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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288394 volte)
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« Risposta #270 inserito:: Marzo 02, 2011, 06:42:30 pm »

2/3/2011 - TACCUINO

Gianfranco preso nella tenaglia

MARCELLO SORGI


La lettera con cui i capigruppo della maggioranza hanno chiesto ieri a Fini di sollevare conflitto di attribuzione contro i giudici di Milano inaugura l'offensiva politico-giudiziaria di Berlusconi per la verità fin troppo annunciata, dopo il rinvio a giudizio per il caso Ruby e dopo la ripresa dei processi contro di lui. L'iniziativa del centrodestra punta innanzitutto sul Presidente della Camera, schierato per la prima volta in una circostanza del genere contro il premier.

In tutti i casi precedenti infatti Fini, che era ancora dentro il Fli, sia pure facendo pesare le sue riserve, alla fine aveva agevolato le soluzioni trovate volta per volta e l'approvazione delle leggi ad personam grazie alle quali il Cavaliere era riuscito fin qui ad arginare i suoi problemi giudiziari. Oltre alla presidenza della Camera, cui spetta l'ultima parola nella decisione di sollevare il conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, Fini controlla grazie a Giulia Bongiorno la presidenza della commissione giustizia, dove arriveranno tra poco anche i testi di legge messi a punto dal ministro di giustizia Alfano, da Ghedini e dai legali del premier per intervenire sui procedimenti in corso, con termini di prescrizione accorciati e con il varo del processo breve, calendarizzato per il 14.

Se frena o si oppone, Fini rischia di trovarsi addosso l'intero centrodestra che da settimane - s'è visto nell'ultima seduta a Montecitorio con l'intervento del capogruppo pdl Cicchitto - lo contesta e pone il problema del conflitto tra i doveri di imparzialità connessi alla carica istituzionale che ricopre e il suo ruolo di leader di un partito d'opposizione. Se invece dà segni di cedimento, o accetta di sottoscrivere in modo notarile la richiesta di sollevare il conflitto, Fini si troverà contro il resto dell'opposizione, che si prepara a cavalcare la campagna berlusconiana sulla giustizia con iniziative durissime contro il premier.

Siamo solo agli inizi. Superato il voto di fiducia sul federalismo, lo scontro sulla giustizia che già s'annuncia difficilmente si fermerà nei confini delle aule parlamentari.

Dopo l'ultimo attacco del Cavaliere allo staff del Quirinale, il rischio che ormai tutti paventano, in attesa che la guerra ricominci, è che alla fine i diversi fronti schierati - governo e maggioranza, magistratura, opposizione - premano sul Capo dello Stato per un compromesso che già ora si presenta impossibile.

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« Risposta #271 inserito:: Marzo 03, 2011, 03:10:11 pm »

3/3/2011 - TACCUINO

Il destino del premier è nelle mani di Gianfranco


MARCELLO SORGI

Sarà molto più difficile del previsto per Berlusconi ottenere che la Camera sollevi conflitto di attribuzione contro i magistrati di Milano in ordine al processo sul caso Ruby. Ieri Gianfranco Fini ha illustrato la complessa procedura prevista dai regolamenti e dalla prassi di Montecitorio. Fini, che ha già investito la giunta per le autorizzazioni a procedere del problema, intende infatti ottenere, prima di sottoporre il problema all'ufficio di presidenza, anche un parere della giunta per il regolamento. Parere che, data la composizione di quest'organismo, si preannuncia negativo.

Sui tavoli dei membri dell'ufficio di presidenza arriverebbero dunque, non prima di una decina di giorni, due opinioni contrastanti: quella della giunta per le autorizzazioni a procedere, prevedibilmente più favorevole a sollevare il conflitto, dato che l'aula della Camera s'è già espressa contro le iniziative dei giudici di Milano quando ha votato contro l'autorizzazione alla perquisizione negli uffici del ragionier Spinelli, l'amministratore di Berlusconi che pagava le ragazze dopo le feste ad Arcore. E quella, prevedibilmente contraria, della giunta per il regolamento, in cui le opposizioni hanno i numeri per prevalere, e che probabilmente, Fini lo ha già preannunciato, suggerirà che sia solo l'ufficio di presidenza, e non anche l'assemblea dei deputati, a pronunciarsi alla fine sulla decisione di sollevare il conflitto.

Ma anche la composizione dell'ufficio di presidenza è sfavorevole a Berlusconi: attualmente infatti le opposizioni prevalgono per dieci membri a otto. E seppure si dovesse decidere di farvi entrare un rappresentante del nuovo gruppo dei «responsabili», i due schieramenti sarebbero pari, nove a nove. Inoltre se Fini, che presiede, decidesse di non pronunciarsi, com'è prassi, l'organismo non sarebbe in grado di determinare la decisione e in mancanza di un intervento dell'aula, dove Berlusconi invece la maggioranza ce l'ha, la discussione dovrebbe chiudersi lì.

La posizione di Fini sembrava proprio per mettere le mani avanti ed avvertire Berlusconi che il cammino verso la Corte costituzionale è in salita. Ma naturalmente, se le cose andassero com'è stato scritto, il conflitto negato davanti alla Consulta si riaprirebbe immediatamente tra la maggioranza e la presidenza della Camera. Fini dunque ha lasciato intendere che, come gli spetta, si riserva la decisione finale: che sarà, manco a dirlo, in un senso o nell'altro, a sorpresa. Il destino di Berlusconi più che mai è nelle mani del suo più fiero avversario.

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« Risposta #272 inserito:: Marzo 04, 2011, 06:43:44 pm »

4/3/2011 - TACCUINO

Referendum, i rischi del voto politico

MARCELLO SORGI

La decisione del ministro dell'interno Maroni di fissare le elezioni amministrative il 15 e 16 maggio (con ballottaggi il 29 e 30) condanna i referendum, che dovrebbero svolgersi il 12 giugno, a una probabile morte per astensione e mancanza di quorum.

Le consultazioni ammesse dalla Corte costituzionale riguardano la privatizzazione degli acquedotti, il ritorno al nucleare e il legittimo impedimento. Se, come chiedono i promotori, fossero abbinati al secondo turno delle amministrative, aumenterebbero le probabilità di raggiungimento del quorum della metà più uno degli elettori, necessario per rendere valido il voto referendario. Se invece, com'è quasi certo, il governo alla fine imporrà il 12 giugno, la morte dei referendum per scarsa affluenza alle urne sarebbe difficile da evitare.

Maroni ha spiegato che intende rifarsi a una prassi consolidata che ha visto nelle ultime tornate elezioni e referendum separati nelle urne. La legge prescrive che le consultazioni referendarie si svolgano in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno, e la scelta del 12, seppure al limite, rientra tranquillamente nelle previsioni. Con i precedenti dalla sua parte, il ministro dell'interno non si farà convincere dalle proteste dell'opposizione e dei promotori dei referendum, che denunciano anche i costi aggiuntivi di voti separati.

Ma questa volta non è proprio del tutto scontato che i referendum debbano fallire. La collocazione in una domenica di inizio estate, certo, penalizza in partenza l'affluenza. Ma dei tre voti previsti - acqua, nucleare e legittimo impedimento - il terzo si presta ad essere politicizzato e trasformato in un referendum su Berlusconi. Anche se la legge-salvacondotto per i processi del premier è stata già ridimensionata dalla Corte costituzionale e cesserà i suoi effetti in autunno, la consultazione potrebbe subire un surriscaldamento a causa dell'andamento dei processo a Berlusconi e della battaglia, già cominciata, sul caso Ruby.

In altre parole se il Cavaliere in un modo o nell'altro, con il conflitto di attribuzione o con nuove leggi ad personam, riuscisse a fermare il procedimento, già convocato per il 6 aprile a Milano, il successivo voto referendario si trasformerebbe in un'occasione di rivincita per quella larga parte di opinione pubblica che vuole invece il presidente del consiglio processato e condannato. Un referendum su Berlusconi: che magari, come altre volte, lo stesso Berlusconi potrebbe vincere, ma del quale, nel dubbio che la mobilitazione contro di lui faccia raggiungere il quorum, non potrebbe certo disinteressarsi, puntando sull'astensione.

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« Risposta #273 inserito:: Marzo 08, 2011, 06:39:09 pm »

8/3/2011 - TACCUINO

Sulla giustizia Berlusconi disorienta il Pd

MARCELLO SORGI

Anche se il Pd si comporta come se non esistesse, e prepara una mobilitazione di massa sul genere di quella dei dieci milioni di firme appena raccolte, il cambiamento di strategia di Berlusconi sulla giustizia è evidente. Al momento, il Cavaliere rinuncia alle leggi ad personam e sceglie la strada della riforma costituzionale, accompagnandola con l'impegno a presenziare ai processi che lo riguardano, e concordando il calendario delle udienze, come ha chiesto la Corte costituzionale, in una cornice di "leale collaborazione".

Naturalmente non è detto che questa strategia regga, ed anzi Berlusconi proprio su questa materia ha abituato a bruschi cambi di idea.
Ma finché la linea non cambia - e la solennità con cui è stato annunciato il Consiglio dei ministri straordinario di giovedì che dovrebbe varare il testo della riforma va in quel senso -, la novità esiste e occorre farci i conti. L'approccio costituzionale a una riforma che contiene alcuni punti su cui anche il centrosinistra s'è esercitato in passato (sia pure in una fase terminale della legislatura, mentre sarebbe stato meglio pensarci all'inizio) suona comunque come una sfida che il governo pone a se stesso, recuperando uno dei capisaldi del suo programma e trovando su questo nuovamente l'intesa con la Lega.

E la presenza annunciata alle udienze di Milano è sì ricca di incognite, ma in tutti i sensi.
Se la Procura di Milano aveva pensato a una riedizione del famoso procedimento per la maxi-tangente Enimont che segnò il tramonto di tutto il gruppo dirigente della Prima Repubblica, dovrà presto rendersi conto che non sarà facile riproporre un evento del genere.
In particolare per il processo sul caso Ruby che dovrebbe aprirsi il 6 aprile e presto trasformarsi in una sfilata di escort e personaggi da reality-show, chiamati a confermare o a smentire il contenuto delle intercettazioni.

L'ingresso in un teatro del genere di un supercomunicatore come Berlusconi rischia di avere effetti imprevedibili. Diciotto anni fa infatti era di scena la corruzione di un intero sistema. Qui si tratta di trasformare in reati le debolezze private di un premier settantaquattrenne, che lavorerà dal primo momento all'ultimo delle udienze per apparire come un perseguitato. L'idea di riproporre questo come un nuovo grande processo al Palazzo, dato lo squallore dell'insieme e l'amplificazione che ne faranno le tv di tutto il mondo, potrebbe alla fine trasformarsi in un boomerang, anche contro la volontà degli stessi magistrati che lo hanno imbastito.

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« Risposta #274 inserito:: Marzo 09, 2011, 06:46:15 pm »

9/3/2011 - TACCUINO

La politica del cortile di casa

MARCELLO SORGI

Si tratti di un vecchio conto personale, oppure, speriamo di no, di qualcosa di più serio, lo scontro Gheddafi-Bossi - con l’oscuro riferimento del colonnello libico agli aiuti chiesti dalla Lega per la secessione e la maledizione lanciata dal leader del Carroccio contro il ras di Tripoli - s’impone all’attenzione, pur nel quadro tragico della difficile crisi internazionale, per due pesanti motivi.

Il primo è un dato di fatto: se con tutti i guai che ha, e sentendosi con qualche ragione tradito più dall’Italia, che gli aveva offerto un’amicizia smodata, che da tutti gli altri partner che di recente lo avevano riabilitato, Gheddafi se l’è presa con Bossi e non con Berlusconi, dev’esserci sotto qualcosa. Dio non voglia che la storia subito rispolverata di una missione del Carroccio di qualche anno fa, per chiedere finanziamenti al ricco dirimpettaio africano, non debba mostrare maggior consistenza di quanto la stessa leggenda leghista le attribuisce. Ma il secondo motivo è più grave: lo scontro Gheddafi-Bossi rivela e sottolinea purtroppo una carenza cronica che un partito come la Lega, dopo 25 anni di partecipazione alla vita politica nazionale, di cui dieci, circa, al governo, e con responsabilità di primo piano, non può più consentirsi.

Si tratta della mancanza di una politica estera, o peggio di una concezione della stessa basata su una sorta di empirismo senza principi e su piccole convenienze domestiche. L’idea che la collocazione internazionale, le alleanze, i valori condivisi dello stare con una parte o con l’altra del mondo, siano in sostanza indifferenti e vadano misurati, come tutto, con il fatturato politico contingente.

Nessuno ha ancora capito, ad esempio, dopo oltre un decennio, cosa sia andato a fare Bossi nel bel mezzo della crisi del Kosovo a Belgrado a parlare con Milosevic, quando appunto la Nato - e l’Italia di conseguenza - stavano per dichiarargli guerra. E neppure perché una sera a un Tg1 di qualche anno fa il ministro Calderoli abbia pensato di mettere in scena un siparietto per niente divertente, scoprendo all’improvviso sul suo torace una maglietta anti-Islam e fingendo di non accorgersi che così dava luogo a una provocazione che in quel momento creava il rischio di una rappresaglia terroristica verso l’Italia dei settori più radicali del fondamentalismo islamico.

Allo stesso modo, nessuno ha contestato in questi anni l’atteggiamento euroscettico, spinto fino al corteggiamento dei partiti xenofobi olandesi o austriaci, ostentato dal Carroccio. Si è preferito colpevolmente passarci sopra, soprattutto da parte di Berlusconi. Ma è una pura illusione ritenere che queste posizioni possano essere facilmente dimenticate, o non pesare per niente in Europa, ora che il ministro dell’Interno Maroni si trova ragionevolmente a chiedere ogni giorno un intervento della Comunità europea per affrontare l’emergenza umanitaria dei profughi africani.

Inoltre la stessa questione viene riproposta quotidianamente con toni e in termini via via più pressanti, ma sempre e solo con riferimento alla questione dell’arrivo in massa degli immigrati a Lampedusa. Ritenere di aver risolto tutto con la politica dei respingimenti, così tante volte vantata dallo stesso Maroni nei mesi scorsi, e sorprendersi adesso del riproporsi dell’allarme, è un altro esempio di mancata comprensione della portata globale e internazionale del problema. La Lega in altre parole dà l’impressione di dovere e di voler rispondere del ritorno dei barconi carichi di disperati solo agli elettori nordisti: ai quali, con una superficialità inadeguata al ruolo nazionale che ricopre, riteneva di aver fatto credere di averli dirottati una volta e per tutte su altri lidi. Va detto: la politica degli annunci, della comunicazione quotidiana, degli obiettivi raggiunti solo sulla carta o davanti alle telecamere, non è solo della Lega. E’ una cattiva abitudine comune purtroppo a tutti i partiti di maggioranza e d’opposizione. Ma il complicato frangente in cui l’Italia s’è trovata all’improvviso, con la costa più vicina a uno dei nostri confini infiammata da rivolte e da un vento di destabilizzazione che non è chiaro fin dove potrà arrivare, richiede in questo momento un di più di responsabilità. Capire, per esempio - ed è difficile che Bossi e Maroni, almeno in privato, non se ne rendano conto - che in uno scenario del genere l’Italia non è più arbitra da sola del proprio destino, che ha il dovere di stare al mondo come un Paese importante, strategico sia per collocazione geografica che per rapporti antichi e consolidati con l’area entrata in fibrillazione e con i suoi popoli e i suoi governi, ex o traballanti che siano. Un ruolo che richiede, oggi più che mai, di fare quel che si deve e non ciò che si vuole, senza fughe in avanti né di lato, e soprattutto senza stravaganze. Sapendo che alla fine ci toccherà di sicuro pagare per quel che sta accadendo un prezzo più o meno grande, e comunque non collegabile con l’esito non trascurabile, ma neppure così importante, delle elezioni amministrative a Varese o nei Comuni limitrofi.

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« Risposta #275 inserito:: Marzo 10, 2011, 06:28:28 pm »

10/3/2011 - TACCUINO

Al Pdl conviene avere il Colle come alleato

MARCELLO SORGI

Nel giorno dell’anteprima della riforma costituzionale della giustizia, presentata al Quirinale dal ministro Angelino Alfano, il Presidente della Repubblica, che aveva lasciato trapelare la propria irritazione per il ritardo con cui era stato messo a parte del progetto del governo, ha accolto ieri con attenzione l'illustrazione che gli è stata fatta.

La differenza tra questo atteggiamento di Napolitano e la rottura decisa ieri da Bersani sullo stesso tema, prima ancora che il testo della riforma sia ufficializzato, era evidente. Il leader Pd ha liquidato l'iniziativa del governo come una copertura di una nuova stagione di leggi «ad personam», che Berlusconi si accingerebbe a varare per salvarsi dai processi di Milano. Ma se Napolitano invece ha deciso di assumere un atteggiamento di cauta apertura non è solo per dovere «istituzionale». L'approccio di sistema ai problemi della giustizia corrisponde da sempre a una convinzione di fondo che il Presidente della Repubblica non ha mai nascosto. Nei vent’anni di transizione infinita tra Prima e Seconda Repubblica, vissuti nei ruoli-chiave di Presidente della Camera e ministro dell’Interno, Napolitano ha maturato la convinzione che un riequilibrio nei rapporti tra politica e giudici sia necessario e il modo di arrivarci sia quello di una riforma il più possibile condivisa.

In questo senso il Colle potrebbe rivelarsi un imprevisto e decisivo alleato di Palazzo Chigi nell’ennesimo tentativo di intervenire in un settore su cui finora si son rotti le ossa tutti i governi succedutisi da Tangentopoli ad oggi. Ad un patto però, anzi a due. Il primo è che Alfano, e prima di lui Berlusconi, tengano fede all'impegno, sbandierato in questi giorni, di procedere alla riforma senza avviare su canali paralleli provvedimenti parziali, come appunto le famose leggi ad personam, mirati a bloccare i processi del premier. E il secondo è che il governo s'impegni testardamente a cercare un confronto con tutte le forze politiche e con quella parte della magistratura che non condivide le chiusure pregiudiziali dell’Anm, il sindacato dei giudici, e ritiene di avere qualcosa da dire per migliorare i testi proposti. Sono due condizioni non facili da realizzare. Ed infatti ieri sera, malgrado l'ottimismo del ministro all'uscita dal Quirinale, non erano in tanti nei corridoi di Montecitorio a scommettere che la riforma vedrà veramente la luce.

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« Risposta #276 inserito:: Marzo 11, 2011, 04:25:22 pm »

11/3/2011 - TACCUINO

Il dilemma del centrosinistra e i dubbi sul muro contro muro

MARCELLO SORGI

L’avvio della riforma costituzionale della giustizia vede Berlusconi (benché incerottato) e Alfano in accelerata e il Pd in imbarazzo. Il premier e il ministro della Giustizia giocano di complemento, il Cavaliere parlando della riforma come dell'occasione della sua vita politica e Alfano attento invece ad intercettare tutti i possibili accenni di dialogo provenienti dalle opposizioni.

I sondaggi del resto parlano chiaro: una maggioranza ampia di cittadini è a favore dei cambiamenti in materia di giustizia e una ancor più larga vede bene il ridisegno dei confini tra politici e magistrati. Oltre ad apparire conservatrice e a lasciare al centrodestra la palma dello schieramento riformatore, un "no" secco alla riforma rischierebbe quindi di essere impopolare. Il Terzo Polo, con Rutelli, apre, sia pure tenendosi a distanza da alcune delle frasi, come quelle contro Mani pulite, adoperate da Berlusconi in conferenza stampa. D'Alema prova a sostenere la chiusura pregiudiziale del giorno prima, dicendo che solo se Berlusconi si fa da parte il confronto sulla giustizia può cominciare. Ma a mettere in imbarazzo il Pd sono le dichiarazioni con cui Marco Boato, che fu relatore in materia di giustizia nella Bicamerale presieduta proprio da D'Alema, ricorda che il testo proposto dal governo ha molti punti coincidenti con l'ultimo tentativo bipartisan di riformare la Costituzione.

Che anche nel centrosinistra sia in corso un ripensamento lo dimostra in serata il confronto diretto a Porta a porta tra Alfano e la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro. Dopo una scaramuccia iniziale, è chiaro che nel merito ci sono possibilità di convergenza, a cominciare, ad esempio, dall'ipotesi di sottrarre al Csm le procedure disciplinari per i giudici e affidarle a un organo terzo, un'Alta Corte, a cui l'esponente dell'opposizione vorrebbe dare, nel caso in cui siano reintrodotte, anche la competenza in materia di immunità parlamentare e di autorizzazione a procedere. Restano le distanze a proposito della limitazione dell'obbligatorietà dell'azione penale e della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistratura giudicante. Ma anche su questo le numerose bozze di riforme tentate in passato dal centrosinistra prevedevano una diversificazione delle funzioni e una sorta di sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura. Litigare quando si dicono quasi le stesse cose è difficile. Ma non impossibile, se c'è la volontà politica di farlo a tutti i costi e soprattutto se c'è Berlusconi di mezzo.

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« Risposta #277 inserito:: Marzo 15, 2011, 04:59:37 pm »

15/3/2011 - TACCUINO

Per il Cavaliere effetto tsunami via referendum

MARCELLO SORGI

Il terremoto in Giappone e la paura di una contaminazione nucleare per i guasti provocati dal sisma nelle centrali sta riproponendo in Italia qualcosa di simile all'effetto Cernobil, che nel 1986, ormai venticinque anni fa, portò l'Italia alle urne per il primo referendum, e per un secco «no» allo sviluppo dell'energia nucleare.

Stavolta, fino a prima del terremoto e delle sue terribili conseguenze, sul nuovo referendum sul nucleare, previsto per il 12 giugno insieme a quelli sul legittimo impedimento e sulla privatizzazione dei servizi di distribuzione dell'acqua, nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato, data la difficoltà di portare ai seggi in una domenica estiva la metà più uno degli elettori indispensabile per la validità delle consultazioni. E' questo rigido quorum, come si sa, che ha portato sistematicamente negli ultimi dodici anni i referendum al fallimento e i loro promotori a convocarli nel tentativo, impossibile finora, di superarne la crisi trovando il modo di mobilitare i cittadini.

L'occasione insperata di riuscirci è data proprio dall'incubo nucleare. I tentativi di minimizzare gli effetti del sisma sulle centrali giapponesi, dopo i primi giorni, si sono infatti rivelati via via sempre più impacciati. Mentre le autorità giapponesi ricorrevano a black-out programmati per la scarsità di energia disponibile dovuta allo spegnimento delle centrali, ieri in Germania la Merkel ha annunciato a sua volta il blocco di due impianti giudicati obsoleti e da sottoporre ad accurata revisione.

Il combinato disposto del disastro giapponese e della decisione della cancelliera, dovuta, fin troppo evidentemente anche a una pressione dell'opinione pubblica tedesca, è destinato a ripercuotersi in Italia con un effetto di mobilitazione sugli elettori, ai quali non sembrerà vero poter ribadire il loro atteggiamento antinuclearista in una consultazione nata in tutt'altro clima e circostanze. E ancora, con la probabile, ancorché imprevista, riuscita dei referendum, e soprattutto con un trascinamento della reazione emotiva al terremoto anche sulle altre due consultazioni. Una delle quali, è bene ricordarlo, riguarda direttamente Berlusconi e i suoi guai giudiziari. A causa del terremoto giapponese, in altre parole, il premier, nel bel mezzo della discussione sulla riforma costituzionale della giustizia, potrebbe trovarsi a fare i conti con un referendum al quale fin qui non aveva dato grande importanza, e che invece potrebbe risolversi in un plebiscito contro di lui.

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« Risposta #278 inserito:: Marzo 16, 2011, 12:00:51 pm »

16/3/2011 - TACCUINO

Silvio e lo scontento dei delusi

MARCELLO SORGI

La crisi internazionale e le conseguenze gravissime del terremoto in Giappone hanno coperto negli ultimi giorni insistenti turbolenze in campo berlusconiano che ieri, alla fine, hanno avuto la meglio, mettendo sotto il governo alla Camera. Tutto ruota attorno alla promessa di rimpasto con la quale il premier e i suoi emissari hanno condotto la campagna acquisti in autunno e trovato i voti necessari per battere le mozioni di sfiducia nella famosa seduta del 14 dicembre.

Da quel giorno in poi, e sono ormai tre mesi, giorno dopo giorno s'è allungata la schiera degli aspiranti ministri e sottosegretari, pronti a ricoprire i posti lasciati liberi dai finiani e quelli che Berlusconi stesso aveva promesso di creare con una modifica della legge che regola la composizione del governo, attualmente fissata in dodici ministeri, limite già superato da tempo. In prima fila i cosiddetti Responsabili, cioè il gruppo eterogeneo che si è costituito proprio in appoggio al governo e per evitare la conclusione anticipata della legislatura. Poi i leghisti, che da un eventuale rimpasto sperano di ricavare la possibilità di rimettere in gioco il ministero dell’Agricoltura, strategico al Nord, al quale aspira tuttavia anche il capo dei transfughi siciliani dell’Udc, confluito nei Responsabili, Saverio Romano. Poi l'ex ministro Scajola, autoconvintosi che l'esilio dal governo determinato dallo scandalo della casa al Colosseo regalatagli dalla «cricca» fosse ormai durato abbastanza, e che minaccia di formare un nuovo gruppo parlamentare di venti deputati se non gli sarà garantito un rientro onorevole al governo o al partito. Poi ancora le donne, numerose nel partito del premier, e decise a guadagnare posizioni (ieri tra l'altro, a confermare il nervosismo femminile nel gruppo del Pdl, c'è stata una mezza rissa tra le deputate Carlucci e Giammanco). A tutto ciò vanno aggiunte le dimissioni di Bondi da ministro dei Beni culturali, congelate da mesi, e quelle minacciate dal sottosegretario alla Famiglia Giovanardi, sempre per mancanza di fondi.

Berlusconi aveva già deciso di rinviare il rimpasto e di fronte al ribollire interno del Pdl non potrà che confermare il suo orientamento. Gli avvertimenti, come quelli di ieri alla Camera, sono destinati a lasciare il tempo che trovano finché i franchi tiratori non dovessero decidere di far sul serio, per esempio nelle votazioni per la riforma costituzionale della giustizia. E in ogni caso promuovere qualcuno degli aspiranti non darebbe nessuna garanzia al Cavaliere che all'indomani lo scontento dei delusi non si ripresenti peggiore di prima.

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« Risposta #279 inserito:: Marzo 18, 2011, 10:15:07 pm »

18/3/2011

Decisione saggia ma di bottega

MARCELLO SORGI

Era ora: finalmente una saggia decisione. Dopo una settimana irrazionale di scontri ai limiti del ridicolo, i due fronti italiani - nuclearista e antinucleare - andranno a una tregua.

Ieri, infatti, è stata annunciata una ragionevole moratoria ai progetti di realizzazione di nuove centrali atomiche. Il fatto che a una decisione del genere si sia arrivati dopo un’intervista del premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia che spingeva a una pausa di riflessione e grazie alle argomentazioni del presidente dell’Agenzia per il nucleare Umberto Veronesi fa ben sperare, malgrado tutto. Ci sono ancora per nostra fortuna in questo Paese scienziati e studiosi di fama internazionale in grado di fermare con la loro autorevolezza la macchina impazzita della nostra politica, che anche in un caso delicato e importante non ha rinunciato a dividersi e a dilaniarsi.

Mentre la centrale di Fukushima, colpita dal terremoto giapponese, continuava a liquefarsi e il mondo intero si interrogava sulle conseguenze del più grave incidente della storia dell’energia nucleare dopo Cernobil, in Italia, infatti, come se niente fosse, complice il prossimo referendum fissato per il 12 giugno, centrodestra e centrosinistra continuavano a dirsene di tutti i colori restando fermi su posizioni strumentali. A un baldanzoso Di Pietro, che come promotore della consultazione referendaria si sentiva già la vittoria in tasca, facevano da contraltare sia il coro dei recenti convertiti all’ideologia dell’atomo, sia esponenti del governo che si sentivano chiamati a una nuova crociata in difesa di Berlusconi.

La ragione di uno scontro così mediocre, specie al cospetto di una sciagura di dimensioni immani, è legata infatti a una non del tutto evidente conseguenza politica dell’eventuale referendum. L’impressione generata nell’opinione pubblica dal disastro giapponese avrebbe favorito la mobilitazione dell’elettorato, fin qui non troppo coinvolto nella questione, né più né meno come accadde 25 anni fa dopo Cernobil, quando per la prima volta gli italiani sull’onda dell’emozione generata dall’incidente nella centrale ucraina si espressero con un secco rifiuto dello sviluppo dell’energia nucleare. E oltre al prevedibile nuovo «no» che sarebbe uscito dalle urne, la partecipazione avrebbe rischiato di interrompere la serie di fallimenti referendari che si verificano da dodici anni per mancanza di elettori ai seggi. Di qui la possibile riuscita anche delle altre due consultazioni, sulla privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua e sul legittimo impedimento, la legge nata per bloccare i processi contro Berlusconi, già ridimensionata dalla Corte Costituzionale e destinata a scadere a ottobre.

Con tutti i problemi che ha in questo periodo, il Cavaliere non poteva certo consentirsi di affrontare una consultazione su se stesso, e perdipiù spinta al successo da un avvenimento imprevisto come il terremoto in Giappone. Così è maturata la frenata, che se davvero, come già ieri si poteva intuire, porterà a un congelamento del nuovo piano nucleare del governo, potrebbe anche avere la conseguenza dell’annullamento dello stesso referendum. A quel punto la riuscita degli altri due, meno attraenti per gli elettori, tornerebbe a essere in forse. E Berlusconi potrebbe comunque affrontare con meno timori la campagna referendaria. Si tratti di una conseguenza dei consigli autorevoli degli esperti, di una questione di bottega, o malauguratamente del mix di tutt’e due, la moratoria annunciata ieri è tuttavia una scelta positiva. Con un altro «no» causato dalla paura di questi giorni, di nucleare in Italia non si sarebbe parlato per altri vent’anni. Con il rinvio di ieri invece, sempre che dal Giappone, presto o tardi, come tutti ci auguriamo, arrivino buone notizie, una discussione più seria di quella a cui abbiamo assistito in questi giorni potrà riprendere l’indomani.

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« Risposta #280 inserito:: Marzo 22, 2011, 03:39:11 pm »

22/3/2011 - TACCUINO

Il deciso colpo di freno di Berlusconi

MARCELLO SORGI

Non è ancora un contrordine o una ritirata, ma certo Berlusconi ha dato ieri un robusto colpo di freno agli entusiasmi bellicosi dei suoi ministri, che per due giorni si erano alternati in tv con il volto dell’arme, senza interrogarsi sull’evidente confusione che ha accompagnato fin dall’inizio la missione internazionale in Libia. Stretto tra Putin e Bossi, per fare un’estrema semplificazione, il premier s’è reso conto che un’adesione così pronta e acritica all’intervento correva il rischio di mettere in discussione le sue alleanze internazionali e quelle interne.

Per uno come il Cavaliere, che tanto si era speso nella costruzione di un’inedita amicizia con il leader russo, con la Turchia di Erdogan e lo stesso Gheddafi, il campanello d’allarme è suonato bruscamente con il mutamento evidente del quadro in cui la missione aveva preso il via: Mosca e Pechino ne denunciavano l’esorbitazione rispetto agli obiettivi indicati dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, Ankara insisteva per ricondurne il comando e il controllo sotto l’egida Nato. Di qui la dichiarazione, allineata con l’esigenza di un coinvolgimento
dell’Alleanza atlantica, del ministro Frattini, che ha subito provocato una dura reazione negativa dei francesi.

Sorprese anche peggiori sono uscite dal Consiglio dei ministri straordinario convocato per una valutazione della situazione, in cui Bossi ha ribadito le sue riserve sulla missione e ha annunciato che al prossimo dibattito parlamentare la Lega presenterà una sua mozione, per ribadire la necessità di imporre limiti precisi alla missione e di ancorarla all’impegno, per tutti i Paesi coinvolti, di accogliere una parte dei profughi che continuano ad approdare a Lampedusa. In pratica, se la maggioranza vuol restare tale alla Camera, il Pdl non potrà che confluire sul testo del Carroccio, dando la sensazione, ancora una volta, che è il Senatùr a stabilire la linea del governo.

Nel giro di ventiquattr’ore si è passati di conseguenza dal saluto entusiastico ai primi decolli dei caccia italiani, trasmessi in diretta dai tg, all’affermazione che i piloti si sono limitati a una ricognizione evitando di sganciare o missili o bombe, all’ipotesi che in mancanza di copertura Nato la disponibilità delle basi aperte alle forze della coalizione possa essere ritirata.
In appoggio a Berlusconi, per sua fortuna, sono arrivate anche le perplessità americane e le prime incrinature al vertice delle Nazioni Unite sull’andamento della missione «Alba dell’Odissea»: che fin dalle prime battute, in mancanza di risultati, rischia soltanto di fare maldestramente onore al suo nome.

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« Risposta #281 inserito:: Marzo 23, 2011, 11:24:07 am »

23/3/2011 - TACCUINO

Il premier abbatte due ostacoli


MARCELLO SORGI

L’approvazione a passo di carica ieri in commissione giustizia della norma che riduce i tempi di prescrizione per gli incensurati è in qualche modo una conseguenza della crisi internazionale. Indiretta, s’intende. Perché sarebbe stato certo più difficile per il Pdl, in tempi normali e a due settimane dalla presentazione del testo di riforma costituzionale della giustizia, venire allo scoperto con l’ennesima legge ad personam, che, una volta approvata (la settimana prossima va in aula alla Camera e poi al Senato), avvantaggerà Berlusconi in almeno due dei quattro processi ripresi a Milano contro di lui: quello per la corruzione legata al caso Mills e quello per i fondi neri Mediaset.

Se l’approvazione definitiva della legge avverrà nei termini in cui è stata varata in commissione alla Camera (con Udc e Pd che hanno abbandonato i lavori, mentre Di Pietro è rimasto) il processo Mills, per il quale la prescrizione sarebbe intervenuta all’inizio del 2012, potrebbe concludersi già quest’estate e il tribunale sarebbe conseguentemente portato a trattare in modo più rassegnato con i legali del premier, per assicurarne la presenza alle udienze.

Depotenziati Mills e fondi neri, aggredito con un’accorta serie di rinvii quello su Mediatrade, Berlusconi potrà concentrarsi dal 6 aprile su Ruby, che si prepara a diventare il vero processo del secolo, con la sfilata annunciata delle 33 escort o ballerine che secondo le accuse si sarebbero prostituite con il presidente del consiglio in cambio di consistenti pagamenti. Berlusconi ha annunciato che intende contrastare con tutti i suoi mezzi ciò che considera una montatura ai suoi danni. Non è escluso che nella sua strategia di difesa entri anche la nuova situazione in cui si trova l’Italia: processare per sfruttamento della prostituzione un premier mentre guida un Paese in guerra sarà per i magistrati più arduo di qualsiasi loro previsione.

L’accelerazione sulla prescrizione breve porta con sé il rallentamento della riforma della giustizia. Anche se il ministro Alfano non aveva fatto specifico riferimento al provvedimento varato ieri, l’impegno da lui assunto davanti a tutti era stato che il governo, proprio per l’importanza che attribuiva alla riforma, avrebbe evitato di accompagnarne l’iter con proposte specifiche che avrebbero potuto influire sui processi contro Berlusconi. Il fatto che l’iniziativa sia stata presa in sede parlamentare, e non sia venuta direttamente da parte del governo, fa calare solo un pallido velo formale su una promessa che non è stata mantenuta.

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« Risposta #282 inserito:: Marzo 24, 2011, 05:24:23 pm »

24/3/2011

Una nomina in cambio di due voti

MARCELLO SORGI

Fino a un po’ di tempo fa (e verrebbe da dire fino a qualche giorno fa) fare ministro un indagato era considerato inopportuno, se non proprio impossibile. Per dire: Bettino Craxi, che nel 1992 doveva addirittura essere nominato primo ministro, non lo fu perché sulla sua testa stava per abbattersi la tempesta di Tangentopoli, e al suo posto fu chiamato Giuliano Amato. Aldo Brancher, che era entrato nel governo in fretta e furia e senza compiti chiari, per salvarsi da un processo in cui di lì a poco sarebbe stato condannato, dovette uscirne dopo tre giorni non appena emerse chiaramente qual era la vera ragione che lo aveva spinto così in alto. Inoltre a Claudio Scajola, dimessosi da ministro per la storia ormai arcinota della casa al Colosseo in parte regalatagli dalla «cricca» delle Opere pubbliche, e deciso a rientrare in gioco dopo aver sistemato alla meno peggio lo scandalo, era stato opposto un deciso rifiuto motivato puntualmente con sondaggi commissionati da Palazzo Chigi.

Sondaggi che avrebbero dimostrato come Scajola, malgrado il «mea culpa», non si era ancora guadagnato il perdono dell’opinione pubblica, che sarebbe stata pronta a reagire indignata a un eventuale suo ritorno al potere. A deludere le ambizioni di Scajola, non più tardi di una settimana fa, è stato Berlusconi in persona. Lo stesso Berlusconi che ieri ha accompagnato al Quirinale il neo-leader dei transfughi siciliani dell’Udc e della componente più numerosa (cinque deputati) dei cosiddetti «Responsabili» Saverio Romano, nominato in gran fretta ministro dell’Agricoltura al posto di Giancarlo Galan, che a sua volta ha preso il posto di Sandro Bondi alla Cultura. Romano non aveva neppure finito di pronunciare il giuramento, che due dei suoi entravano alla chetichella nell’aula della Giunta per le autorizzazioni a procedere determinando, con i loro voti, la decisione a favore del conflitto di attribuzione tra i giudici di Milano e la Camera dei deputati davanti alla Corte Costituzionale, che dovrebbe rallentare, se non addirittura far saltare, il processo per il caso Ruby in cui Berlusconi è imputato di concussione e sfruttamento della prostituzione giovanile.

Che si sia trattato di uno scambio palese, tra un posto di ministro e due indispensabili voti parlamentari, non c’è dubbio. E che il premier non potesse in alcun modo farne a meno, altrettanto. Ancora, che Berlusconi, con i suoi quattro processi sulle spalle, consideri le indagini sui rapporti tra Romano e la mafia bazzecole è perfino logico, anche se non accettabile. Romano infatti non è solo in attesa di un pronunciamento del gip, annunciato per i primi di aprile, che dovrebbe stabilire se archiviare le accuse che lo riguardano, o proseguire le indagini, o rinviarlo a giudizio. Tra pochi giorni potrebbe trovarsi citato, come membro dello stesso gruppo politico dell’ex governatore siciliano, anche nelle motivazioni della sentenza della Cassazione con cui Totò Cuffaro è stato condannato a sette anni per favoreggiamento della mafia e per cui è entrato in carcere un mese e mezzo fa, rassegnato a scontare la pena.

Si dirà che in passato la regola dell’esclusione da incarichi di governo di uomini colpiti solo da accuse non dimostrate s’è rivelata ingiusta. Ed è vero. Nel caso di Craxi, le condanne, anche definitive, seguite alle inchieste, non hanno impedito di celebrarne a dieci anni dalla morte la riabilitazione politica e istituzionale e di farlo passare alla storia, oltre che per il ruolo avuto, anche come il capro espiatorio di un sistema di corruzione generale. Di qui a paragonare Craxi a Scajola, a Brancher, e adesso a Romano, tuttavia ce ne corre.

Sorgono, spontanee, due domande, che lo stesso Berlusconi dovrà porsi necessariamente nei prossimi giorni e che il presidente della Repubblica Napolitano deve avere ben presenti, a giudicare dalla durezza del comunicato con cui ha accompagnato il giuramento del nuovo ministro. Vista la portata delle accuse a Romano, e augurandosi ovviamente che possano essere chiarite definitivamente al più presto, non sarebbe stato meglio aspettare l’ormai prossima decisione del gip che lo riguarda e il deposito, egualmente vicino, delle motivazioni della Cassazione su Cuffaro? E cosa succederà quando nei prossimi giorni Scajola assumerà la guida di un gruppo di venti deputati - il quadruplo di quelli di Romano! -, sottratti alla già esile maggioranza di centrodestra alla Camera, e vorrà rinegoziare, con gli stessi argomenti del neo-responsabile dell’Agricoltura, il suo futuro personale?

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« Risposta #283 inserito:: Marzo 25, 2011, 06:51:33 pm »

25/3/2011 - TACCUINO

La Lega esce dall'isolamento

MARCELLO SORGI

Siamo talmente disabituati a quel che può accadere in un Parlamento semiatrofizzato e ridotto com'è ridotto, che nei corridoi di Montecitorio ieri si faticava a capire il senso della doppia votazione sulla missione in Libia, in cui la maggioranza ha superato per appena 7 voti un'opposizione decisa a dimostrare che il centrodestra non tiene, e poco dopo ha, in modo apparentemente inspiegabile, approvato la mozione del Pd, che ha avuto così i voti di quasi tutto l'emiciclo, tolti quelli dei radicali.

Eppure è abbastanza chiaro quello che è successo: su una materia delicata come quella dei modi dell'intervento in Libia, la Lega, dopo essersi astenuta la settimana scorsa nel primo voto delle commissioni Esteri e Difesa riunite congiuntamente, ha dato una mano a Bersani a mettere in difficoltà Berlusconi e il suo governo. Quasi contemporaneamente il Pd, per bocca del presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani dava il via libera a un altro decisivo passo in avanti del federalismo, sul quale ora il governo potrà procedere per decreto.

A parte la convergenza unitaria, lodata dal Presidente Napolitano, che s'è realizzata sul terreno della politica estera, i voti parlamentari di ieri non dovrebbero lasciare conseguenze. La conferma del muro contro muro tra Pdl e Pd non è una novità, anche se il differente atteggiamento adottato tra Senato e Camera dal partito di Bersani dimostra che il nucleo più forte dell'antiberlusconismo rimane a Montecitorio. Il segnale di unità sarebbe stato più forte se anche il Pd, vista la genericità del testo della mozione governativa, la avesse votata. Ma anche a Palazzo Madama il tentativo della capogruppo Anna Finocchiaro di arrivare a una soluzione condivisa aveva incontrato ostacoli.

Con la sua decisione di votare il testo del Pd la Lega è uscita dall'isolamento in cui si era trovata dopo il primo «no» alla missione, ma pure stavolta ha marcato una distinzione. A denti stretti, per evitare di sottolineare lo scarto del Carroccio, anche il Pdl ha dovuto così acconciarsi a sostenere il testo dell'opposizione. Gli effetti pratici del complicato voto del Parlamento resteranno immutati e la missione continuerà come è già stato deciso. La mossa del cavallo leghista, però, oltre a creare un clima più favorevole per l'iter del federalismo, segnala che permane l'insoddisfazione del partito del Senatur per la piega imposta dal Cavaliere all'andamento del governo, a cominciare dal rimpasto. In che modo potrà svilupparsi nelle prossime settimane, e soprattutto nella prossima campagna elettorale per le elezioni amministrative, resta un'incognita. E sarà tutta da vedere.

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« Risposta #284 inserito:: Marzo 29, 2011, 04:49:20 pm »

29/3/2011 - TACCUINO

E con le toghe il premier si fa lo spot

MARCELLO SORGI


Dopo otto anni di assenza, il ritorno di Silvio Berlusconi al Palazzo di Giustizia di Milano non solo è stato spettacolare anche più del previsto, ma si è trasformato in uno spot a favore di quel che il premier sostiene da tempo: processare il presidente del Consiglio vuol dire sottrarlo ai suoi compiti istituzionali.

Con la crisi internazionale aperta e l’invasione degli immigrati alle porte, il momento d’emergenza non poteva essere più propizio a una rapida propalazione del messaggio berlusconiano. Chi ancora ricorda la scena del marciapiede davanti al tribunale milanese negli anni di Tangentopoli - con la folla silenziosa in attesa di conoscere dagli inviati delle tv la lista dei nuovi imputati eccellenti - avrà certo notato la differenza: da un lato una piccola folla di dimostranti pidiellini che scandivano slogan in difesa del premier e brandivano striscioni di attacco alla magistratura politicizzata. Sul marciapiede di fronte un gruppetto di militanti dipietristi (anche qui: quante cose son cambiate, se solo si riflette che diciotto anni fa Di Pietro era il più temuto pm di Mani pulite), schierati su posizioni opposte.

Ma al di là della regia orchestrata - e rivendicata - dall’organizzazione del Pdl, lo scopo evidente della partecipazione del premier all’udienza a porte chiuse del processo Mediatrade, con tutto quello che ne è seguito, è chiarissimo: far emergere il pezzo di opinione pubblica che, diversamente da quanto accadeva nel ’93 quando invece la gran parte dei cittadini era schierata con i giudici, adesso si oppone all’operato della magistratura e condivide le accuse di Berlusconi contro le toghe politicizzate. Occorrerà vedere se un’impostazione del genere reggerà anche alle prime udienze del processo per il caso Ruby, quando invece l’attenzione di tutte le tv del mondo sarà richiamata dalla sfilata delle 32 ragazze che frequentavano la villa di Arcore e che secondo l’accusa erano pagate dal premier per prostituirsi.

Ma in ogni caso il modo assolutamente personale con cui Berlusconi ha deciso di tornare nelle aule di giustizia - l’intervista preventiva a Canale 5, e poi la claque, i saluti dal predellino dell’auto, le brevi dichiarazioni all’uscita dall’udienza e la promessa che la battaglia continuerà - rappresenta un elemento imprevisto, almeno in questi termini, e da valutare attentamente, per la magistratura di Milano che ha voluto una rapida ripresa delle udienze, anche alla vigilia di elezioni importanti come quelle del prossimo maggio.

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