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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144292 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Marzo 21, 2010, 04:25:02 pm »

La manifestazione del centrodestra a Roma

Bossi, l’«alleato fedele» che ruba quasi la scena a Silvio

Il Senatur unico non pdl a parlare.

E Berlusconi: «Abbiamo gli stessi valori»

ROMA – «L’Europa proponeva la pedofilia. Io allora ho mandato Castelli e gli ho detto: "Castelli, va! E non tornare più se passa la pedofilia». Ma Berlusconi non la lasciò passare. Poi un ministro propose la famiglia trasversale. Berlusconi disse: «Mi sa spiegare cos’è questa famiglia trasversale?». E non firmò. Io allora pensai: «Ma questo qui è uno che ragiona come il popolo. Non vuole la pedofilia, non vuole la famiglia trasversale. Così siamo diventati amici...».

Doveva essere solo un saluto, quello di Bossi. Berlusconi l’ha indicato alla folla, gli ha teso la mano come per mostrare che c’era anche lui. Ma è stata la mozione degli affetti — «Umberto è l’alleato più fedele, è un uomo del popolo, lontano dai salotti chic, è uno di noi» — a far saltare il programma. Con il braccio del premier paternamente appoggiato sulla spalla, Bossi ha tenuto a mettere subito una cosa in chiaro: «Io sono una delle poche persone che a Berlusconi non ha mai chiesto un aiuto e neanche una lira» (il Cavaliere annuisce con un sorriso imbarazzato). «E poi Berlusconi come noi vuole fermare l’immigrazione clandestina», «l’abbiamo già fermata» tenta di inserirsi il premier, «mentre la sinistra — riprende Bossi — ha perso i voti dei lavoratori e vuole sostituirli con quelli del proletariato esterno». Ma siccome il copyright della teoria è di Berlusconi, lui subito lo rivendica: «Questa la dico sempre io. Noi moderati siamo la maggioranza; la sinistra vuole le frontiere aperte, anzi spalancate, e vuole dare il voto agli immigrati per rovesciare l’orientamento degli italiani». Il duetto fuori programma ha movimentato il consueto canovaccio del dialogo tra il leader e la sua piazza — «Volete il piano case?» «Sììì!», «Volete il raddoppio delle tasse regionali?» «Nooo!» —, ed è parso l’anticipazione della partita che si gioca domenica prossima: la nuova carta elettorale del Nord, la competizione interna tra Pdl e Lega. Assente e sempre più lontano Fini, quasi invisibili i finiani (Menia più che sul palco pareva sul patibolo), un po’ in disparte gli altri ex di An, tranne Alemanno che ha aperto il comizio urlando a squarciagola — «la Polverini deve vincere!» —, l’unico vero contraltare a Berlusconi è stato Bossi. Non a caso ha avuto diritto a due strofe del Va’ pensiero, in antitesi all’inno di Mameli suonato in apertura. Quindi ha iniziato con parole quasi incomprensibili, per dire che sarebbe sbagliato dividere il governo nazionale dalle Regioni; ma Berlusconi ha temuto che la divisione evocata fosse quella all’interno della maggioranza, e ha assicurato che lui e l’Umberto andranno sempre d’accordo perché «all’amicizia si è aggiunto un grande e fraterno affetto». È stato allora che Bossi ha mollato il braccio di Rosy Mauro, vicepresidente del Senato con fiore verde sul petto, e ha preso confidenza con la piazza, che all’inizio gli aveva riservato pure qualche fischio: «Cari giornali- sti che scrivete stupidaggini…».

Boato. «Questo è un Paese che va riformato profondamente, e ci stiamo riuscendo». Poi ha riraccontato la storia della famiglia trasversale: «Allora, Berlusconi ha chiesto a questo ministro: "Ma lei mi sa spiegare cos’è ’sta famiglia trasversale? E quello naturalmente non lo sapeva...». «Abbiamo gli stessi princìpi, gli stessi valori» ha tagliato corto Berlusconi, con il tono del padrone di casa cortese ma un po’ seccato: «E ora per cortesia lasciatemi finire il discorso... Ah ecco c’è anche Cota! Cota, che diventerà governatore del Piemonte! Bene: stavo dicendo che...». Ma il fedele alleato non vuole più scendere e comincia a sussurrare all’orecchio di Berlusconi. «Scusate, stiamo parlando di donne!» sorride il Cavaliere. In realtà Bossi sta dicendo che Zaia non c’è, è rimasto in Veneto perché gli è morto il cugino. Poi finalmente il canovaccio può riprendere: di qui amore, libertà, prosperità, crescita, lavoro, innovazione, tecnologia, tradizioni, radici cristiane; di là cattiveria, odio, invidia, pregiudizio, spionaggio, intercettazioni a tappeto e radicalismo anticlericale. Un cartello sintetizza: «Se vuoi bene al tuo bambino non votare la Bonino».

Alla fine Bossi sarà l’unico ad avere dignità di parola. I governatori non parlano, possono solo leggere in coro il giuramento del piano casa: elegantissimo Rocco Palese già rimproverato dal capo per lo stile sciatto, scatenata la Polverini che ha cantato e ballato tutto il tempo, sul palco Berlusconi le cinge la vita sotto lo sguardo ingelosito di Prestigiacomo con sciarpa azzurra, Santanché in look trasparente e boccoli, Mussolini vestita di bianco rosso e verde, Ravetto, Carfagna, Meloni e anche una Moratti insolitamente ilare. Il più felice era Verdini, sotto esame e quindi molto teso tipo padre della sposa. La piazza era strapiena, e tutti erano lì per Silvio: assente, oltre a Fini, anche Gianni Letta (come sempre ai cortei), defilato Tremonti in giaccone blu, Formigoni divertito e imbarazzato nel giurare con gli altri 11 aspiranti governatori, i più acclamati negli striscioni sono stati Feltri e Minzolini — visto anche un confidenziale «Minzo tieni duro», ricambiato con una copertura al Tg1 tipo sbarco in Normandia —, i più maledetti Di Pietro «analfabeta» o perlomeno «falso laureato» e Santoro «fascista». Bossi dietro le quinte spiega che l’amicizia è sincera, cementata nei mesi della sua malattia. Berlusconi si intenerisce: «Questo meraviglioso pomeriggio romano sa già di primavera e vince la malinconia del tramonto...». Alla fine sorridono tutti, felici. L’unico certo di sorridere anche tra una settimana è il «fedele alleato» Bossi.

Aldo Cazzullo

21 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #76 inserito:: Marzo 22, 2010, 11:43:38 pm »

NOZZE POLITICHE

«Tradito dalla Gauche ma Carla lo ama ancora»

Lo stratega Séguéla: «Sarkozy punito dall’apertura a sinistra. Ma sua moglie gli ha aperto ambienti nuovi»


PARIGI — «Se c’è un problema che Sarkozy non ha, è Carla Bruni. Quei due si amano più che mai, e Carla non è mai stata così amata dai francesi. Resta un'arma per Nicolas, gli ha aperto stanze che lui neppure sapeva esistessero. Le cause della disaffezione del Paese verso Sarkozy sono ben altre». acques Séguéla ha lasciato un segno su due presidenti. Ha inventato lo slogan più noto della storia della comunicazione politica, la «force tranquille» di Mitterrand; e ha organizzato la cena a casa sua in cui Sarkozy e la Bruni si sono conosciuti e fidanzati. «Ho parlato con loro qualche giorno fa— dice Séguéla al Corriere —. Le voci di tradimenti e dissapori sono del tutto false». Ma il matrimonio-lampo non è solo una storia d'amore seguita dai rotocalchi del mondo; è il simbolo di una politica che stanotte ha portato la destra francese alla sconfitta più clamorosa di sempre.

«Carla Bruni ha cambiato Sarkozy. In meglio — sostiene Séguéla —. Gli ha aperto ambienti nuovi, gli ha presentato artisti e musicisti, l'ha avvicinato al mondo dell’arte e della cultura ancorato a sinistra. Ha persino portato all'Eliseo Woody Allen». Qualche mese fa, il settimanale di centrodestra Le Point si era spinto a scrivere che, grazie alla nuova moglie, Sarkozy era passato da Johnny Hallyday a Brassens, dai film di Louis de Funès a Luchino Visconti, dai romanzi gialli a Sartre e pure Marco Aurelio. La bella torinese, che aveva conquistato Donald Trump in aereo lasciandogli il biglietto da visita sul sedile mentre lui stava alla toilette, era diventata senza volerlo il simbolo dell'«ouverture», dell'apertura a sinistra, che ora sembra aver portato soltanto guai al presidente. Il rimpasto di governo che Sarkozy aveva escluso alla vigilia delle regionali, ma che dopo la rotta pare inevitabile, con il primo ministro Fillon che domattina metterà il mandato a disposizione del presidente, potrebbe avere come vittime proprio gli uomini arrivati dalla Gauche, a cominciare dal ministro degli Esteri Bernard Kouchner, fino a due anni fa l'uomo più popolare di Francia, oggi in disgrazia. A Eric Besson, braccio destro di Ségolène Royal passato a destra, era stato affidato il dossier sull'identità nazionale, che ha risvegliato antichi istinti e rianimato la destra lepenista. A Jacques Attali è stata data la commissione per le riforme che avrebbero dovuto liberare le energie della società francese, ma le sue proposte hanno scatenato il malcontento delle corporazioni, a cominciare dalla più temuta, i tassisti ( eppure Sarkozy insiste e gli ha appena chiesto «nuove idee per uscire dalla crisi»).

A nulla è servito mandare due socialisti ai vertici delle più importanti istituzioni internazionali, all’Organizzazione mondiale del commercio Pascal Lamy e al Fondo monetario Dominique Strauss-Kahn, ora speranza della sinistra per le presidenziali 2012 insieme con la vincitrice di stasera, Martine Aubry. E forse è stato controproducente sul piano elettorale portare al governo tre donne figlie di immigrati: «Una piccola rivoluzione — riconosce Jean Daniel, fondatore del progressista Nouvel Observateur— che la sinistra non ha mai osato fare e non è certo piaciuta agli elettori della destra radicale». Poi ci sono gli uomini protetti da «madame la présidente», come la chiama scherzando Séguéla. Philippe Val, uomo di sinistra appena messo alla testa di France Inter, la prima radio di Stato. Marin Karmitz, ex maoista, produttore cinematografico e proprietario della catena di sale Mk2, ora alla guida del Consiglio per la creazione artistica, generoso dispensatore di denari. Frédéric Mitterrand, nipote del presidente quello vero, presentato da Carla a Sarkozy che gli ha affidato il ministero della Cultura, e divenuto il cavallo di battaglia di Marine Le Pen, che ha fatto un numero in tv accusandolo di pedofilia e turismo sessuale in Thailandia. E l’ex brigatista Marina Petrella, la cui estradizione in Italia non è stata concessa grazie all’intervento — «non si può lasciar morire questa donna!» — della Bruni, che nega di essersi mai mossa per Cesare Battisti ma è pur sempre vicina alla scrittrice Fred Vargas, capofila della campagna per la libertà di un terrorista.

Il verdetto delle regionali è che l’elettorato tradizionale non ha apprezzato l’«ouverture», anzi chiede meno spesa pubblica, meno tasse, più sicurezza, insomma più destra. Sarkozy, eletto sull’onda del liberismo e della rottura con Chirac, ha affrontato la crisi con una politica neokeynesiana, che ha salvato le banche ma ha affossato il bilancio dello Stato. Non a caso il presidente ha annunciato una «pausa» nelle riforme, che i politologi hanno accostato alla svolta moderata decisa da Mitterrand su pressione di Delors (il padre della Aubry) il 20 marzo 1983, dopo i due anni folli delle nazionalizzazioni. Quella notte si consumò la tragedia del socialismo francese: l'ultimo a cedere fu Pierre Bérégovoy, l’ex operaio del Gaz de France che sarebbe divenuto primo ministro per poi morire suicida. Stanotte è Sarkozy a portare la destra al minimo storico. Ma il confronto con Mitterrand è davvero crudele. All'epoca, un presidente dalla doppia vita e dalla doppia famiglia, agevolata da aerei, appartamenti, scorte di Stato e coperta dal segreto sin quasi alla morte e al meraviglioso abbraccio dietro la sua bara tra Danielle Mitterrand, la vedova, e Mazarine, la figlia segreta nata dall’amore con la sovrintendente delle sculture del Musée d’Orsay, Anne Pingeot, la donna che ha vegliato sulla Porta dell’Inferno di Rodin e sull’inquietudine di Mitterrand. Oggi, una coppia unita da un colpo di fulmine e dalla ragion di Stato, che vede messa in piazza la propria vita vera e quella immaginaria, in una sit-com in cui fanno capolino ora la ex Cécilia, ora Rachida Dati con la sua misteriosa gravidanza, ora un cantante che avrebbe trascinato Carla pure lui in Thailandia, ora una sottosegretaria judoka. Dice Séguéla, senza sapere di citare la canzone di Cristicchi: «Meno male che c’è Carla Bruni. Sarkozy ne avrà molto bisogno. Perché, a forza di gridare al lupo, ora la crisi in Francia è arrivata davvero. Gli elettori non hanno consegnato 21 regioni su 22 alla sinistra per punire il presidente, ma per riequilibrare il potere. Sarkozy non ha ancora deciso se ricandidarsi nel 2012, e a questo punto tutto è in forse. Se ha fatto un errore di stile, è stato tentare di imporre suo figlio Jean, che è in gamba ma ha solo 23 anni, alla presidenza della Défense», il quartiere degli affari e delle archistar come Jean Nouvel oggi disoccupate. Ride maligno invece Philippe Sollers, il più irregolare tra gli scrittori francesi: «L’errore di Sarkozy è stato proprio il matrimonio. Doveva sposare una cinese. La donna bianca ha fatto il suo tempo. Il futuro, credete a me, appartiene alle asiatiche».

Aldo Cazzullo

22 marzo 2010
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« Risposta #77 inserito:: Marzo 30, 2010, 11:06:02 am »

Sul modello 2006

Il premier ripete l’operazione rimonta

L’analisi di Tremonti: tra chi produce «maggioranza bulgara» a Lega e Pdl


ROMA — Nel 2006 la chiave della rimonta fu Vicenza. Stavolta è stata piazza San Giovanni. Oggi come allora, quando Berlusconi è entrato nella campagna elettorale e ha messo in gioco se stesso, il vento è in parte girato. Oggi come allora, il premier non coglie la vittoria piena dei giorni migliori, ma un risultato comunque migliore delle aspettative. Il Pdl è sotto il 30%; ma senza lui in campo sarebbe andata peggio.

Cicchitto e Bondi sostengono che la svolta è avvenuta sul palco, con i candidati governatori costretti a giurare nelle sue mani. Di Pietro e Grillo — la sorpresa delle regionali: decisivo nel far perdere la Bresso in Piemonte, oltre il 7% nella Bologna degli scandali — diranno che è stata colpa dell’oscuramento tv. Resta un dato oggettivo: con il concorso essenziale della Lega, Berlusconi ha avuto un ruolo nell’evitare la débâcle. E l’ha fatto rischiando, aggredendo i candidati del centrosinistra a cominciare dalla Bresso, chiamando l’ennesimo referendum sulla sua persona. Il peso e le richieste della Lega crescono, il baricentro del Pdl si sposta sempre più a Sud, la maggioranza delle Regioni resta a sinistra, si avverte qualche scricchiolio rispetto alle politiche 2008 e anche rispetto alle europee 2009; ma l’annunciata fine del berlusconismo è di là da venire. E anche il fatto che, mentre quasi l’intero ceto politico si accapigliava in tv, lui stesse scherzando a Palazzo con una scolaresca americana – «you are so beautiful…» – ha per gli avversari il sapore di una beffa.

I problemi del Pdl non sono certo risolti. Resta il fatto che in Piemonte è il primo partito, e la sinistra dovrà rischiare Fassino per non lasciare tra un anno il Comune di Torino a Ghigo. In Lombardia il sorpasso della Lega c’è stato; ma sul Pd. Il partito del premier è avanti anche nelle «rosse» Marche e Umbria. Le vittorie in Campania e Calabria sono più ampie del previsto. E il risultato più significativo per il Cavaliere è forse quello del Lazio. La candidatura della Polverini — nata negli ambienti finiani, affossata dal pasticciaccio della lista Pdl sparita — è stata adottata da Berlusconi, che se l’è tenuta al fianco sul palco di San Giovanni e ha tappezzato Roma con la scritta «Berlusconi vota Polverini»: a qualcosa è servito. «È incredibile come anche stavolta il presidente del Consiglio sia stato sottovalutato — dice Fabrizio Cicchitto —. Si pensava che l’astensione l’avrebbe penalizzato; invece l’Italia è diversa dalla Francia, da noi l’astensione non ha colpito solo il centrodestra ma entrambi gli schieramenti. Soprattutto, si è capito che Berlusconi non ha perso il tocco. Gli avevamo espresso la nostra paura di un fallimento in piazza San Giovanni; nel 2006 avevamo impiegato due mesi e mezzo a organizzare la manifestazione. Stavolta i militanti, avvisati una settimana prima, sono venuti per lui. E lui è sempre in sintonia sia con la base del partito, sia con la pancia e il cuore del Paese. Riesce ancora a mobilitare lo zoccolo duro e a parlare agli italiani che non seguono la politica».

Racconta Sandro Bondi che «ancora due settimane fa eravamo tutti preoccupatissimi. I dati che ci arrivavano non erano affatto buoni. È stato allora che il presidente ha deciso di scendere in campo di persona. Molti di noi, me compreso, gli hanno manifestato perplessità, in particolare sul piazza San Giovanni. Invece il suo impegno ha cambiato molte cose. Credo che al presidente faccia piacere in particolare il risultato di Torino, una città per lui sempre difficile, dove stavolta ha avuto una grande accoglienza. Ci siamo battuti lealmente per Cota, un leghista moderato che ha fatto una campagna saggia». «La vittoria di Torino è clamorosa — sorride Cicchitto —. Politicamente parlando, uno “stupro”. La caduta della città dell’intellighentsia azionista e comunista segna definitivamente il cambio dell’egemonia culturale nel Paese». Restano alcuni nodi. Il Pdl è in flessione al Nord, a vantaggio della Lega. E il rapporto tra Berlusconi e Fini è ai minimi storici; anche se la posizione critica del presidente della Camera avrebbe avuto più spazio in caso di netta sconfitta elettorale. «Ora nei rapporti tra i due si deve aprire una fase diversa, proficua — dice Bondi —. La prima cosa da fare è che Berlusconi e Fini si incontrino, si chiariscano, e decidano insieme le priorità dell’azione di governo».

Di fronte all’ascesa della Lega, Bondi pensa a un recupero dell’Udc: «Se consideriamo i voti centristi, è evidente che i moderati hanno una maggioranza schiacciante quasi dappertutto. La sinistra è divenuta una sorta di Lega del Centro». «Partito appenninico» è l’antica definizione di Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia non rilascia interviste, ma nelle conversazioni informali fa notare che tra i ceti produttivi la maggioranza di centrodestra ha «percentuali bulgare» pressoché ovunque, tranne in parte l’hinterland torinese: «Segno che i “piccoli” non si sentono affatto trascurati dal governo, anzi; là dove ci si batte contro la crisi, il governo esce rafforzato dal voto». Quanto alla crescita della Lega, «più che cambiare i rapporti all’interno della maggioranza conferma che i due elettorati sono molto vicini, e condividono interessi e valori».

Aldo Cazzullo

30 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #78 inserito:: Aprile 01, 2010, 09:49:17 am »

REGIONALI 2010- LA LEGA

Il Carroccio dai giri in Ape al 13% «Buttiamo giù il muro emiliano»

Il segretario Alessandri: gli operai ci fischiavano, poi ci hanno ascoltati


DAL NOSTRO INVIATO

REGGIO EMILIA — «All'inizio venivano solo pazzi furiosi. Commercianti rapinati, eccentrici, artisti, vecchi bastiancontrari di paese, ragazzi che volevano fare la rivoluzione. Io ero tra questi. Avevo 18 anni e volevo fare la mia rivoluzione: abbattere il Muro del comunismo emiliano». Sono le sei di sera, e come d'abitudine nel centro di Reggio in giro non c'è un reggiano; solo stranieri. Angelo Alessandri ora di anni ne ha 40. Da nove è il capo della Lega emiliana, che ha portato dal 3 al 13%. Come premio, Bossi gli ha dato la presidenza della Lega Nord, di cui l'Umberto è segretario. Qui a Reggio, la città più comunista dell'Occidente, la città dei morti che escono dalla fossa a cantare Bandiera Rossa, la Lega è al 15. Quando si candidò sindaco, Alessandri prese il 19. «Il motivo è proprio questo: a Reggio non ci sono più i reggiani — dice Alessandri —. Non è stato il destino, ma una strategia precisa. Divieti d'accesso, vigili incaricati di multare a raffica, parcheggi a pagamento ovunque, negozi e bar che chiudono; e centri commerciali che aprono. Li costruiscono le cooperative, all'interno la grande distribuzione è controllata dalla Coop-Nord Est, con le leggi Bersani sono arrivati pure le pompe di benzina e i panettieri. Hanno spopolato le piazze con i campanili e le torri, tagliato le radici, negato una grande tradizione popolare. Vogliono farci dimenticare chi siamo. Il resto l'hanno fatto con l'immigrazione, che spersonalizza il lavoro, mescola tutto, crea paura. E la paura non è solo una percezione. Altrimenti perché non c'è nessuno per strada? Con l'indulto hanno liberato i delinquenti, e gli emiliani si sono rinchiusi dietro le inferriate, con i cani da guardia e i sistemi d'allarme, prigionieri in casa propria. Abbiamo una notte bianca da centomila persone e 364 notti nere».

Racconta Alessandri che «qui il Partito rosso è dappertutto. Se non sei con loro non lavori. Io ero artigiano, risanavo i muri dall'umidità; quando ho cominciato a frequentare la Lega mi hanno tolto tutte le commesse, più di un parente mi ha tolto pure il saluto. Nell'89 son dovuto andare a Milano per prendere la prima tessera; la Lega emiliana non esisteva ancora». Come l'avete costruita? «Per prima cosa siamo andati dai commercianti, dagli artigiani. Poi dai soci delle cooperative. Quindi nelle fabbriche, ovunque ci fosse una vertenza aperta: alla Tecnogas, alle ex Reggiane. All'inizio gli operai ci facevano correre. Poi si limitavano ai fischi. Alla fine hanno cominciato ad ascoltarci. Erano stanchi sia della contrapposizione ideologica con il “padrone”, sia della moderazione salariale. Come dice un nostro operaio, “a furia di concertare, ti ritrovi incinto”. Con Rosy Mauro, che adesso è vicepresidente del Senato, arrivammo su un'Ape ai cancelli della Lombardini, la fabbrica delle Br, un posto dove gli operai che lavoravano nei giorni di sciopero venivano filmati con le telecamere e “sistemati”. Un mese dopo avevamo fatto eleggere nel sindacato interno il primo delegato padano». La Lega in Emilia è nata attorno a gruppi di «pazzi furiosi». Come i fan del Festival del soul di Porretta Terme, dove veniva a suonare Bobo Maroni con i Distretto 51; adesso a Porretta il ministro dell'Interno è consigliere comunale, al posto di Manes Bernardini divenuto capo della Lega a Bologna (9,6%). Il nucleo forte è quello dei colli piacentini, una terra di solito considerata prossima alla Lombardia ma in realtà molto emiliana, dall'accento ai tortelli; semplicemente, nell'estrema provincia, lontano dai centri di spesa e dalle capitali del modello emiliano, la politica delle radici e dell'identità ha attecchito bene. Così a Bobbio, il paese dell'abbazia, il Carroccio ha il 49%, nel delizioso borgo medievale di Castell'Arquato il 30, a Bettola il paese di Bersani il 35. A Reggio Emilia, ovviamente, è stata più dura. Ma ora a Viano, sulla collina sopra Scandiano — dove decine di Prodi sono nati e si ritrovano a festeggiare i compleanni — la Lega ha conquistato il sindaco: Giorgio Bedeschi prese la prima volta il 13%, poi il 26, ora il 52. I primi dieci parlamentari leghisti furono eletti in Emilia nel '94, quando Bossi strappò a Berlusconi gran parte dei collegi del Nord; ma quando il governo cadde, in otto andarono con Forza Italia e restarono soltanto in due, tra cui Giorgio Cavitelli, storico sindaco monocolore di Busseto, culla di Verdi.

«A Guastalla, il paese nella Bassa Reggiana dove sono nato, eravamo in sessanta — racconta Alessandri —. Dopo la rottura con Forza Italia, rimasi solo. Andavo ad aprire la serranda della sede, in corso Garibaldi, e aspettavo: non arrivava nessuno. Ricominciai con i banchetti in piazza». «Bossi era venuto per la prima volta in Emilia nel '91. Parlò a Luzzara, nella sala che oggi è dedicata al figlio più illustre del paese, Cesare Zavattini. Zavattini è sempre stato il mio mito, insieme con Guareschi e Gianni Brera, il primo a parlare di Padanìa, con l'accento sulla “i”. Bossi ci disse che dovevamo portare pure sotto il Po il vento del cambiamento. Sembrava pazzia, ma ora ci siamo, il traguardo è a un passo». Nel frattempo Alessandri ha fatto carriera: parlamentare dal 2006, è presidente della Commissione Ambiente e Lavori pubblici della Camera. Ma il suo sogno, racconta, resta la «liberazione» della sua terra. «Il modello emiliano è finito. Continuano a tediarci con la retorica degli asili più belli del mondo, e intanto hanno privatizzato i servizi primari, come in Russia. A Reggio avevamo le municipalizzate dell'acqua, del gas, della luce. I padroni eravamo noi, prendevamo le decisioni — una testa un voto —, gli utili venivano reinvestiti sul territorio e le tariffe erano le più basse d'Italia. Poi hanno fatto le multiutilities, quindi le spa. Non ci hanno consultati né risarciti. E paghiamo acqua, gas e luce il doppio o il triplo di prima». Dice Alessandri che «la Lega vuole costruire il nuovo modello emiliano. Dal basso. A partire dai piccoli. Microimprese, artigiani, agricoltori: gente stufa del Partito rosso e soffocata dalla banche, con cui va scritto un patto che dia ossigeno ai ceti produttivi. E poi basta costruire: l'Emilia è già abbastanza devastata; eppure a Reggio vogliono fare altre 15 mila case, quando ce ne sono 12 mila invendute. Coinvolgeremo i cittadini: raccomando sempre ai nostri sindaci di tenere i consigli comunali nelle frazioni, di andare due volte la settimana a prendere il caffè con l'intera giunta a casa degli elettori. La nostra fortuna è che l'Emilia è già federalista. Da sempre. Ducati e signorie, gli Estensi e i Gonzaga, i Farnese e i Bentivoglio, i legati pontifici a Bologna e il duca di Modena con il Bucintoro che di canale in canale scendeva sino all'Adriatico; popoli diversi, eppure abituati a convivere. Stavolta Errani ha ancora vinto, sia pure con 10 punti in meno del 2005, perché difende e garantisce il vecchio sistema. Senza Errani, la prossima volta il Muro verrà giù».

Aldo Cazzullo

01 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #79 inserito:: Aprile 07, 2010, 04:33:45 pm »

Paralleli

La legge implacabile di Sarkozy: licenziati i giornalisti sgraditi

Via i cronisti «rei» del gossip su Carla: a Berlusconi non riesce dal 2002 con Biagi, Santoro e Luttazzi

E così Sarkozy non ha telefonato all’Agcom, non ha mobilitato i suoi Innocenzi, non si è rivolto ai vertici dei media pubblici o privati, non ha chiamato il comandante della Gendarmerie. Forse non ha neppure avuto bisogno di fare una telefonata al suo amico Arnaud Lagardère, produttore di armi e di giornali. Fatto sta che i due cronisti che avevano messo sul sito del Journal du Dimanche — l’unico quotidiano che in Francia esca la domenica—la notizia del presunto tradimento reciproco tra Nicolas e Carla Bruni sono stati licenziati.

Sarà la diversa efficienza dello Stato francese, saranno i rapporti non meno intrecciati tra politica e informazione, sarà la diversa natura del leader. Resta il dato che, là dove Berlusconi ha fallito dopo giorni di angustianti giri di telefonate, Sarkozy è riuscito con spietata immediatezza. È vero che, nell’aprile 2002, il Cavaliere annunciò e ottenne l’esclusione dalla tv pubblica di Biagi, Santoro e Luttazzi, e quell’errore gli viene ancora oggi giustamente rinfacciato. Ma negli ultimi otto anni Berlusconi non è riuscito a zittire nessuno.
Forse perché cacciare la gente non gli riesce bene; nelle sue corde è piuttosto blandire, sedurre, conquistare; e alla lunga preferisce aggiungere che sostituire. Così com’è difficile immaginare il pacioso Bonaiuti esclamare, come il suo collega Charron: «Sono i giornalisti che devono avere paura di noi, non noi di loro».

Invece Sarkozy, soprattutto quando c’è di mezzo la donna del momento, sa essere cattivo sul serio. Nell’agosto 2005 Paris Match ha in copertina Cécilia Sarkozy. Ma al suo fianco non c’è il marito, allora ministro dell’Interno, bensì l’amante, Richard Attias, pubblicitario e miliardario. Anche allora l’editore è Lagardère. Il direttore del Match, Alain Genestar, viene licenziato. Tutto quanto potrebbe frenare l’ascesa di Sarkozy all’Eliseo deve sparire. Anche le copie della biografia di Cécilia: inviate, anziché in libreria, al macero. Quando poi la coppia si ricompone, è proprio Paris Match a pubblicare sempre in copertina le foto della loro bella vacanza a Londra. Lasciato un’altra volta, Sarkozy rimedia con la Bruni. Salvo poi mandare a Cécilia, alla vigilia delle nuove nozze, il celebre sms «se torni annullo tutto»; almeno secondo il Nouvel Observateur, il cui direttore resiste alla furia vendicativa di Sarkozy. È ancora un settimanale di Lagardère, Choc, a fare un altro scoop: una foto del presidente che esce dal Consiglio dei ministri con un fascio di carte sotto il braccio; ingrandite con il teleobiettivo, si vede la lettera di un’ammiratrice che gli manda in franco-spagnolo «millions de besitos». Il settimanale è già in stampa; anche stavolta Sarkozy fa bloccare tutto.

Nulla, in confronto alle continue fughe di notizie sulle avventure di Berlusconi, vivisezionate parola per parola. Dopo l’iniziale preoccupazione, più che censurare il premier — «non sono un santo» — è parso quasi rivendicare. Del resto fu lui stesso a mostrare ai fotografi l’elenco degli appuntamenti della giornata, in cui accanto a Previti spiccavano più piacevolmente Evelina Manna e Antonella Troise, già citate nella celebre telefonata di raccomandazioni a Saccà. È probabile che i due leader abbiano un carattere diverso, e quindi un diverso approccio alla vita e ai media. Di sicuro a entrambi la stampa e in particolare la tv piacciono amiche e compiacenti, piuttosto che utilmente libere e critiche. Sarkozy in particolare sa essere spietato, ma deve far fronte a un atteggiamento spesso più severo sulle cose importanti. All’indomani delle Regionali, il tg della prima rete francese — che è in mani private ma non certo ostili all’Eliseo — apriva con il brano del discorso di Capodanno in cui Sarkozy assicurava che mai e poi mai si sarebbe rimangiato la carbon tax, accostato alla decisione appena annunciata dal presidente di ritirare la carbon tax. Il Figaro, da sempre il quotidiano della destra francese, ha attaccato duramente Sarkozy quando tentò di insediare il figlio Jean — 23 anni — alla presidenza della Défense. E un direttore della tv pubblica che si lancia in editoriali a sostegno alle posizioni del governo gli spettatori francesi non l’hanno ancora visto.

Aldo Cazzullo

07 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #80 inserito:: Aprile 15, 2010, 09:50:54 am »

«Beppe fa il capopopolo, io non ci riuscirei mai. Preferisco restare un saltimbanco»

«No a Grillo e Di Pietro La Lega è l'unico partito»

Paolo Rossi: l’ex pm mi ricorda un poliziotto cubano

«Beppe fa il capopopolo, io non ci riuscirei mai. Preferisco restare un saltimbanco»

Un «cittadino esemplare» riceve una visita inaspettata: è lo Stato a bussare alla porta. «Lo so, ce l’hai con me. Mi hai cercato tanto.
Mi hai sempre rispettato. E io cosa ho fatto? Ti ho abbandonato, ti ho lasciato tutte le bollette da pagare, a chi poi? A me...». Irriverente ma non offensivo, il monologo che Paolo Rossi avrebbe dovuto portare al festival di Sanremo. Eppure gli italiani non l’hanno visto. «Mi hanno cercato loro, gli autori—racconta Rossi —. Sono stato a trovarli a Roma, poi a Sanremo. Ho raccontato il testo.
Bellissimo, divertentissimo, dicevano. Poi non hanno più telefonato. Qualcuno però deve aver telefonato a loro». Si è detto che nella prima versione il visitatore non fosse lo Stato ma Berlusconi... «No. Non sono così pazzo, sarebbe stata una provocazione. Ho riferito l’episodio al mio maestro, Dario Fo, che deve averlo rielaborato. Ma non è così».

Dice Rossi che «ci sono molte forme di censura. C’è quella dei cortigiani, come in questo caso. Burocrati che si svegliano un paio d’ore prima delle persone di talento, per avere il tempo di sforbiciarne il lavoro. Poi c’è la censura del re. Ma c’è anche la censura di chi il proprio talento lo sacrifica, si vende al mercato, purga le proprie opere. Succede a molti del mio ambiente. Li vedo censurare la loro stessa intelligenza e originalità. Ma non voglio fare nomi. L’unico collega di cui parlo è il presidente del Consiglio: un uomo di spettacolo, il più adatto a governare la società dello spettacolo».

«In questi trent’anni in Italia è accaduta una rivoluzione culturale, che ha trasformato i cittadini in spettatori. Tutti sono stati coinvolti, anche la sinistra. Gli unici che non si sono adeguati, che hanno continuato a lavorare per strada, magari avendo in tasca ancora la tessera del vecchio Pci, sono i leghisti. La Lega è l’unica forma di resistenza al virtuale. Purtroppo, a differenza di Alberto da Giussano, è salita sul carro dell’imperatore. Per il resto, non credo ci sia molta differenza tra le feste azzurre del Pdl e la festa dell’Unità o come si chiama adesso. Festa democratica, mi dicono. Da tempo, dalla canzone di Gaber in poi, i parametri di destra e sinistra non sono più validi. E a volte, quando incontro un esponente di sinistra, mi viene da sentirmi un po’ di destra ». Ma se alle regionali lei si è candidato con Rifondazione? «L’ho fatto per un amico, Vittorio Agnoletto. Non sono comunista; al più, anarchico. E la mattina delle elezioni sono rimasto a casa. Credo di essere l’unico candidato che non si è votato».

In tanti guardano a un altro suo collega, Beppe Grillo. «Ognuno nella vita va dove lo portano le sue scelte. Io non riuscirei mai a diventare un capopopolo — dice Rossi —. Preferisco restare un saltimbanco. Questo so fare, e lo so fare bene. Grillo ha altre capacità.
Da buon genovese, è molto portato ad afferrare i concetti economici». E Di Pietro? «L’ho visto due volte in vita mia. A un convegno sulla Costituzione, dove si arrabbiò molto perché gli avevano portato via il posto in prima fila. E in tv da Fazio. Dietro le quinte mi chiese se i capelli erano i miei. Per un attimo ho pensato che non fossero i miei, che Di Pietro avesse un dossier riservato sui miei capelli e sapesse di loro cose che io non so. Mi ha ricordato il poliziotto cubano che mi interrogò per ore: aveva trovato la polvere che usavo per incollare un ponte dentale. Non mi mollò finché non mi staccai il ponte, lo cosparsi di polvere e lo riattaccai. Disgustato, il Di Pietro cubano mi rilasciò ».

Tra i bersagli di Paolo Rossi ci fu Bettino Craxi. «Dov’è finita la fontana di piazza Castello? Ad Hammamet!» cantava. Qual è oggi il suo giudizio su Craxi? «Non riesco a giudicare una persona che non può rispondere. Io attacco il potere; quando l’uomo perde il potere, smetto di prendermela con lui. Craxi paga il pedaggio che tocca agli sconfitti. Quando in Parlamento si alzò a dire che tutti erano responsabili, diceva la verità. Anche se ormai è diventato un luogo comune, dalla politica a Calciopoli: tutti sono corrotti, così fan tutti...».

Si chiamava Pianeta Craxon lo spettacolo che Rossi faceva al Derby nel 1980. «Uno dei personaggi era Berlusconi. Mi chiedevano: "Perché te la prendi con un imprenditore edile?". In realtà lui aveva già cominciato a comprarsi l’Italia. Per prima cosa cambiò la comicità.
La tv impose il passaggio dalla narrazione al tormentone, dalla tradizione latina alla battuta anglosassone, frantumabile dagli spot. Poi ha cambiato tutto il resto. Denunciare la malefatte di Berlusconi è inutile: vince perché in tanti si identificano nel primattore, che è anche un po’ primattrice; in tanti vorrebbero vivere nel suo film. Non lo dico per snobismo: sono uno che considera i propri film migliori quelli girati con i Vanzina. Ma la tv ha sostituito valori autentici con altri falsi, ha innalzato vitelli d’oro, anzi maiali d’oro.
Per fortuna, ora la tv è morta. Tra un po’ sarà modernariato, come i registratori Geloso ». Sicuro? «Sì. Prima il cinema uccise il teatro. Poi la tv uccise il cinema. Ora la rete uccide la tv, e con il passaparola rilancia il teatro. Il celebrato Raiperunanotte di Santoro alla fine era uno spettacolo dal vivo, in un Palasport». Non guarda proprio nulla in tv? «Ogni tanto, Amici o X-Factor. Selezionano ragazzi preparati, a cui però manca il "duende", quell’estro che non si insegna ma si può uccidere». Morgan? «Di questa storia colgo solo l’aspetto umano. Nella mia vita artistica ho visto, indirettamente e no, parecchi inferni. Quando lo spettacolo è finito e dalle uscite laterali sbuchiamo nel silenzio e nel buio, capita di cadere in certi guai».

Ora Paolo Rossi porta in giro per l’Italia il Mistero Buffo. «Vado nella casa della carità di don Colmegna a Milano, nelle scuole del Reggiano, e nel carcere di Bollate. Ha organizzato Vallanzasca. Il pienone è sicuro: i detenuti non hanno altra scelta». Il suo fondo anarchico viene fuori quando difende i dissidenti dell’amata Cuba: «Proprio chi si è entusiasmato per la rivoluzione cubana non deve vergognarsi ora di criticare il regime cubano». E quando racconta storie di famiglia. «Due anni fa, con il mio primogenito Davide, ho accompagnato mio padre, che ha combattuto in Jugoslavia, a cercare i corpi dei suoi commilitoni gettati dai titini nelle foibe.
Non li trovammo: quella è zona termale, sul posto magari avevano costruito un percorso benessere. Noi siamo di Monfalcone. Bisiacchi, che secondo Magris può significare sia "gente tra due acque", l’Isonzo e il Timavo, sia "gente in fuga".

Come i carpentieri del mio paese, bastonati per vent’anni dai fascisti e, passata la frontiera dopo la guerra, dai comunisti».

Aldo Cazzullo

15 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #81 inserito:: Aprile 30, 2010, 06:32:08 pm »

L'ITALIA DELLO SHOPPING

Il vento del Nord soffia contro gli outlet

Dopo Cota anche Zaia si oppone all'espansione dei centri commerciali a difesa dei piccoli negozi e dei centri storici


L’ultimo, gigantesco outlet l’hanno aperto a Mondovì, provincia di Cuneo: 85 negozi, più la gelateria, il self-service, la pizzeria, il fast-food, il ristorante, la caffetteria; le cascine finte, i portici finti con il golf sul tetto, e «Power Station» con le pompe di benzina; di che mandare in rovina i piccoli commercianti, zoccolo duro della Lega. Eppure, alle ultime regionali, a Mondovì la Lega ha avuto un balzo impressionante: 23,5%, primo partito, con Cota sopra il 50 e la Bresso sotto il 45. Perché i centri commerciali mettono in difficoltà i commercianti leghisti; ma sono leghisti pure molti clienti. A Serravalle Scrivia, sede del più grande outlet d’Europa, invece ha vinto la Bresso; la Lega però ha superato il 14%. Qui la sostituzione della piazza e del paese con il centro commerciale è completa: gli abitanti portano all’outlet i cani e i bambini, visitano la «Hall of Fame» con le foto degli ospiti illustri - Gigi D’Alessio e Lele Mora, Nina Moric e Barbara Chiappini -, e quando sotto i similportici ricevono una telefonata - «dove sei?» - rispondono: «A Serravalle».

Ora il nuovo governatore Cota ha stabilito che così non si può andare avanti. Un’ordinanza dovrebbe bloccare sei progetti: una nuova apertura e cinque ampliamenti. «Avrebbero dato il colpo di grazia ai negozi di vicinato e ai mercati rionali» ha spiegato l’assessore che l’ha firmata, William Casoni, Pdl. Ma la più alta concentrazione di centri commerciali non è in Piemonte. È del Nord-Est il primato nel rapporto tra abitanti e metri quadri di grande distribuzione. Il «Veneto Designer Outlet» è a Noventa, in provincia di Vicenza: qui Zaia ha preso il 64,3% e la Lega supera il 35; ben sopra il Pdl, tre volte il Pd. L’«Outlet Unieuro» è invece in un’ex zona rossa, aMarcon, in provincia di Venezia. Qui ancora alle regionali 2005 il candidato di centrosinistra Carraro aveva staccato Galan di undici punti.
Stavolta Zaia ha vinto 52 a 37, e la Lega è arrivata al 28. Anche in Veneto, commercianti leghisti preoccupati dai megamarket, ed elettori leghisti che vanno a farci la spesa o a passare la domenica con le famiglie. Che farà il nuovo governatore? «Da noi il problema è già superato dalle regole del mercato - risponde Luca Zaia -. Il calo dei clienti dei centri commerciali è costante. La Lega ha fatto la battaglia in passato, quando il piano commerciale del Veneto che prevede un centro ogni 150 mila abitanti è stato ampiamente disatteso: in alcune zone ce n’è uno ogni 30 mila».

I veneti si sono ingegnati: la legge distingue il «centro commerciale», con un unico ingresso, dal «parco commerciale», capannoni con ingressi separati; il primo vende scarpe, il secondo attrezzi per il bricolage, il terzo vestiti, il quarto vini e cibi, un tunnel li collega e la norma è aggirata. «Ma ora le cose stanno cambiando - dice Zaia -, come per i capannoni industriali: ne hanno costruiti troppi, e ora tanti sono vuoti. Il Veneto è terra di piccoli paesi: 581 comuni, tremila abitanti di media. Siamo fatti per l’osteria e il negozio sotto casa, la vita a " chilometro zero"; non per il moloch da metropoli postindustriale. Abbiamo 62 milioni di turisti l’anno, di cui soltanto 13 a Venezia: dobbiamo rafforzare il sistema commerciale nei borghi medievali e nelle città murate, aiutare la pizzeria e il negozio di abbigliamento, il banco di souvenir e il ristorante tipico». Dice Zaia che la priorità della giunta regionale è una nuova legge per i centri storici. «Troveremo il modo di dare sollievo ai piccoli commercianti, con gli incentivi, con l’esenzione dalle tasse regionali. In cambio dovranno abbassare i prezzi: perché vanno capiti anche i consumatori, che cercano il centro commerciale per comprare una t-shirt a 8 euro anziché 80, per prendere un hamburger con pochi soldi anziché delikatessen da gourmet che non si possono permettere.

Io invece sogno che i veneti tornino a mangiare i loro piatti tipici nelle osterie, a prezzi umani. Mi piace il consumo identitario, legato ai prodotti locali, attento alla qualità. Una fetta di salame, un pezzo di formaggio comprato dal negoziante sotto casa, che ha servito i nostri padri e i nostri nonni, ha un altro sapore». Di questo passo, ci si dovrà occupare della crisi dei centri commerciali; che è una delle motivazioni con cui la giunta piemontese prepara la stretta, appunto per salvare i gestori dei megamarket che già ci sono.

Zaia sostiene che anche nel campo della grande distribuzione bisogna distinguere: «Un conto è l’imprenditore locale, che investe sul territorio. I soldi spesi da lui bene o male restano nella comunità. Un altro conto sono gli outlet aperti dalle multinazionali.
Chi fa acquisti là remunera investimenti di fondi californiani o di magnati stranieri, e spesso cade vittima dell’illusione di spendere meno, per poi scoprire desideri che neppure sapeva di avere. E poi queste città finte tendono a diventare "down-town", con gravi problemi di sicurezza come le città vere, comprese, la sera, droga e prostituzione. Lo so che tante famiglie ci vanno nel weekend, perché non sanno cosa fare. Ma preferisco imitare Klagenfurt, che ha trasformato la sua archeologia industriale in una serie di piccole botteghe.

E diffondere l’esempio di Mestre, dove con il nuovo Centrobarche è nato un quartiere pedonale dove i veneziani di terraferma vanno a comprare i prodotti tipici». Anche la grande distribuzione, però, si sta adeguando alla filosofia del «chilometro zero». Nella piazza artificiale di Mondovicino c’è la gastronomia «Eccellenze del Piemonte», con la toma di Murazzano, la robiola di Roccaverano, il dolcetto di Dogliani e gli altri prodotti che piacciono al Carlin Petrini di Slowfood. E accanto alle cascine finte ce n’è una vera, la Cascina Viot, riadattata a sede per mostre «di artisti del posto» o almeno collegati con l’ormai inevitabile «territorio».

Aldo Cazzullo

30 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #82 inserito:: Agosto 15, 2010, 10:56:14 pm »

Il ministro: c'è un blocco conservatore che vuole fermare le riforme

Brunetta: non si andrà al voto

I finiani torneranno indietro

«Berlusconi parli al Paese organizzando manifestazioni»

Il ministro: c'è un blocco conservatore che vuole fermare le riforme



Ministro Brunetta, cosa ci aspetta dopo ferragosto?
«Finalmente l'economia comincia a tirare. Produzione industriale in crescita tumultuosa, export a due cifre, disoccupazione in calo. Tutto questo è avvenuto senza crisi sociale, senza crisi del sistema bancario, senza la temuta desertificazione imprenditoriale; anzi, con una buona tenuta del potere d'acquisto delle famiglie e una perfetta tenuta del welfare».

Le valutazioni degli imprenditori sono molto meno ottimiste.
«Io non esprimo valutazioni; cito dati incontrovertibili. Il Pil del 2010 viaggia verso l'1,5%, quello dell'anno prossimo tra l'1,5 e il 2%. La ripartenza della locomotiva tedesca rappresenta una sicurezza. E' la fine del tunnel. E bisogna dire grazie alle famiglie italiane risparmiose, alle imprese capaci di ristrutturarsi, e un po' anche al governo, che ha condotto la nave in mezzo alla burrasca. Per questo Montezemolo e compagni sono quanto meno ingenerosi. E non aggiungo altro».

Montezemolo, e non solo lui, vi rimprovera le riforme che non avete fatto.
«E invece le riforme fatte cominciano a dare i loro frutti. La riforma della pubblica amministrazione. La riforma del federalismo, con la cedolare secca sugli affitti, che ha reso più tranquilli i comuni. La riforma del bilancio che evita gli assalti alla diligenza. La riforma delle "public utilities", con i regolamenti che consentono di privatizzare e liberalizzare. Abbiamo avviato le riforme della giustizia, della scuola, dell'università, del welfare pensionistico. E poi la semplificazione amministrativa e legislativa».

Eppure la maggioranza è divisa da una crisi gravissima.
«E io mi chiedo: non è che tutto quanto sta succedendo non sia altro che il precipitare della reazione conservatrice? La reazione di tutti quelli che il cambiamento non lo vogliono? Perché, pur tra qualche errore, qui le cose cominciano a cambiare davvero. Funziona la lotta alla criminalità organizzata. Funziona la lotta all'evasione fiscale. Le riforme sono in atto; possono piacere o no, ma sono in atto. Sedicenti governi di transizione, di salute pubblica, di salvezza nazionale o qualsiasi altra formula ipocrita e politichese, non sarebbero altro che il blocco delle riforme».

Ma se venisse meno questa maggioranza la Costituzione impone di cercarne un'altra.
«Se cadesse questo governo e gli succedesse qualsiasi governicchio da palude parlamentare che durasse qualche mese, il risultato certo e immediato sarebbe la marcia indietro della riforma della pubblica amministrazione, la marcia indietro del federalismo fiscale, la marcia indietro del rigore di bilancio, la marcia indietro su scuola, università, public utilities. Ne sarebbero felici i fannulloni. Gli enti pubblici spreconi cui Tremonti, sia pure con qualche rigidità degna di miglior causa, ha tagliato le unghie. I soviet locali di luce, acqua, gas, trasporti, spazzatura. I sindacati dei "todos caballeros", delle assunzioni facili senza concorso, della Fiom antimercato e anticompetizione. I falsi invalidi. E i tanti partiti della spesa pubblica sprecona e irresponsabile».

Tra un po' dirà che ne sarebbe felice anche la mafia...
«Non lo dico perché non voglio offendere nessuno. Ma due più due fa quattro».

Come se ne esce allora?
«Da una parte c'è il governo, che finora ha avuto il consenso degli italiani. Dall'altra parte c'è un'opposizione impotente, indecisa a tutto ma ferocemente conservatrice. In mezzo, una melassa opportunista, terzopolista, anch'essa conservatrice. Chi vincerà questa partita? Non solo chi riesce ad avere la fiducia in parlamento; soprattutto, chi riesce a parlare al paese. Il passaggio parlamentare è ineludibile. Si portino i quattro punti a Camera e Senato, con comunicazione del presidente e dell'intero governo, su cui approntare una mozione di fiducia: una sorta di nuovo inizio, anche dal punto di vista formale; come quando si vota la fiducia a inizio legislatura. Però il passaggio parlamentare non basta».

Cos'altro occorre?
«Rivolgersi agli italiani. Chiediamo al Paese: queste cose che abbiamo fatto sono chiare? Le vuoi? Il premier deve parlare non solo al Parlamento, ma al Paese. Diremo: questo è ciò che abbiamo fatto; se vince la conservazione, tutto questo si interrompe. Sarebbe una sorta di fiducia parallela, un determinante uno-due. Una fiducia popolare da chiedere come si fa nelle campagne elettorali, anche se non ci sarà la campagna elettorale. Se il Paese risponderà di sì, questo non potrà non influire».

Ma in che modo far esprimere il Paese, se non con il voto? Con le manifestazioni?
«In tutte le forme democratiche, da grandi conferenze che il premier e i ministri potranno fare in tutta Italia, a manifestazioni di consenso al governo. Da quando mai le manifestazioni sono fatti non democratici?».

Ma secondo lei ci sarà il voto anticipato?
«No. La mia consapevolezza è che la forza delle cose fatte parla in modo altrettanto chiaro alla maggioranza e al Paese. E la doppia forza porta a proseguire. Non vedo chi eletto nei partiti di maggioranza possa disconoscere le riforme, e sulla base di quale argomentazione».

Questo significa che secondo lei i finiani, o almeno una parte, torneranno indietro?
«Assolutamente sì. Chi si assume la responsabilità di troncare il cambiamento? Tutto si tiene. Questa grande operazione-verità nel Parlamento e nel Paese farà sì che si possa riassorbire la crisi. Ma anche se la crisi, per ragioni puramente di potere, non venisse riassorbita, la soluzione verrebbe parimente indicata nel Paese. Se il Paese dice a gran forza "vogliamo continuare", e il Parlamento risponde di no, viene sciolto il Parlamento, non il Paese».

E si vota con questa legge elettorale?
«Chi la cambia? La melassa? La minoranza? Se chiedessimo all'opposizione quale legge elettorale vuole, non saprebbe individuarne una. In realtà, la legge elettorale è l'espressione della volontà della maggioranza, incarnata nel bene e nel male dagli eletti. Se una maggioranza non voluta dalla gente la cambiasse, sarebbe l'equivalente di un golpe».

Fini deve dimettersi?
«Non mi sono mai posto questo problema. Ma ho un'immagine di tipo tradizionale dei presidenti di Camera e Senato, come super partes, garanti dell'attività del Parlamento. Come si fa a pensare a chi sta seduto sullo scranno più alto come a un capopartito, in contrasto con la maggioranza che l'ha eletto?».

Quando parla degli errori della maggioranza si riferisce anche alla casa di Scajola e al caso Brancher? Non c'è un problema di legalità nel Pdl?
«Il governo ha dovuto affrontare una serie di attacchi esterni che avrebbero stroncato un toro. E tutto è cominciato dopo Onna. L'insieme delle campagne mediatiche è stato avviato, scientificamente o approfittando di occasioni, dopo il 25 aprile 2009, dopo quel discorso di Onna che rappresenta il più alto livello di consenso per Berlusconi, con apprezzamenti anche a sinistra. Da quel momento si scatena l'ira di Dio contro il premier. Io non sono un dietrologo. Non penso che ci siano sempre i burattinai. Ma una sequenza di questo genere mi fa dubitare delle mie convinzioni».

Aldo Cazzullo

15 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_15/brunetta-cazzullo-non-si-andra-al-voto_e9912fe6-a83f-11df-94a2-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #83 inserito:: Agosto 17, 2010, 09:04:33 pm »

La regola sembra diventata raccontare tutto a giornali e tv di amici ed ex partner

Amori, rivelazioni e veleni: la fine dei galantuomini in un'estate senza pudore

Quello che colpisce è che la maldicenza proviene sempre dall'interno, è frutto di lotte fratricide


L'estate 2010 resterà nelle cronache come quella in cui crollò ogni pudore, qualsiasi scrupolo, l'ultimo simulacro di riservatezza. Non bastava il mondo alla rovescia, in cui quotidiani dedicano titoli più grandi di quelli con cui fu annunciata la seconda guerra mondiale al ritrovamento della fattura di un lavello, e il nemico numero uno dell'etica pubblica diventa Giancarlo Tulliani ex vicepresidente della Viterbese. C'è qualcosa di più. Diventa regola generale spifferare «le due o tre cose che so di lei», da parte di chi la conosceva bene, magari dopo essersi tanto amati.

L'uomo più intervistato del momento è Luciano Gaucci, luminosa figura di bancarottiere già latitante a Santo Domingo con moglie locale di 42 anni più giovane, ora assistito dall'avvocato di Cesare Previti: «Ti innamoravi di Elisabetta, e prendevi anche il fratello. Gli ho comprato la Porsche. E al padre una Bmw. Poi ho capito che lei mi tradiva. Ma io li rovino, 'sti morti di fame...». Seguono dispute su schedine del Superenalotto, appartamenti intestati alla fidanzata per sottrarli ai creditori, tangenti per un collaboratore di Bush e altri dettagli di cui è bene si taccia.

Per Vittorio Sgarbi rivelare antiche frequentazioni con personaggi oscuri poi saliti alla ribalta è quasi un classico. Surama, la ballerina brasiliana divenuta compagna dell'allora sindaco di Catania Umberto Scapagnini, fu definita «una mia scoperta giovanile». Frequente la metafora della «collezione privata» e della «nuova acquisizione». Ma con Elisabetta Tulliani è andato oltre: «Ho l'abitudine di presentare le mie ragazze alla mia fidanzata ufficiale, Sabrina Colle. Di fronte alla Tulliani ha allargato le braccia. Non ha deposto a suo favore l'insistenza con cui chiedeva la tessera Freccia Alata dell'Alitalia».

Il placido mondo Rai, sempre scevro da questioni personali e maldicenze interne, non poteva deludere neanche stavolta. Così, con l'aria di schermirsi, Guido Paglia conferma a Libero le pressioni di Fini a favore del «cognato»: «Giancarlo Tulliani mi è costato un'amicizia durata trent'anni». A sua volta, Paolo Francia confida al Corriere: «Paglia è stato per anni il braccio armato di Fini in Rai. Farne ora un Padre Pio, suvvia...». Scrive il Giornale: «È da quando, nel lontano 1994, il leader della destra italiana ha messo piede nel Palazzo, che in un modo o nell'altro le sorti (e gli uomini e le donne) della tv pubblica gli stanno particolarmente a cuore». Daniela Santanché, già smascheratrice del compagno di Veronica Berlusconi, esemplifica sul Fatto quotidiano: «Fu Fini a inaugurare Vallettopoli. Portò in Rai Fanny Cadeo e Angela Cavagna, detta "la tetta della destra". È meglio che lasci ora, altrimenti cadrà per la vergogna. Le rivelazioni non sono finite"». Ma lui, Fini, di persona com'è? «Un uomo freddo, anaffettivo, spietato. Umanamente, una...». Ancora Sgarbi: «Fini non è Sarkozy e la Tulliani non è Carla Bruni. La Bruni è ricca, intelligente e di sinistra. La Tulliani invece era una ragazza di destra come la Gregoraci, la grande raccomandata dell'ex portavoce di Fini, Salvo Sottile. Abbiamo tutti sopravvaluto Fini e sottovalutato la Tulliani. Eppure era una curva ben segnalata...». E L'Espresso spiega tutto con una rivelazione attribuita a Berlusconi in persona: «La Tulliani cercò di arrivare a Palazzo Grazioli, ma non ci riuscì. Una volta s'era fatta assegnare un posto a tavola vicino al mio e fu fatta spostare. Da allora ha cercato di mettere Fini contro di me».

Colpisce non tanto la maldicenza, quanto il fatto che provenga ineluttabilmente dall'interno, frutto di lotte fratricide. La querelle dell'appartamento a Montecarlo nasce da una denuncia della Destra di Francesco Storace, che di Fini è stato portavoce, compagno di vacanze - «ti ricordi Gianfranco la volta in cui entrammo a pugno chiuso in una sezione del Pcus a Mosca presentandoci come tovarish italiani?» -, amico fraterno. Dal canto loro, i finiani scoprono con una trentina d'anni di ritardo il modo limpido in cui ancora Previti procacciò al Cavaliere la villa di Arcore (peraltro confusa da Italo Bocchino con quella di Macherio). Non poteva mancare Ciarrapico: «Fini pupillo di Almirante? Ma no. Almirante mi raccontava di lui che sa dire meglio di chiunque altro che l'estate fa caldo e l'inverno fa freddo, ma che bisogna avere del tempo prima per spiegarglielo bene. Negli ultimi mesi di vita, bloccato nel suo letto nella casa di via Quattro Fontane, Giorgio si confidò con me: "Peppino, io di Fini non mi fido..."». Viene da rimpiangere l'ipocrisia democristiana. O le allusioni maliziose di Cossiga, che per fortuna sta un po' meglio. E finiremo con il rivalutare Daniela Fini, l'unica che nella vicenda sia rimasta in silenzio. Corteggiatissima dai giornali, a tutti ha risposto allo stesso modo: «Da me non avrete una sola parola contro Gianfranco».

Aldo Cazzullo

17 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/politica/10_agosto_17/cazzullo_amori_veleni_c05a89ee-a9cd-11df-8b1f-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #84 inserito:: Agosto 19, 2010, 12:07:21 am »

L'intervista

Cossiga compie 80 anni: Moro?

Sapevo di averlo condannato a morte

«La strage di Bologna, fu un incidente della resistenza palestinese»


Presidente Cossiga, auguri per i suoi ottant'anni. Lei è sempre malatissimo, e tende sempre a relativizzare il suo cursus honorum — Viminale, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Quirinale —. Eppure la vita le ha dato longevità e potere. Come se lo spiega?
«Ma io sono ammalatissimo sul serio! Nove operazioni, di cui cinque gravi, una della durata di sette ore, seguita da tre giorni di terapia intensiva. Ma resisto. Come si dice in sardo: "Pelle mala no moridi"; i cattivi non muoiono. E io buono non sono. Io relativizzo tutto quello che non attiene all'eterno. E poi, come spiego in un libro che uscirà a ottobre, "A carte scoperte", scritto con Renato Farina, tutte le cariche le ho ricoperte perché in quel momento e per quel posto non c'era nessun altro disponibile. Io uomo di potere? Sempre a ottobre uscirà un altro libro — "Damnatio memoriae in vita" — con tutti gli articoli, lettere e pseudo saggi di insulti e peggio pubblicati durante il mio settennato contro di me da Repubblica ed Espresso ».

A trent'anni dalla morte di Moro, il consulente che le inviò il Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, ha detto: «Con Cossiga e Andreotti decidemmo di lasciarlo morire». Quell'uomo mente? Ricorda male? Ci fu un fraintendimento tra voi? O a un certo punto eravate rassegnati a non salvare Moro?
«Quando, con il Pci di Berlinguer, ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l'è presa solo con me, mai con i comunisti.
Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l'interesse del suo nipotino Luca».

Esclude che le Br furono usate da poteri stranieri che volevano Moro morto?
«Solo la dietrologia, che è la fantasia della Storia, sostiene questo. Tutta questa insistenza sulla "storia criminale" d'Italia è opera non di studiosi, ma di scribacchini. Gente che, non sapendo scrivere di storia e non essendo riusciti a farsi eleggere a nessuna carica, scrivono di dietrologia. Fantasy, appunto ».

Quale idea si è fatto sulle stragi definite di «Stato», da piazza Fontana a piazza della Loggia? La Dc ha responsabilità dirette? Sapeva almeno qualcosa?
«Non sapeva nulla e nessuna responsabilità aveva. Molto meno di quelle che il Pci (penso all'"album di famiglia" della Rossanda) aveva per il terrorismo rosso».

Perché lei è certo dell'innocenza di Mambro e Fioravanti per la strage di Bologna? Dove vanno cercati i veri colpevoli?
«Lo dico perché di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della "resistenza palestinese" che, autorizzata dal "lodo Moro" a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo. Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche».

Scusi, i palestinesi trasportavano l'esplosivo sui treni delle Ferrovie dello Stato?
«Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così. Anche le altre versioni che raccolsi collimavano. Se è per questo, i palestinesi trasportarono un missile sulla macchina di Pifano, il capo degli autonomi di via dei Volsci. Dopo il suo arresto ricevetti per vie traverse un telegramma di protesta da George Habbash, il capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina: "Quel missile è mio. State violando il nostro accordo. Liberate subito il povero Pifano"».

C'è qualcosa ancora da chiarire nel ruolo di Gladio, di cui lei da sottosegretario alla Difesa fu uno dei padri?
«I padri di Gladio sono stati Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Gaetano Martino e i generali Musco e De Lorenzo, capi del Sifar. Io ero un piccolo amministratore. Anche se mi sono fatto insegnare a Capo Marrangiu a usare il plastico».

Il plastico?
«I ragazzi della scuola di Gladio erano piuttosto bravi. Forse oggi non avrei il coraggio, ma posseggo ancora la tecnica per far saltare un portone. Non è difficile: si manipola questa sostanza che pare pongo, la si mette attorno alla struttura portante, quindi la si fa saltare con una miccia o elettricamente... ».

E' sicuro che il plastico di Gladio non sia stato usato davvero?
«Sì, ne sono sicuro. Gli uomini di Gladio erano ex partigiani. Era vietato arruolare monarchici, fascisti o anche solo parenti di fascisti: un ufficiale di complemento fu cacciato dopo il suo matrimonio con la figlia di un dirigente Msi. Quasi tutti erano azionisti, socialisti, lamalfiani. I democristiani erano pochissimi: nel mio partito la diffidenza antiatlantica è sempre stata forte. Del resto, la Santa Sede era ostile all'ingresso dell'Italia nell'Alleanza Atlantica. Contrari furono Dossetti e Gui, che pure sarebbe divenuto ministro della Difesa. Moro fu costretto a calci a entrare in aula per votare sì. E dico a calci non metaforicamente. Quando parlavo del Quirinale con La Malfa, mi diceva: "Io non c'andrò mai. Sono troppo filoatlantico per avere i voti democristiani e comunisti"».

Qual è secondo lei la vera genesi di Tangentopoli? Fu un complotto per far cadere il vecchio sistema? Ordito da chi? Di Pietro fu demiurgo o pedina? In quali mani?
«Credo che gli Stati Uniti e la Cia non ne siano stati estranei; così come certo non sono stati estranei alle "disgrazie" di Andreotti e di Craxi. Di Pietro? Quello del prestito di cento milioni restituito all'odore dell'inchiesta ministeriale in una scatola di scarpe? Un burattino esibizionista, naturalmente ».

La Cia? E in che modo?
«Attraverso informazioni soffiate alle procure. E attraverso la mafia. Andreotti e Craxi sono stati i più filopalestinesi tra i leader europei. I miliardi di All Iberian furono dirottati da Craxi all'Olp. E questo a Fort Langley non lo dimenticano. In più, gli anni dal '92 in avanti sono sotto amministrazioni democratiche: le più interventiste e implacabili».

Quando incontrò per la prima volta Berlusconi? Che cosa pensa davvero di lui, come uomo e come politico?
«Era il 1974, io ero da poco ministro. Passeggiavo per Roma con il collega Adolfo Sarti quando incontrai Roberto Gervaso, che ci invitò a cena per conoscere un personaggio interessante. Era lui. Parlò per tutta la sera dei suoi progetti: Milano 2 e Publitalia. Non ho mai votato per Berlusconi, ma da allora siamo stati sempre amici, e sarò testimone al matrimonio di sua figlia Barbara. Certo, poteva fare a meno di far ammazzare Caio Giulio Cesare e Abramo Lincoln...».

Ci sono accuse più recenti.
«Non facciamo i moralisti. Il premier britannico Wilson fece nominare contessa da Elisabetta la sua amante e capo di gabinetto. Noi galantuomini stiamo con la Pompadour. Quindi, stiamo con la Carfagna ».

Lei non è mai stato un grande estimatore di Veltroni. Come le pare si stia muovendo? Resisterà alla guida del Pd, anche dopo le Europee?
«E che cosa è il Pd? Io mi iscriverei meglio a ReD, il movimento di D'Alema, di cui ho anche disegnato il logo: un punto rosso cerchiato oro. Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla. Perderà le Europee, ma resisterà; e l'unica garanzia per i cattolici nel Pd che non vogliono morire socialisti».

Perché le piace tanto D'Alema?
«Perché come me per attaccare i manifesti elettorali è andato di giro nottetempo con il secchio di colla di farina a far botte. Perché è un comunista nazionale e democratico, un berlingueriano di ferro, e quindi un quasi affine mio, non della mia bella nipote Bianca Berlinguer che invece è bella, brava e veltroniana. E poi è uno con i coglioni. Antigiustizialista vero, e per questo minacciato dalla magistratura ».

Cosa pensa dei giovani cattolici del Pd? Chi ha più stoffa tra Franceschini, Fioroni, Follini, Enrico Letta?
«Sono una generazione sfortunata. Il loro futuro è o con il socialismo o con Pierfurby Casini».

Come si sta muovendo suo figlio Giuseppe in politica? E' vero che lei ha un figlio "di destra" e una figlia, Annamaria, "di sinistra"?
«Li stimo molto entrambi. Tutti e due sono appassionati alla politica come me. Mia figlia è di sinistra, dalemiana di ferro, e si iscriverà a ReD. Mio figlio è un conservatore moderno, da British Conservative Party. Io pencolo più verso mio figlio».

E' stato il matrimonio il grande dolore della sua vita?
«Non amo parlare delle mie cose private. Posso solo dire che la madre dei miei figli era bellissima, intelligentissima, bravissima, molto colta. Che ha educato benissimo i ragazzi. E che io l'ho amata molto».

Aldo Cazzullo

08 luglio 2008
http://www.corriere.it/politica/08_luglio_08/cossiga_cazzullo_f6395d90-4cb1-11dd-b408-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #85 inserito:: Agosto 23, 2010, 05:49:16 pm »

Il disagio dei cattolici


Il meeting di Cl che si apre oggi a Rimini sarà anche l'occasione per misurare il disagio dei cattolici italiani. Un anno fa, il caso Boffo parve segnare la fine sia della dottrina Ruini, sia del rapporto privilegiato delle gerarchie ecclesiastiche e di gran parte del mondo cattolico con Silvio Berlusconi. In realtà, non è andata così. Ma la nuova «questione romana» non è affatto risolta. Il rapporto tra la Chiesa e lo Stato, e tra i cattolici e la politica, resta da definire; con qualche complicazione in più.

Il 1993 fu per la Chiesa italiana una sorta di riedizione del 1870. Segnò la perdita del potere temporale. Ma i cattolici non si rinchiusero dietro le mura vaticane. Camillo Ruini, capo dei vescovi, elaborò la sua teoria, che si può così sintetizzare: non fermiamoci a rimpiangere la fine del monopolio del potere politico e dell'unità dei cattolici; ibridiamo tutti i partiti, proponiamo in ogni direzione i nostri valori; nel vuoto delle ideologie e delle idee, saranno i partiti e i leader a venire da noi.

Il successo fu clamoroso, e toccò il culmine quando il 75% degli italiani si astenne al referendum sulla procreazione assistita. Ma un Ruini non si trova a ogni angolo della storia. E Berlusconi, al di là dei rapporti personali, è sempre più condizionato dal proprio istinto di fare da sé. La Chiesa continua a diffidare profondamente della sinistra. Fini è visto come il fumo negli occhi: l'Osservatore Romano gli ha rinfacciato le origini neofasciste, e l'offensiva libertaria con cui si annuncia il nuovo partito non migliorerà i rapporti. Ma il sogno di molti cattolici - un Cavaliere «democristianizzato», insomma moderato - sembra sfumare. A ben vedere, è proprio l'eclisse dei moderati la grande preoccupazione del mondo cattolico.

Sono due in particolare i temi che preoccupano le gerarchie e i fedeli attenti alla politica. La questione etica, e la riforma federalista dello Stato. La Chiesa ha sempre badato a distinguere tra morale e moralismo; ma di fronte a questa sorta di Sodoma e Gomorra che pare diventata la vita pubblica italiana, il disagio è forte. Al federalismo fiscale la Chiesa, attenta a non rompere con la Lega avanzante, non ha mai detto un «no» incondizionato; ma non potrebbe tollerare una soluzione che abbandonasse il Sud a se stesso e aggravasse le disuguaglianze. I ripetuti appelli del Papa, del segretario di Stato, Bertone, del capo dei vescovi, Bagnasco affinché i giovani cattolici si impegnino in politica indicano che la Chiesa non intende chiamarsi fuori. Non è un male; anzi. Se l'Italia resta un Paese importante sullo scenario internazionale, anche ora che non è più la frontiera della guerra fredda, lo deve proprio alla presenza del Papato.

Il peso culturale del mondo cattolico può essere una grande ricchezza. L'importante è che i suoi interlocutori siano politici gelosi della laicità dello Stato e disponibili ad accogliere buoni consigli, e non leaderini pronti a lucrare sull'appoggio dei cattolici e a disattendere nella vita di ogni giorno e nell'azione di governo i valori che proclamano in favore di telecamera.

Aldo Cazzullo

22 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_22/disagio-dei-cattolici-editoriale-aldo-cazzullo_3a901166-adbb-11df-8e8b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #86 inserito:: Settembre 28, 2010, 12:04:35 pm »

LA STAGIONE DELLE PAROLE IN LIBERTA'

Tante battute pochi fatti

Che la sigla SPQR, nel cui nome i nostri antenati portarono il diritto e la civiltà nel mondo allora conosciuto, potesse essere letta anche «sono porci questi romani», è una di quelle battute sciocchine che ogni italiano apprende alle elementari, e per questo non fanno neppure più ridere. Non a caso compare in quel condensato di luoghi comuni sull'Italia - la pizza, il gesticolare, il «dolce far niente» - che è la mezz'ora girata tra Roma e Napoli del film «Mangia prega ama». Ma una battuta che sulla bocca di un bambino o di Luca Argentero, attore formatosi al Grande Fratello, lascia il tempo che trova, è invece desolante in bocca a un ministro del governo della Repubblica, leader del secondo partito della maggioranza. Anche perché pronunciata mentre Napolitano è a Parigi a parlare di Cavour e unificazione nazionale (si possono immaginare i commenti in Francia, dove lo Stato è una cosa seria). E perché il governo e la maggioranza appaiono da mesi paralizzati in una sterile guerra interna; senza che nell'opposizione prenda corpo un'alternativa credibile.

La politica industriale, i provvedimenti anticrisi, le infrastrutture sono fermi. In compenso, la fabbrica delle parole produce a ritmi da tigre asiatica. L'unico ministro che tace da oltre quattro mesi è il ministro dello Sviluppo economico; che non c'è. Da sempre la Lega ci ha abituati all'estremismo verbale. Le pallottole che costano 300 lire, i magistrati sulla sedia a rotelle cui «raddrizzare la schiena», i neri «bingobongo», l'uso improprio del tricolore, le battutacce contro i compatrioti di Roma e del Sud: Bossi gode da sempre di una licenza di parola, o meglio di insulto, con la giustificazione dell'efficacia popolaresca. Una delle sue armi è proprio usare il linguaggio da bar e farne linguaggio pubblico. Ma ora la Lega ha fatto scuola. Lo provano gli esponenti di destra e di sinistra che si paragonano reciprocamente a Stalin e a Hitler, con sprezzo del ridicolo e anche del rispetto dovuto ai milioni di vittime (tra cui migliaia di italiani) di quei criminali. E lo provano l'escalation verbale di quest'estate, la protervia con cui alcuni berlusconiani si sono gettati nella caccia a Fini, l'irresponsabilità con cui alcuni finiani hanno accusato senza prove Berlusconi di aver fatto o lasciato fare un dossier falso. Ormai ci siamo quasi assuefatti: come se la volgarità e la fatuità passassero come acqua sul marmo.

Non è così. Tutto questo accade in un Paese che ha già sperimentato come le parole possano diventare pietre, e piombo. Accadde agli slogan dei cortei rossi dei primi Anni 70 - la «giustizia proletaria», il «processo popolare» -, divenuti alla fine del decennio una sanguinosa realtà. La storia non si ripete mai due volte, e i paragoni con il passato sono sempre impossibili. Ma questo non significa che le parole a vanvera non abbiano, anche stavolta, un prezzo. L'esuberanza linguistica della politica italiana non corrobora un periodo di crescita economica e di coesione sociale. Avvelena ulteriormente una stagione difficile, in cui gli imprenditori (in particolare i piccoli) sono spesso lasciati soli dal governo nel mezzo di una crisi tutt'altro che finita; e in cui il disagio sociale spesso non trova rappresentanza in un'opposizione divisa e percorsa da suggestioni populiste. Si dice che il Pil non basti a indicare il progresso di un Paese. Se lo sostituissimo con un misuratore di parole, l'Italia di oggi sarebbe ricchissima. Ma non è così che si fanno crescere l'economia e la società.

Aldo Cazzullo

28 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_28/Tante-battute-pochi-fatti-editoriale-aldo-cazzullo_d135f524-cabf-11df-8d0c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #87 inserito:: Ottobre 06, 2010, 05:17:30 pm »

Leader e Presidente


La nascita del partito di Fini è un atto di chiarezza, ed è quindi un bene. Fin dal voto di fiducia della settimana scorsa, era evidente che la maggioranza si articola ormai su tre forze. Dal vertice di oggi si capirà se possono collaborare, e la legislatura - come resta auspicabile - può continuare; o se invece tutto precipita verso le elezioni anticipate.
La mutazione del presidente della Camera in leader di partito gli impone però di dare alcune risposte al Paese. Alcune riguardano il passato: Fini ha bloccato il processo breve, che avrebbe mandato in fumo migliaia di processi per fermare quelli di Berlusconi; ma ha votato il lodo Alfano, il legittimo impedimento e altre numerose leggi ad personam nei sedici anni in cui è stato alleato di Berlusconi. Altre risposte riguardano il futuro, e in particolare il suo ruolo istituzionale.
È vero, sia Casini sia Bertinotti sono stati nel contempo presidenti della Camera e capi di partito. Anche nella prima Repubblica è accaduto che sullo scranno più alto di Montecitorio sedessero leader politici, oltretutto a capo di correnti avverse alla segreteria del loro partito, dal democristiano Gronchi al comunista Ingrao. Ma non è mai accaduto che il presidente in carica si mettesse alla testa di una nuova forza, nata da una scissione del partito di maggioranza relativa, che compatto l'aveva indicato per la terza carica dello Stato.
Tra qualche anno, quando i miasmi di un'estate orribile si saranno diradati, gli storici della politica potranno individuare le responsabilità di Berlusconi e quelle di Fini nella scissione. Certo è stato il Cavaliere a espellere il cofondatore; che però aveva già espresso l'intenzione di costituire gruppi autonomi in Parlamento.
La destra liberale ed europea del merito, delle regole, della responsabilità che Fini intende costruire manca da sempre all'Italia; i prossimi anni diranno se la sua è una velleità o un'intuizione. Di sicuro, Fini ha valutato che fosse impossibile portare avanti quel progetto dentro il Pdl, sotto l'egemonia di Berlusconi. Ora però dovrebbe valutare se il difficile lavoro di costruire un partito, con la ragionevole prospettiva di condurlo presto in una durissima campagna elettorale, sia compatibile con la presidenza della Camera. Nessuno può obbligarlo a dimettersi; la scelta può essere soltanto sua.
L'intellettuale di maggior spicco tra quelli vicini al nuovo partito, il professor Alessandro Campi, auspica che il leader si concentri sulla battaglia politica, con la piena libertà di adeguarsi alle asprezze con cui sarà combattuta nei prossimi tempi. È un consiglio su cui Fini, prima di prendere la sua decisione, farebbe bene a riflettere.

Aldo Cazzullo

06 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_06/Leader-e-Presidente-aldo-cazzullo_4a7ee1cc-d108-11df-b040-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #88 inserito:: Ottobre 12, 2010, 10:33:13 am »

L'INTERVISTA

«Mi fa rabbia veder sputare sull'Italia. Grillo? Le sue battaglie sono giuste»

Renzo Piano: «Ho molta paura della Lega perché temo l'intolleranza»


dal nostro inviato  Aldo Cazzullo

PARIGI - «Sono genovese, in tutti questi anni in giro per il mondo non ho mai perso l'accento; o forse l'accento genovese è un po' un vezzo, un divertimento, non so. Ma la mia città di formazione è Milano. I primi due anni di università li avevo fatti a Firenze; ma mi annoiavo talmente… Firenze è bellissima: una città di perfezione. Ma poi uno si spara; perché è inutile fare l'architetto. Milano invece è imperfetta. E straordinaria. Ancora oggi».
Renzo Piano è nel suo atelier di Parigi a trecento metri dal Beaubourg, nel Marais, il quartiere degli ebrei, degli omosessuali e degli artisti. «Certo, l'architetto è anche un po' artista, ma la sua prima preoccupazione non può essere lasciare un segno nel paesaggio; dev'essere far vivere meglio la gente. Se vedere l'arte come tecnica, come "tekné", è un'eresia, allora sono un po' eretico».

Le stanze sono piene di luce, che entra dalle ampie vetrate, e di modellini di legno. «Ogni tanto qualche parigino bussa e chiede se possiamo aggiustargli la sedia o l'ombrello. Ci scambiano per un laboratorio artigianale; e non hanno tutti i torti». Ogni modellino è un'opera, dietro ogni opera ci sono migliaia di disegni, tutti approvati di persona da lui. «Ormai c'ho fatto l’occhio. Come il mio amico Abbado, che dirige cento violini e se uno ha un decimo di secondo di ritardo lo corregge con un cenno». I disegni più recenti mostrano un grande teatro in mezzo a un lago, con due sale sovrapposte, pensate per il teatro e la musica popolare vietnamita: è la nuova Opera House di Hanoi, per cui Piano ha appena vinto un concorso internazionale, battendo tra gli altri Norman Foster.
«Il Vietnam è un paese straordinario: 85 milioni di abitanti, più della Germania; la maggioranza ha meno di 25 anni; ma il 90% è analfabeta. C’è una grandissima energia, voglia di apprendere, bisogno di educare, senza rinunciare alla cultura tradizionale. Attorno a queste premesse è nato il progetto del nuovo teatro dell'Opera: acqua, bambù, vetro. L'ultimo anello di una lunga catena di lavori pensati per l’uomo, per la vita sociale. Basta centri commerciali. Costruiamo luoghi dove la gente si incontri attorno alla musica, come all'Auditorium di Roma che è diventato un quartiere, o all'arte, come nel Lacma, il museo che abbiamo appena inaugurato a Los Angeles. La magia delle città spesso dipende dal fatto che sono fecondate da questi luoghi. È sbagliato pensare di "rottamare" le periferie. Bisogna trasformarle, liberandone la forza repressa». I modelli in legno degli auditorium di Piano sembrano navi. «È un retaggio di Genova. Quand'ero bambino, mio padre mi portava ogni domenica mattina a messa. Poi al porto. Papà era un genovese doc, e quindi non parlava quasi mai; ma allo spettacolo del porto di Genova negli Anni 50 non servivano parole. Non c'erano i container. Gli oggetti volavano. Le automobili in braccio alle gru. Come un viaggiatore senza valigia, che si sposta con le camicie in mano. Anche gli edifici si muovevano di continuo: le navi allora si chiamavano bastimenti, dal francese "batiment", edificio appunto. Un capolavoro dell'effimero: tutto vola o galleggia, nulla tocca terra; ti viene voglia di costruire per sfidare la legge di gravità. Solo più tardi ho scoperto la vela, mi sono costruito la mia barca, ho cominciato a vedere il porto da fuori».

I suoi erano religiosi? «Mia madre sì, molto. Mio padre era un socialista timorato di Dio, per usare un'espressione che andrebbe riscoperta. Ancora oggi io vado a messa ogni domenica, con mia moglie Milly e il più piccolo dei miei quattro figli, Giorgio, che ha undici anni. Quando qui a Parigi, a Notre Dame o a Saint-Paul, la messa si chiude con una sventagliata di organo a cento decibel, che ti ricorda cos'è il timor di Dio». Il giovane Piano non era uno studente brillante. «In terza elementare un prete disse a mia madre che ero un asino senza speranza. Mi portarono pure dallo psichiatra, che sentenziò: il bambino è normale. Solo, non sapevo studiare, ero disattento. Al liceo ero sempre rimandato, un paio di volte mi bocciarono». Tra i suoi amici a Genova c'era Gino Paoli. «Eravamo negli scout insieme. Ma lui era un capo, io un lupetto. Per questo, quando nel 2007 ho compiuto settant'anni, Gino mi ha regalato un cappello da scout. All'epoca non cantava ancora; dipingeva. Una volta affrescò i muri della scuola. Io invece suonavo. La tromba. Fu proprio Paoli a convincermi che era meglio smettere».

E c'era, più tardi, Fabrizio de André. «Con lui e Luciano Berio vagheggiamo di riscrivere l'inno: Fabrizio le parole, Luigi la musica, io avrei dovuto ridisegnare la bandiera… De André era solitario, adorabile, fragile. Non era una persona facile; un po' come Genova, che è città introversa, segreta, poco espansiva. Genova e i genovesi si assomigliano. Montale diceva che ne esistono di due tipi: chi resta attaccato a Genova come una patella; e chi se ne va. Io me ne sono andato». «Milano è stata la scoperta della vita. Gli anni più formativi. Il Sessantotto ce lo siamo fatti in casa, con cinque anni di anticipo. Di giorno cominciavo a lavorare, con Franco Albini, un maestro che insegnava senza dire un parola, come mio padre. La sera andavo nell'università occupata. Veniva Camilla Cederna a portarci i cioccolatini. È stato allora che ho cominciato ad allenarmi a fare l'architetto, a capire la gente. Come i miei coetanei, volevo cambiare il mondo; da figlio di costruttori, la maniera per farlo non poteva che essere questa. Si mescolavano la ribellione e la necessità di esplorare, ficcare il naso ovunque. Come fa il cinema del neorealismo: scavare nella realtà per farla respirare. È una cosa che ti nasce dentro e non ti molla più. Ci resti intrappolato. L'aspetto artistico non è ininfluente, ma è come bello scrivere per un giornalista: una premessa, non l'essenza. L'architettura è l'arte di costruire, però non a casaccio: devi decidere per chi, per che cosa». «Finito il ’68 sono stato a Londra, nel '71 mi associai con Richard Rogers. Allora portavo una lunga barba nera, facevamo a gara con Emilio Vedova a chi l'avesse più lunga. Dopo l'esperienza in America vincemmo il concorso per il Beaubourg, e la mia base divenne Parigi. Ho sempre aperto un ufficio nelle città in cui lavoravo. Oltre a questo ce ne sono altri due permanenti, a Genova e a New York, nel vecchio mercato della carne. Ho quindici partner con cui lavoro da più di trent'anni. Poi ci sono altrettanti associati. In tutto siamo 150».

L'atelier di Parigi in effetti è pieno di giovani al lavoro anche il sabato pomeriggio. «Alcuni sono borsisti che ci mandano le università americane, europee, asiatiche. Li teniamo a bottega. Li paghiamo. E loro imparano. Qualcuno arriva qui molto sicuro di sé. Ricordo un giovane di Harvard, che dopo un mese per sbaglio inviò per mail a tutti il rapporto riservato alla sua università: "Qui sono matti, Piano dà ordini sconclusionati…". Quando si rese conto dell'errore, il ragazzo rimase in attesa di chissà quale punizione. Invece nessuno gli disse nulla. L’abbiamo lasciato a bagnomaria. E lui ha cambiato atteggiamento: umile, disponibile, pronto ad apprendere». Negli Anni Settanta, quando Piano con Rogers pensava e faceva costruire il Beaubourg, a Parigi c'era anche uno scrittore che era stato importante per lui: Italo Calvino. «Tra le città invisibili, ce n’è una fatta di tubi: un cantiere dove lavorano solo gli idraulici, si attendono i muratori che non arrivano mai, e alla fine si insediano la Naiadi, le ninfe dell’acqua che scorre. Quella città è il Beaubourg. Che non ha muri, ma pilastri cavi pieni d’acqua, a prova di incendio. Non so a chi appartenga l’intuizione, se sia nato prima il nostro progetto o il racconto di Calvino. So che Italo veniva spesso in cantiere; come anche Michelangelo Antonioni. Calvino, come molti scrittori, era ossessionato dal lasciare qualcosa di concreto dietro di sé. Mi suggerì pure un sistema per pulire l'edificio: due giganteschi rulli che si spostassero come quelli dell’autolavaggio».

Un altro torinese: Norberto Bobbio. «Una guida morale. Un maestro a distanza. Talvolta andavo a trovarlo a Torino. Mi ha insegnato che nella vita c'è di meglio che passare il tempo a convincere gli altri; ad esempio, avere le idee giuste». Un fratello maggiore: Umberto Eco. «Ci conosciamo da quarant’anni. Insieme cantiamo le canzonacce in dialetto: "Sci ben che sun piccinna"». Gae Aulenti: «Grande. Una leonessa». Vittorio Gregotti. «Ogni tanto qualcuno ci vuole far litigare. È stato mio insegnante, abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto». Ma gli amici più cari sono i musicisti. Pierre Boulez. Salvatore Accardo, «il padrino di mio figlio Giorgio, che non a caso suona il violino». Daniel Barenboim, «che a Berlino diresse un balletto di 18 gru, quelle del nostro cantiere. Ognuna era azionata da un operaio di nazionalità diversa. In tutto erano 5 mila, tra cui solo 500 tedeschi».

E Claudio Abbado, che lanciò l’idea del concerto per Milano da pagare in natura, anzi in alberi. Non se n’è fatto nulla. «Milano continuo ad amarla. Resta una grande città. Ci vuol altro per ammazzarla. Certo che per ammazzarla si fa di tutto. Questa piccola vicenda degli alberi è sintomatica, oltre che indecente. Non si capisce come si possa essere così fessi. È finita che Abbado non ha fatto il concerto, e i milanesi non hanno avuto gli alberi. Ma perché? Perché questo cinismo, questa disattenzione?». Non è questione di destra o di sinistra, spiega Piano. Genova ha rinunciato al suo Affresco, il progetto per ridisegnare il waterfront, che prevedeva di spostare l’aeroporto in mezzo al mare. Ma era davvero possibile? «Certo. C'erano pure i soldi. Ma si sarebbero liberati un milione e mezzo di metri cubi per il porto. Si sarebbe rotto il monopolio, e il vecchio sistema sarebbe stato spazzato via. Purtroppo in Italia è sempre tutto più difficile. Il grattacielo di Torino me l'hanno fatto pesare al punto che quasi ti scappa la voglia… Intendiamoci: anche all’estero si discute, e molto. Vede queste foto? È la Scheggia di Cristallo, il nuovo grattacielo di Londra. Cresce di due centimetri ogni ora, la macchina sale di continuo, non si ferma mai. Il principe Carlo non lo voleva, c’è stata un’inchiesta pubblica, ci hanno dato ragione, e ora si costruisce. In Italia è diverso. Un paese meraviglioso, che si fa del male da solo». All’Aquila, quando si costruirà? «All'Aquila è stata montata con superficialità un'operazione mediatica. La ricostruzione sarà lunga e difficile. Noi daremo un piccolo contributo donando un progetto: un auditorium da 250 posti, nel parco del castello; idea di Abbado, budget di sei milioni versati dalla provincia di Trento». La Milano 2 di Berlusconi l’ha vista? «Non ci sono mai stato. La prego, non mi faccia parlare di Berlusconi».

La Lega? «Mi fa paura. Molta. Perché mi fa paura l’intolleranza. E mi fa una gran rabbia veder sputare sull'Italia. Il sentimento patriottico non va lasciato alla destra». Il suo concittadino Beppe Grillo? «È un caro amico, ci litigo spesso ma sulla forma, perché le sue battaglie civiche sono quasi sempre giuste». La sinistra? «Mi fa soffrire. Ce l'ho nell’anima. Sono nato in una famiglia modesta perché mio padre non voleva lavorare per i fascisti. Però mi ha insegnato a non essere settario, a non dividere il mondo tra conservatori e progressisti: lui, nenniano, apprezzava La Malfa e Taviani. Anche oggi a sinistra ci sono ingegni, talenti. Eppure…». La soluzione può essere il «Papa straniero», un leader uscito dalla società civile? «Non credo che chiunque possa fare politica. La politica è un mestiere; un mestiere di straordinaria nobiltà. Questo rende ancora più stridente il disprezzo che la circonda. È l'arte della polis: un'arte sublime, che dovrebbe essere praticata dai migliori, ma non si può improvvisare. Occorrono militanza, preparazione, allenamento. Magari un Papa straniero esiste, ma dev'essere il migliore, e non nel suo mestiere; in quel mestiere lì, la politica. Io non lo saprei fare».

«Ogni tanto, la notte, mi diverto a tornare sul luogo del delitto. Vado su Google Heart, a vedermi le varie opere. L’Art Institut di Chicago, il simbolo dell'orgoglio civile della città di Obama. L'Academy of Sciences di San Francisco. L’aeroporto di Osaka…». Poi ci sono i lavori in corso. A Londra, in Oxford Street, «abbiamo fatto una piazza coloratissima». Ad Harlem, il nuovo campus della Columbia University sorgerà dove le Pantere Nere progettavano la rivolta e dove fu girato West Side Story: «Basta prati, laghetti e scoiattoli; sarà un'università metropolitana, aperta, con il centro per le ricerche sul cervello di fronte alla School of Art». A Malta, il nuovo Parlamento riempirà il vuoto aperto da una bomba della seconda guerra mondiale. Ad Atene, sorgerà al Pireo la nuova biblioteca, «concepita come un'agorà, una piazza». Come la nuova Martyrs' Square di Beirut, «che mi ricorda la Berlino degli Anni '90, la volontà di rinascita dopo la tragedia. A Berlino mi sento sempre a casa. Ce n'è voluto per convincere i tedeschi a intitolare una piazza a Marlene Dietrich, che è ancora vista come una traditrice. Peter Schneider dice che Berlino è ancora stretta tra la Scilli dell’autocommiserazione e la Cariddi dell’arroganza. Resiste questo senso di colpa, che però spiega anche la grande gentilezza con cui ti trattano i figli e i nipoti di chi visse le sofferenze della guerra nazista e della dittatura comunista».

Costruirebbe la moschea di Ground Zero? «No. L'11 settembre ero lì, con i miei figli Carlo, Lia e Giorgio, che aveva un anno. Mi auguro che pure chi ricostruirà Ground Zero fosse all'epoca un bimbo. È opportuno lasciar depositare la polvere di un evento così drammatico. Invece sono partiti sparati con un’operazione immobiliare, speculativa». C’è la firma di Piano anche nella nuova chiesa di Padre Pio, a San Giovanni Rotondo. «Un luogo di folla, di rumore. Sette milioni di persone l'anno. Però, se solo una su cento fosse toccata dalla grazia, sarebbero 70 mila. Tantissime». C’è un altro progetto, molto più piccolo, che gli sta a cuore. Un monastero a Ronchamp, dove Le Corbusier costruì la cappella di Notre Dame du Haut. «Dodici celle per le clarisse. Vetrate aperte sulla foresta. Sopra, il refettorio. Ambienti minuscoli, e vasti spazi aperti. Il vuoto è la traduzione architettonica del silenzio».


11 ottobre 2010(ultima modifica: 12 ottobre 2010)
http://www.corriere.it/cronache/10_ottobre_11/cazzullo-piano-renzo-intervista_bb06da00-d566-11df-a471-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #89 inserito:: Ottobre 17, 2010, 07:14:29 pm »

GLI EFFETTI DEL RICONTEGGIO DEI VOTI

Una commedia piemontese


C’è una vicenda politica che ricorda l’opera dei pupi siciliani, il teatro di Eduardo, la commedia a l l ’ i t a l i a n a d i Cinecittà; eppure si svolge in Piemonte, un tempo considerato la Prussia d’Italia, culla di virtù civili e dell’unità nazionale, di cui si appresta a celebrare i 150 anni.

Pare che il presidente del Piemonte non sia più il «vincitore» Cota, che governa—oltretutto piuttosto bene — da seimesi, ma la «sconfitta » Bresso. Sono state escluse, per non aver raccolto le firme, due liste di sostegno al leghista: quella dei Consumatori e quella di Deodato Scanderebech, noto per la meticolosità delle campagne in cui oltre a delicatezze gastronomiche distribuiva all’elettorato il kit con spazzolino e dentifricio. La magistratura ha imposto di ricontare le schede: quelle con due croci, una sulla lista incriminata e una per Cota, sono valide; quelle con una croce sola sulla lista, no. A lungo si è discusso come e dove effettuare il riconteggio, e soprattutto chi dovesse pagarne il conto. Alla fine si è deciso di dividere le spese tra la Regione e i ministeri della Giustizia e dell’Interno (il Comune di Torino paga il trasporto delle schede al carcere delle Vallette, dove avviene il rito).

Ancora non si sa chi abbia vinto davvero. Pare che sia in testa la Bresso. Una cosa è certa: il caso non finirà mai. Nessuno dei due contendenti si comporterà come Al Gore, che ha accettato un verdetto forse ingiusto e ha taciuto. Come un’autentica vicenda italiana, anche questa si trascinerà tra ricorsi—Cota ne ha già presentato uno al Consiglio di Stato — e accuse reciproche di intrighi e di golpe. Una matassa quasi inestricabile nel Paese delle cinque leggi elettorali: una per le Comunali, un’altra per le Provinciali, un’altra ancora per le Regionali, una quarta per le Politiche e una quinta per le Europee.

Nessuna soluzione a tavolino sarebbe riconosciuta dalla controparte, e dai suoi elettori; e quindi andrebbe assolutamente evitata. Se poi la Bresso accettasse di essere intronizzata in questo modo, per il centrosinistra sarebbe un disastro: dopo il ribaltone in Sicilia, e con la prospettiva di un governo tecnico a Roma, Berlusconi e la Lega scatenerebbero con tutta la loro potenza di fuoco una campagna contro la sinistra che perde le elezioni, ma ne capovolge il risultato grazie ai cavilli e alla complicità della magistratura «comunista ». Senza considerare, per assurdo, una querelle che si aprirebbe sugli atti di una giunta nominata da un presidente dichiarato illegittimo: da convalidare o da annullare?

La Bresso invoca il rispetto delle regole; Cota, quello della volontà popolare. L’unica soluzione possibile, qualora si stabilisca che l’elezione del «governatore» piemontese non sia stata formalmente ineccepibile, è tornare a votare. Consapevoli di vivere, 150 anni dopo, in un’Italia dove — purtroppo o per fortuna — non esistono Prussie, ma la linea della palma è salita fin sulle Alpi.

Aldo Cazzullo

17 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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