fronteggiare polemiche quotidiane: da quelle estemporanee ma pesanti provocate dalle parole del sindaco di Roma Alemanno e dal ministro La Russa sul fascismo e sulla Rsi, a quelle meditate e mirate del Carroccio.

In ballo c'è il federalismo fiscale, una partita all'ombra della quale si giocano gli equilibri della coalizione e i futuri assetti di potere. Il Cavaliere pensava di dettare i tempi, invece la Lega ha innescato il timer, aprendo più fronti polemici. Raccontano di un Berlusconi per metà infastidito e per metà preoccupato, non certo per la tenuta della coalizione quanto per l'immagine del governo e per i rapporti con il Carroccio. Le mosse leghiste hanno fatto saltare la sua strategia comunicativa. È dovuto intervenire per difendere il ministro dell'Istruzione Gelmini dall'ennesimo attacco di Bossi, e ha dovuto smentire la reintroduzione dell'Ici: «Solo l'idea che i cittadini possano pensare che noi gli metteremo le mani in tasca mi fa inorridire». Non vuole alzare il livello dello scontro ma non può far finta di nulla, «spero solo - ha detto ieri - che finita l'estate siano finite anche certe esternazioni». Il punto è che non è finita, anzi è appena iniziata la sfida per il primato al Nord. L'anno prossimo, politicamente cioè domani, le Amministrative saranno se possibile un test ancora più importante delle Europee, perché varranno come prova generale per le successive elezioni Regionali. Bossi era stato esplicito con Berlusconi ancor prima del varo del governo: allora chiedeva un governatore per il Carroccio tra Veneto e Lombardia; oggi mette l'ipoteca sul dicastero dell'Istruzione qualora la Gelmini venisse candidata al Pirellone. «Competition is competition», la regola vale anche nel centrodestra.

E nella competizione la Lega si è impadronita di tre temi politici di prima grandezza, così da usarli come moltiplica di consensi: sicurezza, immigrazione e, appunto, federalismo fiscale. Berlusconi avverte il rischio, sostiene che «la Lega è un alleato indispensabile ma non può pensare di muoversi in proprio »: «Il federalismo fiscale non è solo una loro bandiera, ma un obiettivo di tutto il centrodestra. E va fatto nell'interesse di tutto il Paese». Fino a che punto il Cavaliere scarichi le proprie tensioni su Tremonti, elemento di raccordo con il Carroccio, è questione per ora secondaria. E sull'invito del titolare dell'Economia a dare il via libera presto al federalismo fiscale per interrompere lo stillicidio, prende tempo: «Devo pensarci». Così questa settimana il Consiglio dei ministri potrebbe al massimo avviare un «esame preliminare » sul testo. Il Cavaliere vuol vederci chiaro sul merito e sul metodo del progetto, e soprattutto insiste per un accordo «preliminare e di ferro» sulle questioni che gli stanno a cuore: la legge elettorale per le Europee «con sbarramento alto e senza preferenze»; e la riforma della giustizia, che andrebbe approvata «insieme al federalismo fiscale».

E qui sorge il problema che è stato sottoposto all'attenzione di Berlusconi e che non è di facile soluzione. Quanto varrebbe l'accordo «di ferro» già a gennaio? Perché il federalismo fiscale è un disegno di legge delega collegato alla Finanziaria: una volta licenziato dal Parlamento, entro fine anno, spetterà al governo varare i decreti legislativi. Insomma, l'eventuale braccio di ferro sui contenuti della riforma si sposterebbe in Consiglio dei ministri. Da quel momento la Lega si troverebbe in una posizione di forza, e potrebbe giocare al rilancio con Berlusconi su due tavoli. Su quello parlamentare, per esempio, dato che è impensabile l'approvazione della riforma della giustizia entro fine anno. Ma soprattutto sul tavolo politico: dalle nomine ai candidati sindaci nel Nord, le richieste del Carroccio potrebbero diventare esose per il Cavaliere, e magari Bossi potrebbe minacciare corse solitarie in alcuni comuni. È difficile pensare che il Senatur possa mettere in pratica la teoria delle «mani libere», Berlusconi lo definisce sempre un «fedele alleato». Ma se vuol «vederci chiaro» è perché fidarsi è bene...

Francesco Verderami
09 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Settembre 14, 2008, 04:03:22 pm »

IL RETROSCENA ALITALIA

Letta, i fornitori e l'allarme da Londra

Il Cavaliere cerca di «recuperare» 500 piloti in esubero, dirottandoli in parte verso la compagnia Air Italy


Più della trattativa che nella notte si è sbloccata, a preoccupare ieri Berlusconi era la prospettiva di quanto potrebbe accadere dopo l'intesa su Alitalia con i sindacati: il timore di scioperi selvaggi, blocchi stradali, disordini di piazza. E le preoccupazioni per le tensioni sociali s'intrecciavano con la volontà del premier di evitare a tutti i costi il fallimento della compagnia aerea, accompagnata da una forte irritazione per come fosse stato gestito fin lì il negoziato. Per stringere il patto Berlusconi ha premuto sui sindacati, propensi a trovare un'intesa ma a loro volta preoccupati, «perché senza l'ok dei piloti non potremo governare la protesta». «L'accordo consentirebbe intanto di far partire l'operazione», era la tesi del Cavaliere, che teneva in serbo una soluzione innovativa per il contratto delle «aquile» e si era già impegnato a dirottarne altri 500 in esubero, in gran parte verso una piccola società: la Air Italy. Nel frattempo aveva ricevuto ulteriori garanzie di sostegno da Air France e Finmeccanica. Le cattive notizie nel pomeriggio erano giunte da Cai, se è vero che Colaninno l'aveva informato di «problemi con gli azionisti». Perciò Berlusconi aveva chiesto ai ministri di fare «qualche altra concessione», in modo da «convincere» poi gli acquirenti di Az. E mentre chiedeva, continuava a imprecare, dicendo che «bisognava lasciarsi dei margini, invece di presentare tutto subito». Avrà forse il tempo di ragionarci sopra. Certamente ieri non aveva il tempo né la voglia di ricostruire gli ultimi giorni della trattativa, di andare appresso a chi riteneva che il negoziato andasse gestito fin dall'inizio da Palazzo Chigi, di chi criticava la guerra di visibilità tra ministri, di chi puntava l'indice sulla scelta di Colaninno e Fantozzi come attori della vicenda, di chi addirittura osservava il distacco di Tremonti, che giorni fa — alla Festa di Azione giovani — dinnanzi alle preoccupazioni di un dirigente di An aveva risposto: «Nooo... Va tutto bene».

Berlusconi doveva e deve salvare Alitalia.
E non solo per salvar la faccia. Ieri quell'affondo contro la sinistra è stato un modo per mandare un avvertimento, inserito in un passaggio della sua dichiarazione: dietro il rischio di «suicidio» per il fallimento di Az, il premier scorgeva «motivazioni politiche che non hanno nulla a che vedere con le richieste dei lavoratori ». Si riferiva alle voci su un'ipotesi alternativa al «piano Fenice», che Veltroni nel pomeriggio avrebbe di fatto accreditato, invitando il governo a «chiudere subito» o a «riaprire la procedura». La risposta del Cavaliere non si è fatta attendere. E alla sortita pubblica ha fatto seguire una serie di messaggi riservati. Da una parte ha fatto sapere che — in caso di fallimento di Alitalia — avrebbe modificato nuovamente la legge Marzano, rivedendo così le condizioni di favore per l'acquisto della compagnia. Dall'altra ha fatto capire ai sindacati che la rottura su Az avrebbe provocato anche la rottura delle relazioni e soprattutto la rottura della trattativa sugli incentivi. Un gioco pesante, non c'è dubbio, come pesante era il clima a Palazzo Chigi. L'altra notte Gianni Letta aveva urlato al telefono tutta la sua rabbia: «È una situazione pazzesca. Sono qui a implorare i fornitori per convincerli a garantire il carburante agli aerei, e invece di procedere si blocca tutto? ». E ai sindacati che chiedevano conto delle nuove voci su altri possibili acquirenti, il sottosegretario replicava: «Voi dovete dare un segnale». Macché, le organizzazioni cambiavano

Il grande mediatore
Sulla vicenda Alitalia anche il sottosegretario alla presidenza, Gianni Letta, ha perso il suo aplomb: «È una situazione pazzesca. Sono qui a implorare i fornitori per convincerli a garantire il carburante agli aerei»
interlocutore nel governo, rivolgendo però la stessa domanda. «Ma non è vero», rispondeva esausto il ministro del Welfare Sacconi: «Chi e come metterebbe questi soldi?». L'atmosfera era surreale come le notizie che si spargevano nel Palazzo: all'aeroporto di Londra pare avessero chiesto soldi contanti per far partire un vettore di Alitalia.

Non era pensabile che Berlusconi restasse defilato.
Tanto più che le parti si erano rovesciate: «Veltroni — commentava ieri il forzista Grillo — non cavalchi l'irragionevole protesta ». Più o meno quanto dicevano in campagna elettorale i dirigenti del Pd. Irritato dal fatto che Epifani avesse sempre disertato il tavolo della trattativa, oltre a prendersela contro «questi comunisti», il capo del governo doveva trovare una soluzione. «Si chiude, si chiude», sorrideva in serata il ministro Rotondi: «Cos'è una trattativa senza suspense?». Non appariva perciò strano se Casini, che conosce Berlusconi, ieri aveva evitato di attaccarlo: «La soluzione è pessima, ma sono al fianco del premier e mi auguro che la sua mediazione abbia successo». Un modo per non restare sotto le macerie ora che il premier sembra sul punto di farcela anche stavolta.


Francesco Verderami
14 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Settembre 16, 2008, 03:59:26 pm »

Il retroscena

La trincea del Pd: aiutiamo Epifani

Tonini: «Non siamo quelli del tanto peggio tanto meglio»



Dopo l’offensiva di Berlusconi su Alitalia, nel Pd hanno capito che per difendersi bisognava difendere la Cgil, «sostenere Guglielmo», come ha detto Veltroni riferendosi a Epifani. Veltroni si è reso conto che — anche a costo di smentirsi dopo appena due giorni — era necessario riposizionare il partito, abbandonando la linea dello scontro frontale con il governo su Alitalia e offrendo una sponda alla Cgil, impegnata a lavorare a un esito positivo del negoziato. «Sosteniamo Guglielmo» non è solo una parola d'ordine, è la trincea scavata dal leader del Pd per arginare il Cavaliere, per ridurre il danno nel caso in cui davvero Berlusconi chiudesse la trattativa. Certo, un successo del premier costringerebbe l'opposizione a pagare un pedaggio politico e mediatico molto alto, «ma il prezzo della rottura — è stato il ragionamento svolto dallo stato maggiore democratico — sarebbe ancor più alto». E non tanto perché Berlusconi si è premurato di scaricare anzitempo le responsabilità di un eventuale fallimento di Az sul sindacato e sulla sinistra, ma perché il Pd non potrebbe sopportare una spaccatura tra le organizzazioni del lavoro, con la Cgil spinta magari verso una deriva barricadera.

Che questa sia la linea lo s'intuisce chiaramente dal ragionamento di Tonini, uno degli uomini più vicini a Veltroni: «Noi lavoriamo per un sindacato unito, autonomo e riformista. Noi non siamo quelli del "tanto peggio tanto meglio"». Il Pd intende scongiurare una riedizione del 2002, quando Cisl e Uil firmarono il «Patto per l'Italia» con il governo Berlusconi e Cofferati salì sulle barricate portando milioni di persone a Roma. Nemmeno Epifani potrebbe permettersi una frattura con le altre due confederazioni, perciò — nonostante domenica sera abbia dapprima tentato di frenare — alla fine ha dovuto aprire, firmando l'accordo quadro per Alitalia insieme a Bonanni, Angeletti e Polverini e avendo da Letta la rassicurazione che il governo sarebbe stato pronto a difendere l'intesa in caso di accordo senza i piloti: «C'è l'impegno formale del presidente del Consiglio». Così d'incanto ieri mattina lo stato maggiore del Pd ha iniziato a cambiar registro, pur continuando a criticare la soluzione scelta dal governo. Il ministro ombra dell'Economia, che ha avuto più di un colloquio con Epifani, ha ribadito che l'intesa con Air France sarebbe stata «la migliore soluzione» per la compagnia aerea e per i contribuenti, sui quali «verrà caricato almeno un miliardo e mezzo» di debiti di Alitalia. Però non ha affondato il colpo più di tanto, «adesso vediamo se ci sarà questo accordo», ha aggiunto Bersani: «E comunque dobbiamo reagire contro quanti ci accusano di disfattismo». Ancor più esplicito è stato D'Alema, che ha rigettato la tesi secondo la quale «noi staremmo soffiando sul fuoco per far fallire Alitalia»: «Non è così. Sarebbe una condotta assai irresponsabile, com'è stata invece quella di Berlusconi» in campagna elettorale.

D'Alema ha fornito una sponda solida al segretario della Cgil, complimentandosi con i sindacati che «nella situazione data hanno offerto una grande prova. Ora bisogna augurarsi che si trovi una via d'uscita, C'è un'ipotesi di accordo sul piano industriale, e c'è da sperare che il senso di responsabilità dei sindacati eviti il peggio». Più chiaro di così. D'altronde non c'erano né ci sono ulteriori margini, quelli che Veltroni aveva intravisto sabato, quando nella fase di stallo del negoziato, nel momento in cui il «piano Fenice» sembrava dovesse saltare, chiese al governo di «chiudere subito l'accordo» o di «riaprire la trattativa» a nuovi acquirenti. Già, ma chi? Non è dato saperlo, dopo la smentita formale di Unicredit circa un'interessamento ad Az. Sta di fatto comunque che Berlusconi ha immediatamente provveduto a bloccare quelle che ha definito «manovre di disturbo» attorno alla cordata Cai e che — a suo dire — avevano iniziato a trovare orecchie attente persino tra esponenti della sua maggioranza. Ad accreditare la tesi di una sorta di «tentato sabotaggio» del «piano Fenice» è stato ieri il ministro Scajola, secondo il quale «ci sono molti avvoltoi in giro»: «Compagnie aeree europee, ma non solo...». Con la svolta di ieri il Pd ha provveduto ad allontanare ogni possibile sospetto.

Epperò è chiaro che attorno ad Alitalia si sta giocando più di una partita politica. È una partita in cui sono in gioco assetti di potere e di sistema. I maggiorenti democratici ne sono consapevoli, sottovoce spiegano che «dal '94 ad oggi questa è la prima partita in cui il Cavaliere è il principale attore, anzi l'unico». Come a dire che la sinistra è rimasta ai margini. Fino alla scorsa settimana, quando ancora l'operazione berlusconiana sembrava potesse fallire, Veltroni è andato giù pesante. Ora non più. Non può: c'è da difendere la Cgil, dunque in parte se stessi. Non si può restare al fianco di quanti — durante il negoziato — hanno fatto richieste surreali. Raccontano infatti che ci sia stato chi ha chiesto di prevedere garanzie sindacali a difesa di future assunzioni e chi addirittura ha chiesto che fine avrebbero fatto i voli gratis garantiti a parte del personale. Per far capire la situazione drammatica in cui versa Az, pare abbiano informato i sindacati che in questi giorni la compagnia ha pagato un rifornimento di carburante di dodicimila euro con la carta di credito personale di un dirigente aziendale... «Sosteniamo Guglielmo» così dice Veltroni. Ma questo sembra togliere dalle secche solo momentaneamente il Pd e la Cgil. La manifestazione del 25 ottobre — che il leader democratico sta preparando con molta cura — rischia di mettere in difficoltà Epifani. Siccome saranno i temi economici e le questioni del salario a caratterizzare l'evento, quale atteggiamento terrà Veltroni se il sindacato nel frattempo avrà firmato l'intesa su Az e starà lavorando con Confindustria al rinnovo del modello contrattuale? C'è il rischio di mettere in difficoltà la Cgil con la Fiom. Rovesciando i ruoli, dopo l'eventuale accordo su Alitalia e con le trattative sul costo del lavoro in corso, anche Veltroni si troverebbe in difficoltà. È un passaggio complicato per il Pd. E Berlusconi non intende fare sconti.

Francesco Verderami
16 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 19, 2008, 10:25:21 am »

Raccontano di un Berlusconi scuro in volto e di una telefonata accesa con il NUMERO UNO di Cai.

L'ira del Cavaliere e la telefonata a Colaninno

I contatti tra Bersani e il sottosegretario Letta

 
 
ROMA — Raccontano di un Berlusconi scuro in volto e di una telefonata piuttosto accesa tra il premier e il presidente di Cai. Perché non è così che doveva concludersi ieri la partita Alitalia, non erano questi i patti. Perché a suo dire l'intesa con la cordata di imprenditori era stata costruita puntando a superare anche l'eventuale ostilità di un pezzo del sindacato, non assegnando alla Cgil e ai piloti il potere di veto sulla riuscita dell'operazione. Il Cavaliere l'aveva ripetuto a più riprese che si sarebbe andati avanti «con chi c'era». Ed è più o meno quel che il leader della Cisl Bonanni ha giurato ai suoi di aver sentito dire mercoledì all'ad di Cai, Sabelli, mentre Epifani continuava a prender tempo. «Andare comunque avanti» era la parola d'ordine, condivisa anche da uno dei maggiori artefici finanziari della cordata. Ecco quale sarebbe stato il motivo del diverbio tra Berlusconi e Colaninno, che invece puntava su un consenso più largo, dunque sull'appoggio della Cgil, per poter tenere a bada alcuni soci insofferenti e avviare una sfida industriale difficilissima. L'esito della riunione di Cai, il suo passo indietro, ha colto perciò di sorpresa il Cavaliere e il suo governo, se è vero che ancora l'altra sera, in un vertice informale a Palazzo Chigi, tutti i ministri della trattativa — tranne Sacconi — manifestavano davanti al premier ottimismo sull'esito della vertenza.

Nelle stesse ore al quartier generale del Pd, anche i dirigenti democratici erano convinti che il negoziato si sarebbe chiuso in modo positivo, e già si preparavano alle contromisure mediatiche seguendo uno schema prestabilito: la soluzione scelta dall'esecutivo è pessima, ma non saremo noi i disfattisti. Governo e opposizione erano dunque impreparati all'evento. Con il comunicato di Cai il Cavaliere ha visto d'un colpo la propria immagine sbriciolarsi, ha visto il fallimento del progetto a cui aveva lavorato, l'«italianità» di Az, e ha visto aprirsi «un baratro» nel quale rischia di cadere. Perché se così finisse la partita, non dovrebbe solo fronteggiare l'ipotesi di fallimento di Alitalia ma anche il blocco dei trasporti aerei, il rischio di collasso del sistema, l'avvio del conflitto sociale. Se così fosse, anche il Pd avrebbe seri problemi: a parte l'offensiva di Berlusconi, deciso a scaricare ogni responsabilità sulla sinistra, i democratici verrebbero travolti dalle macerie di una Cgil isolata da Cisl e Uil e schiacciata su posizioni estreme. Per quanto possa apparire paradossale, dal momento in cui ieri Colaninno ha detto «no», governo e opposizione separatamente hanno iniziato a muoversi in sintonia, cercando in extremis di rimettere assieme i cocci. Lo s'intuiva dal ragionamento del democratico Tonini, che portava ad esempio il caso dei rifiuti a Napoli: «Lì Berlusconi ha risolto il problema perché ha stipulato una tregua con Bassolino».

Il Pd, al pari del Cavaliere, confida che non tutto sia compromesso, perché — come dice Follini — «le conseguenze per il Paese e per il premier sarebbero molto dure. Lo sarebbero un po' meno per noi, però lo sarebbero comunque ». Dalle cinque del pomeriggio è partita la rincorsa a Colaninno. Da una parte Letta, messo sotto pressione da Berlusconi che ha il dente avvelenato per com'è stata gestita la trattativa. Dall'altra parte Epifani, che per ore ha chiesto a Cai di riaprire il tavolo. Secondo fonti del governo, pare che il capo della cordata sia stato irremovibile, e che abbia chiesto al segretario della Cgil di firmare senza porre altre condizioni, perché la posizione del suo sindacato e quella dei piloti sarebbe per Cai «incompatibile con qualsiasi soluzione aziendale». Nel Pd c'è chi — come Bersani — immagina soluzioni alternative, e chiede tempo. Chissà se ha sentito Letta, com'è accaduto in questi giorni. Di certo, il suo, è un modo per nascondere la terribile verità che avanza per Az. «E vedere festeggiare i lavoratori per il "no" di Cai mi ha addolorato », sussurra Tonini. Perché è chiaro l'epilogo, a meno di una clamorosa sorpresa. Vorrebbe dire che Epifani ha cambiato rotta dopo aver giocato al rilancio come in una mano di poker. Tra i democratici non è solo Follini a parlare di «irresponsabilità » del sindacato. Persino dirigenti ex diessini lo criticano sottovoce: «Ormai fatica a controllare la Cgil e ci ha provato». Non aveva fatto i conti con Colaninno. Come Berlusconi.

Francesco Verderami
19 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #29 inserito:: Settembre 20, 2008, 04:29:22 pm »

Il cavaliere e il soccorso rosso


E se si arrivasse a un'intesa su Alitalia tra il governo e il Pd? Se la logica delle «contrapposte convergenze» portasse Berlusconi e l'opposizione a siglare, per interessi diversi, un tacito patto, così da risolvere positivamente la vertenza?

Perché il premier è terrorizzato non tanto dall'idea del crac di Az ma dal conseguente blocco aereo che paralizzerebbe per molto tempo il Paese: «Mi getterebbero la croce addosso». A loro volta i democratici, senza un'intesa, temono di restar fuori da un nuovo assetto di potere, che li escluderebbe dai giochi per chissà quanti anni. Così ieri si è intravista la trama del comune disegno: riportare la Cgil alla ragione e convincere Cai a rientrare nella sfida. Non esiste una terza via, su questo il Cavaliere è stato chiaro: «O c'è Cai o c'è il fallimento».

Ed è una sorta di «compromesso storico» quello a cui si sta lavorando. D'altronde — come dice il democratico Follini — «salvare Alitalia è un'impresa titanica, e per riuscirci serve una falange macedone politica». Da Gianni Letta a D'Alema, ognuno per la propria parte lavora sotto traccia. E ognuno lancia dei segnali. Al forzista Napoli, per esempio, è stato affidato il compito di invitare Epifani ad «aver coraggio», a «sfruttare l'occasione per dimostrare che non è solo un leader sindacale ma che ha anche un profilo politico». Dal fronte avverso è arrivato il soccorso rosso: bastava incastrare le parole di D'Alema — secondo cui «c'è ancora tempo» — al ragionamento svolto dal suo braccio destro Latorre, per capire che i messaggi erano rivolti al capo della Cgil («noi auspichiamo la ricomposizione del sindacato») e al Cavaliere («confidiamo nell'accordo»). Ed è stato ancor più esplicito Fioroni quando — in appoggio al cislino Bonanni — ha chiesto ad Epifani di «fare un passo in più in avanti per togliere ogni alibi a chi cerca capri espiatori».

Il gioco delle «contrapposte convergenze » è però assai complicato e ad alto rischio. Perché il premier è disposto — come spiega il suo portavoce Bonaiuti — «a lasciare uno spazietto alla sinistra». Insomma, senza esagerare. Ma le mire di Veltroni sono più ambiziose, punta a de-berlusconizzare la trattativa su Az, strappandola dalle mani del governo e affidandola al commissario della compagnia aerea, Fantozzi. E c'è un motivo se il leader del Pd vuol giocare la sfida di Az in campo neutro, lo spiegava giorni fa il democratico Ventura: «Dietro la partita su Alitalia si cela una partita economico- finanziaria enorme», che passa da Expo 2015 e arriva agli investimenti in Libia.

E non c'è dubbio che se Berlusconi riuscisse nell'impresa, ridisegnerebbe la mappa del potere in Italia, divenendone l'unico regista. «In quel caso — commenta il democratico Carra — ci rivedremmo forse tra venti anni ». Veltroni intende evitare la nascita di «un sistema putiniano», sebbene ieri si sia scoperto troppo appoggiando le scelte di Epifani, e prestando così il fianco all'accusa di esser stato «il regista del niet della Cgil». Ma non è un caso se il premier non ha replicato direttamente: tace in attesa di capire come si chiuderà il caso Alitalia, vuol vedere l'esito della partita «tutta interna alla sinistra» tra i democratici e Colaninno.

La politica è al bivio, tra un tacito patto sancito dalle «contrapposte convergenze » e la radicalizzazione dello scontro che porterebbe a un conflitto sociale senza precedenti. Ma stavolta la soluzione non è affidata solo ai protagonisti del Palazzo, un ruolo determinante lo giocano gli imprenditori.
Raccontano che al termine della riunione di giovedì, gran parte dei soci di Cai sia rimasta stordita dagli epiteti «banditi! banditi!» dei dimostranti, e non voglia più sentir parlare di piloti, «al massimo — ha detto uno di loro — di piloti automatici».

Dopo il colloquio burrascoso dell'altro ieri, pare si sia rasserenato il clima tra il premier e Colaninno, al quale — durante il Consiglio dei ministri — Letta ha riconosciuto un «comportamento lineare e corretto».

Il presidente di Cai era stato chiaro con Berlusconi che lo invitava ad andare avanti anche senza la Cgil: «Io non sto acquistando un gioiello ma voglio renderlo produttivo. E per farlo, non posso avere contro i lavoratori». Si vedrà se Cai rientrerà in gioco, se non si è sciolta è perché Colaninno ha invitato i soci a pensarci: «Non è facile mettere insieme così tanti imprenditori. Perciò riflettiamo, possono venirci nuove idee su cui investire». Tanto basta per far ammettere a Fioroni che «la politica non conta. Ed è incartata».


Francesco Verderami
20 settembre 2008

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