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Autore Discussione: MARIO CALABRESI.  (Letto 72936 volte)
Arlecchino
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« Risposta #120 inserito:: Gennaio 03, 2017, 08:59:38 pm »


Grillo e M5s, una nuova grammatica

Di MARIO CALABRESI
03 gennaio 2017

NON CI può essere alcun automatismo tra un avviso di garanzia e le dimissioni e questo nemmeno può significare che sia certo un comportamento grave da parte di chi si trova al centro di un’indagine. A stabilirlo è il nuovo codice di comportamento del Movimento 5 Stelle diffuso ieri da Beppe Grillo. Una reazione istintiva ci spingerebbe a criticare questa svolta radicale sottolineando che suona opportunistica nella tempistica, visto che arriva quando appare imminente un coinvolgimento nelle inchieste romane di Virginia Raggi. Un atto che, proprio in base ai canoni sempre santificati dai Cinquestelle, avrebbe imposto le dimissioni della sindaca, come preteso un anno fa nel caso del primo cittadino di Parma, anche se in quel caso a sollevare la contestazione fu la mancata trasparenza sulla vicenda.

Inoltre colpisce che questo garantismo arrivi da parte di un uomo che ha usato gli avvisi di garanzia come una clava nella lotta politica e predicato la purezza come carattere distintivo del suo movimento. Un'obiezione che però sarebbe facile muovere anche al Partito Democratico che per anni ha usato inchieste, indagini e avvisi di garanzia nella sua battaglia contro Berlusconi e il centrodestra salvo poi trovarsi numerosi indagati e condannati in casa.

Così ci sembra più corretto guardare alla sostanza per dire che l'intervento di Grillo è giusto per il principio che esprime e serve a ristabilire alcuni elementi di correttezza nel rapporto tra politica e magistratura. Le nuove linee guida dei 5 Stelle restituiscono all'iscrizione nel registro degli indagati il suo valore autentico: l'inizio di un procedimento in cui vengono raccolti e pesati gli elementi a sostegno dell'accusa e non un indizio automatico di colpevolezza.

Da quasi un quarto di secolo si ripete che l'avviso di garanzia è un atto dovuto, uno strumento difensivo che invece troppo spesso è stato impugnato come elemento offensivo. Oggi non si usa quasi più, perché le riforme alla procedura penale hanno imposto l'interrogatorio a chiusura indagini, che infatti assieme alle proroghe delle inchieste è diventato il momento giornalistico in cui si viene a conoscenza delle inchieste contro qualcuno.

Ma ribadirlo oggi può aiutare a svelenire il clima politico e può servire a restituire un sano principio di responsabilità alla politica e al mondo dell'informazione. È l'occasione per una nuova grammatica, in cui si mettono da parte automatismi e riflessi pavloviani e si analizzano i casi nella loro specificità, valutandone gravità e responsabilità.

Bisogna dire che nel corso degli anni il livello di tolleranza verso il comportamento dei politici è comunque cambiato, qualcosa che solo i 5stelle hanno ignorato. Due ministri — Maurizio Lupi e Federica Guidi — si sono dimessi senza che fossero state formalizzate ipotesi di reato nei loro confronti. Ci sono stati dibattiti parlamentari e una valutazione di quanto emergeva dagli atti delle procure che li hanno spinti a decidere: valutazioni etiche e politiche, che sono andate oltre il quadro giudiziario.

Questo è il punto da sottolineare, che deve servire come stella polare anche per l'attività giornalistica: non limitarsi alla pubblicizzazione della mera posizione di indagato, ma insistere in un lavoro di approfondimento e analisi dei comportamenti, che offra al Parlamento e ai cittadini tutti gli elementi per decidere. Quello era il senso delle dieci domande di Giuseppe D'Avanzo nei confronti dell'allora premier Silvio Berlusconi: il giornalismo d'inchiesta.

Lo stesso che ci ha portato a denunciare opacità e rischi nelle nomine e nella scelta dei collaboratori da parte di Virginia Raggi, un lavoro fatto ben prima che arrivassero avvisi di garanzia e arresti, che hanno solo confermato la bontà del lavoro di Repubblica.

© Riproduzione riservata
03 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/03/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_5626317-155310306/?ref=HRER2-1
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« Risposta #121 inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:20:08 pm »


Il giudice è il lettore
Nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza

Di MARIO CALABRESI
04 gennaio 2017

L’ITALIA è al 77esimo posto nella classifica della libertà di stampa, dietro Paesi africani come Burkina Faso e Benin. Il motivo? Non quello che pensano i detrattori del nostro giornalismo, ovvero l’asservimento al potere, ma il contrario: troppi sono i giornalisti minacciati dalle mafie e dalla criminalità organizzata per le loro inchieste su malaffare e corruzione. Come se non bastasse abbiamo il record delle cause contro i giornali intentate dai politici, che mal sopportano l’idea che qualcuno faccia loro le pulci o li critichi e così ricorrono ai tribunali con evidente scopo intimidatorio.

Non da ieri si è aggiunto alla schiera dei politici che vorrebbero mettere la museruola ai giornalisti anche Beppe Grillo.  Evidentemente infastidito dall’idea che qualcuno rompa l’incantesimo a 5 Stelle e denunci corruzione, incapacità e opacità delle amministrazioni a lui legate, come sta accadendo a Roma.

Sarebbe sbagliato orchestrare una difesa d’ufficio del giornalismo italiano, senza dubbio non esente da pecche e peccati, ma nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza, per cui chiunque può concionare su vaccini, scie chimiche, chemioterapia o cellule staminali con la pretesa di avere in tasca una verità popolare, da nulla suffragata se non da un sentimento di massa.

I danni che questo nuovo conformismo della Rete sta facendo al dibattito pubblico sono incalcolabili. Grillo propone una giuria popolare di fronte alla quale trascinare i direttori per far loro ammettere gli errori a testa bassa. Se l’idea della giustizia popolare non facesse venire alla mente precedenti storici drammatici, sarebbe da riderci sopra. E quanto ai tribunali, esistono già e continuamente si occupano di direttori chiamati a rispondere per quanto scritto sui loro giornali. A Grillo piace l’idea di una giustizia fai da te, come quella che decide espulsioni e ammende all’interno del movimento.

A noi, però, preoccupa di più il danno che la propaganda grillina arreca al tessuto sociale, alla fiducia nell’informazione e il farsi strada dell’idea che il giornalismo sia establishment a cui contrapporre il popolo. Il nostro popolo è la comunità dei lettori, che è anche il nostro unico giudice. Il suo verdetto lo emette ogni mattina, decidendo se leggerci o no.

© Riproduzione riservata
04 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/04/news/il_giudice_e_il_lettore-155364421/?ref=HRER2-1
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« Risposta #122 inserito:: Aprile 08, 2017, 06:26:43 pm »

Il Paese che vorresti
Viviamo in un Paese in cui abbondano gli stereotipi e le analisi datate, troppo spesso la realtà viene letta con categorie del Novecento, con delle lenti che appartengono a un altro secolo e a un mondo che non esiste più.

L'Italia di oggi è cambiata molto più di quanto si racconti, si sono rotte tradizioni consolidate e il mondo del lavoro come quello del tempo libero si sono frammentati in mille esperienza diverse e personali. La scansione del tempo, delle giornate e delle settimane, si è rivoluzionato e così i desideri, i bisogni e le scale di valori.

La Stampa ha deciso di essere al fianco del Laboratorio sulla Società e il Territorio (il cui acronimo - LaST - somiglia tanto al nostro nome e questo non può che farci piacere) perché pensiamo che sia una grande occasione per riconoscere e raccontare i grandi flussi di cambiamento dell'Italia e degli italiani.

Per conoscerci meglio, grazie alla collaborazione di tutti voi, e per cercare di capire dove andiamo e dove potremmo andare.

Mario Calabresi


………………

Presentazione dell'indagine
Qual è il vero volto dell’Italia? Quali sono gli orientamenti e le aspettative degli italiani? Spesso, dai mezzi di comunicazione e dalla discussione pubblica, emerge un quadro distorto, in cui è difficile riconoscersi appieno. Immagini e rappresentazioni che rinforzano gli stereotipi e non aiutano, invece, a cogliere le trasformazioni sociali del nostro Paese.

La ricerca, promossa da Community Media Research, intende svelare la parte sommersa degli italiani, ciò che usualmente non appare o non viene rilevato dai mezzi di comunicazione: i valori e gli orientamenti, le aspettative verso la qualità della vita, le forme di coesione sociale e comunitaria. Insomma, l’altra faccia dell’Italia. Non per stenderne le lodi o per volere esaltare solo gli aspetti positivi. Ma per offrire un quadro più realistico di chi siamo.

La tua adesione a questo progetto è importante e fondamentali sono le informazioni che ci potrai offrire. Il tuo contributo ci permette di costruire un’immagine più realistica della nostra identità.

I risultati dell’indagine consentiranno di realizzare uno studio approfondito su valori, aspettative e orientamenti della popolazione italiana. Verranno impiegate metodologie innovative di analisi e rappresentazione delle opinioni sulla base delle caratteristiche del profilo.

La partecipazione al panel offre la possibilità di ricevere gratuitamente contenuti di analisi, prodotti editoriali realizzati in esclusiva per il quotidiano nazionale "La Stampa" e altri articoli, approfondimenti e discussioni pubblicati sui principali canali web.

……………………………………….


Il gruppo di ricerca
Community Media Research - Community Media Research è una divisione di Community, società leader in Italia nell'advisory e nella comunicazione. Avvalendosi della collaborazione di importanti docenti universitari, quale il professor Daniele Marini dell'Università di Padova, Community Media Research è specializzata nelle ricerche e sondaggi sul web per individuare trend, andamenti e opinioni. E, soprattutto, per fornire indicazioni sugli sviluppi attesi in ambito economico e sociale attraverso i dati raccolti sulla Rete.
Daniele Marini - responsabile scientifico - Professore associato di Sociologia dello Sviluppo e del Territorio presso l'Università di Padova, è Componente del Consiglio Direttivo del Dottorato in Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università di Verona. Ricopre, inoltre, i seguenti incarichi: Direttore Scientifico di Community Media Research; Editorialista del quotidiano "La Stampa"; Componente del Consiglio di Amministrazione di FriulAdria Crédit Agricole e del Direttivo Fondazione Antonveneta. Inoltre, fra gli altri, è componente dei seguenti Comitati Scientifici: EntER (Centro di ricerca Imprenditorialità e Imprenditori) dell'Università Bocconi di Milano; Rivista "L'industria" de il Mulino di Bologna; Padova University Press, Università di Padova.
Questlab - società di ricerca economica e sociale - Realizza indagini campionarie nei confronti di imprese, istituzioni e famiglie, prima società in Italia che adotta sistemi di intervista basati sul Web (CAWI) a fianco delle tradizionali modalità di rilevazione diretta e telefonica (CAPI, CATI).
Quantitas - startup innovativa - Quantitas è una startup innovativa, nata nell'agosto 2014, ha l'obiettivo di sviluppare sistemi di supporto alle decisioni in contesti ad alta complessità, creando tools e ponendosi la sfida di implementare le metodologie di raccolta, analisi, visualizzazione e diffusione delle informazioni.

……

Regolamento
Possono partecipare a IndagineLaST (Laboratorio sulla Società e il Territorio) i cittadini maggiorenni residenti in Italia che vogliano condividere idee ed opinioni compilando semplici sondaggi periodici online o telefonici; l’iniziativa si rivolge ad un Panel rappresentativo stratificato per caratteristiche socio-demografiche, il campione sarà controllato a posteriori secondo distribuzioni dei dati di fonte Istat.

Per partecipare alla ricerca è necessaria l’iscrizione online o l’adesione telefonica tramite operatore; i rispondenti accettano le condizioni di fruizione dei servizi resi disponibili nelle sezioni e/o aree tematiche dedicate. Le persone iscritte accedono ad un’area riservata dove possono inserire e aggiornare il proprio profilo personale ed esprimere le proprie opinioni su temi ed argomenti di interesse posti esclusivamente a fini di ricerca.

La ricerca prevede la ripetizione periodica di sondaggi a cadenza bimestrale o trimestrale; ai partecipanti verranno richieste informazioni su orientamenti, aspettative, valori e opinioni sulla società. Il sistema, durante il periodo di realizzazione di ciascun sondaggio, invia messaggi automatici di invito a tutti gli iscritti che possono decidere se partecipare o meno, senza obbligo di risposta. I dati raccolti saranno elaborati ed analizzati in forma aggregata e pubblicati in articoli e varie pubblicazioni per la stampa ed il web.

Il tuo contributo per noi è importante. Per questo è fondamentale che, quando partecipi alle nostre attività, tu dia risposte veritiere.


……………………………..

Da - http://www.indaginelast.it/il-paese-che-vorresti
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« Risposta #123 inserito:: Maggio 08, 2017, 08:46:35 pm »

Francia, Macron presidente: l'ottimismo oltre i muri
Si può vincere facendo un discorso diverso dalla rabbia e dalle paure, bisogna avere la capacità di osservare e ragionare senza farsi travolgere dalle grida. È inutile per la sinistra italiana rincorrere i populismi: meglio essere se stessi

Di MARIO CALABRESI
08 maggio 2017

La vittoria di Emmanuel Macron contiene una lezione fondamentale: si può fare un discorso diverso e vincere. Diverso dalla rabbia, dalle paure e dalla promessa di rovesciare il tavolo. Macron ci indica che non si deve guardare alla società immaginandola monolitica, coltivando la suggestione che vada tutta nella stessa direzione, quella di chi urla di più. Le maggioranze non si possono misurare attraverso il numero dei decibel prodotti dai candidati e dalle campagne mediatiche. Bisogna avere la capacità di osservare e di ragionare senza farsi travolgere dalle grida.

Se entrassimo in uno stadio bendati penseremmo che tutti i tifosi sono ultrà, ma se apriamo gli occhi ci accorgiamo che chi grida a squarciagola occupa le curve e non rappresenta la maggioranza degli spettatori. Fare politica ad occhi chiusi significa pensare che gli europei e gli italiani siano tutti contro l'Europa, siano tutti terrorizzati dai migranti, siano tutti per politiche "legge e ordine" e vogliano il porto d'armi per sparare liberamente la notte.

L'elezione di Macron ci mostra invece che bisogna avere il coraggio di proporre con convinzione una visione diversa, che è inutile per la sinistra italiana rincorrere i populisti (togliere la bandiera europea per metterne sei italiane), perché quella parte del campo è già sufficientemente affollata e soprattutto perché i cittadini diffidano delle imitazioni. Meglio essere se stessi. Macron, salito alla ribalta in un tempo brevissimo e senza un partito alle spalle, per certi versi rappresenta un'incognita ma ha avuto il coraggio di posizioni nette e chiare e non si è fatto dettare l'agenda dal Front National.

La frase che mi è rimasta più impressa quando lo abbiamo intervistato nel suo quartier generale alla fine di marzo può essere considerata il suo manifesto: "Se siamo solo un po' europei, se lo diciamo timidamente, allora abbiamo già perso". Poi aveva ricordato le parole del vecchio presidente François Mitterrand, "il nazionalismo è la guerra", e aveva aggiunto: "Se davanti agli estremismi il partito della ragione si arrende e cede alla tirannia dell'impazienza, allora saremo tutti morti". Ora però deve fare i conti con la realtà, perché la Francia non è diventata tutta progressista e illuminista in una sera perché Macron ha vinto, così come non sarebbe stata fascista se avesse vinto Marine Le Pen, ma certamente i destini e la Storia sarebbero cambiati, così come sta succedendo in Gran Bretagna dove un due per cento di elettori ha messo in moto un terremoto con conseguenze che ancora non riusciamo a mettere a fuoco.

Sappiamo però che la Francia è impaurita: avevano paura della globalizzazione, degli immigrati, del terrorismo islamico e della fine del lavoro gli elettori del Front National, così come avevano paura di molte delle stesse cose ma anche di Marine Le Pen e della fine dell'Europa tutti gli altri. Così abbiamo una certezza: paure e problemi non si archiviano con il risultato delle urne ma la sfida comincia adesso è sarà difficilissimo asciugare il malessere e portare l'Europa fuori dalla palude.

Ma ha vinto chi promette di farlo senza usare l'accetta, senza alzare muri e senza fare a pezzi quello che è stato faticosamente costruito. Ha promesso nel suo primo discorso di proteggere i fragili, di calmare le paure e di rimettere al centro un concetto che è terribilmente fuori moda e quasi pericoloso da pronunciare: l'ottimismo. Si è caricato una enorme responsabilità ma altre strade e scorciatoie non esistono.
Elezioni Francia, il primo discorso di Macron presidente: "Difenderò la Francia e l'Europa"

© Riproduzione riservata 08 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/08/news/francia_macron_presidente_l_ottimismo_oltre_i_muri-164889460/?ref=RHPPTP-BL-I0-C12-P1-S1.12-T2
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« Risposta #124 inserito:: Maggio 19, 2017, 02:10:26 pm »

La separazione dei doveri

Di MARIO CALABRESI

COME avviene da anni, con cadenza sistematica, siamo tornati a discutere della necessità di nuove regole sulle intercettazioni. Da più parti si invoca una legge, che poi non arriva mai, e ogni volta si biasimano i giornalisti. Nelle passate edizioni di questo dibattito si sono proposti bavagli, multe astronomiche e carcere per chi pubblica conversazioni riservate.

Ora a tenere banco è la telefonata tra Tiziano e Matteo Renzi e nell'intervista al nostro giornale il ministro della Giustizia sostiene che non doveva essere pubblicata perché non ha alcuna rilevanza penale. In questa frase di Andrea Orlando è contenuto tutto il conflitto che da anni contrappone politici e giornalisti. Il ministro della Giustizia ha certo il dovere di sostenere che quel colloquio intercettato e mai depositato nelle carte dell'inchiesta non doveva uscire, perché non ha rilevanza penale, ma non può dire che non andava pubblicato in un libro o sui giornali.

Non si può chiedere ai giornalisti di autocensurarsi, di farsi carico dell'incapacità delle istituzioni di tenere riservati pezzi di inchieste. Il dovere per chi fa il nostro mestiere è quello di pubblicare tutto ciò che è giornalisticamente rilevante, che può avere un valore per l'opinione pubblica.

In questo la valutazione diverge da quella del magistrato, che considera degno di essere trascritto e allegato agli atti solo ciò che ha rilevanza penale. Ma la rilevanza penale e quella giornalistica non sempre coincidono.

La storia della telefonata tra i Renzi ne è un chiaro esempio: non fa parte degli atti dell'inchiesta romana e non risulta sia stata mai fatta trascrivere dal pubblico ministero, quindi per la magistratura non aveva valore per sostenere l'accusa. Per l'opinione pubblica invece un valore ce l'ha, mostra il rapporto tra l'ex presidente del Consiglio e il padre e risponde a molte delle domande che i cittadini si sono fatti in questi mesi sulle relazioni e le complicità familiari. E in questo caso richiamare un diritto alla privacy non è corretto: la Corte europea dei diritti dell'uomo ha sostenuto più volte che la tutela della riservatezza si restringe quando si tratta di personaggi che hanno responsabilità pubbliche e allo stesso tempo si allarga il diritto di informare i cittadini.

Così se il testo di quella conversazione, che ha una evidente rilevanza giornalistica, fosse arrivato sulle nostre scrivanie anche noi l'avremmo pubblicato, come Marco Lillo sul Fatto Quotidiano, e saremmo ipocriti se sostenessimo il contrario.

Questo però non significa che il modo con cui quella conversazione è uscita sia legittimo e che non abbia provocato fortissima tensione tra procure e investigatori. È evidente che c'è stata una violazione del segreto d'ufficio da parte di un pubblico ufficiale ma per perseguirla non è necessaria una nuova legge, quelle che ci sono bastano e avanzano.

Se di una nuova legge c'è bisogno è invece per dare ordine e uniformità al metodo usato nei diversi tribunali italiani, per mettere un freno al fiume di intercettazioni che escono da ogni inchiesta senza distinzioni tra chi è indagato e chi finisce semplicemente intercettato. In questo caso non c'è bisogno di inventare nulla, basta rifarsi alle circolari di autoregolamentazione delle procure di Torino, Roma, Napoli, Bari, Firenze, che hanno stabilito di eliminare dagli atti le intercettazioni ritenute non rilevanti, che contengano dati sensibili o che violino il codice della privacy.

Come ha spiegato Armando Spataro, procuratore capo di Torino, queste direttive "hanno lo scopo di tornare a dare alle intercettazioni lo scopo che realmente hanno: raccogliere elementi per dimostrare la colpevolezza di un imputato". Un principio sacrosanto per un magistrato, che non lede il principio fondamentale di un giornalista: cercare e pubblicare notizie ogni volta che hanno valore per l'opinione pubblica, anche se sono riservate o penalmente irrilevanti.

Questo non vuole dire essere buca delle lettere delle procure. La consapevolezza che il giornalismo non significhi incollare paginate di verbali e intercettazioni ma fare sintesi e ricostruire contesti ci è chiara, valutare gli atti e le inchieste con spirito critico è un passo necessario, così come rispettare le persone e non distruggere vite e reputazioni. Ma tutto questo non ci può far dimenticare cos'è una notizia e cosa è rilevante per i lettori. Dovrebbe essere il cuore del nostro mestiere.

© Riproduzione riservata 19 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/19/news/la_separazione_dei_doveri-165799625/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2
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« Risposta #125 inserito:: Maggio 26, 2017, 05:03:21 pm »

Proteggere il futuro
Dopo Parigi, Nizza e Berlino, a Manchester si colpisce lo spazio dell'intimità familiare.
Oggi su Repubblica in edicola uno speciale con interventi di Massimo Recalcati, Massimo Ammaniti e Eraldo Affinati

Di MARIO CALABRESI
24 maggio 2017
Lo speciale con Repubblica in edicola
 
Si diceva che ci stavamo abituando agli attentati, grazie a un misto di rassegnazione e assuefazione, invece la strage di Manchester ci lascia senza parole, ci trascina nel campo dell'inimmaginabile.

Il Bataclan aveva scosso le nostre vite, quella sera a Parigi era stata colpita la gente seduta ai tavolini dei bar o mentre ballava e cantava a un concerto. Credevamo si fosse toccato il fondo della perversione, con la scelta di attaccare il nostro modo di vivere, di divertirci in libertà.

Poi ci sono stati il camion lanciato sul lungomare di Nizza, contro una folla di famiglie che aveva appena abbassato gli occhi dal cielo, dopo lo spettacolo dei fuochi d'artificio, e quello contro il mercatino di Natale a Berlino, con il vino caldo, i giochi, lo zucchero filato.

Ora si colpisce lo spettacolo dei bambini e degli adolescenti. Si entra nella cosa più cara e preziosa che abbiamo, lo spazio dell'intimità familiare. Il kamikaze ha ucciso almeno 22 persone ma anche il gesto di generosità e coraggio di un genitore, di un fratello maggiore, di una zia, che avevano regalato un rito di passaggio. Si è voluta punire la trasgressione di un bambino: andare a letto tardi per assistere al primo concerto. Immaginate quelle madri e quei padri che si erano fatti convincere e ora si tormentano per aver avuto questa idea.
Una festa di bambini e adolescenti. Lo scoppio è avvenuto quando tutto era finito e le luci si erano riaccese. Mentre il sonno spingeva verso casa. Esplosivo e chiodi.
La malignità assoluta del gesto. La folla impazzita dal terrore che scappa calpestando chi è più fragile e piccolo. Restiamo muti e pieni di rabbia.

E ora che possiamo fare? Prima di tutto dobbiamo sconfiggere il terrorismo. Abbiamo il dovere di essere vigili, di pretendere il massimo dell'attenzione, delle precauzioni, della difesa. Dobbiamo combattere questa guerra con il massimo della determinazione e dell'energia, sapendo che non potremo mai dirci completamente sicuri, perché non esiste questa possibilità.

E in questa tragica incertezza abbiamo il diritto e il dovere di crescere i nostri figli, le nuove generazioni, alla voglia di vivere. Dobbiamo avere il coraggio di non chiuderli in casa, di garantirgli un futuro.

Ariana Grande ha fatto bene ad interrompere il suo tour, c'è bisogno di riflessione, si è sempre detto che lo spettacolo deve andare avanti, ma forse sarebbe meglio dire che la vita deve andare avanti, non per forza lo spettacolo.

Di fronte all'abisso del dolore ci sentiamo perduti ma la memoria ci deve venire in soccorso, si deve continuare a vivere senza tradire il nostro modo di vivere. La Storia ce lo insegna e non ho potuto fare a meno di tornare alla mattina di sabato 2 agosto 1980. Una bomba fece strage alla stazione di Bologna: 85 morti.
L'Italia sprofondò nell'incubo mentre andava in vacanza. Anche allora morirono i bambini, quei bambini sono i fratelli delle vittime di Manchester.

Luca Mauri aveva 6 anni, era partito da Como in macchina con la mamma e il papà ma all'altezza di Bologna ebbero un incidente e quando il meccanico spiegò loro che l'auto non era in condizione di proseguire decisero di ripartire in treno. Volevano arrivare in Puglia prima di sera senza perdere un solo giorno di mare. Sarebbero morti appena entrati in stazione.

Sonia Burri, 7 anni, invece stava facendo il viaggio al contrario, arrivava da Bari con i genitori, i nonni, la zia e le cugine. La trovarono sotto le macerie abbracciata alla sua bambola rossa. Manuela Gallon aveva finito le elementari e stava partendo per la colonia, l'esplosione la uccise insieme alla mamma, si salvò solo il padre che era andato a comprare le sigarette.

Quel giorno l'Italia si piegò nel dolore, sconvolti dall'orrore molti pensarono che non ce l'avremmo mai fatta ad uscire dalla stagione delle stragi e del terrorismo. Invece la nostra democrazia riuscì a prevalere, senza tradire se stessa e salvando i suoi principi. Ci riuscì perché la reazione fu convinta e decisa, perché gli uomini migliori dello Stato si sacrificarono al massimo, perché i cittadini non si arresero alla paura ma capirono che solo l'unità li avrebbe salvati. E perché alla fine gli assassini vennero lasciati soli, persero complicità e comprensioni.

Oggi abbiamo bisogno di nuovo di tutto questo, di coraggio, di spirito di sacrificio, di cooperazione, di fermezza e intelligenza. Ma dobbiamo sapere che la partita è più grande, che siamo uniti nella sorte a tutti gli altri europei e che le comunità musulmane devono fare la loro parte, in modo convinto e deciso. Solamente tutti insieme ci salveremo.

© Riproduzione riservata 24 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/24/news/editoriale_calabresi_attentato_manchester-166236448/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2
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« Risposta #126 inserito:: Maggio 27, 2017, 04:15:49 pm »

Il grande errore delle elezioni anticipate

Di MARIO CALABRESI

Le elezioni anticipate sono sbagliate, sarebbero un errore pericoloso e una mossa sconsiderata. Eppure stanno prendendo quota in questi giorni, tanto da non essere più da considerarsi come un gioco di immaginazione ma come una possibilità reale. Chi le vuole ha già cominciato a diffondere una seducente narrativa, che parla la lingua dell’efficienza e del buon senso. La tesi fatta circolare in queste ore dai fautori del ricorso alle urne suona più o meno così: «Cosa può fare realmente questo governo? Non vedete che è ormai paralizzato e senza spinta propulsiva e con una maggioranza sempre meno unita? Meglio votare subito per dare un nuovo esecutivo capace di rilanciare il Paese». C’è sicuramente del vero in questa posizione ma le cose non sono così semplici e lineari e soprattutto non si prendono minimamente in considerazione le conseguenze del gesto.

Votare subito significherebbe sciogliere le Camere quest’estate, fare le liste e cominciare la campagna elettorale prima ancora che riaprano le scuole, ma soprattutto rinviare l’approvazione della manovra. Quest’ultimo dato è cruciale e non può essere sottovalutato. Con le elezioni a ottobre non riusciremmo ad avere un Parlamento nel pieno delle sue funzioni prima di novembre e con l’attuale frammentazione partitica (che ci regalerà perlomeno cinque aree politiche) la formazione di un governo, ma prima di tutto di una maggioranza, sarà operazione complicatissima se non quasi impossibile.

Pensare che in queste condizioni si sia in grado di approvare una legge di bilancio è un pericoloso azzardo. Non approvare la manovra significa andare all’esercizio provvisorio e questo vuol dire mandare un messaggio forte e chiaro al mondo e agli speculatori: l’Italia ha non solo il debito pubblico più alto di tutta Europa ma quest’anno non indica nemmeno cosa vuole fare con i suoi conti. La prima conseguenza certa sarebbe l’entrata in vigore delle cosiddette clausole di salvaguardia, a partire dall’aumento automatico dell’Iva al 25 per cento.

Molti indicatori mostrano finalmente i segni di una ripresa (certamente debole e insufficiente se paragonata al resto del Continente), lo si legge nelle richieste di prestiti per investimenti fatta dalle aziende così come nella crescita dei mutui per comprare case. L’aumento dell’Iva avrebbe l’effetto immediato di tornare a gelare i consumi, con conseguenze depressive. Teniamo poi conto del fatto che sembra ineluttabile un disimpegno della Banca centrale europea negli acquisti di titoli di stato, cosa che da sola stimolerà un incremento dello spread. Sommare questi ingredienti ci porta su una strada pericolosa, dalle conseguenze imprevedibili e, pur senza evocare l’arrivo della Troika a commissariarci, possiamo ben dire che sarebbe una mossa sconsiderata.

Abbiamo bisogno di tutto questo? Abbiamo bisogno di una accelerazione innaturale dettata prima di tutto dalla necessità di tornare sulla scena, in un abbraccio francamente imbarazzante, di Renzi e Berlusconi?
L’Italia ha bisogno di normalità, non di emergenza, non di ulteriori rotture e accelerazioni. La scadenza naturale è già alle porte, la legislatura finirà a febbraio dell’anno prossimo, si può e si deve votare all’inizio della primavera, in quella stagione in cui lo si è sempre fatto nella nostra storia. Non è certo una questione di tradizioni, è una questione di sana prudenza e di senso di responsabilità.

Di fronte al richiamo alla prudenza si potrebbe rispondere portando l’esempio britannico: Theresa May ha indetto nuove elezioni all’improvviso, senza troppi riti e tentennamenti. Ma in quel caso l’intenzione è di confermare una maggioranza che c’è già, sperando di rafforzarla per darle l’autorità necessaria ad affrontare le trattative per l’uscita dall’Europa. Da noi si tratta invece di accelerare la rincorsa per un salto nel buio.

Dobbiamo allora rassegnarci a vivere nella palude e trascinarci stancamente fino all’inizio del prossimo anno? No. Questi mesi di fine legislatura potrebbero invece essere preziosi, si potrebbe con buon senso sfruttarli per portare a termine una serie di riforme necessarie. Si potrebbe provare a uscire dalla palude approvando quei provvedimenti che sono in attesa di un voto finale, si va dalla cittadinanza ai ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, una saggia risposta di inclusione in tempi di paure e terrorismo, alle liberalizzazioni, alle norme sul fine-vita, alle riforme su prescrizioni dei processi e regole delle intercettazioni fino all’inserimento nel nostro ordinamento del reato di tortura.

E dovrebbe essere il tempo per preparare un programma politico degno di questo nome. Che idee hanno il partito democratico e il suo segretario per il futuro dell’Italia? Su che basi pensano si possa costruire una grande coalizione? Oggi è tutto nebuloso, indistinto, e le elezioni anticipate, o forse sarebbe più giusto chiamarle “elezioni accelerate”, sembrano un modo per non chiarire posizioni e alleanze, ma solo per sottoporre ai cittadini un nuovo referendum: volete me o Grillo? Una sorta di rivincita sul referendum costituzionale con la speranza che funzioni anche in Italia l’effetto Macron.

Nello stesso tempo non abbiamo chiaro cosa vogliono i 5 Stelle. Sappiamo che propongono di non rubare e non è poco, ma questo non è un programma politico: è una precondizione necessaria. Ma che intenzioni hanno sull’euro, l’Europa, l’immigrazione, le politiche sociali, le alleanze internazionali? Abbiamo il diritto di saperlo prima di andare alle urne, così come abbiamo il diritto di conoscere il nome del candidato premier. C’è già sufficiente oscurità in un movimento che è guidato da un blogger, che resta chiuso in casa sua e rifiuta ogni rito democratico di confronto, e da una società inaccessibile di consulenze informatiche.
E poi chi è Berlusconi oggi, cosa vuole: intende tornare a sottoscrivere un patto con la Lega oppure si è inventato una nuova vita da spalla di Renzi e del Pd?
E Pisapia? Come si riorganizzerà e con quali idee e prospettive l’area che sta a sinistra del Pd?
Sono risposte necessarie, fondamentali per provare a costruire una legislatura che non sia l’ennesima occasione sprecata. I cittadini hanno diritto ad essere informati e poter esprimere un voto consapevole. L’unica cosa decente e preziosa che possiamo augurarci è di sottrarci all’ordalia. Non abbiamo voglia di una resa dei conti fatta sulla nostra pelle.

© Riproduzione riservata 27 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/27/news/il_grande_errore_delle_elezioni_anticipare-166517236/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #127 inserito:: Giugno 03, 2017, 11:42:40 am »

Sei riforme da non tradire

Provvedimenti che attendono di essere varati da anni sono vicinissimi alla meta: riguardano i diritti dei cittadini, approvarli prima di andare alle urne sarebbe un atto di sensibilità oltre che  segno di civiltà

Di MARIO CALABRESI
31 maggio 2017

Andiamo di corsa verso le elezioni accelerate, senza mostrare troppa preoccupazione di mettere in sicurezza i conti del Paese. Chi vuole portarci alle urne all'inizio dell'autunno ha innanzitutto il dovere di approvare la legge di stabilità prima dello scioglimento delle Camere. Pensare che la presentazione della manovra da parte del governo basti a proteggerci dalla speculazione e dai rischi dell'esercizio provvisorio è perlomeno pittoresco se non irresponsabile.

Ma non basta, per essere decoroso questo finale di legislatura dovrebbe evitare di buttare all'aria i provvedimenti che attendono di essere varati da anni e che sono ormai vicinissimi alla meta. Sono molti, dalle liberalizzazioni all'abolizione dei vitalizi. Ma ci sono soprattutto le leggi che riguardano i diritti dei cittadini, approvarle sarebbe un atto di sensibilità oltre che un segno di civiltà.

Ne abbiamo individuate sei a cui manca il voto finale e da oggi le ricorderemo tutti i giorni, affinché lettori ed elettori possano valutare i comportamenti delle varie forze politiche che si preparano a chiedere il loro voto.

Ci sono l'attesissima legge sul biotestamento; quella sulla cittadinanza, ferma al Senato dalla fine del 2015, che prevede la possano ottenere i minori nati in Italia da padre e madre stranieri se uno dei genitori ha un diritto di soggiorno di lungo periodo, o chi arriva in Italia entro il dodicesimo anno di età dopo aver frequentato un ciclo scolastico; l'introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura; l'approvazione del nuovo codice antimafia; la legalizzazione della cannabis e infine la riforma del processo penale che introduce soprattutto le nuove norme sulla prescrizione, per diminuire il rischio che indagini e processi vengano vanificati dalla lentezza dei tempi della giustizia penale. Inoltre viene prevista una delega al governo per "garantire la riservatezza delle comunicazioni oggetto di intercettazione": una delega che ci auguriamo serva a definire il migliore equilibrio tra il diritto alla riservatezza e quello all'informazione.

Gettare il lavoro fatto fin qui è un delitto e tutti ne sarebbero responsabili. Ci sono le responsabilità della maggioranza di governo e del Pd ma anche quelle delle opposizioni che su alcuni provvedimenti hanno il dovere di chiarire da che parte stanno: può il Movimento 5 Stelle lasciare affondare il biotestamento, il reato di tortura o la cittadinanza? Se si partecipa alla riforma elettorale e si vogliono elezioni subito sarebbe nobile fare la propria parte anche nel portare al traguardo i nuovi diritti di questo Paese.

© Riproduzione riservata 31 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/31/news/sei_riforme_da_non_tradire-166848947/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T1
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« Risposta #128 inserito:: Luglio 30, 2017, 06:03:18 pm »

L'insano sollievo

L'editoriale.

La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di condanne ma i giudici hanno bocciato l'aggravante sull'associazione mafiosa

Di MARIO CALABRESI
21 luglio 2017

QUANDO la politica di una città, di fronte a condanne per 250 anni di carcere, festeggia ci sarebbe da essere contenti. Ma se si ascolta meglio e si scopre che non si festeggia perché giustizia è stata fatta bensì perché i criminali che dominavano la scena sono riconosciuti delinquenti però non mafiosi, allora c’è davvero da avere paura.

Quando ci si sente sollevati perché i Palazzi erano infiltrati fino al midollo da un’associazione criminale che non può essere definita mafiosa, allora si è perduti.

Amare Roma significa fare pulizia, non continuare a nascondere la spazzatura della corruzione, del malaffare e della criminalità organizzata dietro una rivendicazione d’orgoglio posticcio. Significa fare i conti davvero e fino in fondo con una città che è diventata capitale dello spaccio di cocaina, in cui il crimine controlla gangli economici vitali.

Le sentenze si rispettano ma la sensazione di sollievo che si è diffusa ieri sembra portare le lancette del tempo molto indietro, a quegli anni in cui si negava la ‘ndrangheta in Piemonte o in Emilia, in cui si scuoteva la testa indignati all’idea che i clan stessero conquistando tutto l’hinterland milanese. E sappiamo quali danni abbiano fatto decenni di sottovalutazione politica dei fenomeni mafiosi.

Ora a Roma si stabilisce che è la geografia a definire i fenomeni e non i fenomeni a riscrivere la geografia. La mafia è tornata ad essere cosa siciliana, nessuno si permetta più di immaginare che sopra il Garigliano nuovi clan autoctoni possano utilizzare modalità che sono proprie delle associazioni di stampo mafioso.

Possiamo andare a dormire tranquilli, magari dopo aver fatto un brindisi. Ma chiudete bene la porta e assicuratevi che i ragazzi siano in casa.

© Riproduzione riservata 21 luglio 2017

Da - http://roma.repubblica.it/cronaca/2017/07/21/news/l_insano_sollievo-171297096/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2
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« Risposta #129 inserito:: Agosto 08, 2017, 06:20:31 pm »


Perché non vinca la propaganda

Di MARIO CALABRESI
08 agosto 2017

UN’ONDA melmosa, composta di false percezioni, di paure e di sconsiderata propaganda, sta sommergendo il nostro dibattito pubblico, rendendolo sterile e spaventoso. La razionalità è scomparsa da un pezzo, sostituita da emozioni, immagini forti e pericolose semplificazioni. È diventato molto complicato riuscire a ragionare chiamando le cose con il loro nome, rispettando la realtà e le sue sfumature.

Si sono persi di vista numeri e contesti: nessuno ha più il coraggio di far notare che 100mila persone che arrivano dalle coste africane sono certo tantissime e destano allarme (una richiesta di sicurezza che le Istituzioni troppo a lungo hanno sottovalutato) ma sono pur sempre quanto i tifosi di due partite della Roma o del Milan. Li si può contenere in uno stadio e mezzo di un Paese che di abitanti ne ha sessanta milioni. Questo non significa non condividere la necessità di provare a controllare e gestire i flussi migratori e il dovere di combattere i trafficanti di esseri umani, ma significa chiamare le cose con il loro nome e non accendere allarmi sociali che rischiano di devastare la nostra società. Che il senso della realtà sia smarrito lo racconta la percezione dei numeri: gli italiani sono convinti che ormai un quinto della popolazione sia di religione islamica, quando lo è meno di un trentesimo.

L'onda melmosa chiude gli occhi e rende tutto dello stesso colore, impedisce di cogliere differenze fondamentali, così un immigrato che spaccia cancella tutti quelli che riempiono le cucine dei ristoranti, scaricano le cassette ai mercati generali, fanno il pane la notte, tengono vivi i pascoli, vendemmiano o si prendono cura dei nostri vecchi.

Allo stesso modo la legge che viene definita Ius Soli è stata criminalizzata, snaturandone completamente senso e finalità. Non c’entra nulla con sbarchi e accoglienza e serve a integrare chi è nato in Italia, ma questo poco interessa a chi gioca con le paure e subdolamente insinua che i compagni di classe dei nostri figli potrebbero essere terroristi in erba.

Questa propaganda e questo imbarbarimento del discorso hanno fatto breccia e, come ci ha raccontato domenica Ilvo Diamanti, stanno vincendo.

L’ultima vittima sono le Ong, le associazioni di volontariato e quella parte della Chiesa che è più impegnata nell’assistenza. Colpevoli di non sottomettersi al nuovo politicamente corretto, che è l’esatto ribaltamento di quello vecchio e proclama a gran voce che ci siamo rotti le scatole dei bisogni e delle sofferenze degli altri. Lo slogan berlusconiano “padroni a casa propria”, coniato per favorire le ristrutturazioni, ora è diventato una filosofia e un modo di essere che giustifica qualunque comportamento e assolve da ogni responsabilità. Ammette addirittura la rinuncia al pensiero razionale. Non possono esistere due Italie: quella che sta con gli italiani e un’altra che sta con gli scafisti. È il senso profondo che si può cogliere anche nel messaggio di Mattarella: i diritti degli uomini e le regole che li governano devono stare assieme.

Certo, c’è chi ha sbagliato, ma di fronte a singoli e circoscritti episodi di presunto favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mai — secondo gli stessi magistrati che hanno mosso l’accusa — per motivi di lucro, si criminalizza un mondo di cui invece dovremmo andare orgogliosi.

Non importa che esistano Organizzazioni non governative che agiscono su scala globale e piccole associazioni nazionali, che ci siano organizzazioni umanitarie che si dedicano all’emergenza e altre che fanno assistenza, prevenzione, non contano le storie di ognuna di loro, la competenza e la trasparenza, non hanno valore le biografie di medici, ingegneri, agronomi, sacerdoti, insegnanti, cooperanti, conta solo colpire nel mucchio per poter rafforzare il nuovo paradigma.

Perché funzioni, il discredito va diffuso ad ampio raggio, va usato come un’accetta e nessuna distinzione è possibile. Se poi si condisce il tutto con una buona dose di volgarità e di insinuazione, allora si arriva al risultato di gettare il sospetto su un intero mondo.

Un mondo che è tanto italiano, perché siamo un Paese che si è sempre speso in silenzio, dando esempi di impegno e di volontariato incredibili. Se gli si può rimproverare qualcosa è proprio di essere stati troppo silenziosi, loro che potevano spiegare a tutti noi cosa succede dall’altra parte del Mediterraneo, aprendoci gli occhi sulle situazioni di crisi e le possibili ricette. Finora ci siamo accorti di quel mondo solo quando arrivava la notizia di una morte, penso a persone come Maria Bonino, pediatra piemontese morta in Angola mentre cercava di contenere un’epidemia di febbre emorragica.

Di fronte all’onda melmosa, un giornale ha una sola possibilità: restituire ai fatti e alle parole il loro significato e cercare di ripulire il dibattito dalle scorie e dai veleni.

Lo dobbiamo fare ogni giorno e per questo da oggi vi raccontiamo cosa sono davvero le Ong e chi sono le donne e gli uomini che ci lavorano.

© Riproduzione riservata 08 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/08/news/perche_non_vinca_la_propaganda-172612626/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2
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« Risposta #130 inserito:: Agosto 16, 2017, 08:51:41 am »

Regeni, il coraggio della verità
La decisione di rimandare l'ambasciatore al Cairo lascia stupiti e provoca amarezza: il governo ha cambiato idea per gestire la situazione libica con l'aiuto dell'Egitto.
Ma allora perché non assumersi la responsabilità politica del gesto?

Di MARIO CALABRESI
15 agosto 2017

QUESTO giornale, insieme con la famiglia di Giulio Regeni, ha sempre pensato che fosse stato giusto richiamare l’ambasciatore al Cairo. E che non lo si dovesse rimandare finché non si fosse ottenuta la verità sul rapimento, la tortura e l’uccisione di un giovane italiano che era in Egitto per portare a termine un dottorato di ricerca. La decisione, comunicata ieri sera, alla vigilia di Ferragosto, non può che lasciare stupiti e provocare amarezza. Perché dalla verità siamo ancora distanti ma soprattutto siamo lontanissimi dalla possibilità di avere giustizia. La sensazione è che ora tutto possa passare in secondo piano, che la morte di Giulio Regeni sia diventata di intralcio agli interessi nazionali.

Partiamo dall’inchiesta. In quest’ultimo anno il lavoro della Procura di Roma e dei nostri investigatori è stato esemplare, sono state individuate responsabilità precise nella struttura dei servizi segreti egiziani, un organismo che fa capo direttamente al potente ministro dell’Interno. Ma la collaborazione della procura e delle autorità del Cairo è stata discontinua, lentissima e a tratti irridente. Ora, dopo mesi di silenzio, sono arrivati finalmente nuovi documenti, della cui bontà nessuno però è in grado di garantire. La strada sarà ancora lunga e non sappiamo se si arriverà mai al traguardo.

Tenere l’ambasciatore a Roma era considerato come il modo più efficace per fare pressione sul regime di Al Sisi. Il governo ha cambiato idea. Si può comprendere il perché. E qui entra in ballo l’interesse nazionale, che ancora una volta porta in Libia. Cercare di gestire la situazione libica e i flussi migratori senza avere rapporti diretti con l’Egitto — che è il principale sostenitore del generale Haftar e delle sue milizie — è come giocare con un braccio legato. La nostra assenza al Cairo è stata sfruttata a fondo dai francesi e si capisce l’urgenza di porre rimedio.

Ma allora perché non chiamare le cose con il loro nome? Perché non avere il coraggio di assumersi la responsabilità politica del gesto? Dire con chiarezza: abbiamo bisogno di un ambasciatore in Egitto che agisca nel pieno delle funzioni per gestire la situazione libica. Spiegarlo alla famiglia e agli italiani. Non venderlo come un modo per accelerare la verità. Questo non avrebbe diminuito l’amarezza di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, e di molti che li hanno sostenuti in questi mesi, ma avrebbe evitato la sensazione di essere presi in giro. Poi se tutto ciò viene fatto alla vigilia di Ferragosto e a Camere chiuse allora quella sensazione si ingigantisce.

La responsabilità della politica ora è di dimostrare ogni giorno, con gli atti dell’ambasciatore e in ogni sede internazionale, che ottenere giustizia per Giulio Regeni è una priorità nazionale, che interesse degli italiani è anche non accettare che un proprio cittadino venga torturato e ucciso dal governo di un Paese che si professava amico. Altrimenti il gesto di ieri potrà essere definito in un solo modo: una resa.

© Riproduzione riservata 15 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/15/news/regeni_il_coraggio_della_verita_-173069569/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #131 inserito:: Settembre 16, 2017, 10:22:54 am »

La democrazia anormale

Si avverte la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato e eversivo

Di MARIO CALABRESI
16 settembre 2017

Ciò che sta emergendo in queste ore, attraverso la deposizione del procuratore di Modena Lucia Musti, conferma e rafforza ciò che la procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone aveva svelato ormai da mesi: una manipolazione delle carte giudiziarie per alzare il livello di un’inchiesta — che aveva e ha fondamento — affinché fosse affondato l’allora primo ministro. Colpendolo attraverso il suo punto debole, un padre discusso, con il vizio di muoversi in modo inappropriato sfruttando la posizione conquistata dal figlio.

Quando il primo colpo viene assestato, lo scorso dicembre, Matteo Renzi ha già perso il referendum, è già un ex presidente del Consiglio e la sua parabola è discendente. È stato il giudizio dei cittadini a decretare questa svolta. Non un’indagine e nemmeno le sue deviazioni. Ma questo non toglie nulla alla gravità di ciò che è successo. L’idea che sia possibile disarcionare un primo ministro o chiudere una carriera politica attraverso la manipolazione di intercettazioni e un uso sapiente delle rivelazioni ai giornali è sconvolgente.

E non può essere paragonato e confuso con tutte le inchieste che in passato hanno avuto al centro leader politici. Questo non significa infatti che non possano essere le indagini a decidere le sorti dei politici (come nel caso della recente sentenza sulle malversazioni della vecchia guardia leghista) e che l’unico giudizio utile e accettabile sia quello delle urne — come sosteneva Berlusconi, che vedeva il voto come sola legittimazione esistente e come massimo scudo da ogni istruttoria — ma ci mostra che il sistema può essere inquinato e infiltrato.

Viene naturale chiedersi: ma se il fascicolo non fosse finito a Roma, se Pignatone e i suoi pm non avessero esercitato con tempestività e urgenza uno scrupoloso controllo su ogni atto e su ogni trascrizione cosa sarebbe successo?

I tempi della giustizia italiana, ce lo indica il caso Mastella, sono talmente lunghi da non garantire una pronta riparazione degli errori o da sventare manovre oscure. Con tutto questo dobbiamo fare i conti subito. Evitando però il gioco opposto, quello di politicizzare e generalizzare, perché in Consip il marcio c’era e ce lo conferma la condanna dell’ex dirigente Marco Gasparri che ha patteggiato una pena a un anno e otto mesi per avere ricevuto una mazzetta di 100 mila euro dall’imprenditore Alfredo Romeo.

Inoltre dobbiamo riconoscere che Renzi ha permesso che le accuse che arrivavano a lambirlo fossero verosimili perché ha compiuto l’errore di inserire al vertice di Consip, la struttura che gestisce i più grandi appalti pubblici d’Italia, figure di sua fiducia. Persone della cerchia stretta che stanno intorno a lui dai tempi in cui governava la provincia di Firenze. Ma va detto con chiarezza che al momento non esiste alcuna prova di un coinvolgimento di Renzi e di suo padre negli illeciti, così possiamo tornare a giudicarlo su quello che ha fatto, quello che non ha fatto, sugli uomini e le donne che ha scelto e nominato e sulle sue idee per il futuro dell’Italia.

Resta la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato e eversivo. Non contano le finalità per cui lo hanno fatto, se si sia trattato di mettersi al servizio di interessi politici, imprenditoriali o se abbiano soltanto seguito un’idea manichea di Giustizia, che trova consenso ideologico pure in una parte della magistratura. Gli innegabili meriti conquistati dal colonnello Sergio De Caprio e dalla sua squadra con la cattura di Totò Riina non possono autorizzare proclami sul «golpe perpetrato contro i cittadini», incompatibili con il suo ruolo istituzionale. Ed è sintomatico di questo corto circuito in cui un pezzo di Arma indaga sui propri vertici sospettandoli di subalternità politica il fatto che i vertici dell’Arma e il ministero della Difesa si siano espressi solo ieri sera e molto blandamente su questi comportamenti.

Abbiamo richiamato decine di volte alla necessità di una democrazia normale, in cui l’autonomia della magistratura e il lavoro di tutti gli organi inquirenti vengano tutelati. Ma dove i cittadini abbiano diritto a un giudizio equo, senza inquinamenti e in tempi ragionevoli: tutti i cittadini, inclusi i leader politici.

 © Riproduzione riservata 16 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/16/news/la_democrazia_anormale-175620615/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #132 inserito:: Settembre 27, 2017, 12:33:18 pm »

La legge sullo Ius soli e una resa senza nobiltà
Hanno vinto la propaganda della Lega, la furbizia di Grillo e Di Maio, le paure e le mistificazioni. Hanno perso ottocentomila ragazzi, la politica che ha il coraggio di scegliere e uno scampolo di idea che si poteva ritenere di sinistra, ma perfino di centro

Di MARIO CALABRESI
27 settembre 2017
 
Chiamiamo le cose con il loro nome, senza giri di parole o finzioni: hanno vinto la propaganda della Lega, la furbizia di Grillo e Di Maio, le paure e le mistificazioni. Hanno perso ottocentomila ragazzi, la politica che ha il coraggio di scegliere e uno scampolo di idea che si poteva ritenere di sinistra, ma perfino di centro.

Certo la legge è stata affondata da Angelino Alfano e dal suo piccolo partito, in cerca di una casa che garantisca di poter sedere ancora al tavolo del potere nella prossima legislatura. Ma questo è successo anche perché il Partito democratico non è stato capace di indicare le proprie priorità a un alleato che ha incassato enormemente più di quanto valga (basti pensare alle poltrone ministeriali collezionate da Alfano, al cui confronto impallidiscono persino i big della Prima Repubblica).

La legge che dava la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri che avessero un regolare permesso di soggiorno (da almeno 5 anni) non verrà approvata in questa legislatura ed è rinviata a un futuro indefinito. Un futuro però che possa garantire ai politici la sicurezza di non indisporre nessuno e di non rischiare nulla.

Sfruttando l’occasione del voto tedesco, Alfano ha coniato una frase di cui pareva molto orgoglioso: «Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata». E allora meglio fare direttamente una cosa sbagliata: arrendersi alla Lega, nella convinzione di poter conquistare qualche voto. Un gigantesco abbaglio. Alfano, che pretenderebbe di rivolgersi a un elettorato cattolico, e il partito di Matteo Renzi non portano a casa un solo voto in più da questa vicenda, anzi perderanno quelli di chi si chiede dove sia finito il coraggio delle proprie idee e convinzioni.

A luglio, quando la legge venne rinviata, si disse che non la si poteva approvare in un momento in cui i migranti sbarcavano in massa sulle nostre coste (stabilendo un legame tra le due cose che non ha fondamento), così venne messa in campo la strategia di Marco Minniti per fermare i flussi dall’Africa e insieme paure e ansie. Gli sbarchi sono crollati, il ministro dell’Interno ha varato un piano di diritti e doveri per i rifugiati, ma ora crolla il patto politico che voleva tenere insieme sicurezza e integrazione. Integrazione, in questo caso, non di chi è arrivato con i gommoni degli scafisti ma di chi è nato e cresciuto in Italia.

Quello che è successo è il perfetto segno dei tempi, quello in cui le grida degli ultrà vincono sulla razionalità e il buon senso, quello in cui si mescolano i piani e ci si piega alle generalizzazioni. Come ha ben spiegato su questo giornale Ilvo Diamanti, il tema immigrazione sale in cima alle preoccupazioni degli italiani ogni volta che ci sono le elezioni, sarà un caso o il frutto di una propaganda elettorale avvelenata?

Ed è un segno dei tempi pensare anche di cancellare i problemi rimuovendoli. Domenica scorsa Ernesto Galli della Loggia ha messo in evidenza sul Corriere della Sera perplessità e dubbi sullo Ius soli, mettendo al centro le difficoltà culturali dell’integrazione dei musulmani — che sarebbero comunque solo un terzo dei beneficiati dalla legge — oltre che la possibilità di mantenere una doppia cittadinanza (non si capisce perché sia lecito e pacifico poter avere il passaporto italiano e quello statunitense ma sospetto mantenere quello marocchino o senegalese).

È chiaro che i problemi esistono, come sottolinea Galli della Loggia, di fronte a culture e comunità che non riconoscono alle donne gli stessi diritti degli uomini, ma allora la soluzione è negare la cittadinanza alle bambine che a 12 anni vengono rispedite nei loro Paesi per i matrimoni combinati o che non possono andare all’università anche se sono molto più brave dei loro fratelli? La soluzione è arrendersi di fronte a mentalità arretrate o difendere quelle bambine con una cittadinanza che permetta di integrarle e far progredire le loro comunità?

Arrendersi alla chiusura di quelle comunità, che vivono e continueranno a vivere nelle nostre città, è l’errore più grande che possiamo fare e che complicherà il nostro futuro. Abbiamo sprecato un’occasione gigantesca, reso inutile un finale di legislatura che poteva provare ad essere nobile e accettato di perdere la partita rinunciando a giocarla.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/27/news/la_legge_sullo_ius_soli_e_una_resa_senza_nobilta_-176601523/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S2.4-T1
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« Risposta #133 inserito:: Novembre 12, 2017, 12:23:41 pm »

Il falò della verità
A sinistra si è scelto di giocare al massacro su un falso problema: la stagione del maggioritario e del nome del premier sulla scheda è finita e quindi il dibattito su chi debbano essere i candidati premier è demenziale

Di MARIO CALABRESI
08 novembre 2017

IL DIBATTITO su chi debbano essere i candidati premier dei vari schieramenti per le prossime elezioni non è solo fasullo, ma anche demenziale. Prima di tutto perché inganna i cittadini: il sistema elettorale con cui andremo al voto è per due terzi proporzionale e non prevede nessuna indicazione del presidente del Consiglio. Inoltre il sistema tripolare in cui ci troviamo non permetterà ad alcun partito di arrivare ad avere la maggioranza da solo. Così dopo le elezioni assisteremo a trattative e mediazioni tra le forze politiche o all'interno delle coalizioni per trovare figure che siano punti d'equilibrio.

Questo i cittadini lo devono sapere con chiarezza: la stagione del maggioritario e del nome del premier sulla scheda è finita con il referendum di un anno fa e il nuovo sistema elettorale l'ha definitivamente archiviata.
Il fatto che questo però continui a essere materia del contendere a sinistra è anche autolesionista. Infatti la coalizione che oggi sembra avere più possibilità di affermarsi, il centrodestra, ha accuratamente evitato il problema, sapendo quanto divisivo e inutile sia affrontare ora questa discussione. L'accordo tra Berlusconi e Salvini è che a indicare il possibile capo del governo sarà il partito che prende un voto in più.

Sapendo, al di là della prevedibile propaganda, che l'incarico non spetterà a nessuno di loro due. Il Movimento 5 stelle ha scelto Di Maio, per darsi una guida parlamentare e mettere fine a fibrillazioni e dibattiti interni, ma nessuno può credere che da soli conquisteranno la maggioranza dei seggi parlamentari, così - anche in questo caso - ogni ipotesi di mediazione, di coalizione o di governo che cerchi convergenze in Parlamento partirà proprio dalla scelta di una figura di area che sia meno connotata.

A sinistra invece si è scelto di giocare al massacro su un falso problema: da un lato Renzi si è arroccato in difesa, ha ricominciato a propagandare una vocazione maggioritaria e ad immaginare di arrivare al 40 per cento, dall'altro si va creando intorno a Grasso un piccolo cartello elettorale che ha come nemico proprio il Pd e non Salvini, Berlusconi o Grillo. Le aperture e le prove di dialogo, fatte in questo clima e su queste basi, sono solo finzione. Un gioco del cerino per addebitare alla controparte la responsabilità della divisione. Un combinato disposto che minaccia di consegnare la sinistra italiana all'irrilevanza, come è accaduto domenica in Sicilia.
Eppure l'obiettivo dovrebbe essere chiarissimo ed è davanti ai nostri occhi: sconfiggere i due populismi italiani che oggi si contendono la guida del Paese.

Purtroppo non c'è stato nemmeno questa volta, come non ci fu dopo la sconfitta al referendum, un vero cambio di passo da parte di Renzi. Un autentico ripensamento. La consapevolezza che i risultati propagandati non corrispondono al percepito dei cittadini. Inutile ripeterli ad ogni occasione, se non sono riusciti a fare la differenza nella vita delle persone, allora bisognerà chiedersi il perché.

Matteo Renzi aveva dato grande speranza all'Italia, ma poi ha perso il contatto con il Paese, non è riuscito a cogliere il malessere e le paure, che non andavano certo inseguite ma invece comprese e affrontate. La chiave non era andare da Obama alla Casa Bianca, farsi vedere innovatore accanto a Jeff Bezos e parlare delle eccellenze, così come oggi non potrà essere cercare una sponda in Macron, ma mostrare di capire i bisogni e le sofferenze. Quello che è mancato è l'ascolto.

Da molti anni la sinistra italiana - come ha sottolineato ieri Ezio Mauro - ha mostrato grande senso di responsabilità, lo ha fatto sacrificando spesso totem e tradizioni, lo ha fatto per superare passaggi drammatici. Ora si rende conto del costo che questo ha comportato, ma la risposta non può essere praticare l'irresponsabilità per far vedere che si è vivi e vicini alla gente.

La sinistra, o perlomeno quell'area che si usa chiamare progressista o democratica e che è in profonda crisi in tutto l'Occidente, deve avere il coraggio di guardarsi dal fascino della convenienza, del cavalcare le pulsioni del momento, le parole d'ordine dei populismi, prima di tutto perché inutile elettoralmente, secondo perché non viene capito nemmeno dai tuoi. Allora non resta che la strada della convinzione. Essere convinti delle proprie idee, avere il coraggio di aggiornarle, di metterle a fuoco e di mostrarle. Quale progetto di Paese, di società, di sviluppo, quale agenda di diritti e doveri e quale anima.

Svegliarsi una mattina e cominciare a cannoneggiare la Banca d'Italia accodandosi ai professionisti della demolizione è una scorciatoia pericolosa. Se sei forza di governo e credi ci siano stati errori e omissioni allora crei le condizioni per un cambio di Governatore, non permetti la riconferma tenendoti le mani libere per gridare allo scandalo. Allo stesso modo ci si chiarisce sull'innalzamento dell'età pensionabile, non si lascia la patata bollente al governo, come fosse altro dal Pd, per prenderne poi le distanze.

Si decide se spiegare, con coraggio, al Paese che è una scelta faticosa ma necessaria a non scaricare il costo della rinuncia sulle generazioni più giovani e meno tutelate (o per nulla tutelate) o ad avere quel di più di flessibilità che ha permesso di evitare nuove tasse o maggiori tagli alle spese. Oppure si decide di non cambiare le regole pensionistiche e di lasciare il problema in eredità al prossimo governo, ma lo si dice con forza e chiarezza sapendo che questo comporta dei costi.

Così i vitalizi, una parte del Pd non accetta di modificarli ma Renzi vuole cavalcare il tema per non lasciare questa carta nelle mani di Grillo. Anche qui le strade sarebbero due: o convinci il tuo partito della bontà della cosa o ne capisci le ragioni. Bombardare il quartier generale è l'unica mossa che dovrebbe essere evitata, soprattutto perché il quartier generale è il tuo e pensare che le macerie possano affascinare gli elettori sembra davvero un calcolo sbagliato.

Il voto siciliano dovrebbe contemporaneamente imporre una seria riflessione a Bersani e soci, i quali farebbero bene a chiedersi come mai, se sono così in sintonia con il "vero" popolo di sinistra, restano tanto minoritari e ininfluenti. Pensare che le prossime elezioni saranno l'occasione per la conta e per eliminare un segretario che è considerato un marziano è suicida. Stiamo assistendo ad uno spettacolo che non conquista i cuori e nemmeno le menti ma spinge l'elettorato progressista verso l'astensione e il disgusto.

Ci si fermi un attimo a pensare come sia possibile aver lasciato campo libero a forze neofasciste e xenofobe come Casa-Pound, che in alcuni quartieri di Ostia è arrivata al 20 per cento sostituendosi all'azione che un tempo era dei sindacati o delle sezioni e cavalcando paure e frustrazioni. Le risposte devono partire da qui, non perdendosi in gabbie burocratiche e lotte fratricide, ma parlando il linguaggio della verità

e mostrando di avere una visione del futuro. Altrimenti non ci resta che fare nostro un verso di William Yeats, citato domenica da Franco Marcoaldi nella sua rubrica su Robinson, "I migliori perdono ogni convinzione / mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità".

© Riproduzione riservata 08 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/08/news/il_falo_della_verita_-180535775/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2
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« Risposta #134 inserito:: Novembre 20, 2017, 05:35:10 pm »

Chi dobbiamo ricordare

Nel giorno in cui muore Salvatore Riina, mai un segno di ravvedimento dalla ferocia, è giusto ricordare gli uomini e le donne grazie ai quali questa storia si è chiusa nel centro medico del carcere di Parma

Di MARIO CALABRESI
18 novembre 2017

Nella memoria di molti italiani, della maggior parte di noi, sono fissati indelebilmente il momento in cui abbiamo saputo che Giovanni Falcone era stato ucciso a Capaci e il dolore e la rabbia per la strage che poche settimane dopo ci tolse anche Paolo Borsellino. Più lontano nella memoria, lo sgomento per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela Setti Carraro, indifesi nella piccola Autobianchi A112. Tre momenti in cui lo Stato apparve perduto, incapace di fermare un’organizzazione criminale che sembrava invincibile.

Ora, nel giorno in cui muore Salvatore Riina, mai un segno di ravvedimento dalla ferocia, è giusto ricordare gli uomini e le donne grazie ai quali questa storia si è chiusa nel centro medico del carcere di Parma. I magistrati, i poliziotti, i carabinieri che si sono battuti per fermare il contagio, che hanno vinto la battaglia contro i corleonesi e hanno permesso alla Sicilia e all’Italia di tornare a vivere. Insieme a loro ci sono le vittime innocenti e la società civile, che da Palermo a Milano fu capace di mobilitarsi, di non girare più la testa dall’altra parte e di dire ad alta voce che la mafia era un’emergenza nazionale.

Penso a quegli uomini miti e silenziosi come Antonino Caponnetto, che prese il posto di Rocco Chinnici — l’ideatore del pool antimafia ucciso da un’autobomba nel 1983 — e trasferì nella lotta alla mafia le strategie utilizzate per sconfiggere il terrorismo, chiamando con sé Falcone e Borsellino. Viveva in modo monacale tra il palazzo di giustizia e la caserma della guardia di finanza che era la sua casa, i libri come unica compagnia. Una dedizione assoluta che proseguì nell’instancabile viaggio — lasciata la toga — nelle scuole italiane, per raccontare con il suo accento toscano la lotta alla mafia e per educare alla legalità.

Questa è l’Italia a cui dobbiamo guardare nel tempo in cui la ’ndrangheta la fa da padrone, in cui dilaga la corruzione e le piccole mafie proliferano a Ostia come a Modena, ricordando i molti che mai si arresero e mai si adeguarono.

L’elenco dei vivi è impossibile, quello delle vittime anche, ma ricordare alcuni nomi per tutti è doveroso. Dal dimenticato magistrato Alberto Giacomelli, assassinato — quando era già in pensione — per aver firmato anni prima il sequestro di una villetta del fratello di Riina, ai colleghi Cesare Terranova, Giangiacomo Ciccio Montalto e Antonino Scopelliti. Commissari come Boris Giuliano, Ninni Cassarà e Beppe Montana; il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, che venne colpito mentre guardava i fuochi d’artificio insieme alla figlia di 4 anni, o il professor Paolo Giaccone, medico legale ucciso per non aver accettato di cambiare la sua perizia su un’impronta digitale che incastrava un killer mafioso.

Ci sono poi gli uomini e le donne delle scorte, da Vito Schifani a Emanuela Loi e le vittime civili delle stragi e degli attentati. Penso a Barbara Rizzo, aveva 30 anni e stava portando alla prima elementare i gemelli Salvatore e Giuseppe Asta. Vennero uccisi dalla micidiale esplosione di un’autobomba progettata per eliminare il giudice Carlo Palermo e le sue inchieste sulle raffinerie di droga.

L’Italia non è guarita e la criminalità organizzata non è stata estirpata ma la Piovra, quella che organizzava le stragi, i massacri e strangolava una città, un’isola e un Paese quella è stata sconfitta. E dobbiamo a questi uomini se Salvatore Riina è morto, il giorno dopo il suo ottantasettesimo compleanno, sconfitto e isolato in un supercarcere e non nella sua Corleone.

© Riproduzione riservata 18 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/18/news/chi_dobbiamo_ricordare-181398629/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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