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Autore Discussione: MARIO CALABRESI.  (Letto 68367 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:48:33 pm »

Cronache
24/12/2012

Sarà l’anno della cittadinanza

Da stranieri in patria a nuova linfa per la società


Mario Calabresi

Sarà l’anno della cittadinanza per chi vive da troppo tempo nel limbo, per chi è cresciuto, ha giocato, studiato e sognato in un solo Paese ma ne è escluso, colpevole di essere nato fuori dai confini della Terra in cui vive e a cui sente di appartenere. I protagonisti del dibattito politico del 2013 saranno i bambini nati in Messico o in Guatemala arrivati piccolissimi negli Stati Uniti, o quelli con passaporto cinese, filippino, peruviano, marocchino o rumeno ma che sono nati in Italia, tifano per gli azzurri e sognano di vincere «X Factor». Dopo anni di dibattito acceso, che ha visto in prima fila il presidente Napolitano e la Chiesa, sembra arrivato il momento: se in Italia Bersani vincerà le elezioni il suo primo provvedimento sarà sulla cittadinanza perché «un figlio di immigrati nato qui e che studia qui è un italiano». Negli Stati Uniti Barack Obama ha riconquistato la Casa Bianca anche grazie alla promessa di dare sostanza al sogno, di approvare finalmente il «Dream Act», per regolarizzare i due milioni di ragazzi e i dieci milioni di adulti che vivono in clandestinità, ma si sentono americani a tutti gli effetti: studiano, lavorano, costruiscono casa e famiglia e non hanno mai commesso reati. Il loro inserimento permetterebbe di farli uscire dal limbo e dal lavoro nero, diminuendo il deficit, aumentando le entrate fiscali e, come sottolinea il sindaco di New York, Michael Bloomberg, di inserire nuova linfa nelle nostre stanche società.

da - http://lastampa.it/2012/12/24/italia/cronache/sara-l-anno-della-cittadinanza-da-stranieri-in-patria-a-nuova-linfa-per-la-societa-glIvppAScBMvvnzo2pGqFO/pagina.html
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« Risposta #91 inserito:: Febbraio 13, 2013, 05:32:13 pm »

Editoriali
13/02/2013

Una società che non lascia invecchiare

Mario Calabresi

Le dimissioni di Benedetto XVI, guardate ad un giorno di distanza e superato lo stupore per il gesto, ci raccontano anche una storia emblematica del tempo in cui viviamo: la difficoltà di essere anziani nella società della tecnologia e dell’informazione. 

 

Una società che richiede come presupposti fondamentali la velocità, la capacità di adattarsi e di reagire in tempo reale. Uno scenario dominante di fronte al quale il Papa ammette la sua debolezza con una consapevolezza disarmante e con parole chiarissime: «Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo è necessario anche il vigore sia del corpo sia dell’animo. 

Vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale…». 

 

Un gesto quasi di resa di fronte al mondo che cambia a un ritmo che un uomo nato nel 1927 non avrebbe mai immaginato. Non cambia solo nei modi e nei tempi della comunicazione ma richiede di commentare tutto e subito. Eppure quest’uomo prossimo agli 86 anni, mentre già pensava di lasciare il pontificato, aveva tentato di inseguire quella contemporaneità frastornante, sbarcando perfino su twitter. Piegandosi alla necessità di comunicare con messaggi brevi e sincopati di soli 140 caratteri. Aveva cercato, non senza fatica e dopo dolorose e laceranti incomprensioni, di aderire all’agenda globale con i tempi dettati dai media che trasmettono 24 ore su 24. Un’agenda che ogni giorno sposta i confini dell’etica e delle convenzioni sociali. Una rincorsa spasmodica e innaturale per un uomo che aveva formato la sua vita sullo studio, sulla riflessione, sulla meditazione silenziosa. Sembra di scorgere nelle sue parole e nella sua scelta un cortocircuito tra i suoi studi approfonditi sulla vita di Gesù e quel dover ribattere colpo su colpo a cui è difficile sottrarsi. Quel propagarsi di scandali, polemiche, fughe di notizie su scala planetaria a cui sembra suggerirci può tenere testa solo chi è più giovane: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte…». 

Ma non è sempre stato così. Senza bisogno di tornare indietro di un secolo e mezzo, quando Pio IX – era il 1854 – fece un viaggio di un mese nelle Legazioni pontificie arrivando fino in Emilia senza fare un solo discorso ma limitandosi a impartire benedizioni, basterebbe pensare al ritmo del Vaticano di Paolo VI. Per trovare una risposta del Papa era necessario attendere l’Angelus della domenica o l’udienza del mercoledì. Poi, con papa Wojtyla, sono esplosi i viaggi e il ritmo ha moltiplicato le occasioni e i discorsi. 

 

Ma è questo un treno lanciato che non ha altra possibilità che accelerare? Si osserva che la Chiesa vive nel mondo e non può che adattarsi al mondo se vuole incidere ed essere ascoltata. Eppure nel sapersi anche sottrarre, nel celarsi, nel rifiutare di cantare sempre nel coro, perfino nell’assenza si nasconde una grande forza. Immaginate i politici di oggi, costretti a dichiarare trenta volte al giorno, pesate la loro credibilità e la loro durata e paragonatele a quelle di Alcide De Gasperi, Aldo Moro o Enrico Berlinguer le cui interviste, in un anno non in un giorno, si potevano contare sulle dita di una mano.

 

Si potrebbe replicare che i tempi della Chiesa millenaria (e della politica lenta) erano possibili quando le informazioni non passavano attraverso i muri, quando i telefonini non erano un’estensione del nostro corpo, quando i maggiordomi non facevano fotocopie, fax e mail e quando le Mura vaticane trattenevano discorsi e segreti. Ma quei tempi e quella capacità di visione le avevano garantito una centralità lunga venti secoli. 

 

Ma allora, in questo arrendersi all’età, nel riconoscere invece quasi una centralità determinante alla giovinezza, alle energie e alla velocità che spazio e che valore hanno ancora il sapere meditato, la saggezza e l’esperienza? Benedetto XVI che sceglie di tornare ad essere Joseph Ratzinger ci ha dato la sua risposta ma questa domanda resta centrale e irrisolta, anche perché la risposta plasmerà la nostra società, deciderà se si può accettare di vivere nella frammentazione, alleggeriti della memoria e dei progetti di lungo respiro.

 

Non si risolve naturalmente solo in questa domanda e nella sua risposta la travagliata decisione del Papa, che è necessariamente figlia di una complessità di problemi su cui si scriveranno libri per un tempo infinito. Ma l’età è il passaggio nodale della dichiarazione resa nella lingua più antica, quasi a sottolineare la volontà di sottrarsi alla dittatura della contemporaneità.

 

C’è in Ratzinger, l’uomo che oggi tutti paragonano nel suo passo indietro al Wojtyla del calvario coraggioso, della croce portata fino alla fine, anche la consapevolezza dei danni che può seminare la mancanza di energie. Benedetto XVI sa che il prezzo del calvario del suo predecessore fu anche un’assenza di governo della Chiesa, lo sa perché ne ha ereditato tutti i problemi irrisolti, insieme alle lotte intestine. Li ha affrontati con coraggio, a partire dalla pedofilia, ma forse anche questa consapevolezza lo ha spinto a ricordarci che ci vuole forza per governare, lo ha indotto a fare un passo indietro, ora, per non lasciare un altro percorso in salita al suo successore. E’ forse questo il gesto più rivoluzionario che ha fatto.

da - http://lastampa.it/2013/02/13/cultura/opinioni/editoriali/una-societa-che-non-lascia-invecchiare-H77WAwIQbo5xnkNgk8FoSL/pagina.html
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« Risposta #92 inserito:: Febbraio 24, 2013, 03:58:37 pm »

Editoriali
24/02/2013

Il realismo che serve al Paese

Mario Calabresi

Finalmente oggi si vota, la campagna elettorale delle promesse più miopi della storia è finita e si torna alla vita reale. Miopia è avere la vista talmente corta da cercare soluzioni della durata di una settimana dimenticando che la politica e la capacità di governare dovrebbero invece preoccuparsi di costruire progetti per un futuro più decente. Miopia è pensare che esistano soluzioni catartiche, capaci di risolvere ogni problema in un istante spazzando via tutto quello che non ci piace: è illusoria (e alla prova dei fatti dolorosa) l’idea che tutto possa cambiare per miracolo in un sol giorno. E’ un’illusione soprattutto se noi tutti continuiamo a essere gli stessi di prima, se non abbiamo il coraggio di rimetterci in gioco, se non abbiamo l’onestà di riconoscere la complessità e ci rifugiamo nell’autocommiserazione, nella lamentela o nell’eterno gioco di scaricare le colpe su qualcun altro.

«Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose», ci ammoniva Albert Einstein e lo penso ogni volta che vedo gli italiani gridare agli sprechi e nello stesso tempo indignarsi per i tagli che cercano di eliminare quegli sprechi.

Ci vuole serietà, non si può chiedere una sanità più efficiente e ospedali capaci e contemporaneamente pretendere di avere un reparto maternità in ogni paese o in ogni quartiere. La vita reale che ci aspetta da domani è ancora fatta di difficoltà, di piccoli passi, di tentativi, ma dovrebbe essere fatta anche di speranza e di volontà. 

Per questo dico che è stata una campagna elettorale deludente, complice l’oscena legge elettorale, perché tutta puntata sull’immediato e senza idee che parlassero di futuro, idee capaci di accendere l’immaginazione, di dare coraggio, di spingere all’impegno. Le campagne elettorali hanno però due soggetti, i politici e gli elettori. Anche noi siamo chiamati ad essere responsabili e credibili: nelle richieste che facciamo come nel voto che esprimiamo.

Abbiamo il dovere della memoria innanzitutto: spiace notare come né i candidati e nemmeno noi elettori siamo stati capaci di attribuire il giusto valore agli sforzi e ai sacrifici fatti nell’ultimo anno, dimenticandoci, immersi come siamo in un pessimismo e in una visione negativa che sembrano impedirci qualunque possibilità di ripartenza, che non saranno certo tsunami o facili scorciatoie a regalarci un Paese sano e migliore. 

E abbiamo tutti il dovere di tenere la testa alta. Di pensare non soltanto a noi e all’immediato ma anche al Paese che vogliamo costruire per i nostri figli o i nostri nipoti. Dovremmo imparare a non illuderci di fronte a ricette di cortissimo respiro: ti rimetto in tasca alcune centinaia di euro, come una sorta di una tantum, ma ti nego la possibilità di pensare ad una sanità migliore, che riduca le umilianti liste d’attesa, a un welfare più al passo coi tempi, in cui una madre non sia costretta a scegliere tra il lavoro e la cura dei figli, a una scuola che rispetti gli insegnanti, valorizzi i bambini e non costringa i genitori a portare ogni settimana sapone, fogli e carta igienica.

Quando penso alla responsabilità di essere cittadini penso che questo contenga la necessità di non raccontarsi storielle facili e consolatorie: non è solo eliminando la cosiddetta «casta» che si risolveranno i nostri problemi. Non è sufficiente: è solo sostituendo i ladri, i corrotti e gli incapaci con persone più degne e preparate che ci incammineremo sulla strada giusta.

Il prossimo Parlamento, grazie alla pressione dell’opinione pubblica, avrà il merito di essere più giovane, di avere più donne, più volti nuovi e una percentuale di gran lunga inferiore di inquisiti e screditati. Questa è un’indubbia conquista, ma non pensiamo che questo sia tutto: ci vogliono idee per costruire e capacità di farlo, a questa sfida saranno chiamati tutti gli eletti.

Pensare che basti essere giovani e nuovi per aver risolto ogni problema è un po’ infantile e non riconosce nessun valore all’esperienza e alla capacità: mi immagino il futuro dell’Italia come un pullman che deve superare un passo di montagna, ci sono curve ghiacciate, salita e discesa, vorrei che a bordo con me ci fosse gente per bene, simpatica e solidale, ma mi farebbe anche piacere avere un autista che ha idea di dove andare, che conosca il percorso e magari non sia alla sua prima esperienza di guida…

Mi ha colpito, in questo senso, la seria prudenza con cui il sindaco di Parma Federico Pizzarotti ha parlato sul palco di Piazza San Giovanni dopo il roboante comizio di Beppe Grillo, perché ha riconosciuto che le cose si possono cambiare ma per gradi. La verità è che nessuno ha la bacchetta magica e i debiti le persone per bene li onorano, tanto che la giunta grillina – soffocata dall’immenso debito ereditato - ha dovuto aumentare le rette degli asili nido, l’Imu e le tasse e non sembra in grado di fermare il famoso inceneritore.

Oggi andiamo a votare e l’augurio migliore che posso fare a tutti noi e al Paese è che la prossima legislatura sia stabile, riesca a funzionare e soprattutto sia efficace: si sintonizzi sui bisogni degli italiani e provi a dare risposte vere e credibili. I nuovi deputati e senatori sono chiamati a dare prova di realismo, a convergere sulle leggi di cui abbiamo bisogno e a scegliere le priorità, non a cercare di difendere vecchi privilegi e rendite di posizione ma nemmeno a fare guerre di religione di stampo ideologico. Non si sente il bisogno di nuove macerie e di personalismo ma di ricostruire un’Italia in cui il lavoro non appaia un miraggio irraggiungibile a ogni ragazzo che finisce gli studi e in cui gli anziani pensionati possano andare al mercato a testa alta per comprare ai banchi e non a testa bassa per rovistare tra la frutta gettata via.

da - http://lastampa.it/2013/02/24/cultura/opinioni/editoriali/il-realismo-che-serve-al-paese-VtjcsXKLCFVKcH0FCBzogM/pagina.html
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« Risposta #93 inserito:: Febbraio 26, 2013, 05:19:39 pm »

Editoriali
26/02/2013

Il dovere di scelte coraggiose

Mario Calabresi


Nelle prime elezioni sotto la neve sono venuti al pettine i nodi che la politica non ha sciolto negli ultimi vent’anni: il rapporto con i cittadini prima di tutto, quel senso di incomunicabilità che ha portato a esprimere una protesta che non ha precedenti. 

Ora abbiamo un Parlamento in cui nessuno schieramento è in grado di dare vita a una maggioranza di governo, in cui un quarto dei votanti ha scelto il Movimento di Beppe Grillo e in cui la doppia ribellione dei cittadini verso la «casta» da un lato e verso i tagli e i sacrifici dall’altro è la vera vincitrice.

L’Italia reale ha espresso tutto il suo malessere e dentro questo voto si sentono le voci e le storie di chi non trova lavoro, di chi non riesce ad arrivare alla pensione o alla fine del mese, di chi pensa di non avere futuro e fugge all’estero, di chi ha vissuto le nuove tasse come un’insopportabile angheria.

C’è stata nel governo e nei partiti, ce lo dicono le urne, una sottovalutazione dell’impatto sociale delle politiche di austerità, una mancanza di sensibilità drammatica. A cui si deve sommare la rabbia maturata per la distanza percepita tra i sacrifici richiesti ai cittadini e quelli rifiutati dai politici. 

La scelta di Monti di partecipare alla campagna elettorale e l’offensiva dei due partiti maggiori contro le politiche del suo governo hanno anche impedito di dare un senso ai sacrifici, di valorizzarli come passo fondamentale verso la ripresa dell’Italia. Sulla pelle sono rimasti solo tagli che hanno perso via via senso, in un coro sguaiato di promesse impossibili. Così il nostro ancoraggio all’Europa, il recupero di credibilità, la possibilità di far sentire la propria voce ai tavoli internazionali sono stati dimenticati in fretta. Eppure, non illudiamoci, solo grazie a queste conquiste siamo stati messi al riparo dal disastro e da oggi torniamo a rappresentare un pericolo e un segnale di allarme e instabilità per tutti.

Di fronte al malessere del Paese Beppe Grillo è stato capace di parlare un linguaggio eccessivo ma immaginifico che ha raccolto e dato cittadinanza ad ogni tipo di protesta e di rabbia, mentre Berlusconi, come avevano intuito per tempo su queste pagine Luca Ricolfi e Michele Brambilla, è stato il più abile ad intercettare la rivolta contro le tasse e i controlli fiscali. Pier Luigi Bersani invece ha confidato troppo nel risultato delle primarie, nell’assenza dell’avversario, nella corrente che lo avrebbe portato a Palazzo Chigi senza troppa fatica. Così al Pd sono mancati un progetto ma anche un sogno capaci di scaldare i cuori degli elettori, di dare risposte forti e convincenti al malessere, di indicare una direzione per il futuro.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti e ci racconta un’Italia nuova, provata e spaventata dalle dinamiche nuove del mondo globale, dove il lavoro si sposta senza badare ai confini, dove sarebbe necessario rimettersi a studiare e ripensarsi ogni giorno. Ma anche un’Italia profonda che continua a mostrare diffidenza verso gli eredi del vecchio Pci, tanto da non concedergli più di un terzo dei voti.

Ora rimettere a posto i pezzi di questo sistema piombato nel caos appare impresa di difficile soluzione. Ci vorrebbero coraggio, spirito di sacrificio e saggezza, doti che scarseggiano. 

A scrutinio non ancora concluso si è già sentito parlare di nuove elezioni da tenere dopo aver approvato una nuova legge elettorale, una prospettiva che appare ancora più drammatica e irreale. Per fare una legge elettorale è necessaria una maggioranza in Parlamento, quella maggioranza che non c’è stata nell’ultimo anno nonostante i numeri ci fossero e fossero abbondanti. E pensare che il presidente della Repubblica ha insistito fino all’ultimo per riformare il sistema di voto, chiedendo che fosse ristabilito un rapporto tra elettori e eletti, affinché i cittadini potessero scegliere i propri rappresentanti e non fossero chiamati solo a ratificare le scelte dei partiti, e che venisse eliminato il mostruoso premio di maggioranza della Camera. Ma la miopia di chi pensava di avere la vittoria in tasca e di chi era convinto di poter ancora lucrare una rendita di posizione hanno avuto la meglio. La stessa miopia che ha fatto gettare via ogni modifica istituzionale: così non è stato diminuito il numero dei parlamentari, si sono mantenute le province e si è data l’idea di voler salvare l’esistente con tutti i suoi privilegi.

Immaginate adesso se il primo atto di queste nuove Camere fosse accordarsi per dare vita a una nuova legge elettorale, immediato sorgerebbe il sospetto nei cittadini di trovarsi di fronte all’ultima disperata mossa del sistema dei partiti per salvare la propria esistenza. La rivolta salirebbe ancora più forte.

Abbiamo invece bisogno di passi chiari, di scelte nette e coraggiose. Si provi a vedere in Parlamento se sono possibili convergenze per dare risposte urgenti ai cittadini, senza trattative incomprensibili. Dopo il voto di ieri e domenica una cosa è certa: ogni passo politico deve essere fatto alla luce del sole e deve essere leggibile e comprensibile da parte di tutti. In Parlamento si possono e si dovranno trovare convergenze, tra i partiti tradizionali ma anche tra i nuovissimi parlamentari Cinque Stelle che ora vantano come un merito la loro inesperienza politica e il loro candore. Vanno trattati come una risorsa, non come dei nemici. Sono rappresentanti degli italiani, come tutti gli altri. La politica quand’è nobile cerca soluzioni e quand’è efficace, le trova. Non c’è più tempo per giochi oscuri. Il voto degli italiani lo ha detto chiaramente.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/26/cultura/opinioni/editoriali/il-dovere-di-scelte-coraggiose-ywrZdeTwqKfosOFTOj7dFI/pagina.html
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« Risposta #94 inserito:: Marzo 22, 2013, 06:19:30 pm »

Editoriali
22/03/2013

Le risposte che il Paese aspetta

Mario Calabresi

La buona notizia della giornata di ieri è che finalmente è stata fatta chiarezza: ogni ipotesi di dare vita ad un governo con i voti di Grillo sembra definitivamente tramontata. Dovrebbe così finire l’affannosa e a tratti grottesca rincorsa dei favori del Movimento 5 Stelle.

 

La brutta notizia è che per prendere atto di questa indisponibilità ci sono voluti 25 giorni. Più di tre settimane passate a coltivare un’illusione, nonostante Grillo e i suoi non avessero mai lasciato margini di trattativa. Più di tre settimane in cui la cronaca ha registrato come dall’inizio dell’anno abbiano chiuso 167 negozi al giorno, che i fondi per la cassa integrazione in deroga stanno per finire, che i consumi sono in picchiata e perfino che gli immigrati filippini abbandonano l’Italia per trasferirsi in Germania. Il Paese ha bisogno di un governo subito, di risposte, di dare fiato alle imprese per non deprimere ulteriormente l’occupazione, e non di un’eterna campagna elettorale.

 

Ora, se il presidente Napolitano darà a Pierluigi Bersani l’incarico di verificare se esistono in Parlamento le condizioni per dare vita a un governo, gli schemi di gioco andranno completamente cambiati. 

 

Il campo di gioco ora sarà limitato alle forze politiche che rappresentano il 75 per cento degli italiani che non hanno votato per Grillo. Il segretario del Pd dovrà infatti per forza rivolgersi agli altri partiti che siedono in Parlamento: Il Pdl, la Lega e i gruppi che fanno riferimento a Mario Monti. Un dialogo e una linea che non sono certo quelli usciti dalla direzione del Pd, da cui Bersani aveva ottenuto un mandato chiaro: trattare con Grillo o elezioni. Ma ora che Grillo ha sbattuto la porta è doveroso un tentativo per evitare le elezioni.

 

La novità che si può scorgere nelle parole pronunciate da Bersani ieri al Quirinale è l’allentarsi delle pregiudiziali, l’apertura a tutti i parlamentari senza distinzione. Certo resta ferma l’indisponibilità a formare governissimi, a dividere la patria potestà dell’esecutivo con Berlusconi, ma sembrerebbe essersi affievolito il rifiuto assoluto dei suoi voti (o di una sua astensione) se servissero a far nascere un esecutivo a guida Pd con ministri scelti nella sinistra o nella società civile.

 

Il percorso appare strettissimo, quasi impossibile, e il filo difficilissimo da riannodare, soprattutto dopo gli scontri e le tensioni delle ultime settimane, e dopo aver evitato ogni accordo per eleggere i presidenti di Camera e Senato. Ogni dialogo non potrà poi prescindere dalla scelta del prossimo presidente della Repubblica, l’unica carica che durerà ben di più sia di qualunque governo nascente sia del nuovo Parlamento. Una casella che è stata lasciata per ultima, anche se forse sarebbe stato più saggio partire proprio da lì, da una strategia che mettesse al centro l’unico punto fermo del nostro futuro.

 

Le strade che si è trovato davanti Bersani sono tutte di difficile gestione: prima c’era il Movimento 5 Stelle, quello che domani porterà tutti gli eletti a manifestare ai cantieri della Tav in Val di Susa, adesso il Pdl che i parlamentari prima li ha portati a manifestare sulle scale del Palazzo di Giustizia di Milano e ora in piazza a Roma. 

 

L’unica chiave, per non arrendersi a tornare alle urne quest’estate, per non rifare un’altra sterile campagna elettorale, è mettere al centro i provvedimenti più urgenti per ridare fiato al Paese. Insieme si dovranno dare risposte alla rabbia dei cittadini, che chiedono di rivedere privilegi, finanziamenti e costi della politica. Ma tutto ciò va fatto per gli italiani, non per ingraziarsi Grillo, a cui i partiti non andranno mai a genio qualunque cosa facciano e a cui parole come responsabilità e governabilità non dicono nulla. Tutto ciò va fatto in modo serio e non propagandistico e senza dimenticare che mentre discutiamo il dimezzamento del numero dei parlamentari rischiamo il dimezzamento delle aziende in grado di stare in piedi nel Paese.

da - http://lastampa.it/2013/03/22/cultura/opinioni/editoriali/le-risposte-che-il-paese-aspetta-H2TbzswaFcBnYmTbd6GbYK/pagina.html
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« Risposta #95 inserito:: Aprile 20, 2013, 12:18:57 pm »

Editoriali
20/04/2013

C’era una volta il Pd

Mario Calabresi


C’era una volta un partito che appariva come il più attrezzato per affrontare l’antipolitica, che era rimasto l’unico organizzato sul territorio e che si poteva permettere il lusso di lasciare in panchina un leader giovane che pescava consensi trasversali. Quel tempo era soltanto tre mesi fa.

 

Ora c’è un partito senza direzione, senza guida e diviso in correnti che si fanno una guerra spietata arrivando a usare le schede per l’elezione del Presidente della Repubblica come uno stratagemma per contarsi e controllarsi. Ogni corrente ha un modo diverso di scrivere il nome del candidato: solo il cognome, anche il nome per intero o con l’iniziale puntata, messa prima o dopo.

 

Questo partito non è più in grado di decidere quali sono gli amici con cui allearsi e quali i nemici a cui dare battaglia e allora si è cullato nell’illusione di un’autosufficienza impossibile. Questo partito in sole 24 ore ha bruciato due linee politiche, il padre ispiratore e il segretario, lo ha fatto perché ha smarrito ogni solidarietà interna e perfino l’istinto di sopravvivenza, cancellato dalle paure, dagli egoismi e dalla mancanza di visione.

Pierluigi Bersani ha annunciato ieri sera le sue dimissioni, ma lo ha fatto quando ormai il disastro della sua indecisione aveva già prodotto i massimi risultati possibili: il primo partito italiano non è riuscito ad andare al governo e nemmeno a indicare il Presidente della Repubblica, dopo aver rinunciato a mettere uomini suoi alla guida di Camera e Senato. Questo è successo perché la legislatura è cominciata senza una visione generale delle cose, in cui ogni passaggio è una tessera del mosaico. Prima di tutto si doveva decidere una strategia per eleggere il successore di Giorgio Napolitano, non era tanto importante il nome ma il metodo e soprattutto con quali compagni di strada. Da questa scelta era chiaro che sarebbe disceso tutto il resto, le presidenze delle Camere, le alleanze di governo e il futuro della legislatura. 

 

Invece ogni mossa è apparsa non coordinata con le altre, tanto che si sono annullate a vicenda. Se la tua preoccupazione è parlare a Grillo e recuperare gli elettori conquistati dall’antipolitica allora Grasso e Boldrini hanno un senso, ma allora non puoi presentare una rosa a Berlusconi per eleggere il nuovo capo dello Stato con lui. Perché se avverti l’urgenza di dare segnali di novità e cambiamento, tanto da aver eletto capogruppo alla Camera un trentenne alla prima esperienza parlamentare, poi non candidi l’ottantenne Franco Marini, segretario del Ppi in un’altra era politica. 

 

Se invece pensi che la pacificazione italiana passi dalla fine della guerra con il Cavaliere, allora hai il coraggio di incontrarlo alla luce del sole per definire i termini di una collaborazione. Ma perché tutto ciò accadesse bisognava aver prima capito che forma ha preso oggi la società italiana, quali sono le pulsioni che la agitano e dove stanno andando interi settori di elettorato. Operazione non certo semplice e che mette tutti a dura prova, ma senza la quale si procede a tentoni.

 

Ieri mattina Mario Monti ha accusato Bersani di aver anteposto l’interesse del partito, scegliendo Prodi per provare a ricompattare il Pd, all’interesse generale, che sarebbe stato invece quello di pacificare la politica italiana. Questa tesi è in parte vera, ma non basta più a spiegare la situazione nella quale ci troviamo: nello schema classico la guerra era fra destra e sinistra e dall’intesa tra questi due campi passava la pace. Ma oggi l’Italia è tripolare e la pacificazione non è solo interna agli schieramenti ma anche e soprattutto tra politica e antipolitica.

 

Dopo aver provato a eleggere il Presidente della Repubblica insieme a Berlusconi, il Pd si è reso conto che la guerra di cui ha più paura è quella con Grillo e con quella parte ampia della sua base che gli sta voltando le spalle, conquistata dalle parole d’ordine della rete e della lotta alla casta. E’ una battaglia che sente di non poter vincere o di cui ha troppa paura, perché avviene dentro casa, nella propria metà del campo, perché sfascia appartenenze, amicizie e fedeltà antiche. Per questo ieri hanno preferito tornare alle vecchia – e rassicurante – battaglia con Berlusconi, pensando che perlomeno si sarebbe svolta su un terreno conosciuto e che avrebbe ricompattato sia i parlamentari sia l’elettorato.

 

Non è successo. Perché mentre Bersani temporeggiava la Storia correva avanti strappandogli il partito e approfittando delle sue indecisioni, delle giravolte e dei silenzi. Il tempismo spesso è tutto, saper spiegare le proprie scelte con chiarezza è il resto: Prodi come scelta iniziale poteva essere vincente, mentre ora ogni nome appare vecchio e la mancanza di una strategia comprensibile ha avvelenato ogni passaggio. Ora il Pd è lacerato da spinte che tirano in direzioni opposte e sembrano inconciliabili tra loro, ma soprattutto ha perso lucidità di analisi. 

 

Una parte dei suoi deputati è angosciato dalle pressioni della base e degli intellettuali storicamente di area e vive con il telefono in mano compulsando con ansia l’ultimo messaggio su twitter o su facebook. Perdendo però di vista il fatto che tre quarti degli elettori non hanno votato per Grillo e magari preferirebbero partire dai problemi più urgenti, che sempre più spesso sono legati al lavoro e a un’esistenza decente, piuttosto che dalla riduzione del numero dei parlamentari.

 

L’altra parte invece parte dalla constatazione che ci sono più italiani nel centro e nella destra che nelle 5 Stelle e che a questi bisogna guardare per ricostruire il tessuto sociale lacerato del Paese, sono questi i deputati che spingevano per Marini e ora guardano a Cancellieri, Grasso o a una soluzione istituzionale e non partigiana. Il loro problema è che non sentono quanto forte è la stanchezza diffusa tra gli italiani per un certo modo di fare politica e così non si preoccupano di spiegare i passaggi con la dovuta trasparenza e efficacia.

 

Berlusconi silenziosamente gongola, Grillo invece lo fa rumorosamente e con il nome di Rodotà ha lanciato la sua opa sugli elettori del Pd. Probabilmente questa mattina le persone che sorridono sotto i baffi per le disgrazie del Pd e di Bersani sono maggioranza nel Paese, ma se alzassero gli occhi vedrebbero un cumulo diffuso di macerie da cui è difficile immaginare come ricostruire. Se non passa di moda in fretta il gusto di sfasciare e non ci liberiamo dall’idea che sia necessario avere sempre un nemico da eliminare, o a cui dare la colpa, rassegniamoci a uno spettacolare declino.

DA - http://www.lastampa.it/2013/04/20/cultura/opinioni/editoriali/c-era-una-volta-il-pd-dFNCCXB5oLEi9xdOedupyM/pagina.html
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« Risposta #96 inserito:: Luglio 21, 2013, 10:05:28 am »

Esteri
21/07/2013 - David Thorne

“Qui c’è troppa incertezza. L’Italia ritrovi entusiasmo e scommetta sul futuro”

David Thorne, in Italia dall’agosto del 2009, andrà a lavorare a Washington con il segretario di Stato

Dopo 4 anni l’ambasciatore Thorne fa ritorno negli Usa “Napolitano è stato ed è l’uomo chiave del Paese”


Mario Calabresi
Roma

L’ultimo incidente arriva proprio sul traguardo: l’arresto a Panama e il rimpatrio negli Usa dell’ex capocentro della Cia a Milano Robert Seldon Lady, condannato in Italia a nove anni di carcere per il rapimento di Abu Omar, ma di questo proprio non vuole parlare, si capisce quanto la situazione sia delicata e tesa, tanto che l’ambasciatore americano allarga le braccia e nel più classico stile dei diplomatici pronuncia solo due parole: «No comment».

David Thorne ha già fatto le valigie e sta partendo per Washington, destinazione Dipartimento di Stato, dove lavorerà accanto al segretario di Stato John Kerry: per quattro anni ha abitato a Villa Taverna, la residenza degli ambasciatori americani alle spalle di Villa Borghese, e ha riscoperto Roma, la città in cui aveva vissuto da ragazzo. 

Della sua esperienza di ambasciatore americano in Italia cancellerebbe volentieri una sola cosa: lo scandalo Wikileaks, quei rapporti resi pubblici con giudizi assai poco lusinghieri sull’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. «È stato il momento più difficile dei miei quattro anni qui: avere l’ambasciata sulle prime pagine dei giornali non è stato piacevole, l’imbarazzo era fortissimo e tutto il nostro sistema diplomatico venne sconvolto. Abbiamo dovuto parlare e spiegare molto, ma poi il recupero è stato veloce».

In quattro anni David Thorne ha visto cambiare tre presidenti del Consiglio e la crisi investire in pieno l’Italia ma non è mai stato scettico sulle nostre possibilità di recupero e racconta di aver avuto una sola stella polare: Giorgio Napolitano. «È stato ed è l’uomo chiave per l’Italia. Ha una forza straordinaria ed è una persona incredibilmente saggia, l’ho accompagnato due volte alla Casa Bianca e mi ha colpito l’enorme rispetto che Obama ha per lui. Ha il merito di aver guidato il Paese in un periodo assai complicato. Non credo volesse il secondo mandato, ma lo ha accettato per il Paese ed è stata la cosa giusta».

Prima di partire racconta questi quattro anni e i dossier più spinosi che restano aperti sul tavolo del suo successore, dagli F35 al sistema di comunicazione satellitare Muos, dalla frenata degli investimenti stranieri in Italia al Datagate.

L’esordio è naturalmente istituzionale: «Le relazioni tra Italia e Stati Uniti sono sempre rimaste solide in questi quattro anni, sia con Berlusconi, che è sempre stato un amico per Washington, sia con i suoi successori: i rapporti si sono rafforzati con Monti e Letta. Il mio obiettivo in questi anni è stato quello di spiegare all’America quanto vale l’Italia, di far capire che non siete solo un Paese in cui è bello vivere o venire in vacanza ma uno dei partner europei su cui si può contare di più. Penso al contributo in Afghanistan, al progetto F35, al peso che avete avuto nella guerra libica, alla vostra presenza in Kosovo o nella missione Unifil in Libano. Ma non è solo una questione geostrategica: penso al ruolo fondamentale che ha giocato Mario Monti nell’affrontare la crisi economica e nel convincere il mondo che l’Europa poteva farcela». 

Gli chiedo se, valutandolo a qualche mese di distanza, il ruolo del nostro senatore a vita sia stato davvero così cruciale: «Monti è stato fondamentale ed essenziale per tranquillizzare i mercati e far capire agli americani che l’Europa si muoveva. Obama e Monti hanno avuto un rapporto strettissimo e per il nostro presidente il professore è stato un vero punto di riferimento. Oggi quella serietà come interlocutore la ritroviamo in Enrico Letta, tanto che Obama ci ha messo pochissimo a intendersi in modo molto cordiale con lui. Si sono incontrati al G8 in Irlanda e Letta è stato molto incisivo nel porre il problema della disoccupazione giovanile, tanto che la discussione è stata guidata da lui». 

A questo punto però c’è da chiedersi dove siano i problemi, come mai gli investimenti stranieri si siano più che dimezzati e il nostro sistema produttivo stia crollando. Thorne, che ha un curriculum da imprenditore, non aspetta la fine della domanda: «Potrei rispondere con una sola parola: “Incertezza”. Per fare investimenti bisogna avere certezze e l’Italia è diventato il Paese dell’incertezza, prima di tutto nel sistema della giustizia, poi nella stipula dei contratti, negli adempimenti burocratici. Dovete assolutamente semplificare le procedure e accorciare i tempi per dare chiarezza e sicurezze a chi vuole produrre qui. Bisogna rendersi conto che attrarre investimenti stranieri è di vitale importanza e quei soldi potrebbero essere un fattore chiave per far ripartire l’Italia. Ma il primo pezzo di strada lo dovete fare voi cambiando atteggiamento». Thorne pensa all’Italia che aveva conosciuto da ragazzo tra la metà degli Anni Cinquanta e la metà dei Sessanta, erano gli anni del boom economico «quando c’era una mentalità imprenditoriale sette giorni su sette, 24 ore al giorno, e si scommetteva sul proprio futuro». «Dovete ritrovare quello spirito, stimolare i giovani a creare nuove attività, rimettere in circolo energie ed entusiasmo. L’Italia ha bisogno di credere in se stessa, non vi manca il genio e avete ancora la ricchezza necessaria per investire sul futuro e tornare ad essere competitivi. Ci vuole la volontà politica ma anche quella sociale, quella dei singoli cittadini e bisogna capire dove va il mondo». 

Dove va il mondo per un ambasciatore che nei suoi affari e nella sua attività di consulente politico si è specializzato nell’innovazione è abbastanza chiaro: «Negli Usa quasi il 40 per cento della crescita degli ultimi vent’anni è figlia proprio dell’innovazione e delle tecnologie. Quando sono arrivato non c’era traccia dell’economia digitale nella vostra agenda di governo, oggi finalmente c’è e da questo bisogna partire. Basti pensare che negli ultimi due anni sono stati raccolti più dati che nell’intera storia umana e che questo raddoppierà in un altro biennio e poi ancora nello stesso tempo. Tutto ciò cambia completamente il modo di vivere, lavorare, interagire e definirà aspetti diversissimi: dal controllo del traffico, alla proprietà intellettuale fino ai furti».

Una fiducia nelle tecnologie che Thorne condivide con i leader del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, di cui ha in passato lodato, non senza creare polemiche, la capacità di usare la rete in campagna elettorale: «Le mie parole furono completamente decontestualizzate ma resto convinto che nelle ultime elezioni il M5S abbia compreso meglio di tutti le potenzialità e il peso di internet nella politica». E come giudica la presenza del movimento di Grillo in Parlamento? «Ho visto molti giovani eletti che dovevano imparare come si lavora all’interno delle Istituzioni, ma li ho visti interessati a capire e a crescere: sono nuovi e stanno cercando di fare la loro strada, è così che funziona il mondo». Anche l’incontro a quattr’occhi con Beppe Grillo fece molto parlare: «Ci siamo visti a Milano, abbiamo parlato più di Internet che di politica, ma non voglio dare alcun giudizio su di lui, perché ogni frase verrebbe strumentalizzata per cui preferisco fermarmi qui». 

Allora torniamo alla Rete: la parola «Data», i «Big Data» di cui Thorne parla richiamano subito alla mente lo scandalo «Datagate» e la diffidenza verso un mondo in cui saremo molto più controllati. «Di certo abbiamo la necessità di discutere come bilanciare trasparenza, funzionalità e privacy. Ma il concetto di privacy sta cambiando e non saremo mai più “privati” come lo eravamo un tempo. Per esserlo ancora dovremmo spegnere il telefonino, i social network, rinunciare agli acquisti e alle prenotazioni in Rete, a usare ogni tipo di tecnologia». Ma attenzioni e precauzioni sono necessarie ovunque, tanto che in Ambasciata non è permesso entrare con il cellulare e perfino l’ambasciatore deve lasciare il telefonino appoggiato su un tavolino fuori dal suo ufficio.

In molta parte dell’opinione pubblica occidentale, dopo il caso Snowden, il timore è quello di avere il «grande fratello» che guarda nella tua posta e nelle tua vita e questo grande fratello viene dipinto a stelle e strisce. «Da sempre gli Usa sono visti come leader e come capro espiatorio, non crediate che i cinesi non collezionino dati e non cerchino di essere veloci più di noi. Ma vorrei essere chiaro su due cose: la prima è che il progetto Prism è legale e rispetta le nostre leggi, la seconda è che non vogliamo controllare il mondo. Il mio Paese non è di certo perfetto ma a muoverci è sempre stata l’idea di avere società prospere, libere, stabili e sicure, non l’idea di dominare il mondo».

Tra i dossier che Thorne lascerà al suo successore ci sono il sistema di comunicazioni satellitari Muos, che avrà una delle sue basi a Niscemi in Sicilia e che è stato fermato dal governatore Crocetta, e il progetto per la costruzione dei cacciabombardieri F35. «Il Muos è un anello fondamentale per la nostra capacità di garantire le comunicazioni sia alle operazioni militari sia a quelle umanitarie. Le polemiche sono figlie di una mancanza di informazione sulla natura del progetto e sul suo impatto ambientale, due basi dello stesso tipo sono sul territorio americano e sono più vicine ai centri abitati e non ci sono stati effetti di alcun tipo sulla popolazione. Non ci sono pericoli per la salute come è stato appena confermato dalla relazione finale dell’Istituto Superiore di Sanità». 

Sugli F35 è evidente la soddisfazione per il procedere del progetto in Italia, anche se la strada non è in discesa in tempi di crisi economica: «Stiamo tutti combattendo con i budget e in ogni nazione si studia dove si possono fare tagli e efficienze, ma gli Stati Uniti restano totalmente impegnati in questo progetto. È una collaborazione che prevede scambi che non hanno precedenti nel mondo: partecipando l’Italia si trova in prima fila nel sistema integrato di difesa e guadagna lavoro e capacità tecnologiche notevoli. Ai contrari e agli scettici dico: qual è l’alternativa per rinnovare la flotta aerea? Esistono solo alternative più costose e che portano meno benefici economici».

Ora Thorne vola a Washington, tornerà a portare la palla all’amico di una vita John Kerry. Erano insieme all’università a Yale, poi si imparentarono quando l’ex candidato democratico alla presidenza sposò la sua gemella Julia. Hanno sempre giocato a calcio insieme, Thorne a centrocampo, Kerry in attacco: «Il ricordo più bello è del 1966 quando con la squadra di Yale battemmo Harvard con una tripletta di John». Non ha mai smesso di giocare e prima di lasciare Roma farà un’ultima partita con la squadra dell’ambasciata. Poi la nuova vita a Washington: «Ma il mio rapporto con l’Italia non è finito, me lo sento addosso e continuerò a raccontare agli americani la faccia migliore del vostro Paese».

da - http://lastampa.it/2013/07/21/esteri/qui-c-troppa-incertezza-litalia-ritrovi-entusiasmo-e-scommetta-sul-futuro-V8UIjPu767EHmV6DlznvGP/pagina.html
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« Risposta #97 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:19:46 am »

EDITORIALI
02/08/2013

Ma il conto non lo paghi il Paese

MARIO CALABRESI

Ora c’è da chiedersi se bisogna far pagare il conto della condanna di Berlusconi al Paese, a tutti gli italiani, o se per una volta la razionalità può prevalere. Se possiamo provare ad uscire dalla crisi in cui siamo sprofondati o se ci dobbiamo imbarcare in una nuova stagione di grida, lacerazioni e campagna elettorale (sempre con la stessa terribile legge, dettaglio da non dimenticare mai).
 
Enrico Letta ieri mattina, mentre i giudici della Cassazione entravano in camera di Consiglio, si riuniva per cominciare a preparare il semestre di presidenza italiana della Ue che inizierà il primo luglio dell’anno prossimo. L’unica salvezza pare quella di guardare avanti, caparbiamente, senza farsi travolgere dai colpi di coda di un ventennio di rissa continua.
 
Il Paese può immaginare un percorso, può sperare di vedere crescere quei fili d’erba di ripresa che vengono segnalati in alcuni segmenti produttivi (grazie soprattutto alle esportazioni), può sperare di vedere il segno positivo di fronte ai dati sul Pil a partire dal prossimo anno e avrebbe diritto ad avere un governo che su questo si concentra. Oggi in Italia la domanda è una sola: i miei figli troveranno lavoro, io salverò il mio? 
 
Tutto il resto non è fondamentale di fronte all’angoscia di un futuro che si sbriciola. 
 
La Cassazione si è pronunciata, un iter giudiziario è finito, si può protestare la propria innocenza e denunciare una persecuzione ma a questo punto non esistono scappatoie, spallate o forzature. Esistono solo iter che ci si augura siano corretti e ordinati. 
 
Il presidente della Repubblica ha invitato a rispettare la magistratura, il segretario del Pd Epifani fa capire che il suo partito è pronto a portare avanti l’esperienza di governo ma non a tollerare strappi istituzionali e colpi di testa del partito di Berlusconi. Siamo a un bivio, in poche ore potrebbe sfasciarsi tutto ancora una volta o si potrebbe finalmente vivere in un Paese in cui una sentenza, che colpisce un politico nelle sue vesti di imprenditore, non determina il destino di un governo.
 
Gli italiani assistono, la gran parte come spettatori, a questo finale. Guardano da fuori chi ha in mano il loro futuro e scrutano per vedere se verrà appiccato l’incendio. Sono convinto che quelli che lo auspicano siano una minoranza, non perché la maggioranza ami l’idea di un governo di larghe intese ma perché prevale lo sfinimento e la nausea verso la guerra totale. Una guerra che non ha costruito nulla e che ha trascinato la politica in fondo alla scala del gradimento e della stima. 
 
I prossimi giorni saranno cruciali, la navigazione sarà difficilissima, ma la domanda fondamentale è se la maledizione italiana, essere sempre prigionieri del passato, condannati a vivere con la testa che guarda all’indietro, sia destinata a protrarsi o possa svanire.
 
La Cassazione mette la parola fine, è sempre così, a un percorso e a una storia giudiziaria. E non deve certo essere l’inizio della nostra fine.

da - http://www.lastampa.it/2013/08/02/cultura/opinioni/editoriali/ma-il-conto-non-lo-paghi-il-paese-LkU1ZLLeNMCaM9zwos6cPI/pagina.html
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« Risposta #98 inserito:: Agosto 04, 2013, 11:43:24 am »

Editoriali
04/08/2013

L’abbaglio dello scontro totale

Mario Calabresi


Dove sono gli italiani pronti a una guerra civile per contrastare la sentenza della Cassazione? In giro non se ne vedono. E chi predica lo scontro totale ha perso ogni sintonia con gli umori e i bisogni dell’Italia di oggi.

In giro si incontrano tantissimi cittadini che la guerra vorrebbero invece farla alla disoccupazione e a una crisi che ha ridotto i giorni di vacanza e i sacchetti della spesa, aumentando invece paure e incertezze. Si vedono italiani sfiniti da una politica che è tornata a girare intorno a un uomo solo, alle sue vicende giudiziarie, alla sua rabbia. 

Chi chiede rispetto per otto milioni di elettori si ricordi che il rispetto lo si deve anche agli altri 50 milioni di italiani che vivono questo Paese. E che tutti, a partire proprio dagli elettori di destra e dall’opinione pubblica moderata, non meritano tutto questo. Meritano che ci si occupi dei loro bisogni, dei negozi che chiudono, delle aziende che soffocano, delle tasse troppo alte e non che ci si infili in una nuova guerra che darà il colpo di grazia alla nostra economia.

Il percorso è uno solo: le sentenze vanno rispettate, così le forme della democrazia, e non si può immaginare di ricattare contemporaneamente il Presidente della Repubblica, il governo e gli italiani.

Resto convinto che le urne sarebbero una sconfitta tragica e ci precipiterebbero di nuovo nel caos: la stabilità oggi è un valore primario, prima di tutto per i cittadini comuni, ma per averla non si possono accettare la paralisi e lo stravolgimento delle regole. E’ tempo di normalità e non di proclami, di pazienza, di menti lucide e serene che guardino lontano. Questo si aspetta un Paese col fiato sospeso. 

da - http://lastampa.it/2013/08/04/cultura/opinioni/editoriali/labbaglio-dello-scontro-totale-H9iaDME9cF4Q0bzGMQ1HpM/pagina.html
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« Risposta #99 inserito:: Settembre 06, 2013, 11:26:01 pm »

Lettere al direttore
03/09/2013

Il campioncino di arrampicata non aveva sbagliato nulla

Mario Calabresi


Riprendo a rispondere alle vostre lettere facendo un passo indietro, tornando al 10 luglio scorso. Quel giorno pubblicai una mail che parlava di Tito Traversa, il piccolo campione di arrampicata scomparso pochi giorni prima, a soli 12 anni, in una palestra di roccia francese. 

 

In quella lettera si diceva che se una colpa poteva avere il padre, era solo quella di avere trasmesso al figlio una passione profonda per la montagna.

Io avevo risposto spiegando di condividere pienamente quelle parole ma sottolineando che fino a quel momento «non ero riuscito a scrivere della morte del piccolo arrampicatore perché oscillavo tra la profonda pietà per i genitori e un sentimento di rabbia per un bambino mandato in parete così giovane».

 

Oggi mi dispiace di aver provato questi sentimenti e di averne scritto, ho avuto modo di approfondire questa storia e di parlare con il papà di Tito, Giovanni, che mi ha aiutato a capire che il bambino non stava praticando avventura, ma sport. 

Come ha scritto Reinhold Messner: «Tito non praticava alpinismo ma arrampicata libera: la stessa differenza che passa tra scendere con gli sci da una parete e sciare in pista». 

 

L’arrampicata libera è uno sport dove la caduta durante una salita al limite delle proprie possibilità non è un fatto eccezionale ma è la regola, e quindi lo si fa con tutte le protezioni necessarie e il rischio della vita non esiste. Tito non ha sbagliato nulla, non ha commesso imprudenze, ma è morto perché altri - quelli che avevano preparato l’attrezzatura - avevano sbagliato a montarla. 

Oggi anche la magistratura francese e quella italiana stanno giungendo alle stesse conclusioni.

Ci tenevo a dirlo, non solo perché era giusto nei confronti di un padre, ma anche per onorare la memoria di un bambino speciale che aveva «una gioia, una passione e un talento per l’arrampicata incontenibili».

da - http://www.lastampa.it/2013/09/03/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/il-campioncino-di-arrampicata-non-aveva-sbagliato-nulla-CLfByNBKY9a6TEkhBH8V4N/pagina.html
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« Risposta #100 inserito:: Settembre 06, 2013, 11:27:23 pm »

Lettere al direttore
04/09/2013

Nuovi senatori a vita, segnale per gli italiani e per gli stranieri

Mario Calabresi


Mi ricordo ancora quando il 20 giugno 2012 la dottoressa Chiara Mariotti dell’Istituto Nazionale di Fisica nucleare, con una nota di commossa passione della voce, ricordò a noi ragazzi della Scientific Summer Academy tutti gli sforzi compiuti, tutte le speranze nutrite e le sofferenze patite da centinaia di ricercatori e scienziati del Cern durante lo svolgimento del loro lavoro, il quale avrebbe presto condotto, come è ben noto, all’imminente comunicazione ufficiale della scoperta del bosone di Higgs.

Ricordo anche quando il 22 luglio scorso la dottoressa Elena Cattaneo, ricercatrice presso l’Università di Milano, ricordò ai corsisti della Normale la notevole importanza dell’impegno e della passione, binomio che deve essere costantemente presente nel lavoro di un ricercatore, in Italia spesso sottovalutato e sottopagato (poi ci si lamenta della fuga dei cervelli!); con grande professionalità e autorevolezza ci parlò inoltre delle ultime «faticose conquiste» in materia di cellule staminali, le quali, come lei stessa precisò, costituiscono di fatto la nuova frontiera delle «fantasiose cure» per le malattie neurologiche. Citando incidentalmente la Normale, non ho reso giusto spazio agli indubbi meriti di Carlo Rubbia, vincitore del Premio Nobel per la Fisica nel 1984 insieme al collega Simon van der Meer.

Ecco, è questa a mio avviso l’Italia che vale e che deve essere presentata agli occhi degli altri Stati: non i piccoli drammi interiori dei parlamentari, che ormai intessono il mondo della politica sprofondandolo in un pantano di fango e veleno; non gli scandali privati di quest’attrice o quel conduttore, che potranno essere, sì, interessanti, ma straordinariamente monotoni e ripetitivi; non l’Italia di Calciopoli e Mani pulite, in cui il personaggio storico più conosciuto è San Siro e lo scrittore più noto Fabio Volo. Non un’Italia di tangenti e corruzione, ma un’Italia di studiosi e appassionati del proprio lavoro, che possibilmente «illustrino la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario»: ecco, questa è l’Italia che dobbiamo presentare agli occhi degli altri ma, prima di tutto (e soprattutto), agli occhi degli stessi italiani.

Federica Cresto, studentessa di Liceo Classico,
 

Luserna San Giovanni (TO)
 

 ---

Abbiamo ricevuto molte lettere dopo la nomina dei quattro senatori a vita, lettere di ogni genere e sentimento, e non sono mancate quelle che criticavano la scelta stessa di fare quattro nuovi senatori, quelle che si concentravano sui soldi che avrebbero preso e quelle che si focalizzavano sull’età della scienziata Elena Cattaneo.

Grazie al cielo ce n’erano altre che coglievano il segnale mandato agli italiani e agli stranieri, che questo Paese non è solo capace di scandali e corruzione, ma anche di produrre eccellenze. La lettera che ho scelto lo spiega benissimo e io sono francamente rimasto impressionato dalla grettezza di certe polemiche, a partire da chi si è esercitato sulle possibili aspettative di vita della Cattaneo. Sembra di capire che la studiosa impegnerà una parte della sua indennità per sostenere giovani ricercatori. Sarebbe una bellissima lezione ai malpensanti di professione.

Quanto agli altri, è la Costituzione a prevedere i senatori a vita e a prevedere che siano scelti tra «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».

Fa sorridere vedere che tra i critici della scelta ci siano molti che poi gridano alla sola idea di riformare la nostra Carta. La Costituzione, come le leggi, non può piacerci a intermittenza e a seconda delle nostre convenienze.


da - http://www.lastampa.it/2013/09/04/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/nuovi-senatori-a-vita-segnale-per-gli-italiani-e-per-gli-stranieri-RvnLulSWrwnl10JxGllKCN/pagina.html
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« Risposta #101 inserito:: Settembre 09, 2013, 08:55:01 am »

Editoriali
09/09/2013

Una certa idea del giornalismo

Mario Calabresi


Domenico è un uomo libero. Libero di raccontare: « È stata una terribile esperienza», è la prima cosa che mi ha detto «ma sai qual è la mia idea del giornalismo: bisogna andare dove la gente soffre e ogni tanto ci tocca soffrire come loro per fare il nostro mestiere». 

 

La notizia del suo ritorno è arrivata ieri sera, poco prima di cena: è stata un’emozione fortissima. Quando ho chiamato Giulietta, la moglie, non riuscivamo quasi a parlare, poi lei ha detto: «Non so neanche come sto, ma so che ce l’abbiamo fatta». La forza è stata di averci sempre creduto, di non aver abbandonato la speranza, di aver tenuto vivo un filo, anche in quei due primi terribili mesi nei quali non arrivava nessun segnale, quando Domenico sembrava scomparso nel nulla. 

 

Crederci ha significato non lasciarsi sprofondare nello sconforto e non perdere la testa. Giulietta e le figlie sono state capaci di farlo, anche con un velo di ironia, tanto che per scaramanzia non avevano voluto tagliare l’erba del prato di fronte a casa, era un lavoro del papà e spettava a lui tornare e farlo. 

 

Anche qui, al suo giornale, gli amici e colleghi hanno saputo aspettare con fiducia e hanno rispettato il silenzio, dando prova fortissima di essere una vera squadra. 

 

Poi è arrivata quella telefonata, il 6 giugno, e avevamo sperato che tutto potesse finire in fretta. È stato durissimo rendersi conto che invece sarebbe stata ancora lunga. E durissimo è stato non farsi contagiare dalle voci e dalle segnalazioni che raccontavano che era morto. 

 

Se oggi Domenico Quirico, che era stato rapito dopo essere entrato in Siria dal confine libanese, è stato liberato lo dobbiamo a un formidabile impegno di tutti gli apparati dello Stato che hanno lavorato al caso con una passione e una dedizione incredibili.

 

Avere fiducia è significato scommettere su questo lavoro coordinato dall’Unità di crisi della Farnesina - a cui hanno dato sempre il loro apporto in prima persona Emma Bonino e Enrico Letta - senza cercare strade alternative, che potevano essere allettanti ma anche disastrose.

 

Avevamo sperato che la svolta potesse arrivare proprio in questi giorni, prima di un possibile intervento americano in Siria che può creare ancora più caos in un’area che è al centro dei combattimenti. Se Domenico è libero è proprio perché sono stati intensificati gli sforzi per liberarlo, in una corsa contro il tempo. 

Domenico ora torna a casa e da oggi non troverete più il fiocchetto giallo sulla testata del giornale, ma non dobbiamo dimenticare che in quella terra tragica resta ancora rapito Padre Dall’Oglio.

 

Il nostro grazie va a tutti i lettori, ai colleghi degli altri giornali, delle radio, delle televisioni e dei siti, e a tutti gli italiani che ci hanno fatto sentire la loro solidarietà e l’affetto.

 

Adesso Domenico potrà raccontarci questa lunga storia, ma prima di tutto dovrà tagliare l’erba.

da - http://lastampa.it/2013/09/09/cultura/opinioni/editoriali/una-certa-idea-del-giornalismo-MWyZ6Dl2anaar8FlSHDNDI/pagina.html
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« Risposta #102 inserito:: Settembre 11, 2013, 05:19:49 pm »

Editoriali
10/09/2013

Quirico, un giorno per riscoprire il mondo


Mario Calabresi


L’aereo era appena decollato da Torino, alle 6 e 40 di ieri mattina, quando Giulietta Quirico, seduta accanto al finestrino, ha visto il cielo colorarsi di arancione e si è lasciata andare: «Non ho chiuso occhio anche stanotte ma finalmente per noi è l’alba di un nuovo giorno».

 

Nella borsa che ha preparato in fretta l’abito grigio, la camicia a righe e la cravatta regimental per quel marito che non vede da 156 giorni. All’atterraggio il traffico di Roma ritarda l’incontro previsto per le 8 alla Farnesina. Le squilla il telefono, è Claudio Taffuri, il capo dell’Unità di crisi, che le chiede dove sia finita, dice che Domenico l’attende con ansia. Allora lei con una certa ironia risponde: «L’ho aspettato per cinque mesi, adesso non sarà un dramma se mi aspetta lui per cinque minuti».

 

L’incontro è commovente, poi Domenico corre a cambiarsi e smette i panni del prigioniero, dell’uomo costretto a vegetare per quasi due stagioni: «Mi hanno rubato una primavera e un’estate, era come se fossi su Marte, sono stato tagliato fuori dal mondo». E per un giorno intero mi chiederà di aggiornarlo su tutto, con lo stupore di un bambino che deve recuperare il tempo perduto.

 

Sull’aereo che lo riportava in Italia ha chiesto chi fosse diventato presidente della Repubblica, quando gli hanno risposto Napolitano ha ribattuto: «No, intendo quello nuovo...», poi ha avuto conferma che il capo del governo è Enrico Letta. Quando era partito c’era ancora Pierluigi Bersani che cercava di formare una maggioranza, poi una sera ha intravisto dal televisore dei suoi carcerieri le immagini, su Al Jazeera, della fase finale del G8. «Ero lontano non sentivo l’audio e quando i leader si sono messi in posa per la foto ricordo ho visto un signore che non era Putin, non era Obama, non era la Merkel, non era Hollande, non era Cameron, non era giapponese e non era neanche il canadese così mi sono detto: mah... quello deve essere l’italiano e mi è sembrato Enrico Letta, però fino a ieri mi sono tenuto il dubbio. E poi i rapitori continuavano a ripetermi: “Ma tanto ci penserà Berlusconi a salvarti”, convinti che fosse sempre lui il capo del governo».

 

Quando poi al fondo della scaletta ha visto Emma Bonino si è commosso: «Mai più avrei immaginato che fosse diventata ministro degli Esteri, la conosco da vent’anni, dall’epoca del genocidio in Ruanda, che è un po’ la nostra storia ed è un po’ la storia di tutte queste terribili vicende che io racconto da anni e lei ha contrastato battendosi come ha sempre fatto». La Bonino lo ha accompagnato a Palazzo Chigi, ad incontrare Enrico Letta. Nella sala d’angolo che era stata lo studio di Berlusconi e poi di Monti e che oggi è tornata a funzionare come luogo di rappresentanza, dopo il premier è entrato Angelino Alfano e Domenico ha strizzato gli occhi. Più tardi, sottovoce e con garbo, mi ha chiesto cosa ci facesse nella sede del governo e quando gli ho spiegato che è ministro dell’Interno e vicepremier è rimasto a bocca aperta: «Quando ho visto Letta e Alfano insieme ho pensato di sognare, non riuscivo a capire, adesso invece ho capito che la politica è proprio l’arte dell’impossibile».

 

Ma a stupirlo più di tutto sono stati i fatti di politica internazionale, quelli che ha sempre seguito con passione, senza perdere mai una notizia, una sfumatura, un dettaglio e nel tempo breve del viaggio di ritorno verso Torino ha dovuto fare i conti con il nuovo sconvolgimento del Medio Oriente e la fine delle primavere arabe. Mai avrebbe scommesso sulla vittoria di Rohani alle elezioni iraniane e i suoi occhi si muovevano veloci a cercare di immaginare le conseguenze, così ha una voglia matta di capire cosa sia successo in Qatar, perché l’emiro abbia abdicato e il Paese abbia ripiegato dopo la sua politica aggressiva d’influenza su tutta la regione. 

 

Ma la cosa che lo ha sconvolto di più è stata la notizia del golpe egiziano, con l’arresto di Morsi e l’uscita di scena del Fratelli Musulmani. «Ma si sono lasciati estromettere così, senza combattere?». Quando gli ho spiegato che le piazze si sono incendiate, che l’esercito ha sparato sulla folla dagli elicotteri, allora gli è venuto un nodo in gola: «Quante cose non ho visto, quante cose avrei potuto raccontare». Solo nel momento in cui gli ho detto «... e invece hanno fatto uscire dal carcere Mubarak» mi ha guardato storto pensando che lo prendessi in giro.

 

Gli ho poi raccontato della Shalabayeva, del rimpatrio forzato in Kazakhstan della moglie e della figlia dell’oligarca dissidente Ablyazov e si è fatto ripetere la storia due volte perché non riusciva a capirla, ha chiesto chi sia favorito alle elezioni tedesche e non s’è stupito che la nostra politica sia paralizzata dalle questioni giudiziarie di Berlusconi.

 

Mi sono dimenticato di dirgli che abbiamo visto il vecchio Papa e quello nuovo pregare insieme e che gli americani sono finiti in un nuovo scandalo spionaggio, ma è stato perché, dopo una giornata intera in cui aveva raccontato a tutti della disperazione della Siria e della sua prigionia, aveva voglia di evadere un momento. 

 

Mentre atterravamo ha chiesto chi avesse vinto il campionato e i colpi di mercato del suo Milan. Prima gli ho detto della Juve e della cessione di Cavani, poi, pensando di restituirgli il sorriso, gli ho annunciato il ritorno di Kakà. Si è messo le mani davanti agli occhi: «Questa proprio non ci voleva, non l’ho mai sopportato, averlo saputo sarei rimasto in Siria...». 

da - http://lastampa.it/2013/09/10/cultura/opinioni/editoriali/quirico-un-giorno-per-riscoprire-il-mondo-P1d4d8uLtMFtVVtF184IiP/pagina.html
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« Risposta #103 inserito:: Settembre 29, 2013, 11:07:39 am »

Editoriali
29/09/2013

Ora basta, pensate al Paese

Mario Calabresi

A metà di un sabato pomeriggio in cui gli italiani cercavano di godersi le ultime ore di clima mite, prima della pioggia che annuncia l’autunno, è arrivato improvviso il gelo di una crisi inutile e disastrosa. 

La decisione a sorpresa di Silvio Berlusconi di far dimettere i suoi ministri, per far crollare il governo, è un colpo durissimo per il nostro Paese. Un’umiliazione che ci sprofonda nel caos, nella mancanza di credibilità, che ci rimette sotto esame, che conferma ogni peggior
stereo-
tipo sugli italiani. 

Oggi è il compleanno del Cavaliere, compie 77 anni, ma il regalo che ha fatto agli italiani è amarissimo. Non si tratta soltanto dell’aumento
dell’Iva o del rischio di dover pagare l’Imu, cosa su cui si continuerà a discutere e che fa parte delle opposte propagande, ma del lavoro e degli sforzi gettati via e dell’impossibilità di concentrarsi sul salvataggio dell’Italia.

È quasi inutile mettersi a ricordare la situazione nella quale siamo: la mancanza di lavoro, di speranze, di prospettive; il coraggio che moltissimi devono mettere in campo ogni giorno per andare avanti; la disperazione di chi deve abbassare una saracinesca per sempre o di chi ha ricevuto la lettera di licenziamento. Inutile anche gridarlo di fronte a chi è sordo ai problemi di tutti.

Nei Paesi normali, quelli noiosi in cui le elezioni si tengono a scadenze fisse, i cambi di governo sono considerati traumatici perché ogni volta bisogna rimettere in moto la macchina con guidatori nuovi. Noi ci permettiamo il lusso - suicida - di farlo per la seconda volta nello stesso anno. Con un disprezzo totale della vita dei cittadini e dei loro problemi. 

In Francia è appena stata varata una commissione che dovrà stilare un rapporto per immaginare come sarà il Paese tra dieci anni, per programmare politiche capaci di interpretare e guidare i cambiamenti. Il nostro orizzonte invece si è ridotto ad una manciata di ore. Non abbiamo nemmeno più la vista breve, sembriamo condannati alla cecità.

Nella settimana in cui dovremmo solo discutere del fatto che la prima azienda telefonica nazionale passa in mani straniere o che la nostra compagnia aerea di bandiera presto non sarà più tricolore, siamo risucchiati nel gorgo dei problemi giudiziari di un uomo solo.

Un uomo solo, che può gridare all’ingiustizia e alla persecuzione, ma che non ha il diritto di trascinarci a fondo tutti, di toglierci la possibilità di tornare a respirare.

Tra quindici giorni andrà presentata la legge di stabilità, il passaggio chiave per chi come noi ha i conti pubblici a rischio; il 15 novembre arriveranno le pagelle europee; il nostro debito è risalito pericolosamente; il Fondo Monetario proprio due giorni fa è tornato a parlare di Italia a rischio: E noi, che avremmo un disperato bisogno di uno scudo di protezione e di credibilità, ci presentiamo al giudizio nudi e disarmati.

Questa settimana Letta era a parlare a Wall Street, per rassicurare sulla nostra stabilità, pensate allo sconcerto o alle risate (a seconda che ci amino o no) che si stanno facendo in giro per il mondo. 

Avremmo bisogno di alzare la testa, dare spazio all’energia e alla razionalità e provare a immaginare e costruire, partendo dai problemi reali,
un’altra Italia. 

Un’Italia in cui alla possibilità di dare un contratto di lavoro a un giovane sia attribuita la stessa dignità e importanza dei problemi giudiziari di Berlusconi. In cui si capisca, come ci raccontava su queste pagine con grande lucidità e efficacia il professor Enrico Moretti, che avere una compagnia aerea di bandiera con una base di voli internazionali non è uno sfizio ma una necessità vitale per far crescere l’occupazione e ogni tipo di commercio.

In cui ci si interroghi sul futuro possibile della sanità pubblica, sulle cure che ci potremo permettere, sull’importanza della ricerca e degli investimenti in istruzione per ripartire.

Un’Italia in cui non si vive prigionieri delle guerre tra falchi e colombe, ma in cui il semplice cittadino che sta aspettando un colloquio e il grande imprenditore che deve decidere un investimento non vedano vanificati i loro sforzi dai risultati di un pranzo del sabato in Brianza.

Gli italiani meritano rispetto. È tempo di chiarezza, di passaggi netti, definitivi. 

Sappiamo con certezza che la maggioranza dei politici del Pdl non approva questa decisione. Sarebbe ora che trovassero la dignità e la forza di non scambiare l’affetto, la fedeltà e la riconoscenza per il Capo con l’adesione a un gesto che fa del male a tutto il Paese. 

E sarebbe il tempo in cui tutti quelli che pensano di appartenere ad una comunità fatta di sessanta milioni di persone e non ad una parte, avessero il coraggio di dire: «Questa volta viene prima l’Italia».

da - http://lastampa.it/2013/09/29/cultura/opinioni/editoriali/ora-basta-pensate-al-paese-TFT0513LINfsaXeZ24LVjN/pagina.html
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« Risposta #104 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:50:45 pm »

Lettere al direttore
19/11/2013

La cultura dà anche da mangiare a Natale regaliamo tutti un libro

Mario Calabresi

Gentile Direttore, 

si sta nuovamente avvicinando il momento del Natale, con tutta la sua strana fusione tra la celebrazione di un rito religioso e quella di un rito pagano quale può essere la corsa agli acquisti e ai regali, da donare da lì a poco. 

Ecco, a proposito di regali, sarebbe bello se in tanti si ricordassero e tenessero a memoria un vecchio manifesto dedicato al valore del Libro come regalo. Se non ricordo male, recitava così... è bello regalare un libro perché:... è un modo diverso per dire Ti amo; un modo insolito per dire Ti penso; un modo intelligente per dire Grazie. 

Poi, ora che ci troviamo in questa lunga fase di recessione, è anche un modo per sostenere qualcosa che è ancora quasi interamente prodotto in Italia, e in alcuni casi anche a livello locale. Una buona azione di civiltà, in un Paese che anche in questo caso riesce a distinguersi nel modo peggiore, essendo tra le ultime per diffusione e assorbimento di materiale culturale. 

Regaliamo tutti un buon libro, e ricordiamo così agli altri che «istituire biblioteche e librerie è come edificare granai pubblici, ammassare riserve contro un imminente inverno dello spirito» (Marguerite Yourcenar, scrittrice francese, 1903-1987). 

Angelo Farano Taranto
 


Mi sembra una bellissima idea, che sottoscrivo, perché come molti di voi stanno testimoniando ogni sabato nello spazio su «I migliori libri della nostra vita», un libro è davvero capace di allargare e allungare la nostra esistenza. E poi vale la pena sostenere tutti quelli che sono ancora convinti che la cultura dia anche da mangiare. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/19/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/la-cultura-d-anche-da-mangiare-a-natale-regaliamo-tutti-un-libro-ruJptxc1Xut4Rp7NVDEy7L/pagina.html
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