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Autore Discussione: Piero IGNAZI.  (Letto 59334 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 08, 2011, 03:20:22 pm »

Gelmini, riforma sciagurata

di Piero Ignazi

Inutile girarci tanto intorno: la nuova legge sull'università è orrenda.

Per la precisione: accentratrice, impoverente, demagogica, punitiva e sostanzialmente contro il futuro degli studenti. Ecco perché

(30 dicembre 2010)

Accentratrice, pauperizzante, superflua, demagogica, punitiva, antistudentesca. Si può continuare a lungo ad elencare i difetti della legge sull'Università promossa e difesa a spada tratta dal governo Berlusconi. Una riformetta, in realtà, che cambierà poco nella vita universitaria: ma per quel poco contribuirà molto all'affossamento dell'istruzione superiore.

Punto primo: la legge Gelmini toglie autonomia alle università in quanto prevede controlli ministeriali più fitti e pervasivi, annulla la flessibilità nelle decisioni, riduce gli organi accademici a passacarte, riordina corsi e facoltà sulla base non delle esigenze dei singoli atenei ma di un modello statale unico. Infine fa entrare i privati nei consigli di amministrazioni, senza specificare né i criteri di accesso né le finalità. Almeno portassero soldi...

Punto secondo: smantella il sistema pubblico a favore delle università private. Non è uno slogan da corteo, è una tristissima realtà. Dopo l'ondata di riconoscimenti di università di ogni tipo dalla nefasta gestione Moratti, ora ci risiamo con "università" fatte in cortile equiparate alle più prestigiose istituzioni di questo Paese. E, orrore tra gli orrori, anche il mitico Cepu, quello che favoriva gli studenti ritardatari o in altre faccende affaccendati, quello il cui presidente ha dichiarato di mettere la propria struttura al servizio della campagna elettorale di Berlusconi, quello per i cui legami familiari la deputata finiana Catia Polidori ha salvato il governo; anche quello verrà riconosciuto. Il messaggio è chiaro: si può avere un titolo universitario anche frequentando atenei senza docenti e senza alcuna idea di cosa siano cultura e ricerca.

Punto terzo: la grande favola della meritocrazia. Già dalla modalità con la quale vengono immessi ope legis istituti indegni della qualifica di università si capisce quanto poco importi della meritocrazia a questo governo - che ha dimostrato ad abundantiam di apprezzare soprattutto qualità non specificamente intellettuali.

L'introduzione di un organo indipendente di valutazione degli atenei è fumo negli occhi. Era stato istituito in precedenza e poi è rimasto lettera morta. Del resto, da tempo molte università distribuiscono questionari agli studenti per avere i loro giudizi. E i curriculum dei docenti sono in Rete e accessibili a tutti. Tuttavia, al di là della dissonanza tra parole e fatti, è assai apprezzabile che il merito venga assunto quale criterio fondante della vita accademica.

Purtroppo tale criterio è invocato solo in questo campo, senza diventare il principio ispiratore di tutta la società. Se tutto il resto del Paese si muove con logiche diverse da quelle meritocratiche, privilegiando "le conoscenze" rispetto alla conoscenza, è molto, molto difficile che la meritocrazia prevalga senza macchia solo nelle università.

Ammesso tutto questo, il corpo accademico deve però fare mea culpa sul suo indulgere a logiche clientelari e baronali. Chi ha partecipato ai concorsi sa quanto è difficile scalfire questo sistema consortile. Quindi, l'ennesima riforma delle procedure di reclutamento avrà successo solo se cambieranno mentalità e prassi (anche) dei docenti. Almeno su questo, assolviamo la Gelmini.
Infine, l'elemento più importante: i finanziamenti. I governi di centrodestra hanno scientemente perseguito l'obiettivo di far morire d'inedia il sistema dell'istruzione pubblica favorendo quello privato (con il bel risultato che le nostre scuole private, uniche nei paesi Ocse, sfornano studenti meno preparati di quelle pubbliche).

Negli ultimi anni i finanziamenti all'università si sono costantemente assottigliati e altri tagli si abbatteranno ancora con il risultato di ridurre attrezzature e biblioteche, borse di studio e finanziamenti alla ricerca, partecipazione ai convegni internazionali e reclutamento di giovani leve. Senza fondi la ricerca non progredisce e l'eccellenza si allontana. E in particolare, come è ormai norma nella nostra società, viene penalizzato il reclutamento dei giovani, visto che su cinque pensionati si potrà reclutare un solo nuovo docente: esattamente il contrario di quanto sarebbe necessario.
Il futuro che questa sciagurata riforma prospetta è nerissimo e si riassume in decadecanza e impoverimento, accentramento e dequalificazione.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/gelmini-riforma-sciagurata/2141482/18
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 19, 2011, 06:45:28 pm »

"Attenti, il peggio viene ora"

di Fabio Chiusi


«Berlusconi non si dimetterà mai. Piuttosto tenterà qualche forzatura, anche oltre la legalità. Siamo seduti su una pentola a pressione».

L'allarme del politologo Piero Ignazi

(19 gennaio 2011)

Da un lato i danni all'immagine internazionale, con il 'Financial Times' che parla in un editoriale delle accuse di concussione e prostituzione minorile a Silvio Berlusconi per il caso Ruby come di una «profonda vergogna per l'Italia». Dall'altro un Paese logorato, immobile, con i quotidiani ridotti a titolare in prima pagina «Silvio ha una fidanzata» e i berluscones che gridano un giorno sì e l'altro anche all'«attacco alla democrazia». Come se ne esce? 'L'Espresso' lo ha chiesto al politologo Piero Ignazi, docente di Politica comparata presso l'università di Bologna.

Lo scandalo Ruby. Le accuse per le stragi del '93. I processi sospesi a suon di lodi e leggi ad personam, ma ancora per poco. Berlusconi è all'angolo, ma non sembra voler mollare. Come se ne esce?
«È una situazione che può continuare all'infinito. C'è solo una cosa certa: che il presidente del Consiglio non molla mai e non ha nel suo Dna l'idea dell'uscita elegante, delle dimissioni o di accettare di farsi carico delle proprie responsabilità. Non uscirà da una porta di servizio con tranquillità, ecco».

Almeno si presenterà in Tribunale per difendersi?
«Non credo proprio. Sarebbe una novità curiosa».

Certo è che le accuse sono molto diverse, rispetto al passato.
«Sì, non si parla più di reati economico-finanziari ma di accuse a cui l'opinione pubblica è molto più sensibile».

E non sarebbe dunque nel suo interesse chiarire? «Il suo interesse faccio fatica a concettualizzarlo. Credo però che Berlusconi sarà ancora alla barra del timone, perché non è eterodiretto: è lui che guida tutti gli altri».

Niente successori?
«Non penso proprio».

Ma non è logorato o stanco, come si dice nelle intercettazioni della procura di Milano?
«Io tanto stanco e logorato in occasione di tutto il lavorio prima del 14 dicembre non l'ho visto. E' stato in grado di guidare le proprie schiere per ottenere ciò che ha ottenuto, cioè la fiducia».

E anche un gruppo di responsabilità. Un fattore di stabilità, almeno nel breve termine?
«No, non particolarmente. Perché ci sono i problemi giudiziari che incombono. Quindi non è detto che arrivando i "responsabili" non escano altri parlamentari, in direzione opposta. C'è ancora molta fluidità nell'ambito del Pdl e dei centristi».

E quindi che cosa ci attende?
«Siamo soltanto all'inizio di una situazione di scontro istituzionale che probabilmente riguarderà non solo la magistratura ma anche la presidenza della repubblica. Perché la natura del berlusconismo è questa: e cioè di considerare illegittima qualsiasi posizione indebolisca il potere dell'attuale presidente del Consiglio».

Un futuro a tinte fosche.
«Non penso la situazione possa migliorare: può solo peggiorare».

Come?
«Nell'ottica del salvare il salvabile a tutti i costi, da parte di Berlusconi e dei suoi c'è una possibile idea di qualche iniziativa al limite della legalità».

Per esempio?
«Non lo so, ma non esiste una cultura della legalità in quel mondo. Ammantandosi dell'idea di essere stati investiti con potere divino da quella minoranza di elettori che li ha votati, i berlusconiani si considerano sciolti da ogni altro legame di carattere istituzionale, da ogni equilibrio di potere. Questo può condurre a qualche forzatura extralegale».

Questo non rischia di esasperare un clima già teso, come dimostrato per esempio dalle proteste studentesche del mese scorso?
«Siamo certamente seduti su una pentola a pressione. Ma che questo possa scatenarsi contro il presidente del Consiglio lo trovo molto improbabile, per via delle capacità di condizionamento psicologico che ha sempre esercitato nei confronti dell'opinione pubblica, anche di manipolazione. Insomma, dubito che ci possa essere un assalto a palazzo Grazioli».

Sarebbe controproducente per il Paese porre fine alla vita politica di Berlusconi per via giudiziaria?
«No. La cultura politica italiana ha subito una forte involuzione, a mio avviso, su alcuni punti forti dei principi democratici. Come la divisione del potere o, su piani più specificatamente culturali, il rapporto uomo-donna. La mobilitazione del mondo femminile è stata decisamente timida a fronte di quanto è venuto fuori a partire dal caso Noemi in poi».

 
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/attenti-il-peggio-viene-ora/2142514
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« Risposta #47 inserito:: Gennaio 21, 2011, 05:34:53 pm »

L'utopia di un patto sociale

di Piero Ignazi

Non c'è personalità che possa assurgere a unificatore di un Paese così frazionato

(21 gennaio 2011)

Il voto di Mirafiori porta in superficie un sottofondo di frustrazione e di rabbia di dimensioni impreviste. Il prendere o lasciare imposto dalla Fiat ha rimandato a tempi antichi, quasi pre-industriali, tempi dei racconti dolenti di Ignazio Silone e Corrado Alvaro dove i cafoni andavano col cappello in mano a genuflettersi per un tozzo di pane. Ora Marchionne, Marcegaglia, Sacconi e newco cantante fanno festa, ma l'esito del referendum crea le condizioni per una conflittualità esasperata. Il sistema delle relazioni industriali è andato in pezzi e i tanti marchionnini d'Italia si sentiranno liberi di imporre condizioni sempre più iugulatorie visto che l'esercito di riserva si ingrossa a vista d'occhio. Solo che nessuno ha il carisma e l'aura "global" dell'ad di Fiat, né ci saranno sempre sindacalisti esperti e con la testa sulle spalle a tenere a bada i più arrabbiati.

Rischia di aprirsi una stagione di conflitti aspri in cui comunque gli operai perderanno perché i rapporti di forza sono oggi terribilmente sbilanciati e, non dimentichiamolo, c'è un governo di destra al potere. (Basta vedere il bel film sulla lotta per la parità salariale delle operaie della Ford nell'Inghilterra degli anni Sessanta - "We Want Sex"- per capire la differenza tra un governo pro-labour e un ministro del lavoro coi fiocchi come Barbara Castle, e un governo con ministri come un Sacconi e un Romani). La sconfitta dei lavoratori potrà soddisfare la pancia reazionaria di un padronato da ferriere ma inquieta tutti quelli che, anche nella classe imprenditoriale, hanno a cuore una "società giusta", come l'aveva delineata Edmondo Berselli. Anche perché l'umiliazione di un gruppo sociale produce danni di lungo periodo.

Non vedremo rivolte di piazza come a Tunisi, tuttavia la disperazione di una crisi economica che falcia i redditi e che fin qui è tamponata solo dai patrimoni accumulati dalle generazioni più anziane, porta a gesti estremi. Gesti persino autolesionisti, come il suicido di tanti piccoli imprenditori del Nord, incapaci di tirare avanti e sopraffatti dalla vergogna del fallimento. L'Italia è un paese diviso, attraversato da una quantità innumerevole di conflitti di cui quello di Torino non è che un esempio, per quanto macroscopico. Ricondurre ad unità tutto questo, iniettare mastice sociale ad un tessuto già così frammentato e a rischio di ulteriori lacerazioni, è compito da grandi leader di riconosciuta autorità morale. L'unica personalità che risponde a queste caratteristiche è il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ma il suo è un ruolo simbolico che, per quanto importante, rimane giustamente confinato in questo ambito.
Nessun altro, e men che meno il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, può assurgere a "unificatore" di un Paese così frazionato. Lo stile da campagna elettorale permanente, l'aggressività e la faziosità quasi surreale con cui la maggioranza si rivolge all'opposizione minano ogni possibilità di intesa sopra le parti, o almeno di un coinvolgimento a un tavolo di riflessione. Invece non c'è provvedimento governativo che venga apertamente e dialogicamente contrattato con l'opposizione: prevale sempre e comunque la logica della delegittimazione e dello scontro.

L'impostazione berlusconiana è quella del conflitto permanente, e quella di Bossi prevede addirittura l'apartheid, prima i "padani" poi tutti gli altri secondo un ordine di gerarchia razziale. I toni bassi e cauti dei leghisti in questi mesi non riflettono un cambiamento della loro cultura politica; è mera tattica per portare a casa il federalismo e poi passare alla secessione.
Il bel risultato della crisi economica e del disprezzo-delegittimazione dell'unità nazionale è di trovarci a breve con tensioni sociali crescenti unite a tensioni territoriali. E tutto ciò in assenza di una autorità politica e morale che possa ricomporre i tasselli di questo quadro. Del resto persino il demiurgo più abile necessita di un consenso di fondo e corale sui principi "repubblicani". I veri responsabili, oggi, non sono quelli che affluiscono alla corte di Re Silvio per puntellarne le sorti, bensì coloro che trovano il coraggio di scuotersi dall'incantesimo berlusconiano e si propongono per un nuovo patto sociale: un patto che celebri in maniera degna i nostri 150 anni, nel segno della coesione nazionale di tutte le sue componenti, sociali, economiche e territoriali. Ma il vento sembra soffiare in direzione opposta.


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« Risposta #48 inserito:: Febbraio 11, 2011, 03:41:13 pm »

Se scocca la scintilla

dI Piero Ignazi

Solidità patrimoniale, individualismo e un'opposizione debole frenano la protesta

(11 febbraio 2011)

Come riporta l'Istat, il reddito delle famiglie italiane è calato dell'1,1 per cento nel 2008 e del 2,6 nel 2009. Nel 2009 il potere d'acquisto per abitante, e ancor più il potere d'acquisto per occupato, sono inferiori rispetto al 2000. Il risparmio delle famiglie si avvicina ormai a zero e quello nazionale, per la prima volta dal 1945, è diventato negativo. E nel 2010 andrà peggio. Questi pochi dati, oltre a quelli ben noti del calo del Pil e dell'aumento del debito pubblico e della disoccupazione, formano un quadro di grande difficoltà economica e sociale. Eppure non si registrano scoppi di protesta. I sentimenti prevalenti che le ricerche in corso registrano rimandano piuttosto a malumore, disincanto, frustrazione. Manca la rabbia. Per tre ragioni di fondo. La prima riguarda le condizioni di vita "reali" della maggioranza dei cittadini, condizioni che rimangono soddisfacenti grazie al patrimonio accumulato dalle precedenti generazioni. L'elevato tasso di risparmio nei decenni del dopoguerra ha assicurato alle famiglie italiane una proprietà diffusa della casa e un ampio stock di risparmio.


Anche se i livelli di reddito sono bassi le attuali generazioni sono protette, psicologicamente e materialmente, dal gruzzolo racimolato negli anni dalle loro famiglie di origine. Tuttavia non tutti hanno accesso al patrimonio familiare. Oltre a chi cerca di costruirlo ora, con difficoltà ben superiori rispetto al passato, vi è una fascia di cittadini che si trova ai margini o sotto la soglia di povertà relativa. Per costoro non c'è molta speranza di miglioramento in un Paese a crescita zero, o quasi. Ma nemmeno tra queste fasce impoverite o già indigenti serpeggia la protesta. E qui arriva la seconda ragione di fondo: l'assuefazione al modello culturale dominante per cui nessun altro al di fuori di se stesso è responsabile delle proprie (modeste) condizioni. L'ideologia neoconservatrice ha messo al centro del suo discorso la capacità di iniziativa individuale come unico parametro di valutazione della propria riuscita, quasi non ci fossero condizioni di partenza e risorse, rendite di posizione e privilegi acquisiti, abissalmente diseguali. Questa argomentazione punta a svuotare la dimensione collettiva: l'individuo rimane solo a contemplare la propria sconfitta.


La "reductio ad unum" delle dinamiche sociali - "la società non esiste" ripeteva Margaret Thatcher - si rivela funzionale all'adeguamento passivo al mainstream dominante: alla fine non si sa più con chi prendersela, se non con se stessi. E il cerchio del dominio - o dell'egemonia sottoculturale - è chiuso.
Infine, e questa è la terza ragione di fondo, mancano attori collettivi che esprimano e rappresentino il disagio sociale. Solo la Fiom si è proposta come collettore dell'opposizione vocale allo statu quo. Persino la Cgil stenta a presentarsi come megafono degli sconfortati. Anch'essa, come il Pd, è preda del "complesso della responsabilità": evitare toni accesi e proposte azzardate, mantenere compostezza e diffondere ragionevolezza (mentre il governo e la maggioranza si comportano in ogni occasione come una banda di descamisados). Del resto, ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice di essere alla guida di un partito di governo temporaneamente all'opposizione: gli uomini, le idee, lo stile sono quelli del "partito naturale di governo" - come un tempo si definivano i conservatori britannici rispetto a quei parvenu dei laburisti. Però questo atteggiamento di grande responsabilità non paga. Né la classe dirigente concede attestati di stima, né gli elettori il voto. Mentre dall'altra parte piovono pietre.


La combinazione di questi tre fattori di fondo - diffusa solidità patrimoniale, individualizzazione della società e parcellizzazione delle dinamiche sociali, assenza-debolezza dei recettori organizzati - lascia l'opinione pubblica distratta e sfiduciata rispetto alla crisi in atto. Ed esprime più un senso di fastidio che una disponibilità alla mobilitazione. Eppure, il disagio c'è, anche se trattenuto e non incanalato. La quasi vittoria della Fiom a Mirafiori nonostante la gigantesca pressione esercitata sta lì a dimostralo. Non sappiamo se e quando questo disagio si trasformerà in protesta. Come tutti sono stati colti di sorpresa dalla rivoluzione democratica nei Paesi arabi, anche da noi potrebbe scoccare improvvisa e imprevedibile quella scintilla che brucia il cloroformio mediatico e, con la forza del movimento collettivo, impone una nuova agenda al potere politico.


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« Risposta #49 inserito:: Febbraio 16, 2011, 12:00:25 pm »

Fli non ha colto il «momentum»

di Piero Ignazi

Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2011 alle ore 09:06.

   
In politica ci sono passaggi da cogliere senza esitazione, grazie al particolare clima che si è creato: gli anglosassoni lo chiamano "momentum", i nostri letterati carpe diem o attimo fuggente. Futuro e Libertà ha perso il "momentum". La fronda al Pdl di ispirazione finiana era cresciuta con il vento in poppa per tutto l'autunno scorso nonostante la risibile storiella monegasca. I luoghi di produzione intellettual-politica di quella componente, da Farefuturo alle pagine culturali del Secolo d'Italia, avevano grande eco sui media, e personaggi flamboyant come Italo Bocchino conquistavano un posto d'onore nei mille talk-show dell'etere italico. Tutto questo si è infranto contro il voto di fiducia del 14 dicembre. È stato pagato caro il colossale errore di valutazione del presidente della Camera che ha acconsentito a rimandare di oltre un mese la mozione di sfiducia al governo. Perso il "momentum" della spinta innovativa e dissacrante, e della contemporanea apnea del presidente del Consiglio, le grandi risorse - economiche, seduttive, politiche - a disposizione di quest'ultimo hanno consentito a Berlusconi il recupero in extremis.

Il congresso di fondazione di Futuro e Libertà si è svolto quindi, inevitabilmente, in tono minore. Non a caso i maggiori quotidiani nazionali non hanno offerto all'evento nemmeno un richiamo in prima pagina. Eppure, anche se il nuovo partito non può fungere, nell'immediato, da magnete per i delusi del Pdl, non gli mancano chance nel medio periodo. Ma deve percorrere la classica traversata del deserto. E soprattutto evitare le insidie di questa fase di riflusso. La prima è quella di farsi trascinare da un antiberlusconismo furioso, comprensibile all'indomani della sconfitta politica di dicembre ma poco produttivo per il prosieguo del partito. Un conto era una critica dura al presidente del Consiglio fatta "in prima persona" dall'interno del centro-destra, un conto aderire al coro antiberlusconiano condotto da altri. Se Futuro e Libertà seguisse questa seconda strada perderebbe la sua ragion d'essere, e cioè quella di rappresentare una alternativa "interna" al centro-destra: con stile, tematiche e prospettive del tutto diverse da quelle imposte dall'asse Berlusconi-Bossi, ma pur sempre d'impronta moderata, di destra. La seconda insidia è rappresentata dal terzo polo. L'accordo con Casini subito dopo il voto del 14 dicembre era comprensibile per reggere l'urto della sconfitta, ma appare una via corta, poco redditizia politicamente. Pierferdinando Casini ha altri obiettivi, in sintonia con la (sua) storia proporzionalista dove valevano le rendite di posizione e le collocazioni strategiche, più che le progettualità chiare e definite. Qui Fli rischia di essere risucchiata in una visione "centrista" mentre dovrebbe riaffermare la sua appartenenza ad uno schieramento - il centro-destra - all'interno del quale condurre una opposizione di merito e di contenuti oltre che di linguaggio e di modi.

Il progetto di europeizzare - e moderare - la destra italiana è ora tutto in salita. Non solo per la difficoltà causata da una polarizzazione ideologica estrema. Ma anche per una indeterminatezza del profilo ideologico-culturale. Mentre la relazione d'apertura di Adolfo Urso ha fatto risuonare temi consonanti con l'elettorato moderato quali il senso dello stato, l'unità nazionale, la difesa delle istituzioni e del loro decoro, il senso della misura, il rispetto per gli avversari, la prospettata emarginazione dello stesso Urso lascia perplessi sulla volontà del partito di seguire questa strada. Eppure questi temi, desueti rispetto allo scontro in atto tra governo e opposizione, indicano una possibile via d'uscita dalla glaciazione politica in cui parte dell'elettorato di centro-destra è ristretto.

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« Risposta #50 inserito:: Febbraio 27, 2011, 05:55:01 pm »

Troppi leader nessun leader

di Piero Ignazi

Roberto Saviano sarebbe il personaggio giusto. Come Lo Bello o don Ciotti.

Invece l'elettorato che si sta mobilitando non si riconosce nei dirigenti del centro sinistra logorati dalla lunga militanza ai vertici dei partiti

(25 febbraio 2011)

Ma sul bacio politico Berlusconi ha fatto scuola durevole, mostrando come si dimostrino mediaticamente utili le affettuosità sia con gli amici premier, da Putin a Bush, sia con i sodali italiani. Lo batte in quantità soltanto Salvatore Cuffaro, presidente della regione Sicilia, non a caso detto vasa vasa. Cuffaro bacia tutti, centinaia di baci a centinaia di estranei, ogni giorno, da una vita. E lo teorizza pure. Nel libro 'Il coraggio della politica' scrive: "Il bacio è simbolo di una capacità di umanizzare la politica che non si lascia assorbire da nessun formalismo e dalla differenza dei suoli sociali". Un'arma elettorale insomma, ma anche un modo sicuro per neutralizzare l'infortunio, se tra migliaia di baci ce ne scappasse uno sospetto (Andreotti docet).

Altro caposcuola e responsabile del bacio a tutti i costi è Roberto Benigni, Una giornata importante quella del "se non ora quando", il 13 febbraio. Tante persone in tante piazze d'Italia a sfilare per la dignità delle donne e contro la miseria politico-morale del Presidente del Consiglio. Ancora una volta emerge un'ampia fascia di elettorato disponibile a mobilitarsi per buone cause e obiettivi precisi. Ma questa energia non riesce a trasformarsi in consenso politico per l'opposizione. I partiti di centrosinistra non sanno (cor)rispondere a una società liberal che non sopporta più la volgarità di questo governo e dei suoi componenti. In primo luogo mancano dei leader in sintonia con queste sensibilità.
Se volesse buttarsi in politica Roberto Saviano sarebbe il "suitable Boy", il personaggio giusto: un giovane che riflette voglia di pulizia, senso del bene comune, spirito legalitario, con la credibilità di chi ha la vita segnata dal proprio impegno civile. E con lui tanti altri, meno noti al grande pubblico, da Ivanhoe Lo Bello, il presidente della Confindustria siciliana che ha messo al bando gli associati che si piegano al pizzo, all'inesauribile don Luigi Ciotti sempre in prima fila a difendere gli ultimi. I dirigenti del centrosinistra sono invece usurati dalla loro lunga militanza ai vertici dei rispettivi partiti.

Una militanza onorevole per tanti aspetti, ma che li ha inevitabilmente allontanati dalla società, complice la demonizzazione dell'organizzazione di partito ritenuta, sulla scia del berlusconismo montante, una zavorra démodé. Nemmeno il tanto celebrato Nichi Vendola ha le antenne posizionate sulla lunghezza d'onda delle pulsioni liberal del 13 febbraio con quel suo marchio d'Italia antica, da festa del santo patrono, e di trasgressione casereccia, da "ciceri e tria". Quel suo insieme di zolfo e olio santo, con tanto di bacio materno e assoluzione, riflette una cultura popolare profonda e radicata, ma lontana mille miglia da quella delle piazze del "se non ora quando". Anche i due leader più credibili (in questa fase) del centrosinistra, Rosy Bindi e Sergio Chiamparino, hanno piombo sulle ali. Rosy Bindi sconta una difficoltà a parlare a quell'Italia secolarizzata che rifiuta il berlusconismo anche in nome di una società liberale e aperta e non solo per ragioni etiche. Mentre il sindaco di Torino pecca per eccesso di pragmatismo tanto da dar l'impressione di rincorrere l'avversario sul suo terreno piuttosto che di contrastarlo con visioni alternative. E di giovani non ce n'è alle viste (e questo vale anche per il lucignolo dell'azione cattolica, Matteo Renzi).
Ma la carenza di leadership può essere superata dalla forza delle idee. Eppure persino di fronte alla crisi il centrosinistra balbetta. Ad esempio, che ne è del reddito minimo universale, di recente introdotto anche in Francia? Che ne è della difesa della scuola pubblica e delle risorse alla ricerca? Mentre persino in Portagallo non hanno decurtato le spese in questo settore, l'opposizione non sa come reagire alla pioggia di napalm scaricata dal duo Tremonti-Gelmini sul sistema scolastico pubblico di ogni ordine e grado. E del conflitto di interessi e del monopolio mediatico-pubblicitario del Cavaliere? Poiché dovrebbe esser ormai chiaro a tutti che passa di lì l'egemonia berlusconiana, sarebbe tempo che il Pd e gli altri partiti stilassero una proposta seria ed equilibrata da porre al centro dell'agenda politica. Ma, più in generale, il centrosinistra stenta a tracciare il profilo di una società "ideale e possibile".

La giustizia sociale è ancora la stella polare o un ferrovecchio travolto dalle sane forze del mercato? Il welfare è ancora l'asse portante di una democrazia matura oppure va lasciato spazio solo alla carità? La società plurale è un valore o è meglio rinchiudersi nei propri ridotti localistici? E infine, di fronte all'anti-italianità della Lega e alle timidezze del Pdl doveva aspettare il cavallo bianco di Roberto Benigni per farsi paladino della bandiera nazionale? Il cortocircuito tra un società inquieta e insoddisfatta ma anche disponibile a mobilitarsi, e partiti culturalmente astenici e succubi della vulgata neoconservatrice nonché privi di leadership all'altezza, rimane in tutta la sua drammaticità.

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« Risposta #51 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:48:23 pm »

Pd, adesso fuori le idee

di Piero Ignazi

Scuola pubblica. Reddito minimo. Risorse alla ricerca. Conflitto di interessi. Governo dei mercati. Unità nazionale. Ora che il berlusconismo sta finendo, serve una proposta politica seria per una società 'ideale e possibile'

(25 febbraio 2011)

Una giornata importante quella del "se non ora quando", il 13 febbraio. Tante persone in tante piazze d'Italia a sfilare per la dignità delle donne e contro la miseria politico-morale del Presidente del Consiglio. Ancora una volta emerge un'ampia fascia di elettorato disponibile a mobilitarsi per buone cause e obiettivi precisi. Ma questa energia non riesce a trasformarsi in consenso politico per l'opposizione. I partiti di centrosinistra non sanno (cor)rispondere a una società liberal che non sopporta più la volgarità di questo governo e dei suoi componenti.

In primo luogo mancano dei leader in sintonia con queste sensibilità. Se volesse buttarsi in politica Roberto Saviano sarebbe il "suitable Boy", il personaggio giusto: un giovane che riflette voglia di pulizia, senso del bene comune, spirito legalitario, con la credibilità di chi ha la vita segnata dal proprio impegno civile. E con lui tanti altri, meno noti al grande pubblico, da Ivanhoe Lo Bello, il presidente della Confindustria siciliana che ha messo al bando gli associati che si piegano al pizzo, all'inesauribile don Luigi Ciotti sempre in prima fila a difendere gli ultimi. I dirigenti del centrosinistra sono invece usurati dalla loro lunga militanza ai vertici dei rispettivi partiti.

Una militanza onorevole per tanti aspetti, ma che li ha inevitabilmente allontanati dalla società, complice la demonizzazione dell'organizzazione di partito ritenuta, sulla scia del berlusconismo montante, una zavorra démodé. Nemmeno il tanto celebrato Nichi Vendola ha le antenne posizionate sulla lunghezza d'onda delle pulsioni liberal del 13 febbraio con quel suo marchio d'Italia antica, da festa del santo patrono, e di trasgressione casereccia, da "ciceri e tria". Quel suo insieme di zolfo e olio santo, con tanto di bacio materno e assoluzione, riflette una cultura popolare profonda e radicata, ma lontana mille miglia da quella delle piazze del "se non ora quando". Anche i due leader più credibili (in questa fase) del centrosinistra, Rosy Bindi e Sergio Chiamparino, hanno piombo sulle ali. Rosy Bindi sconta una difficoltà a parlare a quell'Italia secolarizzata che rifiuta il berlusconismo anche in nome di una società liberale e aperta e non solo per ragioni etiche. Mentre il sindaco di Torino pecca per eccesso di pragmatismo tanto da dar l'impressione di rincorrere l'avversario sul suo terreno piuttosto che di contrastarlo con visioni alternative. E di giovani non ce n'è alle viste (e questo vale anche per il lucignolo dell'azione cattolica, Matteo Renzi).

Ma la carenza di leadership può essere superata dalla forza delle idee. Eppure persino di fronte alla crisi il centrosinistra balbetta. Ad esempio, che ne è del reddito minimo universale, di recente introdotto anche in Francia? Che ne è della difesa della scuola pubblica e delle risorse alla ricerca? Mentre persino in Portagallo non hanno decurtato le spese in questo settore, l'opposizione non sa come reagire alla pioggia di napalm scaricata dal duo Tremonti-Gelmini sul sistema scolastico pubblico di ogni ordine e grado. E del conflitto di interessi e del monopolio mediatico-pubblicitario del Cavaliere? Poiché dovrebbe esser ormai chiaro a tutti che passa di lì l'egemonia berlusconiana, sarebbe tempo che il Pd e gli altri partiti stilassero una proposta seria ed equilibrata da porre al centro dell'agenda politica. Ma, più in generale, il centrosinistra stenta a tracciare il profilo di una società "ideale e possibile".

La giustizia sociale è ancora la stella polare o un ferrovecchio travolto dalle sane forze del mercato? Il welfare è ancora l'asse portante di una democrazia matura oppure va lasciato spazio solo alla carità? La società plurale è un valore o è meglio rinchiudersi nei propri ridotti localistici? E infine, di fronte all'anti-italianità della Lega e alle timidezze del Pdl doveva aspettare il cavallo bianco di Roberto Benigni per farsi paladino della bandiera nazionale? Il cortocircuito tra un società inquieta e insoddisfatta ma anche disponibile a mobilitarsi, e partiti culturalmente astenici e succubi della vulgata neoconservatrice nonché privi di leadership all'altezza, rimane in tutta la sua drammaticità.

 
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« Risposta #52 inserito:: Marzo 24, 2011, 05:17:19 pm »

Che vergogna l'Italia voltafaccia

di Piero Ignazi

Una politica estera personalistica e velleitaria. Che ha portato il governo di Roma dai baciamano ai bombardamenti nel giro di pochi mesi.
Senza nemmeno uno straccio di autocritica da parte di Berlusconi

(18 marzo 2011)

La crisi libica ha messo in luce sia l'improvvisazione e il dilettantismo della politica estera del governo Berlusconi sia le sue divisioni. Nell'arco di pochi giorni, dopo aver usato al Colonnello Gheddafi la cortesia di "non disturbarlo" nei primi momenti della rivolta, il nostro governo ha abbandonato il ras di Tripoli in fretta e furia bollandolo con giudizi taglienti e ultimativi, fino a definirlo, per bocca del Ministro degli Esteri Franco Frattini, "un uomo finito".

La rapidità con cui è stato compiuto il voltafaccia si spiega con l'imbarazzo per l'eccessiva familiarità dimostrata negli ultimi anni con il regime libico. A onor del vero, tutti i paesi occidentali, una volta che la Libia era stata riammessa nel consesso internazionale, si sono precipitati a fare affari con Gheddafi. Ma solo noi abbiamo riservato accoglienze principesche alla Guida della Jamahiria. Solo noi abbiamo siglato onerosi patti di cooperazione con clausole riguardanti anche il settore militare. Solo noi abbiamo concordato un pattugliamento misto delle coste marittime instaurando di fatto una cooperazione militare. Solo noi abbiamo appaltato senza condizioni o controlli la gestione dei flussi migratori (e i reportage di Fabrizio Gatti su questo giornale hanno ben documentato il disastro umanitario causato dall'aver affidato ai libici il "lavoro sporco").

Questa politica accondiscendente nei confronti del Colonnello è stata ora sostituita da una politica di fermezza, in linea con i partner europei e occidentali. Ma il governo è diviso su questo passaggio ed è prevedibile che, con l'avanzata verso la Cirenaica delle forze lealiste, i contrasti all'interno della maggioranza aumenteranno. L'invito, a metà strada tra il ridicolo e l'offensivo, formulato dal ministro dell'Interno Roberto Maroni all'indirizzo degli Stati Uniti di "darsi una calmata" quando prospettavano l'uso della forza contro Tripoli, fa sorgere il sospetto che alla Lega, sotto sotto, la vittoria di Gheddafi non dispiaccia. Del resto, se per il Carroccio l'interesse nazionale coincide con il blocco dell'immigrazione a ogni costo, allora la sopravvivenza del dittatore libico supera ogni remora dettata da principi morali e azzera ogni vincolo con i partner europei e occidentali.

Il conflitto tra l'invocazione del primato dell'interesse nazionale (economico, militare, di sicurezza, di prestigio, di influenza e quant'altro) e il perseguimento di principi e valori etico-politici (la promozione della democrazia, il rispetto dei diritti umani) è una costante della politica estera. La crisi libica ha messo in tensione questi due principi.

Il governo Berlusconi, e non da questa legislatura, aveva sbandierato l'intenzione di perseguire una politica più assertiva e attenta agli interessi nazionali, accusando, tra l'altro, l'Unione europea di mortificare le nostre aspirazioni. Questa politica si è concretizzata nelle "amicizie" verso regimi autoritari e di dubbia democrazia, da Lukashenko a Gheddafi passando per Putin, e ha gettato alle ortiche considerazioni etico-politiche di rispetto dei diritti umani. Nelle ultime settimane il richiamo all'ordine impartito dagli alleati è stato recepito dal presidente del Consiglio e dal ministro degli Esteri. I principi di promozione della democrazia e di difesa delle popolazioni civili sono tornati in prima fila. Ma non è detto che la Lega, animata da una visione nazionalista e parrocchiale per cui "il sacro suolo della patria va difeso dalle orde straniere", si adegui.

La conseguenza ultima della crisi libica non sta solo nell'affondamento della politica personalista e velleitaria del Cavaliere ma anche nella perdita di coesione interna alla maggioranza, con il Carroccio pronto a stendere la mano al ritorno del Colonnello (nell'interesse nazionale ovviamente).

 
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« Risposta #53 inserito:: Aprile 18, 2011, 04:37:12 pm »

È Napolitano il baluardo dell'onorabilità italiana

di Piero Ignazi

Non si può sperare che le decine e decine di articoli che i più prestigiosi giornali occidentali dedicano da alcuni anni alla politica italiana, e soprattutto al nostro Governo, non lascino traccia nelle classi dirigenti degli altri Paesi. L'immagine che viene veicolata in questi articoli è quella di una nazione "inadeguata": priva cioè di progettualità e convinzioni, di tensione etica e di autostima, di coesione e di serietà; ma, sopra ogni cosa, priva di un personale politico a livello della sfida. Le conseguenze di questa percezione internazionale sono essenzialmente due.
La prima è emersa nelle ultime settimane con l'isolamento e la malcelata insofferenza che l'Unione Europea e i singoli Paesi europei hanno riservato alle richieste del ministro degli Interni Roberto Maroni sulla questione immigrati. Ad aggravare la situazione ha contribuito il fatto che il ministro Maroni sia un leader del partito più "euroscettico" del sistema partitico italiano. E dire per anni le peggio cose sull'Unione Europea - fino a definirla un "sistema totalitario nazista" - o denunciare sistematicamente le "interferenze" della Ue nel nostro cortile di casa (fra l'altro facendo ostruzionismo al mandato d'arresto europeo) non garantisce una calorosa accoglienza a Bruxelles.

Era quindi illusorio e dilettantesco pensare di poter imporre ai partner europei una diversa gestione del problema immigrati da un giorno all'altro senza aver creato le condizioni necessarie - il coalition building per usare un'espressione gergale. Tutto ciò ignorando che la Ue discute da anni della questione e che l'Italia non è certo il primo Paese a subire improvvise ondate migratorie. Infatti le altre nazioni europee hanno avuto facile gioco a ricordare le decine di migliaia - e nel caso della Germania le centinaia di migliaia - d'immigrati accolti senza tanti strepiti (né va dimenticato che il 27 gennaio 2011 il Consiglio d'Europa aveva denunciato l'Italia per le sue «ripetute violazioni delle Convenzione europea dei diritti dell'uomo in merito ai richiedenti asilo»).

La seconda conseguenza della perdita di credibilità internazionale consiste nell'inedita attività di supplenza, rispetto alle deficienze governative, esercitata da altre istituzioni nazionali, a incominciare dalla Presidenza della Repubblica. Sempre più di frequente è il Presidente Giorgio Napolitano ad ergersi per difendere il prestigio e l'onorabilità nazionale. La stima pressoché universale che lo circonda - si pensi alle specialissime attenzioni che gli sono state riservate nel suo viaggio negli Usa - diventa una sorta di scudo protettivo per il nostro Paese; e il suo europeismo di lunga data fornisce una garanzia per gli altri membri dell'Unione Europea.

L'intervento "protettivo" del Presidente non vale solo sul fronte esterno, ma anche su quello interno. La divisività estrema tra i partiti e l'asprezza del conflitto politico hanno forzato Napolitano a un'opera di "responsabilizzazione istituzionale" con il continuo richiamo ai principi fondanti della Costituzione. Non a caso sia l'opinione pubblica sia gli stessi attori politici si rivolgono alla Presidenza con una frequenza incomparabile rispetto al passato.

Napolitano si trova ora a fronteggiare una doppia crisi: da un lato si amplia a macchia d'olio la perdita di autorevolezza e affidabilità del nostro Paese verso l'esterno; dall'altro la rissosità politica, alimentata anche e soprattutto dallo spirito fazioso di chi ha responsabilità di governo, e quindi collettive, indebolisce la fiducia dei cittadini nelle istituzioni (e le ultime nomine governative non ne hanno incrementato la reputazione). In questa situazione è inevitabile fare appello all'unica figura autenticamente super partes e dotata di un prestigio personale da tutti riconosciuto. Al Presidente spetta quindi una delicatissima quanto indispensabile opera di "supplenza" per far letteralmente sopravvivere questo Paese.

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« Risposta #54 inserito:: Aprile 26, 2011, 05:30:07 pm »

Eppure gli altri ne hanno accolti più di noi

di Piero Ignazi

Il governo accusa l'Ue di aver lasciato sola l'Italia di fronte ai migranti.

Ma dimentica di non aver fatto nulla quando Grecia, Svezia o Germania erano investite da ondate ben più ampie


(15 aprile 2011)

Finché si naviga in acque tranquille, anche un governo di qualità modeste come l'attuale può mantenere in equilibrio i propri rapporti internazionali. E' quando scoppiano le crisi che emergono i limiti. Nel nostro caso hanno il segno del dilettantismo e del provincialismo.

In questi mesi il ministro dell'Interno Roberto Maroni si è rivelato o un incapace totale, che non prevede che la rivoluzione dei gelsomini tunisina del 17 gennaio (tre mesi fa!) porterà un aumento di migranti dalle coste nordafricane, e non attrezza Lampedusa, luogo principe di attracco, per accoglierli e trasferirli; oppure uno spregiudicato che gioca sulla pelle della povera gente - migranti e lampedusani - per creare allarme sociale e diffondere così il messaggio xenofobo della Lega.

Messo di fronte alle proprie inettitudini e alle proprie responsabilità il ministro degli Interni ha incominciato a incolpare l'Unione europea per "averci lasciati soli a fronteggiare l'invasione". A parte l'ironia insita in questi lamenti - l'esponente del partito più anti-europeo, in prima fila nel lanciare accuse e insulti all'Ue, che va a pietire aiuti da Bruxelles - la realtà è ben altra. Sul fronte dei migranti l'Italia non è in credito con gli altri Paesi europei, tutt'altro.

In primo luogo l'agenzia dell'Ue che si occupa della sicurezza delle frontiere, Frontex, su richiesta del nostro governo, ha anticipato al 20 febbraio l'operazione Hermes di pattugliamento comune delle coste e ha inviato 20 funzionari in supporto alle attività di accoglienza dei migranti.

In secondo luogo, se guardiamo al numero di immigrati e di rifugiati politici vediamo che siamo noi a dover andare in soccorso degli altri Paesi. Mentre nei primi nove mesi del 2010 il flusso degli immigranti illegali provenienti dal Mediterraneo e sbarcato sulle nostre coste era diminuito del 65 per cento rispetto all'anno prima (da 8.289 a 2.866), quello via terra, al confine tra Turchia e Grecia, era schizzato da 6.607 a 31.186, a cui vanno aggiunti altri 27.030 migranti che arrivavano in territorio ellenico dall'Albania (fonte Frontex).

Grazie ai lager di Gheddafi nel deserto, Lampedusa ha respirato, ma la Grecia è scoppiata. Bene, qual è stata la solidarietà dell'Italia? Si è offerto il nostro Paese di accogliere i migranti arrivati in Grecia come ora Maroni e gli altri ministri richiedono queruli ai partner europei? Meglio stendere un velo.

Se poi passiamo alla categoria dei rifugiati politici la nostra situazione rispetto agli altri Paesi peggiora ulteriormente. Secondo l'agenzia Onu che si occupa dei richiedenti asilo (Unhcr) nel 2010 l' Italia è scesa dal 5 posto del 2008 al 14 posto per numero di richiedenti asilo (8.200).

Per fare un confronto, non solo grandi Paesi come Francia e Germania ne hanno accolti molti di più (47.800 e 41.300 rispettivamente), ma altrettanto hanno fatto Paesi piccoli: 31.800 la Svezia, 19.900 il Belgio, 13.300 l'Olanda, 11 mila l'Austria e 10.300 la Grecia (http://www.unhcr.org/4d8 c5b109.html).
Da queste cifre si ricavano due considerazioni. La prima è che negli anni del governo Berlusconi l'Italia ha sigillato le proprie frontiere con accordi vergognosi chiudendo l'accesso anche a chi fuggiva da regimi dittatoriali. La seconda è che lo standard internazionale di una nazione si valuta anche dalla sua capacità di fronteggiare le crisi, senza piagnucolare in cerca di aiuto, soprattutto quando non ci si è curati dei problemi altrui: delle decine di migliaia di migranti arrivati in Svezia o in Grecia, non ne abbiamo accolto mezzo.

Per insipienza o calcolo politico di bassa Lega, anche in questa occasione il governo italiano ha fatto di tutto per abbassare la nostra già non eccelsa considerazione internazionale. (E a questo proposito, vorrebbe il ministro degli Esteri Franco Frattini spiegare la genesi e rapidissima morte del fantomatico piano italo-tedesco per risolvere la crisi libica?).

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« Risposta #55 inserito:: Maggio 13, 2011, 10:27:15 pm »

La denuncia

Italia, il 'dispotismo suadente'

di Piero Ignazi

Nel nostro Paese non c'è una dittatura autoritaria. Ma un annebbiamento orwelliano delle coscienze. Basato sul populismo e sulla persuasione mediatica, Come uscirne?

Il dialogo sulla democrazia tra Gustavo Zagrebelsky ed Ezio Mauro

(06 maggio 2011)

La democrazia ha vinto la sfida contro i totalitarismi del xx secolo, contro le religioni politiche del fascismo e del comunismo. Non ha ancora vinto del tutto quella contro i fondamentalismi religiosi che sono emersi negli ultimi decenni. Ma ormai questi sono già da tempo lungo una china discendente, e la primavera araba ha assestato loro un colpo mortale. Dalle masse in rivolta nel Mediterraneo e nel Medio Oriente risuonano parole del vocabolario politico occidentale come libertà, diritti, giustizia, elezioni libere, uguaglianza, oltre a un più ottocentesco "pane e lavoro", mentre latita il linguaggio clericalislamico.

Ma le vittorie non sono mai definiti­ve. Lo ricordano a più riprese Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky nel loro dialogo, ricco e denso, in uscita ora da Laterza, "La Felicità della Democra­zia". Oggi le democrazie sono messe in crisi da loro stesse, dalle loro debolezze e inefficienze, contraddizioni e pigrizie. Il nemico che le attacca viene dal loro interno, dalle «promesse mancate» sug­gerite della democrazia stessa: questo nemico interno è il populismo.

E' l'in­soddisfazione per il funzionamento ef­fettivo dei sistemi democratici che spin­ge alla vittoria i partiti populisti, come le recenti elezioni in Olanda e in Finlan­dia dimostrano. Anche il nostro paese non è immune da questa tendenza, tut­t'altro. Insieme all'Ungheria, pur con tutti i distinguo del caso, siamo l'unica nazione europea governata da partiti di impronta populista. Lega Nord e Pdl sono entrambi assimilabili a questa im­postazione per l'esaltazione del leader, per il manicheismo, la contrapposizio­ne esasperata e fideistica noi/loro, l'os­sessione per la cospirazione, il disprez­zo per le regole e i poteri terzi, e dulcis in fundo l'esaltazione del popolo come giudice ultimo e unzione suprema della legittimità.

C'è però uno specifico italico in que­sto quadro: l'inversione del principio per cui nessuno è al di sopra delle leg­gi. La produzione seriale di norme ad hoc a favore del presidente del Consi­glio Silvio Berlusconi ha fatto sì che non sia più il potere a inchinarsi alle leggi ma viceversa siano le leggi che si inchinano al potere.

Torna così d'attualità l'ammoni­mento di Montesquieu, per il quale «tutto sarebbe perduto se il medesimo uomo facesse le leggi, ne eseguisse i co­mandi e giudicasse delle infrazioni». Percorrendo questa china scivoliamo, dolcemente, verso un «dispotismo suadente» secondo l'efficace espres­sione di Mauro e Zagrebelsky: non un regime autoritario e ferocemente coer­citivo bensì un annebbiamento orwel­liano delle coscienze. Detto ciò rimane un interrogativo, fastidioso.

Perché solo in Italia il po­pulismo ha travol­to gli argini e affa­scina tanta parte dell'elettorato? Il populismo in ver­sione italica viene da lontano, si nu­tre di molte fonti, ed è un'altra, ama­ra, «rivelazione» della nazione. Il lungo filo rosso che attraversa tanta parte della storia nazionale è quello dell'antidemocrazia, incarnatasi va­riamente nel clericalismo, nel fasci­smo, nel comunismo e nel sovversivi­smo rosso­nero sia dei primi del Nove­cento sia degli anni di piombo. C'è una carenza storica di cultura politica libe­ral­democratica alla base del successo berlusconian­bossiano. Potestà della legge, universalismo delle norme e dei diritti, equilibrio dei poteri, e anche ri­spetto del cittadino, sono state le stel­le polari di pochi nel secolo scorso. I molti che hanno occupato posizioni maggioritarie durante il regime repub­blicano non se ne sono curati più di tanto: avevano altre priorità, dal pa­trocinio di interessi clerical­corporati­vi immersi in un sistema clientelare, al­la lotta di classe contro la democrazia borghese. Se avessero alzato lo sguar­do ai principi del costituzionalismo li­berale, la cedevolezza al «dispotismo suadente» di marca berlusconiana sa­rebbe state ben più contenuta.

 
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« Risposta #56 inserito:: Maggio 21, 2011, 10:23:49 am »

L'opinione

Il pifferaio sepolto dalle sue macerie

di Piero Ignazi

Il tonfo del forzaleghismo è innanzitutto frutto degli errori, delle inadeguatezze e anche della volgarità del centrodestra

(20 maggio 2011)

Di fronte a un ministro e leader politico come Umberto Bossi che si esibisce in gesti osceni e in volgarità da postribolo (La Lega ce l'ha...) o da patibolo (Gli immigrati da accogliere a cannonate), e ad un presidente del Consiglio che si trastulla in giochi a luci rosse con giovinette prezzolate, una parte della società civile ha detto basta. Silenziosamente, in punta di piedi, ma con l'arma letale della scheda elettorale. Ha ragione Piero Bassetti, icona della borghesia imprenditoriale milanese cattolica e progressista, in prima linea nel sostegno a Giuliano Pisapia, a definire Milano e l'Italia un campo di macerie, morali e materiali. Di fronte a tanto sfascio, ceti un tempo attratti dal pifferaio magico di Arcore non si sono rifugiati nell'astensione, né hanno premiato l'evanescente Terzo polo. Si sono rivolti all'opposizione. Quindi non solo il centrosinistra ha rimobilitato quella parte del suo elettorato che dopo il 2008 era passata all'astensione (la crescita della partecipazione a Milano e in altre città segnala questa inversione di tendenza, così come, per converso, il calo di quasi 20 punti nel numero dei votanti a Trieste spiega il tracollo della destra); ha anche conquistato nuovi consensi, tutt'altro che "spaventati" dal cosiddetto estremismo dei suoi candidati.

Eppure, secondo alcuni, il risultato è una vittoria di Pirro per il Pd. In realtà, sostengono costoro guardando a Milano, Napoli e Cagliari, si sono affermati i candidati "radicali". L'asse interno al centrosinistra si è quindi spostato a sinistra. E quindi la borghesia si ritrarrà nel suo alveo naturale terrorizzata dai rossi! Queste interpretazioni sembrano versioni soft della calunnia morattiana nei confronti di Pisapia: in fondo, gratta gratta, trovi la spranga e la P38 in mano a questi "comunisti".

Su un piano diverso, ma non meno obliquo, si muove lo schema di un Pd prigioniero dei ricatti di un Vendola o di un Di Pietro, uno schema che richiama lo stigma lanciato da Berlusconi contro Prodi pupazzo e ventriloquo di D'Alema. Quanto c'è di vero in questa interpretazione? Intanto, grazie alla tranquilla tenacia padano-emiliana di Bersani il Pd ha gestito senza traumi e rancori le sconfitte dei propri candidati e, in linea di massima, ha appoggiato lealmente quelli altrui. Questo atteggiamento cooperativo vale molto di più di dichiarazioni d'intesa, tavoli allargati, bozze programmatiche e papelli vari. E' nel fuoco delle sfide che si costruiscono e si consolidano le alleanze. L'abbraccio di Boeri a Pisapia fotografa senza bisogno di commenti questo nuovo spirito coalittivo. Rimane però il dato di una inedita frammentazione nel centrosinistra dove, alla sinistra del Pd, si muovono tre attori di dimensioni non lillipuzziane: i vendoliani di Sel, i dipietristi dell'Idv (con la complicazione De Magistris) e i grillini del Movimento 5 Stelle. Formazioni diverse ma unite da alcuni tratti comuni, tratti che coinvolgono anche il Pd: difesa dei diritti delle persone e delle genti, richiamo alla legalità, tensione ambientalista (meno per l'Idv però), riconoscimento del merito e delle competenze, apertura all'innovazione. Poi vi sono temi, importanti, sui quali divergono dal partito di Bersani; ad esempio, sulla politica internazionale ed economica si oscilla da un certo utopismo tra i grillini a una sostanziale indifferenza per l'Idv.

A ogni modo, il centrosinistra si ripropone ora sotto forma di "sinistra plurale", con un partito pivot affiancato da tre partner minori. Con una certa dose di wishful thinking potrebbe essere questo il format del nuovo Ulivo di cui ha parlato di recente Prodi. Una forza differenziata al proprio interno, non egemonizzata da nessuno, che fa della sua articolazione una virtù e non una zavorra, replicando a parti invertite lo schema che in questi lustri ha favorito il centrodestra.

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« Risposta #57 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:45:08 pm »

Pd, non sbagliare di nuovo

di Piero Ignazi

In campagna elettorale il partito di Bersani ha avuto molti meriti, tra cui quello di appoggiare candidati non suoi.

Ora però sta tornando la tentazione del tatticismo, dei calcoli e delle manovre. Ecco perché sarebbe un errore catastrofico

(02 giugno 2011)

L'attenzione dei media in questi ultimi mesi (ma anche negli ultimi anni) si è sempre concentrata su Silvio Berlusconi. Quasi ogni giorno i titoli di apertura dei maggiori quotidiani nazionali erano dedicati al leader del PdL. Le sue dichiarazioni, i suoi interventi, erano diventati un vero e proprio benchmark della politica nazionale. Inevitabile, quindi, attribuirgli l'onore della sconfitta - anche se la vera perdente in questa tornata amministrativa è la Lega. Se è la destra che ha perso le elezioni, alla sinistra, e in primis al Pd, vanno però riconosciuti alcuni meriti.

Il primo merito del Pd è quello di avere accettato e difeso candidati non suoi. Quando a Milano, dopo una competizione correttissima e di grande spessore progettuale, alle primarie si è affermato Giuliano Pisapia, il Pd non ha ceduto alla tentazione di tirare i remi in barca e di lasciare al suo destino un candidato "estremista". Insensibile agli avvertimenti di cassandre fuori registro il partito di Bersani si è mobilitato a fianco dell'"intruso". Per una volta le delizie del frazionismo e della demonizzazione del nemico interno hanno lasciato il posto allo spirito di collaborazione. Ora, dato che gli elettori mal sopportano i litigi interni ai partiti e alle coalizioni, e appena sentono odore di burrasca si allontanano, il "modello Milano" dovrebbe imporsi nei rapporti tra il partito maggiore e i suoi alleati.

Il secondo merito è quello di avere enfatizzato il proprio essere alternativo al centrodestra. Hanno fatto bene Bersani e gli altri a infischiarsene dell'accusa di anti-berlusconismo, trattandola come una stupidaggine, quale in effetti è. Come attestano i più recenti studi sul comportamento di voto, gli elettori sono attratti in primo luogo da una proposta politica chiara, dai contorni precisi, netti, ben identificabili: l'opposizione al sistema di valori e alla politica del governo e del suo capo, in nome di valori e politiche alternative, risponde al bisogno di identità dell'elettorato di sinistra.

Ammettendo che il Pd abbia raggiunto un livello accettabile di consenso interno, abbia gestito con saggezza il rapporto con i partner di centrosinistra, abbia meglio definito il suo ruolo di partito cardine dell'opposizione, i suoi prossimi passi dovrebbero essere in sintonia con queste positive premesse.
Invece sta riaffiorando una strategia contraddittoria, tutta "politicista", che pensa a giocare di sponda con la Lega pur di abbattere il governo. Il Pd e i suoi antenati hanno talvolta pensato di guadagnare posizioni e consensi lavorando per file interne nello schieramento nemico. Qualora il partito di Bersani seguisse questa strada, commetterebbe un errore catastrofico.

In primo luogo, perché annebbierebbe il suo ruolo di leader intransigente dell'opposizione. I molti che sono tornati a votare a sinistra lo hanno fatto proprio perché vogliono cambiare pagina, e detestano anche solo il sospetto di trasformismi e manovre parlamentari.

In secondo luogo, perché fornirebbe ossigeno al suo avversario più ostico e insidioso. I dirigenti del Pd sembrano dimenticare che la Lega è stata in grado di sottrarre voti popolari negli anni scorsi agitando fantasmi e paure. Ridarle spazio di manovra proprio ora significa rimetterla in carreggiata, pronta a fare ulteriori danni alla sinistra. Infine, di fronte ai (dis)valori che la Lega agita, del tutto simili a quelli a cui fa riferimento Marine Le Pen in Francia, un partito democratico e di sinistra non può che alzare un muro; altrimenti legittimerebbe chi parla di Zingaropoli, di invasione musulmana, di cannonate agli immigrati, e mantiene tra i suoi ranghi l'europarlamentare Mario Borghezio, ammiratore di Radko Mladic, il carnefice di Sebrenica.

Meglio che il Pd non disperda il nuovo vento del Nord nelle paludi del tatticismo e si proponga piuttosto come portabandiera di uno schieramento alternativo. Con saggezza e generosità.


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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 06, 2011, 05:27:15 pm »

L'Italia corporativa gli sopravviverà

di Piero Ignazi

Il declino di Berlusconi non basta per cambiare l'avversione verso ciò che è pubblico, collettivo.

E l'opera educativa di Napolitano non ha trovato sponde

(14 settembre 2011)

Un tempo venivano chiamate Cassandre. Negli anni della "prima repubblica" questo titolo spettò al leader repubblicano Ugo La Malfa perché non si stancava di ammonire quanto forte fosse il dualismo economico italiano, quanto disinvoltamente fossero sperperate le risorse, quanto distorta si rivelasse la crescita economica, quanto fragile rimanesse la democrazia. E soprattutto, concludeva invariabilmente La Malfa, l'Italia "vive al di sopra dei suoi mezzi".

Nella cupa estate della grande crisi quelle parole sono tornate di piena attualità. Ci siamo svegliati dall'illusione di passare indenni sulla cresta dello tsunami finanziario come surfisti provetti. Fino all'altro ieri, l'ottimismo della volontà (o dell'irresponsabilità) berlusconiano ha continuato a immettere nell'opinione pubblica messaggi rassicuranti sullo stato delle nostra economia, sulla tenuta dei conti, sulla ripresa produttiva, sulla ridotta disoccupazione, e via sorridendo.

Non poteva essere altrimenti. Berlusconi è l'icona di un'Italia gaia e spensierata, che spazia dal ritornello del "no problem" all'àncora rugginosa dello stellone che tutto aggiusta. Ci sono troppi elementi tipici della nostra cultura politica riassunti nella sua parabola personale per potersene sbarazzare con un'alzata di spalle. Il suo declino non comporta "necessariamente" un cambio radicale di quella mentalità e di quella cultura antropologica e politica da cui è emerso il capo del governo.
Come è stato detto tante volte, se un costruttore e concessionario pubblico - altro che imprenditore - ha avuto un tale successo politico è perché ha intercettato desideri, pulsioni e visioni del mondo radicate in tante pieghe della società italiana e cementate da interessi corposi.

Quella componente dell'opinione pubblica che lo ha sostenuto è stata certo attratta da una confezione ammaliante della sua proposta politica, ma più di tutto valeva il contenuto. Vale a dire: non si dissolve da un momento all'altro quell'ampia fascia di elettorato che "ha creduto" alla narrazione forzaleghista.
Costoro sono tuttora convinti che i sindacati siano la rovina d'Italia, che il Sud costituisca una zavorra da lasciare andare al suo destino, che lavorare duro sia giusto ma i soldi debbano rimanere attaccati alle dita, che i dipendenti pubblici siano dei fannulloni, che gli immigrati siano dei delinquenti, e che lo Stato rappresenti tutto sommato un nemico, o quanto meno un impaccio.
Sarebbe illusorio pensare che una volta eclissatosi il grande imbonitore l'Italia si risvegli sobria e virtuosa, piena di spirito civico e di senso dello Stato. Il nostro è un paese di corporazioni e di particolarismi.
L'opera educativa compiuta dal presidente Giorgio Napolitano soprattutto in quest'anno celebrativo può aver schiuso alcuni cuori e alcune menti, ma non poteva azzerare quei sentimenti di diffidenza secolare verso tutto ciò che è pubblico e collettivo e quell'aspirazione a coltivare il rifugio del particolarismo.

Del resto, il presidente è rimasto praticamente solo in questa operazione. L'opposizione, vuoi per un malinteso senso di rispetto istituzionale, vuoi per una sua fragilità politico-ideale, non ha offerto quella narrazione alternativa dei destini del Paese che poteva rinforzare il messaggio unitario e propositivo del presidente.
Eppure per indebolire il consenso al berlusconismo e ai suoi riferimenti ideologico-valoriali, l'opposizione non ha altra strada che offrire un progetto di lungo periodo per un "nuovo risorgimento". Un progetto che insista sulla consapevolezza che facciamo parte di una comunità nazionale con vincoli e finalità condivisi(bili) e che abbiamo di fronte un gigantesco lavoro di ricostruzione, su ogni piano. Un progetto, in sostanza, che riporti l'Italia al senso della realtà e del limite.
Per troppo tempo il nostro Paese si è tappato le orecchie quando le pur miti Cassandre di questi anni indicavano i pericoli di una spensieratezza finanziaria e di un decadimento civico e morale. Ora ne paghiamo le conseguenze.

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« Risposta #59 inserito:: Ottobre 13, 2011, 04:39:17 pm »

Opinione

Ma davvero possono rifare la Dc?

di Piero Ignazi

Tutto questo agitarsi attorno alla formazione di un nuovo partito dei cattolici non tiene conto del potenziale elettorato.

Che sarebbe molto diverso, se non antitetico, nel Nord Italia e nel Mezzogiorno

(06 ottobre 2011)

L'Italia è tuttora la terra d'elezione del cattolicesimo. Lo è sia per la dimensione organizzativa della Chiesa in termini di numero di religiosi, di parrocchie, di monasteri, di istituti e di seminari, sia per la massiccia adesione alla religione da parte dei cittadini e per la capillare presenza di movimenti e associazioni di ispirazione cattolica. Eppure, a questa grande forza e diffusione della religione, dopo il crollo della DC, non corrisponde più alcuna rappresentanza politica diretta.

Ma ora la stagione della dispersione sta per concludersi: incontri, forum, inviti autorevoli della gerarchia preludono alla formazione di un nuovo partito dei cattolici. Questa prospettiva incontra però almeno due ostacoli "nascosti", due contraddizioni di fondo: il drammatico divario Nord-Sud nella presenza dei cattolici e, connesso a questo, la diversa modalità di intendere il rapporto politica e religione nelle due parti del Paese.
La contraddizione da cui partire riguarda la diversa distribuzione territoriale dei cattolici. Le più recenti ricerche dimostrano che la secolarizzazione ha dilagato in tutte le regioni settentrionali, compreso il Triveneto.

Vi sono città in cui i matrimoni civili, indicatore principe della secolarizzazione, superano abbondantemente il 50 per cento. In sostanza, il processo di modernizzazione, una volta estesosi anche nel Nord-Est negli anni Ottanta, ha prosciugato il tradizionale bacino confessionale. Quindi al Centro-nord l'elettorato cattolico è diminuito e ha trovato altri referenti politici, in primis la Lega.
Nel Mezzogiorno, invece, modernizzazione e secolarizzazione hanno avuto una diffusione molto più lenta e non hanno prodotto un distacco altrettanto forte dai precetti della Chiesa. Se però guardiamo alla diffusione dei movimenti cattolici vediamo una distribuzione inversa: sono molto più presenti al centro-nord - anche nelle zone rosse - di quanto non lo siano al Sud.

La prima difficoltà da superare per un partito dei cattolici deriva proprio da questa contraddizione: il serbatoio naturale dei "voti" cattolici è nel Mezzogiorno perché là la secolarizzazione ha inciso di meno, però le "energie" mobilitanti sulle quali costruire un soggetto politico sono al Nord.
Questa antinomia non è del tutto inedita perché rispecchia i disequilibri genetici della Dc, benché con una grande differenza: il cuore del cattolicesimo italiano in termini non solo di presenza organizzata ma anche di adesione popolare alla religione, allora, era al Nord, nel Triveneto.

A questa difficoltà se ne associa un'altra, che la rinforza. Un nuovo partito dei cattolici si fonderebbe sull' apporto militante e di mobilitazione della società civile, disponibile prevalentemente al Nord; e queste energie sarebbero mosse prevalentemente da stimoli di ordine etico-morale. L'adesione sarebbe spinta dal desiderio di riaffermare la centralità di una visione del mondo ispirata alla ricchezza, profondità e poliedricità del pensiero cattolico. Una adesione che rifletterebbe sul terreno politico l'impegno nel sociale.

Al Sud, in assenza (relativa) di queste energie attive nei movimenti cattolici si riaffaccerebbe un altro tipo di adesione, assai più tradizionale: come nella Dc degli ultimi decenni, una adesione poco ispirata da motivazioni spirituali, poco trainata dai movimenti, poco stimolata da incentivi "non materiali". Il maggior serbatoio di elettori cattolici (presente nel Mezzogiorno) è anche quello più adagiato su un rapporto "strumentale" con la politica. Il nascituro partito dei cattolici dovrà confrontarsi con questa antinomia: essere un partito di grandi numeri rivolgendosi al Sud dove la religione è più diffusa ma la politica meno "idealista", o essere un partito di testimonianza forte rivolgendosi al Nord dove i cattolici sono in ritirata nei numeri ma all'avanguardia nell'impegno civile.


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