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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288483 volte)
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« Risposta #300 inserito:: Aprile 29, 2011, 06:31:33 pm »

29/4/2011

Bossi scherza col fuoco

MARCELLO SORGI

Chi dice che in Italia la crisi della politica non aveva mai raggiunto i livelli di questi giorni - con un governo che ha perduto la maggioranza e rischia di perdere definitivamente la faccia sul terreno ultradelicato degli impegni e dei rapporti internazionali - ha purtroppo la memoria corta. L’Italia ha una tale gamma di esempi alle spalle, e una tale deplorevole assuefazione alle brutte figure, che è sempre possibile trovare un precedente simile o peggiore. Per dire, una volta le crisi in materia di politica estera erano considerate impossibili, perché la collocazione internazionale di un Paese europeo non dovrebbe mutare con il cambiamento dei governi. Eppure, già nella Prima Repubblica, ai tempi di Sigonella e dell’Achille Lauro, anche quel limite considerato invalicabile era stato superato.

Se c’è una differenza, tra allora e oggi, è che almeno, in passato, quando si apriva una crisi le ragioni erano chiare e l’approdo intuibile.

Oggi invece l’unica cosa comprensibile è che la Lega considera esaurite le ragioni della collaborazione con Berlusconi, ma non ha ancora deciso quando e come tirarsene fuori. Da mesi il partito di Bossi è in sofferenza: si tratti del federalismo declamato e mai in pratica declinato, delle politiche dell’immigrazione, delle contorsioni interne del Pdl, e adesso della guerra in Libia, che il Senatur considera un’avventura disastrosa, frutto di un atteggiamento servile verso la Francia e gli Usa, il Carroccio, che fino a qualche tempo fa considerava la sua permanenza nel centrodestra vantaggiosa per l’oggi e per il domani, e che in prospettiva accarezzava l’idea di trasformarsi nel primo partito del Nord, oggi comincia a temere che i suoi conti non tornino.

E lo fa apertamente - va detto -, incurante del difficile frangente in cui l’Italia si trova, dell’impossibilità per il Paese, a causa della sua collocazione politico-strategica, di tirarsi fuori da un conflitto rischioso come quello libico, e badando in sostanza solo ai sondaggi che dicono che l’elettorato leghista è insoddisfatto e alle prossime amministrative potrebbe punire il Carroccio. Di qui la rottura sui bombardamenti, decisione a cui l’Italia ha dovuto unirsi per onorare i suoi impegni con gli alleati, e l’annuncio di una prossima dissociazione dal voto parlamentare previsto il 3 maggio.

Dopo settimane di stenti, in cui ha prevalso alla Camera per pochi voti, tutti o quasi provenienti da transfughi dell’opposizione, il governo rischia così di trovarsi senza maggioranza in una votazione molto importante, o di dover accettare l’appoggio occasionale di una parte dell’opposizione che subito dopo correrebbe a dire che solo il proprio senso di responsabilità avrebbe evitato al Paese un disastro politico e a Berlusconi una brutta figura irrimediabile.

Questa della confusione e di un risultato difficilmente spiegabile ai partners stranieri non è l’unica incognita del prossimo dibattito parlamentare. E’ paradossalmente la più probabile e la meno temuta dalla Lega, pronta a dire all’indomani di un voto che sancirebbe la rottura della maggioranza che è pronta a ripensarci e non vuole affatto buttare giù il Cavaliere. Se davvero si arriverà al voto in aula non è detto tuttavia che finisca così; potrebbe anche andar peggio. Ciascuno dei protagonisti di questa vicenda fa finta di non accorgersi che sta scherzando col fuoco. E c’è perfino chi sostiene che tutto si aggiusterà calibrando diversamente il rimpasto e mollando qualche posto di governo in più al Senatur. Ma è fin troppo evidente che, seppure la crisi di governo non si aprirà, sarà molto improbabile, dopo quel che è successo in questi giorni, che il governo trovi la forza di risollevarsi e riesca ancora a governare.

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« Risposta #301 inserito:: Maggio 03, 2011, 11:04:40 am »

3/5/2011 - TACCUINO

Al Cavaliere si addice lo stile Prodi

MARCELLO SORGI


Alla vigilia dell’incontro con l’«amico» Umberto, che da una settimana si rifiuta di rispondergli al telefono, Berlusconi ha definito «condivisibile» il senso della mozione della Lega presentata alla Camera in vista del dibattito di domani. In una giornata già per altri versi difficile, trascorsa in buona parte al Palazzo di Giustizia di Milano, il premier ha voluto dare un segnale distensivo, mentre sul marciapiede da cui parlava i due fronti contrapposti dei suoi sostenitori e dei suoi avversari si davano nuovamente battaglia.

Ma come appunto possa diventare condivisibile una mozione che contrasta apertamente con la risoluzione dell’Onu che ha dato il via alla guerra contro la Libia, sarà da vedere. Le due questioni aperte sono i limiti temporali, che Bossi pretende espliciti, alla missione internazionale, e i costi, che non dovrebbero essere aggiuntivi e gravare dunque sulle spalle dei cittadini con aumenti anche indiretti di tassazione, come è avvenuto il mese scorso per i Beni culturali.

Nel primo caso Berlusconi conta di ricorrere più o meno al metodo delle verifiche periodiche della situazione adoperato da Prodi ai tempi delle precedenti missioni coi governi di centrosinistra, per guadagnarsi il consenso altalenante di Rifondazione comunista. Non è certo un bel precedente, per un governo come quello del Cavaliere, che fino a pochi giorni fa vantava più compattezza, seppure all’interno di una maggioranza limitata, ma tant’è. Nel secondo caso l’idea è di far rientrare il finanziamento della guerra nell’ambito dell’attuale bilancio della Difesa, con quale insoddisfazione del ministro La Russa è facile immaginare.

Ammesso che in questo modo sia possibile «ritrovare la quadra», per usare un’espressione ricorrente di Bossi, bisogna ancora capire se la Lega sarà disposta a ritirare o a emendare la sua mozione alla Camera, per far sì che sul testo concordato possano confluire anche i voti del Pdl e dei Responsabili, ricompattando così la maggioranza. Sarebbe in ogni caso una vittoria del Senatur, che riprenderebbe in questo modo il suo ruolo di capo-ombra della coalizione e di azionista di riferimento del governo. E sarebbe allo stesso tempo una mediocre figura rispetto ai partners stranieri, che non capiscono le contorsioni a cui sta andando incontro lo stesso governo che alla vigilia di Pasqua aveva dato ufficialmente via libera ai bombardamenti, e a una decina di giorni dal suo «sì» si ritrova ancora a non sapere se e come la parola data sarà rimessa in discussione, rimaneggiata o approvata dal Parlamento.

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« Risposta #302 inserito:: Maggio 04, 2011, 05:17:17 pm »

4/5/2011 - TACCUINO

Dietro il no al faccia a faccia la voglia di Bossi di contare di più

MARCELLO SORGI

L’assenza di Bossi al vertice di maggioranza, che ha sancito il ritrovato accordo nel centrodestra sui bombardamenti in Libia, lascia ancora aleggiare un filo di incertezza sul dibattito parlamentare alla Camera che dovrà confermare le scelte del governo. I leghisti più vicini al governo e più preoccupati della rottura imposta dal Senatur, come il capogruppo a Montecitorio Reguzzoni, sembravano impazienti, alla fine del vertice, di dire che tutto è a posto e le richieste del Carroccio sono state pienamente accolte, con l'aggiunta di un nuovo impegno a ridimensionare le altre missioni internazionali in corso, anche per trovare le risorse necessarie al costoso e crescente andazzo della guerra contro Gheddafi.

Com’è stato chiaro fin dal primo momento in cui nella maggioranza s’è aperta la crepa, Bossi non ha alcuna intenzione di provocare una crisi. Ma intende uscire da questo passaggio con un evidente riequilibrio della maggioranza a favore della Lega. Il rifiuto dell’incontro a due con Berlusconi fa parte di questa strategia; ed anzi, ogni volta che se ne torna a parlare e si diffonde la voce che l’appuntamento è stato fissato, il leader leghista per tutta risposta se ne va a Gallarate a far campagna elettorale nel paese in cui il Carroccio si presenta contro il Pdl.

Saranno i risultati delle amministrative, e in particolare quello di Milano, a dire se Bossi riuscirà nel suo intento. Ma già adesso, dopo dieci giorni in cui Berlusconi ha dovuto fare qualsiasi cosa per riottenere un po' d’ascolto dalla Lega, si può dire che il quadro politico è cambiato. Ferma restando la debolezza del governo, che non ha affatto una maggioranza più compatta, ma solo più esigua, il braccio di ferro sui bombardamenti concluso con il compromesso di ieri spazza via tutte le illusioni di ancorare gli ultimi due anni di legislatura ai Responsabili. La terza gamba, già claudicante di suo, non serve se la seconda, cioè la Lega, viene meno. E a questo punto anche il rimpasto, chiaramente rinviato a dopo il primo turno delle amministrative per rinegoziare le alleanze dei ballottaggi, rischia di diventare superfluo, se non inutile.

A giugno, all'indomani del voto nelle città, se Berlusconi riuscirà a salvare Milano, il suo vero problema sarà di fissare almeno mentalmente la data delle elezioni politiche anticipate. Se Milano sarà perduta, il centrodestra si troverà in un frullatore a metà strada tra un "liberi tutti" e un "si salvi chi può".

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« Risposta #303 inserito:: Maggio 07, 2011, 06:29:22 pm »

5/5/2011

La nuova tecnica di seduzione

MARCELLO SORGI


Ci sarebbero molte buone ragioni per fare spallucce, di fronte a Berlusconi che candida Tremonti per la sua successione.

In fondo, nemmeno un mese fa, a cena con i principali corrispondenti stranieri in Italia, lanciò per lo stesso ruolo Alfano, e il giovane ministro s’affrettò a ridimensionare quella che magari era un’indicazione sincera, ma nei fatti rischiava di bruciarlo. Esistono tuttavia anche seri motivi per non considerare l’uscita di ieri sera del Cavaliere solo una boutade.

Il primo è la sede scelta per tornare su un argomento così delicato: «Porta a Porta», il programma di Bruno Vespa, è il luogo metapolitico che il presidente del Consiglio ha sempre prediletto per i suoi annunci importanti, dal «contratto con gli italiani», che lo riportò alla guida del governo nel 2001 dopo sette anni di opposizione, in poi. Il secondo è il modo in cui il messaggio è stato costruito da un leader che più di tutti tiene in considerazione il peso della comunicazione: prima, ovviamente, la sua disponibilità a ricandidarsi, poi, in caso di rinuncia, l’accenno al ministro dell’Economia, accompagnato dal ricordo delle confidenze di altri premier, come Blair e Brown, che hanno lasciato e che considerano quello dell’addio il migliore dei giorni vissuti al potere.

Ci sono ancora due dettagli strategici da non trascurare nell’intervista di Berlusconi. L’idea che seppure deciderà di non ricandidarsi a Palazzo Chigi, vorrebbe tenere per se la guida del Pdl, restando azionista di maggioranza del centrodestra e distinguendo in altre parole la leadership dalla premiership. E’ una novità fin troppo raffinata, per un uomo che ha sempre snobbato le sofisticherie della politica professionale, ma tant’è. Se Berlusconi sta pensando a un’ennesima reincarnazione democristiana, avrà il suo perché. Come pure - anche se non lo ha detto esplicitamente, in tanti hanno capito così - se ha messo le mani avanti lasciando intuire che il suo successore dovrà venire dal suo partito, inteso come l’ex Forza Italia, e dal giro delle persone più fidate.

Ricapitolando: da giorni, da settimane ormai, Berlusconi rimugina sulla situazione. Benché ufficialmente lo neghi, è il primo a rendersi conto del degrado della sua maggioranza, appesa al quotidiano ricatto dei deputati transfughi che chiedono posti in cambio di voti, della difficoltà di cambiare il Paese portando avanti riforme importanti come quelle che si era proposto, o anche semplicemente di governarlo, in ordinaria amministrazione, con tutte le resistenze a cui deve andare incontro. Chi crede che su questa base il Cavaliere stia per gettare la spugna, però, sbaglia di grosso: Berlusconi vede lucidamente l’assenza di un’alternativa che ieri anche Napolitano, rivolto al centrosinistra, ha riconosciuto pubblicamente, e cerca il modo di superare la fase di logoramento e rilanciare il centrodestra.

Questo rilancio può passare per un rafforzamento dell’azione di governo, che al momento, è inutile nasconderlo, è assai difficile; oppure, è più probabile, per un nuovo passaggio elettorale, rispetto al quale Berlusconi deve decidere se sia meglio per lui stare in prima linea per la sesta volta in vent’anni, sfidando qualsiasi ostacolo, le leggi di natura e le regole della politica, o altrimenti rassegnarsi a fare il famoso passo indietro, pronto magari a rifarne due avanti subito dopo.

Nessuna di queste decisioni è già presa. Ma a condizionarle giocheranno molto i risultati delle prossime elezioni amministrative, a cominciare da Milano, a cui il Cavaliere ha deciso di dare un valore politico nazionale. Non solo vuole vincere nella capitale del Nord da cui è partita nel 1994 la sua avanzata: ma è come se si rivolgesse al suo popolo, ai suoi elettori, con l’aria un po’ stanca con cui è apparso ieri sera nel salotto di Vespa, per dire che anche le sue inesauribili energie non sono infinite e stavolta ha bisogno di uno sforzo in più, di un aiuto pancia a terra da parte della sua gente, che non gli ha mai fatto mancare l’appoggio nei momenti difficili.

Con questa logica, e con buona pace di Tremonti e Alfano, Berlusconi ieri ha tutt’altro che annunciato la sua successione: ha solo messo a punto una studiata nuova tecnica di seduzione dei cittadini-telespettatori, i cui effetti misurerà di qui a poco nei sondaggi, e calato sul tavolo un’altra carta. Se anche questa mano del gioco gli va bene, può anche darsi che lasci Palazzo Chigi. Ma per puntare al Quirinale.

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« Risposta #304 inserito:: Maggio 10, 2011, 11:57:42 am »

10/5/2011 - TACCUINO

Se si attacca la magistratura per qualche voto in più

MARCELLO SORGI

Neppure la Giornata della Memoria dedicata dal Capo dello Stato ai magistrati vittime del terrorismo ha convinto Berlusconi a fermare la sua campagna contro i giudici. Anzi, a Milano per prendere parte a un’udienza del processo Mills, il Cavaliere ne ha approfittato per chiarire meglio il senso delle sue affermazioni.

Dunque, pieno rispetto per i magistrati caduti sotto il piombo delle Brigate rosse e delle altre formazioni terroristiche negli Anni Settanta e Ottanta, che il premier, davanti ai giornalisti, ha definito «eroi». E anche una chiara presa di distanza dai manifesti in cui si parlava di Br nelle procure. E ancora, parole di rispetto per il presidente Napolitano, dopo gli ultimi attriti relativi alla richiesta di un passaggio parlamentare dopo il rimpasto, che ha visto entrare nel governo deputati transfughi dall’opposizione.

Malgrado ciò Berlusconi non rinuncia alla sua campagna contro la procura di Milano (verso la quale, tra l’altro, a poca distanza da lui, la Santanchè ha lanciato attacchi irripetibili). Il premier insiste a presentarsi come la vittima numero uno di una persecuzione fin qui approdata a ben 24 processi, che lo hanno visto imputato e mai condannato (grazie anche, ma questo si guarda bene dal dirlo, alle numerose leggi ad personam che gli hanno consentito in alcuni casi di salvarsi con la prescrizione).

In realtà, dietro questa particolare contabilità giudiziaria c’è l’obiettivo del premier di focalizzare l’ultima settimana di campagna elettorale su Milano, che rappresenta la posta decisiva di tutta la tornata di amministrative, e in particolare sul potere della magistratura nella Capitale del Nord da cui partì quasi vent’anni fa Mani pulite. Sondaggi alla mano, Berlusconi è convinto che nel suo campo sia forte il timore di uno strapotere dei giudici, e che la coincidenza della ripresa dei processi e dei suoi lunedì in tribunale con la scadenza del voto renda ultrasensibili i suoi elettori a questi argomenti.

Di qui l’impostazione della campagna, non, o non esclusivamente, sullo scontro destra-sinistra o governo-opposizione, ma, appunto, sulla partita aperta con la magistratura e sul preteso potere dei giudici che giungerebbe a mettere in discussione il diritto dei cittadini a farsi governare da chi hanno scelto, e perfino degli imprenditori a muoversi in un regime di libera impresa. Argomento, quest’ultimo, che il premier ha sentito risuonare tra le file dei suoi ex colleghi specie dopo la sentenza sul caso Thyssen a Torino. E che ha subito messo a frutto in questi ultimi giorni di campagna in cui vuol far vestire ai giudici l’abito della vera, reale, opposizione.

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« Risposta #305 inserito:: Maggio 12, 2011, 10:55:54 am »

12/5/2011 - TACCUINO

Letizia copia la strategia del Capo


MARCELLO SORGI

Cominciata con la storia della casa del Pio Albergo Trivulzio concessa alla compagna di Pisapia, e con quella del figlio della Moratti dalla ristrutturazione un po’ dubbia, la campagna elettorale del sindaco di Milano e del suo avversario di centrosinistra, sulle cui spalle pesa quasi per intero il risultato delle elezioni amministrative di domenica, s’è praticamente conclusa ieri con un faccia a faccia dalla coda avvelenata su Sky-tg 24, la tv che più di tutte s’è impegnata a promuovere confronti in diretta tra i candidati.

L’accusa, subito rivelatasi errata, del sindaco a Pisapia, vittima in realtà di un errore giudiziario che è stato riconosciuto con una assoluzione, di aver subito una condanna per furto, ha infiammato solo alla fine un programma in cui i due candidati si erano misurati tranquillamente su tutti i problemi locali della città e dell’attualità, al punto che uno spettatore ignaro, che non avesse già letto sulle agenzie quel che era capitato alla fine della registrazione, poteva illudersi di prendere una boccata d’aria e di assistere a un raro esempio di confronto civile in una stagione di scontri giocati fin qui a colpi bassi. Il traffico, l’inquinamento, i trasporti pubblici, le prospettive di crescita (e i ritardi) legati all’Expo 2015, le differenze con le principali metropoli italiane: al novanta per cento il dibattito s’era svolto su questi temi, con un ostentato fair-play dei due protagonisti.

Successivamente, riconoscendo implicitamente di essere stata trascinata in errore da un appunto che le era stato fornito per utilizzarlo durante la discussione, la Moratti, che per tutto l’andamento del faccia a faccia si era condotta con grande calma e sicurezza, ha reagito con una nota imbarazzata all’annuncio di querela di Pisapia. Ma sul piano politico, anche se di qui a domenica ci sono ancora due (fino a venerdì, la scadenza formale dei comizi), e forse perfino quattro (fino a domenica, apertura dei seggi) giorni, un rush finale in cui, è sicuro, non ci sarà fatto mancare niente, l’episodio si segnala come un inutile, controproducente ancorché inevitabile, tentativo di adeguamento del sindaco Moratti fin qui segnalatosi per il suo stile al mood imposto da Berlusconi alla corsa per Milano, sulla quale il premier sa di giocarsi di tutto. Invano anche ieri il Capo dello Stato, in un incontro con gli studenti, ha ribadito il suo appello ad abbassare i toni di una campagna elettorale che ormai sembra definitivamente sfuggita di mano ai suoi protagonisti.

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« Risposta #306 inserito:: Maggio 15, 2011, 10:51:40 am »

Elezioni 2011

15/05/2011 - ELEZIONI 2011

La sfida del Capo prolungare in eterno il viale del tramonto

In fondo basta tenere Milano per reggere. E se prende Napoli...

MARCELLO SORGI

Da qualche tempo, e soprattutto in queste settimane di campagna elettorale, in Italia s’è ripreso a parlare del dopo-Berlusconi. Non sono solo i suoi avversari a discuterne, tentando, com’è logico, di approfittare di un momento di evidente logoramento del premier, in sella a fasi alterne da 17 anni e alle prese con una concentrazione di ritorno dei suoi guai giudiziari e con gli scarsi risultati del suo terzo governo, oltre che con le conseguenze negative della guerra in Libia.

Ne parlano, anzi sussurrano, continuamente, anche i berlusconiani, e a sorpresa, su un tema così delicato su cui in passato aveva preferito al più scherzare, è intervenuto anche lui, il Cavaliere: lanciando nell’agone, prima il giovane ministro Alfano come delfino, e poi il suo pesante collega Tremonti come candidato, «in primis», alla successione.

Di qui a dire che nella sua mente - e con il funzionamento così atipico che ha quella mente - Berlusconi si stia preparando davvero a passare la mano, o a ritirarsi in un ruolo più da «padre del partito» che non da combattente di prima linea, onestamente ce ne corre. La cosa più probabile è che, avvertendo le difficoltà di un passaggio elettorale assai complicato, il premier abbia voluto concentrare al massimo l’attenzione su se stesso e cercare di mobilitare fino all’ultimo il suo elettorato, trasformando, come altre volte, il voto, in un ennesimo referendum sulla sua persona.

Non si spiegherebbe altrimenti la tecnica della «scelta di campo» portata all’esasperazione, con la descrizione grottesca di un Paese che senza di lui finirebbe in mano a magistrati-brigatisti prima ancora che a governi comunisti pronti a imporre tasse patrimoniali, l’obiettivo del ridimensionamento dei poteri del Capo dello Stato e della Corte Costituzionale, i soli che abbiano fatto da argine alla sua avanzata senza fine, quando cercava di imporsi fuori dalle regole, e il dilagare su tutti i mezzi di informazione, anche a costo di un evidente squilibrio della par condicio prevista nel periodo preelettorale.

Ma si tratti appunto di una effettiva convinzione, della consapevolezza che anche per un uomo eccezionale come lui esistono dei limiti, fisici o temporali, o di un’altra rappresentazione, stavolta conviene prendere sul serio Berlusconi. E ragionare, di conseguenza, sulla possibilità che le elezioni amministrative - un test limitato, sia pure in città importanti -, nel caso in cui dovessero andar male al centrodestra, possano veramente significare una svolta, e in qualche modo l’inizio dell’uscita di scena, del leader che dal 1994 sta condizionando la politica italiana e il destino del Paese. Del resto, va in questa direzione l’esperienza del 2005, quando il Cavaliere, a un anno dalla fine della sua prima intera legislatura di governo, perse le regionali ponendo le premesse della sua sconfitta, di misura, del 2006. Pende inoltre a favore di questa tesi il fattore tempo e l’esiguità dei risultati dell’azione di governo, resa più difficile dalla rottura della maggioranza e dall’uscita dei finiani dal Pdl. Infine, anche il rapporto con la Lega è assai logorato, e nel Carroccio sempre più spesso si avverte la suggestione di presentarsi da soli nel 2013, per liberarsi dall’ipoteca berlusconiana.

E tuttavia, se questa sembra o è la posta in gioco, va valutata anche la possibilità che Berlusconi vinca, o almeno non perda, e che abbia scelto le amministrative per mettersi di nuovo in gioco proprio perché convinto che il campo di battaglia gli sia favorevole. Per misurare la vittoria o la sconfitta, infatti, sono state scelte convenzionalmente le quattro principali città in cui si vota per i sindaci: Torino, Milano, Bologna e Napoli. Considerato che solo una delle quattro - Milano - è attualmente amministrata dal centrodestra, mentre nelle altre tre governa il centrosinistra, a Berlusconi, per prevalere, basterà tenere Milano, dove malgrado tutto parte favorito, e conquistare Napoli, dove ha dato fondo a qualsiasi risorsa per vincere, compresa la promessa di bloccare le demolizioni delle case abusive. A ben guardare, non è un obiettivo impossibile. L’ipotesi che lo consegua in due turni, anziché in uno, è realistica, non è affatto da trascurare, servirà ad animare le due settimane che ci separano dalla domenica dei ballottaggi, a dire, a ripetere, a scrivere sui giornali, che Berlusconi non è più lo stesso e il ventennio berlusconiano si avvia alla fine. Se però il 29 maggio, a Milano e a Napoli, rivince lui, non resterà che ricordare Andreotti, il più longevo uomo politico della storia italiana, quando diceva: «Il viale del tramonto è lungo e bello, Dio me lo conservi!».

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« Risposta #307 inserito:: Maggio 19, 2011, 06:07:56 pm »

19/5/2011 - TACCUINO

Nel Pdl si cerca di alleviare il peso del Capo

MARCELLO SORGI

C’ era un candidato sindaco alternativo alla Moratti tra le file del Pdl milanese, in cui il timore della sconfitta, legata agli scarsi risultati dell’amministrazione e alle difficoltà di comunicazione con gli elettori di Donna Letizia, albergava da molto prima dell’inizio della campagna elettorale. Adesso che si tratta di fare quindici giorni di campagna ventre a terra per il ballottaggio, sapendo che sarà molto difficile rimontare un Pisapia ormai lanciato, si riaffaccia continuamente il ricordo di questa partita interna, che puntava a spostare dalla vicepresidenza della Camera a Palazzo Marino Maurizio Lupi, abile e sperimentato parlamentare della nuova generazione, e che Berlusconi in persona volle chiudere prima di cominciare, con l’argomento «Non mi sento di tradire un'amica come Letizia».

Lupi poteva farcela? E la rinuncia alla sua candidatura fu dovuta solo ai rapporti personali del Cavaliere con la Moratti, alla convinzione, poi rivelatasi illusione, che tanto con il suo aiuto anche una candidata debole poteva recuperare? O non piuttosto al dubbio che in una città in cui l’amministrazione regionale è da tempo in mano a un ex-leader di Comunione e liberazione come Formigoni, aggiungere un sindaco vicino a Cl avrebbe creato una concentrazione di potere interno al partito di quelle che al Cavaliere non piacciono?

Difficile trovare risposte, che del resto ormai sarebbero inutili, a queste domande. Lupi, più giovane e più avvezzo al contatto ravvicinato con qualsiasi genere di elettorato, anche quello popolare con cui la Moratti ha trovato difficoltà, avrebbe goduto anche di maggiori simpatie della Lega. Ma sulla sua mancata candidatura come sulla lealtà dei ciellini con il Pdl è difficile trovare riserve esplicite. Forse la questione vera è un’altra: in vista del ballottaggio milanese in cui, a meno di miracoli, Donna Letizia parte sfavorita, nel partito del premier, preoccupato che una seconda sconfitta possa ripercuotersi sul governo, si cominciano a mettere le mani avanti, per evitare, com'è accaduto lunedì, che tutto il peso di un risultato negativo si abbatta su Berlusconi. Impresa ardua, almeno quanto il tentativo di risalire al secondo turno la corrente contraria che ha generato il disastro di lunedì.

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« Risposta #308 inserito:: Maggio 20, 2011, 08:57:41 am »

18/5/2011 - TACCUINO

Il Terzo polo guarda a sinistra

Ma sottobanco

MARCELLO SORGI

L’annuncio del vertice del Terzo polo che oggi, con ogni probabilità, darà libertà di voto ai propri elettori nei ballottaggi, sta a significare che Casini, Fini e Rutelli si muoveranno, ove possibile, senza accordi espliciti, in aiuto al centrosinistra al secondo turno delle elezioni. Non lo diranno mai apertamente, ed anzi difenderanno fino all’ultimo la loro ufficiale scelta di non scegliere, ma ci sono vari indizi che fanno pensare che alla fine andrà così. Soprattutto a Milano e a Napoli, nelle due realtà dove, rispettivamente, un eventuale capovolgimento, o una conferma della tendenza manifestatasi domenica e lunedì, potrebbe consentire a Berlusconi di cancellare il brutto risultato del primo turno e proclamarsi vincitore.

Dall’interno del Fli si sono già levate le prime voci di Ronchi e Urso a favore di un ripensamento e di un appoggio ai candidati del centrodestra, ma Bocchino, premettendo che per i finiani sarebbe impossibile votare per un candidato della sinistra radicale come Pisapia, le ha subito qualificate come sortite personali. A trattare con il vincitore, intanto, pensa Tabacci, in nome della vecchia amicizia ambrosiana, suggerendogli anche - consiglio subito accolto - di fare la prima mossa a favore del candidato sindaco terzista battuto Palmieri. Pisapia ha aperto un canale di comunicazione anche con i grillini.

A Napoli la situazione è più complicata per le venature antipolitiche del candidato De Magistris, che ha fatto campagna contro tutti, a cominciare appunto dai terzisti, qui in gran parte ex democristiani provenienti da Margherita e Udc, e per la collocazione del partito di Casini nella giunta regionale a fianco del centrodestra. Ma quel dieci per cento di voti raccolti attorno al nome del rettore dell’Università di Salerno Pasquino fanno troppa gola a De Magistris, che ha già pronunciato, anche lui, un appello pubblico al Terzo polo.

Seppure nei ballottaggi non è automatico che gli elettori seguano le indicazioni dei leader dei partiti di riferimento, questa serie di movimenti, sotterranei e non, viene seguita con una certa apprensione da parte del Pdl. Lo schema di Berlusconi resta quello di spaccare il Terzo polo ed offrire a Casini la possibilità di tornare al governo con tutti gli onori. Ma è assai difficile che il leader dell’Udc accetti oggi di seguire la strada che considerava percorribile, a certe condizioni, a novembre, e che lo stesso Cavaliere ostruì con il suo rifiuto di aprire una crisi formale per rendere più evidente il passaggio a un esecutivo rinnovato. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e anche per Casini, ormai, la situazione è in movimento.

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« Risposta #309 inserito:: Maggio 21, 2011, 09:18:40 am »

20/5/2011

Ritorno alla Prima Repubblica

MARCELLO SORGI

La «verifica» annunciata ieri da Bossi all’uscita dal vertice con Berlusconi, in cui per la prima volta hanno discusso insieme del cattivo risultato delle amministrative, riporta in auge un antico termine, in voga negli anni della Prima Repubblica, quando appunto i governi duravano mediamente un anno e a metà del percorso spesso erano già cotti. In quei casi, appunto, i leader dei partiti e i capicorrente si raccoglievano attorno al capezzale dell’esecutivo malato per trovare una cura che, va detto, nove volte su dieci si rivelava inefficace e serviva solo a certificare l’inizio di un’agonia. La verifica, così, finiva quasi sempre in crisi. E dopo la crisi nasceva un altro governo.

Come possa adattarsi una procedura del genere a un contesto come quello della Seconda Repubblica e a un governo come quello di Berlusconi, è davvero difficile dire. Ma se Bossi, che del vecchio regime è l’ultimo esponente, ha deciso di usare quel termine, avrà pure le sue ragioni: rivelate, tra l’altro, dalla ricostruzione dello stesso vertice circolata in nottata.

Dopo settimane di gelo, in sostanza, i due leader una tantum si sarebbero trovati d’accordo nell’analizzare le ragioni della sconfitta. Inutile rinfacciarsela, e neppure scaricarla sulla Moratti, o su questa o quella componente del Pdl che non si sarebbe impegnata abbastanza, o sul tipo di campagna troppo politica e troppo aggressiva per una competizione municipale. Meglio ammettere chiaramente che la vera ragione del voltafaccia di larga parte dell’elettorato popolare del centrodestra sia stata dovuta agli effetti - o ai mancati effetti - delle politiche del governo. A cominciare, ovviamente, da quella economica, obbligata finché si vuole dalla crisi e dalla congiuntura europea, ma divenuta via via insostenibile per il grosso del blocco sociale che si aspettava da Berlusconi meno tasse e maggiori semplificazioni burocratiche, oltre che aiuti all’iniziativa d’impresa. E’ in questa delusione di buona parte dell’elettorato nordista, che voleva strumenti per uscire dalla crisi e ha visto invece il governo avvitarsi nello scontro con i giudici e nelle liti interne della maggioranza, che la sconfitta ha trovato le sue ragioni.

Ma se questo, per sommi capi, è ciò su cui Berlusconi e Bossi hanno concordato, rassegnandosi pertanto alla verifica e sperando di uscirne con un «nuovo progetto», piuttosto che con un nuovo governo, sulla prospettiva di fondo della fine della legislatura non si può dire che le visioni combacino. E non per polemica o per incompatibilità personale, dato che Bossi è convinto che al momento non ci siano alternative al governo e all’alleanza con Berlusconi. Il motivo per cui il Senatur, nel medio termine, potrebbe decidere di smarcarsi, magari offrendo solo un appoggio esterno del Carroccio al Cavaliere, sta nel dubbio che una diversa politica, meno rigorosa e più vicina alle aspettative degli elettori, sia praticabile nel contesto attuale; e che alla Lega, in una situazione del genere, convenga prendere le distanze e mettersi per conto proprio.

Ecco perché nei prossimi giorni vedremo Berlusconi e Bossi uniti e impegnati insieme a cercare di ribaltare in extremis, malgrado il pessimismo che li affligge, un risultato considerato da molti come l’inizio della fine. E subito dopo i ballottaggi li vedremo alle prese con una verifica assai difficile e che s’annuncia non diversa da quelle semestrali della Prima Repubblica. Alla fine della quale, per non dover litigare anche con Tremonti, Bossi, fin qui alleato-chiave del centrodestra, potrebbe andarsene per la sua strada.

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« Risposta #310 inserito:: Maggio 25, 2011, 04:27:35 pm »

25/5/2011 - TACCUINO

Perché Bossi ritorna alla pernacchia

MARCELLO SORGI

Nei giorni in cui Gianantonio Stella e Sergio Rizzo danno alle stampe un nuovo libro che raccoglie le più recenti e più pesanti battute di Berlusconi, spesso al limite del cattivo gusto, e ne illustra il degrado progressivo del linguaggio, bisognerà pur riflettere sul ritorno di Bossi alla pernacchia. La prima - ma chi lo conosce e lo segue da vicino assicura che non fosse affatto la prima - l'ha riservata qualche giorno fa al governatore della Lombardia Formigoni, formalmente un alleato anche se è arcinoto che non si possono patire. Formigoni, in una successiva intervista, ha assicurato che non intendeva replicare. La seconda, ieri, ai giornalisti che gli chiedevano dei referendum, sui quali il leader leghista non si era ancora pronunciato e dei quali ha detto in sostanza che erano colpa di Berlusconi, che non è riuscito per tempo a fare una legge sull'acqua.

Ora, chi appunto segue Bossi da più tempo assicura che un certo ricorso alle volgarità, alla gestualità oscena, al turpiloquio, non è una novità per il Senatur, convinto, probabilmente, anche se non esistono prove scientifiche, che questo linguaggio lo avvicini di più al suo elettorato. Bastino, come precedenti, il celodurismo, il gesto dell'ombrello rivolto già quasi vent'anni fa alla Boniver, e dopo la malattia che lo ha spinto, gioco forza, a misurare le parole, proprio le pernacchie. Dalle quali, spiega chi è più avvezzo a far previsioni in materia di Lega, non necessariamente si devono ricavare conclusioni affrettate su eventuali mutamenti di strategia di Bossi.

Stanchezza per una campagna elettorale durissima, consapevolezza, forse, che il risultato di Milano è ormai compromesso, preoccupazione per il calo della Lega al Nord, difficoltà di recuperare voti da un elettorato che, basta ascoltare Radio Padania, protesta per l'alleanza con Berlusconi rivelatasi deludente rispetto ai veri obiettivi della Lega: questo è in sostanza quel che frulla per la testa del Senatur, che tuttavia ha già fatto capire ai suoi che anche in caso di nuova sconfitta del centrodestra ai ballottaggi il Carroccio non ne trarrà conseguenze affrettate. Se ne ricava che Bossi non ha deciso, seppure non lo ha escluso, di fare una pernacchia anche a Berlusconi. Ma nel caso, per niente improbabile, in cui dovesse risolversi a fargliela nel prossimo futuro, di qui alle prossime elezioni politiche, a cui è più che possibile che la Lega decida di andare da sola, si può star certi che ci arriverà preparato.

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« Risposta #311 inserito:: Maggio 25, 2011, 05:05:44 pm »

24/5/2011 - TACCUINO

Quelle tre voci e la stanchezza della società

MARCELLO SORGI

Nei giorni in cui la campagna elettorale per i ballottaggi conosce le sue ore più drammatiche, con violenze verbali e fisiche che si alternano agli inutili tentativi di abbassare i toni, tre autorevoli voci super partes si alzano a spiegare il disagio dei cittadini di fronte al corpo e corpo che ha già spinto una parte considerevole degli elettori a disertare le urne. La prima è quella del cardinale Presidente della Cei Angelo Bagnasco, che già altre volte aveva espresso la sofferenza della Chiesa e dei cattolici per il degrado della politica, ma mai in termini così duri e ultimativi. Politica «inguardabile», ridotta a «litigio perenne», «recita scontata e noiosa», «vaniloquio», tra l'altro incoraggiata colpevolmente da una parte della stampa che fa il tifo e non è in grado di svolgere il compito che le spetta e richiamare al necessario senso di responsabilità. Come altre volte i vescovi non fanno distinzioni tra candidati e schieramenti e ripetono che è necessaria una sorta di rifondazione della classe politica, a partire da una nuova generazione.

La seconda voce è quella del Procuratore generale antimafia Pietro Grasso, solitamente molto prudente e stavolta invece esplicito, di fronte al ministro di giustizia Angelino Alfano, nel dire che il dialogo tra un governo che arriva a definire un cancro parte della magistratura e gli stessi giudici è difficile per non dire impossibile. Grasso arriva a correggere il Guardasigilli quando usa una citazione di Falcone, proprio nell’anniversario della strage di Capaci, per portare acqua al mulino della propria riforma.

La terza, ma ovviamente non in ordine di importanza, è quella del Capo dello Stato, che parlando davanti alla stampa estera ha nuovamente ammonito i politici dai rischi di un’eccessiva partigianeria e ha avvertito che anche se lo tirano per la giacchetta continuerà per la sua strada.

Naturalmente non c'è alcun diretto collegamento tra questi tre diversi interventi che solo una coincidenza ha voluto venissero pronunciati sullo sfondo della quintultima giornata di campagna elettorale - una delle peggiori, sia detto per inciso, degli ultimi anni. Il problema è che, lungi dal rappresentare qualsiasi posizione di parte, Bagnasco, Grasso e Napolitano riecheggiano lo stato d’animo di parti consistenti di società civile, di categorie, di cittadini elettori, che gli urli di questi giorni vorrebbero scuotere da un’apparente abulia e che invece si sono allontanati dalle urne perché non si riconoscono ormai nello scontro permanente del Paese in cui vivono e alla fine non sanno più che fare.

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« Risposta #312 inserito:: Maggio 26, 2011, 05:49:24 pm »

26/5/2011

La guerra civile del voto

MARCELLO SORGI

Se doveva servire a capovolgere i risultati del primo turno, deludenti per il centrodestra, la campagna elettorale per il ballottaggio, chiusa tra l’altro in anticipo ieri da Silvio Berlusconi con un ennesimo intervento in tv, difficilmente sortirà i suoi effetti.

Specie dopo che il premier, più esplicitamente, prima, davanti al vertice del suo partito, e con più cautela di fronte alle telecamere, ha scaricato la colpa della sconfitta, quella consumata e quella eventuale di lunedì, sulle spalle dei candidati sindaci di Milano e Napoli, lasciando così trasparire un suo insolito ancorché motivato pessimismo.

Per quanto cerchi di nasconderlo, Berlusconi infatti ha visto tutto ciò che è passato sotto gli occhi e le orecchie dei cittadini telespettatori negli ultimi giorni: il silenzio cupo, a cominciare dal suo, seguito alla «scoppola» di Milano, i mugugni della Lega Nord, la confusione nevrotica di proposte a chi più ne ha più ne metta, la disfida dei ministeri da trasferire, e su questo, ma non solo su questo, il Pdl diviso in fazioni che non solo si combattono apertamente, ma per la prima volta contestano il leader fin qui quasi indiscusso.

Dal sindaco di Roma Alemanno alla presidente della Regione Lazio Polverini, all’ex ministro Scajola, Berlusconi s’è trovato di fronte non, come aveva detto tante volte, a un partito che non c’è o è ancora da costruire; ma piuttosto a correnti strutturate e agguerrite che contestano quel che ha fatto finora, e il modo in cui intende muoversi in prospettiva. E per far capire fin dove possono arrivare, i capi di queste correnti, oltre a depositare le loro asce di guerra sulla scrivania del povero Letta, destinatario di tutte le lamentele, hanno cominciato a far circolare la possibilità di darsi anche un’identità precisa e alternativa a quella del Pdl, per poi trattare in Parlamento con chi ci sta.

Obiettivo di questa nuova fase di «mani libere», per usare una vecchia definizione da Prima Repubblica, da aprirsi all’indomani della nuova eventuale sconfitta, sarebbe, non, o non immediatamente, il governo, ma la possibilità di arrivare entro fine legislatura a una nuova legge elettorale che archiviando quella attuale maggioritaria e bipolare riapra i giochi a tutta una serie di partiti e partitini che nascerebbero dall’implosione di quello del presidente del Consiglio. Un ritorno all’antica: dal quale è difficile capire cosa potrebbe nascere in termini di assetto per governare il Paese. Ma che essendo fondato sul potere di veto dei piccoli verso i grandi, anche ammesso che i grandi sopravvivano, riporterebbe in vita l’instabilità già sperimentata dal sistema italiano per oltre quarant’anni.

C’è ovviamente molta presunzione nel credere che uno come Berlusconi si lasci liquidare con una sorta di colpo di Palazzo e non metta in campo tutta la forza che gli rimane e tutta la (scarsa, al momento) presa che ha ancora sull’elettorato per cercare di evitarlo. Ma a un gioco del genere, si capisce chiaramente, non è estranea neppure una parte del centrosinistra: quella centrista, che guarda con timore la nascita o la rinascita di un equilibrio di sinistra-sinistra, con ex Ds di prima fila che parlano chiaramente di una riunificazione con Vendola. Ma non solo: se è vero che D’Alema ha riproposto di recente l’ipotesi di una nuova legge elettorale di tipo tedesco guardata con simpatia dai post-democristiani di entrambe le sponde.

Ecco perché Berlusconi ieri sera a Porta a Porta ha detto che il Porcellum attualmente in vigore va bene così com’è. E perché ha riproposto pari pari il pacchetto di riforme del centrodestra - fisco, giustizia, Sud, architettura dello Stato - attualmente arenate in Parlamento. Che una tornata di amministrative potesse risolversi addirittura nella fine anticipata della Seconda Repubblica, non poteva prevederlo lui, né forse nessun altro. Ma che, comunque vadano i ballottaggi, di qui alla fine della legislatura Berlusconi cercherà di impedirlo con ogni mezzo, anche a costo di continuare la guerra civile in cui si sono trasformate queste elezioni, questo, purtroppo, è sicuro.

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« Risposta #313 inserito:: Maggio 31, 2011, 03:48:22 pm »

31/5/2011

Berlusconi, le risposte che deve al Paese

MARCELLO SORGI

Sconfitti duramente anche nei ballottaggi e nella Milano città-simbolo da cui tutto era cominciato diciassette anni fa, Berlusconi e il berlusconismo sono davvero da considerarsi finiti? Il premier da Bucarest risponde di no, assicura che l’asse con Bossi reggerà e il rilancio del governo è possibile. E anche se è lecito nutrire dubbi su un leader che dopo anni di straordinaria sintonia con gli umori popolari, adesso non si rende conto che il suo rapporto con l’opinione pubblica è compromesso, occorre sempre ricordarsi che Berlusconi è apparso altre volte sull’orlo del precipizio, salvo poi riuscire a ritrarsene.

Era ridotto anche peggio nel 2005, alla fine della sua prima legislatura di governo e delle elezioni in quindici regioni su venti. Eppure nel 2006, quando fu battuto da Prodi, perse per soli ventiquattromila voti e dopo soli due anni riottenne la vittoria e il governo. Forse la vera domanda da porsi è dunque: può anche stavolta bissare il miracolo, e cosa potrebbe e dovrebbe fare realmente per riprendersi? Può seriamente pensare di salvarsi grazie a Bossi, che proprio in questi giorni ha confessato ai suoi che resta alleato di Berlusconi solo «perché c’è ancora tanta mobilia da portar via»? Può credere ulteriormente nell’alleanza con i «Responsabili» talmente volatile che una sottosegretaria appena nominata s’è dimessa proprio alla vigilia del voto? Può considerare la giustizia il primo punto del suo nuovo programma, anche se è chiaro che il problema lo riguarda da vicino e per gran parte dei cittadini le questioni più urgenti sono altre?

Sono interrogativi che ormai esplicitamente, anche all’interno del Pdl, tutti si pongono. In un partito normale e in una situazione normale un leader che ha fatto il suo tempo e ha subito uno schiaffo elettorale come quello delle amministrative verrebbe accompagnato alla porta. Ma Berlusconi, del suo partito, è ancora il padre-padrone. Ecco perché è possibile che nell’immediato possa resistere e imporre la sua visione delle cose. Molto dipenderà dal modo e dai contenuti delle sue proposte. Ma al momento, è sicuro, anche gli uomini a lui più vicini, quelli che hanno condiviso fin qui la sua avventura a qualsiasi prezzo, su almeno due punti si aspettano risposte chiare.

Il primo, ovviamente, riguarda il governo. Se non vuole lasciare Palazzo Chigi, è necessario che Berlusconi faccia capire di non sentirsi più il candidato premier del prossimo futuro. Scelga Tremonti o Alfano come suo vice e possibile successore. Accrediti e faccia apparire uno dei due come possibile perno di una svolta che non può più essere rinviata. Oppure, se non ne è convinto e vuole costruire diversamente la successione, proponga un metodo, con regole e tempi chiari. Nel centrodestra c’è ormai chi parla apertamente di primarie, metodo rivelatosi vincente, malgrado le incognite, per il centrosinistra. Berlusconi deve dire cosa ne pensa, e nell’eventualità che questa sia la scelta, se accetterebbe di non candidarsi in prima persona. Inoltre, valuti nuove priorità per il programma di fine legislatura, obiettivi realistici e visibili, risultati stabili e non provvisori, com’è stato appunto per il terremoto dell’Aquila e i rifiuti di Napoli. Dica la verità sull’economia: se è vero che il governo dovrà fare manovre molto rigorose nei prossimi tre anni per rientrare nei parametri europei, non cerchi di nasconderlo; e soprattutto non prometta tagli delle tasse se sa che non saranno possibili.

Il secondo punto è il partito. Giunte sull’onda della sconfitta, le dimissioni di Bondi, uno dei tre contestatissimi coordinatori del Pdl, hanno dato la sensazione che qualcosa finalmente sia in movimento e che sia direttamente Berlusconi (Bondi non se ne sarebbe mai andato senza il suo consenso) ad aver rimesso in moto tutto. Se è così, lo dica chiaro. Prenda immediatamente le distanze da tutte le soluzioni improbabili, stile Prima Repubblica, che alla vigilia del voto gli sono piovute sul tavolo. Il congresso proposto da La Russa. Il direttorio delle correnti propugnato da Frattini. La rifondazione democristiana sognata dai transfughi dell’Udc. Se pensa, come certe volte si fa scappare tra i muri di Palazzo Grazioli, che un partito così non è che non sia mai nato, ma è già bell’e morto, lo sciolga e lo rifondi: magari non dal predellino di una Mercedes, ma a partire da un manifesto, cinque o sei punti credibili e adeguati alla situazione, scritti e illustrati da personalità di un certo livello. Mentre è indispensabile che faccia saltare l’equilibrio delle correnti e dei notabili, interni, esterni e con un piede dentro e uno fuori, non è necessario che la rinascita avvenga solo a partire dai giovani. Nella Forza Italia delle origini c’erano tante persone autorevoli di cui non s’è mai capito perché siano state messe da parte, gli Urbani, i Martino, i Pera, solo per fare qualche esempio, che avevano dato al partito l’identità liberale di massa della prima ora e furono travolti dalla fusione con i postfascisti.

Già solo la metà di queste cose potrebbe dare la sensazione che Berlusconi vuol fare sul serio, riaprendo, a partire dai contenuti, il confronto con i moderati del Terzo polo, che hanno incassato platealmente la sua sconfitta ma non hanno potuto celebrare la loro vittoria. Ma sarà in grado, logorato com’è, il Cavaliere, di avviare una fase nuova? Ha due anni di tempo e di fronte un centrosinistra che già ieri sera, fin dai primi commenti, ha svelato due anime contrastanti: quella prudente di Bersani, che più che a un assalto finale alla diligenza pensa a un governo d’emergenza, per chiudere già in questa legislatura la ventennale era berlusconiana. E quella baldanzosa di Vendola e della sinistra radicale, che sognano nuove elezioni per tornare in Parlamento, portando all’incasso i risultati della vittoriosa corsa dei sindaci.

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« Risposta #314 inserito:: Giugno 01, 2011, 06:02:27 pm »

1/6/2011 - TACCUINO

Da Napoli l'unica novità del voto

MARCELLO SORGI

All’indomani della sua elezione plebiscitaria, le dimissioni di De Magistris dal suo partito, l’Italia dei Valori, sono l’unica notizia fornita dal neo sindaco di Napoli. L’ex magistrato l’ha spiegata bene, dicendo che lascerà anche il seggio di europarlamentare, e che il ruolo ricoperto nel partito – ovviamente, quello di responsabile dei problemi della giustizia – era incompatibile con i compiti che lo attendono. Ma a parte il fatto che essere sindaco è una carica amministrativa che fa riferimento a una maggioranza e ha contro un’opposizione, cioè qualcosa di diverso dalle cariche istituzionali che richiedono la rinuncia a un’appartenenza (e questa è la ragione per cui ci sono un sacco di sindaci del Pdl, del Pd, o di altri partiti che si tengono la tessera), la decisione di De Magistris sembra più facile da spiegare come logica conseguenza di una campagna elettorale, proprio la sua, giocata al primo turno tutta contro il Pd e al secondo contro il Pdl, e più in generale contro la partitocrazia. In questo senso De Magistris non è il primo, ma forse rappresenta l’esempio più riuscito, di sindaco antipolitico e antipartitocratico, che ha costruito nelle urne una sua maggioranza autonoma e ha preso giustamente tempo prima di decidere la sua giunta, perché sa che seppure con i partiti dovrà convivere, a livello locale e nazionale, ogni compromesso in quel campo sarà giudicato severamente dall’elettorato e dalla cittadinanza napoletana, disperata ed esausta per le promesse subite e non mantenute.

Si tratta di un esperimento nuovo e difficile da realizzare. Ma De Magistris ha dimostrato di avere capacità e fegato necessari per portarlo a termine. Quel che resta da capire, a parte l’ambizione logica di dimostrare che così Napoli può essere amministrata meglio di quel che hanno fatto le vecchie amministrazioni politiche classiche, è dove possa poi puntare, se le cose andranno come spera, il candidato che a sorpresa ha capovolto più di tutti il risultato elettorale, dando trenta punti di distacco al suo avversario, ed è diventato tutto insieme il capo di un nuovo partito personale. Su questo, De Magistris è comprensibilmente abbottonato. Ma alle prossime primarie del centrosinistra, quelle che al più tardi entro un anno dovranno laureare il prossimo aspirante premier, si può scommettere che accanto a Renzi, il sindaco di Firenze che ha già annunciato che entrerà in corsa, ci sarà anche il nuovo sindaco di Napoli.

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