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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 146360 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Agosto 04, 2011, 09:56:43 am »

4/8/2011 - OBAMA - L''IMMAGINE

Sul volto i segni della fatica del Potere

LUCIA ANNUNZIATA

Ha ancora una buona camminata, molto elastica, ma i capelli bianchi e le rughe ne hanno già in parte modificato la fisionomia. Anche le sue abitudini sono cambiate – non affronta più di corsa le scale e gioca più a golf che a pallacanestro. Barack Obama è diventato anche lui grande – fa 50 anni, e si vedono. Quel che colpisce però non è l’età raggiunta ma la velocità con cui l’ha raggiunta. Fino a pochi mesi fa aveva ancora l’aspetto del ragazzo, improvvisamente è diventato un uomo.

Forse capita a tutti di cedere di colpo, di varcare la soglia non con un dolce declino, ma come un incidente. Nel caso di Obama, però, il passaggio ha qualcosa di intenso, qualcosa di sentimentale – è come veder scritto sul corpo del più giovane presidente degli Stati Uniti i segni della fatica del Potere più che quelli del Tempo. E anche questa appare come una ulteriore prova della intensità con cui affronta il suo lavoro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9058
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« Risposta #166 inserito:: Agosto 07, 2011, 12:29:47 pm »

7/8/2011

I profughi siriani che spezzano il sogno turco

LUCIA ANNUNZIATA

Negli scorsi due mesi la Turchia ha preparato ai confini con la Siria un campo di accoglienza in grado di ospitare fino a 200 mila profughi. Lavoro fatto in silenzio e senza allarmi, ma confermato da ambienti diplomatici stranieri nel Paese. Il livello e la velocità di questa preparazione è la migliore indicazione delle nere previsioni e della preoccupazione con cui anche la Turchia, Paese finora molto vicino alla Siria, segue l’avvitarsi verso l’inferno della Casa degli Assad di Damasco. La deriva siriana lambisce dunque anche il Paese più dinamico, e più differente (in quanto non arabo) del Medioriente. Il pericolo per la Turchia non è certo la destabilizzazione interna - troppo grande il suo Pil, troppo solido il suo consenso interno. Ma la fine precoce di un rinnovato sogno delle sue élite: la voglia di contare di nuovo, la non confessata ma coltivata determinazione di far rivivere un neo-Ottomanismo del terzo millennio. Era proprio all’insegna di queste aspirazioni «Ottomane» che i rapporti fra Turchia e Siria si erano fatti strettissimi, e sono rimasti tali anche dopo settimane dall’inizio della protesta contro gli Assad. La repressione della protesta in Siria ha però infine scavato un profondo solco tra le due nazioni confinanti. Nel corso di giugno, secondo la Commissione Onu per i rifugiati dal 7 a fine giugno tra i 500 e i 1500 cittadini siriani hanno attraversato in fuga gli 840 chilometri di confine tra il loro Paese e la Turchia.

Il 27 di giugno, il governo Turco ha affrontato energicamente il problema inviando le proprie truppe a limitare la zona per evitare che i profughi si diffondessero in Turchia. Contemporaneamente, secondo fonti diplomatiche straniere, i siriani hanno a loro volta dispiegato le loro truppe lungo la strada che va dalla Turchia a quel rilevante snodo commerciale che è la siriana città di Aleppo. La strada di cui si parla è la principale arteria dell’area e convoglia verso le capitali mediorientali, fino all’Iraq, il traffico di merci provenienti dall’Europa. La strada è stata messa sotto controllo dai soldati di Assad con posti di blocco fino alla zona di Deir al-Jamal, cioè a 25 chilometri dalla frontiera turca. La mossa, mirata, secondo le parole del diplomatico, «a prevenire la rivolta di Aleppo tagliando ogni legame logistico con la Turchia», la dice lunga sul livello di integrazione, e dunque possibile danno, fra i due Paesi: nella Siria del Nord è molto diffuso il servizio turco di telefonia (che viene usato dai dissidenti per diffondere informazioni sulla rivolta), e l’interscambio di merci è spinto anche da un fiorente traffico di contrabbando. Da fine giugno la situazione è drasticamente peggiorata. Dal primo Agosto la famiglia Assad ha scelto la strada della strage. E se l’Occidente sembra attaccare (un po’), la Turchia si è limitata a un modesto avvertimento. Reticenza che è segno – come sostiene il maggior esperto di sicurezza in Turchia, Gareth Jenkins, senior fellow dell’Istituto Central Asia/Caucasus - di imbarazzo, e di indecisione. Il peggiorare della crisi siriana ha del resto colto Ankara nel pieno di una sua propria crisi istituzionale non insignificante. Due settimane fa l’annoso braccio di ferro fra il governo di Erdogan e Gul e i militari, parte a sua volta di una decennale tensione fra civili e militari dentro il Paese fin dalla sua rifondazione per mano di Atatürk (un militare), è finita con le dimissioni di massa dei vertici militari. Erdogan e il Presidente Gul hanno risposto nominando due giorni fa nuovi vertici dell’esercito. La conclusione ha avuto diverse letture (rafforzamento «autoritario» del governo, o apertura democratica?) - ma di sicuro sposta il pendolo a favore dei civili. Significativo però è che il discorso di Erdogan di presentazione della nuova giunta militare abbia sottolineato i pericoli terroristi che di nuovo minacciano la Turchia. Per terrorismo qui si intende soprattutto i curdi, il cui più influente leader rimane Abdullah Ocalan (ricordate chi è e quanto costò all’Italia?) dal 1999 in isolamento sull’isola di Imrali, unico prigioniero guardato da più di mille soldati. Di recente in uno scontro a fuoco sono morti 13 soldati turchi e sette curdi. Come è noto I curdi sono divisi in quattro Stati - Turchia, Iran, Iraq, Siria. Per Ankara, dunque, ogni movimento in questi Paesi pone un grave minaccia. I militari turchi hanno sviluppato così una lunga esperienza nel chiudere con efficacia i propri confini: nella memoria di tutti c’è ancora la brutalità con cui dopo la prima guerra del Golfo, nel 1991, fermarono sparando a vista mezzo milione di iracheni (non solo curdi) che fuggivano la pulizia etnica di Saddam Hussein.

Negli Anni Novanta questi stessi militari intervennero in Siria per prendere curdi cui Damasco offriva santuario. Per la Turchia oggi, tesa a uno sviluppo democratico, economicamente forte, vogliosa di pesare, queste tattiche di «polizia» militare sarebbero un’imbarazzante regressione. Tacere sulla Siria, però, sarebbe regressione ancora maggiore. Le opzioni dunque non sono molte. Fra esperti e diplomatici si parla molto della possibilità che la Turchia decida di creare una «buffer zone» una zona cuscinetto, per contenere (più che per accogliere) i rifugiati. Tale scelta però, secondo Gareth Jenkins, potrebbe creare in molti Paesi del mondo arabo una reazione, dando un segno negativo a quella ambizione «neo-Ottomana» che finora era servita come motore per riscrivere i rapporti fra la Turchia e i suoi vicini.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9069
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« Risposta #167 inserito:: Agosto 19, 2011, 11:47:19 am »

19/8/2011

Il vuoto lasciato dall'Occidente

LUCIA ANNUNZIATA

Neanche questa volta accadrà nulla. Le indignate richieste di dimissioni rivolte ieri al siriano Bashar al Assad da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea e da un comunicato congiunto di Cameron, Merkel e Sarkozy (e gli italiani?) non convinceranno certo il dentista di Damasco e suo fratello a lasciare. Ma almeno segnalano che i leaders occidentali, fra una pausa e l’altra delle gravissime scosse all’economia, sono consapevoli che qualcosa va fatto sulla Siria – non fosse altro perché, come dimostra la nuova fiammata terroristica esplosa su suolo israeliano proprio ieri, in Medioriente bolle una grave e nuova crisi.

La natura di questa crisi non è difficile da capire, ed è in parte l’altra faccia della luna di quella che ha afferrato tutti i nostri Paesi. Ovunque si guardi nel nostro mondo ci sono segni di strappi, quelli economici che le Borse ci sbattono in faccia tutti i giorni, il default che fa capolino alla fine di un lungo tunnel di rallentamento della crescita in Europa come in Usa; e quelli sociali, dalle rivolte inglesi al diffondersi della protesta del Tea Party in America, allo scontento italiano sotto il peso di una manovra che lacera lo stesso governo di Silvio Berlusconi. Da almeno un paio di mesi l’esercizio politico di leadership che nel bene e nel male l’Occidente ha saputo finora assicurare (sia pur in maniera sempre più flebile) appare completamente assorbito da un accelerarsi di eventi di cui non erano state previste né la natura né le dimensioni. Un Occidente ripiegato su sé stesso significa sostanzialmente il crearsi di un vuoto politico, in tutte le aree del mondo in cui è finora stato attivissimo: il Medioriente innanzitutto.

La crisi siriana che ha ormai cinque mesi e che è entrata nella sua fase acuta in questo ultimo mese di agosto coinciso con il Ramadan, ha potuto esplodere e alimentarsi proprio dentro e grazie a questa impossibilità delle grandi potenze a prendere una qualunque iniziativa. Con il rischio che da Damasco possa ripartire una nuova valanga di slittamento di un precarissimo equilibrio, quello delle rivoluzioni iniziate in primavera e non arrivate a oggi ancora a nessun approdo.

In Medioriente si vive in queste settimane una grande incertezza. Una sorta di fiato sospeso sulle molte strade che i vari Paesi possono prendere. In Egitto dietro il processo a Mubarak si confrontano forze molto diverse – musulmani, cattolici copti, liberal occidentalizzanti, spuntano nuovi partiti, si divide l’esercito - e non è chiaro come giocheranno fra loro. Nei Paesi del Golfo, l’Arabia Saudita sta guidando la difesa delle famiglie reali sunnite sotto attacco ovunque, in Bahrein, come in Kuwait. In Libano Hezbollah ha rialzato la testa, nel tentativo di intercettare e capitalizzare le varie rivolte nazionali, la maggior parte delle quali animate da popolazioni sciite. Ugualmente sta tentando di fare Hamas a Gaza. La Turchia che negli ultimi anni si è imposta come punto di riferimento regionale grazie alla sua stabilità politica e all’incredibile sviluppo economico che ha proiettato dentro tutti gli ex Paesi a dominio ottomano, è essa stessa oggi minacciata dal rapido evolversi delle varie situazioni ai suoi confini. E fuori da questo intreccio stanno a guardare due Paesi decisivi: l’Iran e Israele, che in modi diversi hanno scelto un basso profilo nei mesi scorsi in attesa di valutare gli sviluppi.

Gli Assad di Siria con il loro brutale comportamento hanno non solo violato ogni diritto umano della propria gente, ma hanno anche sferrato un pesante colpo a questa situazione sospesa. La Siria confina con la Turchia e con la Giordania, domina sul Libano, ha finora avuto ottimi rapporti con le monarchie del Golfo, e di fatto esercita per conto dell’Iran il ruolo di protettorato di ogni possibile estremismo e terrorismo nella Mezza Luna mediterranea. La sua destabilizzazione può essere di fatto, in queste condizioni, l’inizio di un nuovo conflitto mediorientale fra interessi e Paesi da sempre in frizione fra loro.

Due settimane fa è toccato così all’Arabia Saudita di uscire dal suo tradizionale silenzio diplomatico e capeggiare un fronte del Golfo contro gli Assad. La Turchia si sta muovendo sulla stessa linea. Gli ambasciatori del Golfo sono stati ritirati, minacciosi messaggi sono stati recapitati a Damasco da parte di Ankara. Le dichiarazioni occidentali di ieri si aggiungono a queste iniziative regionali.

Ma si è ancora molto lontani da una soluzione. E ben lo ha capito il terrorismo che ieri ha rimesso Israele nel mirino - il terrorismo bene sa infatti che il vuoto politico è il suo migliore alleato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9104
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« Risposta #168 inserito:: Agosto 21, 2011, 11:46:46 am »

Politica

21/08/2011 - CRISI. INTERVISTA

Alfano: "Riforma delle pensioni per ridurre i tagli agli enti locali"

«Faremo un ultimo tentativo per dire alla Lega che, vivendo di più, è ragionevole lavorare più a lungo. Ma ogni decisione sarà maturata insieme»

LUCIA ANNUNZIATA

Toccherà ad Angelino Alfano, alla sua prima uscita come Segretario del Pdl, avviare da domani il tentativo di mettere d’accordo un riottoso partito intorno a un piano di modifiche che renda «accettabile» la più grave manovra fatta in Italia, nella più grave crisi mondiale finora.

Battesimo di fuoco, direi. Si aspettava un inizio così difficile?
«Non mi aspettavo che questo fosse l’ambito, ma sapevo che il mio compito sarebbe stato quello di trovare un punto di convergenza».

Nostalgia da Guardasigilli?
«L’iter Giustizia era di rango altissimo, ma mi pare che il nuovo ruolo non abbia nulla da temere nella comparazione. Diciamo che la situazione è tale da confermarmi nella scelta di non fare le due cose insieme... Sa, la mia convinzione è che il corpo umano è fatto per occupare una sola sedia».

Certo l’economia non mi pare il suo forte...
«Mi permetta una battuta: non mi pare, a livello mondiale, una buona stagione per gli economisti puri... non ne hanno azzeccate molte... E poi, il mio primo incarico è stata la commissione bilancio per sette anni».

Visto che il partito che lei dovrà guidare è diviso in molte anime, vediamo subito su che mediazioni sta lavorando...
«A saldi invariati si può dire che sono possibili modifiche. Su tre proposte in particolare c’è una certa attesa. 1 i tagli agli enti locali, 2 il contributo di solidarietà connesso al quoziente familiare, 3 l’Iva».

Insomma, nella discussione peseranno molto gli amministratori e i cattolici, dentro e fuori, penso all’Udc, cui darete soddisfazione accettando il correttivo del quoziente familiare per bilanciare il contributo di solidarietà.
«La famiglia è un tema centrale, tutelando la famiglia possiamo rendere ancor più equa la manovra».

L’Iva invece ha coalizzato un fronte molto battagliero, penso a Crosetto. Proposte? «C’è un grande dibattito in verità: se l’Iva consenta davvero di ammorbidire i tagli senza far contrarre i consumi, su se, insomma, valga davvero la pena. Ma c’è anche una questione di identità della manovra che deve, ahinoi, essere un mix di tagli e tasse e la Iva è di sicuro una tassa. Su questo tema bisognerà essere concreti e poco ideologici».

E la difesa ad oltranza delle pensioni da parte della Lega come la affronterete?
«Questo è un evidente nodo politico, ma siccome non si può fare una crisi di governo, faremo un ultimo tentativo per dire alla Lega che è ragionevole che vivendo più a lungo si vada in pensione più tardi e ciò senza mai toccare i diritti acquisiti di chi la pensione ce l’ha già. Fermo restando che è chiaro che ogni decisione sarà maturata insieme. Gli amici della Lega spero colgano che la riduzione dei tagli agli enti locali può essere bilanciata da un intervento sulla riforma delle pensioni».

Luca di Montezemolo è sceso in campo con la proposta di una patrimoniale sui grandi capitali, a partire dal proprio. Perché non è una idea accettabile?
«A noi del Pdl le nuove tasse procurano l’orticaria e la patrimoniale è particolarmente odiosa perché incide su beni che già sono stati tassati anche più di una volta».

Non trova che Montezemolo ponendosi come supericco «buono» muove un attacco molto insidioso alla immagine stessa di Berlusconi?
«E perché? Il presidente Berlusconi difende un principio liberale e sacrosanto di tutela dei cittadini dalla vessazione fiscale. E una deroga al principio gliela sta imponendo solo la crisi mondiale».

C’è una certa convergenza anche sulle dismissioni di immobili dello Stato.
«Sì, ma nella consapevolezza che non si tratta di un intervento strutturale, ma di una una tantum».

La discussione sulla manovra ha sottolineato, come si vede, le molte anime del partito. A quali si sente più vicino il nuovo Segretario?
«Sono di estrazione cattolica, ma non ho mai creduto nella rinascita della Dc. Credo nei cattolici che non diventano clericali e nei laici che non si sentono obbligati a esternazioni contro i cattolici. Non possiamo permetterci come partito di essere una caserma, ma tra caos e caserma ci può essere una comunità».

Questo vuol dire che le differenze culturali possono continuare a vivere come una sorta di ufficializzazione delle correnti, quella di Martino, o Scajola, per fare esempi. «I nomi che lei fa sono già indicativi: se a quei due nomi aggiunge il mio, lei descrive tre generazioni di Forza Italia – la Tessera numero due (Martino), l’uomo che affiancò Berlusconi nella Traversata nel deserto (Scajola) e io...».

Risposta molto elegante per dire che sono vecchi?
«Assolutamente no. È per dire che è stata abilità di Berlusconi governare tutto questo e oggi sarà, in parte, anche mio compito».

Vedo che lei evoca di continuo Berlusconi in questa nostra chiacchierata come entità di fatto ormai metapolitica. Cosa rappresenta per lei, un padre?
«Ho con lui un rapporto di vero e profondo affetto e stima. Qualcosa di vero che è parte del mio essere. Ognuno di noi nella vita deve qualcosa a qualcuno e nessuno si può sottrarre a questa regola. Nel mio caso, il qualcuno è Berlusconi cui devo ben più di qualcosa».

Qualche errore di fondo di Berlusconi però dovrà ammetterlo, se non altro, mi pare ovvio il fallimento del Partito Carismatico, grande sogno dell’attuale Premier. «Ammetto che il passaggio da un partito carismatico in mano a coordinatori che erano frutto del 70+30 (le quote di accordo fra componenti, nda) a un segretario è stato possibile perché il Titolare del Carisma ha favorito questo processo. Il Carisma rimane in mano a lui».

Di fronte a lei ci saranno due ex alleati, Casini e Fini: che intenzioni ha nei loro confronti?
«Intanto, io distinguo nettamente i due. Casini è arrivato da solo in Parlamento, trovandosi i suoi voti e ha sempre avuto una strategia. Non ha mai risparmiato critiche anche urticanti al capo del Governo, ma non le ha mai caricate di acrimonia. Quando penso invece a Fini mi viene sempre in mente una vignetta di Giannelli in cui Fini diceva “quando Berlusconi tace non so come contraddirlo”. Questo penso di lui: che è un leader che si è caratterizzato soprattutto per la sua azione contro Berlusconi. Però... cosa vuole che le dica... nella vita mai dire mai. Il Terzo Polo ha una sua articolazione e vedremo, ma noi non possiamo non tenere conto del rapporto, dei sentimenti anche, che ciascuno ha nei confronti del Premier».

Finora abbiamo parlato tenendo conto che la manovra sia sufficiente e che il governo continui. Ma nel caso in cui i mercati continuino a non gradire, sull’orlo del precipizio, insomma, potrebbe ancora essere necessario un governo tecnico?
«I Governi tecnici sono una ipocrisia. Si sa come funzionano: viene chiamata una grande personalità, come si dice, che impone un salasso di nuove tasse; tanto poi non si ripresenta al giudizio del voto. Noi invece dobbiamo sempre accettare le regole degli elettori».

Ma c’è almeno un piano b (come lettera dell’alfabeto non come Berlusconi), in caso di disastro? Si parla ad esempio di una sostituzione di Tremonti con una personalità che rassicuri di più i mercati?
«Non esiste questo scenario. A Tremonti va dato atto di aver lavorato bene muovendosi fra paletti molto stretti. E in ogni caso non si cambia un giocatore, peraltro eccellente, all’ottantesimo della partita...».

Berlusconi soffre molto nel vedere Sarkozy e Merkel prendersi la guida di fatto dell’Europa impartendo consigli e istruzioni a destra e a manca?
«Non ne abbiamo parlato, ma non credo proprio. E non credo che una Europa a 27 possa essere guidata da 2».

Ora che non è più Ministro della Giustizia, può dirci se pensa che i giudici abbiano manovrato politicamente le ultime inchieste contro il Governo?
«Sarebbe un buon metodo vedere fra qualche anno quali di questi processi sono andati avanti, e quali condanne per quali accuse sono state comminate. Vedrà che negli anni ci sarà uno spegnimento progressivo di quelli che ora appaiono grandi casi, come la P3 e la P4».

L’inchiesta sul Pd a Sesto S. Giovanni non dimostra però che i giudici agiscono a 360 gradi?
«La inchiesta sul Pd sconfigge la pretesa del Pd di essere geneticamente diversi, cui non avevamo mai creduto».

Un rimpianto per qualcosa non fatto da Guardasigilli?
«Che in parlamento non si sia trovato un equilibrio fra diritto alla privacy, diritto di cronaca, efficacia delle indagini in merito alle intercettazioni».

E qualcosa di più personale?
«C’è qualche amarezza personale, sicuro, ma un uomo pubblico non le deve confessare in un’intervista. Su questo invoco il latino “Ubi commoda Ibi incommoda”».

Che potremmo tradurre con un po’ di licenza: «Chi gode di un vantaggio deve saperne accettare anche gli svantaggi» - che è poi anche una efficacissima sintesi per descrivere la mirabolante carriera di questo giovane politico. Almeno, fin qui.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/416373/
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« Risposta #169 inserito:: Agosto 27, 2011, 04:06:57 pm »

25/8/2011

Ma la crisi indebolisce i vincitori

LUCIA ANNUNZIATA

La vittoria della Nato e dei ribelli in Libia è molto più fragile di quel che le celebrazioni facciano immaginare in queste ore. La battaglia per la Libia comincia in effetti ora - come ben sanno tutti coloro che vi hanno messo anche solo un dito e sono tanti, emigrati, governi, Nato, petrolieri, servizi, e faccenderi.

La prima ragione di fragilità è nel modo stesso in cui la guerra è stata combattuta: che sia stata tutta «esterna», cioè fatta dalle forze Nato, ha reso impossibile far maturare una guida politica dell’opposizione.

I leader attuali sono, infatti, come si vede dalle loro biografie, un’accozzaglia di vecchie volpi e nuove aspiranti volpi, segnati tutti da opportunismi di vecchia conoscenza, e manovrati dalle varie nazioni occidentali, ognuna delle quali si è scelta il suo «protagonista» di riferimento. Per molti versi si riproduce lo stesso schema della conquista di Baghdad: una relativamente facile vittoria militare «esterna» e un vuoto di classe politica dentro il Paese che ancora, ad anni di distanza, non si è riempito. Il parallelo fra Tripoli e Baghdad non è, ovviamente, perfetto - la caduta di Gheddafi, a paragone di quella irachena, è stata certamente meno drammatica dell’invasione diretta di truppe straniere vista in Iraq, ha ramificazioni politiche minori perché minore è l’influenza della Libia nel suo contesto, di quella che aveva Baghdad fra Arabia Saudita e Iran, ma non è un caso che in queste ore negli ambienti politici internazionali si senta ripetere la frase «evitare gli errori del dopo-Saddam». Dobbiamo aspettarci anche a Tripoli, dunque, una transizione lunga e senza esclusione di colpi di testa, e colpi di Stato.

La seconda ragione per cui non si può immaginare un immediato, brillante futuro per la nazione oggi in festa è il contesto in cui questo cambio di regime è avvenuto. C’è infatti una profonda debolezza di sistema intorno alla Libia. Sull’incertezza nordafricana sappiamo tutto, ed è ovvio che dove e come andranno a finire le rivoluzioni arabe, a partire dai confinanti Egitto e Tunisia, avrà effetti profondi anche sul destino libico.

Meno invece si discute della debolezza anche del sistema occidentale, che ha promosso la guerra contro Gheddafi. La caduta del dittatore tripolino è un’indubbia vittoria nell’immediato della Nato, del presidente Obama e di quei leader europei, come i francesi,che più l’hanno cavalcata. Ma va notato anche che nei brevi sei mesi della durata del conflitto questi Paesi non sono più gli stessi. L’elemento forte di novità che agirà nel dopo Gheddafi è che la Nato che ha raggiunto la vittoria non è la stessa entità che ha avviato la guerra. La crisi economica che scuote le nostre nazioni non è un fenomeno occasionale e l’esposizione della debolezza del nostro sistema economico sta indebolendo anche la forza politica, la capacità di gestione dei progetti internazionali avviati. Pomposamente questa tendenza si chiama «declino» della potenza occidentale, ma nel risvolto pratico ha aspetti piuttosto semplici da osservare. Tanto per fare un esempio, basti pensare che in Libia già prima della guerra operava una nutritissima presenza cinese (circa 23 mila se ne sono contati all’evacuazione), turca (altri ventimila) e di varie altre nazioni non occidentali. La Libia è da tempo, infatti, e non solo per noi europei, la porta sull’Africa; quell’Africa che negli ultimi anni è già diventata il playground dell’espansione delle potenze emergenti. L’interesse di questi Paesi non diminuisce né viene escluso dalla vittoria Nato – ne è semmai acuito. Il punto è se un’Europa con una crescita in affanno, con spese militari destinate a (quasi) azzerarsi, e Stati Uniti in condizioni di incertezza politica interna come mai prima, saranno in grado di portare a termine in Libia quello che avevano cominciato solo sei mesi fa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9125
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« Risposta #170 inserito:: Agosto 28, 2011, 10:10:13 am »

Politica

21/08/2011 - CRISI. INTERVISTA

Alfano: "Riforma delle pensioni per ridurre i tagli agli enti locali"

«Faremo un ultimo tentativo per dire alla Lega che, vivendo di più, è ragionevole lavorare più a lungo.

Ma ogni decisione sarà maturata insieme»

LUCIA ANNUNZIATA

Toccherà ad Angelino Alfano, alla sua prima uscita come Segretario del Pdl, avviare da domani il tentativo di mettere d’accordo un riottoso partito intorno a un piano di modifiche che renda «accettabile» la più grave manovra fatta in Italia, nella più grave crisi mondiale finora.

Battesimo di fuoco, direi. Si aspettava un inizio così difficile?
«Non mi aspettavo che questo fosse l’ambito, ma sapevo che il mio compito sarebbe stato quello di trovare un punto di convergenza».

Nostalgia da Guardasigilli?
«L’iter Giustizia era di rango altissimo, ma mi pare che il nuovo ruolo non abbia nulla da temere nella comparazione. Diciamo che la situazione è tale da confermarmi nella scelta di non fare le due cose insieme... Sa, la mia convinzione è che il corpo umano è fatto per occupare una sola sedia».

Certo l’economia non mi pare il suo forte...
«Mi permetta una battuta: non mi pare, a livello mondiale, una buona stagione per gli economisti puri... non ne hanno azzeccate molte... E poi, il mio primo incarico è stata la commissione bilancio per sette anni».

Visto che il partito che lei dovrà guidare è diviso in molte anime, vediamo subito su che mediazioni sta lavorando...
«A saldi invariati si può dire che sono possibili modifiche. Su tre proposte in particolare c’è una certa attesa. 1 i tagli agli enti locali, 2 il contributo di solidarietà connesso al quoziente familiare, 3 l’Iva».

Insomma, nella discussione peseranno molto gli amministratori e i cattolici, dentro e fuori, penso all’Udc, cui darete soddisfazione accettando il correttivo del quoziente familiare per bilanciare il contributo di solidarietà.
«La famiglia è un tema centrale, tutelando la famiglia possiamo rendere ancor più equa la manovra».

L’Iva invece ha coalizzato un fronte molto battagliero, penso a Crosetto. Proposte? «C’è un grande dibattito in verità: se l’Iva consenta davvero di ammorbidire i tagli senza far contrarre i consumi, su se, insomma, valga davvero la pena. Ma c’è anche una questione di identità della manovra che deve, ahinoi, essere un mix di tagli e tasse e la Iva è di sicuro una tassa. Su questo tema bisognerà essere concreti e poco ideologici».

E la difesa ad oltranza delle pensioni da parte della Lega come la affronterete?
«Questo è un evidente nodo politico, ma siccome non si può fare una crisi di governo, faremo un ultimo tentativo per dire alla Lega che è ragionevole che vivendo più a lungo si vada in pensione più tardi e ciò senza mai toccare i diritti acquisiti di chi la pensione ce l’ha già. Fermo restando che è chiaro che ogni decisione sarà maturata insieme. Gli amici della Lega spero colgano che la riduzione dei tagli agli enti locali può essere bilanciata da un intervento sulla riforma delle pensioni».

Luca di Montezemolo è sceso in campo con la proposta di una patrimoniale sui grandi capitali, a partire dal proprio. Perché non è una idea accettabile?
«A noi del Pdl le nuove tasse procurano l’orticaria e la patrimoniale è particolarmente odiosa perché incide su beni che già sono stati tassati anche più di una volta».

Non trova che Montezemolo ponendosi come supericco «buono» muove un attacco molto insidioso alla immagine stessa di Berlusconi?
«E perché? Il presidente Berlusconi difende un principio liberale e sacrosanto di tutela dei cittadini dalla vessazione fiscale. E una deroga al principio gliela sta imponendo solo la crisi mondiale».

C’è una certa convergenza anche sulle dismissioni di immobili dello Stato.
«Sì, ma nella consapevolezza che non si tratta di un intervento strutturale, ma di una una tantum».

La discussione sulla manovra ha sottolineato, come si vede, le molte anime del partito. A quali si sente più vicino il nuovo Segretario?
«Sono di estrazione cattolica, ma non ho mai creduto nella rinascita della Dc. Credo nei cattolici che non diventano clericali e nei laici che non si sentono obbligati a esternazioni contro i cattolici. Non possiamo permetterci come partito di essere una caserma, ma tra caos e caserma ci può essere una comunità».

Questo vuol dire che le differenze culturali possono continuare a vivere come una sorta di ufficializzazione delle correnti, quella di Martino, o Scajola, per fare esempi. «I nomi che lei fa sono già indicativi: se a quei due nomi aggiunge il mio, lei descrive tre generazioni di Forza Italia – la Tessera numero due (Martino), l’uomo che affiancò Berlusconi nella Traversata nel deserto (Scajola) e io...».

Risposta molto elegante per dire che sono vecchi?
«Assolutamente no. È per dire che è stata abilità di Berlusconi governare tutto questo e oggi sarà, in parte, anche mio compito».

Vedo che lei evoca di continuo Berlusconi in questa nostra chiacchierata come entità di fatto ormai metapolitica. Cosa rappresenta per lei, un padre?
«Ho con lui un rapporto di vero e profondo affetto e stima. Qualcosa di vero che è parte del mio essere. Ognuno di noi nella vita deve qualcosa a qualcuno e nessuno si può sottrarre a questa regola. Nel mio caso, il qualcuno è Berlusconi cui devo ben più di qualcosa».

Qualche errore di fondo di Berlusconi però dovrà ammetterlo, se non altro, mi pare ovvio il fallimento del Partito Carismatico, grande sogno dell’attuale Premier. «Ammetto che il passaggio da un partito carismatico in mano a coordinatori che erano frutto del 70+30 (le quote di accordo fra componenti, nda) a un segretario è stato possibile perché il Titolare del Carisma ha favorito questo processo. Il Carisma rimane in mano a lui».

Di fronte a lei ci saranno due ex alleati, Casini e Fini: che intenzioni ha nei loro confronti?
«Intanto, io distinguo nettamente i due. Casini è arrivato da solo in Parlamento, trovandosi i suoi voti e ha sempre avuto una strategia. Non ha mai risparmiato critiche anche urticanti al capo del Governo, ma non le ha mai caricate di acrimonia. Quando penso invece a Fini mi viene sempre in mente una vignetta di Giannelli in cui Fini diceva “quando Berlusconi tace non so come contraddirlo”. Questo penso di lui: che è un leader che si è caratterizzato soprattutto per la sua azione contro Berlusconi. Però... cosa vuole che le dica... nella vita mai dire mai. Il Terzo Polo ha una sua articolazione e vedremo, ma noi non possiamo non tenere conto del rapporto, dei sentimenti anche, che ciascuno ha nei confronti del Premier».

Finora abbiamo parlato tenendo conto che la manovra sia sufficiente e che il governo continui. Ma nel caso in cui i mercati continuino a non gradire, sull’orlo del precipizio, insomma, potrebbe ancora essere necessario un governo tecnico?
«I Governi tecnici sono una ipocrisia. Si sa come funzionano: viene chiamata una grande personalità, come si dice, che impone un salasso di nuove tasse; tanto poi non si ripresenta al giudizio del voto. Noi invece dobbiamo sempre accettare le regole degli elettori».

Ma c’è almeno un piano b (come lettera dell’alfabeto non come Berlusconi), in caso di disastro? Si parla ad esempio di una sostituzione di Tremonti con una personalità che rassicuri di più i mercati?
«Non esiste questo scenario. A Tremonti va dato atto di aver lavorato bene muovendosi fra paletti molto stretti. E in ogni caso non si cambia un giocatore, peraltro eccellente, all’ottantesimo della partita...».

Berlusconi soffre molto nel vedere Sarkozy e Merkel prendersi la guida di fatto dell’Europa impartendo consigli e istruzioni a destra e a manca?
«Non ne abbiamo parlato, ma non credo proprio. E non credo che una Europa a 27 possa essere guidata da 2».

Ora che non è più Ministro della Giustizia, può dirci se pensa che i giudici abbiano manovrato politicamente le ultime inchieste contro il Governo?
«Sarebbe un buon metodo vedere fra qualche anno quali di questi processi sono andati avanti, e quali condanne per quali accuse sono state comminate. Vedrà che negli anni ci sarà uno spegnimento progressivo di quelli che ora appaiono grandi casi, come la P3 e la P4».

L’inchiesta sul Pd a Sesto S. Giovanni non dimostra però che i giudici agiscono a 360 gradi?
«La inchiesta sul Pd sconfigge la pretesa del Pd di essere geneticamente diversi, cui non avevamo mai creduto».

Un rimpianto per qualcosa non fatto da Guardasigilli?
«Che in parlamento non si sia trovato un equilibrio fra diritto alla privacy, diritto di cronaca, efficacia delle indagini in merito alle intercettazioni».

E qualcosa di più personale?
«C’è qualche amarezza personale, sicuro, ma un uomo pubblico non le deve confessare in un’intervista. Su questo invoco il latino “Ubi commoda Ibi incommoda”».

Che potremmo tradurre con un po’ di licenza: «Chi gode di un vantaggio deve saperne accettare anche gli svantaggi» - che è poi anche una efficacissima sintesi per descrivere la mirabolante carriera di questo giovane politico. Almeno, fin qui.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/416373/
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« Risposta #171 inserito:: Agosto 28, 2011, 05:02:45 pm »

28/8/2011

La vita come un colossal di Hollywood

LUCIA ANNUNZIATA

L’impressione è che siccome gli Americani devono essere primi in tutto, abbiano deciso di anticipare anche il calendario Maya, battendo di un anno la fine del mondo, altrimenti prevista dall’antico ciclo degli dei latinoamericani e dai moderni stregoni di Hollywood per il «2012» – titolo di un blockbuster cinematografico che già nel 2009, con prodezze computerizzate, dava conto della distruzione del pianeta.

La pellicola mostrava un devastante terremoto a Los Angeles, la cancellazione via mare di New York e l’esplosione della Casa Bianca, anticipatamente abitata rispetto alla data reale, da un Presidente nero. Difficile non fare riferimento al cinema, parlando della paura che attraversa la East Coast in queste ore. Arte quintessenzialmente americana, che tutto muove, tutto prepara, tutto commuove, tutto anticipa – e tutto rende finto. Ascoltando gli annunci e le conferenze stampa, le preparazioni e gli scenari, non si sa se correre a prendere un fucile (ci sarà un evento catastrofico dopo, o no? No, quello è un altro film, e riguarda un disastro nucleare) o mettere nel microonde i pop corn. Con questa tipica schizofrenia, fra realtà e fantasia, la stessa New York si è preparata infatti all’evento. Venerdì sera, ultima sera prima dell’evacuazione, la città era piena di chi si faceva un ultimo cinema, un’ultima birra e, viste le cancellazioni di chi lasciava la Grande Mela, trovava finalmente i biglietti per il musical «The Book of Mormon» che a Broadway è un enorme successo (e chissà? sarà perché ben due dei candidati alle prossime elezioni sono mormoni?). Il litorale è stato popolato da surfisti in cerca dell’onda da tempesta tropicale fino all’ultimo minuto, tanto che quel bullo del governatore del New Jersey, Chris Christie, nella sua conferenza stampa ha gridato ai suoi concittadini: «E’ inconcepibile questo atteggiamento! Alzate il c… e lasciate libera quella spiaggia!».

Difficile, in verità, mantenere un senso di realtà quando nulla avviene con banalità, e in Usa, si sa, ogni cosa prende dimensioni spropositate, inclusa la concatenazione degli eventi. Quante volte capita che un Paese sperimenti prima un terremoto, poi mentre ancora sta rimettendo in ordine il caos provocato dal terremoto nei trasporti e nei servizi, arrivi tra capo e collo un uragano tropicale per cui bisogna «evacuare» qualcosa come un milione di persone, e badare alle ricadute del maltempo su vari milioni di cittadini?

Lo scenario peggiore
Un infernale girone di sfortune, non c’è dubbio, coincidente quasi perfettamente con il decimo anniversario dell’attentato dell’11 settembre 2001, punteggiato da infernali dubbi sull’economia, collassi finanziari come quello del 2007, con la gente con scatoloni da evacuazione (causa licenziamento, in quel caso), e nuovi crolli di Borse, fino al grande timore del default dell’intero Stato americano. Nulla è mancato in queste ultime ore per definire il peggiore scenario: c’è stata persino l’evacuazione d’urgenza del Presidente, con tutti i rituali passaggi di corteo di limousine nere, elicotteri rombanti e corsa contro il tempo. Il Presidente – guarda la coincidenza – era in vacanza a Martha’s Vineyard, isola presa essa stessa di mira dal ciclone. Ma il senso di déjà-vu non deve farci sottovalutare la portata di quel che sta succedendo. C’è sempre molto di profondamente politico – nel senso di formazione del comportamento pubblico - in quel che succede negli Stati Uniti, e il caso dell’uragano Irene non fa differenza.

Il mito del Bene che vince il Male
Il fatto è che la Paura è un mito quintessenzialmente americano, funzione e propulsore di altri miti che costruiscono, con una serie di passaggi concatenati, la struttura stessa del discorso pubblico: la vittoria sulle forze del male, siano esse del regno politico, oppure naturali e, anche, soprannaturali. Il giovane Stato della prima rivoluzione della storia moderna nasce all’insegna della sua estrema fragilità. La sua affermazione avviene attraverso la dialettica continua fra una minaccia e il superamento di questa minaccia. Il pericolo sono gli indiani per i primi coloni, poi gli inglesi per i primi ambiziosi fondatori, poi ancora la natura per gli espansionisti della Grande Frontiera, e i nazisti e i comunisti per la Grande Potenza, e via via tutti i volti presi dall’impetuoso sviluppo di un Paese che ha guidato un secolo: le possibili deviazioni della scienza, la mancanza di scrupoli delle corporazioni, il risentimento degli esclusi, l’odio interrazziale, i complotti di potere. Hollywood, che di questa società costituisce l’Io letterario, non a caso si impossessa di queste paure, e narra la rigenerazione cui il loro superamento conduce. C’è molto di politico, dunque, in queste ore recenti di paura, nella enorme preparazione al disastro incombente di cui lo Stato si è fatto protagonista: in poche ore abbiamo visto un Presidente, Barack Obama, un sindaco, Michael Bloomberg, quattro Governatori di altrettanti Stati della Costa orientale, e un infinito numero di commissari cittadini (alla sicurezza, all’energia, all’assistenza eccetera) competere per ottenere spazio alle loro conferenze stampa in diretta televisiva. L’uragano Irene ha costituito l’occasione per l’apparato statale di mostrare la sua efficienza, i suoi muscoli, e per dimostrare ai cittadini la giustezza del voto che gli avevano offerto. Quel che è più rilevante (specialmente per un europeo) è che a questi annunci è seguita una massiccia mobilitazione di uomini e mezzi che nel giro di poche ore hanno aperto rifugi, messo in sicurezza le fogne, l’energia, e tolto il pedaggio (cosa non da poco) a tutti i trasporti pubblici per non far pagare l’evacuazione alla popolazione.

L’incubo di Katrina
Preparativi che si riveleranno quasi di sicuro eccessivi. Ma in qualche modo anche questo eccesso ha una natura politica. Nella memoria della classe dirigente americana è infatti rimasto scolpito un nome: uragano Katrina. In quel caso, nel 2005, si fece poco o nulla, e quel poco, anche dopo che i venti e le acque avevano spazzato via mezza New Orleans, venne fatto in ritardo. Il Presidente George W. Bush pagò quella sottovalutazione più della guerra in Iraq. Una lezione che nessun politico, a partire dal Presidente, ha dimenticato. Anche perché combattere un uragano è infinitamente più semplice che invertire il corso di una grave crisi economica.


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9137
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« Risposta #172 inserito:: Settembre 07, 2011, 05:32:14 pm »

7/9/2011 - ROTTURA CON ISRAELE

I sogni neo-ottomani della Turchia

LUCIA ANNUNZIATA

La Turchia sogna una era «neo-Ottomana», il rilancio della sua influenza sugli ampi ex confini dell’Impero della Porta.

La partita dalle rivoluzioni popolari ha riaperto il Grande Gioco mediorientale, ed Ankara ha deciso di parteciparvi sacrificando i suoi tradizionali buoni rapporti con Israele per conquistare popolarità nelle piazze arabe. Da ieri dunque abbiamo una Ankara meno «pro-occidentale» e più musulmana. Ma attenti al gioco di specchi: non è detto infatti che un ruolo forte della Turchia nella regione non sia utile, e dunque voluto e incoraggiato, anche dai Paesi occidentali.

La mossa di Erdogan non ha sorpreso nessuno. Era in preparazione da almeno un anno, e infatti, al di sotto dell’impetuoso scambio di epiteti, è stata accuratamente preparata. La dichiarazione di rottura è curiosamente precisa: «Sono sospese tutte le relazioni commerciali e militari relative all’industria della difesa. Seguiranno altre misure». La precisione (che è peraltro un tratto nazionale turco) serve a far ben capire al mondo arabo che viene tagliato il più importante cordone ombelicale fra Gerusalemme ed Ankara: la massiccia cooperazione nell’industria della difesa. Pochi vi hanno fatto attenzione ma, nei passati venti anni, Israele e la Turchia hanno costruito insieme tonnellate di equipaggiamento militare. Per l’esercito turco Israele ha adattato e migliorato i jet e i carri armati di origine americana, ed ha costruito (e appena consegnato) 10 droni, aerei senza pilota, importantissimi come aerei sorveglianza nella guerra ai curdi. La Turchia a sua volta ha assemblato nelle sue industrie buona parte dei veicoli di terra blindati, essenziali per Israele nelle molte invasioni e operazioni di sfondamento in Libano e negli ex Territori.

Un intreccio delicatissimo e senza precedenti fra un Paese musulmano e la nazione ebraica. Un legame legittimato però dal ruolo di appoggio operativo, sia politico che militare, che la Turchia ha espletato in questi ultimi 30 anni per l’Occidente nel mondo arabo. In tutte le ultime guerre mediorientali in un modo o nell’altro – ad esempio, facendo passare l’equipaggiamento delle truppe di terra dirette verso l’Iraq – ha costituito una fondamentale «spalla» per gli Stati Uniti. Ed è su questa funzione di ponte, di «mediazione» fra Oriente e Occidente, che la Turchia, Paese musulmano ma non arabo, ha costruito la sua diversità nonché la sua ambizione ad entrare in Europa. Dieci anni di quasi ininterrotto sviluppo economico, e quasi altrettanti di una nuova leadership politica che ha lentamente messo all’angolo il potere dei militari, hanno legittimato queste ambizioni e ne hanno fatto uno dei successi della storia mediterranea.

Poi sono arrivate le rivolte popolari arabe e il gioco di tutti è cambiato di nuovo: l’effetto domino della caduta di vari governi, la resistenza di molti altri, la incertezza di sbocco dei vari esperimenti rivoluzionari, hanno creato in Medioriente un vuoto politico spaventoso, accentuato dalla distrazione politica dell’Occidente dovuta alla crisi economica. E il vuoto è la condizione perfetta per creare altri poteri o altre guerre. L’Iran sta facendo la sua partita, come sappiamo, attraverso molte piazze arabe. L’Arabia Saudita tradizionale nemico dell’Iran, ha deciso di rispondere attivando una alleanza delle case reali sunnite, come fronte antisciita. La crisi siriana ha poi accelerato questi protagonismi, e lo scontro per la supremazia. Per la Turchia rimanere fuori da questa sfida ora significava sperperare il vantaggio di influenza maturato in questi anni, e recedere nella sua particolarità. Si è fatta così avanti, già dall’anno scorso, mettendo in discussione, con l’aiuto alla flotta pacifista, i suoi legami con Israele. Ieri poi con la rottura ufficiale con il governo di Tel Aviv, che gli ha immediatamente procurato un grande favore popolare, ha consacrato ufficialmente la sua voglia di competere per la leadership del mondo arabo.

Dobbiamo ora temere una deriva musulmana radicale anche dei turchi? Molti diranno di sì – ma chi lo dice non conosce bene la sottigliezza della identità della Turchia, la furbizia dei suoi governanti, e l’infinito realismo ereditato da secoli di vecchio Impero. E’ molto molto probabile, dunque, che la corsa per «crescere» in Medioriente Ankara poi continuerà a giocarsela, di ritorno, come partita di scambio sui soliti tavoli dell’Occidente.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9168
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« Risposta #173 inserito:: Settembre 14, 2011, 08:55:24 am »

14/9/2011

Non temete la Turchia

LUCIA ANNUNZIATA

Tayyip è stato, nell’ultimo anno, il nome più popolare per i nuovi nati nella Striscia di Gaza.

Tayyp come Erdogan, primo ministro turco che si è meritato questo onore aiutando la flotta dei pacifisti a Gaza, e che ieri ha iniziato il suo tour nelle capitali della primavera araba scandendo al Cairo davanti alla Lega Araba: «Il riconoscimento di uno Stato palestinese non è una scelta, ma un obbligo». La frase, pronunciata due giorni dopo l’assalto all’ambasciata israeliana, dalla voce del premier di una nazione che per decenni è stata il miglior alleato musulmano di Israele, ha infiammato l’opinione pubblica ed ha fatto immediatamente dire che il Medioriente da oggi non sarà più lo stesso. Di sicuro l’affermazione è un’ulteriore minaccia a Israele, nonché una ulteriore complicazione per gli Stati Uniti.

Dobbiamo dunque aver paura della Turchia? Nasce un nuovo panislamismo radicale all’insegna stavolta della stella e della mezzaluna in campo rosso? Le rive del Bosforo hanno cullato la nascita di un nuovo Nasser?

A dispetto delle apparenze, la ragione e la realtà ci fanno propendere per il no.

Il viaggio di Tayyip Erdogan in «appoggio delle nuove democrazie» (si noti la scelta delle parole, così moderne comparate al vecchio vocabolario arabista) è ormai senza ombra di dubbio la mossa con cui il primo ministro lancia sulla scena internazionale l’ambizione della Turchia a guidare la regione. Sfidando ogni altro potere che già vi esercita la sua influenza - l’Arabia Saudita, l’Iran, e lo stesso Israele. Alle ancora entusiaste ma già dissanguate rivolte, l’uomo di Ankara porta una barca di aiuti economici e di contratti commerciali. Porta la forza politica e militare di una nazione di 79 milioni di abitanti con una crescita economica dell’8,9 per cento nel decennio, paragonabile solo a quella asiatica – nel 2010 con un picco del 12 per cento ha superato la Cina.

Non fa nessuna meraviglia che un tale Paese sia arrivato negli ultimi anni a sentirsi stretto nella sua vecchia pelle: «spalla» degli Stati Uniti, eterno aspirante all’Europa, alleato di Israele grazie a una enorme cooperazione delle industrie della difesa, ma anche sempre più attratto dalla sua identità musulmana e civile, dopo anni di dittature militari. Nell’ultimo anno, e dopo aver ricevuto un nuovo plebiscito elettorale nel 2010, Erdogan ha sciolto questa ambiguità, nella maniera con cui di solito si fa in Medioriente: rompendo ogni legame con Israele. Dopo l’aiuto alla flotta dei pacifisti per Gaza l’anno scorso, e il ritiro la scorsa settimana dell’ambasciatore turco da Tel Aviv, ieri, al Cairo, con le sue parole, ha deciso di appoggiare, senza se e senza ma, una spericolata mossa diplomatica che i palestinesi stanno preparando. Il 23 settembre, in occasione dell’assemblea generale, l’Olp chiederà il pieno riconoscimento come membro dell’Onu. Un passo che sarebbe di fatto un voto sulla creazione dello Stato palestinese. La mossa è destinata a creare un’enorme tensione. L’Olp infatti intende portare la richiesta non in Assemblea (dove avrebbe i due terzi) ma direttamente al Consiglio di sicurezza, dove avrà bisogno di nove voti su quindici per passare. E dove però un solo veto dei cinque membri permanenti del consiglio basta a bocciare la richiesta. I conti sono presto fatti. Dei cinque membri permanenti, Cina, Inghilterra, Russia, e Stati Uniti, è quasi certo che gli Stati Uniti porranno il veto. I palestinesi sanno di questo orientamento, e hanno intenzione di andare avanti proprio per forzare la mano in un senso o nell’altro al presidente Obama accusato oggi in Medioriente di coltivare un’ambigua politica.

Erdogan, dunque ieri, si è unito a questa politica di sfida, ponendosi lui come paladino dei palestinesi – fatto che ha sottolineato annunciando di star preparando un viaggio a Garza con il leader della Autorità palestinese Mahmoud Abbas, e la sua controparte di Hamas, Ismail Haniya.

La domanda iniziale - dobbiamo temere la Turchia? – sembra dunque molto giustificata.

Ma gli elementi di «irregolarità» che finora hanno fatto di questa nazione una eccezione nel mondo musulmano, formano un quadro molto più articolato di questa apparente radicalizzazione.

La doppia anima occidentale e orientale è difficilmente scindibile. Non sorprende dunque che lo stesso Erdogan che ha riportato la Turchia sulla strada dell’identità religiosa, ieri l’abbia così presentata al Cairo: «Lo Stato turco è uno Stato libero e secolare». Il successo economico del decennio del resto non sarebbe stato possibile senza questi valori, e senza una autentica partecipazione alla modernità occidentale. Dice qualcosa di questo Paese il fatto che Erdogan appena arrivato al Cairo abbia presentato la sua missione andando in televisione, ospite di un popolare talk politico di una attraente giornalista (non velata), Mona el-Shazly.

Va infine ricordato che i turchi sono musulmani ma non arabi. Cosa che fa una enorme differenza storica e culturale nei rapporti con l’Occidente.

Non è dunque un caso che l’aggancio all’Europa e l’alleanza con gli Stati Uniti non vengano messi in discussione, nemmeno mentre si rompe con Israele. Anzi la Turchia rimane fra i Paesi più «curati» dal Segretario di Stato Clinton perché considerato ancora oggi la vera testa di ponte, il più fidato retroterra di ogni operazione Usa in regione.

E forse la chiave per leggere le ambizioni di Erdogan è proprio questa: continuare a fare da ponte fra Oriente e Occidente, regnare sul Bosforo e la sua storia, ma senza padrinati.

Questo atletico primo ministro, amante di Ray-Ban a specchio, ex sindaco di Istanbul, ha dimostrato fin qui di saper creare cocktail politici di inusuale composizione – mischiando modernità e islamismo, laicismo e autoritarismo, forza e consenso. Non stupirebbe se riuscisse in futuro a combinare un ulteriore mix esercitando appieno la sua influenza sul mondo arabo, ma rispendendola poi anche nei suoi rapporti con l’Occidente.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9196
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« Risposta #174 inserito:: Settembre 26, 2011, 05:11:55 pm »

26/9/2011

Strategie di sopravvivenza

LUCIA ANNUNZIATA

Le donne saudite potranno votare. Quasi come dire che gli asini potranno volare, o i cani parlare. Uno strano ma vero, che, ancora una volta, e nella più estrema delle circostanze (l’Arabia Saudita), prova che nelle società attuali la questione femminile è la cruna d’ago della politica.

Di politica, anzi di Superpolitica, si tratta infatti: il diritto delle donne saudite che finalmente viene riconosciuto è il pezzo centrale di una tela che re Abdullah sta tessendo per prevenire la protesta della primavera araba nel suo Paese, e per consolidare il fronte delle monarchie sunnite contro l’Iran. Un peso geopolitico non da poco per quel che appare come un semplice diritto civile, ma così è: concedendo ieri alle donne di votare re Abdullah ha fatto tutte queste mosse insieme.

Sapevate, intanto, che l’unica protesta della primavera araba che ha lambito il Regno è stata fatta da donne? Nella nazione dove queste donne hanno bisogno di un permesso scritto da un guardiano uomo (padre, marito, fratello o anche figlio) per lavorare, partire, o sottoporsi a interventi medici, il braccio di ferro della libertà si è concentrato sull’obiettivo di poter guidare la macchina. Una vecchia battaglia delle saudite, questa del volante libero, che però negli anni ha sempre visto le protagoniste arrestate. Come è successo ancora lo scorso mese, con l’arresto di una 32enne che aveva guidato e messo su Internet il video. Solo che negli ultimi mesi la semplicissima protesta non si è mai fermata.

Ieri l’annuncio, in cui il re in prima persona ha detto di non «voler emarginare le donne», e ha messo in chiaro che il permesso da lui dato ha l’appoggio totale dei clerici. Dunque anche i rigidissimi ulema sauditi, quei custodi della versione più rigida della tradizione conosciuta come wahabita, appaiono convinti.

Una decisione salutata nel Paese e nel resto del mondo arabo, nonché a Washington, dove abita un segretario di Stato, Hillary Clinton, notoriamente sensibile a queste cose, come un segno di cambiamento epocale.

Ma se epocale è, lo è, come si diceva, perché è un purissimo indicatore politico. Con questo gesto infatti il re procede su un percorso che ha intrapreso da mesi, nel tentativo di non essere inghiottito dalle sabbie mobili della primavera araba, all’interno e all’esterno della sua nazione.

La decisione sui diritti delle donne mirata anche a raggiungere e compiacere il mondo occidentale dove l’Arabia Saudita ha i suoi migliori alleati – gli Usa innanzitutto - è solo l’ultima di una serie di mosse. In primavera, il re ha stanziato 93 miliardi di dollari in sostegno alla occupazione e ai servizi, pensando soprattutto allo scontento della popolazione sciita, che abita la zona Est del Paese dove si trovano numerosi pozzi petroliferi.

Ancora maggiore è stato l’attivismo del regno in politica estera. L’Arabia Saudita in primavera ha inviato il suo esercito – una violazione del diritto internazionale che si è preferito non rilevare – in Bahrein, per disperdere con la forza le proteste che assediavano la monarchia locale, sunnita come quella saudita. Nella casa dei Saud ha trovato ospitalità per tre mesi il Presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh, in fuga dalla sua nazione, oggi sull’orlo della guerra civile, e dove è tornato questa settimana – con una mossa cui si guarda con certa apprensione da Washington. Lo Yemen è un punto strategico per gli Stati Uniti per la profonda collaborazione stabilita negli ultimi anni fra la intelligence yemenita e la Cia nella lotta contro Al Qaeda che in Yemen ha importanti basi. In agosto, poi, re Abdullah ha rotto con la Siria, Paese alleato dell’Iran, guidando uno schieramento contro Damasco formato dalle monarchie sunnite.

Nell’insieme, dunque, l’Arabia Saudita sembra voglia mettersi alla testa di un fronte che cerca di fermare le rivoluzioni arabe nel Golfo, stringendo un patto fra sunniti per fermare la dilagante influenza iraniana che in parte queste rivoluzioni diffondono.

Ma forse il segno più sorprendente di questo attivismo saudita, è l’attivismo in sé. Il regno ha un peso internazionale enorme, per petrolio, alleanze e intrighi che sa muovere, ma ha sempre esercitato il suo ruolo secondo una strategia di segretezza, rimanendo sempre in secondo piano, preferendo la diplomazia della intermediazione a quella dei proclami. Il fatto che il re oggi si esponga, parli ai suoi sudditi, prenda decisioni clamorose, e vada in tv, è in sé l’indicazione che un cambiamento è già avvenuto: la misteriosa casa dei sauditi ha dovuto mettere la faccia sulla sua politica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9242
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« Risposta #175 inserito:: Ottobre 01, 2011, 03:26:48 pm »

1/10/2011

Obama archivia il buon senso

LUCIA ANNUNZIATA

Il celebratissimo professore di Harvard Joseph Nye scriveva nel giugno del 2008: «L’elezione di Obama è la più determinante singola mossa per ricostituire il peso del soft power americano». Soft power, potere soffice, nelle parole di Nye che ha coniato l’espressione nel 1990 (in un articolo per Foreign Policy), è «la capacità di ottenere risultati attraverso l’attrazione piuttosto che la coercizione», ed è fondato, come dice Nye nei libri «Soft Power: The Means to Success in World Politics» (2004), e «The Powers to Lead», del 2008, «sulla emozione intellettuale, la visione e la comunicazione». Cioè su tutte le doti che sono sempre state attribuite ad Obama in abbondanza. Che dire, dunque, se proprio Obama, simbolo quasi fisico del potere soffice degli Stati Uniti, evoca, come ha fatto, questo termine in senso critico? Il Presidente parlava di economia e così ha spiegato quel 9.1 per cento di disoccupazione: «Questo è un grandissimo Paese che è diventato un po’ soffice e non ha più la stessa capacità competitiva. Dobbiamo ritornare come eravamo prima». L’elogio pare a tutti gli effetti quello della vecchia, buona, virtù degli americani di fare gioco duro per vincere.

Freudiano lapsus autocritico di un Presidente accusato ormai quasi quotidianamente anche dalla stampa amica di essere «debole»? Furbo revisionismo di fine mandato? Piuttosto, pare una amara presa d’atto dei rapporti di forza attuali nel mondo, in cui dopo tanto autoflagellarsi e interrogarsi sulla natura del proprio dominio nel mondo, gli Stati Uniti si ritrovano ad essere il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro.

Nella formula «Soft Power» di Joseph Nye, elaborata negli anni di un declinante reaganismo e di una nascente rivincita democratica con Clinton, confluiscono in realtà più di trent’anni di rielaborazione «politicamente corretta» del modo di pensare a sé stessa dell’America. Imperialismo dei Diritti Umani, come utopisticamente aveva sostenuto per primo Jimmy Carter, Presidente dal 1977 al 1981, cioè nell’era che dovette confrontarsi con «gli imbarazzanti e sordidi anni» del Vietnam, con la necessità del Paese di «riguadagnare la statura morale che una volta avevamo» come lui stesso diceva. Un giovanissimo Andrew Young, allora ambasciatore alle Nazioni Unite, arrivò persino a suggerire che gli Stati Uniti rifiutassero «ogni attività militare».

Quella lunga catena di ripensamenti che prova a riscrivere l’etica pubblica americana, e che oggi sprezzantemente chiamiamo «buonismo» o «correttezza politica» – con la sufficienza di chi pensa che si tratti di eccessi dogmatici della celebrazione dei diritti individuali – ha alla sua origine proprio la crisi degli Anni Settanta dell’Impero, la scoperta dei suoi fallimenti in politica estera, e delle sue inadeguatezze in politica nazionale, svelate soprattutto dal movimento per i diritti civili.

La natura del potere non a caso è stata riportata a quella della Guerra da George Bush, ed è ritornata ad essere definita dall’influenza e dall’autorevolezza da Obama: tra le due versioni la differenza si è affermata in questi anni come una disputa quasi religiosa, sicuramente di fede, su quello che un Presidente pensa che sia la missione terrena degli Stati Uniti d’America.
Per Obama dunque anche solo evocare con sfumatura critica il termine soffice è un segnale. Di certo il mondo in cui si è trovato ad operare questo uomo nuovo è infinitamente più vecchio di quel che si sperava. All’inizio della sua presidenza si teorizzava che la semplice riapertura americana al multilateralismo, al rispetto e al contatto con tutti, avrebbe fatto il miracolo. Tre anni dopo, il multilateralismo americano – che pure c’è stato - si sta rivelando superfluo nel corso degli eventi. La crisi economica ha messo in ginocchio Usa ed Europa, che oggi accolgono con modestia la donazione (eventuale) dei Brics (i vecchi Paesi in sottosviluppo) per rimpinguare la riserva di liquidità.

La Cina che ancora oggi riceve dal Fondo Monetario fondi per progetti in aree di povertà, nel frattempo, si è impossessata delle chiavi dell’economia americana, e rivendica senza giri di parole la sua espansione anche fuori dall’Asia. La vecchia cara alleata Russia gioca al domino con il potere autoritario, con due uomini che si rimbalzano da anni l’incarico di Presidente e capo del governo. Il mondo arabo procede spedito a una sua resa dei conti con il passato, con ex potenze come la Turchia e l’Arabia Saudita che riaprono il gioco del controllo regionale. Un Presidente americano lui stesso accusato con cadenza quasi quotidiana di indecisione e debolezza rischia dunque ora di diventare anche il primo Presidente americano che prende atto che il «soft power» del suo Paese è diventato un gioco buono solo per signorine.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9265
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« Risposta #176 inserito:: Ottobre 08, 2011, 06:02:44 pm »

8/10/2011



LUCIA ANNUNZIATA

Hanno vinto tre donne o, rispettivamente, il Presidente della Liberia, un’attivista dei diritti civili e una giornalista rivoluzionaria?

I premi alle donne anche quando sono importantissimi come il Nobel assegnato ieri alle tre protagoniste di cui parliamo, hanno sempre un sapore un po’ dolce-amaro. Dedicati con pompa magna all’altra metà del cielo dovrebbero essere in effetti più precisamente assegnati alle opere che alla identità sessuale. E mai come nel caso anche di questi Nobel ci ritroviamo a festeggiare tre donne africane i cui successi si innalzano molto più in alto della loro differenza.

Queste signore infatti hanno portato a termine in questi anni imprese con cui si sono misurati vanamente un numero enorme di uomini. Sarà anche perché ciascuna di loro ha raggiunto nella vita ben prima del Nobel un livello di scolarizzazione, educazione, e capacità di operare al di sopra di ogni mediocre convinzione, incluse quelle delle civiltà occidentali.

Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, le due liberiane, si sono confrontate non tanto con la condizione femminile, ma con le devastazioni di una guerra civile come se ne ricordano poche, se si fa eccezione per quella del Ruanda. La Liberia fondata nel 1847 prende il suo nome dagli schiavi neri americani liberati, e la capitale si chiama Monrovia in onore del Presidente James Monroe. Gli americani Liberiani, come venivano chiamati, hanno dominato la politica del Paese, sempre aiutati dagli Stati Uniti in funzione del ruolo pro-occidentale che la Liberia ha giocato in Africa e alle Nazioni Unite nel secondo dopoguerra. Aiuti che non vennero meno neppure dopo un colpo di Stato nel 1980 che diede l’avvio a ben due guerre civili, la cui eredità è di 250 mila morti e l’85 per cento della popolazione sotto il livello di povertà. Qualcuno ricorderà i nomi di due signori di queste guerre: Samuel Doe, che si elesse presidente nel 1985 dopo aver fatto il golpe, e Charles Taylor che lanciò una offensiva contro Doe nel 1989 con l’aiuto del Burkina Faso e della Costa d’Avorio. Entrambi sono diventati il prototipo della violenza militare in Africa, dell’uso dei bambini in guerra, delle violenze ripetute sulle donne, e, non ultimo, grazie a molti film e a una campagna sostenuta da grandi star, del traffico illegale dei «diamanti insanguinati», usato dal regime per autofinanziarsi. La vicenda di Taylor finì per mano di un ulteriore gruppo ribelle che nel 2003 conquistò Monrovia e spedì (col sostanziale aiuto degli Usa) il dittatore in esilio, aprendo la strada alla ennesima missione di messa in sicurezza delle Nazioni Unite, sotto la cui egida avvennero le elezioni del 2005 in cui venne eletta la attuale Presidente e ora Premio Nobel. Dov’erano Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee mentre tutto questo accadeva e cosa hanno fatto per la Liberia? Solo dopo aver risposto a questa domanda possiamo davvero capire l’importanza del Premio svedese.

Ellen Sirleaf era dentro e fuori il suo Paese, spesso dentro e fuori un carcere, e negli Stati Uniti. Figlia del primo deputato nero di origini locali, adottata da una famiglia benestante, economista con numerose lauree inclusa quella di Harvard, alla John F. Kennedy School, ministro delle Finanze del suo Paese fino al golpe di Samuel Doe, poi fuggita a Washington dove lavora per la World Bank e più tardi in Africa per le Nazioni Unite. Nel frattempo sfidava inutilmente nel 1997 alle elezioni presidenziali Charles Taylor, e arrivava poi alla presidenza nel 2005 dopo la cacciata del dittatore. Probabilmente Sirleaf non sarebbe giunta così in alto se non ci fosse stata in Liberia un’attivista come la sua compagna di Nobel, Leymah Gbowee, una vera e propria Lisistrata nera di cui Aristofane sarebbe stato molto orgoglioso. Fu lei, 39 anni, assistente sociale, madre oggi di sei figli, a lanciare e sostenere nell’anno cruciale della fine della Guerra civile, il 2002, uno «sciopero del sesso» sostenuto dal suo gruppo delle «donne in bianco», musulmane e cristiane, che si scontrarono a più riprese con le varie bande di militari denunciando la pratica sistematica dello stupro. In un episodio famosissimo Leymah Gbowee affrontò un’assemblea di legislatori minacciando di spogliarsi nuda in pubblico, gesto di potente maledizione in West Africa.

Anche la terza donna del Nobel esercita un ruolo che va ben al di là di quello femminile: Tawakkul Karman dello Yemen ha 32 anni, tre figli ed è una giornalista che in uno dei Paesi più repressivi dell’Africa musulmana è diventata, con il suo velo rosa a fiori, l’ispirazione della protesta contro Ali Abdallah Saleh. Fondatrice dell’associazione «Giornaliste senza catene» è militante nel partito islamico e conservatore Al Islah, primo gruppo di opposizione. Arrestata a gennaio, poi rilasciata grazie alle manifestazioni a suo sostegno, ha già ottenuto il titolo di madre della rivoluzione. Il Nobel a lei è nei fatti il Nobel alle primavere arabe. Durante una delle manifestazioni a Sana’a disse queste parole: «Manterremo la dignità delle persone e il loro diritto ad abbattere ogni regime».

E’ un po’ la frase che il comitato del premio Nobel ha parafrasato nella motivazione della sua scelta. Ma va ricordato che questa moderna dichiarazione dei diritti universali può essere attribuita alle donne proprio perché oggi il loro ruolo femminile si è trasformato in metafora e pratica del bene generale.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9295
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« Risposta #177 inserito:: Ottobre 19, 2011, 11:19:09 pm »

19/10/2011

Si apre lo spiraglio per un nuovo negoziato

LUCIA ANNUNZIATA

I prigionieri sono pedine di una sinuosa trattativa condotta a più mani e a più livelli per risistemare l’ordine mediorientale sconquassato dalle rivoluzioni della scorsa primavera. Sulle lacrime, la polvere, le feste e i ringraziamenti che hanno accompagnato il ritorno a casa di 1027 palestinesi e 1 israeliano, si proietta l’ombra di un grande disegno per isolare di nuovo l’Iran, tenere l’Egitto nelle file occidentali, fornire ad Israele una cintura di sicurezza, e, forse, riaprire il dialogo fra governo di Gerusalemme e palestinesi. Spettatori distaccati in apparenza, gli Stati Uniti sono i reali mastermind, gli autori di questa iniziativa, aiutati dall’alleato di sempre, l’Arabia Saudita.

Fra il gioco di spie nella elegante Washington e il suolo riarso di Gaza, dove è stato nascosto per 5 anni il soldato Shalit, il legame appare molto labile. Ma del tutto logico. Se solo si ha la pazienza di seguire il filo di tutte le interconnessioni di due incredibili storie.

Partiamo, come è dovuto alla cronaca di queste ore, dalle ragioni per cui dopo cinque anni è stato firmato un accordo che nell’attuale clima ha dell’incredibile, a partire dalla asimmetria numerica: un uomo contro 1027 equivale, secondo qualche calcolo, a un palestinese ogni settanta grammi di Shalit.

Più che di asimmetria si tratta in effetti di differenti condizioni di forza: la prima delle quali è il fatto che i palestinesi hanno in prigione 5800 uomini processati e condannati, cui vanno aggiunti le migliaia che vengono detenuti e rilasciati dopo un certo tempo dopo gli scontri. Una cifra che secondo alcune organizzazioni umanitarie tocca le diecimila unità, di cui 300 in carcere da prima degli accordi di Oslo del 1993. La liberazione di queste persone è uno dei primi obiettivi da sempre di tutte le organizzazioni politiche palestinesi ed ha senso solo se contata nell’ordine delle migliaia.

Per Israele d’altra parte la tradizione di non lasciare nessun uomo abbandonato, nemmeno quando è morto, è più forte persino di quella del «No man left behind» che ispira le forze Usa. L’esercito israeliano è il popolo stesso, è il simbolo e l’istituzione della capacità dei figli di Israele di non essere più indifesi. La liberazione dei propri uomini, il recupero degli ostaggi, è diventato negli anni una vera e propria specialità militare di Israele - vale per tutte l’operazione Entebbe, la prima e più spettacolare di questi recuperi, durante la quale le forze di Gerusalemme nel giugno del 1976 liberarono 248 passeggeri di un aereo Air France dirottato dai paestinesi in Uganda. Quell’operazione era guidata - e il dettaglio è significativo anche per capire gli umori di Israele oggi - dal Jonatan Netanyhau, fratello maggiore dell'attuale premier che ha firmato lo scambio di prigionieri. L’opzione militare è sempre stata la prioritaria per Israele, innanzitutto per dimostrare la propria superiorità di forze, ma anche per ragioni di sicurezza. Il rilascio di attivisti palestinesi, molti dei quali coinvolti in attacchi terroristici sanguinosi, è sempre stato un rischio: secondo gli studi dell'Intelligence del Paese, che ha monitorato tutti i palestinesi rilasciati, il 60 per cento di loro è tornato alla sua attività terroristica. Per queste ragioni le famiglie delle vittime israeliane sono state contrarie anche stavolta allo scambio di prigionieri.

Aver accettato questo accordo è stato dunque un passo non facile per il governo di Gerusalemme, anche se appoggiato dal 79 per cento dei cittadini. Come mai l’ha fatto? La risposta è facile: le opzioni militari non erano più possibili, e non lo erano perché' Israele è in una posizione di forte fragilità politica.

Le primavere arabe hanno rotto il cerchio di accordi che negli anni l’hanno protetta. Saltato il patto con l'Egitto, con la Siria degli Assad, e persino con la Turchia, con un profilarsi all'orizzonte di una rinascita dell’influenza iraniana: la maggior parte delle rivoluzioni arabe e' infatti portata avanti da popolazioni a maggioranza sciita.

E Hamas - che nemmeno riconosce Israele - perché ha a sua volta accettato questo scambio di prigionieri? Il felice (in questo caso) paradosso è: per le stesse ragioni per cui lo ha accettato Israele. Anche Hamas, che pure insieme ad Hezbollah in Libano è la sponda mediterranea dell’Iran, è stata indebolita dalle rivoluzioni arabe.

La Siria che è il santuario logistico dell’organizzazione, che ha a Damasco il suo quartier generale, è diventata, in questa rivolta, sospettosa di ogni radicalismo islamico incluso quello di Hamas. La lunga rivoluzione egiziana ha spezzato per lunghi mesi il legame organico fra il vecchio governo di Mubarak e Gaza, per il quale l’Egitto è un importante retroterra logistico. La rivolta popolare ha inoltre spaventato la dirigenza palestinese, timorosa di vedere il virus della ribellione attaccare anche la sua piccola Striscia di terra. Negli ultimi mesi Hamas ha vissuto un progressivo isolamento: il mancato arrivo di aiuti ha peraltro impedito il pagamento degli stipendi da cui dipende l’intera economia della zona.

In questo cuneo di disagio di entrambi i nemici si è infilata l’iniziativa che ha portato allo scambio. Vero o falso (come credono anche molti ammiratori degli Usa) il complotto dell’Iran porta tutti i segni di una controffensiva preparata a tavolino. L’attacco, molto opportunamente, avrebbe dovuto essere contro un ambasciatore saudita - e l’Arabia Saudita da mesi è a capo di una riscossa antiiraniana in regione. Un'altra indicazione è il ruolo avuto dagli egiziani nella trattativa sui prigionieri: è evidente che i militari tornati al potere al Cairo hanno con questa trattativa dato prova di lealtà ai vecchi patti di alleanza con Usa ed Israele. Infine, il consenso strappato ad Hamas è prova che l’organizzazione si è staccata dalla Siria e dall’Iran.

Il circolo è molto ampio, ma si chiude perfettamente. Ieri è stata una buona giornata per il Medioriente in tutti i sensi. Molte famiglie hanno festeggiato, Israele ha riavuto il suo soldato e i suoi vecchi alleati. Ed Hamas ha portato ai suoi palestinesi l’indubbio successo politico di una liberazione di massa, e la riapertura della viabilità politica e logistica con l’Egitto. Incassano anche Usa e Arabia Saudita: tornano protagonisti e con la giravolta di Hamas tagliano un po’ di unghie a Teheran.

Da questo successo si intravede ora uno spiraglio per nuove negoziazioni fra Israele e palestinesi. Un passaggio che, dopo le incertezze delle rivolte popolari e la guerra in Libia, sarebbe un ottimo regalo al mondo. Nonché alla campagna presidenziale Usa che sta per iniziare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9336
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« Risposta #178 inserito:: Novembre 01, 2011, 11:47:25 am »

1/11/2011

Ma il vero scontro avverrà all'Onu

LUCIA ANNUNZIATA

Mettiamoci d’accordo. Se i palestinesi si armano, tutti gridano che la violenza è un ostacolo alla pace. Se i palestinesi provano a forzare la via diplomatica, come hanno fatto ieri, tutti gridano che queste iniziative «unilaterali» sono un ostacolo alla pace. Ci piacerebbe allora sapere - in particolare da Israele, Stati Uniti, e Italia - esattamente cosa dovrebbero fare i palestinesi, a parte svanire quietamente tra le nuvole, come in «Miracolo a Milano».

Ieri la Palestina è stata ammessa all’Unesco. Vecchia storia - ogni anno i palestinesi regolarmente chiedono di essere ammessi -, nuovo risultato: 107 contro 14, con 52 astenuti.

L’approvazione è arrivata, grazie soprattutto al consenso del nuovo fronte che guida lo sviluppo mondiale, i Paesi Brics, Brasile, India, i Paesi africani, arabi, la Cina, la Russia e qualche Paese europeo rilevante come la Francia e il Belgio. Contro hanno votato Usa, Israele, Germania, Canada, Australia, Olanda. L’Europa si è divisa, come si vede, esprimendo anche una buona parte di prudenti che si sono astenuti, fra cui Italia e Inghilterra, Polonia, Portogallo, Ucraina, Danimarca, Svizzera. Un voto insomma che insegue i profili del multilateralismo in cui nuotiamo, e che, non a caso, ne ha svelato tutte le venature. Usa e Israele hanno reagito con forza, I primi annunciando che taglieranno ora i loro fondi all'Unesco (il 22 per cento dei 634 milioni di dollari annuali), il secondo parlando di «tragedia».

Reazioni francamente esagerate se si trattasse solo dell’entrata in questa organizzazione culturale che difende tra l’altro i siti patrimonio dell’umanità, cui i palestinesi contribuiscono con Betlemme e il curioso e fangoso Mar Morto. La relazione fra Washington e Unesco è in effetti tormentata da molto tempo - il presidente Ronald Reagan nel 1984 decise di boicottare l’organizzazione, da lui accusata di sentimenti anti-israeliani e antioccidentali, e il rientro è avvenuto solo nel 2003, grazie a George Bush.

Ma l’irritazione di ieri ha a che fare con il senso che il voto è stato un’anticipazione, una sorta di frecciata arrivata a segno, del vero scontro che avverrà fra poco: a novembre infatti l’Onu dovrebbe esprimersi sulla richiesta della Palestina di essere ammessa come Stato membro. Se l’ammissione passasse, magari proprio grazie al fronte creatosi ieri all’Unesco, significherebbe il riconoscimento di fatto dello Stato palestinese, aggirando il consenso di Israele, e dunque anche di Washington.
Ma davvero questa strategia palestinese è così dannosa?

Le puntate precedenti all’origine di questo dubbio vanno forse richiamate qui, per chiarezza. I palestinesi sono divisi in due entità, sia territoriali che politiche, almeno dal 2003. Oggi il West Bank, cioè la ex Cisgiordania occupata, è guidata da Fatah, l’ex organizzazione di Arafat, maggioritaria nella Pla, Palestinian National Authority, il governo ad interim, il cui presidente è Abu Mazen, nomignolo di Mahmoud Abbas, e il primo ministro è Salam Fayyad, economista, con una carriera nel Fondo Monetario. Gaza è invece controllata, dopo le elezioni del 2007, da Hamas, che ha vinto quelle elezioni. Fra le due entità non c'è oggi quasi nessuna relazione - anzi scorre tale cattivo sangue da aver dato origine a una guerra segreta - così come diverse sono le posizioni politiche. Nel West Bank il primo ministro è concentrato da tre anni nella costruzione di istituzioni locali, con una propria economia, aiuti internazionali, e relazioni estere, nell’ipotesi di dimostrare e far pesare la maturità raggiunta dalla Palestina. Hamas invece, alleato di Iran ed Hezbollah, non riconosce nemmeno Israele, figuriamoci aprire tavoli di pace.

Non che le differenze abbiano alla fine avuto molta rilevanza nel rapporto con Israele. I colloqui di pace guidati dal Quartetto (Usa, Unione Europea, Russia e Onu) con inviato Tony Blair, e rilanciati da Obama, hanno preso la solita ferrovia morta, e giacciono lì - colloqui per preparare altri colloqui - da un paio di anni.

Le strategie dei due settori di palestinesi si sono nel frattempo distinte ancora di più dopo la primavera araba: mentre Hamas stringeva i suoi rapporti con l’estremismo, i vecchi (anche in senso di età) leader di Fatah hanno avuto un’idea coerente con quella dello Stato de facto: chiedere, appunto, l’ammissione all’Onu come membro.
In questa situazione si capisce bene la reazione di Usa e Israele, ma ugualmente ci rimane incomprensibile.

E’ vero che uno Stato palestinese dovrebbe nascere da una negoziazione con Israele, come sostiene Washington. Ma se i negoziati da decenni non vanno da nessuna parte, cosa debbono fare i palestinesi, che, fra i due popoli, ricordiamolo, sono quelli che lo Stato non ce l’hanno? L’ammissione all’Unesco, e all’Onu, forzare insomma la mano alla diplomazia, è davvero un ostacolo alla pace, una «minaccia», come si è detto ieri, alla stregua di un’aggressione armata o di un atto di terrorismo?

La verità è che dal West Bank sta nascendo una abile e nuova strategia che lavora nel cuore delle istituzioni internazionali, lavora sui nuovi equilibri e umori mondiali. E Stati Uniti e Israele farebbero bene a riconoscerne l’intelligenza, e a misurarvisi con altrettanta.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9385
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« Risposta #179 inserito:: Dicembre 20, 2011, 07:34:43 pm »

20/12/2011

Quei dubbi sul ruolo dell'Europa

LUCIA ANNUNZIATA

Quanto pronta è la classe dirigente del Paese ad accettare l’attuale governo Monti? Pronta, ma non senza qualche seria riserva. Con un po’ di immaginazione, e una certa forzatura, potrebbe essere letta così l’indagine sull’Europa presentata ieri a Roma nella sede della Rappresentanza Italiana della Commissione Ue, – stanze di solito vuote, riempite ieri, nel giusto segno dei tempi, da giornalisti e osservatori.

Il lavoro si intitola «L’Europa e l’agenda delle Riforme», è stato voluto dal Forum internazionale economia e società aperta, figlio della Bocconi e dal Corriere della Sera , cioè dei due luoghi seminali del governo tecnico, e si rivolge a una fascia sociale ben precisa – con un campione di cittadini fra i 18 e i 60 anni, che usano internet, cui si aggiungono i dirigenti di un centinaio di aziende. Insomma parliamo qui sicuramente di una élite ben informata e molto attiva nel mercato del lavoro.

L’arco di tempo in cui questo gruppo viene contattato è cruciale: fra il 2 e il 9 novembre, cioè dopo la lettera a Bruxelles di Berlusconi (26 ottobre) e dopo la riunione del G20 a Cannes (quel 3 e 4 novembre del risolino fra Sarkozy e Merkel) ma prima delle dimissioni di Silvio Berlusconi (11 novembre) e dell’incarico a Monti (13 novembre). La ricerca, dunque pur non essendo direttamente sull’attuale premier fornisce un quadro di cosa passava nella testa di un po’ di italiani proprio nelle ore delle scelte che hanno portato al governo dei tecnici. Le risposte, pur ampiamente a favore dell’Europa, risultano più sfumate di quel che ci si potesse aspettare.

La più importante domanda, che costituisce l’architrave del lavoro, si riferisce alla famosa lettera della Bce: «La gran parte degli italiani ha fiducia nell’Europa e nelle sue indicazioni sulle cose da fare per uscire dalla crisi attuale?». La risposta è da maggioranza assoluta: un sì dal 72 per cento dei cittadini, che cresce all’88 per cento, come c’era da aspettarsi, fra gli imprenditori. Ma se si va nello specifico le opinioni si dividono nettamente. Così il 41 per cento pensa che l’Europa ci sta aiutando concretamente a risolvere i problemi, mentre un altro 41 per cento dice che non ci sta dando alcun aiuto, e il 18 per cento dice addirittura che l’Europa è la causa stessa dei nostri problemi. Sotto la fiducia si profila così una maggioranza molto più scettica se non addirittura contrariata dalla sudditanza all’Europa.

Lo stesso accade sul tema delle riforme. La maggior parte delle proposte (che poi sono quelle fatte proprie da questo governo) trovano enorme consenso – soprattutto quelle che «liberano» la società da «lacci e lacciuoli». Per cui c’è consenso alla flessibilità del lavoro (63%), al salario legato alla produttività (69%), alla riduzione delle imposte sui redditi da lavoro delle donne, a rendere più selettivi gli accessi all’università (75%).

Ma questa generale spinta alla meritocrazia e alla trasparenza frena davanti ai due maggiori interventi di cambiamento - la riforma delle pensioni, e la patrimoniale. La prima raccoglie una netta maggioranza contraria, e la seconda trova consenso solo se inquadrata in un contesto più ampio di misure. Come definire queste risposte? Come tenere insieme affidamento e sfiducia? Timori e sospetti che le sottendono?

Nella riunione di presentazione della ricerca ieri, tutta nel segno dell’«andiamo avanti», pure i segnali di dubbio non sono stati trascurati. Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, ha preso atto ma ha rilanciato: «Nessun tabù sull’articolo 18. La riforma del mercato del lavoro va affrontata con molta serietà, pragmatismo e senza ideologia». Il curatore, professore Carlo Altomonte, ha segnalato che anche in Italia c’è una crescita della sfiducia nei confronti dell’Europa. Il ministro per gli Affari Europei Enzo Moavero Milanesi, si è dichiarato assolutamente convinto che l’Europa ha in sé la capacità di recuperare, «reinventandosi continuamente». Ragion per cui «l’euro non corre rischi».

Ma forse la migliore annotazione sulla complessità dei sentimenti proEuropa in Italia è stata fatta dal direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli che ha ricordato un dubbio del defunto PadoaSchioppa, ex ministro del Tesoro, uno dei padri dell’Europa: «Forse non abbiamo dato sufficiente peso a chi aveva sensibilità diverse». Un ricordo che dovrebbe avere molta eco nei difficili tempi attuali.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9567
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